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David Gemmell

L’IMPETO DEI DRENAI

Romanzo
1999 by David A. Gemmell

Titolo originale: The Legend of Deathwalker

Traduzione di Nicola Gianni


The Legend of Deathwalker è dedicato
con affetto alla famiglia Hotz de Baars: a
Big Oz, che cammina nelle valli dove
riposano i computer morti al fine di ritrovare
delle storie perse nel vuoto, un uomo che vi
darà sempre il suo tempo, la sua energia e la
sua intelligenza, ma che non vi offrirà mai
uno dei suoi biscotti. Al giovane Oz, che mi
ha insegnato che il concetto di “civiltà” va
oltre le mie possibilità, a sua sorella Claire
per i suoi barbecue e ad Alison per la sua
ospitalità a Upthorpe.

Ringrazio il mio editore, Liza Reeves, le mie correttrici di bozze Val Gemmell, Edith
Graham e sua figlia Stella ed il mio redattore, Jean Maund. Ringrazio anche tutti i lettori che
nel corso degli anni mi hanno scritto chiedendomi altre storie di Druss. In questo periodo il
volume di posta che ricevo è talmente grande che non riesco più a rispondere a tutte le
lettere. Vi assicuro che vengono lette tutte quante e che faccio tesoro delle osservazioni in
esse contenute.
PROLOGO

La mezza luna, simile alla lama di una falce, brillava nel cielo illuminando la
fortezza di Dros Delnoch e il campo Nadir. Pellin osservò le migliaia di guerrieri
accampati ai piedi delle mura. Il giorno dopo essi avrebbero attraversato la breve
striscia di terreno insanguinato, portando le scale, scagliando i rampini oltre le
merlature, lanciando urla di battaglia e di morte, proprio come era successo poche
ore prima, Pellin avrebbe avuto paura di quei suoni che sembravano potergli
penetrare la pelle come centinaia di aghi ghiacciati. Il giovane non si era mai
sentito così terrorizzato in vita sua e aveva desiderato di poter scappare, nasconder-
si, buttare via l’armatura fuori misura che indossava e correre verso sud, verso
casa. I nadir si erano avventati contro le mura in diverse ondate, preceduti dalle
loro roche grida di battaglia cariche dell’odio che provavano nei confronti degli
assediati. Pellin aveva una ferita profonda nella parte superiore del braccio sinistro
che pulsava e formicolava provocandogli dolore. Gilad gli aveva assicurato che
tutto ciò significava che stava guarendo, ma c’era un ché di doloroso in quelle
parole, come se contenessero la promessa di maggiori sofferenze a venire. Pellin
aveva visto i suoi camerati contorcersi e urlare con la pance aperte dalle spade
seghettate... Il ragazzo cercò di allontanare quei ricordi. Un vento freddo cominciò
a spirare da nord portando nuvole cariche di pioggia. Pellin rabbrividì e ripensò
alla sua fattoria con il tetto in zolle di terra e il grosso camino di pietra. In una notte
fredda come quella lui e Kara sarebbero stati a letto. La compagna gli avrebbe
appoggiato la testa sulla spalla e la gamba sinistra in mezzo alle cosce. Sarebbero
rimasti abbracciati, avvolti dalla luce morente del fuoco, ad ascoltare i lamenti del
vento.
Pellin sospirò. «Per favore, fai che non muoia qua,» pregò.
Erano partiti in ventitré dal villaggio e ora erano rimasti in nove. Si girò a
fissare i difensori che dormivano avvolti nelle coperte, sdraiati sul prato tra il Muro
Tre e il Muro Quattro. Quei pochi uomini avrebbero potuto fermare il più grande
esercito mai radunato? Pellin sapeva che non sarebbe stato possibile.
Riportò lo sguardo sul campo nadir e si mise a osservare la zona vicina alle
montagne. I cadaveri dei Drenai, privi di armi e corazze, erano stati ammucchiati in
quell’area e bruciati. Un fumo nero e denso si era levato dalla pira, e aveva
stagnato sopra le mura del Dros per ore portando con sé l’odore nauseante della
carne bruciata. Potevo esserci anch’io, pensò Pellin, ricordando il massacro
avvenuto in seguito alla caduta del Muro Due.
Rabbrividì. Dros Delnoch, la più imponente fortezza del mondo: sei spesse
mura di pietra e un grosso mastio, non era mai stata conquistata. Tuttavia la
fortezza non aveva neanche mai dovuto resistere all’assalto di un esercito di tali
proporzioni. A Pellin sembrava che ci fossero più nadir accampati davanti a lui che
stelle nel cielo. I difensori si erano ritirati dal Muro Uno dopo una battaglia cruenta
poiché quelli erano i bastioni più lunghi e quindi più difficili da tenere. Si erano
rifugiati nottetempo dietro il secondo muro per evitare altre perdite. La difesa del
Muro Due era costata un altissimo numero di vite umane. Il nemico aveva
penetrato le difese ed era quasi riuscito a circondarli. Pellin, che era riuscito a
malapena a raggiungere il Muro Tre, ricordava ancora il sapore acido della paura
che gli aveva pervaso la gola, e il terribile tremore che aveva scosso il suo corpo
quando era riuscito a issarsi oltre il bordo del muro e a ripararsi dietro la merlatura.
Perché lo stiamo facendo? si domandò. C’è molta differenza se i drenai si
governano da soli oppure vengono dominati da Urlic, il Signore della Guerra? I
campi produrrebbero meno granturco? Le vacche si ammalerebbero e
morirebbero?
Dodici settimane prima, quando l’ufficiale reclutatore dell’esercito drenai si era
recato nel suo villaggio in cerca di uomini da arruolare, gli era sembrata solo
un’avventura: poche settimane di guardia sulle mura della fortezza e poi di nuovo
tutti a casa come degli eroi.
Eroi! Sovil era stato un eroe fino al momento in cui una freccia lo aveva colpito
all’occhio strappandoglielo. Jocan era stato un eroe mentre giaceva a terra urlando
cercando di trattenere con le mani gli intestini che gli uscivano dalla pancia.
Pellin aggiunse un po’ di carbone dentro il braciere di ferro e agitò un braccio
in direzione della sentinella che si trovava a trenta passi alla sua sinistra. L’uomo
stava battendo i piedi contro la pietra degli spalti per cercare di scaldarsi. Lui e
Pellin avevano cambiato di posto un’ora prima e tra poco sarebbe toccato nuo-
vamente al suo compagno rimanere vicino al braciere. Sapere che presto avrebbe
sentito molto freddo portò Pellin e dedicare maggiore attenzione al fuoco e vi
distese sopra le mani godendosi il calore.
Vide una gigantesca figura che si dirigeva verso gli spalti camminando con
molta cautela tra i corpi addormentati dei soldati. Appena Druss cominciò a salire
gli scalini il cuore di Pellin prese a battere più forte.
Druss la Leggenda, il Liberatore del Passo di Skeln, l’uomo che si era recato in
capo al mondo combattendo decine di battaglie pur di riprendersi la moglie. Druss
dell’Ascia, l’Uccisore argenteo. I nadir lo chiamavano Morte che cammina e Pellin
conosceva il motivo di quel appellativo. Lo aveva osservato combattere e aveva
visto la sua ascia tagliare e squarciare. Non era un mortale: era l’oscuro dio della
guerra. Pellin sperò che il vecchio soldato rimanesse lontano da lui. Cosa poteva
dire un novellino come lui a un veterano dello stampo di Druss? Con suo grande
sollievo la Leggenda si fermò vicino all’altra sentinella e cominciò a parlarle.
Pellin poteva vedere il compagno che spostava il peso da un piede all’altro
nervosamente mentre il vecchio guerriero gli rivolgeva la parola.
In quel momento capì che Druss era l’incarnazione vivente di quell’antica
fortezza, mai conquistata, tuttavia erosa dal tempo: meno di quanto lo era stata in
passato, ma pur sempre magnifica. Pellin sorrise ricordando l’araldo dei nadir che
aveva riferito a Druss il messaggio in cui si chiedeva la resa della fortezza, pena la
morte di tutti gli occupanti. Il vecchio eroe aveva riso. «Nel nord,» aveva risposto,
«le montagne possono anche tremare quando Urlic scoreggia, ma qui siamo nel
Drenai e per me il vostro Khan è solo un altro grassone selvaggio che non potrebbe
pulirsi il deretano senza avere una mappa drenai tatuata sulla coscia.»
Il sorriso di Pellin scomparve appena vide Druss dare una pacca amichevole
sulla spalla dell’altra sentinella e quindi dirigersi verso di lui. La pioggia era
cessata e la luna era tornata a brillare nel cielo. Le mani cominciarono a sudargli e
le asciugò strofinandole sul mantello. Il giovane si mise sull’attenti quando vide la
Leggenda che si avvicinava a lui a grandi passi con l’ascia illuminata dalla luce
della luna. Pellin aveva la bocca secca quando appoggiò il pugno contro il
piastrone della corazza per salutare il guerriero.
«Rilassati, ragazzo,» disse Druss, appoggiando la sua mitica ascia contro un
merlo. Il vecchio allungò le mani sopra il braciere scaldandole, quindi si sedette
con la schiena contro la merlatura e fece segno al giovane di sedersi al suo fianco.
Pellin non era mai stato tanto vicino a Druss. Il tempo gli aveva scavato il volto
conferendogli un’espressione granitica e gli occhi, pur sovrastati da folte
sopracciglia, erano brillanti, chiari; Pellin scoprì di non riuscire a fissarli. «Non
verranno stanotte,» lo rassicurò Druss. «Arriveranno poco prima dell’alba e sarà un
assalto silenzioso, niente urla di guerra.»
«Come fa a saperlo, signore?»
Druss sghignazzò. «Mi piacerebbe dirti che la mia vasta esperienza nel campo
della guerra mi ha portato a questa conclusione, ma la risposta è molto più
semplice. L’hanno predetto i Trenta e quelli sono delle persone in gamba. Di solito
non ho mai molta fiducia nella magia e in tutte quelle stranezze, ma quei ragazzi
sono dei combattenti superbi.» Si tolse l’elmo nero e si passò una mano tra i folti
capelli grigi. «Mi ha servito bene questo elmo,» disse a Pellin, facendolo ruotare in
modo che la luce della luna brillasse sul motivo d’argento a forma di ascia
disegnato sulla fronte. «E non ho dubbi che domani farà bene il suo lavoro.»
Al pensiero della battaglia a venire, Pellin lanciò un’occhiata nervosa oltre il
muro in direzione del campo Nadir. Dal punto in cui si trovava poteva vedere gli
assedianti dormire avvolti nelle coperte intorno alle centinaia di fuochi da campo.
Quelli svegli o affilavano le armi o si erano riuniti in piccoli gruppi per parlare. Il
giovane distolse lo sguardo e tornò a fissare i Drenai che dormivano esausti
cercando di strappare qualche preziosa ora di sonno. «Siediti, ragazzo,» gli
consigliò Druss. «Non li allontanerai preoccupandoti.»
La sentinella appoggiò la lancia contro il muro e si sedette. Il fodero della spada
sferragliò contro la pietra e lui lo sistemò al suo fianco con dei gesti goffi. «Non mi
abituerò mai a portare questa armatura,» si lamentò Pellin. «Inciampo sempre nella
spada. Temo d; non somigliare affatto a un soldato.»
«Tu sei lo stesso soldato che tre giorni fa si trovava sul Muro Due,» disse
Druss. «Ti ho visto uccidere due nadir, quindi aprirti la strada fino alle corde che
penzolavano da questo muro. Quando hai visto un tuo compagno ferito a una
gamba sei anche sceso ad aiutarlo.»
«Ha visto tutto ciò? Ma c’era tanta confusione e lei si trovava nel cuore dello
scontro!»
«Io vedo molte cose, ragazzo. Come ti chiami?»
«Pellin... Cul Pellin,» si corresse. «Signore,» aggiunse velocemente.
«Lasciamo perdere le formalità, Pellin,» gli disse Druss in tono amichevole.
«Stanotte ci sono solo due veterani che stanno tranquillamente seduti in attesa
dell’alba. Sei spaventato?»
Pellin annuì e Druss sorrise. «E ti starai chiedendo: perché io? Perché dovrei
rimanere qua ad affrontare l’intera nazione Nadir?»
«Sì. Kara non voleva che io andassi con gli altri. Mi disse che ero un pazzo.
Voglio dire, che differenza fa se vinciamo o perdiamo?»
«Dopo cent’anni? Nessuna,» rispose Druss. «Ma tutti gli eserciti invasori hanno
con loro dei demoni, Pellin. Se dovessero sfondare, i nadir dilagherebbero sulla
piana sentriana portando con loro morte e distruzione. Ecco perché dobbiamo
fermarli. Perché tu? Perché sei la persona adatta.»
«Io penso che morirò,» disse Pellin. «Non voglio morire. La mia Kara è incinta
e io voglio vedere mio figlio crescere alto e forte. Io voglio...» si zittì e il groppo
che gli si era formato in gola gli impedì di continuare.
«Tu vuoi quello che tutti noi desideriamo, ragazzo,» disse Druss, con calma.
«Ma tu sei un uomo e un uomo deve affrontare le proprie paure o venirne
distrutto.»
«Non so se posso farlo. Continuo a pensare di unirmi ai disertori. Scappare via
di notte e dirigermi a sud. Tornare a casa.»
«Perché non l’hai fatto allora?»
Pellin rifletté qualche secondo. «Non lo so,» rispose incerto.
«Te lo dirò io, ragazzo. Perché ti guardi intorno e vedi coloro che dovranno
combattere ancor più duramente poiché tu non sei più al tuo posto e tu non sei un
uomo che lascia agli altri il proprio lavoro.»
«Mi piacerebbe crederlo. Veramente.»
«Credimi, ragazzo, sono bravo a giudicare gli uomini.» Druss scoppiò in
un’improvvisa risata. «Tempo fa conobbi un altro Pellin. Vinse l’Oro durante i
Giochi dell’Amicizia che si svolsero a Gulgothir.»
«Credevo che fosse stato Nicotas,» disse Pellin. «Mi ricordo della parata
quando i nostri atleti tornarono a casa. Nicotas portava la bandiera Drenai.»
Il vecchio scosse la testa. «Ma quello è accaduto ieri,» disse Druss, sfoderando
un ampio sorriso. «Stavo parlando dei quinti Giochi. Credo che si siano svolti circa
trent’anni fa, molto prima che tu fossi anche solo un bagliore negli occhi di tua
madre. Pellin era un brav’uomo.»
«Furono i giochi a cui lei prese parte, signore? Quelli che si svolsero durante il
regno del Re Pazzo?» chiese la sentinella.
Druss annuì. «Non era nelle mie intenzioni. A quel tempo ero un contadino, ma
Abalayn mi invitò a Gulgothir come parte della delegazione. Mia moglie, Rowena,
mi spronò ad accettare l’invito; pensava che mi stessi annoiando della vita sulle
montagne.» Sorrise. «Aveva ragione! Mi ricordo che attraversammo Dros Delnoch.
C’erano quarantacinque atleti, circa un centinaio di perdigiorno, prostitute,
servitori e gli allenatori. Ormai mi sono dimenticato la maggior parte dei loro
nomi. Mi ricordo ancora di Pellin perché mi faceva ridere e mi piaceva la sua
compagnia.»
Il vecchio guerriero rimase silenzioso, perso nei ricordi.
«Come ha fatto a entrare nella squadra, signore?»
«Oh quello! Il drenai aveva un pugile chiamato... dannazione a me se mi
ricordo come si chiamava. La vecchiaia mi sta intaccando la memoria. Comunque,
egli era un uomo dal carattere pessimo. Tutti i pugili portavano con loro gli
allenatori e alcuni pugili apprendisti per potersi allenare. Quel tipo... Grawal, ecco
come si chiamava! ...era un violento e aveva messo fuori gioco due dei suoi
apprendisti. Un giorno mi chiese di allenarmi con lui. Mancavano tre giorni prima
di arrivare a Gulgothir e io mi stavo veramente annoiando. Questa è una delle
maledizioni della mia vita. Mi annoio facilmente! Così accettai e quello fu un erro-
re. Molte delle donne del campo avevano l’abitudine di osservare gli allenamenti
dei lottatori e io avrei dovuto capire che Grawal era un individuo che amava far
colpo sulla folla. Tuttavia, cominciammo ad allenarci. In principio tutto andò bene,
era bravo, aveva le spalle potenti ed era agile. Ti sei mai allenato con un pugile,
Pellin?»
«No, signore.»
«Beh, somiglia in tutto e per tutto a un incontro vero e proprio solo che tutti i
pugni vengono trattenuti. Lo scopo di un simile allenamento è quello di aumentare
la velocità e i riflessi del pugile. Purtroppo delle donne, si sedettero vicine al punto
in cui ci stavamo allenando. Grawal volle far vedere loro quanto era bravo e mi
colpì con una scarica di pugni non trattenuti. Mi sembrò di essere stato preso a
calci da un mulo e devo ammettere che la cosa mi irritò. Arretrai di qualche passo e
gli dissi di contenersi. Quel folle fece finta di niente, riprese ad attaccarmi con
forza e io lo colpii. Che io sia dannato se non gli ruppi la mascella in tre punti. Il
risultato della mia reazione fu che i Drenai persero uno dei loro lottatori di punta e
io mi sentii onorato di prendere il suo posto.»
«Cosa successe poi?» chiese Pellin, mentre Druss si alzava in piedi e si
sporgeva oltre il muro. La debole luce dell’alba cominciava ad apparire verso est.
«È meglio che la storia aspetti fino a stanotte, ragazzo,» disse Druss, calmo.
«Stanno arrivando!»
Pellin si alzò barcollando. Migliaia di guerrieri nadir si stavano avvicinando
silenziosamente al muro. Druss lanciò un urlo di pericolo e il suono del corno
echeggiò nell’aria. I guerrieri Drenai con indosso i mantelli rossi si svegliarono.
Pellin estrasse la spada con la mano tremante mentre osservava la marea di
uomini. Centinaia di nadir portavano delle scale, mentre altri reggevano corde e
rampini d’assalto. Il cuore della giovane sentinella batteva all’impazzata. «Dolce
Missael,» sussurrò. «Niente li fermerà!» Fece un passo indietro, ma in quel
momento Druss gli appoggiò una delle sue larghe mani sulla spalla.
«Chi sono io, ragazzo?» gli chiese fissandolo con gli occhi freddi come il
ghiaccio.
«Co... cosa?» balbettò Pellin.
«Chi sono io?»
Pellin sbatté le palpebre per asciugare il sudore che gli bruciava gli occhi. «Tu
sei Druss la Leggenda,» rispose.
«Rimani vicino a me, Pellin,» disse il vecchio in tono torvo, «e li fermeremo.»
Quindi rise improvvisamente. «Non racconto molte storie, ragazzo, e odio essere
interrotto. Così, quando ci saremo occupati di questa piccola sortita ti offrirò un
bicchiere di rosso di Lentria e ti racconterò del Re-Dio di Gothir e degli Occhi di
Alchazzar.»
Pellin fece un profondo respiro. «Rimarrò con lei, signore,» rispose.
CAPITOLO PRIMO

Mentre l’immensa folla urlava chiedendo sangue, Sieben il poeta si guardò


intorno, fissando il gigantesco anfiteatro, le colonne possenti, le arcate, le file di
posti e le statue. Molto più in basso, sulla sabbia dorata dell’arena, due uomini si
stavano battendo per la gloria delle rispettive nazioni. Quindicimila persone
strillavano all’unisono e la cacofonia che ne scaturiva ricordava il ruggito di
qualche bestia preistorica. Sieben si portò un fazzoletto profumato al naso per
cercare di allontanare il puzzo di sudore che lo circondava.
L’anfiteatro era uno splendido capolavoro d’architettura. Le colonne erano
delle statue che raffiguravano eroi e dèi e i sedili di marmo bianco erano provvisti
di cuscini di velluto verde. Quel colore irritava Sieben poiché non si intonava al
blu acceso della sua tunica di seta con le maniche a sbuffo ornate di schegge di
opale. Il poeta era orgoglioso del suo abito: l’aveva fatto cucire dal migliore sarto
di Drenan e gli era costato una fortuna. Il vederlo sminuito dal colore di un infimo
cuscino che copriva i sedili di un anfiteatro era più di quanto egli potesse
sopportare. Tuttavia, in mezzo alla folla di persone sedute, il contrasto non si
notava molto. I servitori si muovevano incessantemente tra la calca portando vassoi
pieni di bevande fresche, focacce, torte e altre gustose delicatezze. Per fare ombra
sulle file di posti riservati ai benestanti erano stati innalzati dei ripari di seta di
quell’orribile colore verde, mentre i veri ricchi erano seduti su cuscini rossi con gli
schiavi che facevano loro aria. Sieben aveva cercato di sedersi in mezzo ai nobili,
ma nessuno dei suoi complimenti o delle sue offerte di denaro erano servite a fargli
guadagnare uno di quei posti.
Dal punto in cui si trovava, Sieben poteva appena vedere il bordo della
balconata riservata al Dio-Re e le schiene di due guardie reali che indossavano le
corazze d’argento e i mantelli bianchi. Gli elmi erano decorati da motivi a sbalzo in
oro e da una lunga coda di crine di cavallo. Sono stupendi, pensò il poeta. La
bellezza semplice di colori come il nero, il bianco, l’oro e l’argento viene
raramente messa in ombra dalla tappezzeria, non importa di che colore sia.
«Sta vincendo?» gli chiese Majon, l’ambasciatore drenai, tirandogli una
manica. «Si sta prendendo una spaventosa grandinata di colpi. Sai anche tu che il
lentriano non è mai stato sconfitto. Si dice che abbia ucciso due sfidanti l’anno
scorso durante le competizioni a Mashrapur. Dannazione, ho scommesso dieci raq
d’oro su Druss.»
Sieben tolse gentilmente le dita dell’ambasciatore dalla manica del vestito,
lisciò la seta spiegazzata e si sforzò di distogliere lo sguardo dall’architettura
dell’anfiteatro per osservare l’arena sottostante. Il lentriano colpì Druss con un
sinistro e un destro. Druss arretrò con il sangue che colava dal sopracciglio sinistro.
«Quale pronostico hai accettato?» chiese Sieben.
Il magro diplomatico si passò una mano sui capelli tagliati corti. «Sei a uno.
Devo essere impazzito.»
«Per niente,» gli disse Sieben, tranquillo, «sei stato guidato dal patriottismo.
Vedi, so che voi ambasciatori non siete ben pagati, rilevo io la tua scommessa.
Dammi la ricevuta.»
«Non posso proprio... voglio dire, quello laggiù lo sta massacrando.»
«Certo che devi. Dopo tutto Druss è un mio amico e io avrei dovuto
scommettere su di lui lealmente.» Sieben vide il luccichio dell’avarizia brillare
negli occhi dell’ambasciatore.
«Bene, se sei sicuro.» Le dita sottili e agili dell’uomo si infilarono velocemente
nel borsellino tempestato di perle che portava appeso alla cintura e tirò fuori un
piccolo pezzo di papiro su cui era scritto l’ammontare della scommessa, resa valida
da un sigillo in cera. Sieben lo prese e Majon rimase con la mano tesa.
«Non porto mai il denaro con me,» disse Sieben, «te lo darò stanotte.»
«Sì, certo,» disse Majon, chiaramente a disagio.
«Credo che mi farò una passeggiata nell’anfiteatro,» disse il poeta. «Ci sono
molte cose da vedere. Ho sentito dire che nei livelli inferiori ci sono negozi e
gallerie d’arte.»
«Non sembri molto preoccupato per il tuo amico,» disse Majon.
Sieben ignorò la critica. «Mio caro ambasciatore, Druss combatte perché ama
farlo. Di solito uno risparmia le proprie preoccupazione per lo sfortunato che lo
deve affrontare. Ci vediamo più tardi ai festeggiamenti.»
Sieben si alzò dal suo posto e si avviò su per le scale in marmo verso i
botteghini per le scommesse ufficiali. Là vi trovò un chierico sdentato e un soldato
che sorvegliava un sacco di monete già scommesse. «Desideri fare una
scommessa?» gli chiese il chierico.
«No sono venuto a riscuotere.»
«Hai scommesso sul lentriano?»
«No. Scommetto sul vincitore. È una mia vecchia usanza,» gli rispose con un
sorriso. «Cerca di essere tosi gentile d’avere a disposizione sessanta pezzi d’oro
più i dieci che ho scommesso.»
Il chierico sorrise. «Scommetti sul drenai? Dovrà esserci un giorno di freddo
all’inferno prima che tu possa vedere i frutti del tuo investimento.»
«Dèi! Credo che la temperatura si stia abbassando,» ritorse Sieben, continuando
a sorridere.
Nel centro dell’arena il campione lentriano si stava stancando. Il sangue gli
colava dal naso rotto e l’occhio destro era gonfio a tal punto da chiudersi, ma anche
in quelle condizioni la sua forza era prodigiosa. Druss penetrò nella sua guardia, si
abbassò per evitare un gancio destro e lo colpì all’addome duro come l’acciaio.
L’avversario reagì prontamente colpendolo con un pugno al collo che rischiò di
farlo cadere. Con un grugnito di dolore, Druss diede un pugno al mento dell’alto
lentriano facendogli scattare indietro la testa, quindi provò un colpo di rovescio che
mancò il bersaglio prescelto e si abbatté sulla tempia dell’avversario. Il lentriano si
pulì il volto dal sangue quindi colpì Druss al volto con un rapido sinistro e un
gancio destro che quasi lo alzarono da terra.
La folla, sentendo che la fine dell’incontro era vicina, cominciò a urlare come
impazzita. Druss cercò di afferrare il lentriano, ma questi glielo impedì con colpo
che quasi lo fece girare su se stesso. Il drenai bloccò un destro e centrò l’avversario
con un montante. Il lentriano barcollò ma non cadde e colpì Druss dietro l’orecchio
destro. Il gigante drenai quasi non lo sentì. Il suo avversario stava indebolendosi. Il
suo pugno mancava di forza e velocità.
Quello era il momento! Druss penetrò nella guardia del lentriano colpendolo
con tre diretti al volto e un gancio destro al mento. La violenza dei pugni fece
girare l’uomo che cercò di raddrizzarsi per poi cadere a faccia avanti nella sabbia.
Un suono simile a quello di un tuono si levò dagli spalti intorno all’arena.
Druss fece un profondo respiro e arretrò per accogliere gli applausi. La nuova
bandiera del Drenai, uno stallone bianco in campo blu, venne innalzata sul pennone
più alto affinché la brezza pomeridiana la facesse sventolare. Druss attraversò
l’arena a grandi passi, si fermò davanti alla balconata del Re-Dio e si inchinò.
Alle sue spalle due lentriani, sbucati di corsa da sotto le gradinate, si erano
inginocchiati a fianco del loro campione svenuto. Arrivarono due barellieri che lo
portarono via. Druss salutò la folla e si diresse verso l’imboccatura della galleria
che portava ai bagni e all’area di riposo riservata agli atleti. Fermo sul limitare
dell’apertura c’era Pellin, il lanciatore di giavellotto. «Credevo che ti stesse per
battere, uomo delle montagne.»
«C’è andato vicino,» disse Druss sputando un grumo di sangue. Aveva il volto
gonfio e diversi denti che si muovevano. «Era forte. Credimi.»
I due uomini si incamminarono lungo la galleria emergendo nel primo bagno.
In quel luogo i suoni dell’arena non giungevano affatto e circa un dozzina di atleti
si stavano rilassando dentro tre piscine di marmo piene d’acqua calda. Druss si
sedette vicino alla prima. Dei petali di rosa galleggiavano sul pelo dell’acqua e la
loro fragranza riempiva la stanza. Pars, il corridore, nuotò verso di lui. «Hai l’aria
di uno che si è fatto calpestare la faccia da una mandria di cavalli,» gli disse.
Druss si inclinò in avanti e spinse sott’acqua la testa calva dell’uomo. Pars si
allontanò di qualche metro rimanendo sotto il pelo dell’acqua, dopodiché riemerse
e prese a spruzzare il gigantesco drenai. Pellin si tuffò nella piscina.
Druss si spogliò e lo imitò. Il sollievo per i suoi muscoli doloranti fu istantaneo,
nuotò per alcuni minuti quindi uscì dalla vasca. Pars lo raggiunse. «Sdraiati, ti
massaggio la schiena,» disse. Druss si avvicinò a un tavolo da massaggiatore e si
sdraiò supino. Pars si unse le mani con l’olio e cominciò a massaggiargli la parte
superiore della schiena.
Pellin si sedette vicino a loro, si asciugò i capelli scuri quindi si infilò il vestito
bianco. «Hai visto l’altro incontro?» chiese a Druss.
«No.»
« Klay, il gothir, è impressionante. Veloce. Mento forte. Senza contare che i
suoi pugni vanno su e giù come martelli. È finito tutto nel volgere di una ventina di
secondi. Mai visto niente di simile, Druss. Il vagriano non è neanche riuscito a
capire cosa l’ha colpito.»
«È quello che ho sentito dire anch’io,» rispose Druss. Le dita di Pars gli
affondarono nei muscoli tesi del collo ed egli emise un lamento.
«Tu lo batterai, Druss. Cosa importa se lui è più grosso, più forte, più veloce e
più bello di te?»
«E in forma,» si intromise Pellin. «Dicono che tutti i giorni corra per otto
chilometri sulle montagne fuori della città.»
«Già, me n’ero dimenticato: più in forma. E anche più giovane. Quanti anni hai,
Druss?» gli chiese Pars.
«Trenta,» ringhiò Druss.
«Un vecchio,» disse Pellin, facendo l’occhiolino a Pars. «Tuttavia sono sicuro
che lo batterai. Beh... abbastanza sicuro.»
Druss si sedette. «È bello che voi giovani mi incoraggiate in questo modo.»
«Beh, siamo una squadra,» disse Pellin. «E poiché ci hai liberati della piacevole
compagnia di Grawal è come se ti avessimo adottato, Druss.» Pars cominciò a
lavorare sulle nocche gonfie del gigante. «Seriamente, Druss, amico mio,» si
preoccupò il corridore, «le tue mani hanno delle brutte escoriazioni. A casa avrei
usato del ghiaccio per sgonfiarle, ma stanotte gli farò degli impacchi d’acqua
fredda.»
«Mancano tre giorni alla finale. Mi sarò rimesso del tutto per allora. Come ti sei
piazzato nella corsa?»
«Secondo, almeno sono entrato in finale, ma non credo che mi piazzerò tra i
primi tre. Il gothir è molto più bravo di me, come lo sono anche il vagriano e il
chiatze. Non posso competere con loro.»
«Potresti stupirti di te stesso,» disse Druss.
«Non siamo come te, uomo delle montagne,» osservò Pellin. «Non riesco anco-
ra a credere che tu abbia preso parte a queste gare senza allenamento e sia riuscito
a raggiungere le finali. Sei veramente una leggenda.» Sorrise improvvisamente.
«Brutto, vecchio e lento, ma pur sempre una leggenda,» aggiunse.
Druss rise. «Mi avevi quasi ingannato, ragazzo. Credevo che stessi per mostrare
un po’ di rispetto.» Si sdraiò e chiuse gli occhi.
Pars e Pellin si avvicinarono a un tavolo dove un servitore riempì loro due
coppe d’acqua. Pellin scolò la sua e se la fece riempire di nuovo, al contrario di
Pars che sorseggiò lentamente. «Non gli hai detto nulla riguardo la profezia,» disse
Pars.
«Neanche tu l’hai fatto. Presto lo scoprirà da solo.»
«Cosa pensi che farà?» chiese il corridore calvo.
Pellin alzò le spalle. «È solo un mese che lo conosco, ma non credo che vorrà
seguire la tradizione.»
«Dovrà!» insistette Pars.
Pellin scosse la testa. «Non è uguale agli altri uomini, amico mio. Quel
lentriano avrebbe dovuto vincere, ma non è stato così. Druss è una forza della
natura e non penso che la politica gli importi più di tanto.»
«Scommetto venti raq d’oro che ti stai sbagliando.»
«Non l’accetto, Pars. Vedi, io spero, per la sicurezza di tutti quanti noi, che tu
abbia ragione.»

* * *
Da una balconata privata situata ben al di sopra della folla, il gigante biondo di
nome Klay osservò Druss abbattere il suo avversario. Il lentriano portava il peso
troppo sulle braccia e sulle spalle e benché quella tecnica gli desse molta potenza
rendeva i suoi pugni lenti... prevedibili. Ma il drenai era un degno avversario. Klay
sorrise.
«Trovi quell’uomo divertente, lord Klay?» Stupito il lottatore si girò. Il nuovo
venuto aveva un volto privo d’espressione. Sembra che porti una maschera, pensò
Klay, una maschera dorata del Chiatze: austera e priva di lineamenti. Anche i
lunghi capelli neri chiusi sulle spalle con una coda di cavallo erano così schiacciati
e impomatati che sembravano dipinti sopra quel grosso cranio. Klay fece un lungo
respiro, disturbato dal fatto che poteva venir sorpreso anche nella sua balconata
privata e arrabbiato perché non aveva sentito né il fruscio prodotto dalle tende che
si aprivano né quello del pesante vestito di velluto nero lungo fino alle caviglie che
l’uomo indossava.
«Ti muovi come un assassino, Garen-Tsen,» disse Klay.
«A volte, lord, è necessario muoversi con circospezione,» osservò il chiatze. La
sua voce era dolce e melodica. Klay fissò gli strani occhi dell’uomo, allungati
come la punta di una lancia. Uno era di un curioso colore castano punteggiato qua
e là da venature grigie, l’altro era azzurro come il cielo estivo.
«La circospezione non è necessaria solo quando ti muovi tra i nemici?» azzardò
Klay.
«Proprio così. Ma il peggiore dei nemici è quello che si maschera da amico.
Perché quel drenai ti diverte tanto?» Garen-Tsen superò Klay, raggiunse il limitare
della balconata e guardò l’arena. «Non vedo nulla di divertente in quell’uomo. È
un barbaro e combatte come tale.» Si girò con il volto inespressivo incorniciato
dall’alto colletto del vestito.
Klay si accorse che l’antipatia che provava per quell’individuo continuava ad
aumentare, tuttavia mascherò i suoi sentimenti e ponderò la domanda di Garen-
Tsen. «Egli non mi diverte, ministro. Io l’ammiro. Con il giusto allenamento
potrebbe diventare molto bravo. Inoltre piace alla folla. La gente ama vedere un
lottatore coraggioso e per il paradiso a quel Druss il coraggio non manca di certo.
Mi piacerebbe avere l’opportunità di allenarlo. La gara sarebbe molto più bella.»
«Pensi che finirà in fretta?»
Klay scosse la testa. «No. La forza di quell’uomo è grandissima. Scaturisce dal
suo orgoglio e dal fatto che pensa di essere invincibile; lo capisci da come
combatte. Sarà un incontro duro e lungo.»
«Tuttavia, tu prevarrai, vero? Proprio come il Dio-Re ha profetizzato?» Per la
prima volta Klay notò un leggero cambiamento nell’espressione del ministro.
«Dovrei, Garen-Tsen. Sono più grosso, più forte, più veloce e meglio allenato,
ma in ogni combattimento ci sono sempre degli imprevisti. Potrei scivolare proprio
mentre un pugno colpisce il bersaglio. Potrei ammalarmi poco prima dell’incontro
quindi essere debole e privo d’energie. Potrei perdere la concentrazione e
abbassare la guardia.» Vedendo l’espressione chiaramente preoccupata del
ministro, Klay fece un largo sorriso.
«Ma tutto ciò non accadrà,» disse il politico. «La profezia si avvererà.»
Klay pensò bene alle parole da dire prima di rispondere. «Sono molto
orgoglioso del fatto che il Dio-Re creda molto in me. Combatterò al massimo delle
mie possibilità.»
«Bene. Speriamo che al drenai succeda il contrario. Presenzierai al banchetto di
stasera, lord. Il Dio-Re ha richiesto la tua presenza. Desidera che tu sia al suo
fianco.»
«È un grande onore per me,» rispose Klay, inchinandosi. «Infatti, lo è.» Garen-
Tsen si avviò verso l’uscita, quindi si girò. «Conosci un atleta di nome Lepant?»
«Il corridore? Certo. Si allena nella mia palestra. Perché?»
«È morto stamattina durante un interrogatorio. Sembrava così forte. Ti sei mai
accorto che avesse il cuore debole? Vertigini, dolori al petto?»
«No,» rispose Klay, ricordando il giovane allegro sempre pronto a fare scherzi
e a raccontare barzellette. «Perché è stato interrogato?»
«Diffondeva delle calunnie, e avevamo ragione di credere che facesse parte di
un gruppo di cospiratori che ha giurato di uccidere il Dio-Re.»
«Quante insulsaggini. Era solo uno stupido ragazzo che raccontava barzellette
di pessimo gusto.»
«In apparenza era come tu l’hai descritto,» concordò Garen-Tsen. «Adesso è un
ragazzo morto che non racconterà più barzellette di pessimo gusto. Era portato per
la corsa?»
«No.»
«Meglio. Allora non abbiamo perso nulla.» Gli strani occhi del politico
fissarono intensamente Klay per alcuni secondi. «Sarebbe meglio, lord, che
smettessi di ascoltare le barzellette. Insieme al tradimento esiste anche il reato di
complicità.»
«Mi ricorderò del tuo consiglio, Garen-Tsen.»
Dopo che il ministro fu andato via, Klay si recò nella galleria dell’Arena. Era
un posto tranquillo e a lui piaceva camminare in mezzo a tutte quelle antichità. La
galleria era stata inclusa nei progetti dell’Arena dietro insistenza del re, molto
prima che impazzisse. In quel luogo c’erano circa una cinquantina di chioschi e
negozi, dove un bravo compratore poteva acquistare dei manufatti storici o delle
copie perfette. C’erano libri antichi, dipinti, porcellane e anche armi.
Tutta la gente che incrociava il cammino di Klay si inchinava davanti a lui in
segno di rispetto per il campione del Gothir, ed egli li congedava con un sorriso o
con un cenno della testa. Benché molto grosso, il lottatore si muoveva con la grazia
di un atleta, sempre bilanciato e all’erta. Si fermò davanti a una statua in bronzo
del Dio-Re. Era una bella scultura, ma Klay pensava che le pupille di lapislazzuli
fossero troppo bizzarre per un volto bronzeo. Il mercante proprietario di
quell’opera si fece avanti. Era basso e tarchiato, portava una barba a due punte e
aveva un sorriso furbo. «Hai un ottimo aspetto, lord Klay,» disse. «Ti ho visto
combattere, non è durato molto l’incontro. Sei stato magnifico.»
«Grazie, signore.»
«E pensare che il tuo avversario è venuto da tanto lontano solo per essere
umiliato in quel modo!»
«Non è stato umiliato, signore, è stato semplicemente battuto. Egli si era
guadagnato il diritto di combattere contro di me sconfiggendo un buon numero di
altri validi pugili. Inoltre ha avuto la sfortuna di scivolare proprio nel momento in
cui l’ho colpito.»
«Certo, certo! La tua umiltà ti fa molto onore, lord,» rispose l’uomo,
tranquillamente. «Ho visto che stai ammirando questo bronzo. È un’opera stupenda
di un nuovo scultore. Farà molta strada.» Abbassò la voce. «Per tutti gli altri, lord,
il prezzo sarebbe di mille pezzi d’argento, ma per il possente Klay posso scendere
fino a ottocento.»
«Ho già due busti dell’imperatore che lui mi ha regalato di persona. Comunque
ti ringrazio per la tua offerta.»
Klay si allontanò dall’uomo e una ragazza che teneva per mano un bambino di
cerca dieci anni gli si parò davanti. «Ti prego di perdonarmi per la mia
impertinenza, lord,» esordì la giovane inchinandosi profondamente, «ma mio figlio
voleva tanto incontrarti.»
«Nessun disturbo,» disse Klay, inginocchiandosi di fronte al bambino. «Come
ti chiami, ragazzo?»
«Atka, signore,» rispose. «Ho visto tutti i tuoi incontri. Tu sei... sei fantastico.»
«Grazie per il complimento. Guarderai la finale?»
«Oh, sì signore. Sarò là a guardarti distruggere il drenai. L’ho visto combattere.
Oggi ha quasi perso.»
«Non credo che sarà molto facile, Atka. È un uomo molto forte. Sembra fatto di
pietra e ferro. Io stesso ho scommesso su di lui.»
«Non ti può battere, signore, vero?» chiese il bambino spalancando gli occhi
ora dubbiosi.
Klay sorrise. «Tutti gli uomini possono essere battuti, Atka. Aspetta qualche
giorno e vedrai.»
Il pugile si alzò e sorrise alla ragazza che intanto era arrossita. «È un bravo
ragazzo,» disse il campione. Le prese la mano, gliela baciò, quindi si allontanò per
andare a studiare i dipinti appesi alle pareti. Molti erano paesaggi del deserto e
delle montagne, altri ritraevano delle ragazze piuttosto svestite. Altri ancora erano
scene di caccia, mentre due, che attirarono l’attenzione di Klay, raffiguravano dei
fiori selvaggi. In fondo alla galleria c’era un lungo chiosco tenuto da un vecchio
chiatze. Klay lo raggiunse e cominciò a studiare le opere esposte con ordine. La
maggior parte erano statuette, circondate da spille, amuleti, braccialetti, cerchietti e
anelli. Klay prese in mano una figurina in avorio non più alta di una decina di
centimetri. Era una donna bellissima con il corpo fasciato da un vestito fluente. I
capelli erano ornati di fiori e nella mano teneva un serpente con la coda arrotolata
intorno al suo polso.
«È molto bella,» disse.
Il piccolo chiatze annuì e sorrise. «È Shul-sen la sposa di Oshikai Flagello del
Demone. Questo pezzo ha circa mille anni.» «Come fai a dirlo?»
«Io sono Chorin-Tsu, l’imbalsamatore reale, e sono anche uno storico. Trovai
questa statuetta durante uno scavo archeologico vicino al luogo in cui si svolse la
battaglia dei Cinque Eserciti. Ne sono sicuro: non deve avere meno di nove
secoli.» Klay portò la statuetta davanti agli occhi. Il volto della donna era ovale, gli
occhi a mandorla e sembrava che stesse sorridendo.
«Era chiatze?» chiese.
Chorin-Tsu allargò le braccia. «Dipende dal tuo punto di vista, lord. Come ti ho
detto, lei era la moglie di Oshikai ed egli è considerato il padre dei nadir. Fu lui che
guidò le tribù ribelli dalle terre del Chiatze fino a quelle che oggi sono le terre
governate dai gothir. Dopo la sua morte le tribù si sciolsero e cominciarono a
combattere tra di loro, proprio come fanno anche ai giorni nostri. Quindi se egli fu
il primo nadir, vuol dire che Shul-sen era... cosa? nadir o chiatze?»
«Entrambe le cose,» disse Klay. «È anche bellissima. Cosa le successe?»
Il chiatze alzò le spalle e Klay si accorse che gli scuri occhi a mandorla del
vecchio avevano assunto un’espressione addolorata. «Dipende a quale versione
della storia vuoi credere. Per me, lei fu uccisa poco dopo la morte di Oshikai. Tutti
i documenti storici fanno pensare a questa eventualità, anche se alcune storie
dicono che lei si sia recata in un luogo lontano al di là del mare. Se sei un uomo
romantico forse questa è la storia a cui dovresti attenerti.»
«Io tendo ad attenermi alla verità, quando posso,» disse Klay. «Ma in questo
caso mi piacerebbe credere che lei abbia vissuto la sua vita felicemente, in qualche
terra sconosciuta. Credo che non lo sapremo mai.»
Chorin-Tsu allargò nuovamente le braccia. «Come storico mi piace pensare che
un giorno verrà trovato un documento che getterà luce sulla vicenda. Forse potrei
trovarne qualcuno io stesso.»
«Se lo farai, ti prego di farmelo sapere. Intanto comprerò questa statuetta. Fa
che venga consegnata a casa mia.»
«Desideri conoscere il prezzo, lord?»
«Sono sicuro che sarà giusto.»
«Infatti lo è, signore.»
Klay fece per andarsene, quindi si girò nuovamente verso il vecchio. «Dimmi
una cosa, Chorin-Tsu, com’è che l’imbalsamatore reale ha anche un banco di
antichità?»
«Imbalsamare, lord, è la mia professione. La storia la mia passione e, come
tutte le passioni, devono essere condivise per poterne godere a pieno. Il fatto che
questo pezzo ti sia piaciuto mi da molta gioia.»
Klay si diresse verso la Sala delle cucine. Due guardie gli aprirono la porta
facendolo entrare nella più lussuosa delle sale da pranzo della nobiltà. Da tempo il
pugile non si sentiva più nervoso a entrare in quel luogo, poiché, a dispetto dei suoi
umili natali, egli era diventato una leggenda e ora la gente lo considerava molto più
importante di tanti nobili. C’erano pochi astanti nella sala, ma Klay individuò
subito Majon, l’ambasciatore drenai. Il diplomatico in quel momento era
impegnato in una discussione con un damerino che indossava una tunica
ingioiellata. L’interlocutore di Majon era alto magro e molto bello. Aveva i capelli
castano chiaro tenuti da un cerchietto ornato con un opale. Klay si avvicinò a loro.
In un primo momento Majon non lo notò e continuò a inveire contro il suo
compagno.
«Non credo che sia giusto, Sieben, dopo tutto tu hai vinto...» nel momento
stesso in cui vide Klay l’espressione del suo volto mutò e sulle sue labbra apparve
un largo sorriso. «Mio caro ragazzo, è così bello rivederti. Unisciti a noi, ti prego,
ne saremmo onorati. Stavamo proprio parlando di te pochi attimi fa. Questo è
Sieben il poeta.»
«Ho visto recitare le tue opere,» disse Klay, «e ho letto con molto interesse la
saga di Druss la Leggenda.»
Il poeta fece un sorriso astuto. «Hai letto la saga e presto incontrerai l’uomo.
Devi sapere una cosa, signore, io scommetterò contro di te.»
«Allora mi perdonerai se non ti auguro buona fortuna,» rispose Klay,
sedendosi.
«Hai visto l’incontro di oggi?» gli chiese Majon.
«Sì, ambasciatore. Druss è un combattente interessante. Sembra che il dolore lo
spinga a dare il meglio di sé. È indomito e molto forte.»
«Vince sempre,» disse Sieben contento. «È uno dei suoi talenti.»
«Sieben è particolarmente felice oggi,» si intromise Majon, freddamente. «Ha
vinto sessanta pezzi d’oro.»
«Anch’io ho vinto,» disse Klay.
«Hai scommesso su Druss?» gli chiese Sieben.
«Sì. Ho studiato entrambe gli atleti e ho capito che il lentriano non aveva la
forza di contrastare il vostro uomo. Inoltre il suo sinistro mancava di velocità e la
cosa ha favorito Druss. Tuttavia dovreste avvertirlo di cambiare la sua posizione
d’attacco. Tende a chinare la testa quando attacca e questo fatto lo rende un facile
bersaglio per i montanti.»
«Glielo dirò sicuramente,» promise Sieben.
«In casa mia ho una palestra personale in cui mi alleno. È il benvenuto se vuole
usarla.»
«Un’offerta molto gentile,» si intromise nuovamente Majon.
«Mi sembri molto fiducioso, signore,» disse Sieben. «Non ti preoccupa il fatto
che Druss non abbia mai perso?»
«Anch’io non sono mai stato battuto. Qualsiasi cosa succederà, uno di noi due
dovrà perdere il suo primato. Ma il sole continuerà a splendere, e la terra non si
ribalterà. Adesso, amici miei, potremmo ordinare qualcosa da mangiare?»

L’aria era fresca e pulita e un vento leggero soffiava attraverso la fontana della
vasca rinfrescandola. Sieben e Druss si inerpicavano lungo il ripido sentiero che
portava in cima alla collina più alta del Parco Centrale. Sopra di loro il cielo blu
della tarda estate era punteggiato da spesse nuvole bianche che si dirigevano verso
est. In lontananza dei raggi di sole si aprirono un varco tra le nuvole illuminando
una sezione delle montagne orientali e donando loro l’aspetto di un diamante che
brillava con riflessi rosso e oro. Appena le nuvole coprirono il varco, l’incantesimo
si ruppe e la roccia tornò a essere grigia. Druss fissò le montagne con uno sguardo
colmo di nostalgia, ricordando l’odore dei pini e il canto dei ruscelli della sua
patria natia. Le nuvole continuavano a muoversi nel cielo e il sole tornò a
illuminare i picchi. La vista era stupenda, ma Druss sapeva che in quei luoghi non
avrebbe trovato nessuna foresta di pini. A est di Gulgothir si stendevano le steppe
dei nadir, un’enorme distesa di deserto, secca, sterile, dura e inospitale.
Sieben si sedette sul bordo della fontana immergendo una mano nell’acqua.
«Adesso puoi capire perché questo luogo è chiamato la collina delle Sei Vergini,»
disse. Nel centro della vasca, ricavate da un unico blocco di marmo, c’erano sei
belle statue di donne che si piegavano in avanti allungando le braccia come se stes-
sero supplicando. Posizionata dietro e più in alto rispetto alle figure femminili
c’era la statua di un vecchio che reggeva in mano una gigantesca urna da cui
scaturiva un getto d’acqua che bagnava le sei statue per poi cadere nella vasca.
«Alcune centinaia di anni fa,» continuò Sieben, «un esercito proveniente dal nord
circondò Gulgothir e sei vergini furono annegate per ingraziarsi gli dèi della
guerra. Dopo il sacrificio gli dèi decisero di favorire gli assediati che riuscirono a
sconfiggere l’esercito invasore.»
Sieben sorrise nel vedere gli occhi azzurri di Druss ridursi a due fessure. La
grossa mano del guerriero cominciò a grattare la corta barba che gli cresceva sul
mento squadrato e quando il gigante drenai faceva quel gesto voleva dire che si
stava irritando. «Non credi nella necessità di ingraziarsi gli dèi?» gli chiese Sieben,
in tono candido.
«Non con il sangue degli innocenti.»
«Ma essi hanno vinto, Druss. Non trovi che il sacrificio sia servito a qualcosa?»
Il gigante scosse la testa. «Essi hanno combattuto bene perché credevano che il
sacrificio avesse ingraziato gli dèi. Io sono dell’idea che un buon discorso avrebbe
ottenuto lo stesso risultato.»
«Supponiamo che gli dèi avessero richiesto il sacrificio e quindi aiutato gli
assediati a capovolgere le sorti della battaglia?»
«Allora sarebbe stato meglio perdere.»
«Aha!» esclamò Sieben, trionfante, «ma se avessero perso, un numero ancora
più grande di innocenti sarebbe morto: donne stuprate e torturate, bambini uccisi
nelle culle. Cosa mi rispondi?»
«Non sento il bisogno di risponderti. La maggior parte delle persone può
distinguere la differenza tra il profumo e lo sterco di vacca; non è necessario fare
altre discussioni.»
«Avanti vecchio cavallo, non ti stai sforzando. La risposta è molto semplice, i
principi del bene e del male non si basano sulla matematica. Si basano sul
desiderio che gli individui hanno di fare, o non fare, cosa sia giusto per la
coscienza e per la legge.»
«Parole, parole, parole! Non significano nulla!» sbottò Druss. «I desideri degli
individui sono la causa della maggior parte delle malvagità. Per quanto riguarda la
coscienza e la legge, cosa succede se un uomo è un incosciente e la legge permette
i sacrifici umani? Basta questo a renderli un atto giusto? Adesso cerca di smettere
di attirarmi in un’altra delle tue insignificanti discussioni.»
«Noi poeti viviamo per simili discussioni insignificanti,» disse Sieben,
cercando di contenere la propria rabbia. «Abbiamo la tendenza ad ampliare gli
orizzonti della nostra intelligenza, ad allenare la mente. Ci aiuta a essere più
consapevoli dei bisogni dei nostri compagni. Oggi sei di pessimo umore, Druss.
Credevo che fossi in delirio all’idea dello scontro a venire, al pensiero di un altro
uomo da distruggere a pugni. Il campione, niente di meno. Le urla della folla, i
complimenti dei tuoi compatrioti. Ah, il sangue e le escoriazioni, le parate
interminabili e i banchetti in tuo onore!»
Druss imprecò e divenne cupo in volto. «Sai che disprezzo tutto ciò.»
Sieben scosse la testa. «È così solo per una parte di te, Druss. Essa odia il
clamore del pubblico, tuttavia com’è che ogni azione che compi ti porta ad avere
sempre più popolarità? Eri stato invitato a questi giochi come un ospite, una sorta
di portafortuna, se ti fa piacere, e cosa hai combinato? Hai rotto la mascella del
campione drenai e hai preso il suo posto.»
«Non era mia intenzione rompere le ossa di quell’uomo. Se avessi saputo che
aveva un mento di porcellana lo avrei colpito allo stomaco.»
«Sono sicuro che ti piacerebbe crederlo, vecchio cavallo. Come sono sicuro che
io non ti credo. Rispondi a questa domanda: come ti senti quando la folla urla il tuo
nome?»
«Ne ho avuto abbastanza, poeta. Cosa vuoi da me?»
Sieben fece un lungo e profondo respiro per calmarsi. «Le parole sono l’unico
mezzo che noi abbiamo per descrivere come ci sentiamo, per sapere cosa vogliamo
da un altro. Senza di esse come potremmo insegnare ai giovani, o esprimere le
nostre speranze affinché le generazione future le possano leggere? La tua visione
del mondo, Druss, è molto semplicistica, per te tutto è fuoco o ghiaccio. E questo
punto di vista, in sé stesso, non è sbagliato. Ma come tutti gli uomini dalla mente
chiusa e dai piccoli sogni tu cerchi di prendere in giro ciò che non comprendi. Le
civiltà sono state costruite sulle parole, Druss, e vengono distrutte dalle asce. La
cosa non ti suggerisce nulla, Druss dell’Ascia?»
«Niente che io già non sappia. Adesso siamo di nuovo tranquilli?»
La rabbia di Sieben scomparve e il poeta sorrise. «Mi piaci molto, Druss, come
sempre. Ma tu hai la capacità innata di irritarmi.»
Druss annuì con espressione solenne. «Non sono un pensatore,» esordì, «ma
neanche uno stupido. Sono come tutti gli altri. Sarei potuto diventare un contadino,
un falegname, oppure un operaio. Mai un professore o un chierico. Gli intellettuali,
come quel Majon, mi rendono nervoso.» Scosse la testa. «Ho incontrato un
mucchio di ambasciatori e sembrano tutti uguali: spigliati, sorrisi falsi e occhi
brillanti che non si lasciano scappare nulla. In cosa credono? Hanno il senso
dell’onore? Del patriottismo? O ridono di noi uomini comuni mentre riempiono le
loro borse d’oro? Non so molte cose, poeta, ma so che uomini come Majon, e
anche come te, possono far sembrare tutto ciò in cui credo privo di veridicità come
la neve in estate, e nel frattempo farmi anche fare la figura dello stupido. Oh, so
perfettamente che il bene e il male non possono essere trattati come semplici
numeri. Come quelle donne della fontana. Un esercito invasore può d’re: “Uccidete
sei donne e noi risparmieremo la città”. Beh, c’è solo una risposta valida a questa
richiesta. Ma non posso dirti perché so che è quella giusta.»
«Ma io sì,» disse Sieben, adesso più calmo. «Ed è qualcosa che ho in parte
imparato da te. L’atto più malvagio che possiamo commettere è spingere qualcun
altro a commetterne uno. L’esercito invasore di cui parli in verità sta dicendo tra le
righe: “Se voi non commetterete una piccola malvagità noi ne commetteremo una
molto più grande”. La risposta eroica è ovviamente il rifiuto, ma i diplomatici e i
politici sono uomini pragmatici, Druss. Essi vivono senza comprendere veramente
cosa sia l’onore. Giusto?»
Druss sorrise e diede una pacca amichevole sulla spalla di Sieben. «Proprio
così, poeta. Ma so anche che tu potresti affermare il contrario in un batter d’occhio.
Così mettiamo fine a tutto ciò.»
«D’accordo! Facciamo che sia finita così.»
Druss si mise a guardare in direzione sud. Sotto di loro si stendeva il centro
della vecchia Gulgothir, un’area della città formata da un fitto dedalo di strade e
stretti vicoli lungo i quali erano stati costruiti, attaccati tra loro, e apparentemente a
casaccio, palazzi, abitazioni, negozi e laboratori. Il vecchio Mastio sorgeva nel
centro del quartiere come un grosso ragno grigio. Un tempo quel luogo era stato la
residenza dei re, ora era usato come granaio e magazzino. Il drenai spostò lo
sguardo verso ovest dove sorgeva il nuovo palazzo del Dio-Re: una colossale
struttura di pietra bianca sulla cui facciata spiccavano colonne adornate da foglie
d’oro e statue che nella maggior parte dei casi erano effigi del re con la testa cinta
da corone d’oro e d’argento. I giardini che circondavano il palazzo erano stupendi
e anche dal punto in cui si trovava, Druss poteva vedere lo splendore delle aiuole e
degli alberi fioriti. «Sei già riuscito a vedere il Dio-Re?» chiese il guerriero.
«Ero vicino alla balconata reale mentre ti stavi divertendo con il lentriano, ma
ho visto solo le schiene delle guardie. Si dice che si tinga i capelli con l’oro.»
«Cosa vuoi dire con divertendo? Quell’uomo era massiccio e risento ancora dei
suoi colpi.»
Sieben rise. «Beh, allora aspetta dopo che avrai incontrato il campione gothir,
Druss. Quando combatte non è umano quell’individuo; dicono che il suo pugno sia
come un lampo. I pronostici sono nove a uno in tuo sfavore.»
«Forse perderò, allora,» grugnì Druss, «ma non ci scommettere.»
«Oh, questa volta non scommetterò neanche una moneta di rame. Ho incontrato
Klay. È unico, Druss. Fino a ora non avevo mai incontrato un uomo che mi avesse
fatto pensare: “Questo può batterlo”.»
«Pah!» sbuffò Druss. «Vorrei avere un raq d’oro per ogni volta che qualcuno
mi ha detto che colui che stavo per affrontare era più veloce, migliore e più letale
di me. E dove sono finiti tutti adesso?»
«Beh, vecchio cavallo,» rispose Sieben, con calma, «sono quasi tutti morti,
uccisi da te nella tua interminabile ricerca di ciò che è puro e giusto.»
Druss socchiuse gli occhi. «Credevo che avessimo finito con quella
discussione.»
Sieben allargò le braccia. «Scusami. Non ho saputo resistere.»

Il guerriero nadir chiamato Talismano si acquattò e cominciò a correre lungo il


vicolo. Le urla dei suoi inseguitori erano cessate, adesso, ma egli sapeva di non
averli seminati... non ancora. Talismano emerse in una larga piazza dove si fermò
per riposarsi. C’erano diverse porte in quel luogo. Ne aveva contate sei per ogni
lato. «Di qua! Di qua!» sentì urlare da qualcuno. La luna risplendeva contro i muri
a nord e a ovest della piazza, ma lui correva, tenendosi il più schiacciato possibile,
seguendo la parete sud. Là il suo mantello nero con il cappuccio e le ombre gli
permettevano di diventare praticamente invisibile. Talismano fece un lungo sospiro
per cercare di calmarsi. La mano scivolò sotto il mantello e si appoggiò sul fianco
dove avrebbe dovuto esserci il suo lungo coltello da caccia. Imprecò
silenziosamente. A nessun guerriero nadir era permesso entrare a Gothir armato.
Egli odiava quel luogo di pietra e marmo, odiava il puzzo della gente che l’abitava.
Talismano desiderò trovarsi nelle sconfinate steppe dei nadir. Montagne possenti
che si innalzavano contro un cielo limpido e bruciante, pianure infinite e valli in
cui un uomo poteva vagare per un anno intero senza incontrare un’altra anima.
Nella steppa sì che un uomo era vivo. Non in quel nido di topi chiamato città in cui
l’aria inquinata portava con sé l’odore degli escrementi umani scagliati dalla
finestra in strada a marcire insieme all’altra immondizia.
Un ratto gli passò su un piede, ma Talismano non si mosse. Il nemico era
vicino. Nemico? Quella feccia dei quartieri più poveri di Gulgothir non meritava
l’onore di un simile titolo. Essi stavano semplicemente riempiendo qualche attimo
della loro inutile vita inseguendo un uomo delle tribù nadir lungo strade sporche,
godendosi così un transitorio momento di divertimento giunto a illuminare le loro
squallide e povere esistenze. Imprecò di nuovo. Anche se Talismano non gli aveva
prestato molta attenzione, Nosta Khan l’aveva messo in guardia dalle bande
dicendogli quali aree della città doveva evitare. Tuttavia, il giovane che non era
mai stato in un città grande come Gulgothir, non aveva idea di quanto sarebbe stato
facile perdersi.
Il suono di uomini in corsa lo raggiunse e Talismano strinse i pugni. Se
l’avessero trovato l’avrebbero ucciso.
«Avete visto dove è andato?» chiese una voce gutturale. «Nah! Che ne dici di
laggiù?»
«Voi tre prendete il vicolo, noi taglieremo attraverso la strada della Taverna e
ci incontreremo nella piazza.»
Talismano si tirò il cappuccio sulla testa per coprire il volto e attese. Il primo
dei tre uomini passò davanti al suo nascondiglio, poi il secondo. Il terzo guardò
nella sua direzione e lo vide. Il giovane nadir balzò in avanti. Lo straccione tentò
un affondo con un coltello, Talismano gli scivolò di fianco, gli tirò un pugno in
faccia facendolo barcollare all’indietro, quindi, correndo, imboccò un altro vicolo.
«È qua! È qua!» cominciò a urlare l’uomo che l’aveva assalito.
Davanti a lui c’era un muro alto circa due metri e mezzo, Talismano saltò,
afferrò il bordo e si arrampicò fino in cima. Sull’altro lato c’era un giardino
illuminato dalla luna. Il giovane saltò sull’erba, corse verso l’altro muro, lo scalò e
balzò in uno stretto vicolo. Atterrò con leggerezza e cominciò a correre seguendo
la strada. Si stava arrabbiando sempre di più. Trovava vergognoso dover scappare
da quei mollicci meridionali dagli occhi rotondi.
Raggiunse un incrocio che portava in direzione nord. Non sentiva più il suono
degli inseguitori, ma non si rilassò. Non aveva nessuna idea di dove si trovasse e
tutti quegli stupidi palazzi gli sembravano uguali. Nosta Khan gli aveva detto di
cercare la casa dell’imbalsamatore Chorin-Tsu, che si trovava nella via dei Tes-
sitori nei quartieri situati nella zona nord-ovest della città. Ma dove mi trovo
adesso? pensò il giovane.
Un uomo alto sbucò dall’ombra tenendo in mano un coltello macchiato di
ruggine. «Ti ho trovato, piccolo bastardo di un nadir!» disse. Talismano fissò gli
occhi crudeli dell’uomo e si sentì preda di un’ira fredda e incontrollata.
«Quello che hai trovato,» gli rispose il ragazzo, «è la morte.»
L’uomo alzò il braccio armato di coltello e corse verso il nadir cercando di
colpirlo al collo, ma Talismano si spostò verso destra e alzò l’avambraccio sinistro
per bloccare il polso dell’avversario. Contemporaneamente con un unico e fluido
movimento il suo braccio destro si insinuò dietro la spalla dell’uomo dopodiché il
giovane impresse un forte strattone al braccio, che si ruppe all’altezza del gomito.
L’uomo urlò e fece cadere il coltello. Talismano mollò la presa, si impossessò
dell’arma e la conficcò tra le costole del suo assalitore. Tirandogli indietro la testa
per i capelli, Talismano fissò il volto stravolto dal terrore della sua vittima. «Che tu
possa marcire in diversi inferni,» gli sussurrò il nadir, ruotando la lama del coltello.
L’uomo aprì la bocca per lanciare un ultimo grido di dolore, ma morì prima ancora
di riuscire a prendere fiato.
Talismano lasciò cadere il corpo, pulì il coltello sulla tunica sporca della sua
vittima, dopodiché spari nell’ombra. Tutto era silenzioso in quel luogo. Le mura
delle case, sulle quali spiccavano file di finestre serrate, torreggiavano su entrambi
i lati della strada. Il giovane nadir sbucò in una via più larga e non più lunga di una
cinquantina di metri dove vide le finestre illuminate di una taverna. Nascondendo il
coltello sotto il mantello si incamminò lungo la strada. La porta della taverna si
aprì e un uomo gigantesco con una barba squadrata uscì dal locale. Talismano si
avvicinò.
«Mi perdoni, lord,» disse il nadir, sforzandosi di essere gentile, «ma potrebbe
indicarmi dove si trova la strada dei Tessitori?»
«Ragazzo,» disse l’uomo, abbandonandosi, visibilmente ubriaco, su una
panchina di quercia, «stasera riuscirei a sorprendere me stesso se riuscissi a trovare
la strada per casa mia. Anch’io sono uno straniero e mi sono perso più di una volta
in questo labirinto di città. Per il paradiso, non riesco a capire come uno possa
vivere in un luogo simile, e tu?»
Talismano si girò e in quel momento ricomparvero gli uomini che lo stavano
inseguendo, cinque a un’estremità della strada e quattro all’altra. «Ti strapperemo
il cuore!» urlò il capo, un grasso e calvo ruffiano. Talismano estrasse il coltello
appena uno dei cinque assalitori si fece avanti, ma un movimento inaspettato alla
sua sinistra attirò la sua attenzione. L’ubriaco si era alzato in piedi e sembrava che
volesse spostare la panca di quercia. No, non vuole spostarla, comprese il giovane
nadir, vuole alzarla! Era tutto così incongruo e bizzarro che dovette distogliere lo
sguardo per affrontare i suoi nemici. Tre erano armati con coltelli e gli altri due di
mazze di piombo. Improvvisamente la grossa e pesante panca di quercia volò oltre
Talismano come se fosse stata una lancia. L’oggetto colpì prima in volto il capo
degli assalitori, scagliandolo a terra con i denti rotti, quindi rimbalzò contro gli altri
due facendoli cadere a loro volta. I due assalitori rimasti saltarono i corpi degli
amici e attaccarono. Talismano bloccò un affondo del coltello del primo con la
lama del suo quindi gli diede una gomitata al mento. L’uomo cadde a terra, ma
appena cercò di rialzarsi il nadir lo colpì con due calci al volto facendolo svenire.
Talismano si girò per affrontare il secondo assalitore, ma vide che il gigante
ubriaco lo aveva afferrato per il collo e lo scroto sollevandolo sopra la testa. Il
giovane nadir si girò verso gli altri quattro assalitori che si stavano avvicinando. Lo
straniero cominciò a correre verso di loro e quando si trovò a pochi metri di di-
stanza gli scagliò contro l’impotente compagno. Tre caddero a terra, ma cercarono
di rialzarsi immediatamente. Lo straniero fece un passo avanti.
«Penso che sia abbastanza, ragazzi,» disse con voce fredda. «Non ho ancora
ucciso nessuno da quando sono arrivato a Gulgothir, quindi raccogliete i vostri
amici e sparite.»
Uno degli uomini si avvicinò con cautela e fissò lo straniero con attenzione.
«Tu sei il lottatore drenai, vero? Druss?»
«Sono io. Adesso andate per la vostra strada, ragazzi. La festa è finita, a meno
che non vi sia bastata»
«Klay ti ridurrà a un ammasso di carne sanguinante, bastardo!» Senza dire
un’altra parola l’uomo rinfoderò il coltello e tornò dai suoi compagni. Insieme
aiutarono gli amici caduti nel vicolo ad alzarsi poiché tutti quanti dovevano portare
via il loro capo che giaceva a terra svenuto. Lo straniero si rivolse a Talismano.
«Un brutto posto,» gli disse con un largo sorriso, «ma ha anche i suoi lati
piacevoli. Bevi con me?»
«Tu combatti bene,» disse Talismano, girandosi per osservare gli assalitori che
si allontanavano lentamente lungo il vicolo. «Sì, berrò con te, drenai, ma non qua.
Ho la sensazione che quegli uomini cominceranno a parlare tra di loro e alla fine
troveranno il coraggio di tornare all’attacco.»
«Bene, allora seguimi, ragazzo. Il gothir ci ha dato un appartamento, che penso
non sia molto lontano da qua, e là ho una caraffa di rosso di Lentria che è tutta la
sera che mi chiama.» Insieme si diressero a ovest lungo il corso principale che
portava all’anfiteatro. Gli assalitori non li seguirono.

Talismano non era mai stato in una casa così lussuosa e i suoi scuri occhi a
mandorla si saturarono di quella vista: i lunghi pannelli di quercia a lato della
scalinata, i drappi di velluto attaccati alle pareti, le sedie coi cuscini, decorate,
intagliate e placcate d’oro, i tappeti di seta del Chiatze. Il gigantesco guerriero di
nome Druss lo guidò lungo il corridoio. Le porte si aprivano su entrambi i lati a
quindici passi di distanza l’una dall’altra. Lo straniero si fermò davanti a una porta,
tirò un chiavistello in bronzo e il pannello si aprì rivelando una stanza riccamente
arredata. La prima cosa che Talismano vide sbirciando dentro il locale fu uno
specchio rettangolare alto circa un metro e ottanta. Sbatté le palpebre dallo stupore.
Si era già visto allo specchio prima di quel momento, ma mai in tutta la sua altezza
e con tanta nitidezza. Il mantello nero che aveva rubato e la tunica che indossava si
erano sporcati durante il viaggio e i suoi occhi scuri lo fissarono dallo specchio
rivelandogli una mal celata stanchezza. Il volto che stava guardando, benché privo
di barba, dimostrava molto di più dei suoi diciotto anni effettivi, e la bocca aveva
un taglio austero e determinato. La responsabilità che gli era stata affidata stava
divorando la sua giovinezza.
Avvicinandosi allo specchio ne toccò la superficie. Sembrava vetro, ma era solo
apparentemente trasparente, come poteva riflettere con tanta chiarezza?
Esaminando più da vicino lo specchio vide che sull’angolo in fondo a destra c’era
una scalfittura. Si inginocchiò e fissando il punto scheggiato vide il tappeto
dall’altra parte. «In qualche modo riescono a dipingere il vetro con l’argento,» gli
disse Druss. «Però non so come fanno.»
Talismano distolse la sua attenzione dallo specchio e camminò per la stanza.
C’erano sei divani rivestiti di cuoio lucido, diverse sedie e un lungo e basso tavolo
sul quale erano stati appoggiati una caraffa di vino e sei coppe d’argento. La stanza
era grande quanto la tenda di suo padre e là vivevano in quattordici! Una porta a
due battenti dava su una grande balconata posta al di sopra dell’anfiteatro.
Talismano andò sul balcone. La grande arena era circondata da pali d’ottone in
cima ai quali ardevano delle lanterne che illuminavano di rosso la metà inferiore
dell’anfiteatro. Sembrava quasi che la struttura stesse andando a fuoco. Talismano
desiderò che fosse così e che con essa bruciasse tutta la città!
«Carino, vero?» gli chiese Druss.
«Tu combatti là?»
«Dovrò farlo ancora una volta. Affronterò il campione gothir, Klay, quindi
tornerò alla mia fattoria da mia moglie.»
Druss passò all’ospite una coppa di rosso di Lentria e Talismano la sorseggiò.
«Tutte quelle bandiere di nazioni diverse. Perché? State preparando una guerra?»
«Da quello che ho capito,» spiegò Druss, «è il contrario. Le nazioni si sono
riunite qua per i Giochi dell’Amicizia. Dovrebbero servire a incoraggiare la
fratellanza tra le nazioni e i commerci.»
«I nadir non sono stati invitati a prendervi parte,» disse Talismano, girandosi e
rientrando nella stanza.
«Ah, beh, ragazzo, questa è la politica. Non che la capisca o la giustifichi.
Comunque, anche se loro avessero desiderato invitare i nadir, a quale tribù
bisognava mandare l’invito? Ne esistono centinaia che sono costantemente in
guerra tra loro. Non c’è un centro. Un capo.»
«Le cose cambieranno,» dichiarò Talismano. «Le profezie parlano dell’avvento
di un condottiero, un grande uomo. L’Unificatore!»
«Ho sentito che ci sono già stati parecchi cosiddetti unificatori.»
«Questo sarà diverso. I suoi occhi saranno di colore viola e avrà un nome che
nessun nadir ha mai scelto. Sta per arrivare, dopodiché il tuo mondo dovrà stare
attento.»
«Beh, vi auguro buona fortuna,» disse Druss sedendosi su un divano e
appoggiando i piedi sul tavolo. «Occhi viola, hai detto? Saranno interessanti da
vedere.»
«Essi saranno simili agli Occhi di Alchazzar,» disse Talismano. «Egli sarà
l’incarnazione del Grande Lupo delle montagne della Luna.»
La porta si aprì, Talismano si girò e vide entrare un bel giovane dai lunghi
capelli biondi legati a coda di cavallo, con indosso un mantello cremisi sopra una
lunga tunica di seta blu decoratacon degli opali. «Spero che tu mi abbia lasciato del
vino, vecchio cavallo,» esordì il nuovo arrivato, rivolgendosi a Druss. «Ho la gola
secca come l’ascella di una lucertola.»
«Devo andare,» disse Talismano avviandosi verso la porta. «Aspetta!» disse
Druss, alzandosi. «Sieben, sai dove si trovi la strada dei Tessitori?»
«No, ma nell’altra stanza c’è una pianta della città. Vado a prenderla.» Sieben
tornò qualche momento più tardi e aprì la cartina sul tavolo. «Quale quartiere?»
chiese a Talismano.
«Nord-ovest.»
Le dita affusolate di Sieben corsero lungo la mappa. «Eccola qua. Dietro il
Museo delle Antichità.» Fissò Talismano. «Esci di qua dalla porta principale e
continui lungo il corso finché non raggiungi la statua della dea della guerra, una
donna molto alta che regge una lunga lancia e ha un falco sulla spalla. Lascia la
statua alla tua sinistra e dopo circa un chilometro e mezzo vedrai il parco dei Poeti
davanti a te. Gira a destra e continua a camminare finché non raggiungi il Museo
delle Antichità. Ci sono quattro grosse colonne sormontate da una architrave sulla
quale è scolpita un aquila all’esterno del palazzo. La strada dei Tessitori è la prima
sulla destra dopo il palazzo. Vuoi che ripeta?»
«No,» disse Talismano. «La troverò.» E senza dire un altra parola il nadir lasciò
la stanza.
Appena la porta si chiuse Sieben rise. «La sua gratitudine mi travolge. Dove hai
incontrato quel ragazzo?»
«Era impegnato in una rissa e io gli ho dato una mano.» «Quanti morti?»
indagò Sieben.
«Nessuno, per quello che ne so.»
«Stai invecchiando, Druss. Era un nadir, vero? Ha del fegato a camminare da
solo per Gulgothir.»
«Sì, mi piace. Mi stava parlando dell’unificatore che dovrebbe arrivare presto,
un uomo con gli Occhi di Alchazzar, qualsiasi cosa significhi.»
«È abbastanza semplice da spiegare,» disse Sieben, versandosi una coppa di
vino. «È un’antica leggenda nadir. Centinaia di anni fa, tre sciamani nadir, uomini
di grande potere, o almeno creduti tali, decisero di creare una statua per gli dèi
dell’acqua e
della pietra. Attinsero al potere della terra e diedero forma alla statua che
chiamarono Alchazzar, dal nome della pietra delle montagne della Luna. Da quello
che ho capito aveva l’aspetto di un lupo gigante. Gli occhi erano due ametiste e i
denti erano d’avorio...»
«Arriva al punto, poeta!» sbottò Druss.
«Non hai pazienza, Druss. Cerca di sopportarmi. Secondo le leggende gli
sciamani risucchiarono tutta la magia della terra instillandola nel lupo. Essi lo
fecero al fine di poter controllare il destino dei nadir. Ma qualche tempo dopo, uno
degli sciamani rubò gli Occhi di Alchazzar e la magia cessò immediatamente.
Privati dei loro dèi, le tribù nadir, in pace tra di loro fino a quel momento,
cominciarono a combattersi a vicenda, situazione che continua anche ai nostri
giorni. Ecco qua! Una favola carina per conciliarti il sonno.»
«Cosa successe all’uomo che rubò gli Occhi?» chiese Druss. «Non ne ho la
minima idea.»
«Ecco quello che odio nelle tue storie poeta, sono poco dettagliate. Perché
fecero ricorso a tutta quella magia? Perché lo sciamano rubò gli Occhi? Dove sono
adesso i due gioielli?»
«Ignorerò i tuoi insulti, Druss, vecchio cavallo,» rispose Sieben, sorridendo.
«Sai perché? Perché quando si è sparsa la voce che tu eri malato le tue quotazioni
contro Klay sono salite a dodici a uno.»
«Malato? Non mi sono mai ammalato in vita mia. Chi ha messo in giro questa
diceria?»
Sieben alzò le spalle. «Io... credo che sia cominciato tutto quando non hai
presenziato al banchetto in onore del Dio-Re.»
«Dannazione! L’avevo dimenticato! Hai detto loro che ero malato?»
«Non credo di aver usato la parola malato... penso di aver detto più che altro...
ferito. Sì, ho detto proprio così, ho riferito che risentivi i postumi dello scontro. Il
tuo avversario era presente e mi ha chiesto di te. È un’ottima persona. Ha detto di
sperare che la profezia non influenzi il tuo modo di combattere.»
«Quale profezia?»
«Qualcosa riguardo al perdere la finale,» affermò Sieben, con noncuranza.
«Niente di cui tu ti debba preoccupare. Comunque puoi chiedere da solo. Egli ti ha
invitato a casa sua domani sera e io ti sarei molto grato se accettassi.»
«Tu me ne saresti grato? Devo supporre che sia implicata una donna in tutto
ciò?»
«Adesso che me ne parli, mi ricordo di aver incontrato una deliziosa cameriera
a palazzo. La ragazza crede che io sia un principe straniero.»
«Mi chiedo come si sia fatta questa opinione,» mormorò Druss.
«Non ne ho idea, vecchio ragazzo. Comunque l’ho invitata qua a cena domani
sera. Credo che ti piacerà Klay. È arguto, gentile e maschera molto bene la sua
arroganza.»
«Oh, sì,» grugni Druss. «Già mi piace.»
CAPITOLO SECONDO

La casa nella strada dei Tessitori era un vecchio edificio in pietra grigia
costruito in stile gothir: alto due piani e sormontato da un tetto di tegole in
terracotta rossa. Tuttavia le stanze della casa erano state arredate secondo lo stile
chiatze. I muri erano stati arrotondati e i locali avevano assunto la forma di cerchi e
ovali. I telai delle porte e anche i pannelli erano stati modificati allo stesso modo e
anche l’interno delle squadrate e funzionali finestre gothir era stato abbellito con
delle stupende coperture circolari.
Chorin-Tsu sedeva a gambe incrociate su un tappeto di seta ricamata del
Chiatze disteso nel centro del suo studio e fissava senza battere le palpebre l’uomo
di fronte a lui. Gli occhi del nuovo arrivato erano scuri, all’erta, e benché fosse
inginocchiato, come si usava in presenza di un ospite, il corpo era teso e pronto. A
Chorin-Tsu ricordava un serpente arrotolato, immobile ma sempre pronto a colpire.
Talismano spostò lo sguardo dagli occhi castano scuro del padrone di casa alle
pareti arrotondate sulle quali spiccavano sculture, oggetti in legno laccato e dipinti.
Gli occhi del giovane guardarono velocemente quelle opere d’arte senza mai
fermarsi a osservarne una in particolare e tornarono a concentrarsi sul piccolo
chiatze di fronte a lui. Gli piaccio? si chiese Chorin-Tsu, mano a mano che il
silenzio si prolungava. Sei un uomo degno di fiducia? Perché il destino ha scelto
proprio te per salvare la tua gente? Senza sbattere le palpebre Chorin-Tsu
continuò a studiare il ragazzo. Aveva una fronte alta che denotava intelligenza e il
colore della sua pelle era più vicino alla tonalità dorata dei chiatze che al giallo
itterico dei nadir. Quanti anni aveva? Diciannove? Venti? Così giovane e tuttavia
irradiava potere, forza e determinazione. Tu hai molta esperienza, malgrado la tua
giovane età, pensò il vecchio. E cosa vedi di fronte a te, giovane guerriero? Un
vecchio incartapecorito, una lanterna la cui fiamma comincia a spegnersi?
Oppure un anziano in una stanza piena d’opere d’arte! Beh, un tempo ero forte
come te e anch’io avevo dei grandi sogni. Al ricordo della gioventù la sua mente
cominciò a vagare, ma gli occhi di Talismano, neri come la notte, lo riportarono
alla realtà. Chorin-Tsu fu attraversato da un leggero brivido di paura: il ragazzo
stava diventando freddo e impaziente.
«Potresti essere così gentile da mostrarmi il tuo segno di riconoscimento,»
quasi sussurrò l’imbalsamatore, usando l’idioma del sud. Talismano infilò una
mano nella tunica, tirò fuori una moneta su cui era incisa la testa di un lupo e la
porse al vecchio che l’afferrò con le dita tremanti e si inclinò in avanti per esami-
narla. Il giovane nadir si trovò a fissare la piccola treccia di capelli bianchi che
spuntava in mezzo alla testa rasata di Chorin-Tsu. «È una moneta interessante,
ragazzo. Tuttavia, mi rammarica dire che tutti potrebbero possederne una,» disse il
vecchio con un sospiro. «Potresti averla presa al vero messaggero.»
Talismano lo gratificò con un freddo sorriso. «Nosta Khan mi ha detto che tu
sei un mistico, Chorin-Tsu, quindi non dovresti avere molte difficoltà nel giudicare
la mia integrità.»
C’erano due coppe d’argilla piene d’acqua posate sul tappeto. Il giovane fece
per prenderne una, ma l’imbalsamatore gli fece cenno con la mano di non farlo.
«Non ancora, Talismano. Perdonami, ma ti dirò io quando dovrai bere. Per quanto
riguarda quello che mi hai appena detto, Nosta Khan non stava parlando di poteri
psichici. Non sono mai stato un vero mistico. È tutta la vita che faccio lo storico,
Talismano. Ho studiato i reperti che ho trovato, ho esaminato i grandi siti storici,
ma più di tutto ho studiato gli uomini. Più studio la razza umana e meglio ne
capisco le debolezze. Ma, la cosa curiosa riguardo allo studio è che quando viene
condotto con mente aperta ti fa scoprire di essere molto piccolo. Scusami, la
filosofia non è una preoccupazione dei nadir.»
«Perché siamo selvaggi, vuoi dire?» rispose il nadir, senza rancore. «Forse
dovrei lasciare la risposta al prete filosofo Dardalion, che disse: “La risposta a una
domanda genera altre sette domande. Quindi uno studente che aumenta la propria
conoscenza non fa altro che aumentare la sua consapevolezza di quanto esiste
ancora da imparare”. Basta, maestro imbalsamatore?»
Chorin-Tsu mascherò la sua sorpresa e fece un profondo inchino. «Basta,
ragazzo. Ti prego di perdonare questo vecchio per la sua scortesia. Sono giorni
inebrianti e temo che l’agitazione influisca sulle mie maniere.»
«Non mi sono offeso,» rispose Talismano. «La vita nelle steppe è molto dura e
non c’è molto tempo per condurre un’esistenza contemplativa.»
Il vecchio si inchinò di nuovo. «Non voglio cercare di trovare una scusa per la
mia scortesia, giovane signore, ma mi sono molto stupito che un guerriero nadir
conoscesse le parole di Dardalion dei Trenta.»
«Si dice che il mistero aggiunga un certo sapore alle relazioni,» disse
Talismano. «Comunque, stavi parlando dei tuoi studi.»
La simpatia che Chorin-Tsu provava per il giovane aumentò ulteriormente. «I
miei studi comprendono anche l’astrologia, la numerologia, le rune, la lettura della
mano, e gli incantesimi per dare forma. Tuttavia rimangono molte cose che
sconcertano la mia mente. Ti farò un esempio.» Tirò fuori dalla cintura un coltello
da lancio con l’elsa in avorio e lo puntò contro il bersaglio a venti passi di distanza.
«Quando ero giovane potevo lanciare quest’arma e centrare sempre il cerchio
d’oro, ma ora, come vedi, le mie dita sono rugose e tremanti. Fallo per me,
Talismano.» Così dicendo gli passò il coltello. Il giovane nadir lo prese al volo e
dopo averlo soppesato un attimo per capirne il bilanciamento, caricò il braccio
piegandolo dietro la testa e lanciò l’arma. La lama di metallo brillò alla luce della
lanterna mentre, rapida come un lampo, attraversava la stanza. Si piantò nel legno
mancando il cerchio d’oro di qualche millimetro.
«Il bersaglio è coperto di piccoli simboli. Va’ e dimmi quale simbolo hai
colpito,» gli ordinò Chorin-Tsu.
Talismano si alzò e attraversò la stanza. Il bersaglio era stato dipinto con dei
curiosi geroglifici chiatze tracciati con vernice dorata. Il giovane ne conosceva
pochissimi. La lama del coltello si era conficcata in un ovale dentro il quale era
stato disegnato un artiglio. Il nadir conosceva il significato di quel simbolo. «Qual
è il simbolo?» gli chiese Chorin-Tsu e Talismano rispose.
«Bene, bene. Torna da me, ragazzo mio.»
«Ho superato la prova?»
«La prima. Ecco la seconda. Bevi da una di quelle coppe.»
«Qual è quella che contiene il veleno?» chiese Talismano.
Chorin-Tsu non disse nulla e Talismano fissò le coppe. «Improvvisamente non
ho più sete.»
«Tuttavia dovrai bere lo stesso,» insistette Chorin-Tsu.
«Dimmi lo scopo di questo gioco, vecchio. Poi deciderò.»
«So che puoi lanciare un coltello, Talismano, l’ho visto con i miei occhi. Ma sai
pensare? Sei degno di servire l’Unificatore, di portarlo al nostro popolo? Come tu
hai giustamente supposto una delle coppe contiene un veleno letale. Morirai nel
momento stesso in cui il liquido toccherà le tue labbra. L’altra contiene dell’acqua
e basta. Come sceglierai?»
«Non mi hai dato abbastanza indicazioni,» disse Talismano.
«Ti sbagli.»
Talismano rimase seduto tranquillo a pensare al problema. Chiuse gli occhi e
cercò di ricordare ogni parola pronunciata dal vecchio. Si inclinò in avanti e prese
la coppa di sinistra facendola ruotare con le dita per osservarla bene, quindi ripeté
la stessa operazione con la seconda. Erano identiche. Abbassò lo sguardo e
accennò un sorriso. Sul tappeto erano ricamati gli stessi simboli del bersaglio e
sotto la coppa di sinistra c’era l’artiglio inscritto nell’ovale. Alzò la coppa e bevve
un sorso d’acqua: era dolce e fresca.
«Bene, sei un osservatore,» disse Chorin-Tsu. «Ma non trovi stupefacente il
fatto che tu abbia lanciato il coltello e centrato il simbolo esatto quando avresti
potuto colpirne un’altra dozzina?»
«Come facevi a sapere che l’avrei colpito?»
«Così era scritto nelle stelle. Anche Nosta Khan lo sapeva. Lui grazie al suo
talento e io grazie ai miei studi. Adesso rispondimi, qual è la terza prova?»
Talismano fece un profondo respiro. «L’artiglio è il simbolo di Oshikai
Flagello del Demone e l’ovale è il simbolo di Shulsen, sua moglie. Quando Oshikai
volle sposare Shul-sen il padre della donna lo sottopose a tre prove, la prima di
abilità nel tiro, la seconda di intelligenza e la terza... richiedeva un sacrificio.
Oshikai doveva uccidere un demone che era stato suo amico. Non conosco nessun
demone Chorin-Tsu.»
«Come tutti i miti, ragazzo mio, essi servono per degli scopi che vanno ben al
di là della ricchezza di metafore con cui è narrata la storia. Oshikai era un uomo
sempre molto nervoso che cedeva facilmente all’ira. Il demone era semplicemente
una parte di lui, la parte più selvaggia e pericolosa della sua personalità. Il padre di
Shul-sen sapeva tutto ciò e voleva che Oshikai giurasse a se stesso che l’avrebbe
amata fino alla fine dei loro giorni, che non le avrebbe mai fatto del male e che non
l’avrebbe mai abbandonata per un’altra.»
«Cosa ha a che fare tutto ciò con me?»
«Tutto.» Chorin-Tsu batté una volta le mani. La porta si aprì e una giovane
ragazza chiatze entrò nella stanza. Si inchinò a tutte e due gli uomini quindi si
inginocchiò di fronte a Chorin-Tsu fino a toccare il pavimento con la fronte.
Talismano la fissò. Era bellissima, aveva i capelli lunghi e scuri come le penne di
un corvo e gli occhi a mandorla. Le labbra erano carnose e il corpo, coperto da una
camicia di seta bianca e una lunga gonna di raso, era snello.
«Questa è Zhusai, mia nipote. È mio desiderio che tu la porti con te nella tua
ricerca. È anche desiderio di Nosta Khan e di tuo padre.»
«E se rifiutassi?»
«Non verrà detta un’altra parola. Tu lascerai la mia casa e tornerai alle tende
della tua gente.»
«E la ricerca?»
«Continuerà senza il mio aiuto.»
«Non sono pronto a prendere moglie. Ho dedicato la mia vita alla vendetta e al
giorno dell’Unificatore. Ma anche se decidessi di sposarmi, allora come figlio di un
capo sarebbe mio diritto scegliere la mia donna ed è mio desiderio che lei sia nadir.
Ho molto rispetto per i chiatze, ma non sono la mia gente.»
Chorin-Tsu si inclinò in avanti. «I capi non hanno diritti: questo è uno dei
grandi segreti del comando. Comunque, ragazzo, ti sei sbagliato. Zhusai non
diventerà tua moglie. Lei è promessa all’Unificatore; sarà la Shul-sen per il suo
Oshikai.»
«Allora non capisco,» ammise Talismano, sollevato. «Qual è il sacrificio che
mi è richiesto?»
«Accetti la custodia di Zhusai? La proteggerai a costo della tua stessa vita?»
«Se questo è quanto mi è richiesto allora così sia,» promise Talismano.
«Adesso, vuoi dirmi qual è il sacrificio?»
«Forse non ce ne sarà nessuno. Zhusai mostra al nostro ospite la sua stanza.»
La ragazza si inchinò nuovamente, si alzò silenziosamente in piedi e fece strada a
Talismano.
Alla fine del corto corridoio, Zhusai aprì una porta ed entrò nella stanza. Il
pavimento era coperto di tappeti e coltri, e il locale era privo di sedie o ornamenti.
«Questa è la tua stanza,» disse lei.
«Grazie, Zhusai. Dimmi una cosa, sei mai stata nel deserto?»
«No, lord.»
«La prospettiva del nostro viaggio ti crea qualche problema? Attraverseremo
delle terre ostili e dovremo affrontare molti pericoli.»
«C’è solo un pericolo che io temo, lord,» rispose lei.
«E qual è?» Appena finì di formulare la domanda la ragazza irrigidì il volto e
uno strano lampo balenò nei suoi occhi per un istante. In quel momento la calma e
condiscendente ragazza chiatze era scomparsa rimpiazzata da una donna dallo
sguardo duro. Poi, altrettanto improvvisamente quanto era apparsa, l’espressione
dura scomparve per essere nuovamente rimpiazzata dalla maschera di ragazza
timida.
«È meglio non parlare delle paure, lord, poiché la paura è affine alla magia.
Buona notte. Dormi bene.»
Uscì e chiuse la porta.
* * *

La risata divertita di Sieben riempì la stanza e l’ambasciatore drenai arrossì.


«Penso che troverai che non c’è niente da ridere,» gli disse freddamente. «Qui
stiamo parlando di diplomazia internazionale e in questo campo i capricci
individuali devono essere messi da parte.» Il poeta si appoggiò allo schienale della
sedia e studiò il volto magro dell’ambasciatore. I capelli color grigio metallo erano
ben pettinati e profumavano. I suoi vestiti, un mantello di lana bianca e una tunica
di seta blu bordata in oro, erano immacolati e molto costosi. Le dita del
diplomatico giocherellavano con la sciarpa cremisi e la spilla da cerimonia, un
cavallo d’argento rampante, marchio distintivo del suo rango. L’uomo era
arrabbiato e non faceva nulla per nasconderlo e questo, decise Sieben, era un
insulto ben calcolato. I diplomatici erano dei maestri nell’uso dei modi untuosi e di
fronte ai loro superiori avevano sempre un’espressione amabile. «Non sei
d’accordo?» chiese Majon.
«Raramente sono in disaccordo con i politicanti,» gli disse Sieben. «Sono
dell’idea che il più imbranato di voi potrebbe convincermi che lo sterco di cavallo
può avere lo stesso sapore di una torta al miele. E il più in gamba potrebbe
addirittura farmi credere che io ero stato l’unica persona al mondo a non averne
apprezzato l’aroma.»
«Questo è un commento decisamente oltraggioso,» sbottò Majon.
«Le mie scuse, ambasciatore. Voleva essere un complimento.»
«Cercherai di convincerlo, sì o no? Si tratta di una questione importantissima.
Giuro, sul ricordo di Missael, che si potrebbe parlare di rischio di guerra!»
«Oh, non ne dubito, ambasciatore. Io ho visto il Dio-Re, ricordi?» Majon
spalancò gli occhi e portò velocemente un dito sulle labbra. Sieben si limitò a
ghignare. «Ogni monarca che toglie la carica a un politico e promuove il suo gatto
al rango di ministro ha la mia approvazione.»
Majon si alzò dalla sedia, si avvicinò alla porta, l’aprì e diede una sbirciata in
corridoio, quindi rientrò nella stanza e si fermò davanti al poeta. «Non è mai saggio
prendere in giro un monarca, chiunque egli sia, specialmente quanto ti trovi nella
sua capitale. Il popolo drenai e il gothir sono in pace. Speriamo che rimangano
tali.»
«Quindi, al fine di assicurare la pace,» concluse Sieben, il cui sorriso stava
scomparendo, «Druss dovrà perdere contro Klay?»
«In poche parole: sì. Non sarebbe molto... appropriato... se Druss vincesse.»
«Capisco. Hai poca fiducia nella profezia del Dio-Re.»
Prima di rispondere Majon si versò una coppa di vino e ne sorseggiò un po’.
«Non è una questione di fiducia, Sieben; si tratta di politica. Ogni anno, in questo
periodo, il Dio-Re fa una profezia. Si sono sempre avverate tutte. Dato che le sue
profezie riguardano sempre gli uomini, alcune persone credono che siano gli
uomini stessi ad adoperarsi affinché si avverino nella maniera più fedele possibile.
Altri accettano semplicemente che il loro monarca sia un dio. Comunque, al punto
in cui ci troviamo la questione è semplicemente accademica. Egli ha predetto che
Klay vincerà l’oro. Se Druss dovesse vincere il fatto verrebbe visto come un
insulto al Dio-Re e interpretato come un complotto drenai per destabilizzare il
governo. Le conseguenze potrebbero essere disastrose»
«Suppongo che potrebbe promuovere il suo gatto a generale dell’esercito e
ordinargli di attaccare Dros Delnoch. Una prospettiva terrificante!»
«C’è un po’ di cervello in quel tuo bel cranio? L’esercito di cui tu parli conta
più di cinquantamila uomini, molti di loro sono veterani che hanno combattuto
contro le tribù nadir e respinto le scorribande dei sathuli, ma non è questo il punto.
Qua nel Gothir ci sono tre fazioni principali. Una crede che al Gothir tocchi go-
vernare il mondo poiché così hanno detto gli dèi. Gli altri cercano di conquistare il
mondo senza preoccuparsi di avere un benestare divino. Capisci? Per ragioni che
solo loro sanno le due fazioni si odiano. Questa nazione si trova sempre sull’orlo
della guerra civile. Mentre costoro combattono tra di loro i drenai non devono
sostenere dei costi elevatissimi per cercare di resistere a una invasione.»
«Costi? Stiamo parlando di denaro?»
«Certo che parliamo di denaro,» si infuriò ulteriormente Majon. «Mobilitazione
degli uomini, addestramento, nuove armature, spade e corazze. Cibo per le reclute.
E dove si trovano le reclute? Nei campi. Contadini e fattori. Quando essi sono
nell’esercito chi miete i raccolti? La risposta è che molti campi non verranno
mietuti e il prezzo del grano salirà alle stelle. E infine cosa avremo ottenuto? La
fortezza resisterà e gli uomini torneranno a casa per scoprire che le tasse sono state
aumentate per la guerra. Cinquantamila soldati addestrati infuriati contro il
governo.»
«Non hai parlato dei morti,» gli fece notare Sieben, con calma.
«Giusto. La minaccia di malattia per via dei cadaveri e i costi per il
seppellimento. Poi ci saranno gli storpi che diventeranno un peso in grado di
succhiare soldi alle casse dello stato all’infinito.»
«Credo che tu ti sia spiegato bene, ambasciatore,» lo interruppe Sieben. «La tua
umanità ti fa onore. Ma hai parlato di tre fazioni e ne hai descritte solo due.»
«Infine c’è la guardia Reale, diecimila uomini, la crema dell’esercito gothir.
Sono stati loro a mettere sul trono il Dio-Re dopo l’ultima insurrezione e fanno di
tutto perché vi rimanga. Nessuna delle due fazioni è tanto potente da poter ottenere
una vittoria sull’altra senza l’appoggio della Guardia. Quindi tutti rimangono
immobili, incapaci di muoversi. Idealmente bisognerebbe che le cose continuassero
a rimanere così.»
Sieben rise. «Intanto un pazzo siede sul trono e il suo regno è caratterizzato da
omicidi, torture e suicidi coatti?»
«Questo è un problema del Gothir, Sieben. Noi ci dobbiamo preoccupare dei
drenai. Nelle terre del Gothir ne vivono circa tremila e in caso di ostilità sarebbero
i primi a perdere la vita. Mercanti, operai, medici e sì, anche i diplomatici. Vuoi
dire che le loro vite non hanno significato, Sieben?»
«Ben fatto, Majon,» disse Sieben, battendo le mani. «Eccoci arrivati allo sterco
di cavallo che passa per una torta al miele. Certo che le loro vite sono importanti.
Ma Druss non è responsabile delle loro vite, né degli atti di un pazzo. Lo capisci
questo, ambasciatore? Niente di ciò che tu o il Dio-Re farete cambierà le intenzioni
di Druss. Egli non è uno stupido e vede la vita in maniera molto chiara. Druss
entrerà nell’arena per affrontare Klay e farà tutto il possibile per vincere. Nessuno
potrebbe riuscire a convincerlo del contrario. Non funzionerebbe nessun
argomento. Druss direbbe che tutto ciò che il Dio-Re decide di fare o non fare sono
solo affari suoi. Ma a parte tutto questo, Druss rifiuterebbe per una ragione molto
semplice.»
«Quale?»
«Non sarebbe giusto.»
«Credevo che mi avessi detto che era intelligente!» sbottò Majon. «Il giusto,
infatti! Che cosa ha a che fare il giusto con tutto ciò? Noi abbiamo a che a fare con
un... monarca unico... sensibile e...»
«Abbiamo a che fare con un pazzo che se non fosse un re sarebbe già rinchiuso
per salvaguardare la sua stessa incolumità,» rispose Sieben.
Majon si stropicciò gli occhi stanchi. «Ti prendi gioco della politica,» disse con
calma. «Ringhi contro la diplomazia. Ma come credi che il mondo rimanga in
pace? Te lo dico io Sieben. Uomini come me viaggiano in posti come questo,
mangiamo quelle che tu chiami le torte di sterco di cavallo e, sorridendo, diciamo
quanto sono nutrienti. Noi ci muoviamo nello spazio tra l’ego della gente,
massaggiandola mentre cammina. Non facciamo tutto ciò per i soldi, ma per la
pace e la prosperità. Lo facciamo perché i contadini, i mercanti, i chierici e gli
operai del Drenai possano crearsi le loro famiglie in un clima di pace. Druss è un
eroe: egli può permettersi il lusso di vivere la vita come meglio crede e di dire la
sua verità. I diplomatici no. Mi aiuterai a convincerlo?»
Sieben si alzò in piedi. «No, ambasciatore, non lo farò. Ti stai sbagliando,
anche se ti concedo il beneficio del dubbio.» Si avviò verso la porta e dopo qualche
passo si girò. «Forse hai mangiato troppe di quelle torte e il sapore comincia a
piacerti.»
Dietro un pannello del muro un servitore si allontanò silenziosamente per
riferire la conversazione.

Garen-Tsen tirò sollevò i lembi inferiori del suo vestito e cominciò a scendere i
gradini consumati che portavano alle segrete. Il puzzo era molto intenso in quel
luogo, ma l’alto chiatze non vi fece caso. Le segrete dovevano puzzare. Un
prigioniero trascinato in quel luogo veniva assalito dal buio, dall’umidità, dal fe-
tore della paura e tutto ciò serviva a rendere l’interrogatorio molto più semplice.
Giunto nel corridoio si fermò e ascoltò l’urlo di un uomo che proveniva dalla
sua sinistra. Il rumore era attutito dalle spesse mura in pietra della cella. Due
guardie erano in piedi là vicino. Garen-Tsen fece cenno a una di esse di
avvicinarsi. «Chi è che si sta lamentando?» gli chiese.
La guardia, un uomo grasso, con la barba e i denti macchiati, tirò
rumorosamente su con il naso. «Maurin, signore. È stato portato qua ieri.»
«Lo vedrò dopo che avrò parlato con il senatore,» disse GarenTsen.
«Sì, signore.» L’uomo arretrò e Garen-Tsen entrò nella stanza degli
interrogatori. All’interno, seduto su una sedia, c’era un vecchio con il volto
escoriato e gonfio, l’occhio destro quasi chiuso e il sotto tunica bianco sporco di
sangue. «Buon giorno, senatore,» disse Garen-Tsen, avvicinandosi a una sedia
dallo schienale alto che la guardia aveva preparato per lui. Si sedette di fronte al
vecchio che lo fissò con sguardo irato e minaccioso. «Se ho ben capito hai deciso
di non collaborare?»
Il prigioniero fece un lungo e tremante respiro. «Appartengo alla famiglia reale,
Garen-Tsen. La legge proibisce espressamente la tortura per quelli come me.»
«Ah, sì, la legge, ma se non sbaglio vieta anche espressamente di complottare
contro il re. Cercare di rovesciare il governo si configura come reato di
cospirazione.»
«Certo che è così!» scattò il prigioniero. «Ed è proprio questo il motivo per cui
non potrei mai macchiarmi di simili atti. Quell’uomo è mio nipote; pensi che io stia
progettando di uccidere un componente della mia famiglia?»
«E adesso aggiungiamo l’eresia alle tue imputazioni,» commentò Garen-Tsen,
tranquillo. «Non bisogna mai riferirsi al Dio-Re definendolo un uomo.»
«Mi è scappato,» mormorò il senatore.
«Tali disattenzioni si pagano care. Ora, parlando del presente. Tu hai quattro
figli, tre figlie, sette nipoti, quattordici cugini, una moglie e due amanti. Lascia che
sia franco, senatore. Stai per morire. L’unico punto da chiarire è se morirai da solo
o con tutta la tua famiglia.»
Il prigioniero impallidì, ma continuò a dimostrarsi coraggioso. «Sei un diavolo
malvagio, Garen-Tsen. È possibile scusare gli atti di mio nipote il re, povero
ragazzo, è matto. Ma tu! Tu sei un uomo intelligente. Che gli dèi ti maledicano!»
«Certo, certo, sono sicuro che lo faranno. Devo ordinare l’arresto dei membri
della tua famiglia? Non credo che a tua moglie piacerebbe l’atmosfera delle
segrete.»
«Cosa vuoi da me?»
«Stanno preparando un documento che tu dovrai firmare. Appena sarà finito e
firmato ti sarà permesso di prendere il veleno e la tua famiglia verrà risparmiata.»
Garen-Tsen si alzò dalla sedia. «E ora dovrai scusarmi. Ci sono altri traditori che
devono essere interrogati.»
Il vecchio fissò il chiatze. «Qua c’è solo un traditore e quello sei tu, cane di un
chiatze. Un giorno anche tu verrai trascinato urlante in questa stanza.»
«Forse finirà così, senatore. Tu, comunque, non vivrai per vederlo.»

Un’ora più tardi Garen-Tsen uscì dal suo bagno profumato. Un giovane
servitore lo asciugò rapidamente con un asciugamano caldo. Un secondo servitore
si versò sulle mani un po’ di olio profumato e lo spalmò sulle spalle e sulla schiena
del chiatze. Quando ebbe finito un terzo ragazzo si fece avanti reggendo un vestito
color porpora. Garen-Tsen alzò le braccia e si fece infilare l’abito dalle mani
esperte del giovane. Due ciabatte decorate vennero appoggiate sul tappeto ai suoi
piedi. Il ministro le infilò ed entrò nel suo studio. La scrivania di quercia intagliata
era stata appena lucidata con della cera d’api e profumata con la lavanda. Sul piano
c’erano tre calamai e quattro penne. Garen-Tsen si sedette sulla sedia imbottita
rivestita di cuoio, prese una penna, uno spesso foglio di carta bianca e cominciò a
stendere il rapporto.
Quando la campana di mezzogiorno risuonò nel cortile sottostante il suo studio,
qualcuno bussò alla porta. «Avanti!» disse. Un uomo magro dai capelli scuri entrò
nella stanza, si avvicinò alla scrivania e salutò con un inchino.
«Bene, Oreth, fai il tuo rapporto.»
«I figli del senatore Gyall sono stati arrestati. La moglie si è suicidata. Tutti gli
altri membri della famiglia sono fuggiti, ma gli stiamo dando la caccia. La moglie
del nobile chiamato Maurin ha trasferito dei fondi in una banca di Drenan: circa
ottantamila pezzi d’oro. I suoi due fratelli sono già nella capitale del Drenai.»
«Manda un messaggio ai nostri agenti a Drenan e dì loro di occuparsi dei
traditori.»
«Sì, signore.»
«C’è dell’altro, Oreth?»
«Solo una cosa di poco conto, signore. Si tratta del lottatore drenai, Druss.
Sembra che abbia tutte le intenzioni di vincere. Il suo ambasciatore cercherà di
dissuaderlo, ma l’amico del lottatore, Sieben, ha detto che non sentirà ragione.»
«Chi lo sta seguendo?»
«Jarid e Copass.»
«Ho parlato con Klay e mi ha detto che il drenai si dimostrerà un valido
opponente. Molto bene, fa in modo che venga assalito. Una ferita profonda
dovrebbe essere sufficiente.»
«Non credo che sarà così semplice, lord. L’uomo è stato coinvolto in una rissa
e ha rotto le ossa a diversi rapinatori. Forse sarà necessario ucciderlo.»
«Allora uccidetelo. Devo prestare attenzione a faccende ben più importanti,
Oreth. Ho poco tempo da dedicare a questi problemi insignificanti.» Garen-Tsen
intinse la penna nel calamaio e riprese a scrivere.
Oreth si inchinò e uscì.
Garen-Tsen continuò a lavorare per quasi un’ora. Le parole del Senatore,
tuttavia, continuavano a echeggiare nella sua mente: Un giorno anche tu verrai
trascinato urlante in questa stanza. In quel momento era molto probabile che
andasse finire in quel modo. Garen-Tsen si trovava in cima a una montagna, però
la sua posizione era precaria perché dipendeva interamente dai capricci di un folle.
Appoggiò la penna e cercò di contemplare il proprio futuro. Fino a quel momento,
più che altro grazie ai suoi sforzi, entrambi le fazioni erano rimaste in equilibrio,
ma tale armonia non poteva essere mantenuta a lungo, non con la malattia del re
che peggiorava sempre di più e a una velocità impressionante. Presto la sua pazzia
sarebbe stata troppo difficile da controllare e ci sarebbe stato un inevitabile bagno
di sangue. Garen-Tsen sospirò.
«Sulla cima di una montagna,» rifletté ad alta voce. «Non si tratta di una
montagna, bensì di un vulcano in attesa di esplodere.»
In quel momento la porta dello studio si aprì ed entrò un robusto soldato di
mezza età che indossava il lungo mantello nero della guardia reale. Gli strani occhi
di Garen-Tsen fissarono l’uomo. «Benvenuto, lord Gargan. Come posso aiutarti?»
Il militare si sedette pesantemente su una sedia, si tolse l’elmo di bronzo ornato
con motivi d’argento e l’appoggiò sulla scrivania. «Il pazzo ha ucciso la moglie,»
disse.

Chorin-Tsu venne condotto a palazzo da quattro guardie reali. Due avevano il


compito di scortarlo e le rimanenti di portare il baule in cui il vecchio teneva gli
strumenti che usava per imbalsamare. Il respiro del chiatze era affannato poiché
aveva dovuto recarsi di fretta e furia a palazzo senza fare domande.
Le guardie lo guidarono attraverso le aree riservate alla servitù, su per un
scalinata coperta di tappeti fino a raggiungere il dedalo costituito dagli
appartamenti reali. Superata la leggendaria Sala delle concubine, le Guardie
entrarono nella Cappella reale e si inchinarono davanti al Dio-Re. Una volta
raggiunto il retro della cappella i soldati cominciarono a rallentare come se voles-
sero fare meno rumore possibile e Chorin-Tsu ne approfittò per riprendere fiato.
Infine arrivarono di fronte alla porta a due pannelli della stanza del re. Davanti a
essa c’erano due uomini. Uno era un soldato dalla barba biforcuta e l’altro, alto,
magro come una bacchetta e con il volto privo d’espressione era il primo ministro,
Garen-Tsen.
Chorin-Tsu si inchinò di fronte al suo connazionale. «Che i signori del paradiso
superiore ti benedicano,» lo salutò l’imbalsamatore, parlando in chiatze.
«È scortese e inappropriato usare una lingua straniera negli appartamenti reali,»
lo ammonì Garen-Tsen, usando l’idioma del meridione. Chorin-Tsu si inchinò
nuovamente. Garen-Tsen batté un lungo dito sulla seconda nocca della sua mano
destra, quindi incrociò le braccia sul petto appoggiando il dito sul bicipite. Chorin-
Tsu aveva capito il messaggio lanciato con l’alfabeto dei segni: Fai quello che ti
verrà chiesto e vivrai!
«Ti porgo le mie scuse, lord,» disse Chorin-Tsu. «Perdona il tuo umile servo.»
Unì le mani e si inchinò ancor più profondamente di prima, arrivando a toccare i
pollici con il mento.
«È richiesta la tua abilità, maestro imbalsamatore. Nessun altro entrerà in
questa stanza finché non avrai completato la tua... opera. Chiaro?»
«Certo, lord.» Le guardie appoggiarono il baule vicino alla porta e Chorin-Tsu
la aprì quel tanto che bastava per far entrare il vecchio chiatze e il suo baule
Quando la porta si chiuse alle sue spalle, Chorin-Tsu cominciò a fissare
l’appartamento. I tappeti, come i drappi che pendevano intorno al letto, erano della
migliore seta del Chiatze. Il letto stesso era di per sé un’opera d’arte. Una struttura
in legno finemente intagliato, ricoperto da un sottile strato d’oro. Ogni centimetro
della stanza sfoggiava una ricchezza e una stravaganza che solo un monarca poteva
permettersi.
Anche il cadavere...
La donna penzolava sopra le lenzuola sporche di sangue con le braccia bloccate
da catene d’oro che pendevano da un anello appeso al soffitto sopra il letto.
Chorin-Tsu aveva visto la regina solo due volta prima d’allora. Alla parata durante
il suo matrimonio con il re e due settimane prima, quando erano iniziati i giochi
dell’amicizia. Quel giorno la sovrana aveva impersonato il ruolo di Bokat, dea
della saggezza e benedetto la cerimonia d’apertura. In quell’occasione Chorin-Tsu
era riuscito a vederla da vicino. La donna aveva biasciato le parole di rito con lo
sguardo perso nel nulla
L’imbalsamatore si sedette, prese a osservare il corpo immobile e dopo qualche
attimo si lasciò sfuggire un sospiro. Proprio come nel giorno della cerimonia
d’apertura dei giochi, la regina indossava l’Elmo di Bokat, un manufatto d’oro con
due ali che spuntavano dai lati e due lunghe protezioni per le guance. ChorinTsu
non conosceva molto bene i miti del Gothir, ma sapeva cosa stava osservando.
Bokat era la moglie di Missael, il dio della guerra. Il loro figlio, Caales, futuro
Signore della battaglia, era uscito già adulto dalla pancia della madre.
Ma non era stato quel mito a ispirare quella follia. No. Bokat era stata catturata
dal nemico e gli dèi del Gothir avevano scatenato una guerra. Il mondo era stato
arso dalle frecce infuocate di Missael. Bokat era stata catturata da altri dèi ed era
stata appesa con delle catene fuori dalle mura della Città Magica. Suo marito,
Missael, era stato avvertito che se avesse attaccato, lei sarebbe stata la prima a
morire. Nel sentire quelle parole il dio aveva preso il suo arco, aveva piantato una
freccia nel cuore della moglie, dopodiché i suoi compagni si erano lanciati alla
carica. A battaglia finita, egli aveva estratto la freccia dal petto di Bokat e le aveva
baciato la ferita che era guarita immediatamente. La dea si era svegliata e aveva
abbracciato il marito.
In quella stanza qualcuno aveva cercato di ripetere la leggenda. La freccia
sporca di sangue giaceva sul pavimento. Stancamente, Chorin-Tsu salì sul letto e
tolse i fermi che chiudevano gli anelli d’oro intorno ai polsi della regina. Il corpo
cadde sul giaciglio e l’elmo rotolò a terra emettendo un sordo clangore. I capelli
biondi della donna si sciolsero e Chorin-Tsu notò che la radice era di uno strano
colore castano.
Garen-Tsen entrò nella stanza e i due uomini cominciarono a dialogare tramite
il linguaggio dei segni.
«Il Dio-Re ha cercato di salvarla. Quando ha visto che il sangue non si
fermava ha avuto un attacco di panico e ha fatto chiamare il medico reale.»
«C’è sangue ovunque,» si lamentò Chorin-Tsu. «Non posso lavorare in simili
condizioni.»
«Devi! A nessuno verrà permesso di venire a conoscenza di...» Le dita di
Garen-Tsen esitarono. «...questa farsa.»
«Quindi il medico è morto?»
«Sì»
«E io farò la stessa fine una volta finito il lavoro.»
«No. Ho già fatto i preparativi affinché tu possa uscire da palazzo senza essere
notato. Andrai a sud, a Dros Delnoch.»
«Ti ringrazio, Garen-Tsen.»
«Farò lasciare una cassa fuori dalla stanza. Mettici tutte le... lenzuola sporche.
Quanto tempo impiegherai a terminare il lavoro?» terminò ad alta voce.
«Tre ore. Forse di più.»
«Tornerò per allora.»
Il ministro lasciò la stanza e Chorin-Tsu sospirò. Quell’uomo gli aveva mentito,
non sarebbe mai scappato a sud. Allontanando il pensiero, il vecchio andò al suo
baule, prese le ampolle con i liquidi per l’imbalsamazione, i coltelli, i raschietti e li
dispose ordinatamente su un tavolo vicino al letto.
Un pannello dorato situato sul retro della stanza si aprì. ChorinTsu si mise
prontamente in ginocchio distogliendo lo sguardo, ma riuscì lo stesso a vedere la
vernice color oro che ricopriva il volto del re e il sangue rappreso sulle sue labbra.
Doveva essersele sporcate quando aveva baciato il petto della moglie.
«Adesso la sveglierò,» affermò il Dio-Re. Si avvicinò al corpo esanime, si
inginocchiò e vi premette le labbra contro. «Vieni a me moglie-sorella. Apri gli
occhi dea della morte. Vieni a me, te lo ordino!»
Chorin-Tsu rimase inginocchiato con gli occhi chiusi. «Te lo ordino!» urlò il
Dio-Re, poi cominciò a piangere e i singhiozzi echeggiarono nella stanza. «Ah,»
disse improvvisamente. «Mi sta prendendo in giro. Fa finta di essere morta. Chi
sei?»
Chorin-Tsu sussultò appena capì che il re si stava rivolgendo a lui. Alzò la testa
e fissò il volto della follia. Gli occhi azzurri del monarca spiccavano contro la
maschera dorata e avevano un’espressione amichevole e gentile. Chorin-Tsu fece
un lungo e lento respiro. «Sono l’imbalsamatore reale, sire.»
«Hai gli occhi a mandorla, ma non sei un nadir. Hai la pelle color oro come
quella del mio amico, Garen. Sei chiatze.»
«Sì, sire.»
«Mi adorano là? Nella tua patria natia, intendo.»
«Sono quarantadue anni che vivo qua, sire. Purtroppo non ricevo notizie dalla
mia patria.»
«Vieni, parliamo. Siediti sul letto.»
Chorin-Tsu si alzò puntando i suoi occhi scuri sul giovane Dio-Re. Era di
corporatura media e snella, molto simile a quella della sorella. Aveva i capelli tinti
con l’oro, la pelle era dipinta con lo stesso colore e gli occhi erano di un blu fuori
dal comune. «Perché non si sveglia? Gliel’ho ordinato.»
«Temo, sire, che la regina si sia... recata nel suo secondo regno.»
«Secondo regno? Oh, capisco, dea della saggezza, regina dei morti. Credi che
sia così? Quando tornerà?»
«Come può un uomo qualunque predire un simile evento, sire? I disegni degli
dèi sono ben al di là della comprensione di un comune mortale come me.»
«Sì, suppongo che sia così. La tua illazione è corretta, imbalsamatore. Ora lei
sta regnando nel reame dei morti. Credo che sarà molto felice. Ci sono già un
mucchio di nostri amici che la serviranno. Pensi che io li abbia già mandati là
proprio per questo motivo? Certo che sì. Sapevo che Bokat sarebbe tornata
nell’aldilà quindi ho mandato dei suoi amici a prepararle il benvenuto. Ho solo
fatto finta di essermi adirato con loro.» Sorrise contento e batté le mani. «A cosa
serve quello?» chiese, alzando un lungo strumento a due punte.
«È un attrezzo... che mi serve nel mio lavoro, sire. Aiuta a... rendere l’oggetto
delle mie attenzioni sempre bello.»
«Capisco. È molto affilato e uncinato. Perché hai portato tutti quei coltelli e
quei raschietti?»
«I morti non hanno alcun bisogno dei loro organi interni e quelle parti tendono
a putrefarsi ed è necessario rimuoverle, per far sì che il corpo rimanga sempre
bello.» Il Dio-Re si alzò e si diresse verso il baule di Chorin-Tsu, ne osservò il
contenuto quindi sollevò un’ampolla piena di occhi dì vetro.
«Penso che ti lascerò al tuo lavoro, maestro imbalsamatore,» affermò, allegro.
«Devo occuparmi di un mucchio di cose. Ci sono così tanti amici di Bokat che
saranno desiderosi di raggiungerla. Devo preparare la lista dei loro nomi.»
Chorin-Tsu fece un profondo inchino e non disse nulla.

Sieben si era sbagliato. Quando Majon toccò l’argomento della profezia con
Druss, questi non rispose subito di no, anzi ascoltò gli argomenti dell’ambasciatore
con il volto impassibile e gli occhi privi d’espressione. Appena il diplomatico finì
il suo discorso il guerriero drenai si alzò dalla sedia e disse: «Ci penserò, sopra,».
«Ma Druss, ci sono tante di quelle considerazioni...»
«Ho detto che ci penserò sopra. Adesso vattene.» Il tono gelido della voce del
guerriero si fece strada in Majon come se fosse stata una folata di vento invernale.
Nel tardo pomeriggio Druss, abbigliato semplicemente con una maglia in cuoio
dalle maniche larghe, pantaloni in lana e stivali alti fino al ginocchio, attraversò il
centro della città, ignorando la folla che lo circondava: servitori che acquistavano
merci e provviste per i loro padroni, uomini fermi fuori da ostelli e taverne, donne
che si aggiravano tra il mercato e i negozi, innamorati che camminavano mano
nella mano nei parchi. Druss si fece strada in mezzo a questa folla variegata
continuando a concentrarsi sulla supplica dell’ambasciatore.
Quando gli schiavisti avevano attaccato il villaggio di Druss e catturato tutte le
ragazze, tra le quali Rowena, lui aveva inseguito i razziatori e li aveva uccisi.
Quella era stata la cosa giusta da fare! Non c’era nessuna questione di ordine
politico o morale in gioco. .
Ma ora era tutto molto confuso. «Sarebbe una decisione molto onorevole,» gli
aveva assicurato Majon. E perché? Perché sarebbero state salvate le vite di
centinaia di drenai. Cedere ai desideri di un folle e patire l’umiliazione e la
sconfitta? Era questo l’onore?
Tuttavia vincendo avrebbe corso il rischio di scatenare, nella peggiore delle
ipotesi, una guerra sanguinosa. «Vincere uno scontro valeva tanto?» gli aveva
chiesto Majon. Scatenare una guerra pur di sconfiggere un uomo in un incontro di
pugilato?
Druss superò il Parco dei giganti, tagliò a sinistra verso l’Arco di marmo,
quindi sceso verso la Valle dei cigni, il luogo in cui sorgeva la casa di Klay. Quello
era il quartiere dei ricchi. I viali erano alberati, le case lussuose, qua e là si
vedevano laghetti e fontane, bellissime statue fiancheggiavano i vialetti tortuosi
che si addentravano nei giardini ben curati.
Tutto quello che vedeva intorno a lui faceva venire in mente grosse somme di
denaro. Druss era stato allevato in un villaggio sui monti dove le case erano fatte di
tronchi d’albero e gli interstizi venivano sigillati con l’argilla; luoghi in cui una
moneta era una cosa rara quanto l’onore in una prostituta. Ora stava fissando,
palazzo dopo palazzo, il marmo bianco dei muri, le colonne rivestite d’oro
zecchino, gli affreschi, i bassorilievi e i tetti fatti con tegole di terracotta o di
ardesia nera lentriana.
Finalmente raggiunse la casa del campione del Gothir. Due sentinelle con
indosso l’armatura d’argento e delle corte spade appese al fianco, sorvegliavano
l’alto cancello di metallo. La casa era imponente ma non ostentava ricchezza come
quelle nelle vicinanze. Era un edificio squadrato con il tetto in tegole e non era
ornata né da colonne, né da affreschi o dipinti. Era un’abitazione di semplice pietra
bianca. La porta principale era sormontata da un architrave in pietra e le finestre,
squadrate e funzionali, avevano i vetri privi di decorazioni. Pur provando un certo
fastidio, Druss scoprì che gli piaceva l’uomo che abitava in quella casa posizionata
nel centro di un parco punteggiato da salici e faggi.
C’era solo un particolare teatrale: una statua del pugile alta due volte un uomo
si ergeva nel centro di un campo ben curato. Come la casa, anch’essa era di
disadorna pietra bianca, e mostrava Klay con il pugno alzato in gesto di sfida.
Per un po’ Druss rimase fermo nel centro della larga strada che portava al
cancello. Un movimento nell’ombra attirò la sua attenzione e vide un ragazzino
raggomitolato contro il tronco di un olmo. Il gigante drenai gli sorrise. «Stai
aspettando di poter dare un’occhiata veloce al campione?» gli chiese, gentile. Il ra-
gazzino annuì, ma non disse nulla. Era incredibilmente magro, aveva gli occhi
infossati e il volto smunto e ossuto. Druss tirò fuori una moneta d’argento dal
borsellino e gliela tirò. «Tieni, comprati del cibo.»
Il ragazzino afferrò la moneta a volo, ma rimase fermo dov’era.
«Vuoi proprio vederlo, vero? Neanche la fame ti distoglie dal tuo intento?
Vieni con me, ragazzo. Ti farò entrare.» Il bambino uscì dal nascondiglio con il
volto illuminato dalla gioia. In piedi era persino più magro di quello che era
sembrato in un primo momento. Le ginocchia e i gomiti sporgevano molto più
delle cosce e dei bicipiti. A fianco del gigantesco guerriero drenai non sembrava
altro che una fragile ombra.
Insieme si avvicinarono ai cancelli. Le sentinelle fecero un passo avanti e
bloccarono loro la strada.
«Io sono Druss e sono stato invitato.»
«Lo straccione non è stato invitato,» disse una delle guardie. Druss si avvicinò
a pochi centimetri dal volto dell’uomo e lo fissò dritto negli occhi. La guardia fece
qualche passo indietro per creare dello spazio tra lui e il drenai, ma questi lo seguì
finché il soldato non si trovò con la schiena appoggiata al cancello. «Io ho invitato
il ragazzino, figliolo. C’è qualche problema?»
«No. Nessun problema.»
Le sentinelle si fecero da parte e aprirono il cancello. Druss e il ragazzino
entrarono nel parco. Il drenai si fermò un attimo a fissare la statua, quindi esaminò
nuovamente la casa. La statua stonava in quel luogo, era totalmente al di fuori dello
stile del giardino. Appena si avvicinarono all’edificio un vecchio servitore aprì la
porta e si inchinò per salutare.
«Benvenuto, lord Druss,» disse.
«Non sono un lord e non ho mai desiderato esserlo. Questo bambino si era
appostato nell’ombra per riuscire a scorgere Klay. Io gli ho promesso che l’avrebbe
visto da vicino.»
«Mmm,» disse il vecchio. «Penso che dovrebbe mangiare prima. Lo porterò
nella cucina. Il mio padrone la sta aspettando, signore. Si trova nell’area
d’allenamento allestita dietro la casa. Segua il corridoio fino in fondo, non può
sbagliare.» Così dicendo prese il bambino per mano e si allontanò.
Druss si incamminò lungo il corridoio a grandi passi. Nell’area dietro la casa
c’erano venti atleti intenti ad allenarsi. La palestra era ben concepita, tre cerchi di
sabbia, sacchi, pesi, tavoli per il massaggio e due fontane che fornivano acqua
corrente. All’estremità opposta del punto in cui si trovava Druss c’era una
profonda piscina dove stavano nuotando degli uomini. Tutto era molto semplice in
quel luogo e il fatto servì a diminuire la tensione che sentiva. Due uomini si
stavano allenando in scioltezza all’interno di un cerchio di sabbia mentre un terzo,
il colossale Klay, era fermo poco distante e li stava osservando con attenzione. La
luce morente del giorno faceva risplendere i capelli biondi del campione del Gothir
come se fossero oro. L’uomo aveva le braccia conserte e Druss notò i muscoli
possenti delle braccia, delle spalle e il modo in cui il corpo si stringeva all’altezza
delle anche. Potente e veloce, pensò.
«Separatevi!» ordinò Klay. Appena i due contendenti si allontanarono l’uomo
entrò nel cerchio. «Tu, Calas, sei troppo rigido,» esordì, «ed è questo il motivo per
cui ti muovi come una tartaruga malata. Penso che il tuo modo d’allenarti non sia
equilibrato. Hai acquistato massa nelle braccia e nelle spalle e questa è una cosa
buona per la potenza, ma stai ignorando la parte bassa del corpo. I pugni più
potenti partono proprio da là. La forza sale dalle gambe, passa dai fianchi e poi
finisce alle spalle e alle braccia. Quando il pugno va a segno è come se il bersaglio
venisse centrato da un fulmine. Domani ti allenerai con Shonan.» Si girò verso
l’altro uomo e gli appoggiò una mano sulla spalla. «Sei molto abile, ragazzo, ma ti
manca l’istinto. Hai stile, coraggio, ma ti manca il cuore del combattente. Tu vedi
solo con gli occhi. Shonan mi ha detto che te la cavi bene con il giavellotto. Penso
che dovresti concentrarti di più su quella specialità da ora in avanti.» Entrambe gli
uomini si inchinarono e andarono via.
Klay si girò e vide Druss, fece un largo sorriso ed uscì dal cerchio porgendogli
una mano. Era di un buon dieci centimetri più alto del drenai e aveva le spalle più
larghe. Il volto piatto non aveva gli zigomi sporgenti. Era molto improbabile che
un colpo gli lacerasse la pelle sotto il sopracciglio o l’occhio, inoltre aveva un
mento squadrato e forte. Era il volto perfetto per un combattente. Druss gli strinse
la mano. «Ecco come dovrebbe essere un’area d’allenamento,» si complimentò
Druss. «È molto bella e ben studiata.»
Il pugile gothir annuì. «Mi fa piacere sentirtelo dire, anche se vorrei che fosse
un po’ più grande. Non c’è spazio per il lancio del disco e del giavellotto. Il mio
allenatore, Shonan, deve usare un campo qua vicino per quelle specialità. Vieni ti
faccio visitare il resto della palestra.» C’erano quattro massaggiatori che stavano
rilassando abilmente i muscoli degli atleti stanchi e una stanza, situata a poca
distanza dall’area di allenamento, in cui si trovavano due vasche colme di acqua
calda. Per un po’ di tempo i due uomini camminarono per il parco, quindi Klay
decise di portare Druss in casa.
I muri dello studio di Klay erano coperti di disegni e dipinti del corpo umano
che mostravano i muscoli e le rispettive attaccature. Druss non aveva mai visto
nulla di simile. «Alcuni dei miei amici sono medici,» disse il campione gothir.
«Una parte del loro apprendistato comprende la dissezione dei cadaveri e lo studio
del funzionamento del corpo umano. Affascinante, non trovi? Sembra che la
maggior parte dei muscoli siano antagonisti. Per un bicipite che si gonfia ci deve
essere un tricipite che si rilassa e allunga.»
«In cosa ti aiuta tutto ciò?» gli chiese Druss.
«Mi permette di trovare il bilanciamento,» disse Klay. «L’armonia, se
preferisci. Entrambi i muscoli sono vitali, quindi sarebbe una follia svilupparne
uno a spese dell’altro. Capisci?»
Druss annuì. «Ho un amico a Mashrapur, un lottatore di nome Borcha. Anche
lui sarebbe rimasto colpito quanto me nel sentire queste cose.»
«Ne ho sentito parlare. È stato lui ad allenarti e ad aiutarti a diventare un
campione. Dopo che tu andasti via da Mashrapur egli fu il primo lottatore nella
storia del Cerchio a riprendersi il titolo di campione. Si è ritirato sei anni fa dopo
essere stato sconfitto da Proseccis al termine di un incontro che è durato quasi due
ore.»
Un servitore entrò portando una caraffa e riempì due coppe. «Rinfrescante,»
osservò Druss, dopo aver assaggiato la bevanda.
«È fatta con il succo di quattro frutti,» gli spiegò Klay. «La trovo molto
rinvigorente.»
«Io preferisco il vino.»
«Dicono che il vino rosso fortifichi il sangue,» concordò Klay, «ma io trovo
che non sia di nessun aiuto in un allenamento intenso.» Per alcuni secondi i due
uomini rimasero in silenzio a guardarsi, quindi Klay si sdraiò sul divano. «Ti starai
chiedendo come mai ti ho invitato qua, vero?»
«In un primo momento ho pensato che si trattasse di un tentativo
d’intimidazione,» confessò Druss. «Ma ho capito che non è così.»
«È molto gentile da parte tua. Volevo farti sapere che ero sbigottito dalla
profezia. Deve essere seccante per te. Lo so perché anch’io trovo odioso che la
politica si intrometta in quella che dovrebbe essere una competizione leale. Quindi
ti ho chiamato per tranquillizzarti.»
«Come pensi di farlo?»
«Convincendoti a combattere per vincere. A dare il meglio di te.»
Druss si inclinò in avanti e fissò con sguardo duro il campione del Gothir.
«Perché allora il mio ambasciatore vuole che io perda l’incontro? Desideri vedere
il tuo re umiliato?» chiese.
Klay rise. «Tu mi hai frainteso, Druss. Ti ho visto combattere. Sei molto bravo,
hai cuore e istinto. Quando ho chiesto a Shonan cosa ne pensava di entrambi mi ha
detto: “Se dovessi puntare tutto il mio denaro su un lottatore quello saresti tu Klay.
Ma se dovessi affidare la mia vita nelle mani di qualcuno allora sceglierei Druss”.
Io sono un uomo arrogante, amico mio, ma la mia arroganza non nasce da un falso
orgoglio. Sono ben consapevole delle mie capacità. In un certo senso, come mi ha
detto un mio amico medico, io sono uno scherzo di natura. La mia forza è
prodigiosa, ma anche la mia velocità è straordinaria. Alzati un attimo.»
Druss ubbidì e Klay si posizionò davanti a lui a circa un metro di distanza. «Ti
staccherò un pelo della barba Druss e voglio che tu mi blocchi, se ci riesci.» Il
gigante drenai si preparò.
La mano di Klay scattò in avanti e tornò in posizione. Druss sentì il pizzicore
prodotto dai peli della barba strappati e si accorse che le sue braccia avevano
appena cominciato a muoversi. Klay tornò ad adagiarsi sul divano. «Non puoi
battermi, Druss. Nessun uomo può farlo. Ecco perché non dovresti preoccuparti
della profezia.»
Druss sorrise. «Mi piaci, Klay, e se ci fosse una medaglia d’oro da vincere per
vedere chi è più veloce a strappare un ciuffo di barba a un altro, quella sarebbe tua.
Tuttavia parleremo di questo dopo la finale.»
«Combatti sempre per vincere?»
«Sempre, ragazzo.»
«Per i paradisi, Druss, sei un uomo che non si scoraggia mai. Non esiste la resa
per te, vero? È questo il motivo per cui ti chiamano la Leggenda?»
Druss scosse la testa. «Ho fatto l’errore di farmi amico un poeta scrittore di
saghe. Ora ovunque vado egli crea una nuova storia sempre più assurda di quella
precedente. La cosa che mi stupisce è che tutti ci credono. Più le nego e più tutti
credono che siano vere.»
Klay e Druss tornarono nell’area di allenamento. Gli atleti erano andati via, ma
i servitori avevano acceso le torce. «So come ti senti, Druss. Negare qualcosa è
sempre visto come un atto di modestia e alla gente piace credere negli eroi. Una
volta ho perso la pazienza durante un allenamento e ho dato un colpo a una statua
con il taglio della mano. Mi sono rotto tre ossa. Ora ci sono un centinaio di uomini
che dicono che io ho frantumato la statua in mille pezzi e ce ne sono almeno venti
di più che sostengono di averlo visto con i loro occhi. Ti fermi a cena con me?»
Druss scosse la testa. «Sono passato davanti a una taverna mentre venivo qua.
Ho sentito nell’aria l’odore della carne speziata e a me piace molto.»
«Le finestre di quel posto sono tinte di blu?»
«Sì. Lo conosci?»
«È chiamato La Spada Spezzata e vi lavora il miglior cuoco di tutta Gulgothir.
Mi piacerebbe unirmi a te ma ho delle cose da discutere con Shonan.»
«Sarei stato molto felice della tua compagnia. Il mio amico, Sieben, sta
intrattenendo una donna nelle nostre stanze e non gli piacerebbe affatto se arrivassi
presto. Dopo la finale?»
«Sarebbe bello.»
«Comunque hai un ospite. Un monello che ho trovato fuori dal cancello di casa
tua. Ti sarei molto grato se lo trattassi gentilmente e scambiassi un paio di parole
con lui.»
«Certo. Goditi la cena»
CAPITOLO TERZO

Kells si leccò le dita, quindi spezzò un pezzo di pane scuro e lo usò per ripulire
il fondo della scodella dagli ultimi avanzi della minestra. Il vecchio servitore rise.
«Va tutto bene, ragazzo, ce n’è ancora.» Tolse la pentola da sopra la stufa e gli
riempì nuovamente la scodella. Kells stava toccando il cielo con un dito, prese il
cucchiaio, cominciò a mangiare e nel volgere di pochi istanti svuotò
completamente la scodella. Dopo qualche attimo emise un sonoro rutto.
«Io sono Carmol,» si presentò il vecchio servitore, allungando una mano.
Kells la fissò quindi allungò la sua striminzita estremità e strinse quella del
vecchio.
«Penso che a questo punto tu possa dirmi come ti chiami,» disse il servitore.
Kells fissò il volto del vecchio. La pelle, specialmente intorno agli occhi azzurri
dall’espressione gentile, era coperta di rughe. «Perché?» La domanda del ragazzino
non era insolente, era solo un’indagine innocente.
«Perché? Beh, perché si pensa che sia educato farlo quando due persone
condividono un pasto. È anche il modo in cui le amicizie cominciano.» Il vecchio
aveva dei modi amichevoli e il suo sorriso non era falso.
«Io mi chiamo Dita Svelte,» disse Kells.
«Dita Svelte,» ripeté Carmol. «È così che ti chiama tua madre?»
«No, lei mi chiama Kells, ma tutti mi chiamano Dita Svelte. La minestra era
molto buona e il pane è morbido, fresco. Avevo già mangiato del pane fresco e ne
conosco il sapore.» Kells scese dalla panca e ruttò nuovamente. La cucina era calda
e accogliente e sarebbe stato bello raggomitolarsi vicino alla stufa e dormire.
Tuttavia quello era un lusso che non poteva permettersi poiché la sua missione non
era ancora completata. «Quando posso vedere... lord Klay?»
«Cosa hai a che fare con lui?» indagò Carmol.
«Nulla,» disse Kells. «Nulla. Io sono... un mendicante,» annunciò, pensando
che quella qualifica suonasse molto meglio di ladro o tagliaborse.
«Quindi sei venuto a mendicare?»
«Esatto, a mendicare. Quando posso vederlo?»
«È un uomo molto impegnato, ma se vuoi posso darti una o due monete e
un’altra scodella di minestra.»
«Non voglio delle monete...» si zittì e aggrottò la fronte. «Beh, io voglio delle
monete da te, ma non da lord Klay.»
«Cosa vuoi allora?» gli chiese Carmol, sedendosi sulla panca.
Kells si inclinò in avanti, avvicinandosi al volto del vecchio. Era sicuro che il
rivelare lo scopo della sua visita al servo di lord Klay non poteva comprometterla.
Il vecchio avrebbe potuto dimostrarsi un valido alleato.
«Voglio che imponga le mani su mia madre.»
L’uomo rise improvvisamente e Kells si sentì molto imbarazzato; non c’era
niente da ridere e socchiuse gli occhi. Carmol vide la sua espressione e il sorriso
scomparve. «Mi dispiace, ragazzo. Mi hai colto di sorpresa. Dimmi una cosa,
perché vorresti che... il mio padrone compisse un simile atto?»
«Perché io conosco la verità,» affermò Kells, abbassando la voce. «Non l’ho
detto a nessuno. Il suo segreto è al sicuro, ma sono sicuro che potrebbe condividere
un po’ della sua magia con mia madre. Potrebbe far sparire il gonfiore. Dopo mia
madre tornerebbe a camminare e a sorridere ancora. Potrebbe anche tornare a
lavorare e a comprare del cibo.»
Carmol non sorrideva più. Il vecchio rimase silente per qualche attimo con
Kells che continuava a fissarlo da vicino. Il volto del servitore assunse
un’espressione dolce e preoccupata.
«Ti giuro che non lo dirò a nessuno,» disse il ragazzino.
«E come sei riuscito a sapere dei suoi poteri, giovane Kells?»
«L’anno scorso l’ho visto fare un miracolo. Mia mamma era con una delle
sue... amiche e io ero seduto nascosto nel vicolo. Improvvisamente scoppiò un
temporale. Vidi un lampo e sentii un rumore fortissimo. Un attimo dopo un corpo
mi urtò e mi sbatté contro il muro. Io corsi via. Era Tess la alta, è la compagna di
mia madre e insieme lavorano sul corso Lungo. Stava tornando a casa, ma era stata
colpita dal fulmine. Era morta. Le appoggiai una mano sul collo ma non sentii le
vene pulsare, misi un orecchio sul suo petto e anche il cuore aveva smesso di batte-
re. Poi arrivò una carrozza e io mi nascosi per paura che pensassero che fossi stato
io a ucciderla. Lord Klay balzò fuori dalla carrozza, le prese il polso e le appoggiò
l’orecchio al cuore, fu allora che lo fece.» Al solo ricordo, Kells sentì il proprio
respiro accelerare e il cuore che cominciava a martellare.
«Cosa fece?» gli chiese Carmol.
«Si chinò su di lei e la baciò! Non potevo credere ai miei occhi. Stava baciando
una donna morta. Sulle labbra, proprio come fanno gli innamorati e sai cosa è
successo dopo?»
«Dimmi.»
«L’amica di mamma emise un lamento e tornò dal mondo dei morti. È stato
allora che ho capito tutto. Non dissi nulla a nessuno, neanche a Tess. Lei aveva
delle bruciature ai piedi e un orecchino le si era fuso sulla pelle, però non si era
accorta di essere morta.»
Il vecchio sospirò. «È un racconto incredibile ragazzo e penso che dovresti
parlare con lord Klay. Rimani qua e io andrò a vedere se può dedicarti qualche
minuto. C’è della frutta, mangia tutta quella che puoi.»
Kells non se lo fece ripetere due volte, prima ancora che Carmol avesse lasciato
la stanza si era impossessato di alcune banane e di un po’ d’arance mature. Divorò
voracemente i frutti e bevve il succo che trovò in un piccolo otre.
Che gioia! Cibo buono e un miracolo per sua madre!
Era stata una buona giornata di lavoro. Sedendosi vicino alla stufa, Kells
cominciò a pensare a cosa avrebbe potuto dire al dio. Come gli avrebbe spiegato
che sua madre era malata e non poteva lavorare. Non era pigra. Quando il primo
bubbone le era apparso sul seno lei aveva continuato a lavorare sul corso Corto an-
che se a volte le vertigini avevano rischiato di farla svenire. Quando il gonfiore era
aumentato, diventando più spiacevole alla vista, era stata costretta a lavorare molte
più ore, fornendo prestazioni veloci in vicoli oscuri. Dopo qualche tempo era
spuntato il secondo bubbone sul lato del collo, grosso come una delle arance che
aveva appena mangiato. Da quel giorno in avanti nessuno aveva più voluto pagarla
per i suoi favori. Il colorito del volto era diventato sempre più pallido e sotto gli
occhi si erano formati degli evidenti cerchi neri. Inoltre era diventata magra, e mal-
grado tutto il cibo che Kells le aveva portato, la donna aveva continuato a
dimagrire.
Ecco cosa avrebbe raccontato al dio, lo avrebbe informato di tutto ciò ed Egli
avrebbe curato sua madre.
Non come il chirurgo che Tess la alta aveva pagato. Cinque pezzi d’argento
aveva voluto, e cosa aveva fatto: niente! Oh, sì, certo, aveva tastato i bubboni e
tutto il resto del corpo. Porco schifoso! Finito, aveva sussurrato qualcosa a Tess
scuotendo la testa. Tess aveva cominciato a piangere e aveva parlato con la madre
e anche lei aveva cominciato a piangere.
Kells si addormentò vicino al fuoco.
Si svegliò improvvisamente e trovò il dio vicino a lui. «Sei stanco, ragazzo,»
gli disse la divinità. «Puoi dormire se vuoi.»
«No, lord,» disse Kells, alzandosi in piedi. «Devi venire con me! La mia
mamma è malata.»
Klay annuì e sospirò. «Carmol mi ha raccontato tutto. Quello che hai visto non
era un miracolo, Kells. È stato uno dei miei amici medici a insegnarmi quel sistema
per far riprendere le persone. Il fulmine le aveva fermato il cuore. Io le ho soffiato
dell’aria nei polmoni e le ho massaggiato il cuore. Non era magia, te lo giuro.»
«Era morta! Tu l’hai fatta rivivere!»
«Sì, ma senza usare la magia.»
«Allora non mi aiuterai?»
Klay annuì. «Farò tutto ciò che posso, Kells. Carmol è andato a prendere il
medico di cui ti ho parlato. Quando sarà tornato andremo da tua madre e vedremo
cosa si può fare.»

Kells sedeva tranquillo in un angolo mentre il medico dai capelli bianchi


esaminava Loira. Le dita del vecchio premettero con delicatezza i bubboni, quindi
le tastò la pancia, la schiena e i lombi. Per tutto il tempo la donna morente si era
lamentata in preda al delirio: solo il dolore la stava mantenendo cosciente. I capelli
rossi erano scompigliati e unti e il volto pallido era madido di sudore, ma anche
così a Kells continuava a sembrare bellissima. Il ragazzino ascoltò il medico che
parlava con Klay, ma non riuscì a comprendere il significato delle loro parole,
tuttavia non ne aveva bisogno. Il tono tetro con cui venivano pronunciate spiegava
tutto. La madre stava morendo e non c’era nessun dio che le avrebbe imposto le
mani. La rabbia crebbe in Kells che sentì il gusto della bile in gola. La ingoiò e
sentì una lacrima calda che scivolava sulla sua guancia facendosi strada tra lo
sporco. Sbatté rapidamente le palpebre e cercò di mantenere il controllo. Tess la
alta era ferma sul lato opposto del letto con le magre braccia incrociate sul petto.
Portava ancora il vestito di stracci rossi.
«Dobbiamo portarla all’ospizio,» sentì dire dal medico.
«Cos’è?» chiese Kells, alzandosi dal pavimento.
Il vecchio chirurgo si inginocchiò di fronte a lui. «È un luogo creato da lord
Klay. Là vengono portate le persone che stanno molto male perché possano
passare... quando la loro malattia è troppo grave per essere curata. Abbiamo delle
medicine che usiamo per lenire il dolore. Anche tu puoi venire, ragazzo. Puoi ri-
manere con lei.»
«Sta per morire, vero?»
Klay mise una mano sulle spalle ossute di Kells. «Sì, ragazzo. Non c’è nulla
che possiamo fare. Eduse è il migliore medico di Gulgothir. È il più erudito di
tutti.»
«Non possiamo pagare la permanenza in quel luogo,» ammise Kells, in tono
amaro.
«Lord Klay ha già pagato tutto,» disse Eduse. «È stato costruito per coloro che
non hanno nulla. Capisci? Lord Klay...»
«Non c’è bisogno che parli in mio favore, amico mio. Sono molto meno di
quello che credeva e nessuna parola servirà a far diminuire la sua delusione.»
Sporgendosi sopra il letto prese la testa della donna e cominciò a cullarla contro il
suo petto.
La malata emise un lamento e Tess le si avvicinò accarezzandole i capelli. «È
tutto a posto, colombella. Ci prenderemo cura di te. Tess è qua, Loira. C’è anche
Kells.»
Klay portò Loira vicina alla carrozza nera e aprì la porta. Kells e Tess
entrarono, il pugile adagiò Loira su un sedile imbottito e si sedette al suo fianco.
Eduse, il medico, si andò a sedere vicino al conducente. Kells sentì lo schioccare
delle redini. La carrozza balzò in avanti e la madre si svegliò con un urlo di dolore.
Kells ebbe l’impressione che il suo cuore stesse per scoppiare.
Il viaggio non richiese molto tempo poiché l’ospizio era stato costruito vicino
ai quartieri poveri. Kells seguì Klay che portava la madre dentro l’edificio dai muri
bianchi. Infermieri vestiti con delle lunghe tuniche bianche corsero incontro al
pugile per aiutarlo, adagiarono Loira su una barella e la coprirono con una spessa
coperta di lana bianca. Eduse li guidò attraverso un lungo corridoio t giunsero nella
stanza più grossa che Kells avesse mai visto in vita sua. Sulle pareti nord e sud
c’erano delle file di letti in cui giacevano i malati e i moribondi. Molta gente si
muoveva all’interno del locale, infermieri vestiti di bianco, visitatori venuti a
trovare parenti o amici e medici che preparavano le medicine. I barellieri
attraversarono la stanza, imboccando un altro corridoio ed entrando in un’altra
stanza lunga circa tre metri e mezzo. Trasferirono Loira su uno dei due letti più
piccoli, entrambi avvolti da lenzuola pulite, e la coprirono con una coperta. Dopo
che gli infermieri furono andati via Eduse prese una fiala che conteneva un liquido
oscuro, alzò la testa di Loira e ne versò il contenuto nella bocca. La donna sembrò
voler vomitare poi ingoiò. Un po’ della medicina le colò sul mento, il medico
glielo pulì con un panno quindi le appoggiò la testa sul cuscino.
«Puoi dormire qua con lei, Kells,» disse Eduse. «Anche tu,» aggiunse,
rivolgendosi a Tess.
«Non posso rimanere,» rispose la donna. «Devo lavorare.»
«Ti darò io la... tua paga,» affermò Klay.
Tess fece un sorriso privo di qualche dente. «No. Sei un uomo molto buono. Se
mi allontano troppo a lungo dal mio posto qualche altra prostituta lo prenderà.
Devo andare là, ma verrò a trovare Loira ogni volta che potrò.» Si avvicinò, prese
la mano di Klay e gliela baciò quindi si girò imbarazzata e uscì di corsa dalla
stanza.
Kells si avvicinò al letto e prese la madre per mano. La donna stava dormendo
ma la pelle era calda e squamosa. Il ragazzo sospirò e si sedette sul letto.
Klay ed Eduse uscirono dalla stanza e Kells sentì il pugile sussurrare al medico:
«Quanto?»
«È difficile dirlo. I cancri sono entrambi molto avanzati. Potrebbe morire
stanotte o resistere ancora un mese. Dovresti andare a casa, domani hai un
incontro. Ho visto il pugile drenai, dovrai essere al meglio della tua forma.»
«Lo sarò, amico mio. Ma non andrò ancora a casa. Penso che farò una
passeggiata. Voglio prendere un po’ d’aria. Sai non ho mai voluto essere un dio.
Non fino a stanotte.»
Kells lo sentì allontanarsi.

Jarid era un uomo cauto, abituato a pensare. In pochi lo capivano poiché


vedevano in lui una specie di grosso orso dalle spalle larghe, quasi incapace di
parlare in maniera corretta e quindi ignorante. Jarid non aveva mai cercato di
cambiare l’idea che la gente si era fatta di lui. Non ci pensava proprio. Nato nei
quartieri più malfamati di Gulgothir aveva imparato ben presto che il modo
migliore per un uomo di fare strada consisteva nel farla in barba ai suoi simili. La
prima lezione imparata era che la moralità era un’arma usata solo dai ricchi. Non
esistevano il bene o il male assoluto. Tutta la vita era un furto. Il ricco chiamava
furto le tasse. Quando un re conquistava una nazione non faceva altro che rubarla,
ma la gente avrebbe detto che si trattava di una gloriosa vittoria. Tuttavia un
mendicante poteva rubare un tozzo di pane, e gli stessi uomini che avevano
osannato il monarca l’avrebbero chiamato ladro e l’avrebbero fatto impiccare. A
Jarid non sarebbe mai successo. Aveva ucciso il suo primo uomo poco dopo aver
compiuto i dodici anni. Era stato un grasso mercante di cui non ricordava neanche
più il nome. L’aveva accoltellato ai testicoli quindi gli aveva tagliato il laccio con
cui teneva la borsa del denaro legata alla cintura. L’uomo aveva gridato a lungo e a
squarciagola. Il suono delle sue urla aveva inseguito Jarid mentre scappava per i
vicoli. Le monete che aveva rubato erano servite per comprare delle medicine alla
madre e alla sorella, e del cibo per le loro pance vuote.
Oggi, all’età di quarantadue anni, Jarid era un assassino esperto. Era così bravo
che la sua abilità aveva attratto le attenzioni dello Stato e il suo lavoro ora veniva
pagato con i fondi pubblici. Aveva anche avuto un numero di codice per pagare le
tasse. Con quello era diventato un cittadino in tutto e per tutto, aveva anche il
diritto di votare alle elezioni. Aveva una piccola casa nel quartiere sud-est e una
cameriera che gli scaldava anche il letto. Non era ricco, assolutamente, ma non era
neanche più lo straccione di un tempo.
Nascosto nel vicolo aveva osservato Druss che entrava nella taverna chiamata
la Spada spezzata, quindi lo aveva seguito ascoltandolo ordinare la cena. La
cameriera gli aveva risposto dicendogli che avrebbe dovuto aspettare un po’ poiché
il locale era pieno.
Jarid era uscito dalla taverna e aveva raggiunto Copass; gli aveva dato degli
ordini quindi si era nascosto nuovamente nell’ombra, aspettando. Copass tornò
insieme a una dozzina di uomini armati di coltelli e mazze. L’ultimo del gruppo
portava una balestra. Jarid lo prese sotto braccio, lo portò lontano dal gruppo e gli
parlò a bassa voce. «Tira solo se tutti gli altri falliscono. Verrai pagato che tu tiri o
no. Il tuo bersaglio sarà il drenai vestito con la maglia di cuoio nero, non avrai
problemi a colpirlo.»
«Perché non lo uccidiamo quando è sulla porta?»
«Perché lo dico io. È il campione drenai. Ci sarà molto più utile ai nostri scopi
se verrà ferito e basta, chiaro?»
«Di quali scopi stai parlando?»
Jarid sorrise. «Sono stati puntati un mucchio di soldi sull’incontro di domani.
Comunque, se vuoi, ti posso dire il nome del mio padrone, sappi solo che dopo ti
dovrò spezzare il collo. A te la scelta. Vuoi sapere il suo nome?»
«No. Tutto chiaro. Ma devi capire che io lancerò una quadrella nell’oscurità
contro un bersaglio in movimento. Non posso garantire di non ucciderlo! Cosa
succederebbe se capitasse?»
«Verresti pagato lo stesso. Adesso vai ad appostarti.» Girandosi verso gli altri
Jarid li riunì intorno a sé e cominciò a parlare con la voce ridotta a un sussurro. «Il
drenai è un combattente temibile, è molto forte. Una volta che uno di voi è riuscito
a piantargli un coltello nel tronco, nelle spalle o in un braccio gli altri devono
scappare. chiaro? Non deve morire, una ferita profonda è sufficiente.»
«Mi scusi, signore,» disse un uomo senza un dente, «ma io ho scommesso su
Klay. La scommessa non verrà annullata se il Drenai non potrà combattere?»
Jarid scosse la testa. «La scommessa è sul fatto che Klay vincerà la medaglia
d’oro. Se il drenai non combatterà allora lui diventerà automaticamente il
vincitore.»
«Cosa succede se un coltello affonda troppo e muore?» chiese un altro uomo.
Jarid scrollò le spalle. «La vita è piena di imprevisti.»
Si allontanò dal gruppo, si infilò in un vicolo, superò un tratto di terreno
coperto d’immondizie e si acquattò contro una porta in ombra. Tess la alta era di
fronte a uno specchio rotto, aveva il seno scoperto, il vestito tirato giù fino ai
fianchi e si stava rinfrescando con dell’acqua.
«Stanotte fa caldo,» disse sorridendo a Jarid. L’uomo non restituì il sorriso, le
si avvicinò, le prese un braccio e glielo torse in maniera dolorosa. Tess gridò.
«Zitta!» le ordinò. «Stasera non avrai altri clienti. Mi piace avere la mia donna
fresca.»
«Non ce ne sono stati molti, amore mio,» disse lei. «Sono dovuta correre
dall’ospizio ecco perché sono sudata!»
«Ospizio? Di cosa stai parlando, ragazza?» La lasciò e fece un passo indietro.
Tess si massaggiò il braccio ossuto.
«Loira. L’hanno portata là oggi. È venuto Klay a prenderla e l’ha portata nella
sua carrozza. Era stupenda, Jarid. Tutta di legno scuro laccato, sedili di cuoio
imbottiti e cuscini di raso. Adesso lei è in un letto le cui lenzuola sono così bianche
da sembrare delle nuvole.»
«Non sapevo che Klay fosse uno dei suoi clienti.»
«Non lo è. Suo figlio, Dita Svelte è andato a chiamarlo e implorarlo e lui l’ha
seguito. Così adesso Loira è nell’ospizio dove riceve cure e cibo.»
«Faresti meglio a dirmi la verità, ragazza,» gli consigliò Jarid, in tono roco,
stringendole in una mano il seno cadente.
«Non ti ho mai mentito, amore mio,» gli sussurrò. «Te sei il mio prediletto. Il
mio unico prediletto.» Tess fece scivolare le mani sul corpo dell’uomo lasciando
che la sua mente vagasse libera. Da quel momento in poi sarebbe stata tutta una
recita e i movimenti le erano ormai così familiari che non aveva più bisogno di
pensare. Infatti si mosse, toccò, gemette e accarezzò, continuando a pensare a
Loira. Le sembrava ingiusto che una donna dovesse giacere in un letto con delle
lenzuola così pulite solo per morire. Più di una volta lei e Loira si erano strette
sotto la stessa coperta consunta per scaldarsi quando il vento freddo dell’inverno
soffiava per i vicoli della città, tenendole lontane dalla strada. In quei momenti
parlavano di quei lussi come il fuoco tutti i giorni, i cuscini imbottiti e le coperte di
lana morbida. Ora la povera Loira aveva le lenzuola che aveva sempre sognato, ma
non l’avrebbe mai saputo. Un giorno non lontano a venire sarebbe morta, e i
bubboni si sarebbero aperti riversando il loro contenuto su quelle lenzuola pulite.
Il ritmo dei fianchi dell’uomo aumentò in velocità e forza. Nello stesso istante
Tess cominciò a gemere ritmicamente, arcuando il suo corpo contro quello del
compagno. Il respiro dell’uomo risuonava roco nelle sue orecchie, poi luì emise un
lamento e si accasciò su di lei. Tess gli accarezzò la base del collo. «Ah, sei
fantastico, amore mio. Sei il mio prediletto.»
Jarid si alzò da lei, si tirò su i pantaloni e si girò. Tess lisciò il vestito rosso e si
sedette. L’uomo le tirò una moneta d’argento. «Vuoi rimanere ancora un po’,
Jarid? Ho del vino.»
«No, ho un lavoro da fare.» Le sorrise. «È stato bello stanotte.»
«Bellissimo,» gli assicurò.
CAPITOLO QUARTO

Druss finì il pasto e spinse via il piatto di legno. La carne era stata buona,
tenera, magra, coperta di spezie saporite e sugo scuro. Tuttavia, malgrado la bontà
del pasto, lui se l’era goduto molto poco. I suoi pensieri erano confusi e
malinconici. L’incontro con Klay non era servito. Dannazione, gli piaceva
quell’uomo!
Druss alzò il boccale e ne svuotò metà in un sorso. La birra era leggera ma
rinfrescante e gli ricordò quella che veniva fatta sulle montagne. Era diventato
adulto tra la gente comune: uomini e donne che lavorano dalle prime luci dell’alba
fino al tramonto, vivevano per le loro famiglie e dovevano combattere ogni giorno
per avere un tozzo di pane sul tavolo. Spesso, durante le serate estive, tutti si
riunivano nella sala comune bevendo birra, cantando e raccontandosi storie. Non
facevano per loro i grandi temi della politica, i compromessi, il tradimento degli
ideali. La vita era dura, ma non complicata.
Lui era stato strappato da quella vita quando il ribelle Collan aveva assalito il
villaggio, ucciso gli uomini e le vecchie e rapito le donne più giovani per venderle
come schiave.
Tra di esse c’era Rowena, la moglie di Druss, il suo amore e la sua vita. Quel
giorno lui stava tagliando gli alberi nel bosco. Quando era tornato al villaggio in
fiamme aveva deciso di inseguire gli assassini.
Druss aveva ucciso i razziatori e aveva liberato le ragazze, ma Rowena non era
con loro; Collan l’aveva portata con sé a Mashrapur e l’aveva venduta a un
mercante ventriano. Al fine di guadagnare il denaro per ottenere un passaggio fino
a Ventria, Druss era diventato un pugile e aveva combattuto nei cerchi di sabbia di
tutta Mashrapur. Incontro dopo incontro il giovane contadino era cambiato, la sua
forza e la sua ferocia si erano affilate facendolo diventare il pugile più temuto della
città.
Finito l’inverno aveva ripreso il viaggio in compagnia di Sieben e dell’ufficiale
ventriano Bodasen. Aveva preso parte alle guerre ventriane e ben presto si era
guadagnato una reputazione letale. L’Uccisore d’Argento, così l’avevano chiamato
per via della sua abilità nel maneggiare l’ascia bipenne di nome Snaga.
Druss aveva combattuto decine di battaglie e centinaia di scaramucce. Era stato
ferito diverse volte ma aveva sempre vinto.
Quando, molti anni dopo, aveva trovato Rowena e l’aveva riportata a casa egli
aveva creduto veramente che le battaglie sanguinose fossero ormai cosa del
passato. Rowena invece sapeva bene che era il contrario. Giorno dopo giorno
Druss era diventato sempre più scontroso. Non era più un contadino e non trovava
più piacere nel dissodare la terra o accudire una vacca. Dopo poco più di un anno
aveva deciso di recarsi a Dros Delnoch per far parte di una milizia che avrebbe
dovuto combattere i razziatori sathuli. Sei mesi dopo, con i sathuli costretti a
ritirarsi sulle montagne, egli era tornato a casa con nuove ferite e dei bei ricordi.
Chiuse gli occhi e rammentò le parole di Rowena al suo ritorno. Seduti sul
tappeto di fronte al fuoco lei gli aveva preso la mano. «Mio povero Druss? Come
fa un uomo a vivere per la guerra? È una cosa tanto inutile,» gli aveva detto.
Lui aveva visto il dolore negli occhi color nocciola della moglie e aveva cercato
di darle una risposta. «Non è solo il combattimento, Rowena. È il cameratismo, il
fuoco nel sangue, l’affrontare la paura. Quando il pericolo è vicino io divento... un
uomo.»
Rowena aveva sospirato. «Tu sei quello che sei, amore mio. Ma la cosa mi
rattrista. C’è molta bellezza qua. La terra ci fornisce il cibo, guardiamo il sole
sorgere dietro le montagne e i riflessi della luna che danzano sulla superficie dei
laghi. C’è gioia e felicità. Tuttavia, ciò non fa per te. Dimmi una cosa, Druss,
perché hai attraversato il mondo intero per me?»
«Perché ti amo. Tu sei tutto per me.»
Lei aveva scosso la testa. «Se così fosse tu non proveresti il desiderio di
lasciarmi per andare in cerca di una guerra da combattere. Guardati intorno.
Secondo te gli altri contadini anelano la battaglia?»
Druss si era alzato in piedi, si era avvicinato a grandi passi alla finestra, l’aveva
aperta e aveva cominciato a fissare il firmamento stellato. «Non sono più un uomo
come loro. Non so neanche se lo sono mai stato. Io sono un uomo fatto per la
guerra, Rowena.»
«Lo so,» disse lei tristemente. «Oli, Druss, lo so...»
Druss si scosse dai ricordi, svuotò il boccale e con la coda dell’occhio vide una
cameriera bionda. «Un’altra!» le chiese, agitando il boccale in aria.
«Solo un attimo, signore,» le rispose lei. La taverna era quasi piena e
l’atmosfera era rumorosa e allegra. Druss si era trovato un angolo della sala contro
la parete da dove poteva tenere d’occhio la folla. Di solito l’atmosfera delle taverne
gli piaceva: il mischiarsi delle risate e delle conversazioni, il rumore dei piatti, lo
strusciare dei piedi e lo stridio delle sedie, ma non quella sera.
La cameriera gli portò un secondo boccale di birra; era una donna grassa, dal
grande seno e dai fianchi larghi. «Piaciuta la cena, signore?» gli chiese, mentre si
inclinava in avanti, appoggiandogli una mano sulla spalla e grattandogli le base del
collo con le dita. Rowena spesso faceva lo stesso gesto quando lui era nervoso o
arrabbiato. Sapeva che così facendo si sarebbe calmato. Sorrise.
«Era una cena degna di un re, ragazza. Ma non me la sono goduta come avrei
dovuto. Ho troppe cose a cui pensare, troppi problemi spinosi da risolvere.»
«Hai bisogno di rilassarti in compagnia di una donna,» gli disse,
accarezzandogli la barba.
Druss gli allontanò gentilmente la mano. «La mia donna è molto lontana da
qua, ma è sempre vicina a me nel mio cuore. È bella come te, quindi aspetterò di
godermi la sua compagnia.» Mise una mano nel borsellino e tirò fuori due monete
d’argento.
«La prima è per la cena, la seconda è per te.»
«Sei molto gentile. Se dovessi cambiare idea...»
«Non succederà.»
Mentre la ragazza si allontanava, Druss sentì una folata di aria fredda sulla
guancia. La cameriera rimase immobile come una statua, anche le pieghe delle
gonna sembravano essersi pietrificate. Tutti gli astanti erano paralizzati. Druss
fissò il fuoco e vide che anche le fiamme si erano irrigidite e il fumo che si
innalzava nel camino sembrava essersi gelato a mezz’aria. L’odore di carne
arrostita, legna bruciata e sudore tipico delle taverne era stato rimpiazzato da un
aroma dolciastro di cannella e legno di sandalo bruciato.
Un piccolo nadir vestito con una semplice tunica di pelle di capra si fece strada
tra la folla immobile. Era vecchio, ma non troppo, i suoi pochi capelli neri erano
flosci e unti. Attraversò velocemente il locale e si fermò davanti a Druss. «Ben
incontrato, uomo con l’ascia,» lo salutò con una voce calma, quasi sibilante.
Druss fissò gli scuri occhi a mandorla del nuovo venuto e vi lesse un grande
odio. «La tua magia deve essere molto forte per impedirmi di allungare le braccia e
spezzarti il collo,» gli disse.
Il vecchio rise mostrando una fila di denti rotti e macchiati. «Non sono venuto
per farti del male, uomo con l’ascia. Io sono Nosta Khan, sciamano della tribù
delle Teste di Lupo. Tu hai aiutato un mio amico, Talismano, e hai combattuto al
suo fianco.»
«E allora?»
«Egli è molto importante per me. E noi nadir ripaghiamo sempre i nostri
debiti.»
«Non ho bisogno di essere ripagato. Non c’è nulla che tu possa offrirmi.»
Nosta Khan scosse la testa. «Non essere sempre così sicuro. uomo con l’ascia.
Primo: saresti molto sorpreso di sapere che in questo momento fuori dalla taverna
ci sono una dozzina di uomini armati di mazze e coltelli? Il loro scopo è quello di
impedirti di combattere contro il campione gothir. È stato ordinato loro di
storpiarti, se ci riescono, altrimenti ti possono uccidere.»
«Sembra che tutti vogliano che io perda,» disse Druss. «Perché mi avverti? E
non insultarmi con quella storia sul fatto di ripagare i debiti. Posso vedere l’odio
che brucia nei tuoi occhi.»
Lo sciamano rimase zitto per un momento e quando riprese a parlare la sua
voce era venata di malizia e dispiacere. «La mia gente ha bisogno di te, uomo con
l’ascia.»
Druss fece un freddo sorriso. «Ti costa molto dirlo, vero?»
«Si,» ammise l’uomo. «Ma io ingoierei delle braci ardenti per la mia gente e
dire una piccola verità a un occhi rotondi è un dolore che posso sopportare.»
Ghignò di nuovo. «Un tuo antenato ci aiutò nel passato. Egli odiava i nadir,
tuttavia aiutò mio nonno in una grande battaglia contro i gothir. Il suo eroismo ci
ha portati più vicini ai giorni dell’Unificatore. Era conosciuto come Angel, ma il
suo nome in nadir era Duro da Uccidere.»
«Mai sentito nominare.»
«Voi occhi rotondi mi disgustate! Ci chiamate barbari e non conoscete neanche
le gesta dei vostri antenati. Pah! Sbrighiamoci. I miei poteri non sono illimitati e
presto questa taverna tornerà a essere rumorosa e puzzolente. Angel era legato ai
nadir, Druss. Legato dal sangue e dal destino. Lo stesso vale per te. Ho rischiato la
mia vita in molti sogni della febbre e ho sempre visto il tuo volto fluttuare davanti
a me. Non so quale ruolo avrai. Potrebbe anche essere piccolo, ma ne dubito.
Qualunque esso sia, io so dove ti dovrai trovare nei prossimi giorni. È necessario
che ti rechi nella Valle delle Lacrime di Shul-sen. Si trova a cinque giorni a cavallo
a est da qua. Là troverai un tempio dedicato alla memoria di Oshikai Flagello del
Demone, il più grande dei guerrieri nadir.»
«Perché dovrei desiderare di andare in quel luogo?» chiese Druss. «Tu dici che
è necessario, ma io non sono della tua stessa opinione.»
Lo sciamano scosse la testa. «Lascia che ti parli delle pietre guaritrici, uomo
con l’ascia. Si dice che non ci sia ferita che esse non possano curare. Alcuni
sostengono che possono far risorgere i morti. Sono nascoste nel tempio.»
«Come puoi vedere,» affermò Druss, «non ho nessuna ferita.»
Il piccolo uomo distolse lo sguardo dal drenai e un sorriso intrigante si dipinse sul
volto consumato dagli elementi. «No, non ne hai. Ma possono succedere molte
cose a Gulgothir. Ti sei dimenticato degli uomini che ti aspettano là fuori?
Ricordati, Druss, cinque giorni di cavallo in direzione est, nella Valle delle Lacri-
me di Shul-sen.»
La vista di Druss si annebbiò per un attimo e il rumore della taverna tornò a
risuonare nell’aria. Sbatté le palpebre. La cameriera aveva ripreso a camminare e lo
sciamano era scomparso.
Il gigante Drenai finì la birra e si alzò in piedi. Secondo il vecchio nadir fuori
dal locale c’erano una dozzina di uomini che l’aspettavano: delinquenti pagati per
impedirgli combattere contro Klay. Fece un profondo sospiro e si avvicinò al
bancone dietro al quale si trovava il grasso taverniere dal volto rosso. «Un’altra
birra, signore?» gli chiese.
«No,» disse Druss, mettendo una moneta d’argento sul bancone. «Prestami la
tua mazza.»
«Mazza? Non so cosa intendi dire.»
Druss sorrise e si inclinò in avanti con fare cospiratore. «Amico mio, non ho
ancora incontrato un taverniere che non tenga una bella mazza pesante a portata di
mano. Ora, io sono Druss, il pugile drenai e mi hanno detto che fuori di qua c’è una
banda che mi sta aspettando. Essi cercheranno di impedirmi di combattere contro
Klay.»
«Ho scommesso del denaro sull’incontro,» mormorò il taverniere. «Adesso sai
cosa facciamo, ragazzo? Tu passi da questa parte del bancone e io ti faccio
scendere nella cantina in cui tengo la birra. Là c’è una porta segreta che ti
permetterà di uscire senza farti vedere da quegli uomini, che ne dici?»
«Non ho bisogno di nessuna porta segreta,» insistette Druss con pazienza. «Ho
solo bisogno che mi presti la tua mazza.»
«Un giorno, ragazzo, potresti scoprire che è molto meglio evitare i guai.
Nessuno è invincibile.» Allungò una mano sotto il bancone, tirò fuori un
manganello di metallo nero lungo quarantacinque centimetri e lo appoggiò sul
piano. «L’esterno è ferro,» gli spiegò, «ma l’anima è in piombo. Restituiscimelo
quando hai finito.» Druss alzò l’arma soppesandola: era due volte più pesante di
una normale spada corta. Infilò il manganello dentro una manica della maglia e si
fece strada tra la calca. Appena aprì la porta vide diversi uomini vestiti con tuniche
e pantaloni consunti che Io stavano aspettando. Sembravano degli straccioni.
Spostò lo sguardo a destra e notò un secondo gruppo nelle vicinanze. Appena lo
videro apparire sulla porta i malviventi si irrigidirono e per un momento nessuno si
mosse. «Bene, ragazzi,» esordì Druss, con un largo ghigno dipinto sulla bocca.
«Chi è il primo?»
«Io,» disse un uomo con una barba ispida. Aveva le spalle larghe e robuste e a
dispetto dei vestiti stracciati non era un accattone. La pelle del collo e delle mani
era bianca e pulita. Il coltello che brandiva era di ferro ventriano e quel tipo di armi
costavano molto. «Vedo dallo sguardo dei tuoi occhi che sei spaventato,» disse
l’uomo, avvicinandosi. «Sento anche l’odore della tua paura.»
Druss rimase immobile come una statua finché l’uomo non balzò in avanti
tentando un affondo diretto alla spalla. Il guerriero drenai gli bloccò il colpo con
l’avambraccio sinistro sferrandogli contemporaneamente un pugno contro il mento.
L’uomo cadde a faccia in avanti sul selciato e rimase immobile. Druss aprì le dita e
il manganello gli scivolò in mano. Altre figure sbucarono dall’oscurità e lui le
caricò. Colpì con una spallata il primo assalitore che cadde a terra quindi cominciò
a menare fendenti a destra e sinistra con il manganello aprendosi la strada. Un
coltello gli strusciò contro la spalla. Druss afferrò l’uomo e gli diede una testata in
pieno volto rompendogli il naso e uno zigomo, quindi lo gettò di lato e si lanciò
contro altri due attaccanti. Il primo cadde sul suo stesso coltello ferendosi e le sue
urla riempirono l’aria. Il secondo assalitore arretrò. Altri uomini si radunarono:
otto e tutti armati di coltelli. Druss sapeva che ora non volevano più solo ferirlo,
poteva sentire il loro odio e la sete di sangue che li pervadeva.
«Sei morto, drenai!» sentì urlare da uno di loro mentre si avvicinavano.
Improvvisamente una voce potente echeggiò nella strada. «Resisti, Druss, sto
arrivando.»
Druss guardò alla sua sinistra e vide Klay spuntare da un vicolo laterale.
Appena il gigante gothir si lanciò in mezzo agli assalitori, questi lo riconobbero e
si dispersero. Klay si avvicinò a Druss. «Conduci una vita molto eccitante, amico
mio,» gli disse con un largo sorriso.
Qualcosa di brillante saettò verso il volto di Druss, e in quel terrificante
momento il guerriero drenai vide molte cose: la luce della luna che si rifletteva
sulla lama della daga, lo sguardo di trionfo sul volto sporco di colui che l’aveva
lanciata e la mano di Klay che scattava in avanti a una velocità incredibile
bloccando l’arma per l’elsa a pochissimi centimetri dai suoi occhi.
«Come ti ho detto, Druss, la velocità è tutto,» gli rammentò Klay.
Druss emise un lungo sospiro. «Non lo so, ragazzo, ma tu mi hai salvato la vita
e non me ne dimenticherò.»
Klay rise. «Andiamo amico mio, ho bisogno di mangiare.» Buttando un braccio
sulle spalle di Druss si girò e si avviò verso la taverna. In quello stesso istante una
quadrella dalle piume nere fendette l’aria e si piantò nella schiena del campione del
Gothir. Klay urlò e si accasciò contro Druss. Il drenai barcollò per via del peso
dell’amico, vide il dardo che gli spuntava dalla schiena, quindi lo adagiò con
cautela sul terreno. Fissò l’ombra e vide due uomini correre via. Uno di essi aveva
una balestra e Druss desiderò potergli dare la caccia, ma sapeva che non poteva
abbandonare Klay.
«Rimani immobile, chiamerò un medico.»
«Cosa mi è successo, Druss? Perché sono sdraiato?»
«Sei stato colpito da una quadrella. Rimani immobile!»
«Non riesco a muovere le gambe, Druss...»

La stanza degli interrogatori era fredda e umida. Dei rigagnoli di acqua


maleodorante lasciavano delle lunghe tracce di fanghiglia sulle pareti. Due lanterne
di bronzo appese a un muro emanavano una luce priva di calore. Seduto dietro un
grezzo tavolo coperto da varie macchie di sangue, alcune fresche e altre secche,
Chorin-Tsu attendeva con pazienza cercando di mettere ordine nei suoi pensieri.
Un soldato tarchiato che indossava una tunica di cuoio consumato e dei calzoni alla
zuava strappati stava vicino alla porta con le braccia conserte Il piccolo chiatze non
gli disse nulla. L’uomo aveva un volto dall’espressione brutale e gli occhi crudeli.
Chorin-Tsu non lo stava fissando direttamente, ma si stava limitando a esaminare il
locale con distacco clinico. Tuttavia i suoi pensieri erano rimasti concentrati sulla
guardia. Ho conosciuto uomini buoni, ma brutti, pensò, e altri individui bellissimi,
però malvagi. Tuttavia basta guardare il volto di questa guardia per riconoscerne
la brutalità, come se la sua natura rude e malvagia si fosse fatta strada dal
profondo del suo essere imprimendosi nei suoi lineamenti, incassandogli gli occhi
tra il grasso, avvicinandoglieli sopra un naso grosso e brufoloso e un paio di
labbra spesse e cadenti.
Un ratto nero attraversò la stanza. La guardia compì un balzo cercando di dargli
un calcio, ma lo mancò di molto. La bestia scomparve in una crepa del muro.
«Bastardo di un ratto!» sibilò la guardia, imbarazzato dal fatto che l’animale gli
avesse fatto perdere il controllo davanti al prigioniero. «È ovvio che ti piacciono,
bene! Presto vivrai con loro. Ti correranno addosso, ti morderanno, ti faranno i loro
bisogni sulla pelle e ti succhieranno il sangue nell’oscurità.»
Chorin-Tsu lo ignorò.
Garen-Tsen arrivò improvvisamente aprendo la porta senza quasi rumore.
Illuminato dal bagliore delle lanterne il volto del ministro aveva un colore giallo
malaticcio e gli occhi sembravano brillare di una luce innaturale. Chorin-Tsu non
lo salutò, né si alzò e si inchinò, come era uso tra i chiatze quando si trovavano in
presenza di un ministro. Al contrario rimase seduto con l’espressione calma e
impassibile.
Il politico congedò la guardia e si sedette di fronte al connazionale. «Ti porgo le
mie scuse per il luogo inospitale,» disse Garen-Tsen parlando in chiatze. «Era
necessario per la tua incolumità. Hai fatto un lavoro stupendo con la regina. Non è
mai stata tanto bella.»
«Ti ringrazio, Garen-Tsen,» rispose tranquillo Chorin-Tsu. «Come mai sono
qua? Mi avevi promesso che sarei stato libero.»
«E così sarà, contadino. Ma prima di tutto parliamo del tuo interesse per le
leggende nadir.»
Chorin-Tsu guardò il ministro magro che continuava a fissarlo. Da quel
momento in poi tutto sarebbe diventato un gioco con un solo finale. Sto per morire
in questo luogo freddo e sporco, pensò. Desiderava urlare il suo odio per il mostro
che aveva di fronte, arrabbiarsi e sfidarlo. Il fatto di provare quelle sensazioni lo
stupì molto poiché andava contro ogni insegnamento chiatze, ma sul suo volto
sereno non trapelò neanche un minimo accenno del suo stato d’animo. «Tutte le
leggende si basano su qualcosa di realmente accaduto, Garen-Tsen. lo sono uno
studioso di storia e amo molto indagare su quei fatti.»
«Certo. Ma nel corso degli ultimi anni i tuoi studi sono stati piuttosto mirati,
vero? Hai passato centinaia di ore nella grande biblioteca studiando pergamene
riguardanti Oshikai Flagello del Demone e la leggenda del Lupo di Pietra.
Perché?»
«Sono molto onorato del tuo interesse, anche se mi meraviglia molto che un
uomo della tua levatura, così carico di responsabilità si debba preoccupare di
quello che, dopo tutto, non è nient’altro che un passatempo,» replicò Chorin-Tsu.
«Tutti i movimenti e gli interessi degli stranieri residenti nel Gothir sono
controllati. Ma il mio interesse va ben al di là di queste faccende legali. Tu sei uno
studioso e meriti un pubblico ben più vasto. Sarei onorato di sentire il tuo punto di
vista sul Lupo di Pietra, ma dato che ho poco tempo forse sarebbe meglio se mi
parlassi delle tue scoperte riguardanti gli Occhi di Alchazzar.»
Chorin-Tsu fece un cenno praticamente impercettibile con il capo. «Forse
sarebbe meglio rimandare la nostra conversazione a quando ci troveremo in un
luogo più confortevole.»
Il ministro si adagiò contro lo schienale della sedia e appoggiò la punta delle
dita sotto il lungo mento. «Farti sparire all’insaputa di tutti sarebbe molto
pericoloso e altrettanto costoso, contadino. Quanto credi che valga la tua vita?»
Chorin-Tsu era sorpreso. La domanda era volgare e ben al di sotto di un chiatze
d’alto rango come il suo interlocutore. «Molto meno di quanto tu potresti pensare,
ma molto di più di quanto potrei permettermi,» replicò.
«Penso che scoprirai che il prezzo si trova alla tua portata, maestro
imbalsamatore. Due gioielli, per essere chiari, ChorinTsu. Gli Occhi di Alchazzar.
lo credo che tu abbia scoperto il luogo in cui sono nascosti. Mi sbaglio?»
Chorin-Tsu rimase silenzioso. Da anni ormai sapeva che la morte sarebbe stata
l’unica ricompensa per la sua opera e si era preparato per quell’evenienza, ma
adesso, in quella cella fredda e umida cominciò a cedere al panico. Voleva vivere!
Alzò gli occhi e incontrò lo sguardo da serpente del suo connazionale. «Diciamo,
per il gusto di conversare,» disse, mantenendo la voce salda, «che tu abbia ragione.
Quale beneficio porterebbe a quest’umile imbalsamatore il condividere con te
questa informazione?»
«Beneficio? Sarai libero. Hai la parola d’onore di un nobile chiatze, non è
sufficiente?»
Chorin-Tsu fece un profondo respiro e si appellò al poco coraggio che gli era
rimasto. «La parola di un nobile chiatze è effettivamente sacra e in presenza di un
simile uomo non avrei problemi a condividere la mia conoscenza. Forse dovresti
farne chiamare uno così potrò terminare la conversazione.»
Il colorito di Garen-Tsen si incupì. «Hai fatto il peggiore degli errori per cui ora
farai la conoscenza del torturatore reale. È questo che desideri, Chorin-Tsu? Egli ti
farà urlare e balbettare, piangere e implorare. Perché vuoi sottoporti a una simile
agonia?»
Chorin-Tsu ponderò la questione con attenzione. In tutta la sua lunga vita aveva
seguito gli insegnamenti chiatze, in particolare le leggi che riguardavano la rigida
etichetta. Quella era il fondamento di tutta la cultura chiatze. Tuttavia in quel
momento stava cercando una risposta a una domanda che nessun vero chiatze si
sarebbe mai sognato di fare. Era un quesito invadente e disgustoso, proprio il
genere di domande che solo un barbaro avrebbe fatto. Fissò intensamente gli occhi
di Garen-Tsen che continuava ad aspettare una risposta. Chorin-Tsu sospirò e per
la prima volta nella sua vita si espresse come un barbaro.
«Per ostacolarti, cane mentitore,» dichiarò.

La cavalcata era stata lunga e il calore del sole che batteva sulla steppa
succhiava l’energia sia agli uomini che ai pony. La polla d’acqua si trovava su
un’alta collina, sotto una sporgenza di ardesia e argilla. Pochi conoscevano
l’esistenza di quel luogo. Una volta Talismano aveva trovato le ossa di un uomo a
pochissimi passi dall’acqua. Il viandante era morto a poca distanza dalla salvezza.
La pozza, lunga sei metri e larga sette, era molto profonda e l’acqua era gelata.
Dopo aver sistemato le cavalcature, Talismano si spogliò e si avvicinò al bordo
della vasca. Il sole gli batteva sulle spalle scaldando anche la pietra sotto di lui. Il
giovane nadir fece un profondo respiro e si tuffò nell’acqua alzando una nuvola di
spruzzi. Tornò in superficie e si tolse i capelli bagnati dal volto.
Zhusai sedeva completamente vestita sul bordo della vasca. I suoi lunghi
capelli neri erano sudati, il volto sporco di terra e la sua tunica verde chiaro, un
vestito splendido che doveva aver pagato molto, era ora macchiata
«Sai nuotare, Zhusai?» le chiese. La ragazza rispose scuotendo la testa. «Vuoi
che ti insegni?»
«È molto gentile da parte tua, Talismano. Un’altra volta, forse.»
Talismano si avvicinò al bordo e si issò a fianco della ragazza che si inclinò in
avanti, prese un po’ d’acqua con le mani e se la spruzzò sul volto. Nei due giorni
che avevano trascorso insieme Zhusai non aveva iniziato nessuna conversazione.
Ogni volta che Talismano ci aveva provato lei si era limitata a rispondere con la
tipica cortesia dei chiatze. La ragazza si rimise il cappello di paglia e rimase seduta
distogliendo lo sguardo da lui senza lamentarsi del caldo soffocante.
«Non è difficile nuotare,» le disse. «Non c’è alcun pericolo, Zhusai. Io sarò in
acqua con te per sostenerti. Inoltre l’acqua è freschissima.»
La ragazza piegò la testa in avanti e chiuse gli occhi. «Ti ringrazio, lord
Talismano. Sei un compagno di viaggio molto premuroso. Il sole è molto caldo.
Forse dovresti vestirti o la tua pelle si brucerà.»
«No, penso che nuoterò di nuovo.» Così dicendo si tuffò in acqua. La sua
comprensione dello stile di vita chiatze si limitava alla conoscenza delle loro
strategie di guerra che a lui sembravano apparentemente molto ritualizzate.
Secondo i resoconti dei gothir molte campagne venivano condotte e vinte senza
alcuno spargimento di sangue. Gli eserciti manovravano per il campo di battaglia
finché una delle due parti si arrendeva. Tutto ciò non l’aiutava minimamente a
capire cosa passasse per la testa di Zhusai. Talismano si girò sulla schiena e
galleggiò sul pelo dell’acqua. In quel momento realizzò che le buone maniere della
ragazza stavano diventando piuttosto difficili da sopportare. Sorrise, nuotò fino al
bordo della polla e rimase in acqua sostenendosi con le braccia sulla roccia calda.
«Ti fidi di me?» le chiese.
«Certo. Tu sei il guardiano del mio onore.»
Talismano rimase sorpreso. «Io posso proteggerti con tutto me stesso, Zhusai,
ma nessuno può salvaguardare il tuo onore. È qualcosa che nessun uomo o donna
possono prendere. L’onore può essere solo ceduto.»
«Come hai detto, così deve essere, lord,» rispose la ragazza in tono mite.
«No, no! Non darmi ragione solo per cortesia, Zhusai.» Rimasero entrambi
silenziosi per un lungo momento e quando la ragazza riprese a parlare qualcosa nel
suo tono di voce era cambiato: pur rimanendo sempre dolce e suadente in esso era
apparsa come una sorta di fiducia velata che toccò molto Talismano.
«Temo che la traduzione del tuo titolo non sarebbe proprio esatta. L’onore di
cui tu parli è essenzialmente un concetto maschile, nato nella battaglia e nel
sangue. La parola di un uomo, il patriottismo di un uomo, il coraggio di un uomo.
Solo questa forma di onore può essere ceduto. Forse “guardiano della mia virtù”
sarebbe più appropriato. E benché potremmo intavolare una bellissima discussione
filosofica sul significato della parola virtù, io la uso nel senso in cui un uomo
l’applicherebbe a una donna, in particolare se si trattasse di una donna nadir. Se mi
hanno ben informata una donna della tua gente che è stata violentata viene
condannata a morte, mentre il violentatore viene bandito dalla tribù.» Rimase
silenziosa e distolse nuovamente gli occhi. Era stato il discorso più lungo che le
aveva sentito fare.
«Tu sei arrabbiata,» disse Talismano.
Lei inchinò la testa in avanti e la scosse. «Ho solo caldo, lord, e temo di essere
stata indiscreta.»
Il giovane nadir uscì dall’acqua, si avvicinò al pony, prese dei vestiti puliti dalle
bisacce, li indossò e tornò a sedersi vicino alla ragazza. «Oggi e stanotte ci
riposeremo qua.» Indicò la parte sud della vasca e continuò: «In quel punto c’è una
sporgenza rocciosa e l’acqua è profonda solo un metro e mezzo. Puoi andarti a
lavare là senza che nessuno ti veda. Intanto io mi occuperò di raccogliere la legna
per il fuoco.»
«Grazie, lord,» rispose lei, inchinando la testa.
Talismano si mise gli stivali, si buttò un sacco di tela vuoto sulle spalle e
raggiunse la cima dell’altura per osservare la steppa sottostante. Non c’era nessuno
che si stesse avvicinando. Scese lungo il pendio raccogliendo dei rami qua e là. In
quel luogo crescevano solo degli alberi a basso fusto e dei cespugli. Le loro radici
erano profondissime e la loro esistenza era assicurata da quei pochi giorni di
piogge torrenziali che in quella zona venivano chiamati inverno. Ben presto la
sacca si riempì di legna. Stava per tornare a fissare l’orizzonte quando sentì Zhusai
urlare. Lasciò cadere il sacco e cominciò a correre. Quando raggiunse la polla
d’acqua vide che la ragazza stava agitando le braccia freneticamente. Era scivolata
dalla sporgenza rocciosa ed era finita nell’acqua profonda.
Talismano raggiunse di corsa il bordo della vasca e si tuffò. Appena sotto il
pelo dell’acqua aprì gli occhi e vide Zhusai un paio di metri più in basso rispetto a
lui che stava continuando ad agitarsi selvaggiamente mentre una scia turbolenta di
bolle le usciva dalla bocca. Talismano la raggiunse, l’afferrò per i capelli e
cominciò a dirigersi verso la superficie, ma non si mosse di un centimetro. Era
troppo pesante! Fu colto dal panico. Guardandosi intorno vide che la sporgenza
rocciosa da cui era scivolata si trovava solo a un metro sulla sua sinistra. La
superficie deve essere vicina, pensò. Zhusai era ormai diventata un peso morto e
Talismano si sentiva a corto di fiato, ma resistette e prese a sbattere le gambe con
forza rinnovata finché la sua testa non emerse. Prese una lunga boccata d’aria
quindi tirò il corpo di Zhusai sulla sporgenza rocciosa. La ragazza rotolò e si
ritrovò con la faccia immersa nell’acqua poco profonda. Talismano la superò
barcollando, l’afferrò per le spalle e la tirò fuori dall’acqua. Dopo averla distesa
sullo stomaco le divaricò le gambe e cominciò a premerle sulla schiena. L’acqua le
uscì gorgogliando dalla bocca a ogni pressione. Dopo qualche secondo cominciò a
tossire quindi vomitò. Talismano si alzò in piedi, corse fino al pony, prese la
coperta, tornò da Zhusai, che nel frattempo si era seduta, e gliela avvolse intorno
alle spalle.
«Stavo morendo,» disse lei.
«Sì. Ma adesso sei di nuovo viva.»
La ragazza rimase silenziosa per un attimo poi lo fissò. «Mi piacerebbe
imparare a nuotare,» gli disse.
Talismano sorrise. «Allora te lo insegnerò, ma non oggi.»
Il sole stava tramontando e l’aria si era fatta più fresca. Talismano andò a
recuperare la sacca con la legna e quando tornò vide che Zhusai aveva indossato
una tunica e dei pantaloni blu e stava lavando i vestiti sporchi dal viaggio.
Talismano allestì il fuoco in una larga nicchia rocciosa sopra le ceneri lasciate da
un accampamento precedente. Zhusai lo raggiunse e per qualche tempo rimasero in
un tranquillo silenzio.
«Anche tu studi storia come tuo nonno?» le chiese.
«Lo seguo sin da quando avevo otto anni e ho visto con lui diversi luoghi
sacri.»
«Sei già stata al santuario di Oshikai?»
«Sì, due volte. Un tempo era un tempio. Mio nonno crede che sia il più vecchio
edificio che si trovi nel Gothir. Si dice che Oshikai fosse stato sepolto in quel luogo
dopo la battaglia di Vale. Sua moglie era presente nel momento in cui morì, ed è
per questo motivo che la valle in cui sorge il santuario si chiama Lacrime di Shul-
sen. Alcuni visitatori dichiarano che si possono ancora sentire i suoi lamenti se ci si
siede vicini al tempio durante le fredde notti invernali. L’hai mai sentita piangere,
lord Talismano?»
«Io non sono mai stato al santuario,» ammise il guerriero.
«Perdonami, lord,» si scusò velocemente la ragazza chinando la testa e
chiudendo gli occhi. «Temo che le mie parole, che non volevano avere nessun
significato particolare, ti abbiano recato offesa.»
«No, per nulla, Zhusai. Adesso parlami del tempio. Descrivimelo.»
Lei alzò lo sguardo fissandolo negli occhi. «Sono passati tre anni dall’ultima
volta in cui mi sono recata là. Avevo quattordici anni e mio nonno mi diede il mio
nome da donna, Zhusai.»
«Qual era il tuo nome da bambina?»
«Voni. Significa topo chiacchierone in chiatze.»
Talismano rise. «Ha un... significato simile in nadir.»
«In nadir vuol dire capra flatulenta,» gli disse lei, inclinando la testa e facendo
un sorriso così splendente che lo colpì in pieno volto come se fosse stato un pugno.
Il ragazzo sbatté le palpebre e fece un profondo respiro. Prima di quel sorriso la
bellezza della giovane gli era sembrata fredda, distante, e quella caratteristica
aveva permesso a Talismano di non sentirsi inquieto per la presenza della sua
compagna di viaggio. Ma ora? Si sentiva curiosamente senza fiato. Quando l’aveva
salvata dalla polla non era stato minimamente turbato dalla nudità della ragazza,
tuttavia il ricordo di quella pelle dorata, la curva dei suoi fianchi, la pancia e i
larghi capezzoli neri che spiccavano sul piccolo seno, riprese a brillare nella sua
mente. Improvvisamente capì che Zhusai gli stava parlando. «Va tutto bene, lord?»
«Sì,» replicò in modo più coinciso di quanto avrebbe voluto. Si alzò, si
allontanò dalla ragazza confusa, si sedette contro una roccia vicina all’altura e
lanciò un’occhiata nervosa a Zhusai che sedeva tranquilla vicina al fuoco. Era
semplicemente la più bella donna che Talismano avesse mai conosciuto.
E il suo onore gli imponeva di portarla a un altro uomo.
Chorin-Tsu aveva parlato di sacrificio.
Adesso Talismano aveva capito cosa avesse inteso.

Zhusai sedeva tranquilla vicina al fuoco con la coperta multicolore avvolta


intorno alle spalle. Talismano dormiva là vicino. Il suo respiro era profondo e
regolare. Quando uno dei pony si era agitato raschiando lo zoccolo contro la pietra,
il giovane aveva avuto qualche sussulto, ma non si era svegliato. La ragazza fissò il
volto illuminato dalla luna. Non era né brutto né bello. Però sei attraente, pensò
Zhusai, ricordando la gentilezza del suo tocco quando le aveva messo la coperta
addosso e la preoccupazione dei suoi occhi quando si era ripresa da quell’orribile
avventura nella polla d’acqua. Durante i sette anni trascorsi in compagnia del
nonno aveva incontrato diversi guerrieri nadir. Qualcuno le era piaciuto, altri li
aveva odiati, ma tutti avevano un aspetto che la terrorizzava poiché la violenza, la
ferocia e la sete di sangue tipica di quel popolo affiorava sempre nei loro modi di
fare. Talismano era diverso. Aveva una forza e una energia che raramente si
riscontravano in un ragazzo della sua età, ma lei aveva sentito che egli non amava
la crudeltà o gli spargimenti di sangue.
Zhusai aggiunse gli ultimi rametti alle fiamme. La notte non era fredda, ma
quel piccolo fuoco era il benvenuto. Chi sei, Talismano? si chiese. Era un nadir, su
questo non c’era alcun dubbio e inoltre aveva già superato da tempo l’età adulta.
Perché allora non portava nessun nome nadir? Perché Talismano? Poi c’era il suo
modo di parlare. La lingua dei nadir era gutturale, con molti suoni che venivano
creati dal fondo della gola, cosa che li faceva sembrare goffi quando parlavano i
linguaggi più morbidi dei meridionali dagli occhi rotondi. Con lui non era così,
Talismano parlava in modo fluente e ben modulato. Zhusai aveva passato diversi
mesi in mezzo ai nadir mentre il nonno viaggiava per esaminare i siti d’interesse
storico. Essi erano un popolo brutale, duro e sterile come le steppe in cui vivevano.
Le donne erano trattate in maniera crudele. Zhusai cominciò a ripensare a quanto
era successo durante la giornata.
Quando Talismano si era spogliato e tuffato nell’acqua, lei si era sentita sia
oltraggiata che incuriosita. Non aveva mai visto un uomo nudo. La sua pelle era di
colore oro chiaro e il suo corpo era magro come quello di un lupo. Sulla schiena,
sulle natiche e sulle cosce c’era una ragnatela di cicatrici bianche: frustate. Mentre
con le donne i nadir erano estremamente crudeli, raramente frustavano i bambini e
certamente non con tanta forza da lasciar loro dei segni simili a quelli sulla pelle di
Talismano.
Non c’era alcun dubbio a riguardo, Talismano era un enigma.
«Egli sarà uno dei generali dell’Unificatore,» le aveva detto il nonno. «È un
pensatore, ma è anche un uomo d’azione. Tali individui sono molto rari. I nadir
conosceranno giorni di gloria sotto la guida di persone simili.»
Lo zelo del suo parente l’aveva confusa. «Non sono la nostra gente, nonno.
Perché dovremmo preoccuparci per loro?»
«Le origini sono le stesse, piccola mia. Ma questa non è l’unica ragione. Il
Chiatze è una nazione ricca e altezzosa. Noi siamo molto orgogliosi della nostra
individualità e della nostra cultura. Gli occhi rotondi sono dei veri selvaggi e la
loro malvagità va oltre i limiti della nostra comprensione. Quanto ci vorrà ancora
prima che essi puntino i loro occhi sul Chiatze portando la guerra, le malattie, la
loro follia nella nostra patria natia? Una nazione dei nadir finalmente riunita
sarebbe un ottimo deterrente contro un’invasione.»
«Non saranno mai uniti. Si odiano a vicenda,» aveva replicato lei.
«Colui che sta per arrivare, l’uomo dagli occhi viola, avrà la capacità di riunirli
e di guarire ferite vecchie di secoli.»
«Perdona il mio povero intelletto, nonno, ma non riesco a capire,» aveva detto.
«Se sta già arrivando, se è scritto nelle stelle, perché tu passeresti così tanto tempo
a studiare, viaggiare e a incontrarti con gli sciamani? Egli non salirà al potere,
ignaro dei tuoi sforzi?»
Il vecchio aveva sorriso e le aveva stretto le piccole mani nelle sue. «Forse,
Voni. Forse. Una persona che sa leggere la mano può dirti molto riguardo la vita
passata e presente, ma quando guarda nel futuro egli dirà: “Questa mano mostra ciò
che dovrebbe essere e questa mano mostra ciò che potrebbe essere”. Egli non ti
dirà mai: “Queste mani mostrano ciò che sarà”. Io non sono un astrologo molto
dotato, ma so che l’uomo dagli occhi viola è la fuori da qualche parte. Tuttavia so
anche che molti pericoli lo attendono. Non è sufficiente che egli abbia il carisma, il
potere e il coraggio. Grandi saranno le forze che cercheranno di ostacolarlo. Egli
esiste, Zhusai. Un uomo unico in mezzo a una moltitudine. Egli dovrebbe salire al
potere per governare. Egli potrebbe cambiare il mondo. Ma lo farà? Il nemico
potrebbe trovarlo prima di noi, potrebbe morire a causa di una malattia Non posso
aspettare e attendere. I miei studi mi hanno dimostrato che potrei fungere da
catalizzatore negli eventi a venire, il soffio di vento che da inizio alla tempesta.»
Così avevano continuato a viaggiare e studiare, cercando l’uomo dagli occhi
viola.
Un giorno lo sciamano malvagio chiamato Nosta Khan era andato a trovarli a
Gulgothir. A Zhusai non era piaciuto fin dal primo momento in cui l’aveva visto:
intorno a quell’uomo c’era un’aura di malizia e cattiveria quasi palpabile. Lui e suo
nonno si erano chiusi nello studio per diverse ore e solo quando il nadir se n’era
andato, Chorin-Tzu le aveva rivelato l’orrore a venire. La notizia era stata così
sconvolgente che tutto l’autocontrollo derivato dalla sua educazione chiatze era
scomparso in un momento e lei aveva parlato chiaro.
«Tu desideri che mi sposi con un selvaggio, nonno. Per vivere nello sporco e
nello squallore tra gente che da più valore alle capre che alle donne? Come puoi?»
Benché fosse stato colpito dal suo scoppio d’ira, Chorin-Tsu aveva ignorato i
modi rudi della nipote. «Il selvaggio, come tu lo chiami, è un uomo speciale. Nosta
Khan ha camminato nelle nebbie. Io ho studiato le carte e lanciato le rune. Non ci
sono dubbi: tu sei una pedina fondamentale in questo grande disegno. Senza di te
non si verificherebbe mai l’avvento dell’Unificatore.»
«Questo è il tuo sogno, non il mio! Come puoi farmi questo?»
«Ti prego di controllarti, nipote. Questo sfogo è maleducato e decisamente
irritante. Non sono io il responsabile di questa situazione. Lascia che ti dica ancora
una cosa, Zhusai: ho fatto le carte per te diverse volte e ogni volta era chiaro che tu
avresti sposato un grande uomo. Bene, quell’uomo sarà l’Unificatore. Lo so senza
ombra di dubbio.»
Sotto la luna e le stelle, Zhusai fissò Talismano. «Perché non sei tu?» sussurrò.
Gli occhi scuri del ragazzo si aprirono. «Hai detto qualcosa?»
Lei rabbrividì. «No, mi dispiace d’averti disturbato.»
Il giovane si girò appoggiandosi su un gomito, Zhusai vide che il fuoco era
ancora acceso, quindi si sdraiò e tornò a dormire.
Quando si svegliò scoprì che, oltre alla propria coperta, Talismano l’aveva
avvolta anche nella sua. Si tirò su e vide il nadir seduto con le gambe incrociate su
una roccia a poca distanza da lei. Il sole faceva capolino oltre i picchi e la
temperatura si stava già alzando. Zhusai si stirò e si avvicinò al ragazzo. Talismano
aveva gli occhi chiusi, le braccia incrociate sul petto con i pollici agganciati. Suo
nonno adottava spesso quella posizione per meditare quando doveva trovare la
soluzione a un problema. Zhusai si sedette silenziosamente davanti al guerriero.
«Dove sei adesso, Talismano?» si chiese. «Dov’è volato il tuo spirito
inquieto?»

Era stato un ragazzino che non aveva mai visto una città. Aveva passato la sua
giovinezza nelle steppe correndo e giocando tra le tende del popolo di suo padre.
All’età di cinque anni aveva imparato ad accudire le capre, a fare il formaggio dal
loro latte e a stendere e raschiare la pelle di un animale. All’età di sette anni era
stato in grado cavalcare un piccolo pony e di tirare con l’arco. Raggiunti i dodici
anni era stato prelevato dalla sua tribù da uomini in armatura che attraversavano le
steppe alla volta di una città di pietra in prossimità del mare.
Quello era stato il primo vero trauma che Talismano aveva patito nella sua vita.
Suo padre, il più forte e coraggioso tra i capi tribù nadir, era rimasto seduto in
silenzio quando gli occhi rotondi con l’armatura erano arrivati. Quell’uomo che
aveva combattuto centinaia di battaglie non aveva detto una parola e non aveva
neanche fissato il figlio negli occhi. Solo Nosta Khan gli si era avvicinato e dopo
avergli appoggiato una mano ossuta sulla spalla gli aveva detto: «Devi andare con
loro, Okai. Ne va della sicurezza della nostra tribù.»
«Perché? Noi siamo le Teste di Lupo, i più forti di tutti.»
«Perché te lo ordina tuo padre.»
Essi avevano issato Okai sulla schiena di un alto cavallo e il lungo viaggio era
iniziato. Non a tutti i nadir veniva insegnata la lingua degli occhi rotondi, ma
Talismano si era dimostrato portato all’apprendimento delle lingue straniere e
Nosta Khan aveva passato diversi mesi insegnandogliene tutte le sottigliezze. Pro-
prio per quel motivo era riuscito a capire cosa stavano dicendo i
soldati. Essi stavano prendendosi gioco di loro chiamandoli cuccioli di sterco,
ma a parte quell’appellativo non si erano dimostrati scortesi con i prigionieri. Dopo
ventiquattro giorni di viaggio erano arrivati in vista di un luogo da incubo che i
bambini nadir avevano fissato con timore e rispetto. La pietra ricopriva ogni cosa e
si innalzava verso il cielo come a sfidarlo, spessi muri e case alte, vicoli stretti e
una massa di esseri umani che camminavano senza mai fermarsi, simili al corpo di
un gigantesco serpente, tra i mercati, le strade, le piazze e i corsi.
Diciassette giovani nadir, tutti figli di capi, erano stati portati nella città di
Bodacas in quella tarda estate. Talismano-Okai ricordava ancora quando avevano
attraversato la città. I bambini avevano indicato i loro coetanei nadir e avevano
cominciato a schernirli con urla e gesti, mentre gli adulti li avevano fissati torvi in
volto. La cavalcata era terminata davanti a una struttura cinta di mura che sorgeva
nella periferia della città. Quando i giganteschi cancelli di bronzo si erano aperti,
Okai aveva avuto l’impressione di entrare nella bocca di una gigantesca bestia
oscura e aveva provato una paura molto forte.
Oltre i cancelli c’era un ampio cortile dove uomini e ragazzi si stavano
esercitando nell’uso della spada, dello scudo e dell’arco. Tutti indossavano una
tunica cremisi, pantaloni scuri e stivali di cuoio marrone alti fino al ginocchio. Nel
momento stesso in cui i giovani nadir erano entrati tutti avevano smesso di eserci-
tarsi.
Un giovane dai capelli biondi aveva fatto qualche passo verso di loro
continuando a tenere in mano la spada d’addestramento. «Vedo che finalmente ci
hanno fornito i bersagli giusti per le nostre frecce,» aveva detto ai suoi compagni
che erano scoppiati a ridere sonoramente.
Ai nadir era stato ordinato di scendere dopodiché li avevano portati in un
edificio alto sei piani e avevano cominciato a salire una scala che era sembrata
interminabile. Arrivati al quinto piano si erano fermati e avevano imboccato un
lungo e claustrofobico corridoio che terminava in una larga stanza dove, seduto
dietro una scrivania di quercia lucida, era seduto un robusto guerriero dalla barba
biforcuta. I suoi occhi erano di un azzurro brillante, la bocca larga e le labbra
carnose. Una cicatrice gli correva sul lato destro del naso, gli attraversava la
guancia per poi piegarsi verso la mascella. Anche gli avambracci erano pieni di ci-
catrici dovute al combattimento corpo a corpo. Appena erano entrati l’uomo si era
alzato.
«Disponetevi su due linee,» gli aveva ordinato con voce profonda e fredda. I
giovani si erano sistemati. Okai, che era uno dei più piccoli, si trovò nella prima
fila. «Voi siete qua per diventare giannizzeri. Voi non sapete cosa significhi questa
parola e io ve lo spiegherò. Il re, possa egli vivere in eterno, ha concepito un piano
brillante per fermare le scorribande nadir adesso e in futuro. Voi siete qua come
ostaggi così i vostri padri rimarranno calmi. Oltre a questo fatto nel corso di questi
anni imparerete a diventare delle persone civili, vuol dire che imparerete le buone
maniere e a comportarvi correttamente. Imparerete a leggere, a discutere e a
pensare. Studierete la poesia, la letteratura, la matematica e la cartografia. Inoltre vi
verrà anche insegnata l’arte della guerra, la natura della strategia, la logistica e il
comando. In breve siete diventati cadetti e dopo qualche anno diventerete ufficiali
del grande esercito del Gothir.» Alzò gli occhi e fissò i due ufficiali che avevano
portato i bambini nella stanza. «Potete andare a lavarvi e a riposarvi. Ho ancora
qualche parola da dire a questi... cadetti.»
Appena gli ufficiali erano usciti e la porta si era chiusa, il guerriero aveva fatto
qualche passo e si era fermato davanti a Okai. «Quello che avete appena sentito,
scimmie mangiatrici di sterco, è il benvenuto ufficiale all’Accademia di Bodacas. Il
mio nome è Gargan, signore di Larness e la maggior parte delle cicatrici che porto
provengono da scontri contro la vostra miserabile razza. Ho ucciso la feccia nadir
per gran parte della mia vita. A voi non si può insegnare nulla poiché non siete
umani; sarebbe come insegnare a un cane a suonare il flauto. Questa follia è stata
partorita dalla mente confusa di un vecchio senile, ma quando morirà anche questa
stupidaggine finirà. Fino al quel giorno benedetto vedete di lavorare duro perché la
frusta attende i ritardati e gli stupidi. Adesso scendete le scale, un cadetto vi aspetta
e vi porterà dal quartiermastro che vi darà le tuniche e gli stivali.»
Talismano sentì Zhusai che si muoveva vicino a lui e si scosse dai suoi ricordi,
aprì gli occhi e sorrise. «Oggi ci dobbiamo muovere con molta cautela. Quest’area,
stando a quanto mi ha detto tuo nonno, è controllata da un gruppo di notas
chiamato Spacca-schiene. Desidererei evitarli se potessi.»
«Sai perché sono chiamati Spacca-schiene?» gli chiese. «Dubito che il loro
nome sia connesso allo studio della filantropia,» le disse, e si avviò ai pony.
«Lo studio della filantropia?» ripeté Zhusai. «Che razza di nadir sei?»
«Io sono il cane che ha imparato a suonare il flauto,» le rispose, mentre
stringeva le cinghie della sella. Terminata l’operazione gli saltò in groppa.
Viaggiarono per gran parte della mattinata fermandosi solo a mezzogiorno in
una gola per far riposare i cavalli e mangiare della carne e del formaggio. Non
avevano visto nessun altro cavaliere, ma Talismano aveva individuato delle tracce
fresche e visto dello sterco di cavallo ancora umido. «Tre guerrieri,» aveva detto
Talismano. «Sono davanti a noi.»
«È sconcertante. Non è possibile che siano semplici viaggiatori?»
«Possibile, ma non probabile. Non portano provviste e non stanno facendo
nulla per mascherare le loro impronte. Cercheremo di evitarli.»
«Io ho due coltelli da lancio. Uno per ogni stivale, lord,» lo informò lei
chinando la testa. «Sono capace di usarli. Anche se, è chiaro,» si affrettò ad
aggiungere, «che un guerriero abile come te può uccidere facilmente tre notas.»
Talismano assorbì l’informazione. «Penserò a quello che mi hai detto, ma spero
che non ci sia bisogno di nessuno spargimento di sangue. Cercherò di parlare con
loro. Non desidero uccidere nessun nadir.»
Zhusai chinò nuovamente la testa. «Sono sicura, lord, che troverai un piano
soddisfacente.»
Talismano tolse il tappo dalla borraccia e bevve un sorso d’acqua. Secondo la
mappa di Chorin-Tsu l’oasi più vicina si trovava a mezzo giornata di viaggio in
direzione est e quello era il punto in cui aveva intenzione di accamparsi; molto
probabilmente anche i notas pensavano di fare la stessa cosa. Passò la borraccia a
Zhusai e attese che avesse finito di bere, poi si avvicinò ai pony e rinfrescò loro il
muso e il naso. Tornò da Zhusai e si acquattò di fronte a lei. «Io accetto la tua
offerta,» le disse. «Ma sia ben chiaro che lancerai il coltello solo dietro un mio
esplicito comando. Sei destra?» Lei annuì. «Allora il tuo bersaglio sarà l’uomo più
lontano alla tua sinistra. Se dovessimo incontrare i Notas dovrai estrarre il coltello
con circospezione. Se pronuncerò il tuo nome dovrai lanciare.»
«Ho capito, lord.»
«C’è un’altra questione che dobbiamo accomodare. I modi educati dei chiatze
sono leggendari e perfetti per un mondo di sedie coperte di raso, grosse biblioteche
e diecimila anni di civiltà. Non qua. Togliti dalla testa i pensieri riguardo il
guardiano. Abbiamo appena stabilito un piano di battaglia e adesso siamo due
guerrieri che stanno viaggiando insieme in una terra ostile. Da questo momento in
avanti mi farebbe molto piacere se tu parlassi in modo meno formale.»
«Non desideri che io ti chiami lord?»
Talismano la fissò negli occhi e sentì la bocca secca. «Risparmia quel titolo per
tuo marito, Zhusai. Chiamami Talismano.»
«Come tu comandi, così sia... Talismano.»
Il sole bruciava sulle steppe e i due pony avanzavano lentamente verso le
montagne lontane con la testa bassa. Benché quel luogo sembrasse piatto e
uniforme, Talismano sapeva che c’era un numero imprecisato di gole e depressioni
e che i tre notas potevano trovarsi in un centinaio di nascondigli diversi. Socchiuse
gli occhi e osservò il paesaggio. Non vide nulla, tolse il laccio che bloccava la
sciabola nel fodero e continuò a cavalcare.

Di solito Gorkai era un assassino e un ladro, ma non sempre rispettava


quell’ordine. Il sole batteva a picco su di lui ma il suo brutto volto non era per nulla
sudato. I suoi due compagni portavano entrambi dei cappelli di paglia a tesa larga
per ripararsi il volto e il collo dal caldo impietoso, ma Gorkai non pensava mai al
caldo mentre aspettava un’altra vittima. Un tempo egli aveva aspirato a essere
qualcosa di più di un semplice ladro. Aveva desiderato di possedere il proprio
gregge di capre e una scuderia di bei pony generati dai robusti stalloni dei passi del
nord. Gorkai aveva sognato il giorno in cui si sarebbe potuto permettere una
seconda moglie anche se non aveva neanche la prima. Inoltre, in quelle notti in cui
la sua immaginazione prendeva il volo, si era visto invitato a sedere in mezzo agli
anziani. Tutti i suoi sogni erano andati in fumo ora, si erano trasformati in un
cattivo retrogusto lasciato dai ricordi.
Adesso egli era un notas, un senza tribù.
Mentre sedeva sotto il sole cocente che sovrastava le steppe non aveva nessun
sogno. Al campo la prostituta dal naso piccolo che l’aspettava avrebbe voluto
ricevere qualche regalino prima di concedergli i suoi favori.
«Pensi che siano usciti dal sentiero?» chiese Baski, accucciandosi al suo fianco.
I cavalli erano impastoiati in una gola là vicino e i due uomini erano in parte
nascosti dalle lunghe fronde di alcuni cespugli di sihjis. Gorkai diede un’occhiata
al robusto guerriero al suo fianco.
«No, stanno avanzando lentamente per risparmiare le forze dei pony.»
«Lo attacchiamo appena lo vediamo?»
«Tu pensi che sia una preda facile?» ribatté Gorkai.
Baski si schiarì la gola e sputò, dopodiché scrollò le spalle. «Lui è solo. Noi
siamo in tre.»
«Tre? Faresti bene a non riporre molta fiducia in Djung.»
«Djung ha già ucciso,» affermò Baski. «L’ho visto io.»
Gorkai scosse la testa. «Sì è un assassino, ma noi stiamo per affrontare un
guerriero.»
«Come fai a dirlo, Gorkai? Non l’abbiamo ancora visto.»
Il nadir si accucciò a sua volta. «Un uomo non deve essere un esperto di uccelli
per capire che il falco è un cacciatore e il piccione la preda. Capisci? Gli artigli
affilati, la curva del becco, la forza e la velocità delle sue ali. La stessa cosa vale
per gli uomini. Questo è prudente, attento, evita i luoghi adatti alle imboscate e
tutto ciò dimostra che conosce i modi con cui si compiono le scorrerie. Sa anche di
essere in un territorio ostile, tuttavia continua ad avanzare. Questo dimostra che ha
coraggio e fiducia. Non c’è fretta Baski. Prima osserviamo poi uccidiamo.»
«Mi inchino davanti alla tua saggezza, Gorkai.»
Un suono provenne dalle loro spalle, Gorkai si girò e vide Djung che saliva a
fatica lungo il pendio. «Piano!» gli sibilò Gorkai, «stai alzando la sabbia!»
Il volto di Djung assunse un’espressione cupa. «Nessuno la può vedere,»
ribatté. «Ti preoccupi come una vecchia.»
Gorkai distolse lo sguardo dal giovane. Non c’era più bisogno di andare oltre
nella conversazione. Djung aveva il dono della stupidità e una abilità quasi mistica
di opporsi a ogni forma di logica.
Non c’era ancora nessun segno dei cavalieri e Gorkai permise alla sua mente di
rilassarsi. Un tempo egli stato considerato un uomo con un futuro, una voce per il
futuro, ma quei giorni erano finiti tempo fa, sepolti sotto la sabbia del suo passato.
Quando era stato bandito dalla tribù aveva creduto di essere sfortunato, ma ora, con
il dono quasi inutile del senno del poi, sapeva che non era stato così. Era stato
impaziente e aveva cercato di andare troppo lontano e troppo in fretta. L’arroganza
della giovinezza. Era stato troppo in gamba per riconoscere la sua stessa stupidità.
Aveva solo diciassette anni quando aveva preso parte a una scorreria contro la
tribù delle Teste di Lupo ed era stato proprio Gorkai a catturare trenta pony.
Improvvisamente ricco era diventato uno sbruffone. A quel tempo gli era sembrato
che gli dèi della pietra e dell’acqua avessero un occhio di riguardo per lui. Ora,
ripensando a quel periodo, capiva che quello era stato un dono imbevuto di veleno.
Catturando due pony si sarebbe guadagnato il diritto ad avere una moglie; dieci gli
avrebbero permesso di essere considerato tra i migliori guerrieri della tribù. Trenta,
però, erano troppi per un giovane guerriero e più lui si vantava e più veniva odiato.
Al raduno di mezza estate egli aveva fatto un’offerta per avere in moglie Li-shi,
figlia di Lon-tsen. Cinque pony! Nessuno aveva mai offerto tanto per una vergine.
Ed era stato rifiutato! Il ricordo della vergogna provata in quel momento lo
faceva arrossire di rabbia anche a distanza di anni.
Inoltre era stato ulteriormente umiliato poiché Lon-tsen aveva ceduto la figlia a
un guerriero che aveva offerto solo un pony e sette coperte.
Furioso, Gorkai aveva covato la sua umiliazione trasformandola in un odio così
forte che quando arrivò a concepire il suo piano lo vide come la più brillante delle
idee per ristabilire il suo orgoglio infranto. Aveva rapito Li-shi, l’aveva violentata
quindi l’aveva restituita al padre. «Adesso guarda ciò che rimane della donna che
Gorkai desiderava,» aveva detto all’uomo. Secondo la tradizione nadir nessuno
avrebbe mai sposato una donna violentata. La loro legge decretava che il padre
avrebbe dovuto darla a Gorkai oppure ucciderla poiché aveva coperto di vergogna
la propria famiglia.
Erano venuti a prenderlo una notte e l’avevano trascinato davanti al consiglio.
Là aveva assistito alla morte della ragazza, strangolata dal suo stesso padre, e
sentito le parole con cui gli anziani lo avevano bandito dalla tribù.
Malgrado tutte le persone che aveva ucciso, egli ricordava ancora con
dispiacere la morte della ragazza. Li-shi non si era ribellata, ma si era limitata a
fissarlo finché non era morta, instillando in lui un senso di colpa che anche ora gli
pesava sul cuore come una pietra.
«Eccoli,» sussurrò Baski. Gorkai si sforzò di allontanare i ricordi e socchiuse
gli occhi. Pur rimanendo a una certa distanza, l’uomo cavalcava davanti alla donna.
Gorkai socchiuse ancora di più gli occhi e studiò l’uomo. Sul pomello della sella
erano legati l’arco e la faretra e dal suo fianco pendeva una sciabola da cavaliere.
L’uomo fermò il cavallo a circa sessanta passi da Gorkai. Era giovane e quel fatto
sorprese molto il notas poiché, basandosi sulla bravura dimostrata fino a quel
momento, aveva pensato di trovarsi davanti un guerriero stagionato di circa
trent’anni.
Appena Gorkai vide la donna dal corpo snello e dai capelli corvini che si era
affiancata al giovane rimase a bocca aperta. Oltre alla sua bellezza la cosa che
l’aveva colpito più di tutto era la sua somiglianza con la ragazza che un tempo
aveva amato. Che gli dèi gli stessero donando una possibilità di trovare un po’ di
felicità? Un clangore metallico ruppe il silenzio. Gorkai si voltò con sguardo
adirato e fissò Djung che aveva estratto la spada.
Sulla steppa il cavaliere girò la sua cavalcatura tagliando verso sinistra e
galoppando via insieme alla donna.
«Idiota!» disse Gorkai.
«Noi siamo in tre. Inseguiamoli,» lo incitò Baski.
«Non è necessario. L’unica fonte si trova a quaranta miglia da qua. Li
troveremo là, all’oasi di Kall.»

Talismano si era appena seduto vicino al fuoco quando tre cavalieri entrarono
nel campo che lui aveva preparato a circa duecento metri dall’oasi di Kall, un
vasca di roccia alimentata da alcune sorgenti sotterranee. Vicino all’acqua
crescevano degli snelli alberi e dei fiori multicolori spuntavano sul fango vicino
alla riva. Zhusai avrebbe voluto accamparsi vicina all’acqua, ma Talismano non
era stato d’accordo e così si erano sistemati appoggiati a una roccia che spuntava
dalla sabbia a poca distanza dall’acqua. La ragazza stava dormendo nel momento
in cui i tre sconosciuti erano entrati nel campo, ma Talismano era ben sveglio, con
la sciabola appoggiata sul terreno davanti a lui. Al suo fianco c’era anche l’arco da
caccia, e tre frecce piantate per terra.
I cavalieri si fermarono e cominciarono a osservare Talismano. L’uomo che
stava in mezzo ai due compagni era un guerriero robusto con i capelli tagliati corti.
Quello di destra aveva lo sguardo adirato e quello di sinistra era un grassone che
portava un elmo coperto di pelliccia.
I nuovi arrivati attesero, ma Talismano non si mosse né parlò. Infine l’uomo di
centro scese da cavallo. «Un luogo solitario,» disse a bassa voce. Zhusai si svegliò
e si sedette.
«Tutti i luoghi sono desolati per un uomo solo,» rispose Talismano.
«Cosa vuoi dire?» chiese l’uomo facendo segno ai suoi due compagni di
scendere e unirsi a lui.
«In quale luogo della Terra della pietra e dell’acqua un notas si sente il
benvenuto?»
«Non sei molto amichevole,» disse l’uomo facendo un passo avanti, mentre gli
altri due si aprivano a destra e a sinistra appoggiando le mani sull’elsa delle spade.
Talismano si alzò con le braccia che penzolavano rilassate lungo il corpo,
lasciando la sciabola a terra. La luna brillava nel cielo. Zhusai fece per alzarsi ma
Talismano la fermò. «Rimani dove sei... Zhusai,» le disse. «Tra un po’ sarà tutto
finito.»
«Sembri molto sicuro,» disse l’uomo coi capelli corti. «Però sei in una terra
straniera e non ti trovi in mezzo ad amici.»
«Questa non è una terra straniera per me,» gli disse Talismano. «È la terra dei
nadir governata dagli dèi della pietra e dell’acqua. Io sono un nadir e questa terra è
mia di diritto e di sangue. Siete voi gli stranieri. Non sentite le vostre morti
nell’aria, nella brezza? Non sentite il disprezzo che questa terra prova per voi?
Notas! Solo il nome puzza come un maiale morto da tre giorni.»
Il capo dei tre arrossì in volto. «Pensi che siamo stati noi a scegliere questo
titolo, bastardo arrogante? Pensi che a noi piaccia vivere in questo modo?»
«Perché continuiamo a parlare con lui?» ringhiò il guerriero dal volto grasso.
«Facciamola finita!» Così dicendo estrasse la spada dal fodero in cuoio e corse in
avanti. La mano destra di Talismano si piegò dietro la spalla quindi scattò in
avanti. La lama del coltello fendette l’aria e si piantò fino all’elsa nell’occhio
destro del notar. Il guerriero fece ancora un paio di passi quindi si girò verso
sinistra e cadde colpendo il terreno con il volto. Appena il secondo guerriero scattò
in avanti il coltello di Zhusai lo raggiunse al collo. Tossendo per via del sangue che
gli occludeva la trachea, l’uomo lasciò cadere la spada a terra, sfilò il coltello dalla
gola e fissò incredulo la lama snella dell’arma. Cadde in ginocchio, cercò di
parlare, ma dalla sua bocca uscì solo un fiotto rossastro. Talismano alzò un piede,
la spada volò nell’aria e lui l’afferrò con un gesto esperto.
«Il tuo amico morto ti aveva fatto una domanda,» gli disse. «Ma sono io che
vorrei sentire la risposta. Perché parli con me?»
L’uomo sbatté le palpebre e si sedette con un movimento repentino vicino al
fuoco. «Hai ragione,» disse. «Posso sentire il disprezzo e sono solo. Ma non è
sempre stato così. La mia stupidità e il mio orgoglio mi hanno portato a
commettere un errore e sono vent’anni che sto pagando per quell’atto. Sembra che
non finirà mai.»
«A quali tribù appartenevi?» gli chiese Talismano.
«Grigi del nord.»
Talismano si avvicinò al fuoco e si sedette di fronte all’uomo. «Io mi chiamo
Talismano e vivo per servire l’Unificatore. Il giorno del suo avvento è molto
vicino. Se desideri tornare a essere un nadir, allora seguimi.»
L’uomo sorrise e scosse la testa. «L’Unificatore? L’eroe con gli occhi viola? Tu
credi che esista? E se è così credi che lui mi rivorrebbe?»
«Lo farà se se sarai con me.»
«Sai dove si trova?»
«So cosa ci porterà da lui. Mi seguirai?»
«Qual è la tua tribù?»
«Le Teste di Lupo. E tu diventerai uno di noi.»
L’uomo lanciò una torva occhiata al fuoco. «Tutti i miei guai cominciarono con
le Teste di Lupo. Forse finiranno con loro.» Alzò lo sguardo e fissò gli occhi scuri
di Talismano. «Ti seguirò. Quale giuramento di sangue vuoi da me?»
«Nessuno,» disse Talismano. «Come tu hai detto, così sia. Come ti chiami?»
«Gorkai.»
«Allora fai la guardia, Gorkai, perché io sono stanco.»
Così dicendo Talismano appoggiò a terra la sciabola, si avvolse nella coperta e
si addormentò.

Zhusai sedeva tranquilla mentre Talismano si sdraiava a terra appoggiando la


testa all’avambraccio. Dopo qualche attimo il respiro del ragazzo divenne più
profondo e si addormentò. Zhusai poteva credeva a stento che lui avesse potuto
fare una cosa simile! Lanciò un’occhiata nervosa a Gorkai e vide la confusione di-
pinta sul volto dell’uomo. Pochi minuti prima lui e i suoi due compagni erano
entrati nel campo con l’intenzione di ucciderli. Ora i due erano morti e il terzo
sedeva tranquillo vicino al fuoco. Gorkai si alzò e Zhusai ebbe un sussulto, ma il
guerriero nadir non si avvicinò a lei, anzi afferrò il corpo di uno dei suoi compagni
e lo trascinò fuori dal campo, tornò e ripeté la stessa operazione con il secondo
cadavere. Finito, si sistemò davanti a Zhusai e allungò una mano. La ragazza
abbassò lo sguardo e vide che l’uomo le stava porgendo il suo coltello da lancio
con l’elsa in avorio. Zhusai lo afferrò senza dire nulla. Gorkai si alzò nuovamente,
andò a raccogliere della legna poi si sedette vicino al fuoco. Zhusai non sentiva
alcun bisogno di dormire. Era convinta che appena avesse chiuso gli occhi
l’assassino che aveva davanti avrebbe tagliato la gola a Talismano per poi
violentarla e ucciderla a sua volta.
La notte continuò e Gorkai rimase seduto a gambe incrociate, assorto nei suoi
pensieri, senza neanche avvicinarsi a lei o a Talismano. Il giovane nadir si lamentò
nel sonno e disse improvvisamente una parola in lingua gothir. «Mai!»
Gorkai fissò la ragazza e lei non distolse gli occhi. Il guerriero si alzò in piedi,
le fece segno di seguirlo, quindi senza voltarsi si avvicinò ai pony e si sedette su
una roccia. Zhusai non si mosse per qualche attimo, quindi, stringendo il coltello,
lo seguì.
«Parlami di lui,» gli disse Gorkai.
«So molto poco.»
«Vi ho osservati entrambi. Non vi toccate, non c’è intimità tra di voi.»
«Non è mio marito,» rispose freddamente la ragazza.
«Da dove viene? Chi é?»
«È Talismano della Tribù del Lupo.»
«Talismano non è un nome nadir. Io ho messo la mia vita nelle sue mani perché
ha toccato i miei sogni e le mie necessità, ma ho bisogno di sapere.»
«Credimi, Gorkai, non ne so molto più di te. Ma egli è forte e i suoi sogni sono
grandiosi.»
«Dove siamo diretti?»
«Alla tomba di Oshikai nella Valle delle Lacrime di Shulsen.»
«Ah,» disse Gorkai, «un pellegrinaggio. Così sia.» Si alzò e fece un profondo
respiro. «Anch’io ho i miei sogni, anche se li ho dimenticati quasi del tutto.» Esitò,
quindi tornò a parlare. «Non avere paura di me, Zhusai. Non ti farò mai del male.»
Così dicendo Gorkai tornò al fuoco e si sedette.
Zhusai si avvicinò alla coperta.
L’alba era nuvolosa e la ragazza chiatze si svegliò con un sobbalzo. Si era
imposta di non dormire, ma a un certo punto della notte non aveva più resistito ed
era scivolata nel mondo dei sogni. Talismano era già sveglio e stava parlando con
Gorkai. Zhusai riaccese il fuoco e preparò una colazione a base di carne secca e
avena salata. I due uomini mangiarono in silenzio poi Gorkai prese i piatti di legno
e andò a lavarli. Quello era il lavoro per una donna o una serva e con quel gesto il
guerriero nadir aveva voluto far capire in quale posizione si era messo nei loro con-
fronti. Zhusai rimise i piatti nella sacca di tela e la legò dietro la sella. Gorkai
l’aiutò a salire e le passò le redini.
Talismano guidava il gruppo e Gorkai avanzava al suo fianco. «Quanti notas ci
sono in questa zona?» gli chiese.
«Trenta,» rispose Gorkai. «Noi... essi si fanno chiamare Spacca-schiene.»
«Così ho sentito dire anch’io. Sei mai stato alla tomba di Oshikai?»
«Tre volte.»
«Parlamene.»
«È semplicemente un sarcofago scolpito messo dentro una costruzione di pietra
bianca. Un tempo era un forte gothir, ora è un luogo sacro.»
«Chi lo sorveglia?»
Gorkai scosse le spalle. «Difficile dirlo. Ci sono sempre i guerrieri di almeno
quattro tribù accampati nelle vicinanze. Un prete cieco manda dei messaggi a uno
dei gruppi per informarli quando è giunto il momento di tenere fede ai loro
obblighi o per dire loro quando possono tornare alle loro terre, solo allora le altre
tribù mandano i propri uomini. È un grande onore essere scelti come guardie del
tempio di Oshikai. L’ultima volta che sono stato là il compito di sorvegliare la
tomba era stato affidato alle Scimmie Verdi, mentre in attesa c’erano i Grigi del
Nord, le Tigri di Pietra e i Pony Veloci.»
«Di quanti uomini era composto ogni gruppo?»
«Non più di quaranta.»
Le nuvole cominciavano ad aprirsi facendo strada al sole cocente. Zhusai si
mise in testa il cappello di paglia. La sabbia le bruciava la gola, ma lei resistette
all’impulso di bere.
Il trio cavalcò per tutto il lungo giorno.
CAPITOLO QUINTO

I disordini cominciarono dai quartieri più poveri e si allargarono a macchia


d’olio in tutta la città imperversando per tre giorni. Delle truppe vennero
richiamate e la cavalleria caricò la folla. Il bilancio della rivolta fu molto pesante:
quattrocento morti e cinquecento feriti.
I giochi furono sospesi e agli atleti venne consigliato di rimanere nei propri
alloggi, mentre i soldati pattugliavano quella zona della città. Quando scese la notte
Druss fissò con sguardo cupo la città da una finestra, osservando le fiamme che si
levavano dai palazzi del quartiere ovest.
«Follia,» disse Sieben, avvicinandosi al suo fianco.
«Majon mi ha detto che hanno trovato il balestriere e l’hanno fatto a pezzi.»
«Tuttavia continuano ad ammazzarsi. Perché, Sieben?»
«L’hai detto tu stesso: follia. Follia e cupidigia. Quasi tutti avevano scommesso
del denaro su Klay e ora si sentono traditi. Tre delle case in cui era possibile fare le
scommesse sono state rase al suolo.» Fuori un manipolo di cavalleria si stava
avviando al piccolo galoppo verso la scena dei disordini.
«Quali notizie hai di Klay?» gli chiese Druss.
«Nessuna, ma Majon mi ha detto che molti dei suoi amici sono medici. Inoltre
Klay è un uomo ricco, Druss, si può permettere il meglio.»
«Sarei morto,» disse Druss con calma. «Avevano lanciato un coltello contro il
mio occhio. La sua mano si è mossa come un fulmine, poeta. Non avevo mai visto
nulla di simile. Ha afferrato il coltello a mezz’aria.» Druss scosse la testa. «Non
riesco ancora a crederci. Un attimo dopo una quadrella scagliata da un codardo
l’abbatte. Non camminerà mai più, Sieben.»
«Come fai dirlo, vecchio cavallo. Non sei un medico.»
«So che ha la spina dorsale danneggiata. Ho visto quel tipo di ferita decine di
volte. Non si può guarire. Non senza...» Druss divenne silenzioso.
«Senza cosa?»
Druss si allontanò dalla finestra. «Uno sciamano nadir è venuto da me, proprio
pochi minuti prima dello scontro e mi ha parlato di alcune gemme magiche che
possono guarire qualsiasi ferita.»
«Ha anche cercato di venderti la mappa che porta a qualche leggendaria
miniera di diamanti?» gli chiese Sieben, sorridendo.
«Esco, ho bisogno di vedere Klay,» dichiarò Druss.
«Fuori? In quel caos? Avanti Druss, aspetta almeno fino al mattino.»
Druss scosse la testa.
«Allora prenditi un’arma,» gli consigliò Sieben. «I rivoltosi sono ancora
assetati di sangue.»
«Allora è meglio che mi stiano lontani,» ringhiò Druss, «altrimenti rischieranno
di annegare nel loro stesso sangue!»

* * *
Il giardino era deserto e i cancelli erano aperti. Druss si fermò e fissò la statua
infranta che giaceva a terra. Sembrava che le avessero rotto le gambe a martellate.
Il collo era stato staccato dal tronco e la testa, rotolata poco lontano, fissava con i
suoi occhi di pietra il guerriero con la barba fermo sul cancello.
Druss si guardò intorno. Le aiuole erano state sradicate e i prati erano stati
ridotti a un pantano. Camminò a grandi passi fino alla porta principale
dell’abitazione e vide che era aperta. Nessun servitore si fece avanti per accoglierlo
mentre attraversava l’area d’allenamento. Tutto era immerso nel silenzio. Nei
cerchi di sabbia non c’era nessuno che si stesse allenando e anche le fontane non
zampillavano più. Un vecchio si fece avanti portando un secchio d’acqua: era il
servitore che si era curato del poverello che lui aveva portato con sé. «Dove sono
finiti tutti?» chiese Druss.
«Andati via. Sono tutti spariti.»
«Cosa ne è stato di Klay?»
«L’hanno portato nell’ospizio del quartiere sud. Quella feccia, quel branco di
bastardi!»
Druss prese a vagare per l’edificio. Le sedie e i divani erano stati rotti, le tende
strappate dalle finestre. Un ritratto di Klay era stato lacerato e tutta la casa puzzava
d’urina. Druss scosse la testa meravigliato. «Perché i rivoltosi avrebbero dovuto
fare tutto ciò? Credevo che gli volessero bene.»
Il vecchio appoggiò il secchio, raddrizzò una sedia e vi si abbandonò sopra.
«Oh sì, l’amavano, fino al giorno in cui si è spezzato la schiena. Poi l’hanno
odiato. La gente aveva scommesso su di lui i risparmi di tutta una vita. Avevano
sentito dire che si era immischiato in una rissa tra ubriachi e che tutte le scommes-
se erano state annullate. I loro soldi erano spariti, quindi gli si sono rivoltati contro.
Dopo tutto quello che lui aveva fatto per loro,» disse alzando lo sguardo con il
volto arrossato dall’ira, «L’ospizio in cui l’hanno portato è stato costruito con i
soldi donati da Klay. Molte delle persone che sono venute qua urlando e spaccando
tutto erano state aiutate da lui in passato. Nessuna gratitudine. Ma il peggiore di
tutti è stato Shonan.»
«L’allenatore di Klay?»
«Pah!» scattò il vecchio. «Allenatore, manipolatore, padrone? Chiamalo come
vuoi, ma io lo definisco una sanguisuga. Klay è finito, adesso, e anche il suo
benessere. Shonan ha anche detto che questa casa gli appartiene. A quanto sembra,
Klay non ha più nulla. Ci credi? Il bastardo non ha neanche pagato la carrozza che
l’ha portato all’ospizio. Morirà là senza un soldo.» Il vecchio fece una risata amara.
«Un momento prima era l’eroe di Gothir, amato e adulato da tutti. Ora è povero,
solo e senza amici. Per gli dèi, fa pensare, non trovi?»
«Egli ha te e me,» gli rammentò Druss.
«Tu? Tu sei il lottatore drenai, lo conosci appena.»
«Lo conosco e questo è quanto mi basta. Puoi portarmi da lui?»
«Sì, con piacere. Io non ho più nulla da fare qua. Troviamoci di fronte alla casa.
Raccolgo la mia roba e ti raggiungo.»
Druss passeggiava per il giardino davanti alla casa quando vide un gruppo di
circa dodici atleti entrare dal cancello e il suono delle loro risa servì solo a irritarlo
ulteriormente. Al centro del gruppo c’era un uomo calvo che indossava un collana
d’oro tempestata di gemme. Si fermarono davanti ai resti della statua e Druss sentì
un giovane dire: «Per Shemak, questa mostruosità è costata più di tremila raq e
adesso è solo immondizia.»
«Il passato è il passato,» sentenziò l’uomo con la collana d’oro.
«Cosa faremo adesso, Shonan?» chiese un altro.
L’uomo alzò le spalle. «Troveremo un altro lottatore. Sarà difficile, badate,
Klay era molto dotato. Non c’è dubbio a riguardo.»
Il vecchio si mise al fianco di Druss. «Il loro dolore non ti commuove? Klay li
ha aiutati tutti quanti. Vedi quello con i capelli biondi? Klay ha pagato tutti i suoi
debiti di gioco non più di una settimana fa. Poco più di mille raq. E questo è il
modo in cui lo ringraziano!»
«Sì, sono decisamente meschini,» disse Druss. Attraversò il prato a grandi passi
e si avvicinò a Shonan.
L’uomo rise nel vederlo e disse: «Come cadono i potenti.» Indicò lo statua.
«E quelli neanche tanto potenti,» disse Druss tirandogli un pugno in faccia che
lo fece volare in aria. L’uomo cadde pesantemente a terra e rimase immobile.
Alcuni degli atleti scattarono in avanti, ma lo sguardo infuocato di Druss li bloccò
immediatamente facendoli arretrare lentamente. Druss si avvicinò a Shonan che
aveva i denti davanti rotti e la mascella che penzolava inerte. Druss strappò la
collana d’oro dal collo dell’uomo e la lanciò al vecchio. «Questo servirà a pagare
uno o due conti all’ospizio,» gli disse.
«Lo farà,» concordò il vecchio. Gli atleti erano ancora fermi. Druss indicò il
giovane con i lunghi capelli biondi.
«Tu, vieni qua.» L’uomo sbatté nervosamente le palpebre, ma si avvicinò
ugualmente.
«Quando questo pezzo di rifiuto si sveglia, digli che Druss lo troverà di nuovo.
Digli che io voglio che Klay sia seguito. Mi aspetto che egli torni nella sua casa,
con i suoi camerieri e abbastanza soldi per pagarli. Se tutto ciò non verrà fatto io
tornerò indietro e l’ucciderò, dopodiché ti troverò e ti strapperò il tuo bel viso dal
teschio. Capito?» Il giovane annuì e Druss si voltò verso gli altri. «Mi sono
impresso il volto di tutti voi, larve, nella mia mente. Se scopro che a Klay manca
qualcosa io verrò a cercarvi uno a uno. Non fate errori: se Klay dovesse patire
ancora qualche torto siete tutti morti. Io sono Druss e questa è la mia promessa.»
Druss si allontanò da loro e il vecchio gli si affiancò. «Io mi chiamo Carmol,»
disse il servitore, sfoderando un largo sorriso. «Ed è un piacere averti incontrato di
nuovo!»
Insieme camminarono per la città sconvolta dai tumulti. Qua e là c’erano dei
corpi sdraiati a terra e il vento portava il fumo proveniente dai palazzi in fiamme.
L’ospizio era situato nel centro del quartiere più povero e i suoi muri bianchi
sembravano fuori posto in mezzo agli squallidi edifici che lo circondavano. I
tumulti erano iniziati là vicino, ma poi erano dilagato in tutta la città. Un vecchio
prete mostrò loro la stanza di Klay. Un locale piccolo e pulito. Il letto, una sempli-
ce branda, si trovava sotto la finestra. Il lottatore stava dormendo quando entrarono
e il prete prese due sedie per i visitatori. Appena Druss si sedette, Klay si svegliò.
«Come ti senti?» chiese il Drenai.
«Ho avuto giorni migliori,» rispose Klay, sforzandosi di sorridere. Il suo volto
era grigiastro e gli occhi cerchiati e incavati.
Druss prese la mano del lottatore. «Uno sciamano nadir mi ha parlato di un
posto a est della città dove si trovano dei gioielli magici in grado di guarire
qualsiasi tipo di ferita. Parto domani. Se esistono, io li troverò e li porterò da te.
Capisci?»
«Sì,» disse Klay, con voce velata di disperazione. «Dei gioielli magici per
curarmi!»
«Non perdere la speranza,» gli disse Druss.
«La speranza non alberga in questo luogo, amico mio. Questo è un ospizio e
qua la gente viene portata a morire. In tutto questo palazzo ci sono persone che
stanno morendo di cancro, per via di un polmone marcio o per altre malattie cui
non si riesce neanche a dare un nome. Ci sono mogli, mariti e bambini. Se questi
gioielli esistono veramente, allora ci sono casi più urgenti del mio, ma io ti
ringrazio per le tue parole.»
«Non sono solo parole, Klay. Parto domani. Promettimi che combatterai per
rimanere vivo fino al mio ritorno.»
«Io combatto sempre, Druss. È un mio talento naturale. A est, hai detto? Quella
è la terra dei nadir. Sono luoghi pieni di ladri e assassini implacabili. Non vorresti
incontrarli.»
Druss rise. «Credimi, ragazzo. Sono loro che non vorrebbero incontrare me!»

Garen-Tsen fissò il corpo morto dell’imbalsamatore. Il volto era straziato dal


dolore, la bocca era spalancata e gli occhi erano sbarrati e fissi. Il sangue aveva
smesso di colare dalle varie ferite e le dita rotte non si agitavano più.
«Era un duro,» ammise il torturatore.
Garen-Tsen ignorò il commento dell’uomo. Le informazioni che gli aveva dato
l’imbalsamatore era ben lontane dall’essere complete; si era tenuto qualcosa per sé
fino alla fine. Garen-Tsen fissò il volto esanime. Tu sapevi il luogo esatto in cui
erano nascosti, pensò. Dopo anni e anni di studi, Chorin-Tsu era riuscito
finalmente a ricostruire la strada seguita dallo sciamano rinnegato che aveva rubato
gli Occhi di Alchazzar. Quell’uomo era stato ucciso sulle Montagne della Luna, ma
degli Occhi non avevano trovato nessun traccia. Avrebbe potuto nasconderli
ovunque, tuttavia un certo numero d’indizi faceva pensare che li avesse nascosti
vicino o nella tomba di Oshikai Flagello del Demone. Si diceva che in quei luoghi
si fossero verificate delle guarigioni miracolose: alcuni ciechi avevano
riguadagnato la vista e uno storpio aveva ripreso a camminare. Intorno alle tombe
degli eroi o dei profeti spesso sorgevano queste dicerie ed essendo uno chiatze,
Garen-Tsen sapeva bene cosa fossero una cecità o una paralisi isterica. Anche così,
quei miracoli rimanevano però gli unici indizi per scoprire l’ubicazione dei gioielli.
Comunque il problema continuava a sussistere, la tomba era stata visitata con una
certa discrezione almeno tre volte, ma non era stato trovato nessun gioiello
nascosto.
«Fallo sparire,» ordinò Garen-Tsen al torturatore che annuì. L’università
pagava cinque monete d’oro per ogni cadavere fresco, anche se questo era in uno
stato talmente pietoso che ne avrebbero dati solo tre.
Il ministro chiatze alzò il lembo inferiore del vestito ed uscì dalla camera. Sto
cercando di acchiappare delle foglie al vento? si chiese. Posso inviare delle truppe
nella Valle di Shul-sen ed essere sicuro del successo?
Tornato nei suoi alloggi, svuotò la mente e si dedicò alla lettura dei rapporti
giornalieri. Un incontro segreto nella casa del senatore Borvan, una critica rivolta
al Dio-Re in una taverna di via Eel, una rissa nella casa di Klay, il lottatore. Il
nome Druss attirò la sua attenzione e si ricordò del temibile lottatore drenai.
Continuò a leggere scorrendo rapidamente i rapporti e le note. Il nome di Druss
comparve nuovamente; in mattinata aveva visitato Klay all’ospizio. Garen-Tsen
sbatté le palpebre quando lesse una frase. Il soggetto ha fatto un particolare
riferimento a dei gioielli in grado di guarire le ferite che vorrebbe portare al suo
amico lottatore... Il chiatze suonò due volte una campanella d’argento. Un
servitore entrò nella stanza e si inchinò.
Un’ora dopo l’informatore si trovava nervosamente in piedi davanti alla
scrivania di Garen-Tsen. «Dimmi tutto quello che hai sentito. Ogni parola. Non
tralasciare niente,» gli ordinò il ministro. L’uomo ubbidì diligentemente. Dopo
averlo congedato il chiatze si avvicinò alla finestra e prese a fissare le torri e i tetti.
Uno sciamano nadir aveva parlato dei gioielli a Druss e ora lui si stava preparando
per andarli a prendere. La valle delle lacrime di Shul-sen si trovava a est. La figlia
di Chorin-Tsu si stava dirigendo a est in compagnia di un guerriero nadir chiamato
Talismano.
Suonò nuovamente la campanella.
«Va da lord Larness,» disse al servo, «e digli che ci dobbiamo incontrare oggi.
Procurati anche un mandato d’arresto per il lottatore drenai, Druss.»
«Sì, lord. Quale accusa dobbiamo muovere a suo carico?»
«Ha aggredito e ucciso un cittadino gothir.»
Il servo sembrò interdetto. «Ma, lord, Shonan non è morto; ha perso solo
qualche dente.» Gli occhi torvi di Garen-Tsen fissarono il servitore che arrossì in
volto. «Sistemerò tutto, lord. Mi scusi.»

La disputa era giunta al culmine e Sieben il poeta si stava preparando per


scoccare il colpo finale. Il venditore di cavalli era passato dall’educato disinteresse,
all’irritazione e ora stava recitando con molta bravura la parte dell’arrabbiato.
«Questo ai tuoi occhi può essere solo un cavallo,» disse il venditore, battendo una
pacca sui fianchi color ferro sporco della bestia, «ma per me Ganel è come un
membro della mia famiglia. Noi amiamo questo cavallo. Suo padre era un
campione e sua madre correva veloce come il vento dell’est. È coraggioso e leale e
tu mi insulti offrendomi il prezzo che normalmente si paga per un ronzino dalla
schiena insellata.»
Sieben si fece serio in volto e fissò il venditore dritto negli occhi. «Non voglio
dire che la descrizione di questo... castrato non sia esatta. Se avesse avuto cinque
anni di meno sarei stato tentato di spendere un po’ più di denaro, ma questo cavallo
non merita più di quanto io ti abbia offerto.»
«Allora basta,» sbottò il commerciante. «Ci sono molti nobili in Gulgothir che
sarebbe disposti a pagare il doppio di quello che ti ho chiesto. E sappi che ti sto
facendo questo prezzo speciale perché mi piaci e sento che tu piaci a Ganel.»
Sieben alzò lo sguardo e fissò gli occhi del castrato. «Ha uno sguardo
intelligente,» disse.
«Spiritato,» disse il commerciante rapido. «Come me, non può sopportare i
folli, ma è indomito e forte. Tu stai per inoltrarti nelle steppe. Per il paradiso,
uomo, hai bisogno di un cavallo con la forza di superare in velocità i pony dei
nadir.»
«Trenta pezzi sono troppi. Ganel può anche essere forte, ma è anche vecchio.»
«Insulsaggini. Non ha più di nove...» appena il commerciante pronunciò l’età,
Sieben alzò con aria interrogativa un sopracciglio. «...Beh, forse non ha più di dieci
o undici anni. Ma anche così vuol dire che è un cavallo esperto. Ha le gambe e gli
zoccoli forti e lo ferrerò apposta per le steppe. Come ti sembra?»
«Sarebbe un ottimo affare se costasse ventidue pezzi d’argento.»
«Per gli dèi, uomo, sei venuto qua per insultarmi? Stamattina ti sei svegliato e
hai pensato, “Passerò la giornata portando un onesto commerciante gothir sull’orlo
della miseria?” Ventisette.»
«Venticinque inclusa la vecchia cavalla che sta nella stalla più lontana e due
selle.»
Il commerciante si girò a guardarsi intorno. «La cavalla? Inclusa? Voi ridurmi
proprio sul lastrico? Quella cavalla è di pura razza. Lei...»
«...è un membro della tua famiglia,» lo precedette Sieben, con un sorriso.
«Vedo che è forte, ma è anche vecchia e tranquilla. Il mio amico non è un cavaliere
provetto e io penso che gli andrà bene. Nessuno verrà a comprartela se non per
farne carne o colla. Il prezzo per quella cavalcatura è di mezza moneta d’argento.»
Il volto del commerciante si rilassò e cominciò a tirarsi la barba a punta.
«Guarda caso ho proprio un paio di vecchie selle, ottimi manufatti con tanto di
bisacce e borracce, però non posso cedertele per meno di un pezzo d’argento l’una.
Ventisette e ci stringiamo la mani. Fa troppo caldo per continuare a discutere.»
«Fatto,» concordò Sieben. «Ma voglio che entrambe i cavalli vengano portati
davanti alla mia abitazione entro tre ore e bada che siano ferrati.» Tirò fuori due
pezzi d’argento dal borsellino e li consegnò all’uomo. «Il resto alla consegna,» gli
disse.
Dopo aver dato il suo indirizzo al commerciante, Sieben bighellonò per la
piazza del mercato. A causa degli scontri della notte precedente era quasi deserta.
Una giovane prostituta si allontanò dalla porta di una casa annerita dal fumo e si
avvicinò al poeta. «Stai cercando del piacere, lord?» gli chiese. Sieben la osservò:
il volto era carino e giovane, ma i suoi occhi erano vuoti e stanchi.
«Quanto?»
«Per un nobile come te, lord, solo un quarto d’argento. Se hai bisogno di un
letto allora mezzo.»
«E per quella cifra mi delizierai?»
«Ti darò delle ore di piacere indimenticabili,» promise. Sieben le afferrò una
mano e vide che le dita, come il povero vestito che indossava, erano pulite.
«Vediamo,» disse.
Due ore più tardi tornò nel suo alloggio. Majon era seduto vicino alla finestra
intento a comporre il discorso che avrebbe pronunciato al funerale reale del giorno
dopo. Appena Sieben entrò alzò il capo e posò la penna. «Dobbiamo parlare,»
disse, facendo segno al poeta di unirsi a lui.
Sieben era stanco e si stava già pentendo della sua decisione di unirsi a Druss.
Si sedette su un divano imbottito e si versò una coppa di vino annacquato.
«Facciamo in fretta, ambasciatore, perché ho bisogno di dormire almeno un’ora
prima di partire.»
«Già, partire. Non è decoroso, poeta. I funerali della regina si svolgeranno
domani e Druss è tra gli invitati d’onore. Andare via adesso equivarrebbe a un
insulto. Specialmente dopo i tumulti che, dopo tutto, sono iniziati a causa di Druss.
Non potete aspettare ancora qualche giorno?»
Sieben scosse la testa. «Temo, ambasciatore, che tu non possa capire quello che
stiamo per fare. Per Druss è una questione d’ onore.»
«Non cercare d’insultarmi, poeta. Conosco bene quel concetto. Ma Druss non
aveva chiesto l’aiuto di quell’uomo quindi non è responsabile per quello che gli è
successo. Non gli deve nulla.»
«Fantastico,» disse Sieben. «Tu confermi in pieno il mio punto di vista. Io parlo
di onore e tu parli di una transazione. Ascoltami... un uomo è stato menomato
mentre cercava di aiutare Druss. Ora giace morente all’ospizio e noi non possiamo
aspettare ancora molto. Il chirurgo ha detto a Druss che a Klay rimane forse un
solo mese di vita. Quindi, appena ci consegneranno i cavalli noi partiremo.»
«Che stupidaggini!» tuonò Majon. «Gioielli magici nascosti in una valle nadir!
Quale uomo sano di mente potrebbe anche solo prendere in considerazione una
tale... una tale assurdità? Ho fatto delle ricerche sull’area in cui dovrete recarvi. Ci
sono diverse tribù di predoni. Da là non passa nessun convoglio a meno che non sia
pesantemente scortato. In particolare c’è un gruppo di predoni molto temuti
chiamati Spacca-schiene. Come ti sembra il suono del loro nome? Sai perché sono
chiamati così? Spezzano la parte inferiore della spina dorsale dei loro prigionieri e
li lasciano nella steppa in pasto ai lupi.»
Sieben deglutì il vino sperando che dal suo volto non trapelasse il terrore che
provava. «Va bene, ti sei spiegato, ambasciatore.»
«Qual è il vero motivo che vi spinge a partire?»
«Te l’ho già detto. Druss si sente in debito nei confronti di quell’uomo e lui
camminerebbe in mezzo al fuoco pur di saldarlo.»
Sieben si alzò, imitato da Majon. «Perché vai con lui? Non è il più intelligente
degli uomini, e io comprendo... appena... la sua visione semplicistica del mondo.
Ma tu? Tu sei una persona arguta dotata di una rara intelligenza. Non riesci a
vedere l’inutilità di tale missione?»
«Sì,» ammise Sieben. «E la cosa mi rattrista, poiché essa mette in luce le
terribili imperfezioni di quella che tu chiami intelligenza.»

Tornato nella sua stanza, Sieben si lavò quindi si sdraiò sul letto. I piaceri
promessi dalla prostituta si erano rivelati effimeri e illusori. Proprio come tutti i
piaceri che Sieben aveva provato in vita sua. La lussuria veniva sempre seguita da
un dolce dolore per quello che era stato perso. L’esperienza assoluta, come il mito
della donna perfetta, era sempre un passo avanti a lui.
Perché vai con lui?
Sieben odiava il pericolo e tremava al pensiero della paura a venire, ma Druss,
malgrado tutti i suoi difetti, viveva la sua vita appieno, assaporandone ogni
momento. Sieben non si era mai sentito tanto vivo come nei sette anni in cui aveva
accompagnato Druss alla ricerca di Rowena, o nella tempesta in cui il Figlio del
Tuono era stato sbatacchiato come un pezzo di legno qualsiasi, o nelle battaglie o
nelle guerre in cui la morte sembrava essere a un battito di cuore di distanza.
Erano tornati a Drenan come dei trionfatori e Sieben aveva composto il poema
La leggenda di Druss. Era ancora la saga più rappresentata in tutte le terre del
Drenai ed era stata tradotta in una dozzina di lingue. La fama gli aveva portato
ricchezza, la ricchezza le donne e Sieben si era adattato con una velocità incredi-
bile a una vita di pigri lussi. Si alzò dal letto con un sospiro. I servitori avevano
tirato fuori i suoi vestiti, dei pantaloni di lana azzurra, un paio di morbidi stivali
color marrone crema alti fino ai polpacci e una maglia dalle maniche di seta blu
con degli inserti di stoffa grigia e madreperla sui polsi. Il tutto era completato da un
cappello blu assicurato al collo da una catena fatta di fili d’oro intrecciati. Una
volta vestito si piazzò davanti allo specchio e si infilò il balteo con quattro foderi
neri da cui spuntavano le else d’avorio dei coltelli da lancio.
Perché vai con lui? Sarebbe stato bello se avesse potuto rispondere: «Perché è
un mio amico.» Sieben sperò che quella frase potesse sembrare almeno credibile,
ma la realtà era del tutto diversa. «Ho bisogno di sentirmi vivo,» disse ad alta voce.

«Ho acquistato due cavalli,» disse Sieben, «una bella bestia per me e una
cavalla da tiro per te. Visto che cavalchi con la grazia di un sacco di carote ho
pensato che sarebbe stata perfetta per le tue esigenze.»
Druss ignorò la burla. «Dove hai preso quei coltelli così carini?» gli chiese,
indicando il balteo di cuoio lavorato assicurato di sbieco sopra il vestito del poeta.
«Carini? Queste sono delle stupende armi di morte perfettamente bilanciate.»
Sieben tirò fuori uno dei coltelli. La lama era a forma di diamante e affilata come
un rasoio. «Mi sono allenato un po’ prima di comprarle. Sono riuscito a colpire una
falena a dieci passi.»
«Bene, questa tua abilità ci tornerà molto utile,» grugnì Druss. «Mi hanno detto
che le falene nadir possono essere molto feroci.»
«Eh, sì,» mormorò Sieben. «Gli scherzi vecchi sono quelli che funzionano
meglio e questo avrei dovuto prevederlo.»
Druss infilò con molta cura le provviste nelle bisacce: carne secca, frutta, sale e
zucchero. Chiuse la fibbia, quindi prese una coperta dal letto, l’arrotolò
strettamente e la legò alle bisacce. «Majon non è molto contento che andiamo via,»
lo informò Sieben. «Domani ci saranno i funerali della regina e teme che in questo
momento il re possa prendere la nostra partenza come un insulto alla sua amata
defunta moglie.»
«Hai già fatto i bagagli?» gli rispose Druss mettendosi le bisacce su una spalla.
«Proprio in questo momento,» affermò Sieben, «c’è un servitore che li sta
preparando. Odio queste borse, stropicciano la seta. Non c’è tunica o maglia che
abbia un aspetto decente quando viene tirata fuori da quelle specie di sacche.»
Druss scosse la testa esasperato. «Ti porti dietro dei vestiti di seta nelle steppe?
Pensi di trovare molti intenditori di moda tra i nadir?»
Sieben rise. «Quando mi vedranno, penseranno che io sia un dio!»
Druss si avvicinò a una parete e afferrò la sua ascia, Snaga. Sieben fissò le lame
di acciaio lucido dal profilo a farfalla e il manico nero dell’arma decorato con rune
argentate. «Detesto quella cosa,» affermò con convinzione.
Lasciata la stanza da letto, Druss attraversò il salotto e si recò nell’entrata dove
trovò Majon intento a parlare con tre guardie reali. «Ah, Druss,» lo accolse con
fare tranquillo l’ambasciatore. «Questi signori ti devono accompagnare al palazzo
dell’Inquisizione. È ovvio che c’è stato un errore, ma ci sono delle domande a cui
dovrai rispondere.»
«A riguardo di cosa?»
Majon si schiarì la gola e con un gesto nervoso si passò una mano sui capelli
grigi ben acconciati. «Apparentemente sembra che ci sia stato un alterco a casa di
Klay il lottatore e qualcuno di nome Shonan è morto.»
Druss appoggiò Snaga sul pavimento e fece cadere le bisacce dalla spalla.
«Morto? Per un pugno in bocca? Pah! Non ci credo. Era vivo quando sono andato
via.»
«Tu verrai con noi,» disse una guardia facendo un passo avanti.
«È meglio se collabori, Druss,» disse Majon, cercando di calmare la situazione.
«Sono sicuro che possiamo...»
«Basta parlare, drenai,» lo interruppe la guardia. «Quest’uomo è ricercato per
omicidio e noi lo porteremo via.» Tirò fuori un paio di manette e gli occhi di Druss
divennero due fessure.
«Credo che stia per commettere un errore, ufficiale,» cercò di avvertirlo Sieben.
La sue parole giunsero in ritardo, il soldato aveva fatto un altro passo in avanti ed
era incappato nel pugno di Druss che l’aveva centrato in piena mascella. La testa
dell’ufficiale si girò di scatto verso destra, colpì il muro e l’elmo piumato cadde a
terra. Le altre due guardie balzarono in avanti. Druss atterrò la prima con un gancio
sinistro e la seconda con un montante.
Uno dei due emise un lamento quindi rimase immobile. Majon parlò con voce
tremante. «Cosa hai fatto? Non puoi attaccare la guardia reale!»
«L’ho appena fatto. Ora, sei pronto, poeta?»
«Lo sono. Vado a prendere le mie bisacce poi credo che sia meglio lasciare la
città con una certa solerzia.»
Majon si abbandonò su una sedia imbottita. «Cosa dirò quando si...
sveglieranno?»
«Ti suggerirei di propinare loro un discorso sul fatto che la diplomazia prevale
sempre sulla violenza,» gli propose Sieben. Diede una leggera pacca sulla spalla
dell’ambasciatore quindi corse nei suoi appartamenti a prendere la sua roba.
I cavalli erano stati portati nelle stalle dietro l’edificio. Druss legò le bisacce
alla sella quindi salì in groppa con dei movimenti goffi. La cavalla era alta sedici
palmi e benché avesse la schiena insellata era una bestia poderosa. Il cavallo di
Sieben aveva una corporatura simile solo che, proprio come glielo aveva descritto
il poeta, era un purosangue grigio acciaio più snello rispetto alla sua cavalcatura.
Sieben balzò in sella e i due compagni uscirono dalla stalla e si incamminarono
lungo la strada principale. «Devi averlo colpito molto duramente Shonan, vecchio
cavallo.»
«Non abbastanza da ucciderlo,» affermò Druss. Il guerriero Drenai ondeggiò
sulla sella e si aggrappò al pomello.
«Stringi con le cosce non con le caviglie,» lo istruì il poeta.
«Non mi è mai piaciuto cavalcare. Mi sento stupido appollaiato qua sopra.»
C’erano diverse persone che si stavano dirigendo al cancello est e Druss e
Sieben si unirono al convoglio che avanzava tra le strade strette. Davanti ai cancelli
le guardie interrogavano ogni persona e Sieben vide che Druss si stava
innervosendo. «Non possono già cercarci, vero?» Druss scosse le spalle.
Si avvicinarono lentamente ai cancelli e una sentinella fece un passo avanti
sbarrando loro il passo. «Documenti,» ingiunse.
«Siamo drenai,» gli disse Sieben. «Andiamo a fare una semplice cavalcata.»
«Avete bisogno dei documenti firmati dall’ufficiale al cancello della ronda,»
disse la sentinella e Sieben vide Druss innervosirsi ancora di più. Velocemente il
poeta mise una mano in tasca, prese una piccola moneta d’argento e, sporgendosi
dalla sella, la passò al soldato.
«Ci si sente così soffocare in una città,» disse Sieben sorridendo. «Una
cavalcata di un’ora in aperta campagna serve a schiarire la mente.»
La sentinella intascò la moneta. «Anche a me piace cavalcare,» affermò.
«Divertitevi.» Così dicendo fece loro segno di andare e i due cavalieri si diressero
al piccolo galoppo verso le colline a sud.
Dopo due ore di viaggio, Sieben bevve l’ultima sorsata d’acqua che gli era
rimasta nella borraccia e si guardò intorno. Con la sola eccezione delle montagne
lontane il paesaggio era piatto e secco.
«Né fiumi, né ruscelli,» disse il poeta. «Dove troveremo dell’acqua?» Druss
indicò delle sporgenze rocciosa circa due chilometri più avanti. «Come fai a
esserne così sicuro?» chiese il poeta. «Non voglio morire di sete.»
«Non succederà,» disse sorridendo all’amico. «Ho combattuto diverse
campagne nel deserto e so come trovare l’acqua. Ma c’è un trucco che funziona
meglio di tutti gli altri.»
«Quale?»
«Ho comprato una mappa delle oasi! Facciamo camminare un po’ queste
bestie.»
Druss scivolò dalla sella e si mise a camminare. Sieben scese a sua volta e lo
raggiunse e per un po’ di tempo due i continuarono ad avanzare in silenzio.
«Perché sei così cupo, vecchio cavallo?» gli chiese Sieben, quando furono in
prossimità delle rocce.
«Stavo pensando a Klay. Come ha fatto la gente a rivoltarsi contro di lui in quel
modo dopo tutto quello che aveva fatto per loro?»
«A volte le persone sono malvagie ed egoiste, Druss. Ma non sono loro a
sbagliarsi, siamo noi che ci aspettiamo sempre il meglio. Quando Klay morirà
probabilmente lo ricorderanno come un brav’uomo e spargeranno un mucchio di
lacrime per lui.»
«Merita di meglio,» ringhiò Druss.
«Forse,» affermò Sieben asciugandosi il sudore dalla fronte con un fazzoletto
profumato. «Ma quando mai è importato? Otteniamo sempre quello che ci
meritiamo? Io non credo che sia così. Noi otteniamo le cose che possiamo vincere
o prendere, non importa se si tratta di una donna, di denaro, di un lavoro o della
terra. Guardati! Degli scorridori rapiscono tua moglie: essi avevano la capacità di
farlo e l’hanno fatto. Tristemente per loro tu avevi la forza di abbatterli e la
determinazione di inseguire il tuo amore attraverso l’oceano. Ma non sei riuscito
ad averla indietro per via di un colpo fortuna o per il capriccio di una qualche divi-
nità. L’hai fatto con la forza delle tue braccia. Avresti potuto fallire per centinaia di
motivi: malattie, guerre, una freccia, un colpo di spada, un’improvvisa tempesta sul
mare. Tu non hai ottenuto quello che meritavi, tu hai ottenuto quello per cui hai
combattuto. Klay è stato sfortunato. Si è preso una freccia che era diretta a te e
questa è stata la tua fortuna.»
«Non lo metto in dubbio,» concordò Druss. «Sì, è stato sfortunato. Ma hanno
infranto la sua statua, i suoi amici l’hanno derubato e abbandonato, gente che lui
aveva sostenuto, aiutato e protetto. È questo che trovo duro da ingoiare.»
Sieben annuì. «Mio padre mi disse che un uomo è fortunato se nel corso della
sua vita può contare su almeno due veri amici. Inoltre ha sempre affermato che un
uomo con molti amici doveva essere stupido o molto ricco, e io penso che avesse
ragione. Nella mia vita io ho avuto solo un vero amico, Druss, e quello sei tu.»
«E le donne?»
Sieben scosse la testa. «Con loro è sempre stato una sorta di baratto. Esse
richiedevano qualcosa da me e altrettanto facevo io con loro. Mi davano il calore
dei loro corpi e delle loro carni cedevoli; io fornivo loro le capacità di un amante
incredibile.»
«Come puoi definirti amante se l’amore non è mai stato presente in nessuno dei
tuoi incontri?»
«Non essere pedante, Druss. Io mi sono guadagnato quel titolo. Anche le
prostitute più navigate mi hanno detto che sono stato il loro miglior amante.»
«Che sorpresa,» lo prese in giro Druss, ridendo. «Scommetto che non lo dicono
a molti uomini.»
«L’ironia non ti si addice, uomo. Tutti noi siamo bravi in qualcosa. Tu sei il
migliore a maneggiare quell’arma spaventosa, io sono il miglior amante del
mondo.»
«Sì,» concordò Druss. «Ma ho l’impressione che la mia arma ponga fine ai
problemi, mentre il tuo talento li crea in continuazione.»
«Oh, molto divertente. Proprio quello di cui avevo bisogno: una lezione sulla
morale mentre cammino in una landa desolata!» Sieben accarezzò il collo del
castrato, salì in sella, quindi alzò una mano e si riparò gli occhi. «È tutto così
verde. Non ho mai visto una terra che prometta tanto e dia così poco. Come fanno a
sopravvivere queste piante?»
Druss non rispose. Stava cercando di infilare il piede in una delle staffe, ma la
cavalla aveva cominciato a girare in tondo. Sieben rise, si avvicinò alla bestia, la
trattenne per le redini e il possente guerriero drenai riuscì a montare in sella.
«Hanno le radici molto profonde,» gli spiegò Druss. «Durante l’inverno piove per
un mese intero. Le piante e i cespugli succhiano tutta l’acqua possibile, quindi si
battono per sopravvivere per un altro anno. È una terra dura e selvaggia.»
«Come la gente che la abita,» sottolineò Sieben.
«Sì. I nadir sono un popolo fiero.»
«Majon mi ha parlato di un gruppo chiamato Spezza-schiene.»
«Rinnegati,» disse Druss. «Si chiamano notas, senza tribù. Sono stati cacciati
dalle tribù e sono diventati ladri e assassini. Cercheremo di evitarli.»
«E se non ci riuscissimo?»
Druss rise. «Allora dovrai farmi vedere quanto sei in gamba con i tuoi bei
coltelli.»

Nosta Khan sedeva all’ombra di un riparo roccioso naturale e teneva la mano


scarna immersa nell’acqua della polla. Il sole era molto alto e il caldo che
imperversava oltre l’ombra era impietoso. Quel clima però non preoccupava
minimamente Nosta Khan. Egli era ormai da anni un Signore della Via, uno
sciamano, e né dolore o sconforto, né caldo o freddo potevano toccarlo.
Non aveva sempre desiderato di imboccare il sentiero del misticismo. No,
quando era stato un giovane aveva covato in sé tutti i sogni di ogni guerriero nadir:
molti pony, molte donne e molti figli. Una vita breve pervasa dalle gioie selvagge
della battaglia e dal calore umido del sesso.
Ma non sarebbe stato così per lui. Il suo talento gli aveva negato i suoi sogni.
Nessuna moglie per Nosta Khan, nessun figlio che giocasse ai suoi piedi. Quando
era ancora un bambino era stato portato nella caverna di Asta Khan e là aveva
imparato la Via.
Tolse la mano dall’acqua, si toccò la fronte e diverse gocce fredde gli caddero
sul volto rugoso.
All’età di sette anni lui e altri sei bambini erano stati portati da Asta Khan in
cima al picco del Falco di Pietra ed erano rimasti seduti sotto il solo cocente solo
con i mocassini e un paio di pantaloncini. Il vecchio sciamano aveva ricoperto loro
i volti e le teste con dell’argilla e aveva detto loro di rimanere seduti finché l’ar-
gilla non si fosse seccata e infranta. Ogni bambino aveva potuto respirare grazie a
due pezzi di canna infilati nella bocca. All’interno della maschera il tempo perdeva
significato, non sentivano più i rumori ed erano completamente ciechi. La pelle
delle sue spalle si era bruciata e coperta di vesciche, ma Nosta non si era mosso.
Egli era rimasto seduto con l’argilla sul viso per tre giorni e tre notti, sopportando
il calore del sole e il gelo della notte.
Durante quel periodo gli era sembrato che l’argilla non dovesse staccarsi mai, e
più di una volta aveva desiderato alzare le mani per strapparla via, tuttavia non
l’aveva fatto... neanche quando era stato assalito dal terrore. E se fosse arrivato un
lupo? Un nemico? E se Asta Khan l’aveva lasciato là a morire perché indegno?
Comunque era rimasto seduto immobile sopra i suoi stessi escrementi con le
formiche e le mosche che gli camminavano sul corpo. Ogni volta che aveva sentito
il contatto di quelle minuscole zampe era rabbrividito domandosi se non si trattava
di uno scorpione.
Tuttavia non si era mosso. Al mattino del quarto giorno quando il sole aveva
portato calore e dolore alla sua pelle martoriata, un pezzo di argilla era caduto
permettendogli di muovere la mascella. Aveva inclinato la testa e si era sforzato di
aprire la bocca. I due rametti cavi erano caduti e subito dopo si era infranto un
grosso pezzo della maschera poco sopra il naso. Una mano gli aveva toccato la
testa e lui aveva avuto un sussulto: era Asta Khan che lo stava aiutando a togliere
l’argilla secca.
L’impatto con il sole era stato così brutale da fargli lacrimare gli occhi. Il
vecchio sciamano aveva annuito. «Ti sei comportato bene,» aveva detto e quelle
erano state le uniche parole d’elogio che lui avesse mai ricevuto da Asta Khan.
Quando alla fine si era abituato alla luce del sole, Nosta Khan si era guardato
intorno scoprendo di essere rimasto l’unico. «Dove sono gli altri bambini?»
«Partiti. Sono tornati ai loro villaggi. Hai vinto un grande premio oggi.»
«Perché allora mi sento così triste?» gli aveva chiesto con la voce secca e
gracchiante.
Asta Khan non gli aveva risposto immediatamente, ma gli aveva passato una
sacca di pelle piena d’acqua che Nosta Khan aveva svuotato. «Ogni uomo,» gli
aveva spiegato infine Asta, «dà qualcosa di sé al futuro. Di solito quel dono prende
la forma di un figlio che porterà avanti la sua specie, ma questo piacere è negato a
uno sciamano.» Aveva preso il ragazzo per mano e lo aveva guidato sul bordo del
precipizio. Da quel punto potevano vedere le pianure infinite e le steppe lontane.
«Guarda,» aveva detto Asta Khan, «le capre della nostra tribù. Esse si preoccupano
solo di mangiare, dormire e accoppiarsi. Ma guarda il pastore. Egli deve stare
attento ai leoni, ai lupi, ai vermi o ai mosconi della carne. Deve trovare dei pascoli
rigogliosi e sicuri. La tua tristezza deriva dal fatto che tu sai che non potrai mai
essere una capra. Il tuo destino richiede da te ben altro.»
Nosta Khan sospirò e si spruzzò altra acqua sul volto. Asta era morto da molto
tempo e non conservava di lui dei ricordi affettuosi.
Una leonessa con tre cuccioli apparve sul sentiero. Nosta Khan fece un
profondo respiro e si concentrò.
Le rocce che si innalzano verso il cielo sono parte del corpo degli dèi della
pietra e dell’acqua e io sono tutt’uno con le rocce.
La leonessa si mosse cautamente annusando l’aria, dopodiché, soddisfatta di
non aver trovato nessun pericolo, si avvicinò all’acqua seguita dai suoi cuccioli che
avanzavano con andatura ballonzolante. L’ultimo dei cuccioli balzò addosso al
fratello e cominciarono a lottare per gioco. La leonessa li ignorò e bevve a lungo.
Era magra e il suo pelo era arruffato. Quando ebbe finito di bere si andò a
distendere all’ombra, di fianco a Nosta Khan. I cuccioli la seguirono e
appoggiarono il muso alle sue mammelle. Uno salì sulle gamba magre di Nosta
Khan e si sedette in grembo al vecchio sciamano appoggiando la testa a una coscia.
Il nadir allungò una mano e toccò la grossa testa della leonessa quindi permise
al suo spirito di vagare libero. La sua essenza fluttuò sopra i picchi, le gole e le
depressioni del terreno. A poco meno di un chilometro e mezzo di distanza
individuò una piccola famiglia di ochpi, delle capre selvatiche di montagna dalle
corna piccole e ricurve. C’erano un maschio, tre femmine e alcuni piccoli. Tornato
al suo corpo Nosta Khan sfiorò la leonessa con il suo spirito. L’animale alzò la
testa di scatto e dilatò e narici. Non sarebbe mai riuscita a sentire l’odore delle
capre da quella distanza senza contare che il vento le era contrario, ma lo sciamano
le aveva riempito la mente di immagini degli ochpi. La leonessa si alzò facendo
rotolare via i cuccioli e si allontanò. In un primo momento i piccoli rimasero dove
si trovarono, la madre emise un basso ruggito ed essi la seguirono.
Con un po’ di fortuna sarebbe riuscita a nutrirsi.
Nosta Khan rimase seduto in attesa. I cavalieri sarebbero arrivati entro un’ora.
Visualizzò il volto ampio e piatto con gli occhi freddi dell’uomo armato d’ascia.
Fosse tutta così facile da manipolare questa gente del sud, pensò, ricordando
l’incontro alla taverna. Una volta uscito gli era stato molto facile ipnotizzare l’uo-
mo che maneggiava la balestra e ordinargli di colpire il lottatore gothir. Nosta
ricordò con piacere il volo della freccia, il suono provocato dall’impatto e quanto
fosse stato scioccato il balestriere quando aveva scoperto di aver sbagliato il
bersaglio.
I fili si stavano intrecciando bene fino a quel momento, ma la trama che stava
intessendo richiedeva ancora lavoro. Nosta riposò il corpo e la mente cadendo in
una specie di dormiveglia.
I due cavalieri entrarono nel suo campo visivo, lo sciamano fece un profondo
respiro e si concentrò proprio come aveva fatto con la venuta della leonessa. Era
diventato una pietra, eterna, immutata, erosa solamente dai venti del tempo. Il
primo cavaliere, un giovane altro e magro, con i capelli ben acconciati e vestito in
maniera appariscente scese dal cavallo e continuò a trattenerlo per le redini
impedendogli di bere. «No, non ancora, amore mio,» gli disse con calma. «Prima ti
devi riposare un po’.» Il secondo, il possente guerriero con l’ascia, fece passare una
gamba sopra la sella e saltò a terra. La sua cavalcatura era vecchia e molto stanca.
Dopo aver appoggiato l’ascia contro una roccia, allentò le fibbie della sella e la
tolse dalla schiena della bestia. La cavalla era coperta di sudore e stava respirando
affannosamente. Druss l’asciugò con uno straccio quindi l’impastoiò vicino al
castrato in prossimità del lato est della polla. L’uomo di bell’aspetto si avvicinò
all’acqua si tolse i vestiti, li sbatté per liberali dalla polvere quindi li piegò con
cura. Il suo corpo era bianco come l’avorio e la sua pelle era morbida. Non è un
guerriero, pensò Nosta Khan mentre l’uomo si tuffava in acqua. Druss prese
l’ascia, si mise di fianco allo sciamano quindi si accosciò, unì le mani, le immerse
in acqua e bevve, dopodiché si spruzzò il volto e la barba.
Nosta Khan chiuse gli occhi e allungò una mano per toccare il guerriero drenai
e riuscire a leggergli i pensieri. Una stretta d’acciaio si serrò intorno al suo polso. Il
vecchio nadir spalancò gli occhi e si trovò a fissare Druss dritto in volto.
«Ti stavo aspettando,» lo accolse Nosta Khan, sforzandosi di rimanere calmo.
«Non mi piace che la gente mi si avvicini in maniera così furtiva,» disse il
drenai con voce fredda. Nosta Khan diede una occhiata alla polla e il suo
nervosismo scomparve. Non aveva sbagliato l’incantesimo d’occultamento, Druss
aveva visto la sua mano riflessa nell’acqua. Il guerriero drenai gli mollò il polso e
riprese a bere.
«Stai cercando i gioielli guaritori, eh? È una bella cosa. Un uomo deve sempre
stare al fianco degli amici nelle ore più buie della loro vita.»
«Dove si trovano esattamente?» chiese Druss. «Non ho molto tempo. Klay sta
morendo.»
«Non posso dirtelo con esattezza. Essi furono rubati alcune centinaia di anni fa
da uno sciamano rinnegato. Egli venne inseguito e si fermò per riposarsi al
santuario di Oshikai; dopodiché venne trovato e ucciso. Malgrado le atroci torture
a cui venne sottoposto prima di morire si rifiutò di rivelare il nascondiglio. Io credo
che siano nascosti nel santuario.»
«Perché allora non vai a cercarli?»
«Io penso che li abbia nascosti all’interno della tomba di Oshikai Flagello del
Demone. Nessun nadir potrebbe mai lordare quel sacro oggetto. Solo uno...
straniero... potrebbe dissacrarlo.»
«Cos’altro mi stai nascondendo, piccolo uomo?»
«Un gran numero di cose,» ammise Nosta. «Ma non c’è bisogno che tu sappia
tutto. L’unica verità di cui ti devi fidare è il fatto che i gioielli salveranno la vita al
tuo amico facendolo ritornare nel pieno delle sue forze.»
Sieben uscì dall’acqua e li raggiunse. «Ah, vedo che ti sei fatto un amico,»
esordì, sedendosi vicino allo sciamano. «Se non erro questo è il vecchio di cui mi
hai parlato, quello della taverna?» Druss annuì e Sieben allungò una mano. «Mi
chiamo Sieben. Sono un poeta. Sicuramente avrai sentito parlare di me.»
«No,» rispose Nosta, ignorando la mano distesa.
«Che brutto colpo per la vanità di un uomo,» affermò Sieben, sfoderando un
sorrisetto. «Non ci sono poeti tra i nadir?»
«A quale scopo?» chiese il vecchio.
«L’arte, la gioia, il divertimento...» Sieben esitò appena vide l’espressione
d’incomprensione dipinta sul volto del suo interlocutore. «Storia!» aggiunse
improvvisamente. «Come viene tramandata la storia nelle tribù?»
«Ogni uomo conosce la storia della tribù dalla madre e quella della famiglia dal
padre. Lo sciamano della tribù conosce tutte le storie e le gesta di ogni eroe nadir.»
«Non avete nessun forma d’arte, nessun pittore, scultore, pittore?»
Gli scuri occhi di Nosta Khan brillarono. «Tre bambini nadir su cinque
muoiono durante l’infanzia. In media un nadir adulto muore intorno ai ventisei
anni. Le tribù vivono in uno stato di guerra perenne tra di loro, mentre nel
frattempo vengono cacciate per divertimento da qualche nobile gothir. Epidemie,
pestilenze, la costante minaccia della carestia, queste sono le cose che preoccupano
i nadir. Non abbiamo tempo per l’arte.» Nosta Khan sputò fuori quell’ultima parola
come se fosse un’offesa.
«Quanto è incredibilmente deprimente,» affermò Sieben. «Fino a questo
momento non mi era mai dispiaciuto per il tuo popolo. Scusatemi vado ad
abbeverare i cavalli.»
Sieben si alzò e si vesti. Nosta Khan ingoiò la sua irritazione e tornò a fissare
Druss. «Ce n’è sono molti come lui nelle Terre del sud?»
Il Drenai sorrise. «Non ce n’è sono molti come lui ovunque.» Allungò una
mano verso una bisaccia da dove tirò fuori un formaggio rotondo avvolto in un
panno e della carne secca. Offri un po’ di cibo allo sciamano, ma questi rifiutò.
Druss mangiò in silenzio. Sieben tornò e si uni nuovamente a loro. Quando ebbero
finito il pasto, Druss sbadigliò, si sdraiò all’ombra e pochi istanti dopo si
addormentò.
«Perché viaggi con lui?» chiese Nosta Khan a Sieben.
«Per l’avventura, vecchio cavallo. Ovunque Druss vada si è sicuri di incappare
nell’avventura. Mi piace l’idea dei gioielli magici. Penso di poterne ricavare una
storia o una canzone.»
«Sono d’accordo con te,» disse Nosta Khan. «In questo momento duemila
guerrieri gothir sono stati chiamati a raccolta. Saranno guidati da Gargan, lord di
Larness e marceranno verso il santuario di Oshikai Flagello del Demone. La loro
intenzione è di assediarlo, uccidere tutti coloro che vi si trovano, prendere i gioielli
e portarli in dono al pazzo che stanno tenendo sul trono. Stai cavalcando verso il
centro di un uragano, poeta. Sì, sono sicuro che troverai del materiale per una
canzone.»
Nosta gioì nel vedere l’espressione spaventata degli occhi del giovane. Stirò il
corpo magro e si allontanò dalla polla. Tutto stava andando secondo i suoi piani,
però lo sciamano si sentiva a disagio. Talismano sarebbe riuscito a resistere
all’assalto delle truppe di Larness? Sarebbe riuscito a trovare gli Occhi di Alchaz-
zar? Chiudendo gli occhi Nosta lasciò che il suo spirito volasse verso est, planando
sopra le valli e le montagne sterili. Sotto di lui vide il santuario con i suoi curvi
muri bianchi che brillavano come un anello d’avorio. Nelle vicinanze c’erano le
tende dei guardiani nadir. Dove sei, Talismano? si chiese.
Concentrandosi sul volto del giovane egli permise al suo corpo etereo di volare
verso il basso, attirato dalla personalità di Talismano. Aprendo gli occhi dello
spirito Nosta Khan vide il giovane nadir che si stava inerpicando lungo l’ultima
salita prima della valle. Dietro di lui c’era Zhusai, la ragazza chiatze. Un terzo
cavaliere con due pony al seguito entrò nella sua visuale. Nosta rimase sorpreso.
Fluttuò sopra lo sconosciuto e gli sfiorò il collo. Il cavaliere rabbrividì e si strinse
nella giubba.
Soddisfatto lo sciamano si ritirò. Anche se il contatto era durato solo un istante
egli aveva rivisto il tentativo di attacco contro Talismano e la ragazza e la
conversione di Gorkai alla causa dell’Unificatore. Bene: il ragazzo aveva fatto un
ottimo lavoro. Gli dèi della pietra e dell’acqua sarebbero stati contenti.
Nosta volò via e si librò sopra il santuario. Un tempo era stato un piccolo forte
per i rifornimenti. La cinta di tronchi d’albero era poco più alta di cinque metri e
non aveva né merlature né torri. Era stata costruita per tenere a bada degli sparuti
gruppi di nomadi indisciplinati, non duemila soldati ben addestrati. I cancelli a
ovest stavano marcendo e il muro presentava una larga crepa a forma di V.
Nosta Khan cadde preda della paura.
Potevano resistere alla guardia reale del Gothir?
E Druss? Che ruolo aveva quell’uomo? Era irritante poter vedere così tanto e
sapere così poco allo stesso tempo. Quali erano le sue intenzioni? Resistere sulle
mura ascia alla mano? In quel momento una visione fugace balenò nella sua mente:
un guerriero dai capelli bianchi che, in piedi su un muro colossale, agitava l’ascia
in segno di sfida. Poi, repentina come era venuta, l’immagine scomparve.
Ritornato al suo corpo, Nosta esalò un lungo e tremante respiro.
Il poeta si era addormentato a fianco del gigante.
Nosta sospirò e si avviò verso est.

Talismano era seduto sul muro più alto e fissava la Valle delle lacrime di Shul-
sen. Il sole risplendeva nel firmamento e una lieve brezza rinfrescava l’aria. In
lontananza le montagne sembravano dei banchi di nuvole nere cariche di tempesta
che rasentavano l’orizzonte. Due aquile volavano sopra i picchi sfruttando le
correnti d’aria calda. Gli occhi di Talismano fissarono la valle. Si trovava sul muro
sud del santuario e di là poteva vedere due campi. Nel primo, piantato davanti a
una grossa tenda, spiccava uno stendardo di crine di cavallo su cui era disegnato il
teschio di un bue selvatico dalle lunghe corna. I trenta guerrieri della tribù delle
Corna ricurve erano seduti a terra intenti a cucinare la cena, illuminati dal sole
morente. Trecento passi a ovest c’era una seconda fila di tende di pelle di capra con
sopra disegnato il simbolo dei Pony Veloci.
Fuori dal suo campo visivo, sul versante nord del santuario c’erano altri due
campi: quello dei Lupi Solitari e quello dei Corridori del Cielo, ognuno di essi
aveva il compito di sorvegliare una zona ben precisa del terreno vicino alla tomba
del più grande guerriero nadir. La brezza smise di spirare e Talismano scese i
gradini traballanti della scala in legno e raggiunse un tavolo vicino al pozzo. Da
quel punto poteva vedere la fenditura sul muro ovest attraverso la quale poteva
scorgere gli alberi che crescevano sulle colline a ovest.
Questo posto sta marcendo, pensò, proprio come i sogni dell’uomo le cui ossa
giacciono qua. Talismano stava facendo di tutto per cercare di controllare la
profonda ira che lo pervadeva. Erano arrivati appena in tempo per vedere un duello
tra due nadir terminato con lo sventramento del contendente che apparteneva alla
tribù dei Pony Veloci. Il vincitore, che portava il bracciale di pelo dei Corridori del
Cielo, si era chinato sul corpo del ragazzo, gli aveva tagliato la testa dopodiché,
imbrattato di sangue e trionfante, si era alzato in piedi tenendola per i capelli e
lanciando urla di trionfo.
Talismano aveva spronato il suo cavallo attraverso i cancelli. Lasciato Gorkai
ad accudire le bestie aveva attraversato il cortile e si era fermato davanti all’entrata
del santuario.
Ma non entrò, non avrebbe potuto entrare. Talismano aveva la bocca secca e lo
stomaco chiuso dalla paura. Fuori da quel luogo, sotto la luce della luna, i suoi
sogni sembravano realizzabili e la sua fiducia incrollabile. Una volta attraversata
quella porta, comunque, essi potevano sparire come il fumo.
Calmati! si disse. Il santuario è già stato saccheggiato altre volte. Gli Occhi
sono ben nascosti. Entra e rendi omaggio allo spirito dell’eroe.
Fece un profondo respiro, avanzò e spinse la porta di legno. La stanza, coperta
di polvere, era larga sei metri e lunga nove. Sulle pareti c’erano dei pioli di legno.
Un tempo là erano stati appesi il piastrone dell’armatura di Oshikai, l’elmo e
Kolmisai, l’ascia a una sola lama che aveva ucciso centinaia di avversari. Oltre a
quelle reliquie, a quei pioli un tempo erano stati appesi degli arazzi che narravano
la vita dell’eroe e la sue imprese. Ora c’erano solo delle pareti spoglie. Il santuario
era stato saccheggiato più volte. Nosta Khan gli aveva detto che erano arrivati al
punto di aprire la bara e spaccare le dita allo scheletro per prendere gli anelli d’oro.
La camera era buia e al centro, appoggiato su una piattaforma che lo sollevava di
qualche centimetro dal pavimento, c’era il feretro: uno spoglio blocco di pietra
bianca. Su di esso era stata incastonata una targa di metallo nero la cui scritta in
rilievo recitava:

Oshikai Flagello del Demone – Signore della guerra.

Talismano appoggiò la mano sul freddo coperchio in pietra della bara e disse:
«Io vivo affinché i tuoi sogni possano tornare a essere realtà. Noi saremo uniti di
nuovo. Saremo i nadir e il mondo tremerà.»
«Perché i sogni degli uomini portano sempre alla guerra?» chiese una voce.
Talismano si girò e vide che nell’ombra era seduto un vecchio cieco che indossava
un vestito grigio con il cappuccio. L’uomo, magro come uno fuscello e calvo, si
aggrappò al suo bastone, si alzò in piedi e si avvicinò a Talismano. «Sai,» gli disse,
«io ho studiato la vita di Oshikai esaminando attentamente i miti e le leggende.
Egli non ha mai voluto la guerra. Ha sempre imposto la sua presenza. Per questo
divenne il nemico più temuto. I sogni di cui tu parli erano principalmente orientanti
alla scoperta di una terra promessa. Una terra florida dove la sua gente avrebbe
potuto prosperare in pace. Era un grande uomo.»
«Chi sei?» chiese Talismano.
«Un prete della fonte.» Il vecchio fece qualche passo in avanti e venne
illuminato dal fascio di luce lunare che penetrava dalla finestra ovest e Talismano
vide che era un nadir. «Ora io vivo qua e scrivo le mie storie.»
«Come fa a scrivere un cieco?»
«Solo gli occhi del corpo sono ciechi, Talismano. Quando scrivo uso gli occhi
dello spirito.»
Nel sentire pronunciare il suo nome il giovane guerriero nadir rabbrividì. «Sei
uno sciamano?»
Il prete scosse la testa. «Io conosco la Via anche se la mia strada è differente. Io
non lancio nessun incantesimo, anche se posso guarire delle verruche e leggere i
cuori degli uomini. Purtroppo non posso cambiarli. Io posso camminare sui sentieri
di diversi futuri, ma non so quelli che si avvereranno. Se potessi, aprirei quella
tomba e resusciterei quell’uomo, ma non posso.»
«Come fai a sapere il mio nome?»
«Come potrei non saperlo? Tu sei la freccia fiammeggiante del messaggero.»
«Tu sai perché sono qua?» chiese Talismano con la voce ridotta a un sussurro.
«Certo. Stai cercando gli Occhi di Alchazzar che sono stati nascosti qua
tantissimi anni fa.»
Talismano strinse le dita intorno all’elsa della daga e la estrasse
silenziosamente. «Li hai trovati?»
«So dove sono. Ma non è compito mio trovarli. Io scrivo la storia, Talismano,
non la creo. Possa la fonte darti la saggezza necessaria.»
Il vecchio si girò, si diresse verso la porta dove si fermò per qualche attimo,
come se stesse aspettando. Dopo alcuni momenti di silenzio la sua voce tornò a
echeggiare nella stanza. «In almeno tre dei futuri che ho visto, tu mi uccidevi nel
punto in cui mi trovavo piantandomi la daga nella schiena, perché non l’hai fatto?»
«Ci ho pensato, vecchio.»
«Se l’avessi fatto saresti stato trascinato fuori da queste stanze. Le tue gambe e
le braccia sarebbero state legate con delle corde alle selle di quattro pony e saresti
stato squartato, Talismano. È successo anche questo.»
«Ovviamente non è andata così, poiché tu sei ancora vivo.»
«È successo in un altro luogo,» affermò il vecchio, quindi andò via.
Talismano lo segui, ma l’uomo scomparve in uno dei palazzi. Vide Gorkai che
prendeva dell’acqua dal pozzo e lo raggiunse. «Dov’è Zhusai?»
«La donna donne,» disse Gorkai. «Sembra che oggi ci sarà un altro duello. La
testa del ragazzo che è stato ucciso adesso si trova in cima a un palo nel campo dei
Corridori del Cielo.»
«Che atto stupido,» commentò Talismano.
«Sembra che la stupidità sia insita nel nostro sangue. Forse gli dèi ci hanno
maledetto.»
Talismano annuì. «La maledizione cadde su di noi quando vennero rubati gli
Occhi di Alchazzar. Quando verranno restituiti al Lupo di Pietra allora potremo
vedere un nuovo giorno.»
«Tu ci credi?»
«Un uomo deve credere in qualcosa, Gorkai. Altrimenti non siamo altro che
granelli di sabbia in balia del vento. I nadir ammontano a centinai di migliaia di
individui, forse milioni, e tuttavia vivono nello squallore. Intorno a noi c’è il
benessere ed è nelle mani di nazioni i cui eserciti contano a malapena ventimila
uomini. Anche qua, tra le tribù che sorvegliano il santuario, non riusciamo a
rimanere in pace. Il loro scopo è lo stesso, proteggere il tempio di un uomo che è
stato un eroe per tutti i nadir, tuttavia si fissano a vicenda con odio. Io credo che
tutto ciò cambierà. Noi lo cambieremo.»
«Solo io e te?» gli chiese Gorkai, calmo.
«Perché no?»
«Non ho ancora visto un uomo con gli occhi viola,» affermò Gorkai.
«Lo vedrai. Te lo giuro.»

Quando Druss si svegliò Nosta Khan era sparito. Si stava avvicinando il


tramonto e Sieben era seduto vicino alla polla con i piedi immersi nell’acqua
fresca. Druss sbadigliò, si stirò. Si tolse i vestiti e si tuffò in acqua. Dopo essersi
rinfrescato si sedette sul bordo a fianco del poeta. «Quando è andato via il
vecchio?» gli chiese.
«Dopo che ti sei addormentato,» gli rispose il poeta in tono piatto.
Druss fissò il volto dell’amico e vi lesse la tensione che lo segnava. «Ti stai
preoccupando dei duemila soldati che si stanno dirigendo al santuario?»
Sieben rispose in tono adirato: «Preoccupato non è la parola più adatta a
descrivere come mi sento in questo momento. Vedo che comunque tu non sei
sorpreso.»
Druss scosse la testa. «Il vecchio mi ha detto che mi era debitore perché avevo
salvato un suo amico, ma i nadir non si comportano in questo modo. No, egli
voleva che mi recassi al santuario perché sapeva che ci sarebbe stata una
battaglia.»
«Oh, capisco, quindi il vecchio pensa che il possente Druss, la Leggenda, possa
cambiare il corso della battaglia, suppongo?»
Druss rise. «Forse, sì, forse no, poeta. Qualunque sia la risposta, io so che
l’unico modo di trovare i gioielli è di recarmi in quel luogo.»
«E cosa farai se avesse mentito riguardo ai gioielli?»
«Allora Klay morirà e io avrò fatto del mio meglio.»
«È sempre tutto così semplice per te, vero?» si infuriò Sieben.
«Bianco o nero, luce o oscurità, bene o male? Duemila guerrieri stanno per
saccheggiare il santuario. Tu non puoi fermarli. Perché ci provi? Cosa c’è in Klay
che ti ha spinto a comportarti così? Altri uomini hanno subito delle ferite gravi
prima di lui. Hai visto i tuoi compagni morire al tuo fianco per anni.»
Druss si alzò, si vesti, si avvicinò ai cavalli, tolse i sacchetti d’avena che
penzolavano dai pomelli delle selle e li fece passare sopra le orecchie delle due
bestie. «Dicono che un cavallo nutrito ad avena possa superare in velocità uno
nutrito a erba,» affermò Druss. «Tu sei un esperto Sieben, è vera questa diceria?»
«Avanti Druss, rispondi alla mia domanda, dannazione a te! Perché Klay?»
«Mi ricorda un uomo che non ho mai conosciuto.»
«Mai conosciuto! Cosa vuol dire?»
«Significa che io devo trovare i gioielli e non me ne importa nulla di duemila
figli di puttana gothir o di tutta la nazione nadir. Adesso falla finita, poeta!»
Il rumore prodotto dagli zoccoli di alcuni cavalli fece girare entrambe gli
uomini. Sei nadir disposti in fila indiana si stavano avvicinando all’oasi. Erano
vestiti con delle tuniche di pelle di capra e indossavano degli elmi orlati di pelo e
tutti portavano con loro due spade corte e un arco. «Cosa facciamo?» sussurrò Sie-
ben.
«Niente. I nadir non si batterebbero mai in un pozzo: li considerano dei luoghi
sacri. Si limiteranno ad abbeverare i cavalli quindi se ne andranno.»
«E poi?»
«Poi cercheranno di ucciderci. Ma questo è un problema per il futuro. Rilassati,
poeta, volevi l’avventura e adesso l’hai ottenuta.»
Druss tornò con passo tranquillo all’ombra e si sedette a fianco della sua
temibile ascia. I nadir fecero finta di ignorarlo, ma Sieben vide che il suo amico era
l’oggetto di diverse occhiate furtive. Infine, il capo, un guerriero robusto di mezza
età con il volto coperto da un accenno di barba, andò a sedersi di fronte a Druss.
«Sei lontano da casa,» esordì, parlando in modo approssimativo la lingua del
sud.
«Però mi sento a mio agio,» replicò Druss.
«Raramente una colomba si trova a suo agio nel dominio del falco.»
«Non sono una colomba, ragazzo. E tu non sei un falco.»
L’uomo si alzò in piedi. «Penso che ci incontreremo di nuovo occhi rotondi.»
Tornò dai suoi compagni, saltò in sella e i sei nadir si diressero in direzione est.
Sieben si sedette a fianco di Druss. «Oh, ben fatto, vecchio cavallo. Sempre
bravo ad ammansire un nemico che ci supera di tre a uno.»
«Non c’era nulla da dire. Lui sapeva quello che doveva fare come lo sapevo io.
Aspetta qua con i cavalli, tienili sellati e pronti.»
«Dove vai?»
«Mi allontano un po’ verso est. Voglio vedere che razza di trappola ci stanno
preparando.»
«Pensi che sia saggio, Druss? Loro sono in sei.»
Druss ghignò. «Pensi che sarebbe molto più leale se lasciassi qua la mia ascia?»
Così dicendo afferrò Snaga e si allontanò.
La notte cadde velocemente e il poeta si trovò a desiderare di aver raccolto un
po’ di legna lungo il sentiero. In quella terra desolata il fuoco sarebbe stato un
amico più che benvenuto. Fortunatamente la luna brillava nel cielo. Sieben si
avvolse nella coperta e si sedette al riparo della roccia. Mai più, pensò... Da questo
momento accoglierò la noia a braccia aperte e con un forte abbraccio.
Cosa aveva detto Druss riguardo a Klay? Mi ricorda un uomo che non ho mai
conosciuto? Improvvisamente il poeta capì. Il suo amico si era riferito a Michanek,
l’uomo che si era innamorato di Rowena quando la donna era stata portata in
Ventria. Come Druss, Michanek era stato un guerriero valoroso, il campione dei
ribelli che si erano opposti al principe Gorben. Rowena, che in quel periodo aveva
perso la memoria, si era innamorata di lui ed era arrivata al punto di tentare il
suicidio quando aveva saputo della sua morte. Druss era stato là quando Michanek
aveva affrontato la crema dell’esercito di Gorben: gli immortali. Michanek ne
aveva uccisi parecchi da solo finché anche la sua prodigiosa forza si era esaurita a
causa delle numerose ferite che gli avevano inferto. Poco prima di morire aveva
chiesto a Druss di prendersi cura di Rowena.
Una volta quando Sieben si era recato a trovare Druss e sua moglie nella loro
casa sulle montagne, aveva fatto una passeggiata insieme a Rowena e quando lui le
aveva chiesto di parlargli di Michanek, la donna aveva fatto un sorriso affettuoso e
aveva detto: «In molte cose somigliava a Druss, ma era anche gentile e buono. Io
l’ho amato, Sieben e so che Druss trova difficile sopportare questo fatto. Ma mi
avevano privato della memoria. Io non sapevo chi ero e non ricordavo nulla di
Druss. Tutto ciò che sapevo era che quell’uomo gigantesco mi amava e si stava
prendendo cura di me. Comunque il fatto che Druss sia stato in qualche modo la
causa della morte di Michanek mi rattrista.»
«Non sapeva di Michanek,» l’aveva giustificato Sieben. «Tutto ciò che lui
aveva sognato per anni era di trovarti e riportarti a casa.»
«Lo so.»
«Se ti avessero dato la possibilità di scegliere tra loro due, quale avresti
scelto?» le aveva chiesto improvvisamente Sieben.
«Questa è una domanda che non mi faccio mai,» aveva confessato lei. «Io so
che sono stata fortunata a essere stata amata da entrambi e io li amo entrambi.»
Sieben avrebbe voluto fare altre domande ma la donna gli aveva appoggiato un
dito sulle labbra. «Adesso basta, poeta! Torniamo a casa.»
Un freddo vento cominciò a spirare e Sieben si avvolse ancor più strettamente
nel suo mantello. Il silenzio era interrotto solo dal fischio del vento attraverso le
rocce e il poeta si sentì terribilmente solo. Il tempo passava con una lentezza che
ottundeva la mente e più di una volta Sieben si assopì, svegliandosi sempre con
uno scatto, terrorizzato al pensiero che un assassino nadir stesse avvicinandosi
furtivamente per ucciderlo.
Poco prima dell’alba, quando il cielo cominciava a illuminarsi sentì il rumore
provocato da zoccoli che battevano sulla pietra. Alzandosi affannosamente in piedi
estrasse un coltello che gli cadde di mano. Lo raccolse e attese. Druss entrò nel suo
campo visivo portando con sé quattro pony nadir e Sieben uscì allo scoperto per
andargli incontro. I vestiti del gigantesco guerriero Drenai erano sporchi di sangue.
«Sei ferito?» gli chiese Sieben.
«No, poeta. La strada davanti a noi è libera, adesso, e abbiamo quattro pony da
barattare.»
«Due dei nadir sono scappati?»
Druss scosse la testa. «Non i nadir, ma due dei pony si sono liberati e sono
scappati.»
«Li hai uccisi tutti e sei?»
«Cinque. Uno è caduto in uno strapiombo mentre lo stavo inseguendo. Adesso
muoviamoci.»
CAPITOLO SESTO

Poco prima della mezzanotte Talismano ordinò a Gorkai di sorvegliare l’entrata


quindi entrò nella tomba di Oshikai Flagello del Demone e tirò fuori quattro piccoli
sacchettini di pelle che appoggiò davanti alla bara. Dal primo versò sul pavimento
un po’ di polvere rossa che aprì con un dito fino a formare un cerchio non più
grosso del palmo della mano. La debole luce lunare che penetrava dalla finestra gli
rese più facile l’operazione. Dal secondo sacchettino prese tre lunghe foglie
secche, le appallottolò e se le mise sotto la lingua. Il sapore era talmente amaro che
quasi vomitò. Prese l’acciarino e la pietra focaia dalla tasca della sua tunica di pelle
di capra, sfregò insieme i due utensili e la scintilla che ne scaturì cadde sulla
polvere rossa provocando una fiammata cremisi. Talismano inspirò il fumo e
ingoiò la pallina di foglie.
Si sentì intontito, stordito e, come se fosse una musica dolce che proveniva da
molto lontano, udì un sospiro. La vista gli si appannò per qualche attimo poi tornò
a schiarirsi. Sulle pareti del santuario c’erano delle luci tremolanti che gli fecero
lacrimare gli occhi. Talismano li stropicciò con l’indice e il pollice e fissò di nuovo
le pareti. Sotto i pioli di legno splendeva l’armatura di Oshikai Flagello del
Demone: il piastrone fatto di centinaia di lamine d’oro battuto, l’elmo nero di ferro
su cui erano state incise delle rune e sua temibile arma, l’ascia chiamata Kolmisai.
Talismano esaminò lentamente la stanza. Degli stupendi arazzi pendevano delle
pareti e ognuno di essi riproduceva una delle imprese di Oshikai: la caccia al leone
nero, la distruzione totale di Chien-Po, il volo sopra le montagne, il matrimonio
con Shul-sen. Quest’ultimo, in particolare, era una stupenda opera d’arte in cui la
sposa, portata da una moltitudine di corvi, si recava all’altare dove lo sposo
l’aspettava con a fianco i suoi due demoni.
Talismano sbatté le palpebre e cercò di mantenere la concentrazione che
tendeva a indebolirsi a mano a mano che la droga che aveva ingurgitato faceva
effetto. Dal terzo sacchettino prese un anello d’oro e dal quarto un piccolo osso di
un dito. Seguendo le istruzioni impartitegli da Nosta Khan fece scivolare l’anello
nell’osso e l’appoggiò a terra di fronte a lui, quindi estrasse la daga e si praticò un
piccolo taglio sull’avambraccio sinistro, assicurandosi che il sangue cadesse
sull’osso e sull’anello. «Io ti invoco Signore della guerra,» disse. «Richiedo
umilmente la tua presenza.»
Dopo qualche attimo in cui non successe nulla, la stanza sembrò attraversata da
una ventata d’aria fredda, che però non smosse minimamente la polvere. Sopra la
bara cominciò a materializzarsi una figura. L’armatura dorata andò a inguainare il
corpo evanescente dell’apparizione seguita dall’ascia che fluttuò nell’aria e si posò
nella mano destra. Talismano smise quasi di respirare nel vedere lo spirito che
scendeva sul pavimento per poi sedersi a gambe incrociate davanti a lui. Anche se
aveva le spalle larghe, Oshikai non era grosso come il giovane guerriero nadir se
l’era aspettato. Il volto dell’eroe, privo di barba e baffi, era piatto e segnato da
un’espressione dura, il naso largo e le narici dilatate. Portava i capelli legati a coda
di cavallo e gli occhi viola brillavano colmi d’energia e irradiavano la forza della
risolutezza.
«Chi chiama Oshikai?» chiese la figura traslucida.
«Io, Talismano dei nadir.»
«Mi porti notizie di Shul-sen?»
La domanda giunse inaspettata e Talismano esitò. «Io... Io non so nulla di lei,
lord. Conosco solo le storie e le leggende. Alcune dicono che sia morta poco dopo
di te, altre che abbia attraversato gli oceani e sia andata in un mondo privo
d’oscurità.»
«Io l’ho cercata nella Valle degli Spiriti, nella Valle dei Dannati, nei Campi
degli Eroi, nelle Sale dei Possenti. Ho attraversato il Vuoto più volte senza ottenere
nulla. Non riesco a trovarla.»
«Io sono qua, lord, per far sì che i tuoi sogni tornino a vivere,» affermò
Talismano, ripetendo le parole che Nosta Khan gli aveva ordinato di dire, ma
Oshikai sembrava non sentirlo. «È necessario che i nadir tornino a essere uniti,»
continuò. «Per fare ciò dobbiamo trovare il capo con gli occhi viola, ma non
sappiamo dove cercare.»
Lo spirito di Oshikai fissò Talismano quindi sospirò. «Egli verrà trovato
quando gli Occhi di Alchazzar verranno rimessi nelle orbite da cui sono stati tolti.
La magia tornerà a fluire nella terra e allora l’identità del prescelto verrà rivelata.»
«Io sto cercando gli Occhi, lord,» disse Talismano. «Si dice che siano stati
nascosti qua. È vero?»
«Sì, è vero. Sono vicini, Talismano dei nadir, ma tu non sei colui destinato a
trovarli.»
«Chi è il predestinato, lord?»
«Sarà uno straniero a prenderli. Non posso dirti altro.»
«E l’Unificatore, lord? Potresti dirmi il suo nome?»
«Egli si chiamerà Urlic. Ora devo andare. Devo riprendere la mia ricerca.»
«Perché stai continuando a cercare, lord? Non ti aspetta il paradiso?»
Lo spirito lo fissò. «Quale paradiso sarebbe senza Shul-sen? Posso sopportare
la morte, ma non la separazione dall’anima della mia amata. Io la troverò dovessi
anche impiegarci dozzine di eternità. Addio Talismano dei nadir.»
Prima che il giovane guerriero potesse dire qualcosa la figura scomparve.
Talismano si alzò in piedi barcollando e tornò alla porta.
«Cosa è successo la dentro?» gli chiese Gorkai. «Ti ho sentito parlare, ma non
hai ricevuto nessuna risposta.»
«Egli è venuto, ma non mi è stato di alcun aiuto. Era solo un’anima tormentata
che cercava la moglie.»
«La strega chiamata Shul-sen. Si dice che sia stata bruciata viva, le sue ceneri
sparse ai quattro venti e il suo spirito distrutto con la stregoneria.»
«Non avevo mai sentito questa storia,» confessò Talismano. «Io ho sempre
saputo che lei si fosse recata in una terra al di là dell’oceano dove non scende mai
la notte e che viva ancora là in attesa che Oshikai la trovi.»
«È un racconto molto più bello,» ammise Gorkai, «e spiegherebbe come mai il
Signore della guerra non riesca a trovarla. Cosa faremo adesso?»
«Vedremo cosa ci porta il domani,» disse Talismano avviandosi verso le stanze
che Gorkai aveva trovato per loro. C’erano trenta piccole stanze all’interno
dell’edificio principale e tutte dovevano servire ai pellegrini. Zhusai aveva disteso
le sue coperte sotto la finestra e quando Talismano entrò fece finta di dormire. Il
ragazzo non si avvicinò a lei, prese una sedia, si sedette e si mise a fissare le stelle.
Incapace di sopportare ancora il silenzio, la ragazza si mise a parlare.
«Lo spirito è venuto da te?» gli chiese.
«Sì. È venuto.» Lentamente le raccontò tutta la storia della ricerca di Oshikai e
le due leggende riguardo la morte della donna.
Zhusai si sedette continuando a tenere la coperta avvolta intorno al corpo. «Ci
sono altre storie riguardo Shul-sen. Una dice che sia stata scagliata da un dirupo
delle Montagne della Luna, un’altra che si sia suicidata e un’altra ancora che sia
stata trasformata in un albero. Ogni tribù ha la sua storia diversa, ma è triste che
Oshikai non sia ancora riuscita a trovarla.»
«Più che triste,» affermò Talismano. «Egli ha detto che senza di lei non esiste
nessun paradiso.»
«Che cosa stupenda,» commentò la ragazza. «Egli era un chiatze e noi siamo un
popolo che sa cos’è la sensibilità.»
«Nella mia vita ho scoperto che la gente che si vanta della propria sensibilità è
sensibile solo ai propri bisogni e del tutto insensibile a quelli degli altri.
Comunque, non sono dell’umore giusto per discutere su questo punto.» Prese la
coperta, si sdraiò al fianco di Zhusai e si addormentò. I suoi sogni, come al solito,
furono colmi di dolore.

La frusta era penetrata profondamente nella sua schiena, ma egli non aveva
urlato. Era un nadir e non gli importava nulla di quanto grande potesse essere il
dolore, egli non avrebbe mai e poi mai mostrato le sue sofferenze davanti a quei
gajin, quegli stranieri dagli occhi rotondi. Era stato costretto a costruire quella
frusta con le sue mani, a legare strettamente il pezzo di cuoio intorno al manico di
legno, a tagliarlo in strisce sottili e ad appesantire l’apice di ogni striscia con un
pallino di piombo. Okai aveva contato ognuna delle quindici frustate che gli erano
state comminate. Quando l’ultima sferzata si era abbattuta sulla schiena ferita si era
permesso di crollare in avanti contro il palo. «Dategliene ancora cinque,» aveva
ordinato la voce di Gargan.
«Ma sarebbe una violazione del regolamento, mio lord,» aveva risposto
Premian. «Ha ricevuto il massimo della pena prevista per un cadetto di quindici
anni.» Okai era rimasto incredulo nel sentire parlare quella persona in quel modo:
Premian, il prefetto della casa, non aveva mai nascosto il suo odio nei confronti dei
ragazzi nadir.
«Questa regola vale per gli esseri umani, non per la feccia nadir. Come puoi
vedere non ha sofferto minimamente. Non ha emesso neanche un lamento. Dove
non c’è intelligenza non ci sono sentimenti. Altre cinque!» aveva detto Gargan.
«Non posso ubbidire, mio lord.»
«Sei degradato, Premian. Mi ero fatto un opinione migliore di te.»
«E io di lei, lord Gargan.» Okai aveva sentito la frusta cadere a terra. «Se verrà
data ancora una sola frustata sulla schiena di questo ragazzo io lo racconterò a mio
padre a palazzo. Quindici frustate sono già troppe per punire la cattiva condotta.
Venti sarebbe un atto di pura crudeltà.»
«Zitto!» aveva tuonato Gargan. «Un altra parola e tu subirai la stessa punizione
e verrai espulso da questa accademia. Non tollero né la disubbidienza né
l’insubordinazione. Tu!» aveva detto, indicando un ragazzo che Okai non aveva
potuto vedere. «Ancora cinque frustate, grazie.»
Okai aveva sentito il rumore della frusta che veniva alzata da terra e aveva
cercato di sostenersi al palo. Solo quando aveva ricevuto il primo dei cinque colpi
supplementari, si era reso conto che Premian si era trattenuto. Chiunque aveva
maneggiato la frusta in quel momento, l’aveva fatto con rabbia. Alla terza sferzata
gli era sfuggito un lamento e questo l’aveva fatto vergognare ancor più che la
punizione, tuttavia egli aveva morso con forza il pezzo di cuoio che teneva stretto
tra i denti e non aveva emesso nessun altro suono. Il sangue aveva preso a scorrere
copioso lungo la sua schiena fermandosi sopra la cintura. Dopo il quinto colpo la
sala era stata avvolta nel silenzio. Era stato Gargan a interromperlo. «Adesso
Premian, puoi andare e scrivere a tuo padre. Slegate quel pezzo di sterco.»
Tre ragazzi nadir erano corsi a sciogliere Okai dal palo. Appena era caduto
nelle loro braccia si era girato per vedere chi avesse maneggiato la frusta e la
scoperta gli aveva causato un tuffo al cuore: era stato Dalsh-chin, della tribù dei
Pony Veloci.
I suoi amici l’avevano portato nell’infermeria dove avevano applicato tre punti
a una ferita profonda che gli lacerava la spalla e avevano medicato le altre. Dalsh-
chin era l’aveva raggiunto e si era fermato a fianco del suo letto. «Ti sei
comportato bene, Okai,» si era complimentato, usando l’idioma dei nadir. «Il mio
cuore è gonfio d’orgoglio per te.»
«Allora perché mi hai fatto urlare davanti a un gajin?»
«Perché se dopo quelle cinque frustate tu non l’avessi fatto, ne avrebbe ordinate
altre cinque e così via. Era una prova di volontà in cui saresti potuto morire.»
«Smettila di parlare in quella lingua schifosa,» gli aveva ordinato un
inserviente. «Sai che è contro le regole e io non voglio sentirla.»
Dalsh-chin aveva annuito quindi aveva appoggiato una mano sulla testa di
Okai. «Hai un cuore coraggioso, ragazzo,» gli aveva detto nella lingua del sud.
Dopodiché si era girato ed era uscito dalla stanza.
«Venti frustate solo perché ti sei difeso,» aveva commentato Zhen-shi, il suo
migliore amico. «Non è giusto.»
«Non puoi aspettarti la giustizia dai gajin,» gli aveva risposto Okai. «Solo
dolore.»
«Essi hanno finito di farmi del male,» aveva continuato Zhenshi. «Forse d’ora
in avanti le cose andranno meglio per noi.»
Okai non aveva detto nulla poiché sapeva bene il motivo per cui avevano
smesso di punire l’amico. Zhen-shi era diventato come una specie di servitore,
puliva loro gli stivali, si inchinava, correva appena veniva chiamato e si
comportava come uno schiavo. Ogni volta che lo prendevano in giro lui sorrideva e
inchinava la testa. La cosa aveva rattristato molto Okai, ma egli avrebbe potuto
fare ben poco. Ogni uomo doveva fare le proprie scelte. La sua scelta era stata
quella di resistere loro con tutte le forze, ma al tempo stesso di imparare tutto ciò
che poteva. Zhen-shi non aveva avuto la forza per prendere una simile decisione:
egli era sempre stato un carattere debole e decisamente gentile per essere un nadir.
Dopo un breve riposo in infermeria, Okai era tornato da solo nella stanza che
divideva con Lin-tse. Il ragazzo era stato prelevato dalla tribù dei Corridori del
Cielo. Era alto più della media dei giovani nadir, aveva il volto piatto e gli occhi
non troppo a mandorla. Qualcuno aveva sostenuto che nelle sue vene scorresse del
sangue gajin, ma nessuno aveva avuto il coraggio di andarglielo a dire in faccia
poiché il giovane perdeva facilmente la pazienza e ricordava bene chi gli faceva
uno torto. Appena Okai era entrato nella stanza Lin-tse si era alzato e l’aveva
accolto dicendo: «Ti ho portato del cibo e da bere, Okai. C’è anche un po’ di miele
delle montagne per le ferite sulla schiena.»
«Ti ringrazio, fratello,» aveva risposto Okai, in tono formale.
«Le nostre tribù sono in guerra,» aveva precisato Lin-tse, «quindi non possiamo
essere fratelli, ma io rispetto il tuo coraggio.» Si era inchinato ed era tornato a
concentrarsi sui libri.
Okai si era sdraiato prono sullo stretto letto e aveva cercato di resistere alle
ondate di dolore che gli attraversavano la schiena. «Adesso le nostre tribù sono in
guerra,» aveva detto, «ma un giorno noi saremo fratelli e i nadir si abbatteranno su
questi gajin e li faranno sparire dalla faccia della terra.»
«Che la tua profezia si possa avverare,» aveva risposto Lin-tse. «Domani hai un
esame, vero?»
«Sì. Il ruolo della cavalleria nelle spedizioni punitive.»
«Bene allora ti farò delle domande. Ti servirà per evitare di pensare al dolore.»

Talismano si svegliò poco prima dell’alba. Zhusai dormiva ancora quando lui si
alzò silenziosamente e uscì dalla stanza. Nel cortile sottostante il prete cieco stava
prendendo l’acqua dal pozzo. Nella luce tenue che precedeva l’alba il volto pallido
e sereno del religioso sembrò più giovane. «Spero che tu abbia dormito bene,
Talismano,» indagò il vecchio appena il giovane nadir si avvicinò.
«Abbastanza.»
«I sogni sono sempre gli stessi?»
«I miei sogni sono solo una mia preoccupazione, vecchio, e se desideri vivere
abbastanza a lungo per completare la tua storia, faresti meglio a ricordarti di queste
parole.»
Il prete appoggiò a terra il secchio e si sedette sul bordo del pozzo. I suoi occhi
color opale brillarono illuminati dagli ultimi sprazzi di luna. «I sogni non sono mai
segreti, Talismano, non importa quanto ci sforziamo di proteggerli. Essi sono come
i dispiaceri, cercano sempre la luce e desiderano essere condivisi. E hanno dei
significati che vanno ben al di là della nostra comprensione. Vedrai. Qua, in questo
luogo, si chiuderà il cerchio.»
Il prete portò il secchio fino a un tavolo, prese un mestolo di rame e cominciò a
riempire le pignatte per l’acqua che penzolavano appese con un pezzo di corda alle
aste di metallo del porticato. Talismano raggiunse il tavolo e vi si sedette sopra.
«Di cosa parlano le storie che stai scrivendo?» gli chiese.
«Nella maggior parte dei casi hanno a che fare con i chiatze e i nadir. Ma io
sono molto affascinato dalla vita di Oshikai. Conosci l’origine del nome “Nadir”?»
Talismano scrollò le spalle. «Nella lingua del sud significa luogo di massima
disperazione.»
«In chiatze significa, incrocio della morte,» replicò il prete. «Quando Oshikai
guidò la sua gente al di fuori delle terre dei chiatze, venne inseguito da un grande
esercito che voleva distruggere quelli che secondo loro erano dei ribelli. Oshikai li
affrontò sulla piana di Chu-chien e vinse. Ma altri due eserciti si stavano chiudendo
su di lui ed egli fu costretto a far attraversare al suo popolo le Montagne di
Ghiaccio. Morirono a centinaia, molti persero le dita della mani e dei piedi, le
braccia e le gambe a causa del freddo. Appena ebbero superato quel valico si
ritrovarono nel terribile deserto salato che si stendeva al di là delle montagne. La
disperazione era quasi al culmine. Oshikai indisse un consiglio e affermò che essi
erano persone nate dal pericolo e dalla durezza e che in quel momento avevano
raggiunto il loro nadir. Da quel momento in poi il loro nome cambiò. Dopodiché si
rivolse alla sua gente e disse che Shul-sen li avrebbe portati all’acqua e a una terra
promessa che si trovava oltre il deserto. Parlò loro di un sogno in cui i nadir
sarebbero cresciuti fino a coprire il territorio che si estendeva dalle cime innevate
ai mari splendenti. Fu allora che recitò la frase che tutti i bambini nadir imparano
mentre succhiano il latte della madre:

Nadir noi,
nati giovani,
spargiamo il sangue,
armati d’ascia,
pur sempre vincitori.

«Cosa è successo a Shul-sen?» chiese Talismano. Il prete sorrise, appoggiò


nuovamente a terra il secchio e si sedette sul tavolo.
«Ci sono molte storie, su alcune vi hanno ricamato molto, altre sono solo favole
e altre ancora sono imbevute di un tale simbolismo mistico che sono diventate
insignificanti. Temo che la verità sia molto più semplice. Credo che Shul-sen sia
stata catturata e uccisa dai nemici di Oshikai.»
«Se così fosse allora egli avrebbe dovuto trovarla.»
«Chi avrebbe dovuto trovarla?»
«Oshikai. Il suo spirito la sta cercando da secoli, ma non è riuscito a trovarla.
com’è possibile?»
«Non lo so,» ammise il prete, «ma ci penserò sopra. Come fai a sapere queste
cose?»
«Accetta semplicemente il fatto che io le sappia,» rispose Talismano.
«Noi nadir siamo un popolo riservato, tuttavia siamo curiosi,» disse il prete,
sorridendo. «Tornerò ai miei studi e penserò alla domanda che mi hai fatto.»
«Tu dici di camminare lungo i diversi sentieri del futuro,» affermò Talismano.
«Perché non segui l’unico sentiero del passato e non scopri la verità?»
«È una buona domanda, ragazzo. La risposta è semplice. Un vero storico deve
rimanere oggettivo. Qualsiasi persona sia testimone di un grande evento crea
immediatamente un suo punto di vista soggettivo, poiché ne è rimasto colpito.
Certo, io potrei tornare indietro e osservare, tuttavia non lo faccio.»
«C’è una falla nella logica del tuo ragionamento, prete. Se lo storico non può
osservare gli eventi allora egli si deve affidare alle testimonianze di un individuo
che, stando alle tue parole, può solo offrire un punto di vista soggettivo.»
Il prete rise di gusto e batté le mani. «Ah, ragazzo mio! Se solo avessimo un
po’ più di tempo per parlare. Potremmo discutere dell’inganno che si cela dietro
l’altruismo, oppure della mancanza di prove che dimostrino la non esistenza di un
essere supremo.» Il suo sorriso si affievolì. «Ma, purtroppo, non abbiamo tempo.»
Il prete riportò il secchio vicino al pozzo e si allontanò. Talismano si inclinò
leggermente all’indietro e osservò lo spettacolo maestoso del sole che sorgeva
dietro le montagne.

Quing-chin uscì dalla sua tenda. Era un uomo alto, dagli occhi incassati e un
volto solenne. Rimase in piedi a godersi il calore del sole sul faccia. Il suo sonno
non era stato turbato da nessun sogno e si era svegliato fresco e riposato, pronto per
assaporare la vendetta. La rabbia del giorno prima era stata rimpiazzata da una
fredda risolutezza. I suoi uomini si erano seduti in cerchio vicino alla sua tenda.
Quing-chin alzò le braccia possenti sopra le spalle e le allungò per stirare i muscoli
della parte superiore della schiena. Il suo amico Shi-da si alzò dal cerchio e gli
portò la spada. «Adesso è affilata, compagno,» gli disse, «e pronta ad affettare il
nemico.» Gli altri sei uomini che componevano il cerchio si alzarono: nessuno era
alto come Quing-chin.
Il fratello di spada di Shanqui, il guerriero ucciso il giorno prima dal campione
dei Corridori del Cielo, si fermò davanti a Quing-chin. «L’anima di Shanqui
attende la vendetta,» dichiarò in tono formale.
«Gli manderò un servitore che soddisfi i suoi bisogni,» sentenziò Quing-chin.
Un giovane guerriero gli si avvicinò tenendo per le briglie un pony pezzato.
Quing-chin afferrò i finimenti e balzò in sella. Shi-da gli passò la lunga lancia
decorata con la doppia treccia scura di crine di cavallo che lo designava come un
guerriero appartenente alla famiglia del capo dei Pony Veloci e l’elmo nero di le-
gno laccato bordato di pelo. Quing-chin spinse indietro i lunghi capelli e infilò
l’elmo, quindi toccò i fianchi del cavallo con i talloni, uscì dal campo e superò le
mura bianche della tomba di Oshikai.
I Corridori del Cielo erano già svegli e si stavano affaccendando intorno ai
fuochi per preparare la colazione quando arrivò il campione dei Pony Veloci.
Quing-chin passo in mezzo a loro ignorandoli e diresse la sua cavalcatura verso la
più lontana delle diciotto tende che formavano il campo. Fuori dall’entrata, infilata
in cima a un palo, c’era la testa di Shanqui. Il sangue aveva macchiato il terreno
sottostante e la pelle aveva preso un colorito grigio cenere.
«Esci fuori,» ordinò Quing-chin. Una falda della tenda si aprì e uscì un
guerriero tarchiato. Ignorando l’uomo a cavallo si aprì i pantaloni e urinò per terra,
quindi alzò lo sguardo alla testa tagliata.
«Sei venuto qua ad ammirare il mio albero?» gli chiese. «Vedi è già in fiore.»
La maggior parte dei Corridori del Cielo si erano riuniti intorno ai due uomini e a
quella battuta scoppiarono a ridere. Quing-chin attese che l’eco delle risate si fosse
spento quindi parlò con voce fredda e dura.
«È perfetto,» si complimentò Quing-chin. «Solo un albero dei Corridori del
Cielo potrebbe dare un frutto marcio.»
«Ah! Ma oggi quest’albero avrà un frutto fresco. Mi dispiace che tu non potrai
vederlo.»
«Lo farò, invece. Sarò io stesso a prendermene cura. Adesso basta, è finito il
tempo di parlare. Ti aspetto in campo aperto,dove l’aria non è appestata dall’odore
del tuo accampamento.»
Quing-chin schioccò le redini e diresse il cavallo a nord, in un punto a circa
duecento passi dal campo dove gli altri ventotto guerrieri della tribù dei Pony
Veloci lo stavano aspettando seduti silenziosamente in sella ai cavalli. In pochi
momenti i trenta uomini dei Corridori del Cielo li raggiunsero e formarono una
linea davanti ai loro avversari.
Il tarchiato guerriero dei Corridori del Cielo, armato con una lunga lancia,
spronò il suo pony in avanti, quindi girò a destra e galoppò ancora per una
cinquanta di metri prima di arrestare la cavalcatura con un selvaggio strattone alle
redini. Quing-chin si portò in mezzo alle due linee di uomini quindi si girò e alzò la
lancia. L’avversario abbassò la sua arma e si lanciò alla carica. Quing-chin rimase
immobile. La distanza tra i due contendenti diminuiva a vista d’occhio.
Improvvisamente, proprio all’ultimo momento, il capo dei Pony Veloci urlò un
ordine e il suo cavallo scartò con un movimento repentino sulla sua destra.
Contemporaneamente Quing-chin abbassò la lancia sopra la testa del pony
calandola verso la sua sinistra. Il movimento avrebbe dovuto piantare l’arma nella
pancia dell’avversario, ma il Corridore del Cielo aveva tirato le redini un attimo
prima di quando Quing-chin aveva previsto e la lancia si piantò nel collo del
cavallo del suo avversario che incespicò e cadde a terra. Il Corridore del Cielo
venne scagliato in aria e atterrò pesantemente sulla schiena. Quing-chin balzò da
cavallo e gli corse incontro sfoderando la spada. Il suo avversario riuscì ad alzarsi e
malgrado fosse ancora intontito dalla caduta, riuscì ad estrarre la spada e parare il
primo affondo. Quing-chin si fece avanti e gli diede un calcio al ginocchio. Il
Corridore del Cielo saltò indietro e si piegò leggermente. Il campione dei Pony
Veloci lo incalzò e vibrò un fendente che gli aprì il giustacuore in cuoio e un
profondo taglio sulla guancia sinistra da cui scaturì uno spruzzo di sangue. Pur
barcollando, l’uomo riuscì a rimettersi in piedi, malgrado Quing-chin non gli stesse
dando tregua. Il Corridore del Cielo era veloce e fece un affondo al volto del suo
avversario, questi si spostò di lato ma la spada gli tagliò un lobo dell’orecchio.
Quing-chin rispose immediatamente con una stoccata al collo. Il colpo risultò
troppo basso e si abbatté sulla spalla sinistra dell’avversario, che inciampò in
avanti, ma si girò prontamente per parare un secondo affondo diretto alla sua gola.
I due guerrieri cominciarono a muoversi in cerchio studiandosi cautamente.
Entrambi sentivano crescere in loro un sentimento di rispetto reciproco. Quing-
chin era rimasto sorpreso dalla velocità del suo avversario e il Corridore del Cielo,
ferito alla spalla e al volto, sapeva di trovarsi in guai seri.
Quing-chin scattò in avanti fintando un fendente al gola. La spada del suo
avversario si alzò per parare, ma la velocità del movimento lo tradì. La parata fu
troppo veloce. La punta della spada di Quing-chin si piantò nel petto dell’uomo che
all’ultimo momento riuscì ad arretrare evitando così che la lama penetrasse troppo
in profondità, sfilandola al tempo stesso. Il Corridore del Cielo cadde, rotolò su se
stesso quindi si rialzò barcollando.
«Sei molto bravo,» disse. «Sarò orgoglioso di appendere la tua testa al mio
albero.» Il suo braccio sinistro pendeva inerte lungo il fianco e il sangue che
scaturiva dalla ferita era colato fino alla mano per poi gocciolare a terra. In quel
momento Quing-chin provò del dispiacere. Shanqui era stato un ragazzo arrogante
e spaccone che aveva sfidato quest’uomo ed era morto. E ora, secondo la
tradizione nadir, Quing-chin avrebbe dovuto mandare l’anima del suo avversario a
servire Shanqui per l’eternità. Sospirò.
«Anch’io sono orgoglioso,» disse. «Sei un uomo tra gli uomini. Ti saluto
Corridore del Cielo.»
L’uomo annuì... poi corse in avanti. Quing-chin scivolò di lato per evitare
l’ultimo disperato attacco del suo avversario, gli piantò la spada nello stomaco e la
fece salire fino al cuore. Il Corridore del Cielo cadde contro di lui, gli cedettero le
ginocchia e si appoggiò con la testa contro la sua spalla. Quing-chin lo afferrò e lo
sdraiò a terra. Il suo avversario fu scosso da un tremito e morì.
Quello era il momento. Quing-chin si inginocchiò a fianco del corpo ed estrasse
il coltello. Le due linee di cavalieri stavano aspettando, ma lui si alzò e disse: «Non
prenderò i suoi occhi. Lasciate che i suoi amici lo portino via per seppellirlo.»
Shi-da balzò giù dal pony e corse da lui. «Tu devi, fratello! Shanqui deve tenere
i suoi occhi in mano, altrimenti non avrànessun servitore negli inferi!»
Un Corridore del Cielo uscì dal suo schieramento, si avvicinò ai due uomini e
smontò da cavallo. «Hai combattuto bene, Dalshchin,» disse.
Nel sentire il suo nome da bambino, Quing-chin si girò e vide gli occhi colmi di
dolore del Corridore del Cielo. Lin-tse era cambiato molto poco dal giorno in cui,
due anni prima, aveva lasciato l’Accademia di Bodacas: aveva le spalle più larghe,
la testa rasata con una corta treccia che partiva dal centro. «È bello rivederti, Lin-
tse,» disse. «Mi dispiace che il nostro incontro si sia verificato in una simile
occasione.»
«Parli come un gothir,» rispose Lin-tse. «Domani verrò nel tuo campo e quando
ti avrò ucciso ti strapperò gli occhi e li darò al mio fratello, così tu diventerai il suo
servitore fino al giorno che le stelle diventeranno polvere.»

Tornato alla sua tenda, Quing-chin si tolse il giustacuore macchiato di sangue e


si inginocchiò a terra. Aveva lasciato l’Accademia di Bodacas due anni prima e da
allora aveva sempre cercato di affermare le sue radici nadir, consapevole del fatto
che la sua stessa gente lo considerava in qualche modo come infetto dopo tutti
quegli anni di permanenza con i gothir. Egli aveva sempre negato quell’influenza,
anche a se stesso, ma oggi aveva capito che quegli anni l’avevano marchiato in
maniera indelebile.
Fuori sentì i suoi compagni tornare con la testa di Shanqui, ma egli rimase nella
sua tenda a meditare sui suoi cupi pensieri. I rituali del duello di vendetta
differivano da tribù a tribù, però i principi rimanevano sempre gli stessi. Se Quing-
chin avesse strappato gli occhi del suo avversario e li avesse messi in mano a
Shanqui con quel gesto avrebbe vincolato lo spirito del morto a quello del suo
fratello di tribù. Infatti, lo spirito cieco del Corridore del Cielo avrebbe dovuto
affidarsi agli occhi di Shanqui per poter attraversare il nulla e il prezzo di tale
servitù era dover servire colui che aveva ucciso per l’eternità. Ora Quing-chin
aveva infranto il rituale, ma a quel scopo? Domani avrebbe dovuto combattere di
nuovo e se avesse vinto un altro guerriero l’avrebbe sfidato.
Il suo amico Shi-da entrò nella tenda e si inginocchiò davanti a lui. «Hai
combattuto con coraggio,» si complimentò. «È stato un bello scontro. Ma domani
dovrai strappargli gli occhi.»
«Gli occhi di Lin-tse,» sussurrò Quing-chin. «Gli occhi di una persona che è
stata mia amica? Non posso.»
«Cosa c’è che non va, fratello? Essi sono nostri nemici!» Quing-chin si alzò.
«Andrò al santuario. Ho bisogno di pensare.»
Uscì. Il corpo di Shanqui era stato lasciato a pochi metri dalla sua tenda. La
mano destra del cadavere, che spuntava da sotto la pelle che lo copriva, era stata
aperta e la rigidità la faceva sembrare simile a un artiglio. Quing-chin si avvicinò a
grandi passi al suo pony pezzato, vi montò in groppa e si diresse verso le bianche
mura del santuario.
In quale modo sono riusciti ad avvelenare il mio spirito nadir? si chiese. Con i
libri, con i dipinti con i manoscritti. O forse sono state tutte quelle lezioni sulla
morale e quelle infinite discussioni filosofiche? Come faccio a saperlo?
I cancelli erano aperti, Quing-chin li attraversò, smontò, lasciò il pony in un
punto all’ombra e si diresse verso il santuario.
«Li faremo soffrire tanto quanto ha sofferto Zhen-shi,» disse una voce che gelò
il sangue a Quing-chin. Il campione dei Pony Veloci si girò lentamente verso colui
che aveva parlato.
Talismano uscì dall’ombra e si avvicinò all’uomo. «È bello rivederti, amico
mio,» lo accolse.
Quing-chin non disse nulla per un momento poi strinse la mano che Talismano
gli stava porgendo. «Il vederti mi riempie il cuore di gioia, Talismano. Come stai?»
«Abbastanza bene. Vieni, dividi il pane e l’acqua con me.»
I due uomini tornarono all’ombra e si sedettero sotto un riparo di legno.
Talismano riempì due coppe d’acqua e ne passo una a Quing-chin. «C’era così
tanta polvere che non ho visto nulla dalle mura.»
«Un Corridore del Cielo è morto,» spiegò Quing-chin.
«Quando finirà questa follia?» chiese Talismano in tono triste. «Quando i nostri
occhi si apriranno per vedere il vero nemico?»
«Mai abbastanza presto, Okai. Domani combatterò di nuovo.» Fissò Talismano
dritto negli occhi. «Contro Lin-tse.»

Lin-tse sedeva su una roccia intento ad affilare la lama della sua spada con il
volto impassibile per mascherare la rabbia che provava. Tra tutte le persone al
mondo l’ultima che desiderava uccidere era Dalsh-chin. Tuttavia questo era il suo
destino e i veri uomini non uggiolavano come cani quando gli dèi dell’acqua e
della pietra giravano il coltello nella ferita! La cote scivolò lungo il filo della
sciabola e Lin-tse immaginò la lama argentea che staccava il collo di Dalsh-chin.
Imprecò a bassa voce quindi si alzò e stirò la schiena.
Nell’ultimo anno all’accademia, i giannizzeri nadir erano rimasti in quattro: lui,
Dalsh-chin, quel fastidioso ragazzo appartenente alle Scimmie Verdi di nome
Zhen-shi e il più strano di tutti loro: Okai della Testa di Lupo. Alcuni erano
scappati, altri, con immenso piacere di Gargan, lord di Larness, avevano semplice-
mente sbagliato gli esami. Uno era stato impiccato per aver ucciso un ufficiale e un
altro ancora si era suicidato. L’esperimento, secondo il lord di Larness, era stato un
fallimento. Tuttavia, con sommo dispiacere del generale dell’esercito gothir,
quattro giovani nadir avevano passato gli esami con ottime votazioni. Uno in
particolare, Okai, era diventato il migliore tra tutti gli studenti, anche di Argo, il
figlio del generale.
Lin-tse rinfoderò la spada e si incamminò nella steppa. I suoi pensieri tornarono
a Zhen-shi, con i suoi occhi spaventati e il sorriso nervoso. Tormentato e fatto
oggetto di soprusi il ragazzo si era messo a gironzolare intorno ai cadetti gothir,
comportandosi come uno schiavo, specialmente nei confronti di Argo. `Scimmia
che ride’ quello era il soprannome che gli aveva affibbiato il figlio del generale,
disprezzandolo per la sua codardia. Zhen-shi aveva pochissime cicatrici, ma in
fondo i giovani gothir avevano visto in lui la conferma di quanto gli era stato
insegnato sui barbari: esseri servili e inferiori che dovevano essere civilizzati.
Tuttavia egli aveva fatto un errore che aveva pagato con la vita. Al termine
degli esami di fine anno egli aveva superato tutti tranne Okai. Lin-tse ricordava
ancora bene il volto di Zhen-shi quando erano stati annunciati i risultati. In un
primo momento aveva assunto un’espressione contenta, ma quando aveva fissato
Argo e gli altri e aveva visto i loro sguardi colmi d’ira, l’orrore della sua
condizione l’aveva travolto. Scimmia che ride li aveva battuti tutti. Essi non
l’avrebbero più visto come un individuo da prendere in giro. Adesso era diventato
una figura odiata. Il piccolo Zhen-shi era sembrato rimpicciolire sotto l’effetto di
quegli sguardi carichi di malignità. Quella notte Zhen-shi si era buttato dal tetto e
si era sfracellato sul pavimento coperto di neve del cortile.
Era inverno e di notte faceva così freddo che le finestre ghiacciavano anche
all’interno. Tuttavia Zhen-shi si era gettato con solo il perizoma addosso. Sentendo
l’urlo lanciato durante la caduta, Lin-tse aveva guardato fuori dalla finestra e aveva
visto il corpo del giovane giacere sulla neve in mezzo a una pozza di sangue. Lui e
Okai erano corsi giù con una decina di altri ragazzi e si erano fermati davanti al
corpo. Le cosce e le natiche di Zhenshi erano state prese a frustate e i polsi
presentavano delle abrasioni «È stato legato,» affermò Lin-tse. Okai non aveva
risposto e aveva alzato lo sguardo. Il punto del tetto da cui era caduto l’amico si
trovava proprio sopra le stanze riservate ai cadetti di famiglia nobile e in
particolare proprio sopra la finestra di Argo. Lintse aveva seguito lo sguardo di
Okai. Il biondo figlio del generale Gargan si era affacciato alla finestra e si era
messo a osservare la scena con aria appena interessata.
«Hai visto cosa è successo, Argo?» aveva urlato qualcuno.
«La piccola scimmia ha provato a salire sul tetto. Credo che fosse ubriaca.»
Così dicendo aveva chiuso la finestra.
Okai si era girato verso Lin-tse e i due ragazzi erano tornati nella loro stanza
dove trovarono Dalsh-shin ad aspettarli. Si erano seduti sul pavimento e avevano
cominciato a parlare in nadir tenendo la voce bassa.
«Argo ha fatto chiamare Zhen-shi,» aveva sussurrato Dalshchin, «tre ore fa.»
«È stato legato e picchiato,» aveva detto Okai. «Non poteva sopportare il
dolore quindi deve essere stato anche imbavagliato. Altrimenti avremmo sentito le
urla. Ci sarà un’inchiesta.»
«Scopriranno,» aveva affermato laconicamente Lin-tse, «che Scimmia che ride
aveva bevuto troppo per festeggiare il suo successo ed è caduto dal tetto. Una
salutare lezione che farà capire ai barbari che essi non tollerano le bevande
alcoliche forti.»
«Hai ragione, amico mio,» aveva concordato Okai. «Ma noi li faremo soffrire
tanto quanto ha sofferto Zhen-shi.»
«Un bella prospettiva,» aveva detto Lin-tse. «Ma come pensi di compiere
questo miracolo?»
Okai era rimasto zitto per qualche momento quindi aveva pronunciato le parole
che Lin-tse non avrebbe mai più dimenticato in vita sua. «Il lavoro di ricostruzione
della torre nord non è stato ancora completato. I muratori torneranno solo tra tre
giorni. È un luogo deserto. Domani notte aspetteremo finché tutti non si saranno
addormentati quindi ci recheremo là e prepareremo la nostra vendetta.»

Gargan, lord di Larness, si tolse l’elmo e inalò la calda aria del deserto che,
riscaldata dal sole cocente, tremolava sulla steppa. Si girò sulla sella. La colonna di
mille lancieri, ottocento fanti e duecento arcieri, si stava muovendo lentamente
alzando una nuvola di polvere intorno a loro. Gargan schioccò le redini e scese al
piccolo galoppo lungo la colonna superando i carri carichi d’acqua e provviste.
Venne raggiunto da due ufficiali e insieme si recarono in cima a una bassa collina
dove il generale fermò il cavallo e cominciò a osservare il paesaggio circostante.
«Ci accamperemo vicino a quella sporgenza,» disse Gargan, indicando uno
spuntone roccioso qualche chilometro a est. «Là ci sono diverse polle d’acqua.»
«Sì, signore,» rispose Marlham, un vecchio ufficiale di carriera vicino alla
pensione.
«Fate uscire dei gruppi di esploratori,» ordinò Gargan. «Devono uccidere ogni
nadir che vedono.»
«Sì signore.»
Gargan si girò verso il secondo ufficiale, un bel giovane dagli occhi azzurri.
«Tu, Premian, prenderai quattro compagnie ed esplorerai le paludi. Niente
prigionieri. Ogni nadir deve essere trattato come un nemico. Capito?»
«Sì, lord Gargan.» Il ragazzo non aveva ancora imparato a far sì che
l’espressione del suo volto non tradisse i suoi sentimenti.
«Sono stato io a farti trasferire in questo contingente,» lo informò Gargan. «Sai
perché?»
«No, lord Gargan.»
«Perché sei un debole, ragazzo,» sbottò il generale. «Ti ho visto in accademia.
L’acciaio che è in te, sempre che ce ne sia, non è ancora stato temprato. Bene, lo
faremo in questa campagna. Intendo impregnare la steppa del sangue dei nadir.»
Detto ciò, Gargan scese al galoppo dalla collina.
«Stai attento, ragazzo mio,» lo mise in guardia Marlham. «Quell’uomo ti odia.»
«È un animale,» affermò Premian. «Malvagio e perverso.»
«Vero,» concordò Marlham. «È sempre stato un uomo duro, ma da dopo la
scomparsa del figlio... beh, gli è successo qualcosa. Non è più stato lo stesso. Tu
eri all’accademia quando è successo, vero?»
«Sì. Fu un brutto affare,» disse Premian. «Ci doveva essere un’inchiesta
riguardo la morte di un cadetto che era caduto dalla finestra di Argo. La notte
prima dell’inchiesta Argo scomparve. Lo cercammo dappertutto: i suoi vestiti
erano spariti come anche il suo zaino di tela. In un primo momento pensammo che
fosse scappato perché aveva avuto paura di essere incolpato della morte del
ragazzo, ma poi ci rendemmo conto che era una supposizione ridicola: il padre
l’avrebbe protetto.»
«Cosa pensi che sia successo?»
«Qualcosa di oscuro,» affermò Premian. Schioccò leggermente le redini e si
allontanò, raggiunse la fine della colonna, fece cenno all’ufficiale anziano di
raggiungerlo e gli impartì velocemente i nuovi ordini. La notizia della missione
loro affidata giunse gradita ai duecento uomini posti sotto il comando di Premian,
poiché da quel momento in avanti non avrebbero più dovuto mangiare la polvere
della colonna.
Mentre venivano distribuite le provviste ai suoi uomini, Premian si scoprì a
ripensare agli ultimi giorni passati all’accademia,durante quell’estate di due anni
prima. Okai era l’unico rimasto di tutto il contingente nadir, i suoi due compagni
erano stati rimandati a casa dopo aver fallito le durissime selezioni per gli esami
finali. Il loro fallimento aveva preoccupato Premian, egli aveva lavorato insieme a
quei ragazzi e sapeva che la loro conoscenza delle materie di studio era pari alla
sua e lui era passato con lode. Era rimasto solo Okai, uno studente così brillante
non avrebbe potuto sbagliare, ma anche lui era passato per un soffio.
Premian aveva dato voce alle sue preoccupazioni con il più vecchio, e migliore,
dei professori, un ex ufficiale chiamato Fanlon. Si era recato nello studio
dell’insegnante a tarda notte e gli aveva confessato che secondo lui i due giovani
nadir erano stati bocciati ingiustamente.
«Noi parliamo d’onore in continuazione,» gli aveva spiegato Fanlon, in tono
triste, «ma la realtà è che ne abbiamo molto poco. È sempre stato così. Non mi è
stato permesso di prendere parte alla correzione dei loro compiti: sono stati lord
Larness e due dei suoi tirapiedi a dare i voti. Comunque, temo che tu abbia ragione,
Premian. Sia Dalsh-chin che Lin-tse erano degli ottimi studenti.»
«Perché allora hanno promosso Okai?»
«Quel ragazzo è eccezionale, ma non gli permetteranno di diplomarsi,
troveranno un modo per bocciarlo.»
«Posso aiutarlo in qualche modo?»
«Prima di tutto, Premian, mi devi dire una cosa. Perché vuoi aiutarlo? Voi non
siete amici.»
«Mio padre mi ha insegnato a disprezzare l’ingiustizia,» aveva risposto
Premian. «Non è abbastanza?»
«Lo è. Molto bene, allora ti aiuterò.»
Il giorno degli esami finali, prima di entrare nella classe, a ogni cadetto era
stato dato un piccolo dischetto di legno con sopra inciso un numero che il capo
prefetto, un giovane alto e magro di nome Jashin, aveva pescato a caso da un
sacchetto di velluto nero. Ogni disco era stato avvolto nella carta per impedire che
il numero fosse visto dal prefetto. Era un sistema inteso a evitare i trattamenti di
favore. Il cadetto doveva semplicemente scrivere il numero del suo disco in cima al
foglio di carta e alla fine dell’esame i compiti sarebbero stati presi dai giudici che li
avrebbero corretti immediatamente.
Premian si era messo in fila dietro Okai e aveva notato che il pugno di Jashin
era già chiuso quando l’aveva infilato nel sacchetto prima di dare il dischetto al
giovane nadir. Premian aveva seguito Okai nella stanza degli esami.
L’esame, che durava tre ore, era composto da due prove scritte. La prima
consisteva nell’ideare e redigere una formula logistica e strategica per rifornire un
esercito di ventimila uomini che doveva condurre una campagna sul Mare di
Ventria, mentre nella seconda prova, il candidato doveva stilare un rapporto
indirizzato agli ufficiali che comandavano la spedizione in cui doveva delineare le
difficoltà che avrebbero incontrato nell’invasione di Ventri a.
Premian aveva terminato l’esame esausto, ma quasi sicuro di aver fatto un buon
compito. Le domande erano basate su una campagna guidata circa duecento anni
prima dal leggendario generale gothir Bodacas, a cui era stata dedicata
l’accademia. Fortunatamente, Premian aveva studiato quella campagna poco tempo
prima.
Mentre i cadetti erano usciti, Premian aveva visto il generale Gargan e gli altri
giudici entrare nella stanza. Premian aveva evitato di fissarli negli occhi e aveva
raggiunto Fanlon. Il vecchio professore gli aveva versato una coppa di vino
annacquato e i due erano rimasti seduti in silenzio vicino a una finestra che
dominava la baia.
A pomeriggio inoltrato la campana del Mastio era finalmente risuonata e
Premian si era unito agli altri studenti che si erano precipitati nella sala principale
per ascoltare gli esiti.
Gargan e i professori anziani, in piedi su palco situato contro il muro sud,
avevano osservato i duecento allievi ufficiali entrare nella sala. Quella volta
Premian aveva guardato il generale dritto negli occhi. L’uomo aveva indossato il
piastrone dorato e il mantello bianco del comandante della guardia reale. Dietro di
lui, appoggiate contro dei cavalletti di legno, c’erano decine di sciabole lucenti.
Gargan aveva atteso che tutti i cadetti avessero preso le loro posizioni quindi aveva
fatto qualche passo avanti sul palco.
«Centoquarantasei hanno superato gli esami finali è riceveranno le spade oggi,»
aveva tuonato la sua voce. «Altri diciassette si sono diplomati con merito. Un
cadetto si è guadagnato la lode. Trentasei hanno fallito la prova e lasceranno questo
luogo prestigioso portando con loro la vergogna nata dal loro comportamento
indegno. Seguendo la tradizione della nostra accademia cominceremo con coloro
che sono stati promossi fino ad arrivare al cadetto promosso con lode. Appena
sentirete chiamare il numero del vostro dischetto fate un passo avanti.»
I cadetti erano avanzati a uno a uno, avevano consegnato il dischetto, avevano
ricevuto la sciabola e dopo essersi inchinati erano tornati nei ranghi.
Era poi venuta la volta degli studenti promossi con merito. Né Premian né Okai
erano stati tra di essi. Premian aveva la bocca secca e si era sistemato vicino al
palco e aveva fissato il generale Gargan per tutto il tempo.
«Ora,» aveva annunciato l’ufficiale. «Siamo giunti all’allievo che ha ricevuto la
Lode, la crema dell’accademia, un uomo la cui abilità marziale servirà a mantenere
la gloria del Gothir.» Si era girato e aveva preso una sciabola dal cavalletto. Era
un’arma con l’elsa decorata in oro e la lama d’acciaio argentato. «Vieni avanti,
numero diciassette.»
Okai era uscito dai ranghi e si era incamminato su per i pochi scalini che
portavano al palco. La sala era stata immediatamente attraversata da un mormorio.
Premian si era concentrato a fissare il volto largo di Gargan; il generale aveva
spalancato gli occhi, aveva irrigidito la mascella fissando con uno sguardo di odio
aperto il giovane nadir.
«Ci dev’essere stato un errore,» aveva detto infine. « Non può essere! Portate il
compito!»
Sulla sala era sceso un silenzio di tomba e il capo prefetto era corso giri dal
palco. Nei minuti che erano seguiti nessuno si era mosso o aveva parlato. Il capo
prefetto era tornato e aveva dato in mano a Gargan il rotolo di fogli. Mentre il
generale aveva cominciato a studiarli Fanlon si era fatto avanti e aveva detto: «Non
ci sono dubbi sulla calligrafia, lord Gargan. Questo è il compito di Okai. Inoltre
vedo che è stato lei stesso a dare il voto. Non ci possono essere errori.»
Gargan aveva sbattuto le palpebre. Okai era avanzato con le braccia distese in
avanti. Il generale aveva fissato la sciabola che stava tenendo nelle mani tremanti
poi, con un gesto repentino l’aveva passata a Fanlon «Dagliela tu!» aveva sibilato
quindi era sceso dal palco.
Il vecchio professore aveva sorriso a Okai. «Questa spada è ben meritata,
ragazzo,» aveva detto ad alta voce affinché tutti potessero sentire. «Per cinque anni
hai sopportato molto. Sei stato oggetto di crudeltà dirette a danno del tuo corpo e
della tua mente. Per quello che vale, e io spero che sia qualcosa per te, hai il mio
rispetto e la mia ammirazione. Spero che quando tu te ne andrai porterai con te
qualche bel ricordo. Vorresti dire qualcosa ai tuoi compagni cadetti?»
Okai aveva annuito, aveva fatto un passo avanti e aveva lanciato un’occhiata ai
suoi commilitoni. «Io ho imparato molto,» aveva detto. «Un giorno farò buon uso
di questa conoscenza.» Senza dire un’altra parola era sceso dal palco ed era uscito
dalla stanza.
Fanlon l’aveva seguito e si era avvicinato a Premian. «Farò una richiesta in tuo
favore affinché vengano riesaminato il compito.»
«Grazie, signore. Grazie di tutto. Aveva ragione riguardo i dischetti. Io ho visto
che la mano di Jashin era già chiusa quando l’aveva infilata nel sacchetto: il
numero di Okai era già pronto.»
«Jashin si troverà in guai seri,» affermò Fanlon. «Lord Gargan non è avvezzo al
perdono.»
Poche ore dopo la cerimonia Premian era stato convocato nello studio di
Gargan. Il generale non si era ancora tolto il piastrone e aveva il volto grigio.
«Siediti ragazzo,» gli aveva ordinato e Premian aveva ubbidito. «Sto per farti una
domanda e voglio che tu mi giuri sul tuo onore che mi dirai la verità.»
«Lo giuro, signore,» aveva risposto Premian, provando una fitta al cuore.
«Okai è un tuo amico?»
«No, signore. Parliamo pochissimo e non abbiamo quasi nulla in comune.
Perché mi ha fatto questa domanda, signore?»
Gargan lo aveva fissato per un lungo momento quindi aveva sospirato. «Non fa
niente. Mi ha spezzato il cuore vederlo prendere la sciabola. Comunque è una cosa
che non ti riguarda. Ti ho fatto chiamare per dirti che c’è stato un errore nella
votazione. Sei stato promosso con merito.»
«Grazie, signore. Come... come è successo.»
«Si è trattato di un errore fatto in buona fede e spero che tu accetti le mie
scuse.»
«Certo, signore. Grazie signore.»
Premian aveva lasciato lo studio ed era tornato nella sua stanza. Verso la
mezzanotte era stato svegliato da qualcuno che bussava alla porta. Si era alzato,
aveva sollevato il chiavistello e si era trovato davanti Okai con indosso i vestiti da
viaggio tipici dei nadir. «Stai per partire? Il premio ti verrà dato solo domani.»
«Ho la sciabola,» aveva detto Okai. «Sono venuto per ringraziarti. Pensavo che
i gothir fossero privi di onore. Mi ero sbagliato.»
«Tu hai sofferto molto qua, Okai, ma ne sei uscito trionfatore e io ti ammiro per
questo. Dove andrai adesso?»
«Tornerò alla mia tribù.»
Premian aveva allungato una mano e Okai gliela aveva stretta. Appena il nadir
si era girato Premian gli aveva rivolto una domanda: «Ti spiace se ti chiedo una
cosa?»
«Affatto.»
«Quando eravamo al funerale di Zhen-shi tu hai aperto la bara e gli hai messo
un piccolo pacchetto sporco di sangue in mano. Più di una volta mi sono chiesto
cosa fosse. Faceva parte di un qualche rituale nadir?»
«Sì,» aveva risposto Okai. «Gli ho mandato un servo per l’aldilà.»
Così dicendo Okai era andato via.
Tre giorni dopo, in seguito alle continue lamentele sul pessimo odore che
appestava l’aria della nuova sezione della torre nord, dei muratori avevano tolto dei
blocchi e avevano trovato un corpo in decomposizione privo degli occhi.
CAPITOLO SETTIMO

Nuang Xuan era una vecchia volpe e se la fortuna non avesse smesso di
sorridergli, egli non avrebbe mai portato la sua gente nel territorio degli Spezza-
schiene. Usò una mano per farsi ombra e controllò il territorio indugiando sui
pinnacoli rocciosi che si innalzavano verso ovest. Suo nipote, Meng, gli si
avvicinò. «Quelle sono le Torri del dannato?» chiese a bassa voce per paura di
invocare involontariamente gli spiriti che albergavano in quel luogo.
«Sì, sono loro,» conformò Nuang al ragazzino, «ma non passeremo abbastanza
vicino a quel posto per permettere ai demoni di colpirci.» Il ragazzo fece girare il
suo pony e tornò galoppando alla piccola carovana. Nuang lo seguì con lo sguardo.
Quattordici guerrieri, cinquantadue donne e trentuno bambini; non era proprio un
grande esercito per poter passare indisturbato in una terra simile. Ma chi avrebbe
mai potuto supporre che un contingente della cavalleria gothir si fosse trovato così
vicino alle Montagne della Luna? Quando Nuang aveva guidato una scorreria
contro i contadini gothir che abitavano le paludi nel tentativo di procurarsi dei
cavalli e delle capre, l’aveva fatto sapendo che in quei luoghi erano ormai passati
cinque anni da quando i soldati avevano smantellato il loro avamposto. Era stato
fortunato a scappare con quattordici cavalieri quando i lancieri avevano caricato.
Nel primo attacco aveva perso due figli, tre nipoti più una ventina di altri guerrieri.
Con i gajin che l’inseguivano non aveva avuto altra scelta che guidare la sua gente
in quel luogo maledetto.
Nuang spronò il pony e lo portò in cima a un rilievo del terreno, socchiuse gli
occhi per proteggerli dal sole e cercò di studiare la pista dietro la carovana. Non
c’era alcun segno dei lancieri. Forse anche loro avevano paura degli Spezza-
schiene. Perché la cavalleria era così vicina alle paludi? I contingenti gothir erano
entrati nei territori dell’est sempre solo in caso di guerra. Che fossero in conflitto
con qualcuno? Le Teste di lupo forse, o le Scimmie Verdi? No, di sicuro l’avrebbe
sentito dire dai commercianti di passaggio.
Era un mistero e a Nuang non piacevano i misteri. Fissò per l’ennesima volta il
piccolo gruppo di persone. Ora erano troppo pochi per far diventare il suo clan una
tribù. Dovrei portarli a nord, pensò. Raschiò con la gola e sputò. Quanto avrebbero
riso quando avrebbe richiesto di essere ammesso nuovamente sui territori della
tribù. Nuang lo sfortunato, ecco come l’avrebbero chiamato.
Meng e altri due giovani lo raggiunsero in cima al rilievo. Suo nipote fu il
primo ad arrivare. «Cavalieri,» disse indicando in direzione ovest. «Gajin, sono in
due. Possiamo ucciderli, zio?» Il ragazzo era eccitato e gli brillavano gli occhi.
Nuang si mise a fissare il punto indicatogli da Meng. A quella distanza e con il
riverbero del sole, poteva distinguerli a mala pena e per un attimo invidiò la vista
acuta dei giovani. «No, per il momento non li attaccheremo. Potrebbero essere
degli esploratori inviati da una forza più grande. Lasciamo che si avvicinino.»
Scese sul terreno pianeggiante, i quattordici guerrieri rimasti si riunirono a lui
formando una linea da schermaglia. Il vecchio chiamò Meng. «Cosa vedi,
ragazzo?»
«Sempre due uomini, zio. Gajin. Uno ha la barba e porta un elmo nero e un
giustacuore nero rinforzato con delle placche d’argento sulla spalle; l’altro ha i
capelli biondi e non porta la spada. Ha dei coltelli infilati in dei foderi messi di
traverso sul petto. Ah!»
«Cosa c’è?»
«Quello con la barba nera porta un’ascia con due lame molto lucide. Sono in
groppa a dei cavalli gothir, ma hanno anche quattro pony.»
«Adesso posso vedere anch’io,» disse Nuang. «Torna alla carovana.»
«Voglio prendere parte all’uccisione, zio!»
«Non hai ancora dodici anni e mi ubbidirai altrimenti sentirai la mia frusta sul
tuo sedere!»
«Ho quasi tredici anni,» lo contraddisse Meng, tuttavia, pur riluttante, fece
girare il cavallo e si andò a posizionare in fondo al gruppo. Nuang Xuan attese
appoggiando una mano rugosa sull’elsa in avorio della sua sciabola. La distanza tra
lui e gli stranieri si accorciò abbastanza da permettergli di distinguere chiaramente
i loro lineamenti. Dal modo in cui il gajin dai capelli biondi stava stringendo le
redini e dalla postura rigida del corpo, si capiva che era nervoso e aveva paura.
Nuang spostò lo sguardo all’uomo armato d’ascia. Non c’era alcuna traccia di
paura in lui. Tuttavia rimanevano sempre un uomo e un codardo contro quattordici.
Sicuramente la fortuna di Nuang stava cambiando. I due cavalieri si fermarono
proprio davanti al suo gruppo di cavalieri. Il vecchio nadir fece un profondo
respiro. Stava per ordinare l’attacco quando guardò bene l’uomo armato d’ascia e
si trovò a fissare gli occhi più freddi che avesse mai visto in vita sua. Avevano lo
stesso colore delle nubi invernali cariche di tempesta: grigie e impietose. Un
pensiero fastidioso cominciò a tormentarlo, non gli rimanevano molti figli e nipoti
e la maggior parte di essi erano ancora feriti dallo scontro precedente. La tensione
crebbe. Nuang si leccò le labbra e si preparò a dare il segnale. L’uomo con l’ascia
scosse in modo quasi impercettibile la testa quindi parlò, la sua voce era profonda e
fredda quanto il suo sguardo. «Pensa bene alla tua decisione, vecchio. Non sembra
che recentemente la fortuna sia stata dalla vostra parte,» gli consigliò. «Nel tuo
gruppo le donne superano gli uomini di quanto? Tre a uno? E i cavalieri che hai
con te sembrano stanchi e insanguinati.»
«Forse la nostra fortuna è cambiata,» disse Nuang senza quasi rendersene
conto.
«Forse,» concordò il cavaliere. «Oggi ho voglia di mercanteggiare. Io ho
quattro pony nadir, delle spade e degli archi.»
«Hai anche una bella ascia. Vuoi barattare anche quella?»
L’uomo sorrise e quella non fu una visione rassicurante. «No, questa è Snaga.
Nella lingua antica significa Colei che invia, le lame del non ritorno. Se qualcuno
vuole mettere alla prova la sua fama ha solo da chiedere.»
Nuang sentì un moto d’irritazione attraversare gli uomini intorno a lui. Erano
giovani e malgrado le recenti perdite erano sempre ansiosi di combattere.
Improvvisamente il vecchio sentì su di sé il peso di tutti i suoi sessantun anni. Girò
il cavallo, ordinò ai suoi uomini di preparare il campo vicino alle torri di roccia e
inviò degli esploratori ad accertarsi dove si trovasse il nemico. Venne ubbidito
istantaneamente. Si girò verso l’uomo con l’ascia e si sforzò di sorridere. «Siete i
benvenuti nel nostro campo. Stasera parleremo di scambi.»
Più tardi, verso il tramonto, il vecchio capo si sedette vicino all’uomo con
l’ascia e al suo compagno. «Non sarebbe stato più sicuro accamparsi tra le rocce?»
aveva chiesto il guerriero barbuto.
«Saremo più al sicuro dagli uomini,» gli spiegò Nuang. «Quelle sono le Torri
del dannato e si dice che siano infestate dai demoni. Là è stato sepolto uno stregone
e dicono che insieme a lui ci siano dei diavoli, o almeno così narrano le storie. Ora
veniamo a noi, con cosa desideri scambiare quei pony un po’ malridotti?»
«Cibo per il viaggio e una guida che ci porti alla prossima oasi e al santuario
Oshikai Flagello del Demone.»
Pur senza darlo a vedere, Nuang rimase sorpreso. Perché due gajin volevano
andare al santuario? «È un viaggio arduo e pericoloso. Queste sono le terre degli
Spacca-schiene. Due uomini e una guida sarebbero... una preda... allettante.»
«Sono già stati allettati,» rispose l’uomo con l’ascia. «Ecco perché abbiamo
quattro pony e delle armi da barattare.»

Annoiato dal mercanteggiare, Sieben si alzò e si allontanò dal fuoco. Il campo


nadir era formato da un cerchio di tende tra le quali erano stati innalzati dei
paravento. Le donne stavano cucinando intorno a dei piccoli fuochi e gli uomini,
seduti in tre piccoli cerchi, si facevano passare dei piccoli otri di lyrrd, un liquore
ricavato dalla fermentazione del latte di capra rancido. A dispetto dei fuochi e dei
paravento la notte era fredda. Sieben andò al suo cavallo, prese la coperta e se la
mise intorno alle spalle. Quando aveva visto i nadir aveva pensato che malgrado
l’incredibile forza di Druss, sarebbero morti da lì a poco. Ora che si era rilassato
era caduto preda di un forte senso di spossatezza. Una ragazza nadir si alzò dal
fuoco e gli portò una scodella di legno che conteneva della carne arrostita. Era alta
e magra, le sue labbra erano piene e seducenti. Sieben si scordò immediatamente
della stanchezza la ringraziò e sorrise. La carne era calda, molto speziata e il sapore
gli era nuovo. Il poeta mangiò di gusto dopodiché riportò la scodella alla ragazza
che si trovava vicina a un fuoco insieme ad altre quattro donne. Si accosciò in
mezzo a loro. «Una cena degna di un principe,» si complimentò. «Ti ringrazio, mia
signora.»
«Non sono la tua signora,» disse lei con voce piatta e disinteressata.
Sieben sfoderò il migliore dei suoi sorrisi. «Infatti, e sono solo io a perderci
qualcosa, ne sono sicuro. È solo un modo di dire che noi... gajin usiamo. Quello
che stavo cercando di dire era: grazie per la tua gentilezza e la tua bravura nel
cucinare.»
«È la terza volta che mi ringrazi. Quando è stato appeso abbastanza a lungo da
fargli uscire i vermi nelle orbite,» rispose la ragazza, «il cane non è difficile da
preparare.»
«Delizioso,» dichiarò Sieben. «Un suggerimento che ricorderò certamente.»
«E non deve essere troppo vecchio,» continuò lei. «I cani giovani sono i
migliori.»
«Certo,» disse lui, cominciando ad alzarsi.
Improvvisamente lei inclinò la testa di lato e lo fissò dritto negli occhi. «Il mio
uomo è stato ucciso dai lancieri gothir,» disse. «Ora le mie coperte sono fredde e
non c’è nessuno che mi scaldi il sangue in una notte solitaria.»
Sieben tornò a sedersi più velocemente di quanto avrebbe voluto. «Questa è una
tragedia,» disse in tono dolce, fissando intensamente gli occhi a mandorla della
ragazza. «Una bella donna non dovrebbe mai patire la solitudine offerta da una
coperta fredda.»
«Il mio uomo era un grande guerriero: ha ucciso tre lancieri, ma tra le coperte
era come un cane. Veloce, poi dormiva. Tu non sei un guerriero. Cosa sei?»
«Io sono uno studioso,» rispose avvicinandosi a lei. «Studio molte cose, la
storia, la poesia, l’arte. Ma più di tutto studio le donne. Mi affascinano.» Alzò una
mano e gliela passò tra i lunghi capelli scuri spostandoglieli dalla fronte. «Mi piace
l’odore dei capelli delle donne, il contatto della pelle, la morbidezza delle labbra e
io non sono veloce.»
La ragazza sorrise e disse qualcosa alle compagne usando la lingua nadir. Le
donne scoppiarono a ridere. «Io sono Niobe,» si presentò. «Vediamo sei fai
l’amore bene tanto quanto parli.»
Sieben sorrise. «Ho sempre apprezzato i modi diretti. Ma è permesso? Voglio
dire...» Indicò gli uomini riuniti intorno ai fuochi.
«Tu vieni con me,» disse lei, alzandosi con scioltezza. «Desidero vedere se
quello che loro dicono riguardo i gajin è vero.» Lo prese per mano e lo portò in una
tenda.
Nuang vide la scena e sorrise. «Il tuo amico ha deciso di cavalcare la tigre.
Niobe ha abbastanza fuoco da fondere il ferro di qualsiasi uomo.»
«Penso che sopravviverà,» affermò Druss.
«Vuoi una donna che ti scaldi le coperte?»
«No, ho già la mia donna che mi aspetta a casa. Cosa è successo alla tua gente?
Avete l’aria di chi ha passato un brutto momento.»
Nuang sputò nel fuoco. «I lancieri gothir ci hanno attaccato, sono spuntati dal
nulla in sella ai loro grossi cavalli. Ho perduto venti uomini. Hai detto una grande
verità quando hai affermato che la fortuna non era dalla mia parte. Devo aver fatto
qualcosa che ha fatto irritare gli dèi della pietra e dell’acqua. Ma, non è un bene
lamentarsi. Chi sei? Non sei gothir. Da dove vieni?»
«Dalle terre del Drenai, le montagne azzurre che si trovano a sud.»
«Sei molto lontano da casa, Drenai. Cosa stai cercando nel santuario?»
«Uno sciamano nadir mi ha detto che là potrei trovare qualcosa per aiutare un
mio amico che sta morendo.»
«Stai correndo un grosso rischio per questo tuo amico: queste non sono delle
terre ospitali. lo stesso ho pensato di ucciderti e sono uno dei nadir più pacifici che
esistono.»
«Non è facile uccidermi.»
«L’ho capito appena ti ho fissato negli occhi, drenai. Hai sostenuto parecchie
battaglie, eh? Alle tue spalle ci deve essere un gran numero di tombe. Un tempo un
altro drenai venne tra la nostra gente. Anche lui era un lottatore ed era stato
soprannominato Duro da uccidere. Combatté al nostro fianco contro i gothir. Molti
anni dopo tornò nelle nostre terre per vivere in mezzo a noi. Quando ero bambino
mi raccontavano le storie delle sue imprese, e quelle sono le uniche volte in cui ho
sentito parlare dei drenai. Il suo nome era Angel.»
«Ho già sentito quel nome,» affermò Druss. «Cos’altro sai di lui?»
«Solo che si sposò con una delle figlie di Teschio di bue ed ebbe due figli. Uno
era alto e bello, non somigliava ad Angel, ma era un guerriero formidabile. Egli
sposò una donna nadir, quindi lasciarono la tribù e si diressero a sud. Questo è tutto
quello che so.»
Due donne si inginocchiarono vicino a loro e gli offrirono delle scodelle piene
di carne. Una breve serie di urli acuti fuoriuscì dalla tenda di Niobe e le donne
scoppiarono a ridere. Druss arrossì e mangiò il suo pasto in silenzio. Le donne
andarono via. «Domani all’alba il tuo amico sarà molto stanco,» gli assicurò
Nuang.

Druss era sdraiato a terra e tranquillo stava osservando le stelle. Raramente


aveva delle difficoltà ad addormentarsi, ma quella notte era agitato. Si sedette e si
tolse la coperta di dosso. Il campo era silenzioso e i fuochi si erano ridotti a dei
piccoli cumuli di braci ardenti. Nuang gli aveva offerto di dormire nella sua tenda,
ma Druss aveva rifiutato dicendogli che preferiva stare all’aperto.
Prese l’ascia, l’elmo, i pesanti guanti di pelo argentato, si alzò e si stirò. La
notte era fredda e il vento sibilava passando sotto i paravento che erano stati
innalzati tra le tende. Druss si sentiva a disagio. Indossò l’elmo e i guanti, si
incamminò a grandi passi per il campo e una volta superata una fila di paravento si
ritrovò nella steppa. Una sentinella avvolta in un mantello di pelle di pecora era
seduta vicino a un cespuglio. Appena Druss si avvicinò riconobbe lo snello
ragazzino di nome Meng, che Nuang gli aveva presentato come il più giovane dei
suoi nipoti. Il giovane alzò gli occhi, ma non disse nulla.
«Tutto a posto?» chiese Druss. Il ragazzo annuì, ovviamente a disagio.
Druss si incamminò verso le torri di roccia nera e si sedette su una pietra a circa
quindici metri dal ragazzo. Durante il giorno le steppe erano calde e inospitali, ma
la fredda magia della notte dava l’impressione che quei luoghi stessero covando un
qualcosa di malvagio, un orrore senza nome che si aggirava tra quelle rocce
frequentate dalle ombre. Gli occhi giocavano strani trucchi al cervello. Dei massi
dalla superficie scabra potevano diventare dei demoni acquattati che sembravano
brillare e muoversi, e il vento che sibilava poteva diventare una voce che promet-
teva dolore e morte. Druss conosceva bene gli scherzi che poteva giocare la luna.
Allontanò quei pensieri dalla sua mente, fissò la luna e si concentrò su Rowena che
si trovava nella loro fattoria. Dal giorno in cui l’aveva salvata aveva cercato con
tutte le sue forze di farla sentire amata e desiderata, ma dentro di lui c’era un
dolore che lo rodeva e che non riusciva a ignorare. Rowena aveva amato il
guerriero chiamato Michanek e il suo amore era stato corrisposto. Non era la
gelosia che faceva del male a Druss, ma il profondo senso di vergogna che
provava. Quando i razziatori avevano rapito sua moglie molti anni prima, Druss si
era messo in testa che l’avrebbe ritrovata e che niente al mondo avrebbe potuto
fermarlo. Si era recato a Mashrapur e là, al fine di guadagnare abbastanza soldi per
recarsi in Ventria, aveva cominciato a battersi come pugile. Dopo di allora aveva
attraversato l’oceano, aveva combattuta contro i corsari, i pirati, si era unito
all’esercito demoralizzato del principe Gorben e ne era diventato il campione.
Aveva fatto tutto ciò per un solo scopo: trovare Rowena e salvarla dalla abbietta
schiavitù a cui pensava fosse stata sottoposta.
Alla fine del suo viaggio aveva conosciuto la verità. Avendo perso la memoria,
sua moglie si era innamorata di Michanek diventando una sposa devota che viveva
nel lusso, felice e contenta. Pur sapendo tutto ciò, Druss aveva combattuto lo stesso
al fianco dei soldati che avevano distrutto la città e massacrato l’uomo che Rowena
amava.
Druss aveva osservato Michanek resistere agli assalti degli Immortali, e aveva
visto questi ultimi ritirarsi terrorizzati davanti a quell’uomo, che pur ferito in più
punti del corpo, era rimasto fermo a tenere la sua posizione circondato da una
dozzina di cadaveri di avversari.
«Tu eri un uomo, Michanek,» sussurrò Druss, con un sospiro. Rowena non si
era mai risentita per la parte che lui aveva avuto nella morte del suo secondo
marito. A dire il vero non avevano mai parlato di quell’uomo. In quel momento
Druss capì che era un errore. Michanek avrebbe meritato di meglio, come anche
Rowena, la dolce e gentile Rowena. Tutto quello che lei aveva voluto era sposare
un contadino di nome Druss, costruirsi una casa e allevare dei bambini. Ormai lui
non era più il contadino di un tempo e non sarebbe più riuscito a esserlo. Aveva
assaporato la gioia della battaglia, l’esilarante narcotico della violenza e neanche
l’amore che provava per Rowena poteva ormai tenerlo incatenato alle montagne
della sua nazione. E i bambini? Non avevano ricevuto quella benedizione. A Druss
sarebbe piaciuto avere un figlio. Si sentì preda del dispiacere, ma allontanò imme-
diatamente quel sentimento da lui. I suoi pensieri volarono a Sieben e sorrise. Non
siamo poi così diversi, pensò. Siamo entrambi molto abili in un’arte scura e sterile.
Io vivo per combattere e non m’importa se lo faccio per una causa giusta o no, tu
vivi per fare sesso senza amore. Cosa offriamo a questo mondo tormentato? si
chiese. La brezza si alzò e Druss si sentì ancor più agitato. Socchiuse gli occhi e
fissò la steppa. Tutto era silenzioso. Si alzò in piedi e tornò dal ragazzo. «Cosa
hanno riferito gli esploratori?» chiese.
«Niente,» replicò Meng. «Nessun segno dei gajin o degli Spezza-schiene.»
«Quando ci sarà il prossimo cambio della guardia?»
«Quando la luna toccherà il più alto dei picchi.»
Druss alzò gli occhi al cielo. Non mancava molto. Si allontanò dal ragazzo. Era
sempre più agitato. Avrebbero dovuto accamparsi tra le rocce e al diavolo la loro
paura dei demoni! Vide un cavaliere, questi fece un gesto a Meng quindi entrò nel
campo. Qualche minuto dopo il suo sostituto si inoltrò al galoppo nella steppa.
Arrivò un secondo cavaliere, poi un altro ancora. Druss aspettò per qualche tempo
poi ritornò dal ragazzo. «Non erano quattro gli esploratori?»
«Sì. Credo che Jodai stia dormendo da qualche parte. Lo zio non sarà molto
contento.»
La brezza cambiò. Druss alzò la testa di scatto e annusò l’aria, quindi prese il
ragazzino per una spalla e lo alzò da terra. «Vai subito a svegliare tuo zio! Digli
che tutti devono andarsi a nascondere tra le rocce.»
«Toglimi le mani di dosso!» Il bambino cercò di colpirlo con un calcio, ma
Druss lo portò ancora più vicino al suo volto.
«Ascoltami, ragazzino, la morte sta per arrivare! Capito? Forse non ci sarà
tempo per andare via. Allora con-i come se la tua vita dipendesse da questo, poiché
molto probabilmente sarà così.»
Meng si girò e corse verso il campo. Druss, ascia alla mano, fissò la steppa che
continuava a sembrare apparentemente deserta, quindi si girò e tornò al campo.
Nuang si era già alzato quando Druss si acquattò dietro un paravento. Le donne
stavano raccogliendo rapidamente le coperte, il cibo e dicevano ai bambini di non
fare rumore. Nuang raggiunse Druss di corsa. «Cosa hai visto?» gli chiese.
«Non ho visto niente, ma ho sentito un odore. Grasso d’oca. I lancieri lo usano
per proteggere il cuoio delle selle e lo spalmano sulle maglie di anelli di ferro per
impedire che arrugginiscano. Hanno nascosto i cavalli e devono essere molto
vicini.»
Nuang imprecò e si allontanò. Sieben emerse dalla tenda cercando di infilarsi il
balteo e Druss gli fece segno di dirigersi verso le rocce. I nadir abbandonarono le
tende, aprirono un varco tra i paravento e si diressero verso le Torri del dannato. Il
gigante drenai vide i guerrieri nadir far entrare i cavalli in una spaccatura nella
roccia quindi si mise in fondo al gruppo di fuggitivi e si diresse a sua volta verso i
ripari. Una donna che portava in braccio un neonato e un bambino cadde a terra.
Druss l’aiutò a rialzarsi quindi prese il bambino in fasce e riprese a correre. Cin-
quanta lancieri emersero da un avvallamento vicino al campo quando ormai
soltanto poche donne dovevano mettersi al sicuro dietro le rocce.
Il guerriero drenai ripassò il bambino alla madre terrorizzata, bilanciò Snaga tra
le mani e si girò ad affrontare i soldati. Alcuni dei nadir che si erano arrampicati
sulle rocce cominciarono a tempestare i lancieri di frecce, ma i piastroni, le maglie
di anelli metallici e gli elmi che coprivano tutto il volto protessero gli attaccanti da
quella pioggia letale. La maggior parte delle frecce rimbalzò sulle protezioni tranne
una che si piantò nella coscia di un soldato. L’uomo cadde a terra e il suo elmo
ornato di piume gli rotolò via dalla testa. «Tirate in basso!» urlò Druss.
Il punto in cui era possibile entrare tra le rocce era stretto e il drenai si appostò
là. I primi tre lancieri si infilarono di corsa nell’apertura. Druss balzò loro addosso
con un ruggito brandendo Snaga. Il primo cadde a terra con il cranio fracassato e il
secondo venne raggiunto da un fendente che gli aprì un fianco e lo stomaco. Il
terzo riuscì a fare un affondo ma la sua spada rimbalzò contro l’elmo nero di
Druss. Snaga fendette l’aria con un sibilo e si abbatte sulla gorgiera di anelli
metallici del soldato. La protezione era ben fatta e impedì alla lama di raggiungere
la pelle, ma la potenza del colpo fu tale che gli anelli si piantarono nel collo del
soldato spezzandoglielo. Altri soldati caricarono. Uno cercò di parare un colpo
alzando il piccolo scudo di legno rinforzato con delle bande metalliche, ma l’ascia
lo attraversò come se fosse stato burro staccando di netto il braccio che lo reggeva.
Con un urlo di dolore il lanciere barcollò all’indietro e inciampò nei suoi due
compagni. La fenditura era così stretta che i soldati potevano attaccare solo una
volta e quelli che si erano accalcati fuori del budello vennero raggiunti da una fitta
sassaiola e da un nugolo di frecce tirate all’altezza delle gambe.
Druss brandiva la sua possente ascia sporca di sangue tagliando e squarciando.
I lancieri si ritirarono. Qualcuno emise un lamento ai piedi di Druss. Era il
soldato a cui aveva amputato il braccio. Il drenai si inginocchiò, gli tolse l’elmo e
prese il ferito per i capelli. «In quanti siete?» gli chiese. «Parla e vivrai, altrimenti
farai la fine dei tuoi due compagni.»
«Due compagnie. Lo giuro!»
«Alzati e corri, non rispondo delle azioni degli arcieri lassù.»
L’uomo barcollò fuori dal budello e cominciò a correre. Due frecce
rimbalzarono contro il piastrone della corazza e una terza si piantò nel retro della
coscia. Zoppicando, il soldato raggiunse i suoi commilitoni.
Due compagnie... cinquanta uomini. Druss diede un’occhiata a tutti i corpi
distesi a terra. Sette li aveva uccisi lui con l’ascia, altri che erano stati colpiti dalle
frecce non sarebbero più stati in grado di combattere. Rimanevano una quarantina
di soldati: non abbastanza per assalire quella roccaforte naturale, ma sufficienti per
inchiodarli là in attesa di rinforzi.
Tre giovani nadir scesero dai loro nascondigli e spogliarono i morti delle armi e
delle armature.
Nuang lo raggiunse. «Pensi che si ritireranno?»
Druss scosse la testa. «Cercheranno un altro modo per entrare. Dobbiamo
inoltrarci tra le rocce altrimenti troveranno il modo di aggiraci. Quanti erano quelli
che vi hanno attaccati nelle paludi?»
«Non più di un centinaio.»
«Bene, allora la domanda rimane sempre la stessa: dove sono le altre due
compagnie?»
Improvvisamente i lancieri tornarono alla carica. I giovani nadir si fecero
indietro e Druss avanzò. «Avanti! Venite a morire, figli di puttana!» urlò e la sua
voce rimbombò come un tuono tra le pareti di roccia. Il primo dei soldati tentò un
fendente alla gola di Druss, ma questi alzò Snaga e intercettò il colpo. Il contatto fu
così violento che la lama della sciabola andò in pezzi. Il soldato balzò all’indietro
ostacolando i suoi due compagni. Il drenai si avventò su di loro e i tre scapparono.
Nuang, spada alla mano, apparve al fianco di Druss. Delle fiamme si alzarono
dal campo nadir e il vecchio capo imprecò, ma il gigante sorrise. «Le tende
possono essere rimpiazzate, vecchio. Mi sembra che la tua fortuna stia cambiando
in meglio.»
«Oh, certo,» commentò Nuang in tono amaro. «Salto dalla gioia a questo
cambiamento.»

Niobe era sdraiata sullo stomaco e fissava la stretta fenditura che si apriva tra le
nere rocce di basalto. «Il tuo amico è un grandissimo guerriero,» affermò lei,
scostando i capelli corvini dal volto.
Sieben si accucciò vicino alla donna. «Quello è il suo talento,» ammise, irritato
dal tono d’ammirazione della voce di Niobe e dal modo in cui quegli scuri occhi a
mandorla stavano fissando il suo amico là sotto.
«Perché non combatti al suo fianco, po-eta?»
«Mia cara, quando Druss comincia a menare fendenti con quell’ascia
spaventosa l’ultimo posto al mondo in cui mi voglio trovare è al suo fianco.
Comunque a Druss piace combattere in condizioni di svantaggio. È in quelle
situazioni che tira fuori il meglio di sé, sai?»
Niobe rotolò su un fianco, si puntellò con un gomito e fissò Sieben. «Perché
non sei più spaventato, po-eta? Quando siamo arrivati quassù stavi tremando.»
«Non mi piace la violenza,» ammise, «specialmente se è diretta contro la mia
persona. Ma essi non ci seguirebbero mai fin qua. Sono lancieri, le loro armature
sono pesanti e sono addestrati per combattere in campo aperto. I loro stivali sono
alti fino al ginocchio e rinforzati con delle piastre di metallo affinché rimangano
sempre infilati nelle staffe. Quei soldati hanno un equipaggiamento del tutto
inadatto a scalare una montagna di roccia vulcanica. No, si ritireranno e ci
aspetteranno quando saremo allo scoperto. Quindi, per ora siamo al sicuro.»
La ragazza scosse la testa. «Nessuno è al sicuro qua,» gli disse. «Guardati
intorno, poeta. Queste rocce nere fanno parte delle Torri del dannato. Questa è la
casa del male. In questo momento è probabile che ci siano dei demoni che si stanno
avvicinando furtivamente a noi!»
Sieben rabbrividì, ma anche nella luce morente della luna, riuscì a vedere lo
sguardo divertito della sua compagna. «Tu non credi a queste cose,» le disse.
«Forse sì.»
«No, stai solo cercando di spaventarmi. Vorresti sapere come mai i nadir
credono che questa montagna sia abitata dai demoni?» Niobe annuì. «Perché è,
anzi è stata, un vulcano. Deve aver sputato fiamme, cenere e lava incandescente. I
viaggiatori che sono passati da queste parti devono aver sentito dei rumori pro-
venire da sottoterra.» Si girò e indicò le torri gemelle che si stagliavano contro il
cielo sempre meno oscuro. «Quelli sono solo dei coni cavi formati dalla lava
raffreddata.»
«Tu non credi nei demoni?» gli chiese lei.
«Sì,» rispose lui, serio. «Ci credo. Ci sono delle bestie che possono essere
evocate dall’abisso, ma sono dei cagnolini da salotto paragonati ai demoni che
albergano nei cuori degli uomini.»
«Nel tuo cuore c’è un demone?» sussurrò la ragazza, spalancando gli occhi.
«Questa gente prende sempre tutto alla lettera,» commentò, mentre scuoteva la
testa e si alzava. Scese velocemente per andare da Druss che insieme a Nuang e ad
altri nadir era in attesa di un eventuale attacco. Con un smorfia di disappunto notò
come i nadir si fossero chiusi intorno al suo amico pendéndo dalle sue labbra e
ghignando alle sue battute. Solo poche ore prima avevano desiderato ucciderlo, ora
era diventato un eroe: un amico.
«Come va, vecchio cavallo!» lo chiamò Sieben.
Druss si girò verso di lui. «Cosa ne pensi, poeta? Dici che non torneranno più?»
«Penso proprio di sì. Ma è meglio che troviamo un’altra strada per uscire da
queste alture. Non vorrei farmi sorprendere in campo aperto.»
Druss annuì. Aveva la barba e il giustacuore sporco di sangue, ma aveva pulito
le lame dell’ascia.
Il sole fece capolino da dietro le montagne lontane e Druss si avventurò fino
alla bocca della spaccatura. Non c’era più traccia dei lancieri. Dovevano essersi
ritirati nella notte.
I nadir aspettarono nervosamente per un’altra ora poi alcuni di loro entrarono
furtivamente nel campo per vedere se qualcosa si era salvato dal fuoco.
Nuang si avvicinò a Druss e a Sieben. «Niobe mi ha detto che tu credi che le
rocce siano sicure,» disse, e Sieben spiegò per la seconda volta il suo punto di
vista. Il vecchio non sembrò impressionato. Il suo volto scuro rimase impassibile e
i suoi occhi guardinghi.
Druss rise. «Se mi chiedessero di scegliere tra dei demoni che non abbiamo mai
visto e dei lancieri che sappiamo esistere, io so cosa sceglierei.»
Nuang emise un grugnito, si schiarì la gola e sputò. «La tua ascia può uccidere i
demoni.»
Druss fece un freddo sorriso e soppesò Snaga tenendo le lame vicine al volto
del vecchio nadir. «Quello che può tagliare, lo può uccidere.»
Sul volto di Nuang si disegnò un ampio sorriso. «Penso che attraverseremo le
Alture dei dannati,» affermò.
«Non ci si annoia mai con te, Druss,» mormorò Sieben. Dopo aver ricevuto una
pacca sulla spalla, il poeta fissò la mano sporca di sangue dell’amico. «Oh, grazie.
Era proprio ciò di cui aveva bisogno una maglia di seta blu, una bella macchia di
sangue quasi rappreso!»
«Sono affamato,» dichiarò Druss, quindi si girò e andò via. Sieben prese un
fazzoletto dalla tasca dei pantaloni, lo passò sulla macchia dopodiché seguì
l’amico. Niobe gli portò della carne fredda e del formaggio di capra e si sedette al
suo fianco.
«C’è dell’acqua?» le chiese.
«No. I gajin hanno distrutto tutti i barili tranne uno. Oggi sarà una giornata
molto calda. Hai una bella maglia,» aggiunse cominciando ad accarezzare la seta e
indugiando sui bottoni in madreperla del colletto.
«È stata fatta a Drenan,» le disse.
«È tutto così morbido,» mormorò lei accarezzando i pantaloni di lana per poi
fermare la mano sulla coscia. «Così morbido.»
«Sposta la mano di qualche centimetro e non troverai qualcosa di morbido.»
Lei lo fissò negli occhi, inarcò un sopracciglio e fece scivolare la mano verso
l’interno della coscia. «Ah,» disse la ragazza, «hai ragione.»
«È ora di andare poeta!» lo chiamò Druss.
«Il tuo tempismo è perfetto,» commentò Sieben.
Per due ore il convoglio si mosse tra le alture scure. Non vi cresceva nessun
tipo di vegetazione, in quel luogo le nere pareti di basalto si innalzavano scoscese,
sovrastando il gruppo. I nadir avanzavano silenziosamente guardandosi
continuamente intorno con occhiate colme di paura. I bambini erano tranquilli.
Nessuno era montato a cavallo perché il sentiero era pericoloso. Verso
mezzogiorno il terreno cedette sotto un pony che cadendo si ruppe la gamba
anteriore. L’animale si dibatté nella buca finché un giovane guerriero nadir gli
balzò addosso e gli tagliò la gola, imbrattando di sangue la roccia. Le donne
tirarono fuori il cavallo e lo macellarono. «Carne fresca per stanotte,» spiegò Niobe
a Sieben.
Il caldo era così intenso e impietoso che il poeta aveva smesso di sudare e gli
sembrò che il suo cervello si stesse riducendo alle dimensioni di una noce. Per più
di un’ora aveva desiderato una coppa d’acqua dall’unico barile rimasto e quando,
dopo aver fatto la coda insieme agli altri guerrieri, era riuscito ad avere la sua
razione gli era sembrato di bere del nettare.
Più tardi, poco dopo il tramonto, si era allontanato dal campo e si era inerpicato
tra le rocce frastagliate della parete ovest di uno dei picchi per raggiungerne la
cima. La salita non fu difficile, ma Sieben si stancò lo stesso. Tuttavia sentiva la
necessità di allontanarsi dagli altri e di trovare un po’ di solitudine. Delle nuvole
bianche punteggiavano il cielo sereno e il sole che tramontava dietro di esse
conferiva alle montagne una colorazione dorata. La brezza era fresca e piacevole,
la vista straordinaria. Appena il sole scomparve del tutto, le montagne divennero
delle forme nere che si stagliavano contro l’orizzonte simili a nuvole cariche di
tempesta. Il cielo che le sovrastava divenne color malva, quindi grigio argento e
infine oro chiaro. Anche le nuvole mutarono di colore passando dal bianco candido
al rosso corallo per poi trasformarsi in un mare di blu reale. Sieben si appoggiò con
la schiena alla roccia e si fece assorbire dallo spettacolo. Il firmamento divenne
buio e apparve la luna, pura e splendente. Il poeta sospirò.
Niobe lo raggiunse.
«Voglio rimanere solo,» disse lui.
«Siamo soli,» gli fece notare lei.
«Che stupido che sono. Certo che lo siamo.» Si girò e fissò la torre di roccia a
forma di cono. Un raggio di luna si fece strada tra le nuvole e ne illuminò il centro.
Niobe gli toccò una spalla e gli disse: «Guarda la sporgenza qua sotto.»
«Non sono dell’umore giusto per fare sesso, mia adorata. Non adesso.»
«No, guarda! Nel punto più lontano della sporgenza.» Lo sguardo del poeta
seguì il dito della ragazza. A circa sei o sette metri sotto di loro, spostata verso
destra, c’era un’entrata scolpita nella roccia, o almeno così sembrava.
«È un gioco di luci,» affermò l’uomo fissando la parete del cratere con
attenzione.
«Là,» disse Niobe, «scalini!» Aveva ragione. Al termine della sporgenza erano
stati scolpiti degli scalini nella roccia viva. «Vai a chiamare Druss,» gli ordinò.
«Quello è il luogo in cui vivono i demoni,» sussurrò la ragazza mentre si
allontanava.
«Digli di portare una corda, delle torce, l’acciarino e la pietra focaia.»
Niobe si fermò e si girò a fissare il poeta. «Tu stai per scendere la dentro?
Perché?»
«Perché sono un uomo curioso per natura, dolcezza mia. Voglio sapere il
motivo che ha indotto qualcuno a prendersi il disturbo di scavare una grotta dentro
un vulcano.»
Le nuvole si dispersero e la luce della luna divenne più intensa. Sieben si
incamminò lungo il bordo del cratere e raggiunse i gradini. Immediatamente sopra
il primo gradino erano state create delle scanalature per le corde. Gli stessi scalini
dovevano essere stati ricavati in grande fretta o pesantemente consumati dagli
agenti atmosferici. Forse entrambe le cose, suppose il poeta.
Sporgendosi oltre il bordo premette un dito contro il primo scalino e la roccia si
frantumò al suo tocco. Quei gradini non avrebbero mai potuto sopportare il peso di
un uomo.
Druss, Nuang e un gruppo di guerrieri nadir lo raggiunse. Niobe non era con
loro. Il vecchio capo nadir si sporse oltre il bordo e osservò l’entrata rettangolare
sotto di loro. Non disse nulla. Druss si acquattò vicino a Sieben. «La ragazza ha
detto che vuoi scendere là sotto. Pensi che sia saggio, poeta?»
«Forse no, vecchio cavallo. Ma io non voglio passare il resto dei miei giorni
chiedendomi cosa ci fosse là dentro.»
Druss fissò il cono. «È molto profondo.»
Sieben lanciò un’occhiata al baratro oscuro. Benché la luna brillasse alta nel
cielo non riusciva a illuminare il fondo del cratere. «Calami fino alla sporgenza,»
gli disse, facendo appello agli ultimi brandelli di coraggio che gli erano rimasti.
Non poteva desistere. Era più forte di lui. «Ma non mollare la presa quando la
raggiungo. Le rocce si sbriciolano come cristalli di sale e la sporgenza potrebbe
anche non reggermi.» Si legò la corda intorno alla vita, attese che Druss l’avesse
fatta passare sulle possenti spalle, quindi si lasciò penzolare oltre il bordo. Il
gigante drenai lo calò lentamente fino a fargli toccare la sporgenza che risultò
essere solida e resistente.
Ora si trovava di fronte all’entrata. Non c’era alcun dubbio, era stata scavata
dall’uomo. Degli strani simboli erano stati scolpiti nella roccia: spirali e stelle
intorno a quello che sembrava il profilo di una spada spezzata. Poco dopo l’entrata,
delle sbarre di ferro cementate nella roccia precludevano l’acceso alla caverna. Il
metallo era diventato rosso dalla ruggine. Sieben ne afferrò una e tirò con forza
senza smuoverla minimamente.
«Cosa succede?» gli chiese Druss.
«Vieni giù a vedere. Slego la corda.»
Qualche momento dopo, Druss lo raggiunse reggendo una torcia. «Stai
indietro,» disse il guerriero. Passò la torcia all’amico e si sciolse. Afferrò
saldamente una delle sbarre e tirò. Il metallo si piegò nel mezzo emettendo un
lamento raschiante quindi si divelse dalla roccia. Druss buttò la sbarra dietro di sé e
Sieben la udì rimbalzare contro le pareti del cratere. Il guerriero drenai ne tolse
altre due quindi disse: «Dopo di te, poeta.»
Sieben si infilò nell’apertura tra le sbarre tenendo alta la torcia e si ritrovò in
una piccola camera. Girandosi vide delle catene che penzolavano dal soffitto.
Druss apparve al suo fianco e si avvicinò alle catene a cui era appeso qualcosa.
«Fai luce qua,» ordinò a Sieben, che eseguì immediatamente.
Alla catena era attaccato un braccio rinsecchito e consumato che si era staccato
dal resto del cadavere durante il processo di decomposizione. Il poeta abbassò la
torcia e fissò il corpo quasi mummificato che giaceva a terra. Il cadavere aveva
indosso un lungo vestito di seta bianca ormai consunto che tuttavia continuava a
rimanere curiosamente bello, malgrado l’ambito macabro e tetro in cui si trovava.
«Era una donna,» affermò Druss. «Qualcuno deve averla sepolta viva.»
Sieben si inginocchiò vicino al cadavere. Un lampo dorato balenò nelle orbite
vuote del teschio e il poeta ebbe un sussulto e rischiò di far cadere la torcia. Druss
si avvicinò per esaminare le ossa con più attenzione. «Quei figli di una baldracca le
hanno cavato gli occhi con dei chiodi d’oro,» disse. Girò il teschio e vide che
anche nei canali delle orecchie erano stati infilati dei chiodi dello stesso tipo.
Sieben desiderò che Niobe non avesse mai visto quel luogo. Provò una fitta al
cuore per quella donna morta in quel luogo solitario tra atroci sofferenze.
«Usciamo di qua,» disse con calma.
Tornati in cima al cratere raccontarono a Nuang quello che avevano visto. Il
vecchio capo ascoltò in silenzio quindi disse: «Deve essere stata una grande strega.
Le spirali e le stelle scolpite sono un incantesimo per incatenare il suo spirito in
quel luogo. I chiodi servivano per renderla cieca e sorda nel mondo degli spiriti. È
probabile che gliene abbiano piantato uno anche nella lingua.»
Sieben si alzò e ritirò la corda. «Cosa stai facendo,» gli chiese Druss.
«Torno giù, vecchio cavallo.»
«Perché?» indagò Nuang. Sieben non gli rispose e si girò verso il bordo del
cratere.
Druss afferrò la corda e gli fece un sorriso. «Sempre romantico, eh, poeta?»
«Passami la torcia e basta.»
Una volta rientrato nella camera, Sieben si inginocchiò vicino al cadavere e con
uno sforzo di volontà infilò le dita nelle orbite vuote del teschio ed estrasse i
chiodi, che, come quello dell’orecchio destro, scivolarono via con facilità. Quello
che ostruiva l’orecchio sinistro si era incastrato e il poeta dovette usare un coltello
per toglierlo. Appena aprì la bocca del teschio, la mascella si staccò. Facendosi
ancora un po’ di coraggio estrasse l’ultimo chiodo d’oro. «Non so,» disse con
dolcezza, «se ora il tuo spirito è libero, signora. Spero di sì.» Stava per andarsene
quando vide un bagliore tra le pieghe del vestito. Allungò una mano e prese un
medaglione rotondo bordato da un cerchio di oro scuro. Illuminò bene l’oggetto e
vide che nell’argento annerito del pendaglio erano stati incisi dei profili in rilievo.
Lo mise in tasca quindi uscì dalla stanza e disse a Druss di issarlo.
Una volta tornato al campo il poeta pulì il medaglione riportandolo al suo
splendore originale. Druss lo raggiunse. «Vedo che hai trovato un tesoro,» gli
disse. Sieben glielo passò. Su una faccia c’era il profilo di un uomo e sull’altra
quello di una donna. Intorno alla testa della donna c’erano parole e Sieben non
riuscì a capire a quale lingua appartenessero.
Druss lo fissò con attenzione. «Forse era un moneta. Un re e una regina,» disse.
«Pensi che sia il ritratto della donna?»
Sieben scrollò le spalle. «Non lo so, Druss. Ma chiunque fosse, il suo omicidio
è stato eseguito con la più folle delle crudeltà. Puoi immaginare come deve essere
stato? Trascinata in questo luogo desolata, gli occhi cavati? Lasciata a morire
dissanguata, incatenata, in preda a una lenta agonia?»
Druss gli restituì il medaglione. «Forse è stata una terribile strega che mangiava
i bambini. Forse si è meritata quella fine.»
«Meritata? Non c’è nessun crimine al mondo che giustifichi una tale punizione,
Druss. Se qualcuno è malvagio lo uccidi. Guarda cosa le hanno fatto. Chiunque sia
stato il responsabile di tali atrocità ha provato gusto nel perpetrarle. Era stato tutto
pianificato con molta cura ed eseguito in maniera meticolosa.»
«Beh, hai fatto quello che potevi, poeta.»
«Un po’ poco, vero? Pensi che sia riuscito a fare in modo che il suo spirito sia
tornato a parlare, vedere e sentire?»
«Sarebbe bello pensarlo.»
Niobe li raggiunse e si sedette a fianco di Sieben. «Sei molto teso, po-eta. Hai
bisogno di fare l’amore.»
Sieben rise «Penso proprio che tu abbia ragione,» affermò alzandosi in piedi e
prendendola per mano.

Più tardi, mentre Niobe dormiva al suo fianco, Sieben si era seduto a pensare
alla donna nella tomba. Chi era e quale era stato il crimine per cui l’hanno
condannata a morte? si domandò. Che fosse un strega non c’era alcun dubbio. I
suoi assassini avevano fatto di tutto pur di distruggerla.
Niobe si svegliò. «Non riesci a dormire, poeta?»
«Stavo pensando a quella donna morta.»
«Perché?»
«Non lo so. È stata uccisa in maniera crudele. Accecata, incatenata e
abbandonata in una caverna scavata in un vulcano. Un gesto brutale e malvagio. E
perché portarla fino qua, in questa terra desolata? Perché nascondere il corpo?»
Niobe si sedette. «Dove va a dormire il sole?» chiese lei. «Dov’è il mantice da
cui nascono i venti? Perché ti fai delle domande cui non riesci a trovare una
risposta?»
Sieben sorrise e la baciò. «È così che si ottiene la conoscenza,» disse. «La gente
si fa delle domande a cui non c’è una risposta immediata. Il sole non va a dormire,
Niobe. È una grande palla di fuoco nei cieli e questo pianeta è una palla più piccola
che vi ruota intorno.» Lei lo fissò con aria interrogativa, ma non disse nulla.
«Quello che sto cercando di dire è che ci sono sempre delle risposte anche se non
riusciamo a ottenerle immediatamente. La donna nella grotta era ricca,
probabilmente doveva essere una nobile, una regina o una principessa. Il
medaglione che ho trovato aveva due teste incise sopra, quella di una donna e di un
uomo ed entrambi hanno i lineamenti nadir o chiatze.»
«Fammelo vedere.»
Sieben prese il medaglione e lo mise in mano alla donna che studiò
attentamente le due teste. «Lei era molto bella, ma non era nadir. »
«Come fai a dirlo.»
«Le scritte sul lon-tsia. Sono in Chiatze e le ho già viste altrove.»
«Puoi leggere cosa c’è scritto?»
«No.» Gli restituì il medaglione.
«Come l’hai chiamato? Lon-tsia?»
«Sì. È un dono d’amore molto costoso. Devono esserne stati fatti due per il
matrimonio. L’uomo raffigurato era il marito e la donna deve aver portato il lon-
tsia con la faccia del suo uomo rivolta verso il cuore e lo sposo deve aver fatto il
contrario. È un’antica usanze chiatze, ma solo per i ricchi.»
«Allora mi chiedo cosa sia capitato al marito.»
Niobe si avvicinò all’uomo. «Baste con le domande, po-eta,» sussurrò. «Adesso
voglio dormire.» Sieben si sdraiò a fianco della donna che gli accarezzò la faccia
quindi fece scivolare la mano sul petto e giù oltre la pancia.
«Credevo che volessi dormire!»
«Si dorme meglio dopo aver fatto l’amore.»

Nel pomeriggio del giorno seguente il gruppo raggiunse l’ultima sporgenza


rocciosa prima della steppa. Nuang mandò degli esploratori per controllare la zona.
L’ultima razione d’acqua venne data alle donne e ai bambini. Druss, Nuang e il
ragazzino di nome Meng, si inerpicarono sulle rocce per dare un’occhiata alle
steppe. Non c’era nessuno in vista.
Dopo un’ora gli esploratori tornarono e riferirono che i lancieri erano andati
via. Avevano seguito le tracce dei soldati fino a un pozzo nascosto in una valletta
che questi ultimi avevano prosciugato.
Nuang guidò la sua gente stanca fino al pozzo e là si accamparono. «Questi
gajin non sanno cosa sia la pazienza,» disse a Druss mentre erano fermi davanti al
buco pieno di fango. «Questa è un’infiltrazione e tuttavia hanno permesso ai loro
cavalli di camminarvi in mezzo. Se avessero aspettato e preso un po’ d’acqua alla
volta sarebbero riusciti a dissetare sia gli uomini che i cavalli. E ora? Ah! I cavalli
si saranno appena inumiditi la lingua e per il tramonto saranno esausti.»
Alcune delle donne pulirono il buco dal fango e dalla ghiaia, quindi si sedettero
e attesero. Dopo un’ora l’acqua cominciò ad affiorare dal sottosuolo formando una
piccola pozza.
Più tardi Nuang fece uscire altri esploratori che tornarono un’ora prima del
tramonto. Il vecchio li interrogò quindi si recò da Druss e Sieben che stavano
sellando i loro cavalli. «I gajin si stanno dirigendo a nord-ovest. I miei uomini
hanno scorto una grande nuvola di polvere in quella direzione, si sono avvicinati il
più possibile e hanno visto un esercito in marcia. Perché c’è un esercito qua?
Contro chi devono combattere?»
Druss appoggiò la sua larga mano sulla spalla dell’uomo. «Si stanno dirigendo
nella Valle delle lacrime di Shul-sen. Cercheranno di depredare il santuario»
«Vogliono prendere le ossa di Oshikai?» chiese il vecchio, incredulo.
«Quanto dista il santuario?» chiese Druss.
«Se prendi due cavalli di riserva e cavalchi notte e giorno verso nord-est
arriverai entro due giorni,» affermò Nuang. «Ma precederai di poco i gajin.»
«Che la tua fortuna sia buona,» disse Druss allungando una mano. Il capo dei
nadir annuì e gliela strinse.
Sieben si recò da Niobe. «Spero di incontrarti di nuovo, mia signora,» le disse.
«Forse sì, forse no.» Così dicendo la ragazza si allontanò. Il poeta balzò in
sella, Druss lo imitò e insieme a due pony di riserva lasciarono il campo.

Ancor prima che Nosta Khan arrivasse al santuario la notizia dell’invasione


gothir aveva raggiunto i quattro campi. Un cavaliere della tribù delle Corna
Ricurve entrò al galoppo nel suo campo, arrestò bruscamente il pony coperto di
sudore e balzò giù dalla sella. La cavalleria aveva attaccato due accampamenti
della tribù delle Corna Ricurve massacrando uomini, donne e bambini. Inoltre
riferì che mille e più soldati si stavano dirigendo verso la valle.
Il capo del gruppo delle Corna Ricurve, un guerriero di mezza età chiamato
Bartsai, mandò a chiamare gli altre capi e a mezzogiorno nella sua tenda si
riunirono Lin-tse, dei Corridori del Cielo, Quing-chin dei Pony Veloci e Kzun il
capo dalla testa rasata dei Lupi Solitari. Essi ascoltarono in silenzio il racconto. Un
esercito gothir era in marcia nei loro territori e stava uccidendo tutti i nadir che
incontrava.
«Non ha alcuno senso,» affermò Kzun. «Perché dovrebbero fare la guerra alle
Corna Ricurve?»
«Perché si stanno dirigendo in questa valle?» si intromise Lintse.
«Forse, cosa più importante,» disse Quing-chin, «dovremmo domandarci cosa
vogliamo fare. Sono a meno di due giorni di marcia da noi.»
«Fare?» chiese Bartsai. «Cosa possiamo fare? Vedi un esercito intorno a te?
Siamo meno di centoventi uomini.»
«Siamo le guardie del sacro santuario,» disse Lin-tse. «I numeri non significano
nulla. Fossimo anche solo in quattro, dovremmo combattere.»
«Parla per te!» sbottò Bartsai. «Non vedo nessuna utilità nel gettare via le
nostre vite così. Se qua non ci saranno dei guerrieri allora i gajin passeranno oltre.
L’unica cosa che è custodita in questo luogo sono le ossa di Oshikai. Non c’è
nessun tesoro, niente da depredare, però continuiamo a sorvegliare il santuario.»
«Pah!» ringhiò Lin-tse. «Cose ci si poteva aspettare da quei codardi delle Corna
Ricurve?»
Bartsai scattò in piedi sfoderando una daga dalla lama ricurva e Lin-tse si alzò
con la sciabola in mano. Quing-chin balzò in mezzo a loro. «No!» urlò. «Questa è
una follia!»
«Non mi faccio insultare sotto la mia stessa tenda,» urlò Bartsai, fulminando
con un’occhiata Lin-tse.
«Allora non parlare di fuga,» disse Lin-tse, rinfoderando la spada con un gesto
rabbioso.
«Di cos’altro potremmo parlare?» chiese Kzun. «Non desidero fuggire dai
gajin, ma neanch’io desidero sprecare inutilmente le vite dei miei uomini. Non ho
simpatia per la tribù del Corno Ricurve, ma Bartsai è un guerriero che ha
combattuto molte battaglie. Non è un codardo, come non lo sono io. È giusto ciò
che dice. Qualunque sia il loro scopo, i gajin voglio uccidere tutti i nadir. Se non
troveranno nessuno a difendere il santuario, passeranno oltre. Potremmo attirarli
all’interno della steppe, lontani dall’acqua. Là i loro cavalli moriranno.»
La tesa della tenda si aprì ed entrò un piccolo uomo. Era vecchio e magro e
portava al collo una collana di ossa umane.
«Chi sei?» gli chiese Bartsai in tono cauto. Sapeva che quella collana era un
ornamento degli sciamani.
«Io sono Nosta Khan.» Fece qualche passo avanti e si sedette tra Kzun e
Bartsai. Entrambe gli uomini si scostarono dal vecchio. «Adesso voi tutti sapete la
grande minaccia che incombe su di noi,» disse lo sciamano. «Duemila guerrieri
gothir, guidati da Gargan flagello del Nadir, stanno marciando in direzione di que-
sto luogo sacro. Non ne sapete il perché, ma ve lo dirò io. Sono venuti a
distruggere il santuario, a radere al suolo le mura e a sbriciolare le ossa di
Oshikai.»
«Per quale motivo?» chiese Kzun.
«Chi sa cosa passa nella testa dei gajin?» rispose Nosta Khan. «Ci trattano
come parassiti da distruggere secondo il loro capriccio. Non mi importa nulla delle
loro ragioni, per me è sufficiente il fatto che stiano arrivando.»
«Cosa ci consigli, sciamano?» chiese Lin-tse.
«Dovete nominare un condottiero e resistere con tutte le vostre forze. Il
santuario non deve cadere in mano ai gajin.»
«Puzzolenti parassiti dagli occhi rotondi,» sibilò Kzun. «Non gli basta braccarci
come bestie per poi ucciderci. Adesso vogliono anche profanare i nostri luoghi
sacri. Non lo sopporto. La domanda adesso è questa: chi di noi sarà il capo? Non
voglio sembrare arrogante, ma io ho combattuto trentasette battaglie e mi offro per
guidarvi.»
«Ascoltatemi,» disse Quing-chin, con calma. «Io rispetto tutti i capi sotto
questa tenda e le mie parole non vogliono insultare nessuno. Tra tutti i presenti
solo due uomini potrebbero essere i condottieri, io o Lin-tse. Entrambi siamo stati
addestrati dai gajin e sappiamo come essi portano avanti gli assedi. Ma, tra di noi
c’è un uomo che conosce le strategie di guerra dei gajin meglio ancora di noi due.»
«Chi è questo... eroe?» chiese Bartsai.
Quing-chin si girò verso Lin-tse. «Un tempo si chiamava Okai. Ora è
conosciuto come Talismano.»
«E tu credi che questo uomo ci possa portare alla vittoria contro una forza venti
volte superiore a noi?» si intromise Kzun.
«I Corridori del Cielo lo seguiranno,» disse improvvisamente Lin-tse.
«Anche i Pony Veloci,» aggiunse Quing-chin.
«Da quale tribù proviene quest’uomo?» chiese Bartsai. «Teste di Lupo,» riferì
Lin-tse.
«Bene, allora andiamo da lui. Desidero vederlo con i miei occhi prima di porre
la vita dei miei uomini nelle sue mani,» affermò Bartsai. «Nel frattempo manderò
degli uomini nei villaggi della mia tribù che si trovano qua vicino. Abbiamo
bisogno di guerrieri.»

Zhusai aveva trascorso una notte agitata. Il suo sonno era stata turbato da strani
sogni. Degli uomini la trascinavano in una landa desolata incatenandola in una
stanza al buio, le gridavano degli epiteti come strega e puttana per poi picchiarla.
La ragazza aveva spalancato gli occhi in preda al panico con il cuore che
pulsava veloce, era balzata fuori dalla coperta e aveva spalancato la finestra
inalando a pieni polmoni la fresca aria della notte. Troppo spaventata per tornare a
dormire aveva fatto una camminata nel cortile e là, seduti di fronte al santuario,
aveva incontrato Gorkai e Talismano. «Stai bene, Zhusai?» le domandò Talismano
alzandosi da terra e prendendole un braccio. «Sei molto pallida.»
«Ho fatto un sogno terribile, ma adesso sta svanendo.» Sorrise. «Posso sedermi
con voi?»
«Certo.»
I tre discussero su dove cercare gli Occhi di Alchazzar. Talismano aveva
controllato la stanza in cui si trovava la bara palmo a palmo. Aveva vagliato
attentamente ogni centimetro del pavimento o delle pareti in cerca di una nicchia
segreta, ma non aveva trovato nulla. Insieme a Gorkai aveva anche sollevato il
coperchio di pietra per esaminare le ossa rinsecchite dell’eroe nadir. Non aveva
trovato nulla eccetto un pesante lon-tsia con sopra impressi i volti di Oshikai e
Shul-sen. Aveva lasciato il medaglione nella bara e l’aveva richiusa con cura.
«Lo spirito di Oshikai mi ha detto che gli Occhi sono nascosti là dentro, ma non
so più dove cercare,» affermò Talismano.
Zhusai si sdraiò a fianco dei due uomini e si addormentò...
Un uomo magro con gli occhi infuocati premette la faccia contro la sua e le
morsicò un labbro fino a farglielo sanguinare. «Adesso morirai, strega, ma non
prima del tempo.» Lei gli sputò in faccia.
«Allora tornerò dal mio amore,» disse la donna, «e non dovrò più fissare il tuo
volto insulso!» Lui la colpì più volte con furia quindi la prese per i capelli. «Tu
non lo vedrai mai in questo angolo d’eternità.» Alzò una mano e le fece vedere
cinque chiodi d’oro. «Te ne pianterò due negli occhi, due nelle orecchie e uno
nella lingua e il tuo spirito mi apparterrà per sempre. Incatenata a me, come
avresti dovuto esserlo in vita. Vuoi implorarmi? Se ti lasciò libera cadrai in
ginocchio davanti a me giurandomi fedeltà?»
Zhusai avrebbe voluto dire sì, ma la voce che le uscì dalla gola non era la sua.
«Giurare fedeltà a un verme? Tu non sei niente Chakata. Avevo messo in guardia
il mio Ioni da te, ma egli non mi ha ascoltata. Ora io ti maledico e la mia
maledizione ti perseguiterà fino al giorno in cui le stelle moriranno!»
Le tirarono indietro la testa. La mano dell’uomo si alzò e lei sentì il chiodo
dorato che le penetrava nell’orbita...
Zhusai si svegliò con un grido di dolore e vide che Talismano era al suo fianco
vicino al letto. «Come sono arrivata qua?» gli chiese.
«Ti ho portata io. Hai cominciato a parlare in chiatze. Non è una lingua che
conosco molto bene; la tua voce era cambiata in maniera incredibile.»
«Ho rifatto lo stesso sogno, Talismano. È stato così reale. Un uomo... diversi
uomini... mi trascinavano in una camera buia dove mi venivano cavati gli occhi. È
stato terribile. Mi hanno chiamata strega, puttana. Essi hanno... io penso...
assassinato mio marito.»
«Riposa,» disse Talismano. «Sei sconvolta.»
«Sì, sono sconvolta,» concordò la ragazza, «ma... non avevo mai fatto un sogno
simile in vita mia. I colori erano così nitidi e...» Lui le accarezzò i capelli con
delicatezza e l’esausta Zhusai si addormentò nuovamente, ma questa volta non
giunse nessun sogno a turbare il suo riposo.
Quando si svegliò era sola e la luce del sole illuminava la stanza. Vicino alla
finestra c’era un catino e una brocca d’acqua. Zhusai si alzò dal letto, si tolse il
vestito, riempì d’acqua il catino, vi aggiunse tre gocce di profumo e si lavò la parte
superiore del corpo e il volto. Dallo zaino prese una lunga tunica di seta bianca: il
capo era stropicciato, ma pulito. Una volta vestitasi lavò gli indumenti sporchi e li
appoggiò sul davanzale della finestra ad asciugare. Uscì dalla stanza a piedi scalzi,
scese la scala di legno e sbucò nel cortile sottostante.
Talismano, seduto da solo, stava consumando una colazione a base di pane e
formaggio mentre Gorkai stava strigliando i cavalli all’altra estremità del cortile.
Zhusai si sedette a fianco del giovane guerriero e lui le versò una coppa d’acqua.
«Hai sognato ancora?» Lei chiese.
«No,» rispose. È sfinito, pensò lei fissando gli occhi vacui del ragazzo. «Cosa
farai adesso,» gli chiese.
«Io so... credo.. che gli Occhi siano qua, ma non riesco a pensare in quale altro
luogo cercare.»
Cinque uomini attraversarono il cancello ed entrarono nel cortile. Appena
Zhusai riconobbe Nosta Khan ebbe un tuffo al cuore e si ritirò tra le ombre. Il volto
di Talismano rimase impassibile. Il primo degli uomini, un individuo dal cranio
rasato che portava un orecchino d’oro si fermò davanti al ragazzo. «Io sono Kzun
dei Lupi Solitari,» si presentò con voce fredda e profonda. Il suo corpo era magro e
muscoloso e Zhusai fu attraversata da un fremito di paura. Quell’uomo si era
piazzato davanti a Talismano con un atteggiamento di aperta sfida. «Quing-chin
dei Pony Veloci dice che tu sei il condottiero da seguire. Non mi sembri un
condottiero.»
Talismano si alzò in piedi. oltrepassò Kzun senza neanche degnarlo di uno
sguardo e si fermò di fronte all’alto guerriero con il volto atteggiato a
un’espressione solenne. «È bello rivederti, Lin-tse,» lo salutò.
«Lo stesso vale per me, Okai. Questa volta gli dèi della pietra e dell’acqua ti
hanno portato qua.»
Un uomo di mezz’età dalla corporatura tarchiata fece un passo avanti. «Io sono
Bartsai della tribù del Corno Ricurvo.» Si inginocchiò ed estese le braccia in avanti
con il palmo delle mani rivolto verso alto. «Quing-chin dei Pony Veloci ci ha
parlato molto bene di te e noi siamo qua per chiedere il tuo aiuto.»
«Non ancora,» sbottò Kzun. «Prima voglio una prova.»
«Perché avete bisogno di un condottiero?» chiese Talismano, rivolgendosi a
Lin-tse.
«Gargan sta marciando qua con un esercito. I gothir voglio distruggere il
santuario.»
«Hanno già attaccato diversi campi,» aggiunse Quing-chin.
Talismano si allontanò dal gruppo e si sedette a terra a gambe incrociate. Tre si
unirono a lui immediatamente. Kzun esitò un attimo quindi li raggiunse. Gorkai
attraversò il cortile e si fermò in piedi con le braccia incrociate sul petto alle spalle
di Talismano.
«Di quanti uomini è composto il contingente gothir?» chiese il giovane
guerriero.
«Duemila,» lo informò Nosta Khan. «Lancieri e fanti.»
«Tra quanto tempo arriveranno?»
«Due, forse tre giorni,» rispose Bartsai.
«E voi avete intenzione di combattere?»
«Per quale altro motivo avremmo bisogno di un condottiero?» chiese Kzun.
Per la prima volta da quando si erano rivolti a lui, Talismano si girò e lo fissò
negli occhi. «Mettiamo in chiaro una cosa, Kzun dei Lupi Solitari,» disse con voce
priva di rabbia, «il santuario è assolutamente indifendibile. Un attacco sostenuto da
duemila uomini lo prenderebbe. Non c’è alcuna speranza di vittoria. Nella migliore
delle ipotesi potremmo resistere pochi giorni, forse una settimana. Guardati
intorno. Uno dei muri è già caduto e i cancelli sono inservibili. Tutti i difensori
morirebbero.»
«La stessa cosa che ho detto io,» si intromise Bartsai.
«Quindi anche tu sei favorevole alla fuga?» gli chiese Kzun.
«In questo momento non sono favorevole a nulla,» affermò Talismano. «Stavo
solo mettendo in chiaro delle cose ovvie. Hai intenzione di combattere?»
«Sì,» disse Kzun. «Questo è un luogo sacro per tutti i nadir. Non possiamo
cederlo senza combattere.»
Lin-tse prese la parola. «Tu sai come combattono i gothir, Okai. Ci guiderai?»
Talismano si alzò. «Tornate dai vostri guerrieri e dite loro di riunirsi qua entro
un’ora. Io parlerò loro.» Così dicendo li lasciò seduti dov’erano e salì sul
camminamento del muro a est. Stupefatti i capi si alzarono e uscirono dal
santuario. Nosta khan seguì Talismano.
Zhusai sedeva tranquilla vicina al muro e Gorkai le si avvicinò. «Non penso
che vivremo tanto a lungo per vedere il giorno dell’Unificatore,» gli disse torvo.
«Tuttavia tu rimarrai,» gli disse.
«Io sono una Testa di Lupo,» affermò, colmo d’orgoglio. «Rimarrò.»
In cima al muro Nosta Khan raggiunse Talismano. «Non avevo previsto
questo,» confessò lo sciamano.
«Non importa,» rispose Talismano. «Sia che vinciamo o perdiamo il nostro
esempio servirà a far avvicinare più velocemente il giorno della resa dei conti.»
«Come?»
«Quattro tribù combatteranno insieme. Servirà a mostrare la via da seguire. Se
dovessimo vincere allora i nadir sapranno che i gothir non sono invincibili. Se
dovessimo perdere allora il sacrilegio che commetteranno nel distruggere il
santuario unirà le tribù con catene di fuoco.»
«Vincere? Hai appena detto che moriremo tutti.»
«Dobbiamo essere pronti a morire. Ma c’è una possibilità, Nosta. Essi non
hanno acqua. Noi dobbiamo sorvegliare i pozzi e negare loro l’accesso. Duemila
uomini richiedono centodieci litri d’acqua al giorno e i cavalli ne hanno bisogno di
tre volte tanta. Se gli impediamo di rifornirsi d’acqua per qualche giorno di seguito
i cavalli cominceranno a morire, poi seguiranno gli uomini...»
«Avranno sicuramente preso in considerazione questa eventualità,» argomentò
Nosta Khan.
«Ne dubito. Si aspetteranno di prendere il santuario entro un giorno. E qua ci
sono tre pozzi profondi.»
«Potrai tenerlo con soli cento uomini sorvegliando contemporaneamente i pozzi
e gli affioramenti sparsi nei dintorni?»
«No, abbiamo bisogno di altri guerrieri, ma essi arriveranno.»
«Da dove?» chiese lo sciamano.
«Saranno i gothir a mandarceli,» gli rispose Talismano.
CAPITOLO OTTAVO

Talismano sedeva sul parapetto del muro con le gambe incrociate, le braccia
distese, gli occhi chiusi e il volto girato in direzione del sole. Nella sua vita aveva
covato diverse ambizioni e la prima di esse era quella di entrare nella città di
Gulgothir al fianco dell’Unificatore, vedere i gothir umiliati, i loro palazzi distrutti
e l’esercito sconfitto. Fu pervaso dalla rabbia e per qualche istante permise a quella
forte emozione di scorrere in lui, quindi, lentamente, si calmò. Quello che aveva
detto a Nosta Khan era vero. La battaglia per difendere il santuario avrebbe unito le
tribù come mai prima d’allora. Anche se fossero tutti morti, com’era probabile che
andasse a finire, il loro gesto sarebbe servito ad avvicinare il giorno dell’avvento
dell’Unificatore.
Aveva detto ai capi tribù che la vittoria era impossibile e quello era un dato di
fatto innegabile. Tuttavia un generale che combatteva convinto di essere sconfitto
avrebbe perso di sicuro. Talismano rallentò la respirazione, calmò il battito
cardiaco e riuscì ad allontanarsi gradatamente dall’ira e dalla frustrazione. Due
eserciti si stavano per affrontare. Metti da parte i numeri e guarda all’essenza, si
ricordò. Rivide lo studio di Fanlon con i muri pannellati all’Accademia di Bodacas
e risentì la voce del vecchio soldato sussurrare attraverso gli anni. «La
responsabilità di un esercito grava solo su un individuo. Egli è lo spirito. Se un
esercito è privato del suo morale anche il suo generale perderà coraggio. Ordine e
confusione, coraggio e codardia, sono tutti sentimenti governati dal cuore. Quindi
colui che è esperto nel controllare il suo nemico prima lo deve frustrare poi deve
muovere contro di lui. L’irritazione priverà il nemico del suo coraggio rendendolo
pauroso, intaccando così la sua capacità di preparare una strategia.»
Talismano visualizzò nuovamente Gargan e la sua rabbia divampò nuovamente.
Il lord di Larness aveva cercato di sconfiggerlo già una volta quando tutte le
condizioni erano a suo favore, ma non ci era riuscito. Riuscirò a batterlo anche
questa volta? si chiese Talismano.
Quell’uomo traboccava d’odio, tuttavia era un grande generale e un guerriero
coraggioso, e quando era calmo non era uno stupido. Doveva riuscire a fargli
perdere la calma di modo che il suo odio ne oscurasse l’intelletto.
Talismano aprì gli occhi, si alzò e fissò le aride colline che s’innalzavano a
ovest del santuario. I soldati gothir avrebbero innalzato il campo in quel punto
perché nel pomeriggio i cavalli sarebbero potuti rimanere all’ombra. Circonde-
ranno il santuario? No. I lancieri pattuglieranno l’area.
Si sedette nuovamente sul parapetto e fissò le mura e i palazzi del santuario.
L’edificio in cui riposava Oshikai aveva il tetto piatto. Dietro di esso sorgeva una
costruzione di due piani con dieci stanze, costruita per i pellegrini. Alle spalle di
questo caseggiato c’era una torre in rovina. Tre dei quattro muri che circondavano
il santuario erano ancora integri e robusti mentre il quarto presentava una larga
crepa a forma di V. L’attacco sarebbe giunto da quella parte. Gargan avrebbe
mandato gli arcieri ad abbattere gli uomini sulle mura e dei soldati a piedi muniti di
attrezzi per allargare la crepa, dopodiché il grosso del contingente gothir sarebbe
passato all’attacco.
Talismano scese le scale, si diresse verso la sezione danneggiata e l’osservò. Se
avesse avuto tempo e uomini a sufficienza sarebbe riuscito a chiudere la crepa, o
almeno a rinforzare il muro con le pietre prese dalla torre in rovina.
Uomini e tempo. Gli dèi della pietra e dell’acqua li avevano privati d’entrambi.
Kzun e i suoi Lupi Solitari attraversarono il cancello. Talismano si tolse la
maglia, la buttò a terra quindi risali sul camminamento. Poco dopo arrivò Quing-
chin e i Pony Veloci, seguito da Lin-tse con i Corridori del Cielo. L’ultimo ad
arrivare fu Bartsai delle Corna Ricurve. I guerrieri nadir rimasero silenziosamente
in sella ai loro pony con gli occhi puntati su Talismano.
«Io sono Talismano,» esordì. «Appartengo alla tribù delle Teste di Lupo, il mio
sangue è nadir. Queste terre sono della tribù delle Corna Ricurve. Lasciate che
Bartsai salga qui da me su questo muro.» Bartsai fece passare una gamba sopra il
pomello della sella, saltò a terra, salì gli scalini e raggiunse il giovane. Talismano
tirò fuori il coltello e si praticò un taglio sul palmo della mano sinistra. Allungò il
braccio e lasciò che le gocce rosse cadessero a terra. «Questo è il mio sangue e io
lo dono alla tribù delle Corna Ricurve,» affermò. «Il mio sangue è la mia promessa
di combattere fino alla morte per difendere le ossa di Oshikai Flagello del
Demone.» Rimase in silenzio per un lungo momento quindi chiamò gli altri capi e
quando l’ebbero raggiunto fissò i guerrieri riuniti sotto il muro. «Secoli fa, Oshikai
combatté in questo stesso luogo la battaglia dei Cinque Eserciti. Vinse e morì. Nei
giorni a venire i nadir parleranno della nostra battaglia come di quella delle Cinque
Tribù. Ne parleranno con il cuore pieno d’orgoglio, poiché noi siamo guerrieri e
figli di uomini. Noi siamo nadir. Noi non abbiamo paura di nulla.» Alzò il tono di
voce. «E chi sono coloro che stanno marciando contro di noi? Chi pensano di
essere? Essi massacrano le nostre donne e i nostri bambini. Saccheggiano i nostri
luoghi sacri.» Improvvisamente indicò un guerriero della tribù delle Corna
Ricurve. «Tu!» urlò. «Hai mai ucciso un sodato gothir?» L’uomo scosse la testa.
«Lo farai. Gli aprirai la gola con la tua arma e il suo sangue colerà a terra. Sentirai
il suo urlo di morte e vedrai la luce della vita scomparire dai suoi occhi. Anche tu.
Tu! E tu! Ogni uomo che si trova qua ha l’occasione di ripagare i gothir per gli
insulti e le atrocità subite. Il mio sangue, sangue nadir, macchia la terra di questo
luogo e io non lo abbandonerò finché i gothir non verranno sconfitti o si ri-
tireranno. Ogni uomo che non si sente in grado di fare un simile giuramento se ne
vada adesso.» Nessuno si mosse.
Lin-tse si mise al fianco di Talismano, si praticò un taglio nel palmo sinistro
con una daga ricurva quindi alzò la mano. Gli altri capi fecero lo stesso. Kzun si
girò verso Talismano allungò una mano e il ragazzo la strinse. «Fratelli di sangue!
Fratelli fino alla morte!» dichiarò Kzun.
Talismano si avvicinò al bordo del camminamento, estrasse la sciabola e fissò i
nadir sotto di lui. «Fratelli fino alla morte!» urlò. Il sibilo delle spade estratte dai
foderi fendette l’aria.
«Fratelli fino alla morte!» tuonarono tutti.
* * *

Il prete cieco sedeva nel suo alloggio e ascoltò l’ovazione. I sogni degli uomini,
pensò, gravitano sempre intorno alla guerra. Battaglia e morte, gloria e dolore. I
giovani l’agognano e i vecchi ne parlano con nostalgia. Sentì una profonda
tristezza calare su di lui e cominciò a muoversi per la stanza raccogliendo le sue
carte.
Un tempo anche lui era stato un guerriero che cavalcava nelle steppe
compiendo scorribande, e ricordava bene l’eccitazione della battaglia. Una piccola
parte di lui desiderava poter rimanere con quei giovani e sbaragliare il nemico. Ma
si trattava di una parte veramente piccola.
C’era solo un vero e unico nemico da sconfiggere. Un nemico che
imperversava in tutto il mondo: l’odio. Tutto il male nasceva da quella infima
emozione. Immortale, eterno, esso albergava nel cuore di tutti gli uomini di ogni
generazione. Quando Oshikai e il suo esercito avevano raggiunto quelle regioni
centinaia di anni prima, vi avevano trovato un popolo pacifico che coltivava quella
terra ricca. Dopo la morte di Oshikai essi erano stati soggiogati, i villaggi erano
stati distrutti e le donne erano state rapite. Con quegli atti i nadir avevano
impiantato il primo dei semi dell’odio. Il seme era cresciuto e quel popolo era
riuscito a organizzarsi e a sconfiggere i propri aggressori. Allo stesso tempo i nadir
si erano divisi in diverse tribù. Gli abitanti di quelle regioni diventarono i gothir e il
ricordo di quello che era successo un tempo li aveva portati a odiare i nadir,
spingendoli a perseguitarli.
Quando finirà tutto ciò? si chiese.
Sistemò lentamente i manoscritti, la penna e l’inchiostro dentro la sua sacca da
viaggio. Dato che non poteva portarsi dietro tutti i suoi libri, alcuni li aveva messi
in una scatola nascosta sotto le tavole del pavimento. Si mise la sacca in spalla e
uscì nel cortile illuminato dal sole che non poteva vedere.
I componenti delle tribù erano tornati ai loro rispettivi campi. Sentì dei passi
che si stavano avvicinando. «Stai andando via?» gli chiese Talismano.
«Esatto. Mi ritirerò in una caverna che si trova a qualche chilometro a sud di
qua. Mi reco spesso in quel luogo quando ho bisogno di meditare.»
«Tu hai visto il futuro, vecchio. Possiamo batterli?»
«Certi nemici non possono mai essere sconfitti,» affermò il prete e senza
aggiungere altro si allontanò.
Talismano lo guardò allontanarsi. Zhusai raggiunse il giovane guerriero e gli
fasciò la mano ferita con una pezza di lino. «Hai parlato bene,» si complimentò,
ammirata. Talismano allungò una mano e le accarezzò i capelli scuri.
«Devi andare via da questo luogo.»
«No, io rimarrò qua.»
Talismano la fissò. Pur abbigliata con una semplice tunica di seta bianca era
bellissima. «Quanto vorrei,» disse lui, «che tu fossi stata mia.»
«Io sono tua,»rispose la ragazza. «Ora e sempre.»
«No, non può essere. Tu sei promessa all’Unificatore. All’uomo dagli occhi
viola.»
Lei scosse le spalle. «È Nosta Khan a dirlo, non io. Oggi hai unito cinque tribù
e questo per me è sufficiente, io rimarrò.» Si avvicinò al ragazzo e gli baciò il
palmo della mano.
Quing-chin si avvicinò. «Desideravi vedermi, Talismano?»
Zhusai fece per allontanarsi, ma Talismano le prese la mano, gliela baciò,
quindi si girò e fece cenno a Quing-chin di seguirlo. «Dobbiamo rallentare la loro
avanzata,» gli disse mentre si dirigevano verso il tavolo della colazione.
«Come?»
«Se si trovano ancora a due giorni di cammino da noi, saranno costretti ad
accamparsi per la notte. Prendi dieci uomini ed esplora la zona qua intorno. Poi,
quando si saranno accampati, disperdi il maggior numero di cavalli gothir.»
«Con dieci uomini?»
«Più di dieci uomini sarebbero un intralcio,» affermò Talismano. «Devi seguire
l’esempio di Adrius, ricordi gli studi fatti con Fanlon?»
«Li ricordo,» disse Quing-chin con un sorriso obliquo. «Ma allora non ci
credevo.»
«Rendili veri, amico mio, poiché abbiamo bisogno di tempo.»
Quing-chin si alzò. «Vivo per ubbidire, mio generale,» dichiarò parlando in
gothir e facendo il saluto dei lancieri. Talismano rise.
«Vai adesso e cerca di non morire, ho bisogno di te.»
«Questo è un consiglio che terrò molto a cuore,» promise il guerriero.
Poco dopo Talismano convocò Bartsai. Il capo delle Corna Ricurve si sedette e
si versò una coppa d’acqua. «Parlami degli affioramenti d’acqua che si trovano a
un giorno di cavallo da qua,» disse.
«Ce ne sono tre. Due sono solo piccoli affioramenti. Il terzo potrebbe rifornire
un esercito.»
«Bene. Descrivimelo.»
«Si trova a una ventina di chilometri da qua sulle montagne a est. L’acqua è
fresca e molto profonda e non si è mai prosciugata neanche nelle stagioni più
secche.»
«Quanto è facile da raggiungere?»
Bartsai scrollò le spalle. «Come ti ho detto si trova in alta montagna. L’unico
modo per raggiungerlo è un sentiero che si inerpica su per i passi.»
«I carri possono arrivarci?»
«Sì, ma il sentiero dovrebbe essere ripulito dalle pietre più grosse.»
«Come lo difenderesti?»
«Perché dovrei difenderlo?» replicò Bartsai. «Il nemico sta arrivando qua!»
«Avranno bisogno dell’acqua, Bartsai e noi dobbiamo fare in modo che non la
raggiungano.»
Bartsai sorrise mostrando i denti rotti. «Esatto Talismano. Con cinquanta
uomini potrei difendere quel luogo da qualsiasi esercito.»
«Cinquanta? Impossibile. Scegli venti dei tuoi uomini migliori.»
«Li comanderò io stesso.»
«No, ho bisogno che tu rimanga qua. Mano a mano che i gothir si
avvicineranno altri uomini della tua tribù arriveranno qua e vorranno essere
comandati da te.»
Bartsai annuì. «È vero. Ieri notte ne sono arrivati sette e i miei uomini sono
fuori in cerca di altri.» L’uomo sospirò. «Ho vissuto per quasi cinquant’anni,
Talismano. Ho sempre sognato di combattere i gothir, ma non in questo modo: un
pugno di uomini rinchiusi in un santuario in rovina.»
«Questo è solo l’inizio, Bartsai. Te lo prometto.»

Kzun mise a posto un’altra pietra e fece qualche passo indietro asciugandosi il
sudore dal volto con la mano callosa. Erano tre ore che lui e i suoi uomini
prendevano le pietre dalla torre diroccata e le ammassavano sotto la crepa del muro
ovest creando la piattaforma lunga sei metri e larga tre che Talismano aveva
ordinato loro di approntare. Era un lavoro che spaccava la schiena e alcuni dei suoi
uomini si erano lamentati, ma Kzun aveva ordinato loro di stare zitti, non
sopportava che la sua gente si lagnasse in quel modo di fronte alle altre tribù. Fissò
Talismano che stava parlando con il Corridore del Cielo chiamato Lin-tse. Il
sudore gli colò negli occhi. Odiava il lavoro che gli avevano affidato poiché gli
ricordava i due anni passati nelle miniere d’oro dei gothir al nord. Rabbrividì al
ricordo del giorno in cui l’avevano trascinato con le caviglie incatenate fino
all’entrata della miniera e gli avevano ordinato di scendere. Non gli avevano tolto
le catene e durante la discesa era caduto due volte. Quando finalmente era arrivato
in fondo al pozzo aveva trovato due uomini che reggevano delle torce. Uno dei due
gli aveva dato un pugno sul volto scagliandolo contro il muro. «Questo, scimmia
mangia sterco, per ricordarti che devi ubbidire immediatamente a ogni ordine che
senti. Immediatamente.» Il quindicenne Bartsai si era alzato in piedi barcollando e
aveva fissato l’uomo in volto. In quel momento aveva visto il secondo colpo, ma
non era riuscito a evitarlo e il pugno gli aveva spaccato le labbra e il naso. «E
questo è per ricordarti che non devi mai guardare una guardia negli occhi. Adesso
alzati e vieni con me.»
I due anni che erano seguiti erano stati contrassegnati dalle piaghe alle caviglie
provocate dalle catene, dalle bolle sulla schiena e sul collo e dal bacio della frusta
quando, stanco, non si era mosso alla velocità desiderata dalle guardie. Molti
uomini erano morti intorno a lui. I loro spiriti, spezzati molto prima dei corpi, si
erano arresi all’oscurità. Ogni giorno lui aveva preso a picconate le pareti della
miniera e aveva caricato con la piccola pala la roccia su un carretto condotto da
pony ciechi. E ogni volta che era giunto il momento di dormire, là sotto nessuno
sapeva quando fosse notte o giorno, era caduto a terra esausto dopo aver ricevuto
l’ordine dei sorveglianti e si era addormentato sulla pietra di quella galleria che
sembrava non dovesse finire mai di essere allungata. Le pareti della miniera erano
crollate due volte e avevano ucciso diversi uomini. Il secondo crollo aveva quasi
sepolto Kzun, ma egli era riuscito a uscire da solo dal cumulo di roccia.
Gli schiavi che lavoravano nelle miniere erano criminali gothir. Ladruncoli e
scassinatori nella maggior parte dei casi. I nadir erano conosciuti come i
“prelevati”. Nel caso di Kzun, i soldati gothir erano entrati nel suo villaggio e
avevano arrestato tutti i ragazzi. Ne avevano presi diciassette. Le montagne del
nord erano piene di miniere e Kzun non aveva mai più rivisto i suoi amici.
Un giorno, durante un turno, un operaio che stava preparando dei puntelli in
legno per il soffitto aveva rotto la punta della lima. L’uomo aveva imprecato e si
era avviato lungo la galleria per andare a prendere un attrezzo nuovo. Kzun aveva
preso il frammento di punta. Nei giorni a seguire aveva limato pazientemente gli
anelli che gli bloccavano le caviglie. Le gallerie erano sempre pervase dal rumore:
il frastuono dei fiumi sotterranei, gli operai con in polmoni intasati di polvere che
russavano distesi a terra. Tuttavia, Kzun aveva agito con molta cautela. Finalmente
dopo molti giorni era riuscito a spezzare entrambi gli anelli, poi si era alzato e si
era diretto verso il luogo in cui erano tenuti gli attrezzi. Quello era un punto della
galleria dove c’era meno rumore e i sorveglianti avrebbero sicuramente sentito un
uomo incatenato che si avvicinava, ma Kzun non portava più le catene. Aveva
scelto un piccone dal manico corto e si era diretto verso la stanza in cui stavano le
guardie. Dentro c’erano due uomini intenti a giocare a dadi. Kzun aveva fatto un
profondo respiro, era balzato improvvisamente nella stanza e aveva piantato il
piccone nella schiena del sorvegliante che gli dava le spalle, con tanta violenza che
la punta dell’attrezzo gli era uscita dal petto. Il giovane nadir si era impossessato
immediatamente del coltello del morto ed era saltato addosso al secondo uomo.
Questi aveva cercato di reagire, ma Kzun gli aveva trapassato il collo.
Aveva spogliato il cadavere e si era infilato i suoi vestiti, aveva anche provato
gli stivali, ma vedendo che erano troppo grossi per lui li aveva scagliati via.
Si era avvicinato al pozzo e aveva cominciato a inerpicarsi su per i pioli che
spuntavano dalla roccia. Il cielo sopra di lui era buio e aveva sentito un groppo alla
gola quando dopo due anni aveva rivisto le stelle. Poco prima della fine del pozzo
aveva rallentato e prima di uscire aveva controllato che non ci fosse nessuno in
giro. Dopo essersi allontanato dall’imboccatura del pozzo si era incamminato
lentamente sul terreno aperto evitando l’insieme degli edifici dietro i quali
ammassavano l’oro e le baracche dei soldati. Aveva sentito l’odore dei cavalli e
seguendolo aveva trovato le stalle.
Aveva rubato un bel cavallo e si era allontanato dall’insediamento respirando
l’aria fresca e pulita delle montagne.
Quando era tornato al suo villaggio nessuno l’aveva riconosciuto come il
giovane che era stato preso due anni prima. Aveva perduto i capelli, la pelle era
diventata pallida come quella di un cadavere, i denti della parte destra della bocca
erano marciti ed era diventato magro come un bastone.
I gothir non erano andati a cercarlo. Non prendevano mai le generalità dei
“prelevati” né annotavano mai il nome del campo in cui si erano recati.
Kzun mise sul muro un’altra pietra e arretrò per osservare l’opera. Adesso la
piattaforma era poco più bassa di un metro e venti. Un ragazza bellissima si
avvicinò al suo fianco portando un secchio d’acqua da cui spuntava un mestolo di
rame. Lo salutò con un profondo inchino e gli offrì una piccola sciarpa di lino. «È
per la testa, lord,» gli disse in tono molto formale.
«Grazie,» rispose lui senza sorridere per paura di far vedere i denti rovinati.
«Chi sei?» le chiese mentre si legava la sciarpa sulla testa calva.
«Sono Zhusai, la donna di Talismano.»
«Sei bellissima e molto fortunata.»
La ragazza si inchinò nuovamente quindi passò il secchio agli altri uomini.
«Dimmi una cosa: come mai Talismano sa tutte quelle cose sui gothir?»
«Fu portato da loro quando era un bambino,» rispose Zhusai. «Era un ostaggio
e venne istruito all’Accademia di Bodacas come anche Quing-chin e Lin-tse.»
«Giannizzeri. Capisco. Ne ho sentito parlare.»
«È un grande uomo, lord.»
«Solo un grande uomo si merita una donna come te,» disse. «Ti ringrazio per la
sciarpa.»
Zhusai fece un inchino e si allontanò. Kzun sospirò. Uno dei suoi uomini fece
un commento scurrile e lui si girò a fissarlo. «Di solo un’altra parola, Chisk, e ti
strappo la lingua!»

«Cosa ne pensi degli altri capi?» chiese Talismano.


Lin-tse rifletté qualche momento prima di rispondere. «Il più debole di loro è
Bartsai. È vecchio e non vuole morire. Quingchin è rimasto come me lo ricordavo:
coraggioso e riflessivo. Sono grato a Gargan. Se non stesse marciando contro di
noi con il suo esercito sarei stato costretto a uccidere Quing-chin. La cosa mi
avrebbe segnato l’anima. Kzun? C’è un demone dentro quell’uomo. Non ha il
cervello a posto, Talismano, ma io credo che si farà onore.»
«E cosa mi dici di Lin-tse?»
«È rimasto quello che tu conoscevi. La mia gente mi chiama l’Uomo con Due
Anime. Non credo che sia vero, ma gli anni passati all’Accademia di Bodacas mi
hanno cambiato. Adesso io cerco di fare il nadir. Per Quing-chin è peggio. Ha
ucciso il mio campione e si è rifiutato di strappargli gli occhi. Io non avrei voluto
farlo, Talismano, ma l’avrei desiderato. Capisci?»
«Capisco,» disse Talismano. «Essi ci hanno preso qualcosa, ma anche noi
abbiamo preso qualcosa a loro e quello che abbiamo imparato lo metteremo a
frutto qui.»
«Noi moriremo qui, amico mio,» affermò Lin-tse, con calma. «Ma moriremo
bene.»
«Fratelli fino alla morte,» disse Talismano. «E forse anche oltre. Chi lo sa?»
«Quali ordini hai per me, generale?»
Talismano fissò gli occhi scuri e meditabondi di Lin-tse. «È importante che
iniziamo la nostra impresa con una vittoria, non importa quanto piccola possa
essere. Gargan giungerà con il grosso delle truppe e davanti a lui ci saranno diverse
compagnie di lancieri. Esse saranno le prime a raggiungerci e voglio che tu e i tuoi
Corridori del Cielo le affrontiate. Bartsai mi ha detto che a una ventina di
chilometri a ovest c’è un passo molto stretto. Quando i lancieri lo attraverseranno
attaccateli, ma non entrate nel passo, usate le frecce. Poi dovrete scappare. Avrai
gran parte della giornata di oggi e le prime ore di domani per preparare la sorpresa.
Cerca di portare indietro dei cadaveri se ci riesci.»
Lin-tse annuì. «Stai pensando alla Lunga Ritirata di Fecrem.»
«Esatto. Come ti ho detto la vittoria è importante. La cosa importante,
comunque è che tu non corra dei rischi inutili. Se ci fossero più di tre compagnie
non provare neanche a ingaggiare lo scontro. I tuoi trenta uomini sono
insostituibili.»
Lin-tse si alzò. «Farò del mio meglio, generale.»
«Non ho dubbi a riguardo. Sei una persona che usa il cervello, Lin-tse, ecco
perché ti ho scelto per questa missione.»
Il volto di Lin-tse non mutò d’espressione e senza dire un’altra parola si
allontanò. Gorkai si avvicinò a Talismano. «Quello è un duro,» commentò.
«È di pietra,» concordò Talismano. «Dov’è Zhusai?»
«È andata a pregare nel santuario.»
Talismano la raggiunse e la trovò ferma in piedi vicino al sarcofago in pietra.
La stanza era fresca e all’ombra e il giovane nadir rimase a fissare la ragazza per
qualche attimo. Lei si girò e gli sorrise. «È così tranquillo qua,» disse lei.
«Ti ho vista dare una sciarpa a Kzun. Perché l’hai fatto?»
«È un uomo pericoloso, uno che potrebbe... discutere i tuoi ordini.»
«Il denaro non può comprare quell’uomo però tu ci sei riuscita con un pezzo di
lino. Sei una donna sorprendente, Zhusai.»
«Non c’è nulla che non farei per te, Talismano. Spero che mi perdonerai per
aver agito senza il tuo consenso, ma il tempo è prezioso, vero?»
«Già,» ammise lui affiancandosi alla ragazza. Lei gli prese la mano e se la
premette sul seno.
«Sei mai stato con una donna?» gli chiese.
«No.»
«Allora dobbiamo entrambi scoprire molte cose.» Lei lo avvicinò e gli sfiorò le
labbra con le sue. L’odore dei suoi capelli riempì le narici di Talismano e il sapore
della sua bocca gli infuocò i sensi. Si sentì improvvisamente debole e intontito e si
allontanò dalla donna. «Io ti amo, Talismano,» gli sussurrò lei.
Per qualche secondo lui aveva dimenticato i pericoli che li aspettavano
entrambi, ma quando vi ripensò fu come ricevere un pugno. «Perché adesso?» le
chiese, allontanandola ulteriormente.
«Perché è tutto ciò che ci rimane,» disse lei. Si girò verso il sarcofago e fece
scorrere la mano sulla piastra di metallo. «Oshikai Flagello del Demone, Signore
della Guerra,» lesse ad alta voce. «Era circondato dai nemici quando sposò Shul-
sen. Rimasero insieme per poco tempo: solo quattro anni, ma il loro amore fu
grande. Il nostro lo sarà altrettanto. Lo so. Lo sento. Qua, in questo luogo. E se
moriremo cammineremo mano nella mano attraverso il Vuoto. So anche questo.»
«Non voglio che tu muoia,» disse. «Vorrei non averti mai portato qua.
Veramente.»
«Sono contenta che tu l’abbia fatto. Tu vincerai, Talismano. La tua causa è
giusta. I gothir sono malvagi.»
«È un sentimento toccante, Zhusai. E desidererei che fosse vero. Purtroppo, non
sono sempre i buoni a vincere. Devo andare, poiché ho molte cose da fare.»
«Quando avrai portato a termine tutti i tuoi compiti e la notte ti sembrerà lunga
allora vieni da me, Talismano. Lo farai?»
«Verrò,» promise lui.

Il cielo era coperto da una nuvola nera di avvoltoi e corvi. Druss e Sieben
giunsero su una sporgenza rocciosa che dava su una valle stretta e videro sotto di
loro una quarantina di tende fatte con pelli di capra. C’erano cadaveri ovunque e la
maggior parte era seppellita da una vibrante massa di uccelli, mentre altri erano
fatti oggetto delle attenzioni di alcuni cani del deserto.
«Dolce paradiso,» sussurrò Sieben tirando le redini.
Druss toccò i fianchi della cavalla e cominciò a scendere lungo i fianchi
dell’altura. Sieben, che guidava anche i due pony di riserva, lo seguì. Gli avvoltoi,
troppo pieni di cibo per volare via, allargarono le ali e si allontanarono saltellando
dagli zoccoli dei cavalli. L’odore di morte infastidiva a tal punto le cavalcature che
cercarono di allontanarsi, ma i cavalieri le costrinsero a continuare. In un primo
momento Sieben continuò ad avanzare con lo sguardo fisso in avanti cercando di
non fissare i corpi. C’erano bambini, madri. Alcuni giacevano a terra abbracciati,
altri erano stati uccisi mentre cercavano di scappare. Un cane marrone sbucò da
una tenda, emise un guaito e corse via. Druss tirò le redini.
«Perché ci stiamo fermando?» gli chiese Sieben. Druss smontò e passò al poeta
le redini della cavalla. Tenendo l’ascia in mano il gigantesco drenai si piegò in
avanti ed entrò nella tenda. Sieben, che continuava a rimanere seduto in sella, si
sforzò di guardare. Non era difficile capire cosa fosse successo in quel luogo. Gli
assassini avevano attaccato verso sera quando i fuochi per preparare la cena erano
accesi. I nadir erano scappati in ogni direzione ma erano stati sterminati con
spietata efficienza. Molti del corpi erano stati mutilati, decapitati o smembrati.
Druss emerse dalla tenda, si avvicinò ai cavalli e prese una borraccia d’acqua.
«C’è una donna là dentro,» disse. «È ancora viva, ma non ne avrà per molto. Ha un
bambino.»
Sieben smontò e impastoiò i cavalli a un palo della tenda con dei lacci di pelle
di capra. Le cavalcature gothir erano nervose e ombrose per via della presenza dei
cani e degli avvoltoi, mentre i pony nadir sembravano notarli appena. Finita
l’operazione il poeta seguì Druss. Dentro la tenda c’era una donna nuda con una
tremenda ferita alla pancia e al fianco. Aveva gli occhi aperti, ma la mascella
penzolava inerte. Druss le alzò la testa e le avvicinò la borraccia alla bocca. Sieben
guardò la ferita. Era letale: la lama era penetrata in profondità. Il bambino, in parte
nascosto sotto una pila di pellicce, piangeva sommessamente. Druss lo prese in
braccio e lo avvicinò al seno della donna. Il neonato cominciò a poppare molto
lentamente, in principio. La madre emise un lamento quindi lo cinse con un braccio
tirandolo più vicino a sé.
«Cosa possiamo fare?» chiese Sieben. Druss lo fissò con uno sguardo freddo,
senza dire nulla. Quando Sieben allungò una mano per accarezzare il volto della
donna lei lo stava fissando con gli occhi spalancati. Era morta, ma il bambino
continuava a nutrirsi.
«Questa l’hanno risparmiata un po’ più a lungo degli altri solo per violentarla,»
disse Druss. «Che branco di cani bastardi!»
«Che possano marcire nei Sette Inferni,» imprecò Sieben. Il bambino smise di
poppare e Druss lo prese in braccio tenendogli la testa alta e accarezzandogli la
schiena. Gli occhi di Sieben furono attratti dal capezzolo della donna da cui colava
ancora del latte misto a sangue.
«Perché, Druss?» gli chiese.
«Perché cosa?»
«Perché l’hanno fatto? Qual era il loro scopo?»
«Non devi chiederlo a me, poeta. Ho partecipato ad altri saccheggi di città e ho
visto dei brav’uomini diventare degli esseri malvagi in preda all’ira, alla lussuria e
alla paura. Non so perché l’hanno fatto. I soldati che l’hanno stuprata torneranno a
casa dalle loro mogli e si comporteranno come dei bravi padri e mariti. Per me
rimane sempre un mistero.»
Avvolse il corpo nudo del bambino in una coperta e lo portò fuori dalla tenda.
Sieben lo seguì. «Pensi che crederanno di aver conseguito una vittoria?» domandò
Sieben. «Comporranno una canzone per celebrare questa scorreria?»
«Speriamo che ci siano delle donne con del latte al santuario,» affermò Druss.
Sieben liberò i cavalli e trattenne quello di Druss per permettergli di salire.
«Si è nutrito di sangue e latte,» affermò Sieben. «Ha bevuto da un morto.»
«Ma è vivo,» gli fece notare Druss. «Respira.»
I due ripresero il loro viaggio. Il gigantesco guerriero coprì la testa del bambino
con un lembo della coperta per riparlo dal sole. Il neonato stava dormendo. Druss
poteva sentire la freschezza di una nuova vita e il cremoso aroma del latte. Pensò a
Rowena e al suo desiderio di poter avere un bambino.
«Io farò il contadino,» disse improvvisamente. «Quando tornerò a casa non
andrò più via. Basta con le guerre. Basta con gli avvoltoi.»
«Credi veramente a quello che stai dicendo, amico mio?» gli chiese Sieben.
Druss avvertì una fitta al cuore. «No,» rispose.
Cavalcarono sulla steppa infuocata per un’altra ora quindi cambiarono i cavalli.
Il bambino si svegliò e cominciò a piangere. Druss cercò di calmarlo poi Sieben lo
prese in braccio. «Quanto pensi che abbia?» chiese il poeta.
«Forse un mese. Due, non lo so.»
Sieben imprecò e Druss rise. «Ti ha benedetto, vero?»
«Durante la mia breve ma intesa vita ho imparato molte cose Druss, vecchio
cavallo,» affermò allontanando il bambino dal corpo. «Ma non ho mai pensato che
mi sarei preoccupato se l’urina macchi la seta. Pensi che farà marcire il tessuto?»
«Possiamo solo sperare di no.»
«Come si fa a far smettere di piangere i bambini?»
«Raccontagli una delle tue storie. Io mi addormento sempre quando le sento.»
Sieben prese a cullare il bambino e cominciò a cantare la canzone della
principessa Ulastay: la donna che desiderava portare le stelle nei capelli. Il
bambino nadir gli appoggiò la testa contro il petto e si addormentò. Verso il
tramonto videro uno nuvola di polvere davanti a loro e si nascosero in un
avvallamento del terreno. Due compagnie di lancieri, dirette a ovest, passarono
poco sopra le loro teste con le armature e gli elmi che brillavano nella luce del sole
morente. Sieben sentiva il cuore che gli batteva all’impazzata. Il bambino mugolò
tra le sue braccia, ma il suono era troppo debole per essere sentito in mezzo al
frastuono provocato dagli zoccoli.
Una volta che furono passati, i due si diressero a nord-ovest.
A mano a mano che il sole calava l’aria divenne più fredda e Sieben sentì il
calore del bambino tra le sue braccia. «Credo che abbia la febbre,» azzardò.
«Tutti i bambini sono caldi,» rispose Druss.
«Davvero? Come mai?»
«Lo sono e basta. Per tutti i paradisi, poeta, possibile che tu abbia sempre una
domanda pronta per tutto?»
«Sono una persona curiosa.»
«Allora cerca di trovare un modo per nutrire il bambino quando si sveglierà. Mi
sembra un neonato vivace. Credo che il suo pianto possa essere udito molto
lontano, ed è piuttosto improbabile che incontriamo degli amici da queste parti.»
«Il solito Druss. Cerca sempre di finire un discorso con una nota confortante.»

Gargan, lord di Larness, aspettò pazientemente che il suo attendente, Bren, gli
slacciasse le cinghie del pesante piastrone e glielo togliesse. Era un po’ ingrassato
dall’ultima volta che l’aveva indossato e il levarlo gli provocò un sospiro di
piacere. Aveva ordinato una nuova armatura il mese prima, ma non era ancora
pronta quando Garen-Tsen gli aveva parlato dei gioielli e della necessità di
sbrigarsi.
Bren tolse le piastre che gli proteggevano le cosce e gli schinieri. Gargan si
sedette su una sedia di tela e allungò le gambe. La nazione sta scivolando in un
baratro, pensò amaramente. La pazzia dell’imperatore cresceva di giorno in giorno
e le due fazioni incombevano nell’ombra. Erano sull’orlo di una guerra civile. Che
follia!
E noi siamo in mezzo, realizzò. Gioielli magici! L’unica magia che contava era
quella contenuta nelle spade della guardia reale e nelle punte lucenti delle lance dei
lancieri reali.
Ciò di cui avevano bisogno in quel momento era una minaccia esterna al fine di
riunire la nazione. Una guerra contro le tribù nadir sarebbe stata perfetta. Avrebbe
fatto guadagnare loro tempo. L’imperatore doveva sparire. La domanda era come,
quando e chi l’avrebbe sostituito? Fino a quel giorno Gargan avrebbe dovuto
fornire a entrambe le fazioni qualcosa su cui riflettere.
Bren uscì dalla tenda e vi rientrò portando un vassoio su cui erano una brocca
di vino, burro, formaggio e pane. «I capitani desiderano sapere quando li riceverà,
mio lord,» riferì. Gargan lo fissò. Il suo attendente stava diventando vecchio e
stanco.
«In quante campagne mi hai servito?» gli chiese.
«Dodici, mio lord,» rispose Bren, imburrando le tre fette di pane che aveva
tagliato pochi attimi prima.
«Qual è quella che ricordi con più affetto?»
Il vecchio smise di spalmare. «Gassima,» affermò.
Bren versò del vino in una coppa d’argento, vi aggiunse dell’acqua e la passò al
suo generale. Gargan sorseggiò la bevanda. Gassima! L’ultima guerra civile, circa
venticinque anni prima. In svantaggio, Gargan aveva guidato le sue forze in una
ritirata attraverso le paludi quindi si era girato e si era lanciato in un attacco che
avrebbe dovuto essere suicida. In groppa al suo gigantesco stallone, Skall, egli era
penetrato con la furia di un uragano nel campo del nemico e aveva ucciso in duello
Barin. Quel giorno la guerra civile era finita. Gargan svuotò la coppa e la passò a
Bren che la riempì nuovamente.
«Per Missael, quello sì che era un cavallo. Non aveva paura di nulla. Si sarebbe
lanciato alla carica anche attraverso le fiamme dell’inferno.»
«Un destriero possente,» concordò Bren.
«Non ne ho mai visto un altro simile a lui. Hai visto lo stallone che cavalco
adesso? È un discendente di Skall, suo nipote, ma non ha la stessa fibra. Skall era il
principe dei cavalli.» Gargan rise. «È morto vecchio, all’età di trentadue anni e
quel giorno montò tre cavalle. Io ho pianto solo due volte nella mia vita, Bren. La
prima fu il giorno in cui morì Skall.»
«Sì, mio lord. Cosa devo dire ai capitani?»
«Dì loro di presentarsi a rapporto tra un’ora. Devo leggere delle lettere.»
«Sì, mio signore.» Lasciata la cena sul tavolo, Bren uscì dalla tenda. Gargan si
alzò e si versò una terza coppa di vino, ma questa volta non l’annacquò. I
portaordini avevano raggiunto l’esercito al tramonto e gli avevano consegnato tre
lettere. Aprì la prima missiva che portava il sigillo di Garen-Tsen e cercò di
decifrare la scrittura sottile del ministro. Prese la lanterna dal palo e l’appoggiò
sulla scrivania. Non aveva più la vista di un tempo. Niente è più come un tempo,
pensò.
La lettera parlava del funerale della regina e di come GarenTsen fosse riuscito a
far uscire dalla città il re senza dare troppo nell’occhio e a portarlo nella residenza
invernale di Siccus. Le opposte fazioni stavano cominciando a parlare chiaramente
durante le sedute del senato facendo discorsi sulla “necessità di cambiamento”.
Garen-Tsen gli chiedeva di porre fine velocemente alla campagna e di tornare nella
capitale.
La seconda lettera era di sua moglie. Diede un’occhiata alle quattro pagine che
contenevano notizie di poco interesse. Più che altro gli riferiva dei piccoli incidenti
che si erano verificati nella loro tenuta. Una cameriera si era rotta un braccio
cadendo dalla sedia su cui era salita in piedi per lavare le finestre, un puledro era
stato venduto per mille raq e tre schiavi erano scappati dalla fattoria nord, ma erano
stati ripresi in un bordello poco lontano.
L’ultima lettera era di sua figlia, Mirkel. La ragazza gli annunciava la nascita di
un nipotino, che avrebbe chiamato Argo e sperava che il nonno lo avrebbe visto
presto.
Gli occhi del vecchio soldato si velarono di lacrime.
Argo. L’aver trovato il corpo mutilato del figlio era stata come una coltellata al
cuore e Gargan ne sentiva ancora il dolore. Aveva sempre saputo che permettendo
alla feccia nadir di entrare nell’accademia prima o poi si sarebbe verificato un
disastro, ma non gli era mai passato per la testa che la cosa avesse potuto portare
alla morte del figlio. E che morte!
La rabbia e il dolore lo investirono.
Il vecchio imperatore era stato un uomo saggio che aveva governato bene, ma
durante i suoi ultimi anni di vita era sembrato che una crescente confusione ne
avesse ammorbidito la determinazione. Era stato per quell’uomo che Gargan aveva
combattuto a Gassima. Sono io che ti ho dato quella corona. Io te l’ho messa in
testa e mio figlio è morto a causa di tutto ciò.
Giannizzeri nadir! Un’idea folle che avrebbe portato solo rovina. Perché quel
vecchio non era riuscito a capirne la stupidità? La nazione Nadir era composta da
un numero indefinito, ma altissimo, di individui che sognavano costantemente
l’avvento di un Unificatore che li avrebbe riuniti in un unico invincibile esercito.
Tuttavia l’imperatore aveva voluto che i figli dei capi tribù venissero educati alle
strategie di guerra dei gothir. Gargan ci aveva creduto a stento quando aveva
sentito quella notizia.
Il giorno in cui Okai si era diplomato con lode era stato uno dei più brutti della
sua vita. Ma la cosa peggiore era che quell’uomo era stato l’assassino di suo figlio.
Era stato così vicino a lui in quel momento: avrebbe potuto strangolarlo.
Gargan allungò una mano verso la caraffa ed esitò. I capitani sarebbero arrivati
presto e le bevande alcoliche non aiutavano a pianificare chiaramente.
Si alzò dalla sedia, si stropicciò gli occhi e uscì dalla tenda. Le due guardie
scattarono sull’attenti. Gargan fissò il campo godendosi con piacere la vista delle
tende ordinate, le cinque file di picchetti. Il terreno intorno ai fuochi da campo era
stato ripulito e inumidito di modo che le braci che fossero fuoriuscite dalle fiamme
non avrebbero appiccato il fuoco all’erba secca della steppa.
Gargan continuò a camminare ispezionando il campo in cerca di eventuali
mancanze, ma non ne trovò praticamente nessuna. Solo le latrine da campo erano
state scavate in un punto in cui una volta levatosi il vento l’odore degli escrementi
avrebbe pervaso il campo. Annotò mentalmente il problema. Due teste nadir erano
state legate a un palo fuori da una tenda. Un gruppo di lancieri era seduto attorno a
un fuoco nelle vicinanze dei due trofei. Gargan si avvicinò ai soldati con passo
deciso e quando questi lo videro scattarono immediatamente in piedi salutandolo.
«Seppellitele,» ordinò loro. «Attraggono le mosche e le zanzare.»
«Sì, signore!» risposero in coro.
Gargan tornò alla sua tenda, si sedette dietro il tavolo da campo, prese la penna
e cominciò a scrivere una lettera indirizzata alla figlia in cui si congratulava della
nascita del bambino. «Abbi cura del piccolo Argo», gli scrisse. «Non farlo allattare
dalle balie. Dal latte materno un bambino non ricava solo nutrimento, ma riceve
anche il coraggio e lo spirito della genitrice. Non si dovrebbe mai permettere a un
bambino di nobili natali di succhiare il latte da un seno qualunque. Tale contatto
indebolisce il carattere.»

Muovendosi con molta cautela e nascondendosi negli avvallamenti del terreno,


Quing-chin e i suoi nove uomini riuscirono a evitare le pattuglie dell’esercito
gothir. Quando scese la notte i dieci nadir si trovavano a sud dell’accampamento
nemico. Shida si avvicinò e si inginocchiò di fianco a Quing-chin che stava
osservando il campo da dietro un gruppo di cespugli.
La brezza notturna si stava alzando soffiando da sud-est. Shida toccò
leggermente la spalla del suo capo. «È fatta, fratello.»
Quing-chin si accosciò. «Bene.»
«Quando?» chiese Shi-da. L’espressione del suo giovane volto tradiva la voglia
di entrare in azione.
«Non ancora. Aspetteremo che si sistemino per la notte.»
«Parlami di Talismano,» gli disse Shi-da, sedendosi al suo fianco. «Perché
avete scelto lui? Non è forte come te.»
«La forza del fisico non conta nulla in un generale,» affermò Quing-chin. «Egli
ha un grande cuore e la sua mente è affilata quanto una daga.»
«Anche tu hai un grande cuore, fratello.»
Quing-chin sorrise. L’adorazione che quel ragazzo provava per lui era sia
irritazione che piacere. «Io sono il falco, egli è l’aquila. Io sono il lupo, egli è la
tigre. Un giorno Talismano sarà il condottiero dei nadir. Guiderà gli eserciti,
fratellino. Egli è molto portato per...» Esitò un attimo poiché non esisteva una pa-
rola in nadir con cui tradurre il termine “logistica”. «È molto abile a fare i piani,»
disse infine. «Quando un esercito è in marcia è necessario che venga rifornito
costantemente. Ha bisogno di cibo, acqua e cosa più importante di informazioni. Ci
vuole un uomo molto particolare per considerare tutte le eventualità e Talismano è
uno di questi.»
«Eravate in accademia insieme?»
«Sì, e lui si è diplomato con lode, battendo tutti gli altri studenti.»
«Ha combattuto contro tutti?»
«In un certo senso.» Dietro di loro un pony emise un nitrito. «Torna indietro,»
gli ordinò, «e di a Ling che se non controlla meglio i pony lo manderò indietro
colmo di disonore.»
Appena il ragazzo si allontanò Quing-chin si sedette e aspettò. Fanlon gli aveva
sempre detto che il più grande dono di un capitano era la pazienza: doveva sapere
quando colpire e avere la forza di aspettare il momento giusto.
Appena l’aria si fosse rinfrescata il vento sarebbe aumentato d’intensità come
anche l’umidità. Quing-chin fissò il campo nemico e sentì la rabbia crescere in lui.
Non avevano eretto nessuna difesa come era richiesto quando ci si trovava in
territorio nemico. Non c’erano fortificazioni lungo il perimetro. Si erano accampati
secondo le direttive in uso in tempo di pace: cinque linee di picchetti a cui erano
impastoiati duecento cavalli per fila, le tende disposte in quadrati. Come erano
arroganti questi gajin. Quanto bene avevano capito la mentalità dei nadir.
Tre esploratori gothir arrivarono al galoppo da est. Quing-chin si acquattò sotto
la cresta del suo nascondiglio finché non furono passati. I soldati cavalcavano
parlando e ridendo. Domani non avrebbero riso quando la frusta gli avrebbe
sferzato la schiena.
Quing-chin tornò indietro con molta cautela e raggiunse i suoi uomini. Un’esca
per il fuoco e dei cespugli erano stati legati a una rete di spago, legata a una lunga
corda. «È il momento,» disse.
Shi-da si fece avanti. «Posso cavalcare con il fuoco?» gli chiese.
«No.» Il ragazzo rimase molto deluso, ma Quing-chin lo superò e si fermò
davanti a un basso guerriero dalle gambe curve. «Tu avrai questo onore, Nien,»
disse. «Ricorda, cavalca verso sud per quasi un chilometro prima di mollare la
corda. Non farlo troppo rapidamente, poi torna indietro per la stessa strada.»
«Sarà fatto,» gli assicurò l’uomo, quindi montò velocemente in sella e si fermò
sulla cresta dell’avvallamento. Quing-chin e altri due uomini, che nel frattempo
erano scesi da cavallo, appiccarono fuoco all’esca dietro il cavallo di Nien. Le
fiamme fecero capolino quindi divamparono.
Nien spronò il suo cavallo che si incamminò al piccolo trotto tra l’erba secca
della steppa. Ben presto dietro di lui cominciò ad alzarsi un fumo nero e oleoso. Il
vento alimentò la fiamma e in poco tempo un muro di fuoco cominciò ad
avvicinarsi rombando al campo Gothir.

«Posso chiedere, signore, lo scopo della nostra missione?» chiese Premian


quando si trovò dentro la tenda di Gargan insieme agli altri dieci ufficiali superiori.
«Certo,» rispose il generale. «I nostri servizi segreti ci hanno rivelato che i
nadir stanno preparando una rivolta ed è nostro dovere stroncarla sul nascere. Sono
stati fatti diversi rapporti che una volta comparati hanno messo in luce che le tribù
del clan delle Corna Ricurve si stanno radunando per organizzare delle scorrerie
nelle terre intorno Gulgothir. Dobbiamo distruggere questa tribù, servirà da
esempio per gli altri capi. Prima di tutto distruggeremo il santuario di Oshikai. Le
ossa del loro eroe verranno ridotte in polvere e sparpagliate nelle steppe.»
Marlhan prese la parola. «Ma, signore, il santuario è un luogo sacro per tutte le
tribù. I capi non vedranno il nostro atto come una provocazione?»
«Proprio così,» ringhiò Gargan. «Facciamo in modo che sappiano una volta per
tutte che essi sono una razza di schiavi. Se solo avessi potuto portare una armata di
quarantamila soldati nelle steppe, per Shemak, li avrei massacrati tutti quanti!»
Premian fu tentato di parlare ancora, ma Gargan aveva il volto rosso, segno
evidente che aveva bevuto e quando era in quello stato perdeva facilmente la
pazienza. Il generale si era sporto sopra la scrivania con le corte ma robuste braccia
appoggiate sul piano e gli occhi che riflettevano la luce della lanterna. «Qualcun
altro ha dei problemi con questa missione?»
Gli altri ufficiali scossero la teste. Gargan si raddrizzò e uscì da dietro la
scrivania incombendo su Premian. «E tu? Se ben ricordo avevi un debole per
questa feccia.»
«Io sono un soldato, signore. È mio dovere eseguire gli ordini impartiti da un
ufficiale superiore.»
«Ma tu non sei d’accordo, vero?» ringhiò Gargan, avvicinandosi così tanto al
volto di Premian che questi poté sentire il puzzo del vino nell’alito del generale.
«Non sta a me discutere i suoi ordini, signore.»
«Non sta a me,» lo scimmiottò Gargan. «No, signore, non sta a te. Sai quanti
nadir ci sono?»
«No, signore.»
«No, signore. Neanch’io lo so, ragazzo. Né nessun altro uomo, ma il loro
numero è infinito. Puoi immaginarti cosa succederebbe se essi si unissero sotto la
guida di un solo capo? Ci passerebbero sopra come un’onda di marea.» Sbatté le
palpebre e tornò a sedersi sulla sedia di tela che scricchiolò sotto il suo peso.
«Come un’onda di marea,» ripeté mugugnando. Fece un profondo respiro e cercò
di riprendere il controllo e annullare l’effetto del vino. «Devono essere umiliati.
Distrutti. Demoralizzati.»
Fuori dalla tenda cominciò un trambusto e Premian udì gli uomini urlare. Uscì
insieme agli altri ufficiali. Un muro di fiamme stava illuminando il cielo notturno,
il fumo aveva invaso il campo e i cavalli cominciarono a nitrire dalla paura.
Premian fece correre lo sguardo per l’accampamento. Il fuoco l’avrebbe investito
in pieno. «I carri con l’acqua!» urlò. «Attaccate i carri!» Premian cominciò a
correre verso il punto in cui i venti carri erano stati sistemati in quadrato. Ognuno
di essi portava sedici barili. Un uomo gli corse vicino in preda al panico e Premian
lo afferrò per una spalla. «Vai a prendere i cavalli per spostare i carri,» gli ordinò
in tono autoritario.
«Sì, signore,» replicò l’uomo che salutò e si allontanò. Premian vide un gruppo
di soldati che stavano cercando di raccogliere i propri effetti personali da una
tenda. «Lasciateli,» gli urlò. «Se i carri vengono distrutti moriremo tutti. Voi tre
andate ai picchetti e prendete i cavalli. Gli altri comincino a spingere i carri lontano
dal fuoco e a prepararli.»
Le fiamme stavano lambendo il campo. Centinaia di uomini stavano cercando
di fermare il fuoco battendolo con coperte e mantelli, ma Premian capì subito che
era inutile. I soldati tornarono indietro portando i cavalli spaventati. Una tenda
prese fuoco. Il primo carro venne attaccato, un soldato saltò a cassetta, spronò i
cavalli e il carro balzò in avanti.
Un secondo carro venne spostato, poi un terzo. Altri uomini giunsero in loro
aiuto. Premian corse alla linea di picchetti più vicina. «Taglia le corde e libera i
cavalli,» ordinò all’uomo che li sorvegliava. «Li riprenderemo domani.»
«Sì, signore,» rispose l’uomo e tagliò la corda. Premian afferrò le redini di un
cavallo e gli balzò sulla groppa senza curarsi di sellarlo. La bestia terrorizzata si
impennò, ma il giovane ufficiale, che era un cavaliere esperto, si inclinò in avanti e
cominciò a darle delle pacche leggere sul lungo collo.
«Coraggio bellezza,» gli disse. Tornato verso i carri vide che altri sei erano stati
danneggiati e che li si stavano spostando. Altre tende presero fuoco e l’aria si
riempì di cenere incandescente. Alla sua sinistra un uomo fu avvolto dalle fiamme
e cominciò a urlare. Alcuni soldati lo buttarono a terra e lo coprirono con le coperte
per spegnere il fuoco. Il calore era intenso ed era difficile respirare. Le fiamme
erano vicinissime ai carri. Altri due erano stati attaccati e portati via.
«Basta!» urlò Premian, rivolgendosi ai soldati. «Salvatevi!»
Gli uomini montarono sugli ultimi cavalli e galopparono via dal campo.
Premian si girò e vide altri soldati che correvano per salvarsi. Alcuni di essi
inciamparono, caddero e furono avvolti dalle fiamme. Girò il cavallo e vide Gargan
camminare tra il fumo. Il generale sembrava stupefatto e perduto. «Bren!» stava
urlando. «Bren!»
Premian cercò di dirigersi verso l’ufficiale, ma la bestia si rifiutò di avvicinarsi
ulteriormente al fuoco. Il giovane capitano si tolse la maglia, l’avvolse intorno agli
occhi del cavallo, quindi gli toccò i fianchi con i talloni e si avvicinò a Gargan.
«Salga dietro di me, signore!»
«Non posso abbandonare Bren! Dov’è?»
«Può darsi che sia già fuggito. Se rimaniamo ancora un po’ saremo tagliati
fuori!»
Gargan imprecò, afferrò la mano tesa di Premian e balzò in groppa con l’abilità
del cavaliere consumato. Il capitano spronò il cavallo al galoppo e aggirò il muro
di fiamme che avanzava verso nord-est. Il calore stava aumentando molto e
Premian riusciva a vedere a malapena attraverso il fumo, mentre la bestia
galoppava a rotta di collo.
Quando finalmente riuscì ad allontanarsi dal fuoco, Premian arrestò il cavallo,
scese e osservò il campo che bruciava.
Gargan scese a sua volta e si mise al suo fianco. «Ti sei comportato bene,
ragazzo,» gli disse appoggiandogli una delle sue grosse mani sulle spalle.
«Grazie, signore. Credo che siamo riusciti a salvare gran parte dei carri
dell’acqua.»
I fianchi del cavallo erano bruciati e coperti di vesciche. Premian lo guidò a est
dove la maggior parte dei soldati si era riunita.
Lentamente, mentre il fuoco scompariva in lontananza, gli uomini
cominciarono a tornare al campo e a cercare tra le rovine. Entro l’alba tutti i corpi
dei ventisei soldati e dei dodici cavalli erano stati recuperati. Tutte le tende erano
state distrutte, ma la maggior parte delle provviste si era salvata. Il fuoco era passa-
to troppo rapidamente nel campo per bruciare i sacchi di farina, sale, avena e carne
secca. Dei nove carri dell’acqua lasciati indietro, sei avevano preso fuoco ed erano
inutilizzabili. Tuttavia la maggior parte dei barili che contenevano l’acqua si erano
salvati. Solo tre si erano spaccati.
Appena l’alba illuminò il campo, Gargan lo ispezionò. «Il fuoco è stato
appiccato da sud,» disse a Premian. «Trovate i nomi delle sentinelle che la scorsa
notte dovevano pattugliare quella zona. Trenta frustate per uomo.»
«Sì, signore.»
«Abbiamo subito meno perdite di quelle che ci saremmo aspettati,» affermò il
generale.
«Sì, signore. Però più di mille frecce e circa ottanta lance sono andate bruciate.
Mi dispiace, ma il suo attendente è stato trovato morto dietro una tenda.»
«Bren era un brav’uomo. Mi ha servito bene. Lo esentai dagli incarichi
operativi quando un reumatismo lo colpì al braccio con il quale maneggiava la
spada. Brav’uomo! La sua morte verrà ripagata con cento nadir uccisi.»
«Abbiamo perso anche sei carri per l’acqua, signore. Con il suo permesso
apporterò le modifiche necessarie alla razione giornaliera e sospenderò l’ordine per
i lancieri di radersi ogni giorno.»
Gargan annuì. «Non riprenderemo i cavalli,» disse. «Quelli più giovani
torneranno a Gulgothir.»
«Temo che abbia ragione, signore,» concordò Premian.
«Bene. Qualcuno dei nostri lancieri dovrà essere passato alla fanteria; gli
servirà da lezione per il futuro. Così impareranno ad avere cura dei loro cavalli.»
Gargan si schiarì la gola e sputò. «Manda quattro compagnie attraverso il passo.
Voglio dei rapporti sui movimenti dei nadir e dei prigionieri. L’attacco della scorsa
notte è stato ben eseguito: mi ricorda la strategia di Adrius durante la campagna
invernale, quando usò il fuoco per rallentare l’avanzata dei suoi nemici.»
Premian rimase zitto per un attimo, ma vide che Gargan lo stava fissando in
attesa di risposta. «Okai era una Testa di Lupo, signore. Non un Corna Ricurve.
Non credo che nessuno di quella tribù sia mai stato un giannizzero.»
«Tu non conosci le usanze dei nadir, Premian. Le tribù che sorvegliano il
santuario sono quattro. Forse lui è con loro. Lo spero. Darei il mio braccio sinistro
per averlo in mio potere.»

La luna brillava alta sopra la Valle delle lacrime di Shul-sen e Talismano, pur
essendo stanco morto, si incamminò lentamente verso le mura, facendo attenzione
a non pestare i corpi dei suoi compagni che dormivano a terra. Aveva gli occhi
stanchi e il suo corpo gli doleva a causa di una fatica a cui non era abituato. Salì i
gradini che portavano ai camminamenti e fece qualche passo sulla nuova
piattaforma di legno che scricchiolò sotto i suoi piedi. Non c’erano chiodi e le assi
erano state legate, ma comunque era già abbastanza solida ed entro la fine del
giorno dopo Bartsai e i suoi uomini l’avrebbero resa ancora più solida. La
piattaforma da combattimento costruita da Kzun e i suoi compagni era quasi finita.
Kzun aveva lavorato bene, senza mai riposarsi, ma quell’uomo preoccupava
Talismano. Spesso durante il giorno egli si era allontanato dal santuario e si era
fermato nella steppa. In quel momento non stava dormendo con i suoi uomini, ma
si era sistemato nel punto in cui fino al giorno prima era sorto il campo dei Lupi
Solitari.
Gorkai lo raggiunse. Seguendo le istruzioni di Talismano aveva lavorato tutto il
giorno a fianco di Kzun e dei suoi uomini. «Cosa hai scoperto?» gli chiese
Talismano, tenendo la voce bassa.
«È un personaggio strano,» affermò Gorkai. «Non dorme mai dentro la sua
tenda, prenda la coperta e la distende sotto le stelle. Non ha mai preso una moglie.
Quando si trova nelle terre della sua tribù vive da solo. Non ha neanche un fratello
di spada.»
«Perché gli è stato dato il comando delle Guardie della Tomba?» chiese
Talismano.
«È un combattente feroce. Ha sostenuto undici duelli e non ha subito neanche
un graffio. Tutti i suoi nemici sono morti. I suoi uomini lo odiano, ma lo
rispettano.»
«Tu cosa pensi di lui?»
Gorkai scosse le spalle. «Non mi piace, Talismano, ma se dovessi trovarmi
davanti un mucchio di nemici io vorrei uno come lui al mio fianco.» Talismano si
sedette sul parapetto del camminamento e Gorkai lo fissò da vicino. «Dovresti
dormire.»
«Non ancora. Dov’è Nosta Khan?»
«Nel santuario. Sta lanciando degli incantesimi,» disse Gorkai, «ma non ha
ancora trovato nulla. Poco fa l’ho sentito imprecare.»
Gorkai fissò le mura. Quando le aveva viste per la prima volta gli erano
sembrate piccole, ma ora quei sessanta passi per lato gli sembravano ridicolmente
lunghi. «Possiamo tenere questo posto?» gli chiese improvvisamente.
«Per un po’,» rispose Talismano. «Molto dipende da quante scale avranno i
nostri nemici. Se saranno ben equipaggiati ci spazzeranno via senza neanche
vederci.»
«Che siano mille volte maledetti,» sibilò Gorkai.
Talismano rise. «Non avranno molte scale. Non si aspettano di doverci
assediare e qua non ci sono alberi da abbattere per costruirle. Siamo circa in
duecento, disporrò cinquanta uomini per lato nel caso attaccassero da tutte le
direzioni contemporaneamente. Li tratterremo, Gorkai, almeno per un po’ di
giorni.»
«E poi cosa succederà?»
«Vivremo o moriremo,» rispose Talismano, scrollando stancamente le spalle.
In lontananza, verso sud est, nel cielo cominciò a brillare una luce tremolante.
«Cos’è?» chiese Gorkai.
«Con un po’ di fortuna è il campo nemico che sta bruciando,» affermò
Talismano, torvo. «Non li fermerà a lungo, ma gli farà perdere un po’ di baldanza.»
«Spero che ne muoiano molti.»
«Perché sei rimasto?» chiese Talismano.
Gorkai sembrò meravigliato. «Cosa vuoi dire? In quale altro posto sarei potuto
andare? Io ora appartengo alle Teste di Lupo, Talismano. Tu sei il mio capo.»
«Potrei averti condotto sul sentiero del non ritorno, Gorkai.»
«Tutti i sentieri portano alla morte, Talismano. Ma qua sono di nuovo con gli
dèi della pietra e dell’acqua. Sono di nuovo un nadir e questa è l’unica cosa
importante.»
«Infatti. E lascia che ti dica amico mio, che la cosa avrà ancora più valore negli
anni a venire. Quando l’Unificatore guiderà il suo esercito, il mondo tremerà al
suono del nome nadir.»
«Questo è un bel pensiero con il quale andare a dormire,» disse Gorkai con un
sorriso.
Proprio in quel momento entrambi gli uomini videro la figura di Zhusai
emergere dall’edificio in cui dormiva. Era vestita con un lunga camicia di lino e
camminava lentamente, con aria trasognata, verso i cancelli. Talismano e Gorkai
corsero giù dai camminamenti e la raggiunsero quando ormai era giunta nella
steppa. Talismano la prese gentilmente per un braccio. La ragazza aveva gli occhi
aperti e fissi. «Dov’è il mio lord?» chiese.
«Zhusai? Cosa c’è che non va?» sussurrò Talismano.
«Mi sono perduta,» disse. «Perché il mio spirito è incatenato nell’Oscurità?»
Una lacrima si formò negli occhi e scese lungo la guancia. Talismano la prese tra le
braccia e le baciò la fronte.
«Chi sta parlando?» chiese Gorkai, prendendo la mano di Zhusai.
«Tu conosci il mio lord?» gli chiese lei.
«Chi sei?» chiese Gorkai. Talismano lasciò la presa e si girò verso il guerriero
che gli fece cenno di stare zitto e si parò di fronte alla donna. «Dimmi come ti
chiami,» le disse.
«Io sono Shul-sen, moglie di Oshikai. Mi puoi aiutare?» Gorkai le prese la
mano e gliela baciò. «Di cosa hai bisogno, mia signora?»
«Dove è il mio lord?»
«Egli è...» Gorkai rimase zitto e fissò Talismano.
«Egli non è qua,» concluse il giovane guerriero. «Ti ricordi come sei arrivata?»
«Ero cieca,» spiegò, «ma ora posso vedere, sentire e parlare.» Si guardò
lentamente intorno. «Penso di conoscere questa vallata. Ho cercato di abbandonare
l’Oscurità, ma là è pieno di demoni. I miei incantesimi non hanno più effetto. Il
mio potere è scomparso e io non posso andare via.»
«Tuttavia ci sei riuscita,» disse Gorkai. «Tu sei qua.»
«Non capisco,» disse lei. «Sto sognando? Qualcuno mi ha chiamato e mi sono
svegliata qua. Questi non sono i miei vestiti. E dove è il mio lon-tsia? Dove sono i
miei anelli?»
Improvvisamente arretrò barcollando come se fosse stata colpita da qualcosa.
«No!» urlò. «Mi sta trascinando indietro. Aiutami! Non posso più sopportare
l’Oscurità!» Afferrò il braccio di Talismano con un gesto selvaggio, quindi
barcollò e gli cadde addosso. Zhusai sbatté le palpebre e fissò il giovane . «Cosa
sta succedendo, Talismano?» gli chiese.
«Cosa ricordi?»
«Stavo sognando. Ti ricordi? La donna nella grotta? Stava camminando mano
nella mano con un uomo. Poi il sole è scomparso improvvisamente e dei muri di
pietra nera si sono formati intorno a noi... lei. La luce è sparita e l’oscurità è
diventata impenetrabile. L’uomo è scomparso. Io... lei... ha cercato una porta nella
roccia, ma non ne ha trovata nessuna. L’aria si è riempita di sibili e ringhi. Questo
è tutto ciò che ricordo. Sto impazzendo. Talismano?»
«Non credo, mia signora,» disse Gorkai con calma. «Dimmi, hai mai avuto
visioni?»
«No.»
«Hai mai sentito delle voci anche se non c’era nessuno vicino a te?»
«No. Cosa vuoi dire?»
«Credo che in qualche modo lo spirito di Shul-sen sia stato attratto da te. Non
so perché, ma so che non sei pazza. Io ho visto degli spiriti e ho parlato con loro.
Lo stesso ha fatto mio padre. Quella che abbiamo visto non era una sonnambula.
La tua voce e i tuoi modi di fare erano diversi. Sei d’accordo, Talismano?»
«La cosa va al di là della mia comprensione,» ammise il giovane condottiero
nadir. «Cosa dobbiamo fare?»
«Non lo so,» affermò Gorkai. «Mi hai detto che lo spirito di Oshikai stava
cercando sua moglie e ora sappiamo che anche Shul-sen sta cercando il marito. Ma
i loro mondi non sono i nostri. Non possiamo farli incontrare.»
La luna scomparve dietro un banco di nuvole, facendo cadere la steppa
nell’oscurità. L’urlo di un uomo echeggiò in lontananza e Talismano vide una luce
brillare improvvisamente fuori dalla tenda di Kzun.
CAPITOLO NONO

Enshima, il prete nadir cieco, sedeva silenzioso sul limitare dell’altura rocciosa
che s’innalzava dalla steppa. Dietro di lui, una dozzina di profughi, in maggioranza
vecchie e bambini, sedevano all’ombra, vicini alla sorgente nascosta. Il religioso
aveva visto i fuochi lontani nella notte e aveva sentito le anime che entravano nel
Vuoto. I vestiti azzurri del prete erano sporchi di polvere. I suoi piedi erano feriti e
coperti di vesciche a causa delle taglienti rocce vulcaniche di quella zona.
Enshima offrì una silenziosa preghiera di ringraziamento per quei pochi Corna
Ricurve che avevano raggiunto la Fonte due giorni prima. Essi avevano fatto parte
di un gruppo più grande che era stato attaccato dai lancieri gothir, ma era riuscito a
scappare su quelle alture impervie dove i soldati non poterono seguirli. Adesso,
almeno per il momento, erano al sicuro. Affamati, addolorati, tristi, ma al sicuro.
Enshima ringraziò la Fonte per aver salvato le loro vite.
Il prete liberò il suo spirito dal corpo e fluttuò sopra le montagne fissando
dall’alto la vuota vastità delle steppe. A venti chilometri in direzione nord-ovest
poteva vedere le piccole mura del santuario, ma non si recò là, anzi cominciò a
esplorare il territorio in cerca dei due cavalieri che presto, come lui ben sapeva,
avrebbero raggiunto la sorgente.
Li vide uscire da una piccola valle che si trovava a circa cinque chilometri dal
punto in cui il suo corpo era seduto. L’uomo con l’ascia cavalcava portandosi
dietro due pony, mentre il poeta, Sieben, avanzava dietro di lui tenendo un
bambino avvolto nella sua coperta rossa. Fluttuò più vicino al primo uomo e lo
guardò con attenzione. Egli procedeva in groppa a una cavalla dalla schiena
insellata, indossava un giustacuore di cuoio nero con le spalle protette da due
piastre d’argento e portava una grossa ascia bipenne.
La strada che stavano prendendo li avrebbe allontanati dalla sorgente nascosta.
Enshima fluttuò vicino al poeta e gli toccò una spalla con la sua mano diafana.
«Ehi, Druss,» disse Sieben. «Pensi che ci sia dell’acqua tra quelle rocce?»
«Non ne abbiamo bisogno,» rispose il guerriero drenai. «Secondo quello che ci
ha detto Nuang, il santuario dovrebbe trovarsi a non più di dieci miglia da qui.»
«Può anche essere vero, vecchio cavallo, ma la coperta del bambino sta
cominciando a puzzare e io sarei molto contento di avere l’opportunità di lavare
alcuni dei miei vestiti prima di fare la nostra entrata trionfale.»
Druss rise. «Certo poeta, non sarebbe dignitoso per te presentarti in quel luogo
senza essere nel pieno del tuo splendore.» Il guerriero tirò le redini verso sinistra e
diresse il cavallo verso le rocce vulcaniche.
Sieben si mise al suo fianco. «Come pensi di trovare questi gioielli magici?»
Druss rifletté un attimo sulla domanda. «Penso che siano nella bara,» affermò.
«Dovrebbe essere così, non credi?»
«È un santuario molto antico. Credo che sia già stato saccheggiato.»
Druss rimase zitto per qualche secondo quindi scrollò le spalle. «Beh, il
vecchio sciamano ha detto che sono là. Gli chiederò altre informazioni quando lo
vedrò.»
Sieben sfoderò un sorriso obliquo. «Vorrei avere anch’io la fiducia che tu nutri
nei confronti degli uomini, Druss, amico mio.»
La cavalla alzò la testa di scatto, dilatò le narici e affrettò l’andatura. «C’è
l’acqua,» affermò Sieben. «I cavalli l’hanno annusata.»
Si inerpicarono su per lo stretto e sinuoso sentiero e quando raggiunsero la cima
dell’altura due vecchi guerrieri nadir armati di spada si fecero avanti sbarrando loro
la strada. Un piccolo prete vestito con un abito color azzurro sbiadito apparve a
fianco dei due uomini, parlò loro e questi si allontanarono a malincuore. Druss fece
avanzare la sua cavalla e smontò vicino alla sorgente continuando a guardare con
cautela il gruppo di nadir seduto là vicino.
Il prete gli si avvicinò. «Benvenuto al nostro campo, uomo con l’ascia,» gli
disse. Era cieco e i suoi occhi erano ricoperti da una pellicola color opale. Druss
appoggiò Snaga contro una roccia, prese il bambino dalle braccia di Sieben e il
poeta scese da cavallo.
«Il bambino ha bisogno di latte,» affermò Druss.
Il prete chiamò un nome, una giovane ragazza uscì esitante dal gruppo, prese il
bambino dalle braccia del drenai e si allontanò.
«Sono sopravvissuti a un incursione dei gothir,» affermò il religioso. «lo sono
Enshima, prete della Fonte.»
«Druss,» si presentò il guerriero drenai. «E questo è Sieben. Siamo diretti...»
«Al santuario di Oshikai,» lo precedette Enshima. «Lo so. Venite, sedetevi con
me per un po’.» Si allontanò e andò a sedersi vicino a un gruppo di rocce. Druss lo
seguì mentre Sieben fece abbeverare i cavalli e riempì le borracce.
«Tu sai,» esordì il prete, «che verrà combattuta una grande battaglia al
santuario.»
Druss si sedette al suo fianco. «Lo so. Ma la cosa non mi interessa.»
«Ah, ma invece dovrebbe interessarti poiché la tua stessa ricerca è legata
all’esito di quello scontro. Non riuscirai a trovare i gioielli prima dell’inizio della
battaglia, Druss.»
Il guerriero si inginocchiò vicino alla fonte e bevve. L’acqua era fresca, ma
aveva un retrogusto amaro. Druss alzò la testa e fissò il cieco. «Sei un veggente?»
gli chiese.
«Per quello che vale,» confermò Enshima.
«Allora mi puoi dire a quale scopo è stata dichiarata questa maledetta guerra.
Per me non ha alcun senso.»
Il prete fece un mesto sorriso. «La domanda presuppone che la guerra abbia un
senso.»
«Io non sono un filosofo, prete, quindi risparmiami le tue congetture.»
«No, Druss, non sei un filosofo,» concordò Enshima in tono amabile, «ma sei
un idealista. A cosa serva questa guerra? Come tutte le guerre è stata scatenata
dalla cupidigia e dalla paura. I gothir sono un popolo ricco e intendono rimanere
tale, e vedono i nadir come una futura minaccia per il loro benessere. Quando mai
una guerra è stata combattuta per qualche altro motivo?»
«Quindi quei gioielli esistono,» disse Druss, cambiando soggetto.
«Oh, sì, esistono. Gli Occhi di Alchazzar vennero creati secoli fa. Sono come
delle ametiste grosse quanto un uovo e ognuno di essi è imbevuto del tremendo
potere di questa terra selvaggia.»
«Perché non riuscirò a trovarli prima della battaglia?» chiese Druss proprio
mentre Sieben si stava avvicinando.
«Questo non è il tuo destino.»
«Ho un amico che ha bisogno di quei gioielli,» disse Druss. «Mi farebbe molto
piacere se mi aiutassi.»
Enshima sorrise. «Non provo piacere nel negarti quello che mi stai chiedendo,
uomo con l’ascia. Ma mi stai domandando qualcosa che non ti posso dare. Domani
io guiderò questa gente in alta montagna nella speranza di riuscire a tenerli in vita.
Forse si rivelerà uno sforzo vano. Tu andrai al santuario e là combatterai poiché è
la cosa che sai fare meglio.»
«Non hai qualche parola di conforto per me, vecchio?» chiese Sieben.
Il prete sorrise e diede qualche leggera pacca sul braccio di Sieben. «Avevo un
problema e tu mi hai aiutato a risolverlo, per cui ti ringrazio. Quello che tu hai fatto
nella camera della morte è stato un atto puro e buono per il quale io spero tu venga
benedetto dalla Fonte. Fammi vedere il lon-tsia.» Sieben infilò una mano in tasca e
prese il medaglione d’argento massiccio. Il vecchio lo tenne di fronte al suo volto e
chiuse gli occhi. «La testa dell’uomo è quella di Oshikai Flagello del Demone,
quella femminile è sua moglie, Shul-sen. Le scritte sono in chiatze. Una traduzione
letteraria sarebbe Oshka-Shul-sen, “insieme”, ma in verità vuoi dire “spiriti legati”.
Il loro fu un grande amore.»
«Perché qualcuno ha voluto torturarla in quel modo?» chiese Sieben.
«Non posso risponderti, giovane uomo. Ormai non comprendo più la malvagità
degli esseri umani, non concepisco simili barbarie. Posso dirti che è stata usata una
grande magia per ingabbiare lo spirito di Shul-sen.»
«L’ho liberata?»
«Non lo so. Un guerriero nadir mi ha detto che lo spirito di Oshikai la sta
cercando da secoli nelle infinite e oscure valli del Vuoto. Forse adesso l’ha trovata.
Lo spero, ma come ho detto, gli incantesimi che sono stati lanciati per
imprigionarla erano potentissimi.» Enshima restituì il lon-tsia a Sieben. «Anche
questo ha subito un incantesimo,» disse.
«Spero che non sia una maledizione,» disse il poeta tenendo il manufatto nella
mano tremante.
«No, non è una maledizione. Credo che sia un incantesimo d’occultamento. È
servito a nasconderlo agli occhi degli uomini. È abbastanza sicuro da portare,
Sieben.»
«Ottimo. Dimmi una cosa, tu hai detto che l’uomo era Oshikai, però l’hai
chiamato Oshka. È una abbreviazione?»
«La “i” non esiste nell’alfabeto chiatze. Di solito viene scritta come una sorta di
apostrofo davanti alla lettera che la precede.»
Sieben mise via il medaglione ed Enshima si alzò in piedi. «Che la Fonte vegli
su di voi,» augurò loro.
Druss si allontanò a grandi passi e salì in groppa alla cavalla. «Vi lasciamo i
due pony,» disse.
«Siete molto gentili.»
Sieben si fermò a fianco del vecchio. «Quanti sono gli uomini che difenderanno
il santuario?»
«Credo che saranno poco meno di duecento quando arriveranno i gothir.»
«E i gioielli sono là?»
«Sì.»
Sieben imprecò, quindi abbozzò un timido sorriso. «Speravo che non fossero là.
Non mi trovo a mio agio nelle battaglie.»
«Nessun uomo civilizzato lo è,» rispose il prete.
«Perché i gioielli furono nascosti là?» chiese Sieben.
Enshima scrollò le spalle. «Essi vennero creati tanti anni fa e furono usati come
occhi per un lupo di pietra. Uno sciamano li rubò. È ovvio che volesse tutto il loro
potere per sé. Venne inseguito e fu costretto a nascondere i gioielli, quindi cercò di
scappare tra le montagne. Fu catturato, torturato e ucciso vicino al punto in cui
avete trovato le ossa di Shul-sen. Tuttavia, malgrado le sevizie, non riuscirono a
fargli dire dove avesse nascosto gli Occhi.»
«La storia non ha senso,» affermò Sieben. «Se i gioielli erano colmi di un
grande potere, perché li ha abbandonati? Sicuramente avrebbe potuto usarli per
eliminare i suoi inseguitori.»
«Gli atti degli uomini hanno sempre un senso?» replicò il prete.
«Più o meno,» argomentò Sieben. «Che genere di potere possiedono gli
Occhi?»
«È difficile dirlo. Molto dipende dall’abilità di chi li usa. Essi potrebbero
guarire tutti i tipi di ferite e distruggere qualsiasi incantesimo. Si dice che abbiano
il potere di rigenerare e replicare.»
«Lo sciamano che li ha rubati avrebbe potuto usare il loro potere per
nascondersi dai suoi inseguitori?»
«Sì.»
«Perché non l’ha fatto?»
«Temo, giovane uomo, che questo rimarrà un mistero.»
«Odio i misteri,» affermò Sieben. «Hai parlato di rigenerazione. Poterebbero
far rivivere i morti?»
«Io intendevo la rigenerazioni dei tessuti. Possono guarire ferite profonde o
malattie. Si dice che un vecchio guerriero sia tornato giovane dopo essere stato
guarito dagli Occhi. Ma io credo che si tratti solo di una favola.»
«È tempo di andare, poeta,» disse Druss.
Una ragazza nadir si avvicinò a loro portando il bambino e lo offrì a Sieben. Il
poeta arretrò e disse: «No, no, cara ragazza. Ci siamo molto affezionati al piccolo,
ma pensiamo che stia meglio qua, tra la sua gente.»

* * *
Talismano procedeva sui camminamenti in legno del muro nord provando la
robustezza della struttura ed esaminando le vecchie travi che la componevano. Il
tutto sembrava solido. I parapetti erano stati merlati per permettere agli arcieri di
tirare. Purtroppo ogni guerriero nadir aveva a disposizioni solo venti frecce che
sarebbero terminate alla fine della prima carica. Anche il nemico avrebbe lanciato
delle frecce: potevano recuperare quelle, ma anche così quella non sarebbe stata
una battaglia vinta con gli arcieri. Si guardò intorno e vide Kzun intento a dirigere i
lavori vicino al muro crepato. Il capo dei Lupi Solitari portava ancora la sciarpa
che gli aveva donato Zhusai. Kzun si accorse di essere osservato, ma non Io salutò.
Quing-chin stava lavorando con altri uomini intorno ai cancelli. Dovevano
lubrificare i cardini con del grasso animale per cercare di chiudere i battenti. Quan-
ti anni sono passati dall’ultima volta in cui sono stati chiusi? si chiese. Dieci anni?
Cento?
Bartsai e dieci dei suoi uomini stavano lavorando sui camminamenti
danneggiati del muro est. Per ripararli avevano usato le tavole tolte dai pavimenti
dell’edificio riservato ai pellegrini.
Quing-chin raggiunse Talismano sugli spalti e lo salutò alla maniera dei soldati
gothir. «Fa che sia l’ultimo saluto gothir che mi rivolgi,» gli disse in tono freddo.
«La cosa non piace agli uomini.»
«Scusami, fratello.»
Talismano sorrise. «Non devi scusarti. Non volevo rimproverarti, amico mio.
Hai fatto un buon lavoro la scorsa notte. È un peccato che siano riusciti a salvare i
carri dell’acqua.»
«Non tutti, Talismano. Presto dovranno dimezzare le razioni.»
«Come hanno reagito?»
«Con molta efficienza. Sono ben guidati,» disse Quing-chin. «Abbiamo quasi
ucciso Gargan. Stavo osservando il campo da un’altura e l’ho visto vagare tra le
fiamme. Un giovane ufficiale è corso in suo aiuto e l’ha portato via, era lo stesso
uomo che ha salvato i carri.»
Talismano si sporse dal parapetto e fissò la valle. «Per quanto possa odiare
Gargan devo dire che è un generale in gamba. Nei libri di storia gothir c’è un
capitolo dedicato a lui. Aveva solo ventidue anni quando guidò la carica che pose
fine alla guerra civile. Il più giovane generale nella storia dei gothir.»
«Non ha più ventidue anni,» affermò Quing-chin. «È vecchio e grasso.»
«Il coraggio non viene intaccato dagli anni che passano,» gli fece notare
Talismano.
«Quell’uomo è divorato dalla cattiveria,» affermò Quing-chin mentre si
toglieva l’elmo bordato di pelliccia e si passava le dita tra i capelli sudati. «È una
malvagità che lo brucia internamente. Penso che avvamperà come il fuoco della
scorsa notte quando saprà che tu sei il nostro comandante.»
«Se avremo fortuna tu avrai ragione. Un uomo arrabbiato raramente prende
delle decisioni razionali.»
Quing-chin si sedette sul parapetto. «Hai pensato alla persona che guiderà gli
uomini che dovranno presidiare il pozzo?»
«Sì. Kzun.»
Quing-chin assunse un’espressione dubbiosa. «Credevo che tu avessi detto che
doveva essere sorvegliato dalle Corna Ricurve.»
«Lo faranno. Sotto Kzun.»
«Un Lupo Solitario? Accetteranno di stare al suo fianco?»
«Vedremo,» disse Talismano. «Fai raccogliere ai tuoi uomini delle pietre e falle
sistemare sui camminamenti. Le useremo per lanciarle contro i fanti che
cercheranno di scalare le mura.»
Senza aggiungere altro Talismano si allontanò, scese dalle mura e si avvicinò a
Bartsai che insieme ai suoi uomini si stava riposando vicino al pozzo. «Hai scelto i
guerrieri?» gli chiese.
«Sì. Venti come tu hai ordinato. Potremmo mandarne di più, sono arrivati altri
trentadue uomini.»
«Se il pozzo è come l’hai descritto venti saranno sufficienti. Fai venire qua i
prescelti, desidero parlare con loro.»
Bartsai si allontanò e Talismano si diresse da Kzun che insieme ai suoi
compagni stava ultimando la piattaforma da combattimento. Il tetto della struttura
era stato fatto con delle tavole prese dalla vecchia torre. Talismano salì sopra la
piattaforma e guardò attraverso la crepa nel muro. «Va bene,» disse, appena Kzun
si avvicinò a lui.
«Funzionerà,» affermò Kzun. «È qua che io e i miei uomini dovremo
combattere?»
«I tuoi uomini sì, tu no. Nomina un capo per loro. Voglio che tu prenda il
comando delle Corna Ricurve che difenderanno il pozzo.»
«Cosa?» Kzun arrossì. «Vuoi che comandi quelle scimmie spaventate?»
«Se i gothir prenderanno il pozzo, allora prenderanno anche il santuario,» disse
Talismano con voce bassa e piatta. «È il cuore vero e proprio della nostra difesa.
Senza acqua il nemico sarà costretto ad attacchi disperati; se riusciremo a
trattenerli quanto basta essi cominceranno a morire. Con l’acqua invece avranno
una dozzina di opzioni; potrebbero anche farci morire di fame.»
«Non devi convincermi dell’importanza del pozzo, Talismano,» sbottò Kzun.
«Ma perché dovrei guidare le Corna Ricurve? Sono molli. I miei uomini
potrebbero tenere il pozzo e ti posso garantire che combatterebbero fino alla
morte.»
«Tu guiderai le Corna Ricurve,» ribadì Talismano. «Tu sei un combattente ed
essi ti seguiranno.»
Kzun sbatté le palpebre. «Dimmi solo il perché. Perché io?»
«Perché te lo ordino,» disse Talismano.
«No, c’è di più. Cosa mi stai nascondendo?»
«Niente,» mentì tranquillamente, Talismano. «Il pozzo è vitale e a mio giudizio
tu sei l’uomo migliore per guidarne la difesa. Però il pozzo si trova nelle terre delle
Corna Ricurve ed essi potrebbero sentirsi insultati se io dovessi chiedere a un’altra
tribù di difenderlo.»
«E non credi che si sentiranno lo stesso insultati quando mi nominerai come
loro capo?»
«Questo è un rischio che devo correre. Seguimi, ora. Ci stanno aspettando.»

Bartsai era furioso, ma fu costretto a respingere la sua ira mentre fissava Kzun
che usciva al galoppo dai cancelli seguito dai suoi guerrieri. Il dolore penetrante
che aveva sentito al petto qualche giorno prima era tornato. Era stato ansioso di
poter comandare il contingente del pozzo. Là ci sarebbero state molte vie di fuga.
Lui e i suoi uomini avrebbero sì difeso il pozzo, ma se fosse stato necessario si
sarebbero potuti ritirare. Ora era intrappolato in quella cosiddetta fortezza in
rovina. Talismano lo raggiunse. «Vieni dobbiamo parlare,» gli disse e l’uomo sentì
una nuova fitta al petto.
«Parlare? Ne ho abbastanza delle parole. Se la situazione non fosse stata così
disperata ti avrei già sfidato, Talismano.»
«Comprendo la tua rabbia, Bartsai,» disse Talismano. «Adesso ascoltami: Kzun
sarebbe inutile durante l’assedio. L’ho visto camminare qua dentro come una tigre
in gabbia e ho visto la sua lanterna brillare nella notte. Dorme sotto le stelle, ci
avevi fatto caso?»
«Sì, è un tipo strano. Ma cosa ti fa pensare che possa guidare i miei uomini?»
Talismano guidò Bartsai a un tavolo all’ombra. «Non so quale demone
possieda Kzun, ma è ovvio che lui ha paura del buio e degli spazi angusti. Quando
l’assedio comincerà saremo tutti confinati qua dentro e io ho pensato che una tale
situazione avrebbe potuto danneggiare Kzun. Tuttavia egli è un combattente e
difenderà il pozzo a costo della sua vita.»
«Come avrei fatto io,» affermò Bartsai, senza guardare Talismano negli occhi.
«Come l’avrebbe fatto ogni capo.»
«Tutti abbiamo delle paure, Bartsai,» affermò Talismano con calma.
«Cosa vuoi dire?» sbottò il capo delle Corna Ricurve arrossendo e fissando gli
occhi scuri ed enigmatici del suo giovane interlocutore.
«Significa che anch’io temo l’arrivo di quei giorni e lo stesso vale per Lin-tse,
Quing-chin e tutti gli altri guerrieri. Questo è uno dei motivi per cui ritengo che la
tua presenza qua abbia un certo valore, Bartsai. Tu sei il capo più vecchio e con più
esperienza. La tua calma e la tua forza saranno importantissime quando i gothir
attaccheranno.»
Bartsai emise un sospiro e il dolore si calmò. «Quando avevo la tua età avrei
cavalcato per centinaia di chilometri pur di prendere parte a una battaglia così
importante. Ora posso sentire il freddo respiro della morte sul mio collo e la cosa
mi trasforma le budella in acqua, Talismano. Sono troppo vecchio e faresti bene a
non riporre tutta questa fiducia in me.»
«Ti sbagli, Bartsai. Solo gli stupidi non provano paura. Io sono giovane, ma
sono capace di giudicare gli uomini. Tu rimarrai e ispirerai i guerrieri intorno a te.
Tu sei un nadir!»
«Non ho bisogno di bei discorsi. Conosco il mio dovere.»
«Non era un discorso, Bartsai. Dodici anni fa quando gli Spezza-schiene fecero
un’incursione nel tuo villaggio tu guidasti venti uomini in una spedizione punitiva,
distruggesti il loro campo e ti riprendesti i pony rubati. Cinque anni fa tu fosti
sfidato da un giovane spadaccino dei Lupi Solitari. Fosti ferito quattro volte, ma
riusciti a ucciderlo, quindi, benché ferito, riuscisti a tornare al tuo pony e ad
andartene: Tu sei un uomo, Bartsai.»
«Sai molte cose di me, Talismano.»
«Tutti i capi devono conoscere gli uomini che sono sotto di loro, ma io sono
venuto a sapere queste cose perché i tuoi uomini non fanno altro che parlarne.»
Bartsai rise. «Rimarrò,» disse. «E ora è meglio che torni al mio lavoro,
altrimenti non avrò nulla su cui poggiare i piedi al momento dell’attacco.»
Talismano sorrise e l’uomo si allontanò. Nosta Khan uscì dal santuario e si
incamminò per il cortile. Appena lo sciamano gli si avvicinò il buon umore del
giovane condottiero svanì. «Là non c’è nulla,» esordì Nosta Khan. «Ho lanciato
diversi incantesimi di ricerca, ma sono falliti tutti quanti. Forse Chorin-Tsu si era
sbagliato. Forse non sono là dentro.»
«I gioielli sono là,» disse Talismano, «ma vengono tenuti nascosti ai nostri
occhi. Lo spirito di Oshikai mi disse che sarà uno straniero a trovarli.»
Nosta Khan sputò nella polvere. «Ne stanno per arrivare due, Druss e il poeta.
Speriamo che uno di loro si dimostri l’uomo designato dal destino.»
«Perché Druss sta venendo qua?» chiese Talismano.
«Gli ho detto che gli Occhi avrebbero potuto guarire un suo amico che è stato
ferito durante una rissa.»
«E lo faranno?»
«Certo, però lui non li avrà mai. Pensi che metterei il sacro futuro dei nadir in
mano a un gajin? No Talismano. Druss è un grande guerriero. Ci sarà utile durante
la battaglia, dopodiché dovrà essere ucciso.»
Talismano guardò da vicino il piccolo uomo, ma non disse nulla. Lo sciamano
si sedette al tavolo e si versò una coppa d’acqua. «Hai detto che c’è un lon-tsia
dentro la bara.»
«Sì. D’argento.»
«La cosa è curiosa,» disse Nosta Khan. « Secoli fa il santuario è stato
saccheggiato. Perché i ladri avrebbero dovuto lasciare un ornamento d’argento?»
«Può darsi che sia stato portato vicino alla pelle,» osservò Talismano, «sotto la
maglia. Forse i ladri non se ne sono accorti. Con il tempo la maglia è marcita e io
sono riuscito a trovarlo.»
«Hmm,» mormorò Nosta Khan poco convinto. «Penso che abbiano gettato un
incantesimo su di esso che con l’andare del tempo è sparito.» I suoi occhi brillanti
si fissarono su Talismano. «Adesso parliamo della ragazza. Non puoi averla; lei è
votata all’Unificatore e tu non sei lui. Dalla loro unione discenderanno i grandi
uomini del futuro. Zhusai sarà la prima delle sue mogli.»
Talismano sentì la bocca dello stomaco che gli si contraeva e la sua rabbia
crescere. «Non voglio più sentire una profezia, sciamano. L’amo quanto amo la
vita. Lei è mia.»
«No!» sibilò Nosta Khan sporgendosi sopra il tavolo. «La tua prima e unica
preoccupazione deve essere il benessere dei nadir. Vuoi vedere il giorno
dell’Unificatore? Allora non intralciare il suo destino. Da qualche parte là fuori,»
continuò Nosta Khan, agitando il braccio magro nell’aria, «c’è l’uomo che
attendiamo da tempo. I fili del suo destino sono intrecciati con quelli di Zhusai. Mi
capisci Talismano? Non puoi averla!»
Il giovane nadir fissò gli occhi scuri di Nosta Khan e vide la malvagità che vi
albergava, ma più di tutto vide che quel piccolo uomo era veramente spaventato.
La sua vita, più ancora di quella di Talismano, era stata dedicata a un solo fine:
l’avvento dell’Unificatore.
Talismano ebbe l’impressione che il cuore gli fosse diventato di pietra
«Capisco,» disse.
«Bene.» Il piccolo sciamano si rilassò e fissò i guerrieri che lavoravano sui
muri. «Fa un bell’effetto,» disse. «Hai fatto un bel lavoro.»
«Rimarrai con noi per la battaglia?» chiese Talismano freddamente.
«Per un po’. Userò i miei poteri contro i gothir, ma non posso morire qua,
Talismano; il mio compito è troppo importante. Se le difese dovessero cadere io
andrò via e porterò la ragazza con me.»
Talismano sentì il cuore alleggerirsi. «Puoi salvarla?»
«Certo. Però lascia che ti parli chiaro, Talismano. Se le porterai via la sua virtù
io la lascerò indietro.»
«Hai la mia parola, Nosta Khan. Ti basta?»
«Come sempre, Talismano. Non odiarmi, ragazzo,» aggiunse in tono triste. «Ci
sono troppe persone che lo fanno. La maggior parte di loro hanno una ragione. Mi
farebbe molto male il fatto di doverti annoverare tra di loro. Servirai l’Unificatore
dando il meglio di te stesso, lo so.»
«Hai visto il mio destino?»
«Sì, ma ci sono delle cose di cui non è saggio parlare. Ho bisogno di riposarmi
ora.» Lo sciamano si allontanò, ma Talismano lo richiamò.
«Se hai qualche riguardo per me, Nosta Khan, mi devi dire quello che hai
visto.»
«Non ho visto nulla,» rispose lo sciamano, senza girarsi. Le spalle del vecchio
si abbassarono. «Niente. Tu non cavalcherai a fianco dell’Unificatore. Non c’è
nessun futuro per te, Talismano. Questo è il tuo momento. Gustalo.» Il vecchio si
allontanò senza girarsi.
Talismano rimase fermo in piedi per un attimo quindi si diresse verso la stanza
in cui dormiva Zhusai. La ragazza si era pettinata e profumata i capelli e quando
Talismano entrò nella stanza lei gli corse incontro, gli lanciò le braccia al collo e lo
baciò sul volto. Lui la allontanò gentilmente da sé e le riferì delle parole dello
sciamano.
«Non m’importa nulla di quello che dice,» rispose lei. «Non
proverò mai più per un altro uomo quello che provo per te. Mai!»
«Né io lo sentirò per un’altra donna. Sediamoci un po’, Zhusai. Ho bisogno di
sentire il tocco della tua mano.» La guidò tino al piccolo letto. Lei gli prese una
mano e gliela baciò, e il giovane avvertì il calore delle lacrime della ragazza che gli
cadevano sulla pelle. «Quando la fine sarà vicina,» sussurrò il giovane, «Nosta
Khan ti porterà in un posto sicuro. Egli possiede una grande magia e ti guiderà
attraverso il Gothir. Tu vivrai, Zhusai.»
«Non voglio vivere senza di te. Io non vivrò.»
Le sue parole toccarono Talismano, ma gli fecero anche paura. «Non dire
queste cose, amore mio. Devi capire che per me il saperti al sicuro sarebbe come
una vittoria. Potrei morire felice.»
«Non voglio che tu muoia!» gli disse con voce spezzata. «Voglio scappare con
te tra le montagne, voglio partorire i tuoi figli.»
Talismano la strinse vicino a sé respirando il profumo dei capelli e della pelle e
accarezzandole il volto e il collo. Non riusciva a trovare nessuna parola. Aveva
sempre pensato che il sogno di riunire i nadir sarebbe stato più importante della sua
stessa vita. Ora era diverso. Quella donna gli aveva mostrato una verità che non
conosceva. Per lei avrebbe quasi potuto tradire la sua causa. Quasi. Aveva la bocca
secca e con un grande sforzo si alzò. «Devo andare,» disse.
Lei scosse la testa e si alzò a sua volta. «Non ancora,» gli disse con voce
controllata. «Sono chiatze, Talismano e sono addestrata a fare molte cose. Togliti
la maglia.»
«Non posso. Ho dato la mia parola a Nosta Khan.»
Lei sorrise. «Togliti la maglia. Sei teso, stanco e hai i muscoli contratti. Ti
massaggerò le spalle e il collo. Dopo potrai dormire. Fallo per me, Talismano.»
Talismano si tolse il giustacuore, la maglia, slacciò la cintura della spada e si
sedette sul letto. Lei si inginocchiò alle sue spalle e cominciò a sciogliergli i
muscoli usando i pollici. Dopo un po’ gli ordinò di sdraiarsi sullo stomaco. Lui
ubbidì e la ragazza gli spalmò la schiena con un olio profumato. Il delicato aroma
dell’unguento servì ad affievolire la tensione e ben presto Talismano si
addormentò.
Quando si svegliò trovò Zhusai sdraiata al suo fianco, con un braccio
appoggiato di traverso sul suo petto e la faccia vicina a quella del giovane. La luce
dell’alba penetrava dalla finestra. Il giovane nadir le spostò il braccio e si alzò dal
letto. Zhusai si svegliò. «Come ti senti mio lord?» gli chiese.
«Sto bene Zhusai. Sei molto brava.»
«L’amore compie magie,» disse lei, sedendosi. Era nuda e il sole conferiva alla
sua pelle una tonalità dorata.
«L’amore compie magie,» concordò Talismano, distogliendo lo sguardo dai
seni della ragazza. «Non hai più sognato Shul-sen?»
«Tu sei stata l’unica persona che ho sognato, Talismano.»
Il ragazzo si infilò la maglia, il giustacuore, buttò la cintura con la spada sopra
la spalla e scese nel cortile dove trovò Gorkai ad attenderlo.
«Stanno arrivando due cavalieri,» disse. «Potrebbero essere esploratori gothir.
Uno porta una grossa ascia. Li vuoi vivi o morti?»
«Lasciateli venire, li stavo aspettando.»

* * *
Druss fermò il cavallo di fronte al muro ovest e fissò a lungo la crepa che lo
attraversava. «Ho visto dei forti migliori,» disse a Sieben.
«E benvenuti più amichevoli,» borbottò il compagno fissando gli arcieri sugli
spalti che li stavano tenendo sotto mira. Druss rise, schioccò leggermente le redini
e la cavalla si rimise in cammino. Il portone era vecchio e mezzo marcio, ma il
drenai vide che i cardini erano stati ripuliti dalla ruggine e il terreno intorno ad esso
era rasato, segno che i battenti erano stati chiusi di recente.
Entrato nel forte, fermò la cavalla e smontò. Vide Talismano e si diresse verso
di lui. «Ci incontriamo ancora, amico mio,» gli disse. «Non ci sono ladri che ti
inseguono?»
«Sono duemila questa volta,» gli disse Talismano. «Lancieri, fanti e arcieri.»
«È meglio che tu faccia bagnare il portone,» gli consigliò Druss. «Il legno è
secco. Non si prenderanno il disturbo di abbatterlo, si limiteranno ad appiccargli il
fuoco.» Il drenai valutò con occhio esperto le difese e ne rimase impressionato. I
camminamenti erano stati riparati e contro i parapetti erano state ammassate delle
pietre da tirare addosso alla fanteria. Davanti alla crepa del muro ovest era stata
innalzata una piattaforma da combattimento. «Quanti uomini hai?»
«Duecento.»
«Dovranno essere tutti guerrieri.»
«Sono nadir e devono difendere le ossa del più grande guerriero nadir di tutti i
tempi. Essi combatteranno, e tu?»
Druss rise. «Mi piacerebbe prendere parte a una bella battaglia, ma non questa
volta. Uno sciamano nadir mi ha detto che qua si trovano dei gioielli in grado di
guarire le persone. Ne ho bisogno per guarire un amico.»
«L’ho sentito. Ma non li abbiamo ancora trovati. Dimmi una cosa, lo sciamano
ti ha promesso i gioielli?»
«Non proprio,» ammise Druss. «Egli mi ha detto che si trovavano qua. Ti
dispiace se cerchiamo?»
«Per niente,» rispose Talismano, «ti devo la vita, è il minimo che posso fare.»
Indicò l’edificio principale. «Quello è il santuario di Oshikai Flagello del Demone.
I gioielli devono essere sicuramente nascosti in quel luogo. Nosta Khan, lo
sciamano di cui mi hai parlato, li ha cercati con degli incantesimi, ma non è riu-
scito a trovarli. Io in persona ho evocato lo spirito di Oshikai, ma egli non mi ha
detto dove si trovano. Buona fortuna, uomo con l’ascia!»
Druss assicurò Snaga dietro le spalle ed entrò nel santuario con Sieben. La
stanza della bara era coperta di polvere e priva di ornamenti. I due si fermarono
davanti al sarcofago di pietra.
«È stato saccheggiato,» disse Sieben. «Guarda i pioli che spuntano dal muro.
Un tempo dovevano esserci appese l’armatura e i suoi stendardi da battaglia.»
«Non è il modo di trattare un eroe,» disse Druss. «Qualche idea? Dove
possiamo guardare?»
«Dentro il sarcofago,» azzardò Sieben. «Ma non ci troveremo nessun gioiello.»
Druss adagiò l’ascia contro una parete, si appoggiò al coperchio della bara e
cominciò a spingere. La pietra emise una specie di lamento quindi si spostò
lentamente a lato. Sieben diede un’occhiata all’interno. «Bene, bene,» disse.
«Ci sono?»
«Certo che non ci sono,» sbottò Sieben. «Ma il cadavere porta un lon-tsia
identico a quello che ho trovato sulla donna.»
«Nient’ altro?»
«No. Non ha più le dita, Druss. Qualcuno deve avergliele staccate per portargli
via gli anelli. Rimetti a posto il coperchio.» Druss eseguì quindi chiese: «E
adesso?»
«Devo pensare,» disse il poeta. «C’è qualcosa in questo luogo che non mi è
chiaro. Prima o poi lo capirò.»
«Allora sbrigati poeta. Altrimenti potresti trovarti nel bel mezzo di una guerra.»
«Un pensiero incantevole.»
Il suono degli zoccoli dei cavalli echeggiò nel cortile. Druss uscì dalla porta
giusto in tempo per vedere Nuang Xuan saltare giù dal pony e la sua gente che
finiva di entrare nel santuario.
«Credevo che ti stessi allontanando da qua,» gli disse Druss. Il capo nadir
raschiò con la gola e sputò.
«È quello che stavo facendo, uomo con l’ascia, ma qualche pazzo ha appiccato
un fuoco nella steppa e non ci è rimasto che scappare. Quando abbiamo cercato di
tagliare verso est, abbiamo visto una colonna di lancieri. Gli dèi della pietra .e
dell’acqua mi odiano.»
«Sei sempre vivo, vecchio.»
«Pah! Non per molto. Ci sono migliaia di uomini diretti qua. Lascerò la mia
gente riposare per stanotte poi andrò via.»
«Non sei bravo a mentire, Nuang Xuan,» gli fece notare Druss. «Tu sei venuto
qua per combattere e difendere il santuario. Non c’è alcun modo di cambiare la tua
fortuna.»
«Mi sono chiesto, ci sarà mai fine alla malvagità dei gothir? Quale beneficio ne
trarrebbero dal distruggere una cosa che ci è cara?» Fece un profondo respiro.
«Rimarrò,» disse. «Manderò via le donne e i bambini, ma io e i miei guerrieri
rimarremo. E per quanto riguarda la fortuna, uomo con l’ascia, morire difendendo
un luogo sacro è un privilegio. E poi non sono così vecchio. Penso che ne ucciderò
cento da solo. Anche tu rimarrai, vero?»
«Non è la mia battaglia, Nuang.»
«Quello che i gothir vogliono fare è un atto malvagio, Druss.» Sfoderò un
improvviso sorriso sdentato. «Penso che anche tu ti fermerai. Credo che gli dèi
della pietra e dell’acqua ti abbiano portato qua di modo che tu possa vedermi
mentre uccido i miei cento nemici. Ora devo trovare il capo.»
Sieben si avvicinò a Niobe. La ragazza aveva lasciato cadere a terra la sacca di
tela che aveva portato sulle schiena fino a poco prima. Sieben sorrise. «Ti sono
mancato?» gli chiese.
«Sono troppo stanca per fare l’amore,» gli rispose in tono piatto.
«Sempre la solita romantica nadir,» affermò Sieben. «Vieni, ti prendo un po’
d’acqua.»
«Posso prenderla da sola.»
«Sono sicuro che tu possa, mia adorata, ma la tua compagnia mi farebbe molto
piacere.» La prese per mano e la portò vicino al tavolo in ombra sopra il quale
erano state appoggiate delle brocche d’acqua e delle coppe. Sieben ne riempì una e
gliela passò.
«Gli uomini servono le donne nella tua terra?» gli chiese. «A volte sì a volte
no,» le spiegò. Niobe svuotò la coppa tutta di un fiato e la ripassò a Sieben per
farla riempire nuovamente. «Sei strano,» gli disse. «Tu non sei un guerriero. Cosa
farai quando il sangue comincerà a scorrere?»
«Con un po’ di fortuna non ci sarò quando cominceranno i combattimenti. Ma
se dovessi essere ancora qua...» allargò le mani. «Ho una certa dimestichezza con
le ferite,» le disse. «Sarò il chirurgo del forte.»
«Anch’io so cucire le ferite. Avremo bisogno di vestiti per fare le bende e
molto filo. E aghi. Io raccoglierò queste cose. Dovremo trovare un posto per i
morti altrimenti cominceranno a puzzare, a gonfiarsi, dopodiché scoppieranno e
attireranno le mosche.»
«Che bel modo di descrivere le cose,» disse. «Possiamo parlare di
qualcos’altro?»
«Per quale motivo?»
«Perché il soggetto è... demoralizzante.»
«Non conosco quella parola.»
«No,» disse il poeta. «Non penso che tu ne conosca il significato. Dimmi una
cosa, sei spaventata?»
«Di cosa?»
«Dei gothir.»
La ragazza scosse la testa. «Essi arriveranno e noi li uccideremo.»
«O saranno loro a uccidere noi,» le fece notare Sieben. Lei scrollò le spalle.
«Non importa,» rispose torva. «Tu, mia adorata, sei una fatalista.»
«Ti sbagli. Io appartengo ai Lupi Solitari,» disse. «Quando Nuang era il nostro
capo ci chiamavano Ali dell’Aquila, ma adesso che siamo rimasti in pochi,
torneremo a essere Lupi Solitari.»
«Niobe, dei Lupi Solitari, ti adoro,» le disse con un sorriso. «Tu sei un alito di
aria fresca in questa mia inutile vita.»
«Io mi sposerò solo con un guerriero,» gli disse in tono severo. «Ma finché non
ne avrò trovato uno bravo, tu potrai dormire con me.»
«Quale gentiluomo potrebbe rifiutare un’offerta così delicata?» disse.
«Strano,» borbottò lei, quindi andò via.
Druss si avvicinò all’amico. «Nuang dice che è stufo di scappare. Lui e la sua
gente rimarranno qua e combatteranno.»
«Possono vincere, Druss?»
«Sembrano molto decisi e Talismano ha fatto un buon lavoro con le difese.»
«Non hai risposto alla mia domanda.»
«Non c’è nessuna risposta,» gli disse Druss. «Solo probabilità. Io non
scommetterei una mezza moneta sul fatto che possano resistere più di un giorno.»
Sieben sospirò. «Naturalmente questo significa che noi non faremo una cosa
intelligente, come andare via, ad esempio.»
«I gothir non hanno nessun diritto di saccheggiare il santuario,» affermò Druss
con un’occhiata fredda. «È sbagliato. Questo Oshikai è un eroe per tutti i nadir e le
sue ossa dovrebbero essere lasciate in pace.»
«Scusami se ho affermato un qualcosa di ovvio, vecchio cavallo, ma la sua
tomba è già stata saccheggiata e le sue ossa sparpagliate ai quattro venti. Non
penso che a lui ora interessi molto.»
«Non è una cosa che riguarda Oshikai,» rispose Druss, indicando i nadir.
«Saccheggiare il santuario significa privarli della loro eredità. Un gesto simile non
ha alcun merito. È un atto che nasce solamente dallo spregio per un popolo e io
non posso sopportarlo.»
«Quindi rimaniamo?»
Druss sorrise. «Tu dovresti andare via,» gli consigliò. «Questo non è il posto
per un poeta.»
«Sono molto tentato, Druss, vecchio cavallo. Forse appena vedrò le bandiere
dei gothir andrò via.»
Nuang chiamò Druss e questi si allontanò. Sieben si sedette al tavolo e
cominciò a sorseggiare una coppa d’acqua. Talismano lo raggiunse.
«Parlami dell’amico che sta morendo,» gli disse e Sieben cominciò a spiegare
tutto ciò che sapeva della rissa nella quale Klay era rimasto paralizzato. Talismano
ascoltò con espressione grave.
«È giusto,» disse, «che un uomo rischi tutto per l’amicizia. Fa capire che egli
ha un cuore molto grande. Ha combattuto in molte battaglie?»
«Molte,» confermò in tono amaro Sieben. «Anche tu saprai che gli alberi alti
attraggono i fulmini durante una tempesta. Beh, Druss è come uno di loro.
Ovunque si trovi sembra che le battaglie spuntino intorno a lui come funghi. È un
fatto irritante.»
«Tuttavia è sempre sopravvissuto.»
«È il suo talento. Ovunque vada la morte lo segue da vicino.»
«È più che benvenuto qui,» affermò Talismano. «Ma tu, Sieben? Niobe mi ha
detto che vorresti diventare il nostro chirurgo. Perché lo fai?»
«La stupidità è un dono di famiglia.»

Lin-tse stava osservando il passo seduto in sella al suo pony. Alla sua destra si
innalzava la parete a picco del Tempio di Pietra, un torreggiante monumento
naturale di roccia rossa dedicato alla maestosità del creato. I fianchi erano stati
erosi dai venti del tempo e la sua forma era stata modellata dal mare che un tempo
aveva coperto quella terra sconfinata. Alla sinistra di Lin-tse c’erano dei pendii
coperti di massi. Il nemico sarebbe dovuto passare sullo stretto sentiero che
costeggiava il Tempio di Pietra. Il nadir scese, corse in cima al primo pendio e si
fermò davanti ad alcune sporgenze rocciose. Con abbastanza tempo e uomini
avrebbe potuto far rotolare alcuni di quei massi sul sentiero. Ci pensò sopra.
Corse al suo pony, vi balzò in sella e guidò il piccolo gruppo di uomini sotto al
suo comando tra le rocce. Talismano aveva bisogno di una vittoria. Un qualcosa
per sollevare il morale dei difensori del santuario.
Ma come? Talismano gli aveva parlato di Fecrem e della sua Lunga ritirata. La
strategia di quel generale era basata su una serie di rapidi attacchi condotti da pochi
uomini contro le linee di rifornimento degli avversari. Fecrem era stato il nipote di
Oshikai quindi conosceva molto bene l’arte della guerriglia. Gli zoccoli dei pony
alzavano delle nuvolette di polvere rossa. Lin-tse aveva la gola secca e si piegò in
avanti per spronare il cavallo a salire più in fretta lungo il ripido pendio. Giunto
sulla sommità si fermò e scese nuovamente. Là il terreno si allargava. Una lunga
sporgenza di roccia si innalzava alla sua sinistra inclinandosi verso un gruppo di
massi che si trovavano alla sua destra. Lo spazio era di circa cinque metri e mezzo.
Lin-tse si immaginò una colonna di lancieri in marcia. Molto probabilmente si
sarebbero mossi in fila per due avanzando con cautela. Se fosse riuscito a farli
muovere più velocemente in quel punto... Si girò sulla sella e si guardò indietro. Il
pendio era ripido, ma un cavaliere esperto sarebbe riuscito a scenderlo anche al
galoppo. E i lancieri erano cavalieri esperti. «Aspettate qua,» disse ai suoi uomini,
quindi diede uno strattone alle redini. Il pony si impennò e cominciò a recalcitrare,
ma Lin-tse gli premette i talloni contro i fianchi e la bestia cominciò a correre giù
per il pendio. Giunto alla fine della discesa, il nadir arrestò la cavalcatura con un
secco strattone delle redini. Dietro di lui c’era una nuvola compatta di polvere ros-
sa. Lin-tse si diresse versò la sua destra, questa volta con maggiore cautela.
Lontano dal sentiero il terreno era più accidentato e portava a un ripido strapiombo
profondo circa cento metri.
Smontò, si diresse verso l’orlo del precipizio e cominciò a seguirlo. Nel punto
più largo le due sponde della fenditura erano separate da un vuoto di almeno
quindici metri, mentre nel punto in cui si trovava lo spazio non doveva superare i
tre metri. Sull’altro lato il terreno, costellato di rocce, si inclinava bruscamente
verso l’alto, per poi portare a un sentiero più largo che scendeva lungo il versante
ovest del Tempio di Pietra.
Rimase seduto per qualche tempo a pensare a un piano, quindi tornò dai suoi
uomini.

Premian guidò i suoi cento lancieri all’interno della zona rocciosa. Era stanco e
aveva gli occhi gonfi. Gli uomini alle sue spalle cavalcavano silenziosamente
incolonnati per due: avevano tutti la barba lunga e la loro razione d’acqua
giornaliera era stata ridotta di un terzo. Per la quarta volta in quella mattina,
Premian alzò il braccio nell’aria e i soldati si fermarono. Un giovane ufficiale di
nome, Mikal lo raggiunse. «Cosa ha visto, signore?» gli chiese.
«Niente. Manda un esploratore in cima a quel pendio a nord-est.»
«Non abbiamo di fronte nessun esercito,» si lamentò Mikal. «Perché
dovremmo prendere tutte queste precauzioni?»
«Hai ricevuto degli ordini. Ubbidisci,» affermò Premian. Il giovane arrossì e si
allontanò. Premian non aveva voluto che Mikal prendesse parte a quella missione.
Il ragazzo era una testa calda. Peggio, anche dopo aver visto come avevano
distrutto il campo, egli continuava a ritenere i nadir dei selvaggi inferiori.
Purtroppo Gargan lo aveva assegnato a lui. Al generale piaceva quel ragazzo, gli
ricordava com’era da giovane. Premian sapeva che gli uomini non avevano nulla
da ridire per il fatto che stavano avanzando lentamente nel territorio nemico. I
lancieri reali avevano già combattuto diverse campagne contro i nadir nel passato e
la maggioranza di loro erano uomini prudenti che avrebbero preferito passare un
po’ più di tempo seduti su quelle scomode selle piuttosto che cadere in
un’imboscata.
Un fatto era certo: l’uomo che era riuscito a distruggere il campo non aveva una
sola freccia al suo arco. Premian non era mai stato in quei luoghi prima d’allora,
ma li aveva studiati attentamente sulle mappe molto particolareggiate che aveva
trovato nella Biblioteca centrale di Gulgothir e sapeva che nell’area intorno al
Tempio di Pietra i nadir potevano nascondere degli arcieri oppure far rotolare loro
addosso dei massi. Comunque, in nessun caso sarebbe corso a testa bassa nelle
braccia del nemico. Rimase fermo a osservare l’esploratore che raggiungeva la
cima del pendio. L’uomo alzò un braccio e lo fece roteare in aria indicando che la
strada era libera. Premian diede il segnale e le quattro compagnie che gli erano
state assegnate ripresero a muoversi.
Aveva la bocca secca. Pescò in una delle bisacce, prese una -piccola moneta
d’argento e la mise in bocca per stimolare la salivazione. Gli uomini lo
osservavano in continuazione, e se lui avesse bevuto essi lo avrebbero imitato.
Secondo le mappe in quella zona non c’era nessun grande pozzo d’acqua. C’erano
però diversi letti di fiumi in secca e scavando delle buche profonde negli alvei
avrebbero prodotto dei piccoli affioramenti d’acqua sufficienti ad abbeverare i
cavalli. Era anche possibile che esistessero delle vasche naturali di cui i cartografi
non erano a conoscenza. Premian cercò di rilevare la presenza di api, insetti che
non erano mai molto lontani dall’acqua, ma fino a quel momento non ne aveva
vista una. Neanche i cavalli avevano reagito al cambiamento della direzione del
vento: se ci fosse stata dell’acqua le bestie sarebbero state in grado di avvertirla
anche a grande distanza.
Premian convocò Jomil, il sergente maggiore. L’uomo era vicino alla
cinquantina ed era un veterano delle campagne contro i nadir. Il sottufficiale si
avvicinò a Premian e accennò il saluto. L’uomo sembrava ancora più vecchio,
dopo due giorni che non si radeva la barba striata di grigio. «Cosa ne pensi?» gli
chiese Premian.
«Sono vicini,» rispose Jomil. «Posso quasi sentirne l’odore.»
«Lord Larness ha richiesto dei prigionieri,» gli ricordò. «Dillo agli uomini.»
«Una ricompensa sarebbe piacevole,» suggerì Jomil.
«Non ce ne sarà nessuna, ma non dirlo. Non voglio colpi di testa.»
«Ah, lei è un uomo prudente, signore,» disse Jomil con un ghigno.
Premian sorrise. «Questo è quello che mi piacerebbe sentire dire dai miei nipoti
mentre sono seduto con loro in un tranquillo giardino durante l’autunno. “Il nonno
è un uomo prudente”.»
«Ho già dei nipoti,» disse Jomil.
«Probabilmente più di quanti tu sappia.»
«Non probabilmente, signore.» Jomil tornò dai suoi uomini e ripeté gli ordini.
Premian si tolse l’elmo piumato e si passò una mano tra i capelli sudati. Per un
attimo mentre il vento faceva evaporare il sudore provò sollievo, ma ben presto il
caldo opprimente tornò ad assillarlo e il giovane ufficiale si rimise l’elmo.
Il sentiero davanti a loro descriveva una curva e dietro di essa apparve il
Tempio di Pietra. Il torrione roccioso aveva la forma di una campana e si innalzava
maestoso verso il cielo. Premian rimase colpito da quella visione e desiderò avere
più tempo per poterlo disegnare. Il sentiero si inerpicava verso una cresta. Convocò
Mikal e gli disse di prendere la sua compagnia di venticinque soldati, di
raggiungere la cima del pendio e là di aspettarli. Il giovane salutò e guidò i suoi
uomini verso est. Premian lo fissò corrucciato. Stava cavalcando troppo in fretta.
Possibile che non riesca a capire che i cavalli sono stanchi e che l’acqua scarseg-
gia?
Mikal raggiunse la cresta appena in tempo per vedere un piccolo gruppo di
stupiti nadir che correvano verso i loro pony. Lord Gargan aveva detto che voleva
dei prigionieri e Mikal poteva già sentire le parole d’elogio che sarebbero piovute
su di lui. «Un raq d’oro all’uomo che ne cattura uno!» urlò, quindi spronò il caval-
lo al galoppo. I nadir salirono di fretta e furia in groppa alle loro cavalcature e si
lanciarono al galoppo giù per il pendio sollevando una nube di polvere rossa. Quei
pony non potevano reggere il confronto con i cavalli gothir. Mikal sapeva che li
avrebbero raggiunti in pochi attimi. Il giovane ufficiale estrasse la sciabola,
socchiuse gli occhi per ripararsi dalla polvere e spronò ancora di più il suo cavallo.
Gli uomini lo seguivano al galoppo. I nadir superarono una curva del sentiero... era
riuscito a vederli a mala pena. Lanciati in galoppo sfrenato i gothir superarono la
svolta.
Mikal scorse le sagome dei nadir alla sua sinistra: sembrava che stessero
saltando una staccionata.
In quel terribile momento Mikal vide il baratro aprirsi davanti a lui come la
bocca di una bestia gigante. Buttò tutto il peso indietro tirando selvaggiamente le
redini, ma era troppo tardi. Il suo castrato era troppo veloce e cadde nello
strapiombo. Mikal si staccò dalla sella e precipitò verso le rocce sottostanti
emettendo un urlo.
Dietro di lui i lancieri tirarono le redini per cercare di fermarsi. Sette caddero
subito e gli altri riuscirono a costeggiare il bordo della spaccatura. Quindici
guerrieri nadir sbucarono dalle rocce circostanti e corsero verso i soldati urlando a
squarciagola. I cavalli spaventati si imbizzarrirono e scagliarono nel vuoto altri
dieci lancieri. Gli otto rimasti saltarono giù dalle selle e si apprestarono a
combattere. Demoralizzati e in minoranza, con il baratro che si apriva alle loro
spalle, i soldati vennero uccisi rapidamente e senza pietà. Ci fu un solo ferito tra i
nadir. L’uomo aveva un profondo taglio sulla guancia. I nadir radunarono veloce-
mente i cavalli dei gothir presero gli elmi ai cadaveri e cominciarono a scendere
velocemente lungo il sentiero.
Premian e le tre compagnie rimanenti raggiunsero la cima della cresta qualche
momento dopo. Jomil raggiunse il bordo del precipizio, vide i corpi, quindi tornò
dal suo capitano per fare rapporto. «Tutti morti. Ci sono dei corpi sparpagliati sulle
rocce in fondo al baratro. La maggior parte di essi deve essere caduta nel precipizio
senza neanche combattere. C’erano parecchi uomini in gamba, signore.»
«Già, uomini in gamba,» concordò Premian, che tratteneva a stento l’ira dalla
sua voce. «Uomini in gamba guidati da un ufficiale con il cervello di una capra
malata.»
«Io ho sentito gli ordini che aveva impartito, signore. Lei gli aveva detto di
aspettare. Non ha nessuna colpa.»
«Scenderemo per seppellire i corpi,» disse. «Quanti pensi che fossero i nadir?»
«Non più di venti, a giudicare dalle tracce, signore. Alcuni dei nadir
cavalcavano davanti ai nostri ragazzi e hanno saltato la gola nel punto più stretto.»
«Bene, ventisei uomini morti contro quanti nemici uccisi?»
«Qualcuno di loro è stato ferito. C’era del sangue sul terreno nel punto in cui
avevano nascosto i pony. Avranno una decina di feriti.»
Premian lo fissò con un’occhiata dura. «Beh, forse sono uno o due,» ammise
Jomil.
Impiegarono più di tre ore per raggiungere il fondo del precipizio. Era quasi il
tramonto quando raggiunsero i corpi. Trovarono i diciotto cadaveri decapitati e
privi d’armatura.
CAPITOLO DECIMO

Sieben guardò il vecchio magazzino illuminato dalla debole luce di una


lanterna. Niobe e le altre donne nadir lo avevano pulito dalla polvere, dalle
ragnatele e avevano appeso cinque lanterne ai pioli di metallo che sporgevano dai
muri. Un paio barili d’acqua erano stati appoggiati contro la parete a nord, vicini a
due lunghi tavoli. Esaminò gli strumenti: un vecchio paio di pinze, tre coltelli
affilati, alcuni aghi ricurvi di corno e uno di metallo. Sieben aveva le mani che gli
tremavano. Niobe si avvicinò silenziosamente. «È tutto ciò di cui hai bisogno, po-
eta?» gli chiese appoggiando sul tavolo una piccola scatola piena di filo.
«Coperte,» disse lui. «Avremo bisogno di coperte e scodelle per il cibo.»
«Perché le scodelle per il cibo?» gli chiese. «Se un ferito ha la forza di
mangiare, ha anche la forza di combattere.»
«Un ferito perde sangue, quindi forza. Il cibo e l’acqua l’aiuteranno a
ricostituirle.»
«Perché tremi?»
«Io ho assistito dei chirurghi solo tre volte in vita mia. Una volta mi è anche
capitato di cucire una ferita alla spalla. Ma la mia conoscenza dell’anatomia... del
corpo umano... è molto limitata. Ad esempio, non so come curare una ferita
profonda alla pancia.»
«Non si cura,» rispose Niobe, tranquilla. «Una ferita profonda alla pancia vuol
dire morte.»
«Che notizia rassicurante. Ho bisogno di miele. Va bene per le ferite,
specialmente se mischiato con il vino: previene le infezioni.»
«Niente api, po-eta. Niente api, niente miele. Però abbiamo un po’ di foglie
secche di lorassium. Vanno bene per calmare il dolore e per i sogni. E anche
alcune radici di hakka per allontanare i demoni dalla pelle blu.»
«I demoni dalla pelle blu? Cosa sono?»
«Tu conosci veramente poco riguardo le ferite. Sono dei diavoli invisibili che si
insinuano nelle ferite, le fanno diventare blu. Dopo la carne comincia a puzzare e
l’uomo muore.»
«Ho capito. La cancrena. E cosa bisogna fare con queste radici di hakka?»
«Ne facciamo una poltiglia e la spalmiamo sopra la ferita. Ha un odore pessimo
e i demoni non si avvicinano.»
«E quale cura hai per il tremore alle mani, mia signora?» le chiese.
Lei rise, fece scivolare una mano lungo la pancia dell’uomo fermandosi tra le
sue cosce. «Ho una grande cura,» gli disse. Fece passare il braccio sinistro intorno
al collo di Sieben e lo baciò. Nel sentire il calore e la dolcezza della lingua della
donna contro la sua, il poeta si eccitò.
Niobe si allontanò. «Adesso guardati le mani,» gli disse. Non stavano più
tremando. «Una grande cura, vero?»
«Non ho nulla da obbiettare a riguardo,» rispose Sieben. «Dove possiamo
andare?»
«Da nessuna parte. Ho molto da fare. Presto Shi-sai comincerà il travaglio e io
le ho promesso che sarei stata al suo fianco quando romperà le acque. Ma se
stanotte ti dovessero tremare le mani, puoi trovarmi vicina al muro nord.»
Lo baciò un’altra volta, quindi si allontanò e uscì dalla stanza. Sieben diede
un’ultima occhiata all’ospedale quindi spense la lanterna e uscì a sua volta.
Malgrado la luna brillasse alta nel cielo, degli uomini stavano riparando i
camminamenti a fianco della crepa che si apriva sul muro ovest, mentre invece gli
altri nadir erano seduti intorno ai fuochi. Druss stava parlando con Talismano e
Bartsai sugli spalti sopra i cancelli.
Sieben pensò di raggiungerli, ma si rese conto che non aveva più voglia di
sentire parlare di morte e battaglie. La sua mente tornò a concentrarsi su Niobe.
Quella ragazza era completamente diversa da tutte le altre donne che aveva
conosciuto. Durante il loro primo incontro, l’aveva giudicata abbastanza attraente,
ma non più di tanto. In un secondo momento, quando l’aveva vista più da vicino,
gli occhi allegri della ragazza gli avevano fatto cambiare idea. Ma anche così
Niobe avrebbe fatto una ben magra figura se paragonata alle belle donne con cui
aveva diviso il letto. Tuttavia ogni volta che aveva fatto l’amore con lei, la sua
bellezza era sembrata aumentare. Per lui quello era un mistero. Al confronto della
ragazza nadir tutte le altre donne sembravano delle prostitute. Mentre era perso
nelle sue riflessioni due guerrieri gli si avvicinarono e uno si rivolse a lui in nadir.
«Mi dispiace, ragazzi,» disse loro, sfoderando un sorriso nervoso. «Non capisco
la vostra lingua.» Il più alto dei due, un guerriero dall’aspetto feroce e dagli occhi
malvagi indicò il compagno e disse. «Questo ha grande dolore.»
«Grande dolore,» fece eco, Sieben.
«Tu dottore. Guarire.» Sieben fissò il secondo guerriero. Il volto dell’uomo era
grigio, gli occhi incavati e la mascella tesa. «Entriamo,» borbottò il primo uomo,
dirigendosi verso l’ospedale. Sieben li seguì con il cuore pesante, accese le lanterne
e li guidò a uno dei due tavoli. Il guerriero più basso fece per togliersi la maglia,
ma non ci riuscì per via del dolore. Il suo compagno gliela strappò e Sieben vide
che sulla schiena del nadir, vicino alla spina dorsale, c’era un’escrescenza grossa
quanto una piccola mela. La pelle intorno al bubbone era rossa, gonfia e infiam-
mata. «Taglia,» disse il guerriero più alto.
Sieben fece segno all’uomo di sdraiarsi sul tavolo quindi cominciò a tastare con
cautela il gonfiore. Il nadir si irrigidì, ma non si lasciò sfuggire nessun lamento. Il
bubbone era duro come una pietra. «Avvicina la lanterna,» ordinò Sieben al
guerriero alto. L’uomo eseguì, il poeta esaminò più da vicino l’escrescenza, quindi
prese il coltello più affilato e fece un profondo respiro. Non aveva nessuna idea di
cosa potesse essere quel bubbone: aveva l’aspetto di un foruncolo gigante, ma per
quel che ne sapeva lui, poteva anche essere un tumore. Una cosa era certa però, il
fardello rappresentato dall’aspettativa dei due uomini gravava su di lui, quindi
doveva agire. Appoggiò la punta del coltello sul bubbone e premette con forza. Un
fiotto di pus denso e giallo prese a colare dal taglio e la pelle si lacerò come la
buccia di un frutto marcio. Il guerriero emise un urlo strozzato e inumano. Sieben
appoggiò il coltello e cominciò a schiacciare il bubbone. Altro pus, questa volta
misto a sangue, continuò a uscire dal taglio. Il nadir emise un sospiro e si rilassò
sul tavolo. Sieben si avvicinò a una delle tinozze d’acqua, riempì un catino di legno
e si lavò le mani e i polsi. Tornato vicino al tavolo vide che dalla ferita usciva
solamente sangue. La pulì con uno panno umido, vi applicò un tampone e lo bloccò
con un giro di bende intorno ai fianchi dell’uomo. Il paziente disse qualcosa in
nadir al suo compagno, quindi, senza dire un’altra parola, i due uscirono dal locale.
Sieben si sedette. «Di niente, è stato un piacere,» disse a voce bassa per non
farsi sentire.
Spense la lanterna, uscì da una porta secondaria e si trovò vicino all’entrata
principale del santuario. Niobe era occupata, lui non aveva nulla da fare quindi
spinse la porta e vi entrò.
C’era qualcosa in quel luogo che tormentava il suo subconscio, ma fino a quel
momento non era riuscito a portare in superficie quel tarlo. I suoi occhi vennero
attratti dalla placca in metallo nero posta sul coperchio della bara. La scritta, parte
in lettere e parte in geroglifici, era in chiatze e Talismano gli aveva detto che
significava:

Oshikai Flagello del Demone – Signore della guerra.

Il poeta si inginocchiò di fronte alla scritta, osservò attentamente i simboli


cesellati profondamente nel metallo, ma non riuscì a venire a capo di nulla. Irritato
dal suo fallimento uscì dal santuario, salì sugli spalti del muro nord e si sedette sul
parapetto a osservare la luna sopra le montagne lontane. I suoi pensieri tornarono a
Niobe, alla sua bellezza, e ascoltò per qualche attimo in attesa di sentire i vagiti del
bambino. Sii paziente, si disse. Prese il lon-tsia che teneva in tasca e guardò il
profilo della donna. Anche lei era bellissima. Girò il medaglione e fissò l’imma-
gine di Oshikai. «Stai causando un mucchio di problemi per essere morto da dieci
secoli,» disse.
In quel momento comprese...
Si alzò, scese dagli spalti, tornò nel santuario e si accosciò di fronte alla placca
di metallo, mise a confronto il nome che vi era inciso con quello del medaglione e
vide che il nome della targa presentava due simboli identici in più. Li osservò con
attenzione e vide che erano più profondi degli altri.
«Cosa hai scoperto?» gli chiese Talismano entrando nella stanza e
inginocchiandosi di fianco al poeta.
«Questa è la targa originale?» gli chiese Sieben. «Fu fatta dai seguaci di
Oshikai?»
«Credo di sì,» disse Talismano. «Perché?»
«Cosa sono questi simboli?»
«Le lettere “i” dell’alfabeto nadir.»
«Ma nell’alfabeto chiatze la lettera “i” non esiste,» affermò Sieben. «Quindi la
targa non è originale o il nome è stato alterato.»
«Non ti seguo,» confessò Talismano.
Sieben si sedette. «A me non piacciono i misteri,» esordì. «Se questa fosse la
placca originale allora non ci sarebbe nessuna “i”. Se non lo è, perché è stata scritta
in chiatze invece che in nadir?»
Strusciando sulle ginocchia, Sieben appoggiò le mani sulla targa e premette i
due simboli. Qualcosa cedette, si udì uno scatto ovattato e la piastra cadde a terra
rivelando una piccola nicchia in cui era stato nascosto un sacchettino di pelle.
Talismano spinse da parte Sieben, afferrò l’involucro, l’aprì e lo capovolse
sparpagliando sul pavimento due nocche su cui erano stati dipinti dei simboli neri,
una piccola treccia di capelli e un pezzo di pergamena ripiegata. Talismano rimase
deluso. «Pensavo di aver trovato gli Occhi di Alchazzar,» disse.
Sieben prese la pergamena, cercò di aprirla ma gli si frantumò tra le dita. «Cosa
sono questi oggetti?» chiese.
«Hai trovato la borsa della medicina di uno sciamano. Le nocche sono usate per
le profezie, i capelli appartengono al peggior nemico dello sciamano. Per quanto
riguarda la pergamena non so nulla.»
«Perché hanno nascosto la borsa qua?»
«Non lo so,» sbottò Talismano. Sieben allungò una mano e afferrò le nocche.
Il mondo prese a girare. Il poeta lanciò un urlo e venne trascinato
nell’oscurità...

Stupito dall’improvviso collasso del biondo drenai, Talismano gli appoggiò


immediatamente il pollice e l’indice sul collo per sentire la pulsazione. Anche se il
battito era incredibilmente lento il cuore funzionava ancora. Afferrò Sieben per le
spalle e lo scosse rudemente, ma non ottenne nessuna reazione. Si alzò e corse
fuori dal santuario. Gorkai era seduto a terra intento ad affilare la sua spada con la
cote. «Va a chiamare Nosta Khan e Druss,» gli ordinò, quindi tornò da Sieben.
Druss fu il primo ad arrivare. «Cosa gli è successo?» gli chiese,
inginocchiandosi.
«Stavamo parlando quando è collassato. È soggetto ad attacchi di cuore?»
«No.» Druss imprecò in tono sommesso. «Il suo cuore batte appena.»
Talismano fissò il drenai e vide che era spaventato. Nosta Khan entrò nel santuario
e il giovane guerriero nadir vide lo sguardo penetrante dello sciamano posarsi
immediatamente sulla targa adagiata a terra.
«Gli Occhi...?» chiese.
«No,» disse Talismano e gli raccontò quello che avevano trovato.
«Pazzi!» sibilò Nosta Khan. «Avreste dovuto chiamarmi immediatamente.»
«Era solo una borsa della medicina. Non c’era nessun gioiello,» rispose
Talismano, sentendo l’ira crescere in lui.
«È la borsa della medicina di uno sciamano,» sbottò Nosta Khan. «Era protetta
da un incantesimo.»
«L’ho toccata anch’io, ma a me non è successo nulla.»
Il piccolo sciamano si inginocchiò a fianco di Sieben e gli aprì la mano destra.
Nel centro del palmo c’erano le due nocche. Le ossa erano completamente bianche
poiché i simboli che vi erano stati disegnati sopra si erano impressi sulla pelle del
poeta. «La borsa si è aperta,» disse Nosta Khan, «e non sei stato tu a prendere le
Ossa da Veggente.»
Druss si alzò troneggiando su Nosta Khan. «Non mi importa di chi è stata la
colpa,» disse. Il tono di voce era pericolosamente piatto e i suoi occhi freddi
brillavano. «Quello che voglio da te è che tu lo riporti indietro. Adesso!»
Avvertendo il pericolo, lo sciamano ebbe un attimo di panico nel fissare gli
occhi del gigantesco drenai. Alzò una mano, gliela appoggiò sul cuore e pronunciò
due parole di potere. Druss si irrigidì ed emise un lamento. Era un incantesimo
molto antico che imprigionava la vittima in fiammeggianti catene di dolore. Se
Druss avesse cercato di muoversi il suo corpo sarebbe stato straziato da un dolore
tanto lancinante che avrebbe perso i sensi. Ora, pensò trionfalmente Nosta Khan,
lascerò che questo gajin drenai assapori la forza del potere dei nadir! Lo
sciamano stava per parlare, quando Druss emise un ringhio basso e gutturale. La
mano del guerriero scattò in avanti e afferrò lo sciamano per la gola alzandolo da
terra. Le gambe del nadir scalciarono a vuoto nell’aria e malgrado il dolore il
drenai gli disse: «Togli... l’incantesimo, piccolo uomo... o... ti spezzerò... il collo!»
Talismano sfoderò il coltello e fece per difendere il suo compatriota. «Un altro
passo ed è morto,» lo avvertì Druss. Nosta Khan emise un verso soffocato e riuscì
a pronunciare tre parole in una lingua che né Druss né Talismano compresero. Il
dolore scomparve, il drenai lasciò cadere lo sciamano e gli appoggiò un dito contro
il petto. «Prova a rifarmi uno scherzo simile, nano schifoso, e io ti ammazzo!»
Talismano vide chiaramente che Nosta Khan era spaventato. «Siamo tutti
amici,» disse il giovane nadir, rinfoderando il coltello, frapponendosi tra Druss e lo
sciamano. «Cerchiamo di pensare a una soluzione.»
Nosta Khan si passò una mano sulla gola escoriata. Era così stupito che riusciva
a malapena a pensare. Sapeva che l’incantesimo aveva funzionato, ma stentava a
credere al fatto che qualcuno fosse riuscito a resistere a un simile dolore. Cosciente
del fatto che entrambi gli uomini stavano aspettando che parlasse, cercò di
concentrarsi; prese le nocche e le strinse nel pugno.
«L’anima del tuo amico è stata risucchiata fuori dal suo corpo,» disse con voce
gracchiante. «Quello era il sacchetto di Shaoshad il rinnegato. Era lo sciamano che
rubò gli Occhi, che la sua anima sia dannata per sempre e possa bruciare nei
diecimila inferni!»
«Perché avrebbe dovuto nasconderlo qua?» chiese Talismano. «A cosa gli è
servito?»
«Non lo so. Vediamo se posso invertire l’incantesimo.» Prese la mano inerte di
Sieben e cominciò a salmodiare.

Sieben cadde per un’eternità roteando nel nulla quindi si svegliò di scatto. Era
seduto a fianco di un fuoco che si trovava nel centro di un cerchio di pietre.
Davanti a lui, seduto a terra, c’era un vecchio nudo sulle cui spalle spiccava una
sacca rigonfia. Su entrambi i lati del mento dell’uomo c’erano due lunghi ciuffi di
barba che arrivavano a toccargli il petto magro. I capelli erano rasati sul lato
sinistro della testa mentre sul lato destro erano lunghi e raccolti in una stretta
treccia.
«Benvenuto,» lo salutò. Sieben si sedette. Stava per parlare quando notò con
orrore che al suo interlocutore erano state tagliate le mani e che dai moncherini
colava il sangue.
«Dolce paradiso. Devi provare un dolore fortissimo,» gli disse.
«Sempre,» confermò il vecchio con un sorriso. «Ma quando qualcosa non cessa
mai e rimane costante, diventa sopportabile.» Con una scrollata di spalle fece
cadere la borsa a terra, vi infilò dentro i moncherini sanguinanti e tirò fuori una
mano. La chiuse tra le ginocchia e vi appoggiò il moncherino. L’arto tremò e si
attaccò nuovamente al braccio. «Ah, bene, bene,» disse il vecchio flettendo le dita.
Tirò fuori l’altra estremità e ripeté l’operazione. Batté le mani, si tolse gli occhi e
li mise nella borsa.
«Perché ti stai facendo questo?» gli chiese Sieben.
«È una costrizione imposta dall’incantesimo a cui sono soggetto,» gli spiegò lo
sconosciuto in tono amabile. «Essi non si accontentarono di uccidermi e basta. Oh
no! Ora posso avere le mani o gli occhi, ma mai nello stesso momento. Se
provassi, e l’ho fatto, il dolore sarebbe insopportabile. Ho molta ammirazione per
il modo in cui è stato lanciato l’incantesimo. Non credevo che durasse così a
lungo. Comunque sono riuscito a contrastare la maledizione lanciata sulle
orecchie e sulla lingua. Vedo che hai trovato la mia borsa della medicina.»
Il fuoco sembrò spegnersi, il vecchio fece un gesto con le mani e le fiamme
tornarono ad ardere. Sieben fissò le orbite vuote del suo interlocutore. «Hai mai
provato a tenere un occhio e una mano sola?» gli chiese.
«C’è qualcosa in me che ti fa credere che io sia un idiota? Certo che ho
provato. Funziona... ma il dolore è indescrivibile.»
«Devo dire che questo è il sogno peggiore della mia vita,» affermò Sieben.
«Non è un sogno. Tu sei qua veramente.» Sieben stava per porre una domanda
quando dal buio giunse un ringhio bestiale. La mano del vecchio si alzò e dalle
dita scaturì un fulmine biforcuto che esplose tra le rocce con un forte boato. Dopo
qualche attimo il silenzio tornò a regnare. «Come hai visto ho bisogno delle mie
mani per continuare a sopravvivere in questo luogo. Ma non posso andare in
nessun altro luogo senza i miei occhi. È una punizione dolcemente malvagia. Mi
sarebbe piaciuto riuscire a pensarla io stesso.»
«Cos’era quella...cosa?» chiese Sieben allungando il collo per cercare di
scorgere qualcosa al di là del cerchio di pietre. Tuttavia non vide nulla, eccettuato
la fioca luce del fuoco da campo davanti al quale era seduto, tutto il resto era
immerso nel buio.
«Difficile dirlo, ma non ci voleva fare del bene. Io sono Shaoshad.»
«Sieben. Sieben il poeta.»
«Un poeta? È passato tantissimo tempo dall’ultima volta che ho ascoltato il bel
suono delle parole in rima. Ma temo che tu non rimarrai con me tanto a lungo,
un’altra volta, forse... Dimmi, come hai fatto a trovare la mia borsa.»
«La lettera “i” dell’alfabeto nadir è stata rivelatrice,» gli disse Sieben.
«Sì, era un gioco di parole, capisci. Sapevo che nessun nadir l’avrebbe capito.
Non è un popolo portato per i giochi di parole. Essi si sarebbero messi in cerca
degli Occhi di Alchazzar. Occhi dietro le “i”. Bello, vero? 1»
«Geniale,» concordò Sieben. «Quindi se ho ben capito tu non sei nadir?»
«Lo sono solo in parte. Per il resto sono chiatze e sechuin. Voglio che tu faccia
qualcosa per me. Non ti posso offrire nulla in cambio.»
«Di cosa hai bisogno?»
«La mia borsa della medicina. Voglio che tu bruci la ciocca di capelli, che
butti le nocche nell’acqua, polverizzi la pergamena e seppellisca il sacchetto. Puoi
ricordare tutto ciò?»
«Capelli bruciati, nocche buttate in acqua, pergamena polverizzata e
sparpagliata al vento, sacchetto seppellito,» ripeté Sieben. «A cosa servirà tutto
ciò?»
«Credo che la liberazione del mio potere elementale possa servire ad annullare
questo maledetto incantesimo restituendomi l’uso delle mani e degli occhi. A
proposito...» Prese gli occhi dalla borsa li infilò nelle orbite, fece cadere le mani
nel sacco e il sangue riprese a scorrere dai moncherini. «Sei un bell’uomo e il tuo
volto ha un’aria onesta. Penso di potermi fidare di te.»
«Tu sei colui che ha rubato gli Occhi di Alchazzar,» affermò Sieben.
«Esatto. Fu un grave errore. Che dire però, l’uomo che non commette errori
non fa mai nulla, non trovi?»
«Perché l’hai fatto?»
«Ebbi una visione, ma essa si rivelò falsa come non mai. Io pensai di poter
restituire l’Unificatore alla mia gente con cinque secoli d’anticipo. L’arroganza è
sempre stata la mia rovina. Pensai di usare gli Occhi per far resuscitare il corpo
di Oshikai ed evocare la sua anima. Beh, riuscii a evocare la sua anima.»
«Cosa successe?»
«Ci crederesti appena. Anch’io dopo tutti questi anni trovo difficile crederlo.»
«Penso di sapere cosa sia successo,» affermò Sieben. «Ti disse che non
sarebbe tornato in vita senza la sua Shul-sen.»
«Esattamente. Sei un ragazzo intelligente. Riesci a indovinare cosa successe
dopo?»
«Ti mettesti alla ricerca del corpo della donna, ecco perché fosti trovato vicino
alla sua tomba. Quello che non riesco a capire è come mai tu non usasti il potere
dei gioielli per salvarti.»
«Ah, lo usai, e fu proprio per quello che venni trovato e ucciso.»
«Dimmi,» sussurrò Sieben, affascinato...

Il poeta emise un lamento, aprì gli occhi, vide Nosta Khan inclinato su di lui e
imprecò. Druss lo afferrò per un braccio e lo tirò in piedi. «Per i paradisi, poeta, ci
hai fatti spaventare: come ti senti?»

1
In inglese “eye” e “i” hanno la stessa pronuncia (N.d.R.).
«Scocciato!» affermò Sieben. «Un momento di più e mi avrebbe detto dove
erano nascosti i gioielli.»
«Hai parlato con Shaoshad?» gli chiese Nosta Khan. «Sì. Mi ha spiegato perché
li rubò.»
«Descrivimelo.»
«Un uomo dalla barba strana a cui si staccano gli occhi e le mani.»
«Aha!» urlò contento Nosta Khan. «L’incantesimo tiene. Soffre?»
«Sì, ma la sta prendendo piuttosto bene. Puoi farmi tornare indietro da lui?»
«Solo tagliandoti il cuore e lanciandovi sopra sette incantesimi,» gli spiegò lo
sciamano.
«Lo prenderò come un no,» rispose Sieben.
Il pianto di un bambino appena nato giunse da fuori il santuario e Sieben
sorrise. «Spero che vogliate scusarmi. È stata un’esperienza molto stancante e ho
bisogno di riposo.» Si piegò e raccolse la borsa della medicina e il suo contenuto.
«Cosa vuoi fare con quegli oggetti?» gli chiese Nosta Khan.
«Ricordi di un’esperienza interessante,» gli disse. «Li mostrerò ai miei nipoti e
mi vanterò della mia visita nell’aldilà.»

Zhusai era spaventata, ma non era una paura comune a tutti gli uomini come
quella della morte. È peggio, comprese. La morte non era altro che una porta su
una nuova dimensione, ma in quel momento aveva l’impressione di doversi
estinguere. In principio Shul-sen era stata solo un sogno curiosamente spiacevole
che comunque era rimasto confinato nella sua dimensione onirica, ma ora stava
sentendo delle voci che le sussurravano nel subconscio e i suoi ricordi stavano
iniziando a diventare confusi, indistinti, e cominciavano a essere rimpiazzati da
quelli della consorte di Oshikai. Ricordava, sempre con maggiore chiarezza, le
cavalcate sulle colline, loro che facevano l’amore all’ombra di Jiang-shin, la Madre
delle Montagne, il vestito nuziale di seta bianca, il giorno del suo matrimonio nel
Palazzo Bianco di Pechiun.
«Smettila!» urlò, quando le sembrò che i ricordi di Shul-sen stessero per
soppiantare del tutto i suoi. «Non sono io. Non è la mia vita. Io sono nata a... a...»
Non riuscì a ricordarlo. «I miei genitori sono morti e io sono stata cresciuta da mio
nonno...» Dimenticò il nome per un attimo: poi «Chorin-Tsu!» urlò trionfante.
Talismano entrò nella stanza e lei gli si gettò tra le braccia. «Aiutami!» lo implorò.
«Cosa c’è che non va, amore mio?»
«Sta cercando ancora di uccidermi,» singhiozzò Zhusai. «Non posso
combatterla.»
Gli occhi a mandorla della ragazza erano spalancati e irradiavano terrore. «Chi
sta cercando di ucciderti?» le chiese.
«Shul-sen. Vuole la mia vita... il mio corpo. Posso sentirla dentro di me, i suoi
ricordi che prendono il posto dei miei.»
«Calmati,» le disse. La prese per mano, la fece sedere sul letto, quindi si
avvicinò alla finestra e chiamò Gorkai. Quando furono raggiunti dal nadir,
Talismano gli raccontò delle paure di Zhusai.
«Ne ho già sentito parlare,» disse Gorkai, torvo. «Si chiama possessione.»
«Cosa possiamo fare?» chiese Talismano.
«Scoprire quello che vuole,» consigliò Gorkai. «Supponiamo che voglia me?»
chiese Zhusai. «La mia vita.»
«Perché non ne hai parlato allo sciamano?» chiese Gorkai. «La sua conoscenza
in questo campo è molto più vasta della mia.»
«Non voglio che mia stia vicino,» rispose la ragazza con voce spezzata. «Mai.
Non ho fiducia in lui. Egli... vorrebbe che lei mi uccidesse. Lei è Shul-sen, la
madre del popolo nadir. Una strega. Io non ho nulla, mentre lei ha del potere ed
egli cercherebbe di usarlo.»
«Non ho le capacità di affrontare una simile situazione, Talismano,» ammise
Gorkai. «Non so lanciare alcun tipo d’incantesimo.»
Talismano strinse la mano di Zhusai. «Allora lo farà Nosta Khan. Va a
chiamarlo.»
«No!» urlò Zhusai, cercando di alzarsi. Talismano la strinse forte al suo petto.
«Credimi!» gli disse il giovane nadir. «Non lascerò che ti faccia del male.
Sorveglierò Nosta Khan con molta attenzione. Se fa qualcosa di pericoloso, lo
uccido. Abbi fiducia!»
Il corpo della ragazza venne attraversato da un forte spasmo. Zhusai chiuse gli
occhi e quando li aprì ogni traccia di paura era scomparsa. «Oh, io ho fiducia in te,
Talismano,» disse con dolcezza. Il ragazzo sentì la spalla di lei allontanarsi dalla
sua, e dando ascolto al suo sesto senso, si scostò un poco giusto in tempo per
vedere la lama del coltello. Talismano bloccò il colpo facendo prontamente scattare
il braccio destro verso l’alto, quindi le diede un pugno al volto con il sinistro. La
testa di Zhusai scattò all’indietro e il suo corpo privo di sensi si accasciò sul letto.
Talismano le tolse l’arma dalla mano inerte e lo gettò dall’altro lato della stanza.
Nosta Khan arrivò proprio in quel momento. «Cosa sta succedendo qua?»
chiese.
«Lei mi ha preso il coltello e ha cercato di uccidermi, ma non era Zhusai. È
posseduta.»
«Il tuo servo me ne ha parlato. Lo spirito di Shul-sen sta cercando di liberarsi.
Avresti dovuto venire prima da me, Talismano. Quanti altri segreti mi stai
nascondendo?»
Si avvicinò al letto senza aspettare la risposta. «Legale le mani dietro la
schiena,» ordinò a Gorkai. Il guerriero diede una veloce occhiata a Talismano che
assentì con un rapido cenno del capo.
Usando una piccola cintura di corda le legò i polsi dietro la schiena. Nosta
Khan la sollevò, le appoggiò la schiena ai cuscini del letto quindi prese da un
sacchetto di cuoio una collana di denti umani e gliela mise al collo. «Da questo
momento in avanti,» disse, «nessuno dovrà più parlare.» Le appoggiò una mano
sulla fronte e cominciò a salmodiare.
Ai due spettatori sembrò che la temperatura nella stanza stesse scendendo
improvvisamente e che un vento freddo avesse cominciato a soffiare dalla finestra.
Le salmodie continuarono abbassandosi e alzandosi di tono. Talismano non
conosceva la lingua, se di lingua si trattava, che lo sciamano stava usando, ma
l’effetto all’interno del locale era stupefacente. Del ghiaccio cominciò a formarsi
sul telaio della finestra e sui muri. Gorkai prese a tremare. Nosta Khan non mostrò
alcun segno di disagio. Dopo qualche tempo le salmodie terminarono e lo
sciamano tolse la mano dalla fronte della ragazza. «Apri gli occhi,» le ordinò, «e
dimmi come ti chiami.»
Gli occhi scuri di Zhusai si aprirono. «Io sono...» Sorrise. «Io sono colei che è
stata la benedetta tra tutte le donne.»
«Tu sei lo spirito di Shul-sen, moglie di Oshikai Flagello del Demone?»
«Sì.»
«Sei morta, donna. Non c’è posto per te qua.»
«Non mi sento morta, sciamano. Posso sentire il mio cuore che batte e la corda
legata intorno ai miei polsi.»
«Il corpo che avverti è quella della donna a cui l’hai sottratto. Le tue ossa
giacciono sepolte in una prigione scavata nella roccia vulcanica. O forse non
ricordi la notte della tua morte?»
«Oh, se la ricordo,» disse, quindi socchiuse le labbra e un luccichio le pervase
gli occhi. «Mi ricordo bene di Chakata e dei suoi chiodi d’oro. Era umano allora.
Riesco ancora a sentire il dolore di quando me li premette lentamente negli occhi.
Abbastanza in profondità da accecarmi, ma non da uccidermi. Ricordo. Oh, sì,
ricordo tutto. Ma ora sono tornata. Liberami le mani, sciamano.»
«No,» rispose Nosta Khan. «Tu sei morta, Shul-sen, e anche tuo marito lo è. Il
tuo tempo è finito.»
Shul-sen emise una risata che rimbombò in tutta la stanza. Talismano sentì le
sue ossa pervase dal freddo. Al suo fianco Gorkai, che ora tremava come una
foglia, stava facendo uno sforzo immane per non scappare. La risata si spense. «Io
sono una strega con grandi poteri. Oshikai lo sapeva e seppe usarmi bene. Dai
ricordi della ragazza ho saputo che state per affrontare un esercito, sciamano. Io
posso aiutarvi. Liberami!»
«Come puoi aiutarci?»
«Liberami e lo vedrai.»
Talismano fece per prendere furtivamente il coltello, ma il fodero era vuoto.
Allungò la mano e prese quello di Gorkai. La donna lo fissò. «Vuole ucciderti,»
avvertì Nosta Khan.
«Non parlate, nessuno di voi due!» li mise in guardia lo sciamano. Si girò verso
la donna e cominciò a salmodiare. Il corpo di Zhusai si inarcò, le labbra si
arricciarono in un ringhio bestiale e dalla sua bocca scaturì una singola parola di
potere. Nosta Khan venne scagliato lontano dal letto e colpì la parete sotto la
finestra. Il vecchio cadde a terra, si mise in ginocchio, ma la voce di Shul-sen
risuonò nuovamente nella stanza. La testa di Nosta Khan sbatté contro il davanzale
e lui cadde a terra privo di sensi.
La donna fissò Gorkai. «Liberami,» gli ordinò. Il nadir prese ad avanzare sulle
gambe malferme.
«Stai fermo dove sei!» gli ordinò Talismano. Il guerriero nadir lanciò un urlo di
dolore, ma si sforzò di fermarsi, si inginocchiò e cadde a terra con un lamento.
«Quindi,» disse lei, fissando Talismano. «Tu sei un uomo di potere. Il tuo servo
ti ubbidisce, malgrado il dolore che sente. Molto bene, puoi liberarmi.»
«Tu non amavi Oshikai?» le chiese improvvisamente.
«Cosa? Tu metti in dubbio la mia devozione. Tu, un contadino ignorante?»
«Era una domanda onesta.»
«Allora ti risponderò: sì, io l’amavo. Amavo il suo respiro sulla mia pelle, il
suono della risata, la gloria della sua furia. Liberami, adesso!»
«Ti sta ancora cercando,» la informò Talismano.
«Egli è morto un migliaio di anni fa,» rispose lei. «Il suo spirito è in paradiso.»
«Non è così, signora. Io gli ho parlato quando sono arrivato qua. Ho evocato il
suo spirito e la sua prima domanda è stata: “Mi porti notizie di Shul-sen?” Io gli
dissi che c’erano molte leggende riguardo la tua fine, ma che nessuno sapeva cosa
ti fosse successo con esattezza. Egli mi ha detto: “Io l’ho cercata nella Valle degli
Spiriti, nella Valle dei Dannati, nei Campi degli Eroi, nelle Sale dei Possenti. Ho
attraversato il Vuoto più volte senza ottenere nulla. Non riesco a trovarla”. E per
quanto riguarda il paradiso ha aggiunto: “Quale paradiso sarebbe senza Shul-sen?
Posso sopportare la morte, ma non la separazione dall’anima della mia amata. Io la
troverò, dovessi anche impiegarci dozzine di eternità”.»
Shul-sen rimase silenziosa per attimo, poi una luce ferale balenò nei suoi occhi.
«So leggere nel cuore degli uomini e tu hai detto la verità,» dichiarò. «Ma Oshikai
non mi troverà mai. Chakata ha trascinato il mio spirito nell’Oscurità dove ora è
sorvegliato da demoni che un tempo erano uomini. Anche Chakata è là, ma nessun
uomo potrebbe riconoscerlo ora; egli mi tormenta e tortura ogni volta che ne ha
voglia. O almeno lo faceva prima che riuscissi a scappare. Io non posso andare da
Oshikai, Talismano. Se dovessi morire qua verrei riportata nell’Oscurità.»
«È là che hai inviato lo spirito di Zhusai?» le chiese.
«Sì. Ma cos’è la sua vita in confronto alla mia? Io ero una regina e lo sarò
ancora.»
«Quindi lascerai che Oshikai ti cerchi per l’eternità, rischiando la sua anima
contro i terrori del Vuoto?»
«Non posso fare nulla qua!» urlò lei. Vicino alla finestra Nosta Khan si svegliò,
ma non disse nulla, anche Gorkai rimase immobile, respirando appena.
«Dove è l’Oscurità?» le chiese Talismano. «Perché Oshikai non riesce a
trovarla?»
«Non fa parte del Vuoto,» spiegò Shul-sen con voce piatta. «Conosci la natura
dell’aldilà? Il Vuoto si trova tra due livelli, in poche parole è posto tra il regno dei
cieli, il paradiso e Giragast, l’inferno. Il Vuoto è una zona tra questi due reami
dove le anime vagano in cerca del riposo eterno. Chakata decise di imprigionarmi
nel centro oscuro di Giragast, un pozzo situato nel centro dei laghi di fuoco.
Nessuna anima umana attraverserebbe mai quel luogo di sua spontanea volontà e
Oshikai non ha nessun motivo di pensare che io mi trovi là. Aveva fiducia in
Chakata. Non ha mai capito quanto fosse profonda la lussuria di quell’uomo e la
portata del suo tradimento. Ma se lo sapesse, allora egli sperimenterebbe la
seconda morte, quella definitiva. Non è possibile che un guerriero da solo, neanche
uno potente come il mio lord, possa superare il passaggio infestato dai demoni, né
sconfiggere la creatura che Chakata è diventato.»
«Io andrò con lui,» promise Talismano.
«Tu? Cosa sei, tu? Sei solo un bambino nel corpo di un uomo. Quanti anni hai,
bambino? Diciassette? Venti?»
«Ne ho diciannove. E attraverserò il Vuoto insieme a Oshikai fino alle porte di
Giragast.»
«No, non è sufficiente. So che sei coraggioso, intelligente e rapido, Talismano.
Ma per superare quei cancelli c’è bisogno di qualcosa di più. Tu mi stai chiedendo
non solo di rischiare la mia anima condannandola all’Oscurità e al tormento eterno,
ma anche quella dell’uomo che amo. Il numero mistico è Tre. Conosci un guerriero
che possa essere al pari di Oshikai? C’è qualcun altro che vorrebbe attraversare il
Vuoto con te?»
«Io,» si offrì Gorkai, alzandosi in piedi.
Gli occhi di Shul-sen lo fissarono. «Un altro uomo coraggioso, ma non
abbastanza bravo.»
Talismano si avvicinò alla finestra e si sporse oltre il davanzale. Druss si stava
lavando al pozzo. Il nadir lo chiamò e gli chiese di raggiungerlo. Il drenai si buttò il
giustacuore sulle spalle e salì. Appena entrò nella stanza vide Gorkai
inginocchiato, Nosta Khan seduto sotto la finestra con un taglio alla guancia e
Zhusai legata sul letto. Non disse nulla.
«Questo uomo ha già attraversato il Vuoto,» disse Talismano, «per cercare sua
moglie e l’ha trovata.»
«Posso leggere i suoi pensieri, Talismano. Non è venuto qua per lealtà nei
confronti dei nadir. Egli è venuto in cerca...» Fissò Druss con un’occhiata
penetrante «... delle pietre guaritrici per curare un suo amico morente. Perché
dovrebbe voler affrontare i terrori di Giragast? Non mi conosce.»
Talismano si girò verso Druss. «Questa non è Zhusai,» gli spiegò. «Il suo corpo
è posseduto dallo spirito di Shul-sen. Per liberarla devo mandare il mio spirito nel
Vuoto. Verrai con me?»
«Come lei ha detto, io sono venuto qua per prendere i gioielli di cui mi ha
parlato lo sciamano,» affermò Druss, «ma egli mi ha mentito. Perché dovrei
farlo?» chiese.
Talismano sospirò. «L’unica ragione che ti posso offrire è che voglio salvare la
donna che amo e in questo momento ella è intrappolata in un luogo buio e
malvagio. Oshikai sta cercando da mille anni lo spirito della moglie. Non sa dove
cercare. Io posso dirgli dove la sua donna è tenuta prigioniera, ma Shul-sen affer-
ma che il viaggio distruggerebbe l’anima del marito. Due uomini non possono
combattere contro i demoni che infestano il Giragast »
«E tre possono?» chiese Druss.
«Non lo so,» ammise Talismano. «Lei non libererà lo spirito di Zhusai a meno
che non trovi un uomo come Oshikai. Tu sei l’unico tra di noi che ha dato origine a
una leggenda. Cos’altro posso dire?»
Druss lo superò e si avvicinò al corpo legato sul letto. «Come sei morta?» le
chiese.
«Chakata infilò dei chiodi d’oro nei...» esitò e spalancò gli occhi. «Tu, tu e il
tuo amico siete quelli che mi hanno liberata. Riesco a vederlo adesso. Il tuo amico
ha trovato il mio lon-tsia.»
Druss si alzò e fissò Talismano. «Se vengo con te, ragazzo, voglio che tu mi dia
la tua parola su una cosa.»
«Parla!»
«Mi lascerai usare i gioielli per salvare il mio amico.»
«Non sei venuto qua proprio per questo motivo?» gli chiese Talismano.
«Non mi basta,» affermò Druss, avviandosi verso la porta. «Molto bene. Hai la
mia parola. Quando troveremo i gioielli io te li consegnerò e tu li porterai a
Gulgothir.»
«No!» urlò Nosta Khan. «Cosa stai dicendo.»
Talismano alzò una mano. «Ma voglio che tu mi giuri che quando avranno
guarito il tuo amico li riporterai da noi.»
«Lo farò,» giurò Druss.
«Vieni da me, barba nera,» disse Shul-sen. Druss si sedette sul letto e la regina
lo fissò negli occhi. «Tutto ciò che sono, o che potrei essere, è nelle tue mani ora.
Sei un uomo di cui posso fidarmi?»
«Lo sono,» le disse.
«Ti credo.» Si girò verso Talismano e gli disse: «Tornerò nell’Oscurità e
libererò l’anima di Zhusai. Non deludermi.»
Chiuse gli occhi ed ebbe un tremito, un sospiro strozzato le uscì dalla gola.
Talismano corse a fianco del letto e le slegò i polsi. La ragazza aprì gli occhi e
urlò. Il giovane nadir la strinse a sé. «Va tutto ben, Zhusai. Sei tornata con noi!»
Nosta Khan si avvicinò e le mise una mano sulla testa e dopo un attimo disse:
«È tornata. Questa è Zhusai. Adesso lancerò un incantesimo per impedire a Shul-
sen di rientrare in questo corpo. L’hai ingannata molto bene, Talismano.»
«Io non l’ho ingannata,» rispose freddamente il nadir. «Io terrò fede al mio
impegno.»
«Pah! È una follia. C’è un esercito che sta marciando contro di noi e il destino
dei nadir è nelle tue mani. Questo non è il momento di giocare a fare l’uomo
d’onore.»
Talismano andò a prendere il coltello e si avvicinò lentamente a Nosta Khan.
«Chi comanda qua?» gli chiese in tono di voce calmo, ma freddo.
«Tu, ma...»
«Già, io, verme miserabile. Io sono il capo e tu sei il mio sciamano. Non
tollererò altre disubbidienze. Per me l’onore non è un gioco. È ciò che sono. La
mia parola è come l’acciaio. Ora e per sempre. Adesso noi andremo nel santuario,
tu evocherai Oshikai, quindi ci manderai tutti e tre nel Vuoto. È tutto chiaro,
sciamano?»
«È chiaro, Talismano.»
«Non sono Talismano per te!» tuonò il giovane guerriero. «È chiaro adesso?»
«È chiaro... mio lord.»

«Perché mi tieni la mano, po-eta?» chiese Niobe mentre salivano in cima al


muro ovest. Sieben, che aveva passato due ore di passione in compagnia della
ragazza, fece uno sorriso stanco.
«È un’usanza della mia gente,» disse baciandole le dita. «Gli amanti spesso
camminano mano nella mano. È una specie di unione spirituale o almeno serve a
far capire che i due sono amanti. Inoltre è anche considerato piacevole. Non ti
piace?»
«Mi piace sentirti dentro di me,» disse lei, ritirando la mano e sedendosi sugli
spalti. «Mi piace il sapore della tua lingua sulla mia. Mi piace il piacere che mi
sanno dare le tue mani. Ma mi piace sentirmi libera quando cammino. Solo le
madri e i bambini si tengono le mani. Io non sono tua figlia.»
Sieben rise e si mise a guardare il modo in cui la luna illuminava i capelli di
Niobe. «Tu sei il mio piacere,» le disse. «Una ventata d’aria fresca dopo una vita
passata in stanze maleodoranti.»
«I tuoi vestiti sono molto belli,» notò lei, allungando una mano per toccare la
seta blu della maglia. «I bottoni contengono molti colori.»
«Madreperla,» le spiegò. «Belli, vero?» Con un gesto impulsivo si tolse la
maglia e rimase a petto nudo sugli spalti. «Tieni. È tua.»
Niobe gongolò, si sfilò la maglia di lana verde. Sieben fissò i seni pieni e i
capezzoli turgidi e fu colto da un’ondata d’eccitazione. Fece un passo avanti e
cercò di accarezzarla. Niobe balzò indietro coprendosi il petto con la maglia. «No,»
disse. «Prima parliamo.»
«Parlare? Di cosa vuoi parlare?»
«Perché non hai una moglie? Il tuo amico ha una moglie e tu sei vecchio.»
«Vecchio? Non si è vecchi a trentaquattro anni. Sono nel pieno della mia vita.»
«Stai perdendo i capelli nel centro della testa. L’ho visto.» Sieben si mise
immediatamente una mano tra i capelli biondi cominciando a cercare. «Perdo i
capelli? Non è possibile.»
La ragazza rise. «Sei un pavone,» gli disse. «Peggio di una donna.»
«Mio nonno è morto all’età di novant’anni e aveva la chioma di un leone. La
calvizie non è una prerogativa della mia famiglia.»
Niobe si infilò la maglia, si mise al fianco del poeta, gli prese il braccio e gli
tolse la mano dai capelli.
«Allora, perché non hai una moglie?»
«Era uno scherzo quello dei capelli, vero?»
«No. Perché non hai una moglie?»
«Questa è una domanda difficile.» Scrollò le spalle. «Ho conosciuto un
mucchio di donne bellissime, ma non ho mai desiderato di passare la mia vita con
loro. Voglio dire, è come per le mele. Mi piacciono, ma non vorrei vivere con una
dieta a base di sole mele.»
«Cosa sono le mele?»
«Frutta. Er... come i fichi.»
«Vanno bene per l’intestino,» disse lei.
«Esattamente. Ma parliamo d’altro, ti va? Quello che sto cercando di dirti è che
mi piace la compagnia di più donne. Io m’annoio facilmente.»
«Non sei un uomo forte,» gli disse con voce velata di tristezza. «Sei un uomo
spaventato. Avere molte donne è facile. Avere molti bambini è facile. La vita con
loro, aiutarli a crescere, quella è una cosa difficile. Guardare i bambini morire...
questo è difficile. Io ho avuto due mariti. Sono morti entrambi, ed erano tutti e due
dei bravi uomini. Forti. Anche il mio terzo marito sarà forte e mi darà molti figli,
così qualcuno di questi potrà sopravvivere.»
Sieben fece un sorriso obliquo. «Io sono portato a credere che nella vita si
possa fare qualcosa di più che generare dei bambini forti. Io vivo per il piacere, per
gli improvvisi scoppi di gioia. Per le sorprese. Ci sono fin troppe persone che fanno
figli e che passano una vita noiosa in mezzo a un deserto sterile o nello splendore
di montagne coperte di prati. Al mondo non mancheranno i miei figli.»
Niobe rifletté attentamente sulle parole che aveva appena sentito. «Il mio
popolo attraversò le montagne insieme a Oshikai. Essi fecero dei bambini che
crebbero forti e orgogliosi. Essi diedero il loro sangue per la terra e questa nutrì i
loro figli. È stato così per mille anni. Adesso ci sono io. Io sono in debito con i
miei antenati e devo portare una nuova vita su questa terra, in modo che tra mille
anni ci saranno delle persone nelle cui vene scorrerà il sangue di Niobe e dei suoi
antenati. Sei un amante bravissimo, po-eta. Mi fai provare un mucchio di fremiti di
piacere quando facciamo l’amore. Ma i fremiti di piacere sono facili, posso
provocarmeli anche da sola. Io ti amo molto, ma non sposerò un uomo spaventato.
Ho visto che tra le Corna Ricurve c’è un guerriero forte. Non ha moglie, penso che
andrò da lui.»
A Sieben sembrò di aver ricevuto un colpo di daga allo stomaco, ma si sforzò
di sorridere. «Certo, bella mia. Vai pure e fai dei bambini.»
«Vuoi che ti restituisca la maglia?»
«No. Ti sta molto bene. Sei molto... bella.»
La ragazza andò via senza dire un’altra parola. Sieben rabbrividì nel sentire la
brezza gelida che gli accarezzava la pelle. Cosa ci faccio qua? si chiese. Un
guerriero nadir dai capelli corti salì sugli spalti, ignorò il poeta e cominciò a
guardare il paesaggio circostante.
«Una notte piacevole,» fece notare Sieben.
L’uomo si girò e lo fissò. «Sarà una notte molto lunga,» disse, con voce fredda
e profonda.
Sieben vide la luce tremante delle candele brillare all’interno del santuario.
«Stanno ancora cercando?» chiese.
«Non stanno cercando,» disse il nadir. «Il mio lord, Talismano e il tuo amico
sono in viaggio diretti a Giragast.»
«Credo di aver capito male,» disse Sieben. «Giragast non è un posto, è un
mito.»
«È un posto,» ripeté convinto l’uomo. «I loro corpi giacciono sul pavimento
freddo e le loro anime sono state inviate a Giragast.»
Sieben sentì la gola diventargli improvvisamente secca. «Mi stai dicendo che
sono morti?»
«No, ma stanno andando nel regno dei morti. Non credo che torneranno.»
Sieben lasciò l’uomo e corse verso il santuario. Come gli aveva detto il nadir i
corpi di Druss e Talismano giacevano affiancati sul pavimento polveroso. Lo
sciamano Nosta Khan era seduto al loro fianco. In cima alla bara di pietra era stata
accesa una candela su cui erano state tracciate sette linee nere.
«Cosa sta succedendo?» chiese allo sciamano.
«Sono andati insieme a Oshikai a salvare la strega, Shul-sen,» sussurrò Nosta
Khan.
«Nel Vuoto?»
«Oltre il Vuoto,» il vecchio nadir alzò lo sguardo fissandolo con i suoi occhi
scuri e malvagi. «Ti ho visto disperdere la pergamena al vento. Hai anche buttato le
nocche nel pozzo?»
«Sì. E ho bruciato i capelli e sepolto il sacchetto di pelle.»
«Voi gajin siete molli e deboli. Shaoshad meritava la sua punizione.»
«Voleva riportare Oshikai e Shul-sen in vita, e riunire i nadir,» si difese Sieben.
«Questo non mi sembra un crimine così terribile.»
Nosta Khan scosse la testa. «Voleva fama e potere. Oh, certo, egli avrebbe
potuto far resuscitare il corpo di Oshikai e far sì che l’anima tornasse ad abitarlo.
Ma il corpo avrebbe avuto bisogno del continuo sostentamento dei gioielli, quindi
il nostro più grande guerriero sarebbe stato suo schiavo. Adesso, grazie alla sua
arroganza, noi non abbiamo più i gioielli e non possiamo più usare il potere della
terra, e voi gajin ci trattate come parassiti. La sua brama di potere ci ha condannati
a cinquecento anni di asservimento. Doveva rimanere a marcire in quel luogo per
l’eternità.»
Sieben si sedette a fianco dello sciamano. «Non siete un popolo che perdona
facilmente, vero?»
Nosta Khan fece uno dei suoi rari sorrisi. «La maggior parte dei nostri bambini
muoiono nei primi anni di vita. I nostri uomini sono braccati come animali. I
villaggi sono bruciati e la nostra gente massacrata. Perché dovremmo perdonare?»
«Qual è allora la risposta, vecchio? I nadir si devono riunire in un immenso
esercito, braccare i gajin come animali, bruciare i loro villaggi e città e massacrare
le donne e i bambini?»
«Sì! Comincerà così, e finirà quando avremo conquistato il mondo e reso
schiave tutte le altre razze.»
«Diventando così uguali e identici ai gajin che tanto disprezzate. Non è così?»
«Noi non cerchiamo di essere diversi,» replicò Nosta Khan. «Noi cerchiamo di
trionfare.»
«Un affascinante e onesto punto di vista,» affermò il poeta. «Dimmi, perché
stanno attraversando il Vuoto?»
«Onore,» rispose Nosta Khan in tono ammirato. «Talismano è un grande uomo.
Se sopravvivesse diventerebbe un ottimo generale per le truppe dell’Unificatore.»
«Sta per morire?»
«Sì,» disse tristemente lo sciamano. «Ho osservato molti futuri, ma non ho mai
visto traccia di lui. Adesso stai zitto, ho molto lavoro da fare.»
Nosta Khan prese dal suo sacchettino in pelle due piccole foglie secche, le mise
sotto la lingua, alzò le mani, allargò le dita ossute e chiuse gli occhi. I corpi di
Druss e Talismano cominciarono a brillare irradiando una luce pulsante e
multicolore: porpora intorno al cuore, bianco brillante intorno alla testa, rosso nella
parte bassa del tronco e bianco e giallo intorno alle gambe. Era una vista
straordinaria. Sieben rimase zitto finché Nosta Khan non emise un respiro e aprì gli
occhi.
«Cosa gli hai fatto?» sussurrò il poeta.
«Niente,» rispose Nosta Khan. «Ho semplicemente reso visibile la loro forza
vitale. È un uomo potente questo Druss. Guarda come l’energia del suo zhi è
grande rispetto a quella di Talismano, e Talismano è un grande uomo.» Sieben
fissò le due figure. Era vero. La radiazione intorno a Druss si espandeva per
almeno un metro dal suo corpo, mentre il campo energetico di Talismano brillava a
pochi centimetri dal torso.
«Che cosa è... lo zhi?» chiese Sieben.
Lo sciamano rimase zitto per qualche attimo. «Nessun uomo è in grado di
comprendere a pieno la sua natura,» esordì. «È l’energia che fluttua intorno al
corpo umano, portando vita e salute. Trema e cambia quando viene colpito da una
malattia. In alcuni vecchi che soffrivano di reumatismi alle braccia non ho visto lo
zhi scorrere intorno alle articolazioni irrigidite. Ho visto alcuni guaritori trasferire il
loro zhi all’interno dei malati e guarirli. Per esempio, dopo la morte lo zhi aumenta
di cinque volte rispetto le sue dimensioni originali. Il fenomeno dura per tre giorni,
poi, rapido come un battito del cuore, scompare.»
«Perché hai scelto di rendere il loro zhi visibile?»
«Le loro anime si sono recate in un luogo colmo di pericoli inenarrabili. Là,
essi combatteranno contro dei demoni e ogni taglio o ferita che subiranno si
ripercuoterà sullo zhi. Io lo osserverò costantemente e quando saranno vicini alla
morte spero di riuscire a portarli indietro in tempo.»
«Vuoi dirmi che non sei sicuro di riuscirci?»
«Nel Giragast non esiste nessuna sicurezza,» sbottò Nosta Khan. «Cerca di
immaginare un combattimento in quel luogo. Un soldato viene ferito a un braccio,
soffre, ma è sempre vivo. Un altro viene colpito al cuore e muore immediatamente.
Ecco quello che può succedere nel Vuoto. Tramite il loro campo vitale posso
vedere le ferite che subiscono. Un colpo mortale farebbe sparire lo zhi
immediatamente.»
«Ma tu hai detto che lo zhi brilla per tre giorni dopo la morte,» gli rammentò
Sieben.
«Quel fenomeno si verifica solo quando l’anima è nel corpo. Le loro sono
fuori.»
I due uomini rimasero zitti. Per alcuni minuti non accadde nulla poi il corpo di
Talismano ebbe un sussulto. I colori che lo circondavano cominciarono a tremare e
una macchia verde gli apparve sulla gamba destra. «È cominciato,» disse Nosta
Khan.

Passò un’ora e la candela bruciò fino al primo segno nero. Sieben sopportava a
stento la tensione che sentiva. Si alzò, uscì e si diresse verso il muro est dove aveva
lasciato le sue bisacce. Prese una maglia pulita di lino bianco decorata con fili
d’oro e se la infilò. Il servitore di Talismano, Gorkai, lo avvicinò. «Sono ancora
vivi?» gli chiese.
«Sì,» rispose Sieben.
«Sarei dovuto andare con loro.»
«Perché non vieni dentro con me? Potrai vedere tutto con i tuoi occhi.»
L’uomo scosse la testa. «Aspetterò fuori.»
Sieben lo lasciò e tornò al santuario. Il campo vitale di Druss sembrava ancora
forte, mentre quello di Talismano si stava indebolendo. Sieben si sedette contro
una parete. Era proprio da Druss offrirsi volontario per un viaggio all’inferno. Che
cosa arde in te, amico mio? pensò Sieben. Perché ti diverti a correre dei rischi non
necessari? Credi di essere immortale? O pensi che la Fonte ti abbia benedetto in
maniera particolare? Sieben sorrise. Forse è proprio così. Forse c’è un qualcosa
di indistruttibile nella tua anima. Il corpo di Talismano fu scosso da una serie di
spasmi e altre macchie verdi cominciarono a formarsi all’interno della sua aura.
Anche il corpo di Druss tremò e chiuse i pugni.
«Stanno combattendo,» sussurrò Nosta Khan, muovendosi sulle ginocchia con
le mani distese in avanti. Lo zhi di Talismano tremolò e scomparve. Lo sciamano
urlò tre parole dure e stridenti. Il giovane guerriero nadir inarcò il corpo, emise un
lamento, aprì gli occhi, dalla sua gola scaturì un grido strozzato e il braccio scattò
in avanti come se stesse ancora brandendo la spada.
«Stai calmo!» urlò Nosta Khan. «Sei al sicuro.» Talismano si mise in
ginocchio. Aveva il volto madido di sudore e stava ansimando.
«Rimandami... rimandami indietro,» disse.
«No. Il tuo zhi è troppo debole. Moriresti.»
«Rimandami indietro, dannazione a te!» Talismano cercò di alzarsi ma cadde
faccia a terra.
Sieben corse da lui e l’aiutò a rialzarsi. «Il tuo sciamano ha ragione, Talismano.
Stavi morendo. Cosa è successo laggiù?»
«C’erano delle bestie, mai visto delle creature simili! Gigantesche. I corpi
coperti di squame, gli occhi di fuoco. Durante i primi giorni di viaggio non
abbiamo visto nulla, poi siamo stati attaccati da dei lupi grossi quasi quanto un
pony. Ne abbiamo uccisi quattro e gli altri sono fuggiti. Avevo pensato che quelle
bestie fossero già abbastanza brutte, ma, per gli dèi della pietra e dell’acqua, erano
cuccioli in confronto a quelle che abbiamo incontrato in seguito.» Fu scosso da un
tremito improvviso. «Quanti giorni sono passati?»
«Meno di due ore,» gli disse Sieben.
«Non è possibile.»
«Il tempo non ha alcun significato nel Vuoto,» affermò Nosta Khan. «Quanta
strada avete fatto?»
«Abbiamo raggiunto i cancelli di Giragast. Là abbiamo trovato un uomo ad
aspettarci. Oshikai lo conosceva. Un piccolo sciamano con una barba biforcuta.»
Talismano si girò verso Sieben. «Ha detto che ti ringrazia per il dono e dice che se
ne ricorderà.»
«Shaoshad il Maledetto,» sibilò Nosta Khan.
«Potrà anche essere maledetto, ma senza di lui non saremmo riusciti a superare
i demoni che sorvegliano i cancelli. Druss e Oshikai sono... colossali. Non avevo
mai visto un tale potere, una tale rabbia sotto controllo. Quando le bestie squamose
ci hanno caricato io ho pensato che fosse finita, ma Oshikai si è scagliato contro di
loro con Druss al suo fianco. Io ero già stato ferito e mi muovevo a stento.»
Appoggiò la mano sul fianco in cerca della ferita quindi sorrise. «Mi sento così
stanco.»
«Hai bisogno di riposarti,» gli consigliò Nosta Khan. «Il tuo zhi è molto debole.
Appena ti addormenterai lancerò su di te un incantesimo curativo.»
«Non possono riuscire a continuare. C’erano demoni ovunque.»
«Come stavano quando li hai lasciati?» chiese Sieben.
«Druss aveva una ferita alla coscia destra e alla spalla sinistra. Oshikai
sanguinava dal petto e dal fianco. L’ultima volta che li ho visti stavano entrando in
una galleria nera. Shaoshad li stava guidando. Aveva in mano un bastone che ha
preso fuoco come una torcia. Ho cercato di seguirli... ma mi sono ritrovato qua.
Non avrei mai dovuto accettare la richiesta di Shul-sen. Ho ucciso Druss e distrutto
l’anima di Oshikai.»
«Druss è ancora forte,» gli disse Sieben, indicando l’aura d’energia che brillava
intorno al corpo dell’amico. «Lo conosco da un mucchio di tempo e scommetto sul
suo ritorno. Abbi fiducia.»
Talismano tremò di nuovo. Nosta Khan gli avvolse le spalle con una coperta.
«Riposati adesso, Talismano,» gli disse il vecchio sciamano. «Lascia che il sonno
lavi via il tuo sfinimento interiore.»
«Io devo aspettare,» disse con voce impastata dalla stanchezza.
«Come desideri, mio lord,» sussurrò Nosta Khan. Appena Talismano si sdraiò,
Nosta Khan cominciò a salmodiare a bassa voce. Il giovane condottiero nadir
chiuse gli occhi. Lo sciamano continuò la salmodia per alcuni lunghi minuti quindi
rimase in silenzio. «Dormirà per parecchie ore,» disse infine. «Aya! Il mio cuore è
pieno d’orgoglio per lui. È un guerriero tra i guerrieri. Sì, è anche un uomo
d’onore!»
Sieben fissò il corpo di Druss. L’aura stava scomparendo. «È meglio se lo
riporti indietro,» gli suggerì.
«Non ancora. Va tutto bene.»

Druss alzò il suo corpo possente, si appoggiò alla parete di roccia quindi cadde
in ginocchio. La sua forza era quasi del tutto esaurita e un liquido color latte, simile
al sangue, fuoriusciva dalle diverse ferite riportate al torso. Oshikai appoggiò la sua
ascia d’oro contro una roccia e si sedette. Anche lui era gravemente ferito. Il
piccolo sciamano di nome Shaoshad si avvicinò a Druss, appoggiò la sua mano
ossuta sulla profonda ferita alla spalla e il taglio si chiuse immediatamente.
«Ci siamo quasi,» disse il piccolo uomo. «Dobbiamo ancora superare un
ponte.»
«Non credo di riuscire a fare un altro passo,» si arrese Druss. Shaoshad gli
sfiorò tutte le ferite risanandole.
«Ancora un ponte, drenai,» ripeté Shaoshad. Dopodiché andò da Oshikai e lo
risanò.
«Talismano è morto?» chiese Oshikai allo sciamano.
«Non lo so, ma non è più qua. In ogni caso non ci può più aiutare. Puoi
muoverti.»
«Io troverò Shul-sen,» disse il testardo Oshikai. «Niente mi potrà fermare.»
Druss si guardò intorno. Erano dentro una spaventosa caverna nera dove, simili
a due file di denti poste all’interno di una bocca gigantesca, delle torreggianti
stalagmiti si innalzavano verso l’alto soffitto a volta per incontrare colossali
stalattiti. Una delle creature simili ai pipistrelli che li avevano attaccati poco prima
si appese a una di quelle sporgenze rocciose. Druss la fissò nei funesti occhi rossi,
ma la bestia non fece nessun tentativo d’attacco. Il viaggio attraverso quel
paesaggio che non aveva nulla in comune con quelli del mondo della carne era
stato lungo e terrificante. Tempo prima Druss si era recato nel Vuoto per riportare
indietro Rowena dal mondo dei morti. Allora egli aveva percorso la strada delle
Anime, un vero e proprio giardino delle delizie in confronto a quel luogo. Quella
terra ubbidiva alle leggi di una natura che Druss non capiva. Coperta da un cielo
color grigio ardesia, essa mutava continuamente la sua morfologia. Dei giganteschi
torrioni rocciosi sbucavano improvvisamente dal terreno scagliando nel cielo massi
grossi come case. Il terreno si lacerava repentinamente creando dei profondi
crepacci come se fosse stato raggiunto dal colpo di una zappa invisibile e gigante-
sca. Alberi neri e contorti spuntavano dal terreno cercando di ghermire i viaggiatori
con i loro rami scheletrici. Poco tempo prima, potevano essere state ore come
giorni, i tre erano scesi in una gola il cui fondo era coperto da quelli che in un
primo momento erano sembrati vecchi elmi arrugginiti. La luce dei fulmini che
balenavano senza requie nel cielo illuminava il paesaggio creando dei sinistri
giochi di ombre. Talismano stava guidando il gruppo quando gli elmi avevano
cominciato a tremare. La terra si era divisa e dei guerrieri sepolti da lungo tempo
erano spuntati dal suolo annerito. La pelle dei loro volti era marcita e la carne sot-
tostante brulicava di vermi. Avevano cominciato ad avanzare senza emettere un
suono. Talismano aveva decapitato il primo, ma era stato ferito gravemente dal
secondo. Druss e Oshikai avevano caricato e le lame delle loro asce avevano aperto
un varco in quel muro di carne in decomposizione.
La battaglia era stata lunga e dura. Shaoshad aveva lanciato dei globi di fuoco
che erano esplosi in mezzo ai ranghi dei morti viventi riempiendo l’aria dell’odore
della carne bruciata. Infine Druss e Oshikai si erano girati per osservare il cumulo
di morti. Talismano era scomparso.
Dopo aver raggiunto la fine della gola erano entrati in una galleria che li aveva
portati nel cuore della montagna più alta che Druss avesse mai visto. Nella caverna
che si apriva al centro del monte essi avevano combattuto le creature simili a
pipistrelli. «Dimmi,» chiese Druss a Shaoshad, «che non ci sono altri guardiani. La
cosa mi farebbe molto piacere.»
«Molti altri, uomo con l’ascia. Ma sai come si dice,» aggiunse con un accenno
di ghigno, «le cose belle non si ottengono facilmente, vero?»
«Cosa ci aspetta?» chiese Oshikai.
«Il guardiano del ponte: il Grande Orso. Dopo di lui non ce ne sono altri, che io
sappia. Però c’è Chakata. Fu lui a uccidere Shul-sen in quel modo folle. Egli è
là...ma non so quale forma abbia assunto.»
«È mio,» disse Oshikai. «Mi hai sentito, Druss? È mio!» Druss fissò il robusto
nadir e la sua armatura d’oro ormai in pezzi. «Niente in contrario, ragazzo.»
Oshikai rise e si andò a sedere a fianco del drenai. «Per gli dèi della pietra e
dell’acqua tu sei un uomo che sarei stato orgoglioso di chiamare fratello. Vorrei
averti conosciuto quando ero ancora in vita. Avremmo potuto svuotare dozzine di
otri di vino e riempire la notte con le nostre vanterie.»
«L’idea del vino mi piace,» affermò Druss, «ma non sono mai stato molto
bravo a vantarmi.»
«È un’abilità che si acquisisce,» concordò Oshikai. «Ho scoperto che una storia
suona meglio se i nemici vengono moltiplicati per dieci. Certo, a meno che non si
sappia per certo che essi erano tre, allora puoi farli diventare dei giganti.»
«Ho un amico che è bravissimo in quest’arte,» disse Druss. «È un bravo
guerriero?»
Druss fissò gli occhi viola di Oshikai. «No, è un poeta.»
«Ah! Io avevo sempre un poeta al mio seguito. Era il mio cronista. Io sono
sempre stato uno spaccone, ma quando sentivo narrare le mie vicende da lui
provavo una profonda vergogna. Dove io avrei detto di aver ucciso dei giganti lui
affermava che io avevo sottomesso gli dèi in persona. Ti senti riposato?»
«Quasi,» mentì Druss. «Dimmi una cosa, piccolo uomo,» disse il drenai
rivolgendosi a Shaoshad, «cos’è il Grande Orso di cui parlavi?»
«Il guardiano del ponte di Giragast. Si dice che sia alto due metri e mezzo e che
abbia due teste: una d’orso e l’altra di serpente. Quest’ultima sputa un veleno che
può fondere qualsiasi armatura. I suoi artigli sono lunghi come delle daghe e più
affilati del disprezzo. Ha due cuori: uno nel petto e l’altro nella parte bassa della
pancia.»
«Cosa proponi?»
«Il potere della mia magia è quasi del tutto esaurito, ma lancerò ancora un
incantesimo d’occultamento per nascondere Oshikai, dopodiché mi riposerò qua e
aspetterò il vostro ritorno.»
Oshikai si alzò e appoggiò una mano sulla spalla del piccolo sciamano. «Mi hai
servito bene, Shaoshad. Io non sono più un re, ma se in questo regno malvagio
esiste una forma di giustizia, tu sarai ricompensato. Mi dispiace che il mio rifiuto ti
sia costato la vita.»
«Tutti gli uomini muoiono, grande re. Furono le mie stesse azioni a portarmi
alla morte. Non odio nessuno. Ma se... quando... raggiungerai il paradiso, di una
parola in mio favore al Custode dei Cancelli.»
«Lo farò.» Prese in mano Kolmisai, la sua ascia d’oro, e si girò verso Druss.
«Sei pronto, fratello?»
«Sono nato pronto,» grugnì Druss, sforzandosi d’alzarsi.
«Il ponte si trova a un centinaio di passi in quella direzione,» indicò Shaoshad.
«Esso si estende sull’abisso di fuoco. Se vi cadrete dentro precipiterete per
l’eternità e le fiamme vi divoreranno le carni. In principio il ponte è largo circa una
quindicina di metri poi si restringe. Devi attirare l’orso nella parte più larga per
permettere a Oshikai di superarlo.»
«No,» obiettò Oshikai, «lo affronteremo insieme.»
«Abbi fiducia in me, grande re, e segui i miei consigli. Quando l’orso morirà,
Chakata si accorgerà che tu stai per arrivare e allora ucciderà Shul-sen. È
d’importanza fondamentale che tu riesca a superare il ponte ed entrare
nell’Oscurità prima di quel momento.»
«Nel frattempo io mi farò un ballo con l’orso cercando di non ucciderlo,
giusto?» indagò Druss.
«Cerca di ucciderlo il più tardi possibile,» lo avvertì Shaoshad, «e non fissarlo
negli occhi. Vedresti solo la morte.» Lo sciamano chiuse gli occhi e alzò le mani.
L’aria intorno a Oshikai crepitò e fu pervasa da luci tremanti, dopodiché
l’immagine di Oshikai cominciò a essere sempre più nebulosa, diventando prima
traslucida quindi trasparente per poi svanire del tutto.
Shaoshad aprì gli occhi quindi batté le mani gongolando. «Potrò anche essere
arrogante,» chiocciò, «ma sono anche molto bravo!» Smise di sorridere e si rivolse
a Druss. «Quando ti avvicinerai al ponte, Oshikai dovrà trovarsi attaccato alle tue
spalle. Una volta che la bestia sarà impegnata a combattere, tu, grande re, dovrai
scivolarle dietro e correre. Non fare nessun rumore. Non chiamare Shul-sen, ne
avvertirai la presenza quando le sarai vicino.»
«Ho capito,» disse la voce di Oshikai. «Va avanti Druss, io sarò dietro di te.»
Il guerriero drenai afferrò la sua ascia e fece strada. Sentiva le gambe pesanti e
le braccia stanche. Mai nel corso della sua vita, neanche quando era stato rinchiuso
per anni nelle segrete, aveva provato un tale senso di stanchezza fisica. Avvertì una
forte paura crescere in lui. Il piede urtò una pietra e inciampò.
Sentì un battito di ali alle sue spalle, si girò e vide che una delle creature simili
ai pipistrelli stava calando su di lui con le grossi ali nere spiegate e gli artigli grigi
snudati. Snaga sibilò nell’aria piantandosi nel piccolo collo della creatura, che,
prima di rimbalzare contro il corpo di Druss e morire, riuscì a lacerargli una
guancia. Il drenai sentì la mano di Oshikai che lo afferrava per il polso aiutandolo
ad alzarsi.
«Sei esausto, amico mio,» disse il nadir. «Riposati. Io cercherò di superare
l’orso da solo.»
«No, me ne occuperò io,» grugnì Druss. «Non ti preoccupare per me.»
Si alzò barcollando e aggirò una curva. Davanti a lui vide il ponte che si
stendeva attraverso l’abisso. Druss si avvicinò al bordo e fissò il baratro. Gli
sembrò di guardare dentro l’infinito stesso. La visione gli provocò un’ondata di
vertigini e arretrò. Afferrò Snaga con entrambe le mani e riprese ad avanzare. Dal
punto in cui si trovava non riusciva a scorgere la fine del ponte. «Deve essere
lungo chilometri,» sussurrò, dando voce alla disperazione che l’aveva colto.
«Un passo allo volta, amico mio,» lo incoraggiò Oshikai.
Pur essendo sfinito, Druss riprese ad avanzare. Una ventata fredda attraversò il
baratro portando con sé un odore acido. Il drenai continuò a camminare
sforzandosi di compiere ogni singolo passo.
Dopo quella che gli sembrò essere un’eternità raggiunse la metà del ponte. Ora
poteva vedere la torreggiante collina di roccia nera che si stagliava contro il cielo
color ardesia. Una figura si mosse in lontananza e Druss socchiuse gli occhi.
L’essere avanzava lentamente, ritto sulle gambe posteriori e con le braccia distese
in avanti. Appena fu più vicino il drenai vide che la descrizione di Shaoshad era
stata corretta in ogni dettaglio: le due teste, una di serpente e l’altra d’orso.
Tuttavia lo sciamano aveva dimenticato di parlargli dell’aura di malvagità che
circondava quel demone. A Druss sembrò d’impattare con un muro invisibile ed
ebbe la stessa sensazione che si prova quando nel mezzo di una tempesta di neve il
gelo comincia a ottundere i sensi. Il potere di quella bestia era colossale e quello
dell’uomo, al suo confronto, faceva la figura di un nano davanti a un gigante.
Il ponte si era ristretto gradatamente fino a diventare non più largo di tre metri e
il possente corpo della creatura sembrava ostruire completamente il passaggio.
«Che gli dèi della pietra e dell’acqua siano con te, Druss!» gli augurò Oshikai,
con un sussurrò.
Druss avanzò. La bestia emise un tremendo ruggito, profondo e assordante, e il
guerriero drenai fu spinto indietro di qualche passo come se fosse stato colpito da
un maglio.
«Noi siamo il Grande Orso, divoratori di anime. La tua morte sarà lenta e
agonizzante, mortale!»
«Solo nei tuoi sogni, figlio di una baldracca!» lo sfidò Druss.

«Riportalo indietro!» urlò Sieben. «Non vedi che sta morendo!»


«Per una buona causa,» affermò Nosta Khan. Sieben fissò il piccolo sciamano e
vide la malvagità che brillava nei suoi occhi.
«Tu, cane traditore!» sibilò. Si drizzò in piedi e si lanciò contro il nadir. Nosta
Khan alzò la mano destra e Sieben arretrò con un urlo. Aveva la sensazione che la
testa fosse attraversata da aghi di ghiaccio. Malgrado il dolore riuscì a snudare il
coltello che portava al fianco. Nosta Khan pronunciò una singola parola di potere e
il braccio del poeta si paralizzò.
«Non fargli questo,» lo implorò Sieben. «Merita di meglio.»
«Il merito non c’entra nulla in questo caso, folle. Egli ha scelto di scendere
all’inferno: non l’ho costretto io. Tuttavia non ha ancora portato a termine la sua
missione. Adesso taci!» Sieben cercò di parlare, ma la lingua gli si incollò al
palato. Il dolore cessò, ma rimase comunque paralizzato.

La voce della bestia scaturì da entrambe le teste. «Vieni a me e conosci la


morte Druss!»
Il drenai bilanciò l’ascia e si mosse in avanti. Il Grande Orso cadde sulle
quattro zampe con una velocità impressionante e si lanciò alla carica. Snaga balenò
verso l’alto e si abbatté tra le due teste lacerando i tendini e piantandosi nell’osso.
Il colpo non riuscì a fermare la bestia che, trascinata dal suo stesso impeto, sbatté
contro il gigante drenai, facendogli perdere la presa intorno al manico dell’ascia.
Druss cadde di schiena sul ponte e cominciò a scivolare fermandosi con le gambe
che penzolavano nel vuoto. Rotolò sulla pancia, si afferrò alla roccia e tornò sul
ponte. Il Grande Orso si era rizzato sulle gambe posteriori. Il sangue colava
copioso dalla ferita in mezzo alle teste. Druss si alzò in piedi a sua volta e caricò la
creatura. Un artiglio scattò in avanti lacerandogli il giustacuore e la spalla
sottostante provocandogli una bruciante fitta di dolore. Il drenai riuscì comunque
ad afferrare Snaga, la liberò e un fiotto di sangue acido lo colpì in pieno volto.
Ignorando la sofferenza Druss tagliò di netto la testa di serpente con un fendente.
L’estremità recisa cadde sul ponte e dal collo cominciò a uscire del fumo nero. Il
Grande Orso riuscì a scrollarselo di dosso. Druss atterrò rotolando su una spalla e
tornò rapidamente in guardia. La bestia prese ad avanzare verso di lui vacillando. Il
veleno che era caduto sul giustacuore di Druss aveva bruciato il cuoio e ora gli
stava ustionando la carne. Il drenai lanciò un urlo di rabbia e dolore e caricò.
Grazie all’impeto del suo attacco evitò una zampata e diede alla bestia una possen-
te spallata in pieno petto. Il Grande Orso barcollò all’indietro quindi cadde nel
baratro. Druss strisciò fino al bordo del ponte e osservò la bestia cadere sempre più
giù.
Rotolò sulla schiena. Lo sfinimento ebbe la meglio e desiderò poter dormire.
«Non chiudere gli occhi,» lo avvertì la voce di Shaoshad. Druss sbatté le palpebre e
vide il piccolo sciamano inginocchiato al suo fianco. Shaoshad gli toccò le ferite e
il dolore cessò. «Dormire in questo luogo vuol dire morire,» gli spiegò lo
sciamano.

Oshikai attraversò di corsa il ponte e ne raggiunse l’estremità opposta quando il


Grande Orso cadde nel baratro. Davanti a lui la collina nera sembrava invitarlo ad
avanzare. Il nadir scalò il pendio con i pensieri rivolti a Shul-sen. In principio non
sentì nulla, poi vide che sul fianco dell’altura spiccava una porta nera. Oshikai
spinse con forza, ma il pannello non si mosse di un centimetro. Fece un passo
indietro e lo colpì con l’ascia. Una pioggia di schegge volò in aria e sulla porta di
pietra nera si aprì una larga crepa. Oshikai insistette e al secondo colpo la porta si
frantumò.
Dietro di essa si apriva un cunicolo oscuro. Appena il nadir fece un passo
all’interno, un leone dagli occhi infuocati uscì dall’oscurità e gli sbarrò la strada.
Oshikai piantò Kolmisai nel petto della bestia che cadde sul fianco sinistro, la
decapitò, quindi ne alzò la testa afferrandola dalla criniera e riprese il cammino.
Malgrado stesse diminuendo gradatamente, la luce emanata dagli occhi della
creatura riusciva a illuminare le pareti della galleria.
Il condottiero nadir continuò ad avanzare. Improvvisamente avvertì un accenno
di movimento alla sua sinistra. Il re si girò in quella direzione e lanciò la testa del
felino. Una grossa mascella, simile a quella di un coccodrillo scattò nell’aria,
afferrò al volo il cranio e lo frantumò riempiendosi le fauci di pezzi d’osso e cer-
vello; dopodiché la lucertola aprì la bocca e scosse la testa per liberarsi dai
frammenti. Oshikai approfittò di quel momento e balzò in avanti piantando
Kolmisai nel cranio squamoso del rettile che cadde a terra, emise un sordo ruggito
e morì.
Completamente immerso nel buio il nadir riprese ad avanzare tenendo una
mano appoggiata contro il muro. «Shul-sen!» chiamò. «Puoi sentirmi?»
«Sono qua,» rispose la voce della donna. «Oh, mio lord, sei tu?»
Il suono proveniva dal davanti e dalla sua destra. Oshikai avanzò e si trovò di
fronte a una stretta porta che sfondò con un colpo d’ascia. La stanza che si apriva
oltre la soglia era buia.
Una mano affusolata gli toccò il volto. «Sei veramente tu?» sussurrò lei.
«Sì,» rispose Oshikai con la voce inspessita dall’emozione. Allungò il braccio
sinistro e la strinse a sé. «Amore mio, anima del mio cuore,» le sussurrò. Si
baciarono e lui sentì le lacrime di Shul-sen mischiarsi con le sue. Per un momento
dimenticò tutto, compresi i pericoli che dovevano ancora affrontare.
Improvvisamente dalla galleria giunse il rumore di passi felpati. Oshikai prese
la moglie per mano e si avvicinò all’entrata. I suoni giungevano dalla sua destra e il
condottiero nadir si incamminò nella direzione opposta imboccando una profonda
caverna. Il pavimento della galleria cominciò a salire verso la superficie e dopo un
po’ i due videro della luce filtrare da una crepa nella roccia davanti a loro.
Oshikai si fermò e attese.
Un leone dagli occhi di fuoco si parò davanti a loro, emise un ruggito e si
lanciò alla carica. Oshikai gli balzò addosso e gli calò l’ascia sul cranio
uccidendolo sul colpo.
Il condottiero nadir si avvicinò alla crepa e cominciò a colpirla con Kolmisai
creando un’apertura larga circa un metro, tuttavia la spaccatura continuava a
rimanere ostruita da un masso. Oshikai vi si appoggiò contro e lo spinse con tutto il
peso del corpo facendolo rotolare via. Uscì e tese una mano a Shul-sen.
Improvvisamente il terreno muschioso sotto i suoi piedi cominciò a tremare, l’ascia
rischiò di sfuggirgli di mano e lui cadde a terra. Quello che aveva creduto essere
muschio ebbe un fremito di vita e si alzò dal suolo. L’intero fianco della collina
sembrò tremare mentre le due immense ali si distendevano. La cima dell’altura si
alzò diventando la testa di un pipistrello gigantesco. Oshikai si afferrò alle ali della
bestia che intanto aveva spiccato il volo. La creatura si innalzò sempre più alta nel
cielo che sovrastava l’abisso senza fine. Oshikai strinse la pelliccia del corpo e
cominciò a strisciarvi sopra. Il pipistrello girò la testa, spalancò le fauci e al suo
interno il re dei nadir vide un volto che riconobbe immediatamente.
«Cosa ne pensi della mia nuova forma, grande re?» ringhiò Chakata. «Non
trovi che sia stupenda?»
Oshikai non rispose, ma continuò a strisciare in direzione del collo della bestia.
«Posso raccontarti di quante volte ho goduto di Shul-sen? Posso descriverti i
piaceri che l’ho obbligata a subire?» Il condottiero era sempre più vicino. Il volto
di Chakata sorrise. Il pipistrello virò improvvisamente. Oshikai cominciò a sci-
volare via, piantò l’ascia nell’ala della bestia, arrestò il suo moto quindi svelse
l’arma, la conficcò nuovamente nel corpo della creatura e riprese l’avanzata verso
il suo obiettivo.
«Non fare il pazzo, Oshikai!» urlò Chakata. «Se mi uccidi cadrai con me e non
rivedrai mai più Shul-sen!»
Lento, ma inesorabile il condottiero nadir continuò ad avanzare. Il pipistrello si
girò al contrario, si tuffò in picchiata quindi prese a sobbalzare cercando di far
cadere la piccola creatura aggrappata al suo dorso. Oshikai non cedette di un
centimetro e continuò ad muoversi verso la testa. Il pipistrello cercò di addentarlo,
ma lui riuscì a tenersi lontano da quelle fauci. Liberò l’arma dal corpo della bestia
e le menò un terribile fendente sul collo. Un fiotto di sangue nero scaturì dalla
ferita. La colpì ancora due volte. Improvvisamente il pipistrello piegò le ali contro
il corpo e cominciò a precipitare. Oshikai continuò a calare la sua arma sul collo
della bestia tagliando ossa e tendini, finché la testa non si staccò e cadde
nell’abisso.
Determinato a non morire vicino a quella disgustosa creatura, Oshikai si lanciò
a sua volta nel vuoto.
Molto al di sotto, la nuda Shul-sen era riuscita a uscire dalla galleria e aveva
osservato lo scontro epico che si era svolto in quel cielo grigio ardesia. La strega,
ora libera dagli incantesimi con cui Chakata le aveva impedito di usare i suoi
poteri, sentì la forza che tornava a fluire in lei. Il suo corpo venne avvolto im-
mediatamente da una maglia e da pantaloni di seta bianca e sulle sue spalle si
materializzò un mantello candido come le nuvole. Shul-sen se lo tolse di dosso,
pronunciò le cinque parole dell’undicesimo incantesimo quindi lo lanciò in aria. Il
mantello volò nel firmamento roteando all’impazzata.
Shul-sen rimase in piedi con le braccia distese per guidare il mantello. La
creatura morta che fino a poco prima era stata Chakata cadde nell’abisso. Oshikai
continuava a precipitare, ma il mantello lo raggiunse e gli avvolse il corpo. Per un
attimo il nadir scese più lentamente, ma dopo qualche secondo riprese a cadere
veloce. Shul-sen lanciò un urlo e il mantello si aprì rallentando la discesa del
marito. Il mantello fluttuò sopra il ponte e Oshikai saltò giù. La moglie corse lungo
il pendio della collina con le braccia distese. Il guerriero lasciò cadere l’ascia e
l’abbracciò con forza. Rimasero stretti per qualche momento dopodiché lui la
allontanò leggermente da sé e vide le lacrime che solcavano le guance della donna.
«Ti ho cercata per così tanto tempo,» le disse. «Avevo cominciato a credere che
non ti avrei mai più trovata.»
«Però ci sei riuscito, mio lord,» sussurrò, baciandogli le labbra e le guance.
Rimasero abbracciati a lungo, quindi Oshikai la prese per la mano e si avvicinò
al punto in cui Druss era seduto. «Per tutto ciò che mi è sacro, Druss, non ho mai
incontrato un uomo come te. Prego di poterti incontrare ancora.»
«Non qua però, eh?» grugnì Druss. «Forse potresti scegliere un luogo più...
ospitale.»
Due figure luminose apparvero sul ponte e si avvicinarono al trio. Druss
socchiuse gli occhi per via del bagliore intenso che avvolgeva i due corpi. Non
avevano un aspetto minaccioso e Oshikai si alzò e andò loro incontro.
«È tempo,» disse una voce gentile.
«Potete portarci via entrambi,» disse Oshikai.
«No. Solo tu.»
«Allora non verrò.»
La prima delle figure lucenti si girò verso la donna. «Non sei ancora pronta,
Shul-sen. C’è ancora molta oscurità in te. Tutto ciò che c’è di buono in te deriva
dalla tua unione con quest’uomo. Egli è stata l’unica persona con cui ti sei
dimostrata altruista. Oshikai ha già rifiutato due volte il paradiso. Il terzo rifiuto
sarà finale... non torneremo più.»
«Lasciatemi parlare con lui,» gli disse. «Da sola.»
Le due creature di luce si allontanarono di circa cinquanta passi e Shul-sen si
avvicinò a Oshikai. «Non ti lascerò,» esordì lui. «No.»
La donna gli posò una mano sulla guancia, gli abbassò il volto e gli diede un
lungo bacio. Quando infine si separarono, lei gli accarezzò il bel volto e fece un
sorriso malinconico. «Vorresti negarmi il paradiso, amore mio?» gli chiese.
«Cosa vuoi dire?»
«Se ti rifiuti di andare con loro non vedrai mai la Terra dei Sogni Paradisiaci. E
se non lo farai tu, come potrei farlo io, allora? Rifiutando la loro offerta ci
condanni a camminare nel Vuoto per sempre.»
Oshikai le baciò la punta delle dita teneramente. «Ma io ti ho atteso per così
tanto tempo. Non potrei sopportare un’altra divisione.»
«Tuttavia devi,» disse lei, sforzandosi di sorridere. «Noi siamo uniti, Oshikai e
Io saremo di nuovo. Ma la prossima volta che ci vedremo sarà sotto un cielo
azzurro e vicino a un ruscello. Vai adesso e aspettami.»
«Ti amo,» disse lui. «Tu per me sei la luna e le stelle.»
Shul-sen si staccò dal marito e si rivolse alle due creature di luce. «Prendetelo,»
disse loro. «Fate sì che conosca la gioia.» Appena si avvicinarono la donna fissò
negli occhi la prima creatura con uno sguardo duro. «Dimmi, potrò avere un posto
al suo fianco?»
«Oggi hai fatto un passo nella direzione giusta. Tu sai dove siamo. Il viaggio
sarà lungo e riceverai parecchie chiamate. Viaggia, con Shaoshad anche lui ha
molto da imparare.»
La seconda creatura fluttuò vicino a Druss e gli appoggiò una mano dorata sul
corpo. Le ferite si risanarono immediatamente e il drenai si sentì nuovamente forte.
Poi, con la stessa velocità con cui erano comparse, scomparvero portando
Oshikai con loro. Shul-sen cadde in ginocchio e i lunghi capelli le nascosero il
volto. Shaoshad si mise al suo fianco. «Lo troveremo, mia signora. Insieme. E
grande sarà la nostra gioia in quel giorno.»
Shul-sen emise un singhiozzo profondo e tremante. «Allora andiamo,» disse lei
alzandosi in piedi. Anche Druss si alzò. «Vorrei poterti aiutare,» le disse.
La donna gli prese la mano e gliela baciò. «Io sapevo che tu eri quello giusto,»
gli disse. «Sei molto simile a lui. Torna indietro al mondo a cui appartieni.»
La mano di Shul-sen gli toccò la testa e Druss fu avvolto dall’oscurità.
CAPITOLO UNDICESIMO

Druss si svegliò, vide la luce dell’alba che entrava dalla finestra del santuario e
si accorse di non essere mai stato così felice di assistere alla nascita di un nuovo
giorno. Sieben si mise al suo fianco e Nosta Khan si parò di fronte a lui facendogli
ombra. «Parla!» disse lo sciamano. «Hai avuto successo?»
«Sì,» mormorò Druss, sedendosi. «Si sono riuniti.»
«Hai chiesto loro dove si trovano gli Occhi di Alchazzar?»
«No.»
«Cosa?» si infuriò lo sciamano. «Allora quale è stato il vero scopo di questo
folle viaggio?»
Druss lo ignorò e si diresse vicino al corpo addormentato di Talismano.
Il drenai lo chiamò e gli occhi scuri del giovane si aprirono. «Abbiamo vinto?»
chiese.
«Abbiamo vinto, ragazzo, più o meno.» Druss gli riferì in tono tranquillo
dell’apparizione dei due angeli e del fatto che i due amanti si erano dovuti separare
nuovamente.
Talismano si alzò in piedi. «Spero che lei lo possa trovare,» disse, quindi si alzò
in piedi e uscì dalla stanza seguito da Nosta Khan.
«La loro gratitudine riempie di lacrime i miei vecchi occhi,» disse Sieben cupo.
Druss scrollò le spalle. «È finita e questa è l’unica cosa importante.»
«Raccontami tutto.»
«Non credo che lo farò, poeta. Non voglio canzoni a riguardo.»
«Nessuna canzone, hai la mia parola d’onore,» mentì Sieben.
Druss rise. « Più tardi, forse. Per ora ho bisogno di mangiare un po’ di cibo e di
bere lentamente un lungo sorso d’acqua fresca.»
«Era bellissima?»
«Incredibilmente bella, ma l’espressione del suo volto era dura,» affermò
Druss, quindi uscì dal santuario a grandi passi. Sieben lo seguì e Io trovò fermo nel
cortile a osservare il cielo blu. «Il Vuoto è un luogo bruttissimo e privo di qualsiasi
altro colore, a eccezione del rosso delle fiamme e del grigio delle pietre e della
cenere. È raggelante pensare che siamo stati in quelle lande per un giorno intero.»
«Raggelante, senza alcuna ombra di dubbio,» concordo Sieben. «Adesso
raccontami come è andata, Druss.»
Sopra di loro, Talismano, con Gorkai e Nosta Khan al suo fianco, osservava i
due drenai. «Sarebbe dovuto morire là,» disse lo sciamano. «La sua forza vitale era
quasi scomparsa del tutto, poi, improvvisamente, il suo zhi è tornato forte.»
Talismano annuì. «Non ho mai assistito a niente di simile,» ammise. «Vedere
Druss e Oshikai che insieme affrontavano le orde dei demoni... è stato spaventoso.
Dal momento in cui si sono incontrati è sembrato subito che fossero fratelli di
spada e che avessero combattuto insieme da un’eternità. Io non potevo competere,
sciamano. Ero come un bambino in mezzo agli uomini, tuttavia non mi sento
umiliato, anzi, mi sento... privilegiato.»
«Sì,» sussurrò Gorkai, «combattere a fianco di Oshikai Flagello del Demone è
un privilegio.»
«Tuttavia non siamo riusciti a trovare gli Occhi,» sbottò Nosta Khan. «Sarà
anche un grande guerriero, ma è un folle. Shaoshad gli avrebbe detto dove si
trovavano gli Occhi se solo lui glielo avesse chiesto!»
«Li troveremo se è destino che accada, altrimenti rimarranno nascosti. Non
voglio più perdere un’ora di sonno a riguardo,» disse Talismano, quindi scese dagli
spalti e si diresse verso ali alloggi.
Zhusai stava dormendo. Il giovane guerriero si sedette al suo fianco e le
accarezzò i capelli. La ragazza aprì gli occhi e fece un sorriso assonnato. «Ho
aspettato che Gorkai mi dicesse che eri al sicuro, quindi mi sono messa a dormire.»
«Siamo tutti al sicuro,» le disse, «e Shul-sen non ti perseguiterà mai più.»
Rimase zitto. La ragazza si sedette, gli prese la mano e vide il dolore negli occhi
del suo amato.
«Cosa c’è, Talismano? Perché sei così triste?»
«Il loro amore dura da una eternità,» disse a voce bassa. «Tuttavia non sono
ancora riusciti a unirsi. Durante tutta la mia vita ho desiderato poter aiutare
l’Unificatore a riunire il nostro popolo. Pensavo che non ci fosse una causa più
grande. Tu sei sempre nei miei pensieri, Zhusai. So che quando l’Unificatore ti
avrà presa io non sarò in grado di seguirlo. Non potrei.»
«Allora permettiamoci di sfidare le predizioni,» disse lei, abbracciandolo.
«Uniamoci.»
Gentilmente, ma con fermezza, Talismano la prese per le braccia e la staccò da
lui. «Non posso farlo comunque. Il mio dovere me lo proibisce. Dirò a Nosta Khan
di portarti via di qua. Domani.»
«No! Non lo seguirò.»
«Se veramente mi ami lo farai, Zhusai. La battaglia è vicina e io ho bisogno di
avere la mente sgombra da ogni pensiero.» Si alzò, uscì dalla stanza, si recò a
controllare l’andamento dei lavori, quindi mandò Quing-chin e tre esploratori a
controllare la posizione del nemico.
«Non impegnarli, amico mio,» gli disse. «Ho bisogno di averti qua quando
comincerà la battaglia.»
«Ci sarò,» promise il guerriero, e uscì dal forte.
Gorkai si avvicinò a Talismano. «Dovresti prendere la donna,» gli consigliò
con calma.
Talismano si girò verso di lui adirato. «Hai ascoltato?»
«Sì, ogni parola,» confermò Gorkai, in tono amichevole. «Dovresti prenderla.»
«E il dovere? E il destino dei nadir?»
Gorkai sorrise. «Sei un grande uomo, Talismano, ma non stai pensando. Noi
non sopravviveremo a questa battaglia, moriremo tutti. Sposala, entro pochi giorni
sarà una vedova. Nosta Khan ha detto che può farla uscire dal santuario senza
alcun pericolo. Bene. Allora l’Unificatore sposerà la tua vedova. Pensi che cam-
bierà qualcosa?»
«E se dovessimo vincere?»
«Hai mai visto dei cuccioli di cane divorare un leone?» Gorkai scrollò le spalle.
«Il mio punto di vista a riguardo è molto semplice, Talismano. Io ti seguirò. Se
l’Unificatore vuole la mia lealtà allora che venga qua a combattere al nostro
fianco! La scorsa notte hai unito Oshikai e Shul-sen. Guardati intorno. Ci sono gli
uomini di cinque tribù e tu li hai uniti, per me sei tu l’Unificatore.»
«Io non sono l’uomo delle profezie.»
«Non importa. Tu sei l’uomo che è qua. Sono più vecchio di te, ragazzo, e ho
fatto un mucchio di errori. Tu adesso ne stai commettendo uno nei confronti di
Zhusai. Il vero amore è una cosa molto rara. Prendilo quando lo trovi. Questa è
l’unica cosa che posso dirti.»

Druss sedeva tranquillo sugli spalti osservando i nadir che portavano sui
camminamenti le pietre da scagliare addosso alla fanteria. In quel momento
c’erano circa duecento persone e la maggior parte di loro erano profughi della tribù
del Corno Ricurvo. Nuang Xuan aveva mandato via la sua gente verso est, ma
alcune donne, tra le quali Niobe, erano rimaste. Il vecchio agitò un braccio in
direzione di Druss, salì gli scalini che portavano agli spalti e quando raggiunse la
cima stava respirando affannosamente.
«È una bella giornata, uomo con l’ascia,» esordì, tirando un lungo respiro.
«Sì,» concordò Druss.
«È diventato un bel forte adesso, vero?»
«Un bel forte con dei cancelli malridotti,» affermò Druss. «Quello è il nostro
punto debole.»
«Io sarò là,» disse Nuang con il volto privo d’espressione. «Talismano mi ha
detto di unirmi agli uomini che difenderanno quel punto. Se il cancello dovesse
venire sfondato dovremo ostruirlo con i corpi.» Si sforzò di sorridere. «È passato
molto tempo dall’ultima volta in cui ho provato una simile paura, ma è una bella
sensazione.»
Druss annuì. «Se il cancello dovesse cedere, mi troverai al tuo fianco.»
«Ah! Allora ci saranno un mucchio di morti.» L’espressione di Nuang si
rasserenò. «Combatterai di nuovo contro la tua gente. Perché?»
Druss scrollò le spalle. «Essi non sono la mia gente e io non ho fatto nulla per
dar loro la caccia. Sono loro che stanno venendo qua. La morte aleggia sopra le
loro teste.»
«Sei un uomo duro, Druss. Forse in te scorre del sangue nadir.»
«Forse.» Nuang vide suo nipote, Meng, che camminava nel cortile; lo chiamò,
quindi senza dire una parola di commiato scese dagli spalti. Druss si mise a fissare
la catena di colline che si innalzava a ovest. Il nemico sarebbe arrivato presto.
Ripensò a Rowena, alla fattoria, ai giorni di lavoro in mezzo alle mandrie e alle
notti nella loro spaziosa capanna. Perché, rifletté, quando sono lontano da lei
desidero la sua compagnia e quando sono con lei sento la mancanza della
battaglia? Ripensò alla sua infanzia, quando lui e suo padre avevano viaggiato di
villaggio in villaggio cercando di non farsi riconoscere quali parenti di Bardan
l’Uccisore. Druss abbassò gli occhi e osservò Snaga. La temibile ascia che ora era
appoggiata contro il parapetto delle mura era appartenuta a suo nonno Bardan. In
quell’arma era stato racchiuso un demone ed era stata proprio quella presenza
malvagia a trasformare il suo parente in un macellaio senza scrupoli. Anche Druss
era stato influenzato da quella forza oscura per qual. che tempo. È a causa del
demone che sono diventato così? pensò. Anche se la presenza malvagia instillata
nell’arma era stata esorcizzata, tuttavia aveva mantenuto un’aura maligna che in
qualche modo l’aveva influenzato durante i sette lunghi anni in cui aveva cercato
Rowena.
Non essendo portato all’introspezione, Druss scoprì che il suo umore stava
peggiorando. Era andato nel Gothir per partecipare ai giochi non per prendere parte
a una guerra. Adesso, non per colpa sua, doveva affrontare un potentissimo
esercito e al tempo stesso trovare i gioielli magici che avrebbero guarito Klay.
«Sembri arrabbiato, vecchio cavallo,» disse Sieben, avvicinandosi a lui. Druss
fissò l’amico. Il poeta indossava una maglia azzurra con i bottoni d’osso lucido.
Aveva lucidato il balteo e sia il cuoio che le else dei coltelli brillavano. I capelli
biondi erano ben pettinati e tenuti in posizione da una fascia nel cui centro spiccava
un opale.
«Come fai?» gli chiese Druss. «Ci troviamo nel mezzo di una terra ventosa e
desolata e tu sembri appena uscito da un bagno pubblico?»
«Bisogna sempre mantenere un certo livello,» rispose Sieben con un largo
sorriso. «Questi selvaggi hanno bisogno di vedere come si comporta un uomo
civilizzato.»
Druss rise. «Mi metti sempre di buon umore, poeta. L’hai sempre fatto.»
«Perché sei così cupo? La guerra e la morte sono a pochi giorni di distanza da
noi. Credevo che stessi danzando di gioia al solo pensiero.»
«Stavo pensando a Klay. I gioielli non sono qua e io non potrò mantenere la
promessa fatta.»
«Oh, non ne essere troppo sicuro, vecchio cavallo. Ho una teoria, ma non dirò
nulla fino al momento giusto.»
«Pensi di poterli trovare?»
«Come ti ho detto, ho una teoria, ma non è ancora il momento. Sai, Nosta Khan
ti vuole vedere morto e ci era quasi riuscito. Non possiamo fidarci né di lui né di
Talismano. I gioielli sono troppo importanti per loro.»
«Hai ragione,» grugnì Druss. «Quello sciamano è un vero bastardo.»
«Cos’è?» esclamò Sieben indicando le colline. «Oh, dolce paradiso, sono qua.»
Druss socchiuse gli occhi e vide il bagliore delle corazze: una colonna di
lancieri stava scendendo in fila indiana lungo le pendici dell’altura. Un urlo si levò
dalle mura e i guerrieri, archi alla mano, andarono a occupare le loro posizioni.
«Sono in groppa a dei pony,» borbottò Druss. «Che diavolo...?»
Talismano e Nosta Khan raggiunsero Druss. Gli ultimi guerrieri della fila
ruppero la formazione e cominciarono a galoppare sulla pianura tenendo alte le
lance sulle cui punte erano state infilate delle teste.
«È Lin-tse!» urlò Talismano. I difensori nadir cominciarono a lanciare urla di
gioia e vittoria. I cavalieri rallentarono e percorsero l’intero perimetro delle mura al
piccolo galoppo affinché tutti potessero vedere i loro sinistri trofei, dopodiché
piantarono le lance nel terreno ed entrarono nel forte. Lin-tse scese dal cavallo con
un balzo e si tolse l’elmo gothir che portava in testa. I guerrieri sciamarono giù
dagli spalti e si strinsero intorno a lui e agli altri Corridori del Cielo.
Lin-tse cominciò a cantare nella sua lingua natale, saltando e ballando
accompagnato dalle ovazioni dei suoi connazionali. Pur non capendo una parola,
Sieben, che era rimasto sugli spalti, guardava la scena affascinato. Si girò verso
Nosta Khan e gli chiese: «Cosa sta dicendo?»
«Sta parlando della morte dei nemici e di come i suoi uomini abbiano cavalcato
nel cielo per sconfiggerli.»
«Cavalcato nel cielo? Cosa vuol dire?»
«Vuol dire che la prima vittoria è nostra,» sbottò lo sciamano. «Adesso stai
zitto e fammi ascoltare.»
«Che uomo irritante,» borbottò Sieben sedendosi al fianco di Druss.
Lin-tse impiegò circa un quarto d’ora per completare la storia e una volta
terminata i nadir lo sollevarono in aria. Talismano rimase seduto tranquillo finché
il rumore non cessò. Quando Lin-tse venne rimesso con i piedi a terra si avvicinò al
suo generale e lo salutò con un breve inchino. «I tuoi ordini sono stati eseguiti,» gli
disse. «Sono morti molti lancieri e abbiamo preso loro le armature.»
«Hai fatto un buon lavoro, fratello.»
Talismano salì velocemente in cima agli spalti quindi si girò a fissare gli
uomini riuniti sotto di lui.
«Essi possono essere battuti,» esordì, parlando in nadir. «Non sono invincibili.
Abbiamo assaggiato il loro sangue e ne assaporeremo altro. Quando verranno per
saccheggiare il santuario noi li fermeremo, poiché noi siamo nadir e il nostro
giorno è vicino. Questo non è che l’inizio. La storia del vostro eroismo volerà di
villaggio in villaggio, di campo in campo su ali di fuoco finché tutti i nadir non
l’avranno udita e tutto ciò servirà a far sì che il giorno dell’Unificatore sia sempre
più vicino. Un giorno noi saremo davanti alle mura di Gulgothir e quella città
tremerà di fronte al nostro esercito.» Alzò lentamente il braccio destro con il pugno
chiuso. «Nadir noi siamo!» urlò. Gli altri guerrieri Io seguirono e ben presto
nell’aria risuonò il loro inno.

Nadir noi
nati giovani,
spargiamo il sangue,
armati d’ascia,
pur sempre vincitori.

«Gela il sangue,» commentò Sieben.


Druss annuì. «È un ragazzo in gamba. Sa che su di noi si sta per abbattere un
disastro e lui li riempie d’orgoglio. Ora combatteranno come demoni per lui.»
«Capisci il nadir?»
«No... ma non c’è bisogno di conoscere le lingue per capire quello che sta
succedendo. Ha mandato fuori Lin-tse affinché il primo sangue ad essere versato
fosse quello del nemico. Ha dato loro una vittoria e questo li ha uniti.
Probabilmente ha detto loro che essi sono tutti eroi e che uniti possono resistere a
qualsiasi forza o qualcosa di simile.»
«E possono?»
«Non c’è modo di saperlo, poeta. Non fino alle prime morti. Un esercito è come
la lama di una spada. Non puoi provarla finché non è passata nel fuoco.»
«Sì, sì, sì,» disse Sieben, irritato, «ma tralasciando le tue analogie da guerriero,
cosa ne pensi tu? Tu conosci gli uomini e io mi fido del tuo giudizio.»
«Io non conosco questi uomini. Oh, sì, sono decisamente feroci, ma non sono
disciplinati e sono superstiziosi. Non hanno nessuna storia che narri una loro
vittoria a cui appellarsi nei momenti più bui. Non hanno mai sconfitto i gothir.
Tutto dipende dal primo giorno di battaglia. Rifammi la domanda se sopravvi-
veremo a quella giornata!»
«Dannazione, oggi sei veramente cupo, amico mio,» commentò Sieben. «Cosa
c’è che non va?»
«Questa non è la mia guerra, poeta. Non sento nulla per essa, sai? Ho
combattuto a fianco di Oshikai. So che a lui non gliene importa nulla di quello che
potrebbe succedere alle sue ossa. Questa battaglia non serve a niente e non porterà
a nulla sia che venga vinta o persa.»
«Penso che tu stia sbagliando, vecchio cavallo. Tutto questo parlare
dell’Unificatore è importante per questa gente. Hai detto che nella loro storia non
c’è nessuna vittoria che possano ricordare. Beh, forse questa sarà la prima.» Sieben
si alzò dal parapetto e si sedette a guardare l’amico. «Tu le sai già queste cose,
vero, Druss? C’è qualcosa di più profondo.»
Il drenai fece un sorriso obliquo quindi si passò la grossa mano sulla barba
nera. «Già, hai ragione. È molto semplice. A me non piace questa gente, poeta.
Non ho nessuna affinità con questi uomini delle tribù. Non so cosa pensano o cosa
sentono. Una sola cosa è dannatamente sicura: neanche noi piacciamo a loro.»
«Tu piaci a Nuang e Talismano e loro sono entrambi nadir,» gli fece notare
Sieben.
«Sì, lo so, però non riesco a capire come mai.»
Sieben rise. «Non è difficile, Druss. Tu sei nato e cresciuto nel Drenai, la terra
che ospita gli uomini più civilizzati del mondo, ecco quello che ci hanno sempre
ripetuto. Uomini civilizzati in un mondo di selvaggi. Tu non hai avuto problemi a
combattere a fianco dei ventriani, ma essi sono come noi: alti e con gli occhi
rotondi. Le nostre mitologie sono uguali. I nadir, invece, discendono dai chiatze,
un popolo con cui è ovvio che non abbiamo nulla in comune. Cane e gatto, Druss.
O, se preferisci, lupi e leoni. Ma io penso che tu sbagli nel credere che essi non
pensino come noi o che non provino le nostre stesse sensazioni. Essi ci fanno
vedere le cose da un punto di vista diverso. Le basi della loro cultura sono
differenti dalle nostre.»
«Non sono un bigotto,» rispose Druss, sulla difensiva.
Sieben rise. «Certo che lo sei, ma per te è normale. Sei un brav’uomo Druss, e
il modo in cui ti comporti non servirà a cambiare di una virgola la tua natura. Può
darsi che gli insegnamenti drenai siano ben radicati nel tuo cranio, ma tu sei un
uomo di cuore e questo ti permetterà di superare qualsiasi condizionamento.»
Druss sentì la tensione che l’abbandonava e si rilassò. «Spero che tu abbia
ragione. Mio nonno era un assassino spietato, un macellaio e le sue atrocità mi
perseguitano ancora. Non voglio essere colpevole di simili malvagità. Non vorrei
mai combattere dalla parte sbagliata. Secondo me la guerra ventriana era giusta ed
era combattuta per uno scopo ben preciso. Ora è Gorben a regnare in Ventria ed
egli è l’uomo più grande che io abbia mai incontrato.»
«Forse,» disse Sieben, dubbioso. «La storia lo giudicherà meglio di te o di me.
Ma se ti preoccupi della... malvagità, allora tranquillizzati. Questo è un santuario e
qua giacciono le ossa del più grande guerriero del popolo nadir. Questo posto
significa qualcosa per loro. Gli uomini che stanno per arrivare sono al servizio di
un imperatore folle ed essi vogliono distruggere questo luogo al solo scopo di
umiliare le tribù e far sì che rimangano al loro posto. La Fonte sa quanto io odi la
violenza, ma non siamo dalla parte sbagliata della barricata, Druss. Certo che no,
per il paradiso!»
Druss gli batté una pacca amichevole sulla spalla. «Cominci a parlare come un
guerriero,» gli disse, sfoderando un largo sorriso.
«Beh, parlo così perché il nemico non è ancora arrivato. Ti assicuro che quando
saranno dentro le mura mi troverai nascosto dentro una botte vuota.»
«Non ci credo neanche un po’,» di rispose Druss.

In una piccola stanza a fianco dell’ospedale di fortuna, Zhusai sedeva tranquilla


ad ascoltare Talismano e Lin-tse che parlavano dell’incursione. I due uomini erano
fisicamente molto diversi. Lin-tse era alto e dai lineamenti del suo volto solenne si
evinceva chiaramente che non fosse un nadir purosangue. Gli occhi erano appena a
mandorla e i capelli neri avevano delle sfumature castane. Talismano, che portava
la chioma racchiusa in una coda di cavallo, era indubbiamente un nadir: la pelle era
color oro chiaro, il volto piatto e gli occhi privi d’espressione. Tuttavia, pensò
Zhusai, malgrado le differenze fisiche, essi sono simili. Essi sono avvolti da
un’aura di fratellanza. Che sia dovuta, continuò a chiedersi, al fatto di essere stati
insieme all’Accademia di Bodacas o perché condividono lo stesso desiderio di ve-
dere i nadir nuovamente liberi e fieri? Forse entrambe le cose, concluse.
«Saranno qua non più tardi di domani pomeriggio,» disse Lintse.
«Non possiamo fare altro. I guerrieri non potrebbero essere più pronti.»
«Resisteranno, Talismano? Non ho mai sentito parlare molto bene dei Corni
Ricurvi e per quanto riguarda i Lupi Solitari... beh, sembrano nervosi senza il loro
capo. Inoltre vedo che i gruppi non si mischiano tra di loro.»
«Resisteranno,» rispose fiducioso, Talismano. «E riguardo a quello che hai
sentito dire dei Corni Ricurvi, mi chiedo cosa loro abbiano sentito dire sui
Corridori del Cielo. Non è nostra abitudine parlare bene delle tribù che ci sono
nemiche. Ho notato, però, che non hai menzionato i Pony Veloci. Non è perché sai
che è il nostro amico Quing-chin a comandarli?»
Lin-tse abbozzò un sorriso. «Ho capito quello che vuoi dire. L’uomo con
l’ascia sembra un guerriero formidabile.»
«Lo è. Ho attraversato il Vuoto con lui, amico mio e credimi: fa spavento
vederlo in azione.»
«Anche così continuo a sentirmi a disagio con un gajin tra le mura. È un
amico?»
«Dei nadir? No. Un mio amico? Forse. Sono contento che sia qua, è circondato
da un’aura di forza indomabile.» Talismano si alzò. «Dovresti andare a riposarti,
Lin-tse. Te lo sei meritato. Avrei voluto vedere te e i tuoi uomini saltare il baratro.
In quel momento siete stati veramente dei Corridori del Cielo. Gli uomini
canteranno la vostra impresa negli anni a venire.»
«Solo se sopravviveremo, generale.»
«Allora dovremo sopravvivere, mi piacerebbe molto sentire quella canzone.»
Lin-tse si alzò, strinse la mano al suo compagno, fece un inchino a Zhusai e
lasciò la stanza. Talismano si abbandonò sulla sedia.
«Tu sei più stanco di lui,» lo ammonì Zhusai. «Sei tu che hai bisogno di
riposarti.»
Talismano abbozzò un sorriso stanco. «Sono giovane e pieno d’energie.»
Zhusai attraversò la stanza, si inginocchiò al suo fianco e gli appoggiò le
braccia sulle cosce. « Ci ho pensato a lungo: non andrò con Nosta Khan,» lo
informò. «Lo so che è un usanza nadir che il padre scelga il marito della figlia, ma
mio padre non era nadir e mio nonno non aveva nessun diritto di darmi in sposa a
qualcuno. Ti dirò questo, Talismano, se mi farai andare via, io attenderò tue
notizie, e se dovessi morire...»
«Non dirlo! Te lo proibisco!»
«Tu non mi puoi proibire nulla,» gli disse in tono tranquillo. «Tu non sei mio
marito, sei il mio guardiano. Niente di più. Molto bene, non dirò nulla, ma tu sai
bene quello che farò.»
Il condottiero nadir l’afferrò per le spalle con rabbia e l’alzò. «Perché mi torturi
in questo modo?» urlò. «Non riesci a capire che il saperti al sicuro mi darà forza e
speranza?» La ragazza gli si sedette in grembo. «Speranza? Quale speranza vuoi
che ci sia per Zhusai con te morto, amore mio? Cosa mi riserverebbe il futuro? Un
matrimonio con uno sconosciuto dagli occhi viola? No, non fa per me. Sarai tu o
nessuno.»
La ragazza si inclinò in avanti e lo baciò. La mente di Talismano gli urlò di
allontanarla, ma l’eccitazione ebbe il sopravvento e il giovane restituì il bacio con
un ardore che non aveva mai sospettato di possedere. La sua mano scivolò sulla
spalla di Zhusai e avvertì la morbidezza della pelle sotto la maglia, quindi seguì i
contorni del corpo, soffermandosi sul seno sinistro dove cominciò a massaggiare il
capezzolo inturgidito tra il pollice e I indice.
Talismano non sentì la porta che si apriva ma fu raggiunto da una folata d’aria.
Si scostò leggermente da Zhusai, girò la testa e vide Nuang Xuan. «Non è il
momento, vero?» disse il vecchio guerriero, strizzando un occhio.
«No,» rispose Talismano con voce roca. «Entra.» Zhusai si alzò, lo baciò su
una guancia quindi si allontanò. Gli occhi del giovane nadir si soffermarono a
fissare il moto dei fianchi snelli della ragazza.
Nuang-Xuan si accomodò goffamente sulla sedia di legno. «Sarebbe meglio
sedersi alla nadir, sul pavimento,» disse, «ma non voglio guardarti dal basso verso
l’alto.»
«Cosa vuoi da me, vecchio?»
«Tu desideri che io stia con il gruppo che difenderà i cancelli, ma io vorrei stare
sulle mura a fianco di Druss.»
«Perché?»
Nuang sospirò. «Penso che morirò qua, Talismano. Non ho nulla da obbiettare
a riguardo. Ho vissuto a lungo e ho ucciso molti uomini. Ne dubiti?»
«Perché dovrei dubitare delle tue parole?»
«Perché non sono vere,» confessò Nuang, con un sorriso malizioso. «Nel corso
della mia vita ho ucciso cinque uomini: tre in duello quando ero giovane e due
lancieri quando siamo stati attaccati. Ho detto all’uomo con l’ascia che ne avrei
uccisi cento sulle mura e lui ha risposto che avrebbe tenuto il conto per me.»
«Solo cento?» indagò Talismano.
Nuang sorrise. «Ultimamente non mi sento molto bene.»
«Allora dimmi la vera ragione per cui vuoi stare al suo fianco.»
Gli occhi di Nuang diventarono due fessure. «L’ho visto combattere. È un
guerriero eccezionale. Molti gajin moriranno intorno a lui. Se sarò al suo fianco gli
uomini mi vedranno combattere. Non posso uccidere cento nemici, ma a coloro che
mi vedranno sembrerà così e quando canteranno la canzone su di noi il mio nome
verrà ricordato. Capisci?»
«Nuang e Morte che cammina,» disse Talismano con calma. «Sì, capisco.»
«Perché l’hai chiamato in quel modo?»
«Ho attraversato il Vuoto con lui. È il nome più adatto per Druss.»
«È bellissimo. Nuang e Morte che cammina. Mi piace. Sarà così?»
«Lo sarà. Anch’io ti guarderò vecchio, e terrò il conto.»
«Ah! Adesso sono felice, Talismano.» Nuang si alzò e si massaggiò le natiche.
«Non mi piacciono queste sedie.»
«La prossima volta che parleremo, ci siederemo per terra,» gli promise
Talismano.
Nuang scosse la testa. «Non è rimasto molto da dire. I gajin arriveranno qua
domani. La tua donna rimarrà qua?»
«Sì.»
«Come è giusto che sia,» approvò Nuang. «È molto bella e il sesso con lei ti
aiuterà nei tempi a venire. Ricordati una cosa, comunque, ha i fianchi piccoli e il
primo parto è sempre molto duro per una donna con quel fisico.»
«Me lo ricorderò, vecchio.»
Nuang si diresse verso la porta a grandi passi. Una volta raggiunta rimase
fermo per qualche istante quindi si voltò a fissarlo. «Sei molto giovane, ma se
sopravviverai diventerai un grande uomo, lo so.»
Finita la frase uscì dalla stanza.
Talismano si avviò verso una porta secondaria ed entrò nell’ospedale. Sieben
stava distendendo delle coperte sul pavimento e una giovane donna nadir stava
spazzando la stanza.
«Già qua, generale,» lo accolse allegro Sieben. «Siamo pieni di aghi e filo,
bende e delle erbe secche che emanano l’odore più disgustoso che mi sia mai
capitato di sentire. Io credo che mi basterà minacciare i feriti di usarle nella cura
per farli correre di nuovo sulle mura.»
«Sono funghi essiccati. Crescono sugli alberi,» gli spiegò Talismano. «Servono
a prevenire le infezioni. Hai dell’alcool?»
«Non sono in grado di operare. Quindi non sarà necessario far ubriacare gli
uomini.»
«Usalo per pulire le ferite e gli attrezzi. Anche quello ti aiuterà a evitare le
infezioni.»
«Forse tu potresti fare il chirurgo,» suggerì Sieben. «Sembri saperne molto più
di me.»
«Ho studiato queste cose all’Accademia di Bodacas. C’erano molti libri a
questo riguardo.»
Mentre Talismano si allontanava, la ragazza nadir lo avvicinò. Non la si poteva
definire bella, ma era decisamente attraente. «Sei giovane per essere un generale,»
disse lei, sfiorandogli il petto con il seno. «È vero quello che si dice su di te e sulla
donna chiatze?»
«Cosa dicono?»
«Dicono che lei sia promessa all’Unificatore e che tu non puoi averla.»
«Davvero? E se fosse vero non vedo come la cosa ti riguardi.»
«Io non sono promessa all’Unificatore. Un generale non dovrebbe preoccuparsi
di entrambe le teste, quella sopra e quella sotto. Si dice che non ci sia abbastanza
sangue in un uomo per riempirle contemporaneamente. Forse se ne svuoti una
l’altra funzionerà meglio.»
Talismano rise di gusto. «Tu sei una delle donne di Nuang... Niobe?»
«Sì. Niobe,» confermò lei, contenta che il generale ricordasse il suo nome.
«Bene, Niobe ti ringrazio per la tua offerta. È un grande complimento e mi ha
sollevato il morale.»
«È un sì o un no?» gli chiese lei, confusa.
Talismano sorrise, quindi si girò ed uscì dall’ospedale. Niobe si voltò e vide
Sieben che rideva.
«Per i paradisi sei una sfacciata impudente. Cosa ne è stato del guerriero su cui
avevi posato i tuoi bei occhi?»
«Aveva due mogli e un pony,» gli disse. «E i denti brutti.»
«Beh, non disperarti, ci sono quasi duecento uomini tra cui scegliere.»
Lei lo fissò e piegò la testa di lato. «Qua non c’è nessuno. Vieni, sdraiati con
me.»
«Ci sono uomini, mia cara, che si sentirebbero feriti e umiliati per essere
considerati il ripiego di un uomo con un pony e i denti brutti. D’altro canto, io non
ho nessuna remora ad accettare un’offerta così generosa. Gli uomini della mia
famiglia hanno sempre avuto un debole per le donne attraenti.»
«Tutti gli uomini della tua famiglia parlano così tanto?» gli chiese mentre
slacciava i nodi della maglia, lasciandola cadere. «Parlare è il nostro secondo più
grande talento.»
«Qual è il primo?» gli chiese.
«Il sarcasmo e la bellezza, non trovi, dolcezza? Ah ma tu sei una creatura
incantevole.» Si tolse i vestiti, distese una coperta e la trasse a sé.
«Dovrai essere veloce,» disse lei.
«La velocità nelle questioni di lombi è un talento che non possiedo.
Fortunatamente,» aggiunse.

Kzun sentì un forte senso d’esaltazione crescere in lui mentre fissava i due carri
che bruciavano. Balzò oltre i massi e corse vicino a un soldato gothir che stava
cercando di strisciare via malgrado la freccia piantata nel collo. Gli affondò la daga
nelle scapole e gli impresse una torsione selvaggia. Il soldato emise un grido quindi
iniziò a soffocare nel proprio sangue. Kzun si raddrizzò, lanciò un urlo raggelante e
gli altri guerrieri nadir della tribù del Corno Ricurvo uscirono dai loro nascondigli
e corsero a raggiungerlo. Il vento cambiò direzione e il fumo irritò gli occhi di
Kzun che si mise velocemente sottovento e controllò l’esito della battaglia. Erano
arrivati sette carri e quindici lancieri. Dodici soldati erano morti: otto riempiti di
frecce e quattro uccisi in combattimento corpo a corpo. Kzun in persona ne aveva
uccisi due. A quel punto i gothir avevano girato i carri rimanenti ed erano scappati.
Il nadir avrebbe voluto inseguirli, ma i suoi ordini erano di rimanere vicini al pozzo
per impedire al nemico di rifornirsi d’acqua.
I Corni Ricurvi avevano combattuto bene e solo uno era stato ferito
gravemente.
«Togliete loro le armi e le armature!» urlò Kzun, «poi torniamo a nasconderci
dietro le rocce.»
Un ragazzo che indossava un elmo da lanciere gli si avvicinò. «Adesso
andiamo via?»
«Via dove?» replicò Kzun.
«Dove?» rispose il giovane, confuso. «Andiamo via prima che tornino.»
Kzun si incamminò lungo il pendio costellato di massi e tornò alla polla. Si
inginocchiò e cominciò a lavarsi il petto sporco di sangue, quindi si tolse la sciarpa
bianca, la immerse nell’acqua e la avvolse nuovamente sulla testa pelata. I guerrieri
lo raggiunsero.
Kzun si girò ad affrontarli, li guardò in volto e dalle loro espressioni capì che
avevano paura. Avevano ucciso dei soldati gothir e presto ne sarebbero arrivati
altri. «Volete scappare?» gli chiese.
Un guerriero snello con i capelli che cominciavano a diventare grigi fece un
passo avanti. «Non possiamo combattere contro un esercito, Kzun. Abbiamo
bruciato i loro carri, giusto? Essi torneranno. Cento, forse duecento. Non possiamo
combattere contro di loro.»
«Allora scappate,» gli disse Kzun con voce colma di disprezzo. «Non potevo
aspettarmi di più quei codardi dei Corni Ricurvi. Mi hanno detto di tenere questa
polla e di difenderla con la mia vita. Bene, io lo farò. Finché sarò in vita nessun
gajin berrà quest’acqua.»
«Non siamo dei codardi,» urlò l’uomo diventando rosso in volto. Un mormorio
adirato si levò dai guerrieri che lo circondavano. «Ma perché dovremmo morire
qua?»
«Perché bisogna comunque morire,» replicò Kzun. «Duecento uomini sono
chiusi nel santuario di Oshikai, pronti a difenderne le ossa. Tra di loro ci sono
anche i vostri fratelli. Pensi che loro scapperanno?»
«Cosa dovremmo fare, allora?» chiese un alto guerriero.
«Non me ne importa nulla di quello che fate!» si infuriò Kzun. «Tutto quello
che so è che rimarrò qua e combatterò.»
Il guerriero dai capelli quasi grigi chiamò i suoi compagni e tutti si andarono a
sedere in cerchio sull’altro lato della polla per decidere cosa fare. Kzun li ignorò.
Un lamento soffocato giunse dalla sua sinistra e nel girarsi vide un guerriero dei
Corni Ricurvi seduto con la schiena appoggiata contro la roccia rossa e le mani
chiuse sopra una profonda ferita allo stomaco. Kzun prese un elmo da lanciere lo
immerse nell’acqua e si avvicinò al moribondo. Il nadir bevve due sorsate quindi
tossì e gridò di dolore. Kzun si sedette al suo fianco. «Hai combattuto bene,» gli
disse. Il giovane si era lanciato addosso a un lanciere disarcionandolo. Nella lotta
che era seguita il gothir aveva estratto la daga e l’aveva piantata nella pancia del
suo assalitore. Kzun era corso in suo aiuto e aveva ucciso il lanciere.
Il sole si alzò sopra le rocce rosse illuminando la faccia del ragazzo e Kzun vide
che non doveva avere più di quindici anni. «Ho lasciato cadere la mia spada,» disse
il ferito. «Sto per morire.»
«Sei morto difendendo la tua terra. Gli dèi della terra e dell’acqua ti daranno il
benvenuto.»
«Non siamo dei codardi,» gli disse il moribondo. «Ma noi... passiamo la
maggior parte della vita... a scappare dai gajin.»
«Lo so.»
«Ho paura del Vuoto. Se... aspetto... camminerai al mio fianco nell’oscurità?»
Kzun rabbrividì. «Sono già stato nell’Oscurità, ragazzo. So cosa sia la paura.
Sì, aspettami. Camminerò al tuo fianco.» Il ragazzo fece un sorriso stanco e la testa
gli ricadde all’indietro. Kzun gli chiuse gli occhi, si alzò e si diresse verso il
cerchio dei guerrieri impegnati a discutere, si fece largo tra di loro e si piazzò nel
centro. «C’è un momento per combattere,» esordì, «e un momento per scappare.
Ripensate alle vostre vite. Non siete scappati abbastanza? E per andare dove?
Quanto lontano dovrete scappare per evitare i lancieri? I guerrieri del santuario
diventeranno Immortali. Quanto lontano potrete scappare per non essere per-
seguitati dalle canzoni delle loro gesta?
«Il nemico può combattere solo se ha l’acqua e questa è l’unica polla profonda.
Ogni giorno che noi impediamo loro di rifornirsi, diamo una possibilità di vittoria
in più ai nostri fratelli e in questo modo entreremo anche noi nella Grande
Canzone. Io sono un uomo che non ha amici né fratelli di spada. Ho passato la mia
gioventù nelle miniere dei gothir, lavorando al buio con il corpo coperto di ferite.
Non ho né moglie né figli. Kzun non può donare nulla al futuro. Ci sarà qualcuno
che mi piangerà quando sarò morto? Nessuno. Il sangue di Kzun non scorre in
nessun essere vivente. I gothir mi hanno incatenato lo spirito. Quando uccisi le
guardie e scappai, riuscii solo a liberare il mio corpo perché il mio spirito è rimasto
intrappolato nell’Oscurità. Io penso che sia ancora là. Starà passando il tempo a
nascondersi nei cunicoli bui e nella polvere nera. Io non potevo... non posso...
sentire il senso d’appartenenza che sta alla base di tutto ciò che noi siamo. L’unica
cosa che mi è stata lasciata è il desiderio di vedere i nadir, la mia gente, camminare
liberi a testa alta. Non avrei mai dovuto chiamarvi codardi, poiché siete tutti
uomini coraggiosi, ma anche i vostri spiriti sono stati incatenati dai gajin. Siamo
nati per temerli, per scappare da loro, per inchinarci davanti a loro. Essi sono i
padroni del mondo e ci considerano dei parassiti che abitano le steppe. Beh, Kzun
crede che non sarà più così. Kzun è un uomo solo e triste,» disse con voce
arrochita. «Kzun non ha nulla da perdere. Il vostro compagno è morto. Egli mi ha
chiesto se camminerò nel buio con lui, mi ha detto che il suo spirito mi avrebbe
aspettato. In quel momento ho capito che sarei morto qua. Sono pronto. Chi lo sa,
forse riuscirò a riunirmi con il mio spirito? Tuttavia incontrerò il vostro compagno
sulla strada buia e insieme entreremo nel Vuoto. Ogni uomo che non si sente pron-
to a morire può andare. Io non lo maledirò. Kzun rimane e qua morirà. Questo è
tutto ciò che avevo da dire.»
Kzun uscì dal cerchio e si arrampicò in cima alle rocce che sovrastavano la
steppa. I carri avevano smesso di bruciare, ma il fumo continuava a levarsi dal
legno annerito. Gli avvoltoi avevano cominciato a mangiare i cadaveri dei soldati.
Kzun si acquattò nell’ombra: aveva le mani che tremavano e la paura crescente gli
fece salire la bile in gola.
Nel suo futuro c’era un’eternità da passare nel buio e per Kzun quella era la
cosa più terrificante che potesse immaginare. Fissò il cielo azzurro. Quello che
aveva detto agli uomini era vero: quando sarebbe morto nessuna creatura vivente
che abitava le steppe lo avrebbe pianto. Non aveva altro se non un corpo pieno di
cicatrici e privo di peli e i denti marci. Nelle miniere non ci si poteva permettere il
lusso dell’amicizia. Ogni uomo combatteva da solo. Ora era libero, ma l’eredità
lasciatagli da quegli anni passati nell’oscurità lo perseguitava ancora. Non poteva
più dormire in una tenda con gli altri, ma aveva bisogno dell’aria aperta e del
meraviglioso sapore della solitudine. C’era stata una donna che aveva desiderato,
ma non ne aveva mai parlato. A quel tempo Kzun era stato un guerriero che
possedeva diversi pony e avrebbe potuto fare un’ottima offerta al padre della
donna. Non l’aveva fatto e lei si era sposata con un altro guerriero.
Sentì una mano sulla spalla. il guerriero dai capelli ingrigiti si acquattò al suo
fianco. «Tu hai detto di non avere nessun fratello di spada, bene adesso li hai. Noi
rimarremo al tuo fianco, Kzun dei Lupi Solitari. E cammineremo lungo la strada
buia con te!»
Per la prima volta da quando era stato trascinato nelle miniere, Kzun sentì le
lacrime che gli bagnavano le guance, piegò la testa in avanti e cominciò a piangere
senza provare la minima vergogna.

Gargan, lord di Larness, fermò il robusto stallone grigio che cavalcava e si


piegò in avanti sull’alto pomello della sella. Davanti a lui c’erano gli edifici del
santuario di Oshikai Flagello del Demone. Alle sue spalle le truppe aspettavano:
ottocento fanti disposti in linee da quattro, i duecento arcieri a fianco della fanteria
mentre i lancieri reali, disposti in quattro colonne da duecentocinquanta unità l’una
si erano disposti ai lati dello schieramento. Gargan fissò con attenzione i muri
bianchi e notò la crepa a forma di V sul primo. Si fece ombra con una mano per
cercare di vedere il volto di Okai, ma la distanza era troppo grande e gli uomini
sugli spalti erano solo delle figure indistinte.
Le mani di Gargan si strinsero intorno al pomello finché le nocche non
sbiancarono. «Ti prenderò, Okai,» sussurrò. «Patirai diecimila tormenti prima di
morire.»
Alzò un braccio e chiamò l’araldo. «Sai quello che devi dire. Fallo! Cerca di
rimanere fuori dalla portata degli arcieri. Questi selvaggi non sanno cosa sia
l’onore.»
Il soldato salutò quindi diresse il suo castrato nero verso le mura alzando una
nuvola di polvere rossa dietro di lui. L’araldo si fermò facendo impennare la
cavalcatura quindi la sua voce echeggiò alta nell’aria. «Sappiate questo: lord
Gargan, nel pieno dell’autorità conferitagli dal Dio-Re è venuto a visitare il santua-
rio di Oshikai Flagello del Demone. Entro un’ora i cancelli dovranno essere aperti
e il traditore di nome Okai, ora conosciuto come Talismano, dovrà essere portato al
cospetto di lord Gargan. Se esaudirete questa richiesta tutti coloro che in questo
momento si trovano nel santuario avranno salva la vita.» Fece una pausa per
permettere alle sue parole di penetrare bene nella mente dei nadir, quindi riprese a
parlare. «Se non consegnerete Talismano, allora lord Gargan considererà tutti gli
occupanti dell’insediamento dei traditori. L’esercito circonderà le mura e vi farà
prigionieri. Prima di essere impiccato a ogni uomo verranno amputate le mani e
cavati gli occhi. Camminerete nel Vuoto ciechi e mutilati. Queste sono le parole di
lord Gargan. Avete un’ora.»
Il giovane lanciere girò il cavallo e rientrò nei ranghi.
Premian si affiancò a Gargan. «Non si arrenderanno, signore,» gli disse.
«Lo so,» replicò Gargan.
Premian fissò nuovamente il volto duro del generale e vide che aveva
un’espressione trionfante. «Abbiamo solo trenta barili d’acqua, signore. Un assalto
diretto contro le mura potrebbe procurarci troppe perdite.»
«È il lavoro per cui sono pagati i soldati. Prepara il campo e manda cinquanta
lancieri a pattugliare la zona. Lanceremo il primo attacco al tramonto.
Concentratevi sul muro crepato e date fuoco al cancello.»
Gargan girò il cavallo e si diresse verso la fine della colonna, mentre Premian
ordinava ai soldati di rompere le righe e preparare il campo. La tenda di Gargan era
stata distrutta dall’incendio, ma ne avevano costruita un’altra usando i sacchi di
tela e gli stracci sopravvissuti alle fiamme. Il generale rimase seduto sulla sella
intento a fissare i soldati che gli montavano la tenda, e quando ebbero finito
smontò e vi entrò. Gargan si sedette contento di non essere più esposto al sole
cocente. Si tolse l’elmo piumato, il piastrone della corazza e si sdraiò sul letto.
Il pomeriggio prima era arrivato un messaggero dalla città con una missiva di
Garen-Tsen. Il ministro lo informava che la situazione in Gulgothir era piuttosto
agitata, ma la polizia segreta aveva arrestato decine di nobili e per il momento era
tutto abbastanza sotto controllo. Il Dio-Re era nascosto sorvegliato dagli scagnozzi
di Garen-Tsen. Il politico gli chiedeva di porre fine in fretta alla sua missione e di
tornare il più presto possibile.
Bene, pensò, prenderemo il santuario entro l’alba. Con un po’ di fortuna
rientreremo a Gulgothir in dieci giorni.
Un servitore entrò nella tenda portando una coppa d’acqua. Gargan la sorseggiò
e scoprì che era calda e salmastra. «Chiama Premian e Marlham,» gli ordinò.
«Sì, signore.» Pochi minuti dopo i due ufficiali entrarono nella sua tenda,
salutarono, si tolsero gli elmi e li tennero sotto il braccio. Marlhan sembrava
terribilmente stanco e la peluria grigio ferro che gli cresceva sulle guance lo
invecchiava di dieci anni. Anche Premian, benché fosse più giovane, era stanco e i
suoi occhi azzurri erano cerchiati di nero.
«Come è il morale?» Chiese il generale all’ufficiale più anziano.
«Più alto, ora che siamo arrivati,» disse. «I soldati sanno che i nadir non sono
bravi a difendere una posizione. La maggior parte degli uomini credono che una
volta che avranno raggiunto le mura quei selvaggi scapperanno.»
«Probabilmente andrà così,» affermò Gargan. «Voglio che i lancieri circondino
le mura. Non devono permettere a nessuno di scappare, a nessuno. Chiaro?»
«Chiaro, signore.»
«Non credo che fuggiranno,» si intromise Premian. «Combatteranno fino alla
morte. Quel santuario è l’unico luogo sacro che posseggono.»
«I nadir non si comportano in quel modo,» ringhiò Gargan. «Tu non capisci
quanto siano codardi quei parassiti! Pensi che gliene importerà qualcosa delle ossa
di Oshikai una volta che le frecce si abbatteranno su di loro e le spade penetreranno
le loro carni? Non se ne preoccuperanno più, del loro grande eroe.»
Premian fece un profondo respiro. «Okai lo farà. Non è un codardo. È un
ottimo stratega, il migliore che abbiamo mai visto a Bodacas.»
Gargan balzò in piedi. «Non lodarlo!» tuonò. «Quell’uomo ha ucciso mio
figlio!»
«La sua perdita mi addolora, generale; Argo era un mio amico. Ma quel gesto
malvagio non ha nulla a che fare con il talento di Okai. Avrà trovato il modo di
unire quegli uomini, egli sa cosa siano la disciplina e il morale. Essi non
scapperanno.»
«Che rimangano e muoiano, allora,» urlò Gargan. «Non ho mai incontrato dieci
nadir messi insieme in grado di tener testa a uno spadaccino gothir. In quanti sono?
Duecento. Entro il tramonto un numero due volte superiore di fanti assalterà quelle
mura. Non ha alcuna importanza se resisteranno o scapperanno.»
«Con loro c’è anche Druss,» aggiunse Premian.
«Cosa vuoi dire? Quel Druss è un semidio, per caso? Alzerà una montagna per
poi scagliarcela addosso?»
«No, signore,» affermò Premian, con voce neutra, «ma egli è una leggenda tra
la sua gente. E noi abbiamo già provato la sua abilità di combattente a nostre spese.
Quando abbiamo assalito il campo dei rinnegati ha ucciso sette lancieri da solo. È
un guerriero temibile e gli uomini parlano già di lui. Nessuno è desideroso di avere
a che fare con la sua ascia.»
Gargan fissò con durezza il giovane ufficiale. «Cosa stai suggerendo, Premian?
Dovremmo tornare a casa?»
«No, signore. Abbiamo i nostri ordini e devono essere eseguiti. Voglio solo dire
che dovremmo trattarli con un po’ più di rispetto. Entro un’ora la nostra fanteria
assalterà i muri. Se gli uomini crederanno, sbagliando, che avranno vita facile,
potrebbero trovarsi di fronte a un’amara sorpresa. Potremmo perdere cento soldati
prima del tramonto. Sono già stanchi e assetati: sarebbe un brutto colpo per il
morale.»
«Non sono d’accordo, signore,» disse Marlham. «Se gli diciamo che l’assalto
sarà sanguinoso, rischiamo di instillare nei soldati la paura della sconfitta e tali
paure possono rivelarsi delle profezie che tendono ad avverarsi da sole.»
«Non stavo dicendo questo,» insistette Premian. «Diciamo loro che i difensori
sono pronti a dare la vita e che la battaglia non sarà facile. Quindi ricordiamo loro
che siamo soldati del Gothir e che nulla al mondo può resisterci.»
Gargan si sedette sul letto e rimase zitto per qualche minuto. Infine alzò gli
occhi e disse: «Continuo a credere che scapperanno. Comunque sarebbe una follia
non concedersi un margine d’errore. Fallo Premian. Mettili in guardia poi esaltali.»
«Sì, signore. Grazie, signore.»
«Quando sarà il momento libera il prigioniero. Fallo camminare verso il
santuario. Appena sarà abbastanza vicino alle mura fallo uccidere da tre arcieri a
cavallo.»
Premian salutò e si rimise l’elmo.
«Nessuna parola di condanna, Premian?» gli chiese Gargan.
«No, signore. Non mi piacciono questi sistemi, ma non c’è alcun dubbio che un
simile spettacolo servirà a innervosire i difensori.»
«Bene. Vedo che stai imparando.»

Sieben fissò l’esercito gothir e sentì la paura stringergli lo stomaco. «Penso che
aspetterò all’ospedale, vecchio cavallo,» disse a Druss.
Il drenai annuì. «Meglio,» rispose torvo. «Presto avrai molto da fare.»
Sieben scese con passo tremante dagli spalti. Nuang Xuan si avvicinò a Druss.
«Io starò al tuo fianco,» gli disse. Aveva il volto pallido e le palpebre che
sbattevano nervosamente.
Circa una ventina di nadir erano in silenziosa attesa vicino ai due. «Di che tribù
sei?» Chiese Druss al giovane dallo sguardo nervoso che gli era più vicino.
«Lupi Solitari,» gli rispose, leccandosi le labbra.
«Bene,» affermò Druss con naturalezza, facendo in modo che anche gli altri
uomini sentissero. «Questo vecchio mi ha promesso di uccidere cento soldati
gothir. Io terrò il conto. Non voglio che nessuno di voi Lupi Solitari interferisca.
Uccidere cento persone richiede molta concentrazione!»
Il giovane si girò verso Nuang, quindi rise. «Io ne ucciderò più di lui,» disse.
«Ha tutta l’aria di una scommessa,» disse Druss. «Come ti chiami?»
«Io sono Chisk.»
«Bene, Chisk, io ho una moneta d’argento che dice che al tramonto Nuang avrà
ucciso più soldati di te.»
L’uomo abbassò lo sguardo. «Non ho argento da scommettere.»
«Cosa hai, allora?» gli chiese il drenai.
Il nadir mise la mano nella tasca della sua giacca sporca di pelle di capra e tirò
fuori un piccolo amuleto rotondo, tempestato di lapislazzuli. «Questo serve a
tenere lontani gli spiriti maligni,» gli disse. «Vale molto di più dell’argento.»
«Lo credo bene,» concordò Druss. «Vuoi scommetterlo?» L’uomo annuì.
«Scommetto che ne ucciderò anche più di te,» gli disse.
Druss rise e gli batté una pacca sulla spalla. «Una scommessa a testa è più che
sufficiente, ragazzo. C’è qualcun altro di voi Lupi Solitari che vuol scommettere?»
Gli altri guerrieri si fecero avanti offrendo cinture ornate, daghe ricurve, bottoni
d’osso intagliato e Druss accettò tutte le offerte.
Un uomo tarchiato dagli occhi incassati gli appoggiò una mano su un braccio.
«Chi terrà il conto?» gli chiese. «Nessuno può tenerci tutti d’occhio.»
Druss sorrise. «Voi siete tutti quanti eroi degni di fiducia,» li lodò. «Ognuno
tenga il conto per sé. Stanotte, quando il nemico sarà stato ricacciato nel suo
campo, ci riuniremo e vedremo chi ha vinto. Adesso tornate alle vostre posizioni,
l’ora è quasi finita.»
Nuang gli si avvicinò. «Penso che perderai un mucchio d’argento, uomo con
l’ascia,» gli sussurrò.
«Sono solo soldi,» disse Druss.
Talismano salì sugli spalti e li raggiunse. «Cos’era quel trambusto?» chiese.
Alcuni guerrieri si chiusero intorno a lui e cominciarono a parlare in nadir.
Talismano ascoltò dopodiché annuì e fece un sorriso stanco. «Pensano che tu sia il
più grande dei folli,» disse a Druss.
«Non è la prima volta che me lo dicono,» ammise il drenai.
Tre cavalieri uscirono dal campo nemico trascinando con loro un prigioniero.
Appena furono abbastanza vicini alle mura, cambiarono bruscamente direzione. Il
prigioniero cadde pesantemente a terra e cercò di rialzarsi.
Quing-chin,» affermò Talismano, con voce piatta e l’espressione del volto
inintelligibile.
Le mani del prigioniero erano state tagliate e i moncherini cauterizzati con la
pece. Uno dei soldati tagliò la corda e Quing-chin cominciò a girare in cerchio
barcollando.
«L’hanno anche accecato,» sussurrò Nuang.
Diversi nadir cominciarono a lanciare grida d’incitamento verso il mutilato che
alzò la testa e cominciò a dirigersi verso le mura guidato dal suono delle voci dei
suoi connazionali. I tre cavalieri lo lasciarono avvicinare quindi incoccarono le
frecce e spronarono i cavalli al galoppo verso il nadir. Una freccia lo colpì nella
parte bassa della schiena, ma lui non emise un urlo. Un secondo dardo gli si
conficcò tra le scapole. Quing-chin cadde e cominciò a strisciare. Un cavaliere si
fermò vicino a lui e gli piantò una terza freccia nella schiena.
Una dardo partì dagli spalti mancando di molto i soldati gothir.
«Nessuno tiri!» urlò Talismano.
«È un brutto modo per morire,» sussurrò Nuang Xuan. «Quello è quanto ci
hanno promesso i nemici.»
«È stato il loro momento,» disse Druss con voce dura e triste. «Che si
divertano. Entro pochissimo tempo avremo il nostro momento ed essi non si
divertiranno affatto!»
Un tamburo risuonò nel campo nemico e centinaia di fanti cominciarono a
muoversi in direzione del muro ovest con il sole che brillava sulle armature. Dietro
di loro duecento arcieri incoccarono le frecce.
Druss si girò verso Talismano. «Questo non è il tuo posto, generale,» gli disse
con calma.
«Ho bisogno di combattere,» sibilò Talismano.
«È proprio quello che vogliono. Tu sei il capo. Non puoi morire al primo
attacco. Sarebbe un colpo terribile per il morale. Abbi fiducia. Scendi, non
permetterò loro di passare.»
Talismano rimase fermo per un attimo quindi rinfoderò la spada con un gesto
rabbioso e scese.
«Bene ragazzi,» disse Druss. «Tenete la testa bassa perché prima di tutto ci
lanceranno una pioggia di frecce. Allargatevi e tenete le spade nei foderi. Quando i
portatori di scale raggiungeranno le mura li tempesteremo di pietre, poi usate le
daghe, funzionano meglio per il combattimento ravvicinato. Tenete le spade per
quando avranno raggiunto gli spalti.»
La fanteria si fermò al di fuori della portata degli archi dei nadir. Druss si
inginocchiò e vide gli arcieri correre tra i ranghi. Centinai di frecce fendettero
l’aria. «Giù!» urlò e lungo tutto il muro i guerrieri nadir si acquattarono dietro le
merlature. Druss guardò il cortile. Talismano e la forza di riserva composta da ven-
ti uomini guidati da Lin-tse erano allo scoperto. Le frecce volarono sopra il muro,
un nadir venne colpito a una gamba e gli altri corsero al coperto. Sulla piana di
fronte al santuario la fanteria cominciò a muoversi, lentamente in principio, poi,
quando furono più vicini alle mura, alzarono le scale e caricarono. Le frecce dei
difensori si abbatterono sulle loro file e diversi soldati caddero a terra. Gli arcieri
gothir risposero con una salva e due nadir vennero uccisi.
I portatori di scale raggiunsero il muro ovest. Druss si inginocchiò, chiuse le
braccia intorno a una pietra grossa quanto la testa di un toro, la sollevò sopra il suo
capo e la scagliò oltre il muro. Il masso colpì la testa del primo dei sette soldati
sulla scala frantumandogli il cranio, dopodiché rimbalzò sopra la clavicola del
terzo soldato rompendogliela e facendolo cadere addosso ad altri tre compagni.
Una pioggia di massi e sassi si abbatté sugli attaccanti, ma questi continuarono ad
avanzare.
Il primo uomo raggiunse gli spalti tenendo lo scudo sopra la testa. Chisk gli
corse incontro e gli piantò la daga nell’occhio. Il soldato cadde lanciando un urlo.
«Uno per Chisk!» gridò il nadir. Altri due uomini raggiunsero gli spalti. Druss
balzò alla sua destra e calò Snaga sull’elmo del primo per poi decapitare il secondo
con un fendente di rovescio. Nuang saltò in avanti e piantò la sua daga nella tempia
di un gothir che però riuscì a reagire ferendolo al polso sinistro. Snaga calò sulla
spalla del soldato spaccandogli il piastrone dell’armatura. Il sangue prese a uscire
copioso dalla ferita e l’assalitore cadde all’indietro.
Alla sinistra di Druss quattro gothir erano riusciti a raggiungere i
camminamenti e a formare un cuneo per permettere ai loro compagni di superare la
merlatura senza incontrare resistenza.
Snaga sibilò nell’aria descrivendo un arco letale. Uno morì all’istante. Druss
diede una spallata al secondo facendolo cadere nel cortile sottostante e sventrò il
terzo con un fendente. Il quarto soldato cercò di colpirlo allo stomaco, ma Nuang
parò il colpo e gli tagliò la giugulare. Il gothir lasciò cadere la spada e arretrò
portandosi le mani alla gola.
Druss posò l’ascia, l’afferrò per la gola e i testicoli, lo alzò sopra la testa e lo
lanciò contro altri due soldati che caddero dalle mura. Nuang balzò in avanti e
piantò la daga nella bocca di un soldato barbuto che stava scavalcando il parapetto.
La lama gli attraversò il palato ed uscì dalla parte posteriore del collo. L’uomo
cadde all’indietro strappandogli l’arma di mano.
Druss prese una daga dal camminamento e la lanciò al vecchio che l’afferrò al
volo con un gesto esperto.
Lungo tutto il muro ovest i nadir combattevano per fermare gli attacchi dei
gothir.
Nel cortile, Talismano, sempre affiancato da Lin-tse e i suoi uomini, stava
cercando di giudicare quale sarebbe stato il momento migliore per lanciare dei
combattenti freschi nella contesa. Lin-tse aspettava con la spada alla mano. Dopo
poco tempo si creò una breccia nella difesa e cinque soldati riuscirono ad aprirsi
una strada verso i gradini. Lin-tse fece per scattare in avanti, ma Talismano lo
richiamò. Druss aveva attaccato i gothir e nel volgere di pochi istanti ne aveva
uccisi tre.
«È terrificante,» affermò Lin-tse. «Non ho mai visto nulla di simile.»
Talismano non replicò. Ispirati dalla ferocia e dall’abilità del combattente
vestito di nero i Lupi Solitari si battevano come dei demoni, sotto gli sguardi colmi
d’ammirazione degli altri nadir.
«Stanno avvicinandosi ai cancelli!» urlò Gorkai. «Hanno le asce e il fuoco.»
Talismano alzò il braccio per far capire che aveva sentito ma non diede a
nessuno l’ordine di muoversi. Più di una dozzina di difensori del muro ovest erano
stati feriti. Cinque continuavano a combattere mentre altri scendevano barcollando
dagli scalini per dirigersi all’ospedale.
«Ora!» disse a Lin-tse.
L’alto Corridore del Cielo balzò in avanti salendo gli scalini a due a due.
Le asce si abbatterono sul cancello e Talismano vide Gorkai e i Pony Veloci
scagliare i sassi oltre il muro. Il fumo cominciò a levarsi dal legno, ma, poiché
avevano seguito il consiglio di Druss e avevano impregnato d’acqua il cancello, le
fiamme non attecchirono e si spensero dopo pochi istanti.
Talismano segnalò a Gorkai di mandargli dieci uomini.
La battaglia imperversava. Druss, coperto di sangue, infuriava sugli spalti
spazzando via tutti i gothir che riuscivano a raggiungere i camminamenti.
Talismano ordinò ai suoi dieci uomini
di andare in loro aiuto, quindi estrasse la spada e si gettò anche lui nella
mischia. Sapeva che Druss aveva ragione: sarebbe stato un bruttissimo colpo per il
morale se fosse morto, tuttavia era necessario che la sua gente lo vedesse
combattere.
Raggiunse la cima della piattaforma e sgozzò un gothir con un fendente alla
gola. Altre due nemici gli corsero incontro. Druss piantò l’ascia nelle spalle del
primo e Nuang Xuan sbudellò il secondo.
I gothir si ritirarono portando con loro le scale.
Un urlo di gioia si alzò dagli spalti e i nadir presero ad agitare le spade sopra le
teste.
Talismano chiamò immediatamente Lin-tse a rapporto. «Conta i feriti e fai
trasportare quelli più gravi nell’ospedale.»
I Lupi Solitari si radunarono intorno a Druss battendogli delle pacche sulle
spalle per complimentarsi con lui. Erano così eccitati che presero a parlargli nella
loro lingua natale e il drenai non riuscì a capire una sola parola. Si girò verso
Chisk. «Bene, ragazzo,» disse. «Quanti ne hai uccisi?»
«Non Io so di preciso, però sono molti.»
«Pensi di aver battuto il vecchio?» chiese Druss posando un braccio sulle spalle
di Nuang.
«Non importa,» urlò felice Chisk. «Gli bacio le guance!» Lasciò cadere la
spada, abbracciò lo stupefatto Nuang e lo strinse a sé. «Gli abbiamo fatto vedere
come combattono i nadir, eh? Abbiamo bastonato quei cani gajin.»
Nuang rise, fece un passo indietro, quindi cadde a terra con un’espressione
sorpresa sul volto. Chisk si inginocchiò di fianco al vecchio e gli spostò il
giustacuore. Nuang era stato ferito in tre punti.
«Resisti, fratello,» lo incitò Chisk. «Non sono brutte ferite. Adesso ti portiamo
dal chirurgo.» Due Lupi Solitari vennero in suo aiuto e insieme portarono il
vecchio all’ospedale.
Druss si diresse al pozzo e issò un secchio di acqua fresca e chiara. Prese un
vecchio straccio dalla cintura, lo bagnò e si pulì il sangue che gli macchiava il
volto e il giustacuore, dopodiché si versò il secchio in testa.
Dagli spalti si levò un coro di risa. «Anche voi potreste farvi un bagno, figli di
buona donna!» gli urlò. Calò nuovamente il secchio nel pozzo, lo tirò su e bevve a
lungo. Talismano lo raggiunse. «Abbiamo ucciso e ferito settanta gothir,» lo
informò. «Noi abbiamo avuto nove morti e quindici feriti. Cosa pensi che faranno
adesso?»
«Useranno la stessa tattica, ma impiegheranno delle truppe fresche,» disse
Druss. «Ripeteranno la stessa cosa anche al tramonto. Credo che per oggi faranno
almeno altri due attacchi.»
«Sono d’accordo. Noi resisteremo, ora so che possiamo farlo.»
Druss sorrise. «Sono dei bravi combattenti. Domani si concentreranno sui
cancelli.»
«Perché non stanotte?»
«Non hanno ancora imparato la lezione,» rispose Druss. Talismano sorrise. «Tu
sei un bravo professore, Druss. Credo che prima del tramonto avranno imparato
bene.»
Druss bevve un’altra lunga sorsata d’acqua quindi indicò gli uomini che
lavoravano alla base della vecchia torre. Stavano separando i blocchi di granito
dalle macerie. «A quale scopo?» gli chiese.
«I cancelli non reggeranno,» disse Talismano, «ma noi avremo una sorpresa per
i primi che entreranno.»

Nuang Xuan giaceva tranquillo sul pavimento avvolto in una coperta con la
testa adagiata su un cuscino riempito di paglia. I punti al petto e alla spalla gli
provocavano delle fitte di dolore,tuttavia lui si sentiva tranquillo. Era rimasto al
fianco dell’uomo con l’ascia e aveva ucciso cinque nemici. Cinque! Un urlo
echeggiò nella stanza. Nuang si girò con cautela e vide che il chirurgo
stava suturando una ferita allo stomaco. Il guerriero aveva cominciato ad
agitarsi e Niobe gli aveva bloccato le braccia. Una perdita di tempo, pensò Nuang.
Un attimo dopo il ferito emise un rantolo e rimase immobile. Il chirurgo imprecò.
Niobe trascinò via il corpo dal tavolo e due uomini vi stesero sopra un altro ferito.
Sieben aprì il giustacuore del guerriero. La ferita partiva dal petto e
raggiungeva il fianco dove la punta della spada si era spezzata rimanendo piantata
in profondità. «Ho bisogno delle pinze,» disse Sieben, mentre si passava una mano
insanguinata sulla fronte sporcandosela. Niobe gli passò un paio di pinze ar-
rugginite, Sieben infilò le dita nella ferita e cominciò a cercare il pezzo di spada.
Quando l’ebbe trovato, introdusse la pinza e lo tolse con un secco strattone. In altri
punti dell’ospedale le donne stavano cucendo delle ferite o applicando delle
fasciature.
Nosta Khan entrò nella stanza, diede una rapida occhiata quindi si recò nella
stanzetta attigua.
Nuang sentì a mala pena la conversazione che seguì. «Parto stanotte,» disse lo
sciamano. «Devi preparare la donna.»
«Lei rimane,» affermò Talismano.
«Non hai capito quello che ho detto riguardo il tuo destino?»
«Sei tu che non riesci a capire,» si infuriò Talismano. «Tu non conosci il futuro,
sciamano, tu ne vedi solo degli scorci ingannevoli e incompleti. Malgrado i tuoi
poteri non riesci a localizzare Urlic. È così difficile trovare un condottiero dagli
occhi viola? Non riesci a trovare gli Occhi di Alchazzar e non mi avevi detto che
avrebbero catturato Quing-chin. Vai pure via di qua, se devi, ma sarai solo.»
«Pazzo!» urlò Nosta Khan. «Questo non è il momento di tradire. Tutto ciò per
cui tu sei vissuto si trova in uno stato di equilibrio precario. Se la porterò via con
me, lei vivrà. Puoi capirlo.»
«Ti sbagli di nuovo, sciamano. Se tu la porterai via, lei si ucciderà, me l’ha
detto e io le credo. Vai. Cerca l’uomo dagli occhi viola e aiutalo a costruire quello
che noi abbiamo iniziato qua.»
«Tu morirai qua, Talismano,» disse Nosta Khan. «È scritto nelle stelle. Druss
sopravviverà poiché l’ho visto in molti futuri, mentre te non ti ho visto in nessun
posto.»
«Questo è il mio posto,» rispose Talismano. «E qua starò.»
Lo sciamano aggiunse qualcos’altro, ma Nuang non riuscì a sentire nulla
poiché i due continuarono a discutere in tono più basso.
Niobe si inginocchiò al fianco del vecchio e gli porse una coppa di Lyrrd.
«Bevi, vecchio padre,» gli disse. «Ridarà forza alle tue vecchie ossa.»
«Saranno anche vecchie, ma il mio sangue è sempre forte, Niobe. Ne ho uccisi
cinque. Mi sento così forte che potrei sopravvivere anche a una notte con te.»
«Non sei mai stato così forte,» rispose la ragazza accarezzandogli la guancia.
«Comunque Chisk mi ha detto che tu ne hai uccisi almeno una dozzina.»
«Ah! Brava gente questi Lupi Solitari.»
Si alzò e si avvicinò al tavolo operatorio dove, dopo aver preso un panno pulito,
asciugò il sangue e il sudore dalla fronte di Sieben. «Stai facendo un ottimo
lavoro,» lo incoraggiò. «Non hai commesso uno sbaglio.»
Fuori dall’ospedale giunsero il clangore metallico delle spade e le grida dei
feriti. «È tutto così orribile,» disse il poeta. «Così orribile.»
«Dicono che il tuo amico sia un dio della battaglia. Lo chiamano Morte che
cammina.»
«Il nome gli si addice.»
La porta si aprì e vennero portati dentro due feriti. «Altre bende e filo,» disse a
Niobe.
Sulle mura Druss si rilassò. Il nemico era stato respinto per la seconda volta.
Chisk si mise al suo fianco. «Sei ferito, Morte che cammina?»
«Non è sangue mio,» gli disse Druss.
«Ti sbagli, la tua spalla sanguina.»
Druss guardò il giustacuore e vide del sangue che usciva da un taglio. Si tolse
l’abito e controllò. La ferita era poco più lunga di quattro centimetri, ma profonda.
Imprecò. «Tenete questo muro finché non sarò tornato,» disse.
«Fino a che le montagne non saranno ridotte in polvere,» promise Chisk.
Appena Druss si allontanò aggiunse, «non metterci troppo però.»
Entrato nell’ospedale Druss chiamò Niobe che gli corse immediatamente
incontro. «Non disturbare Sieben per questo taglietto,» le disse. «È poco più
profondo del morso di un cane. Procurami del filo e un ago, me lo cucirò da solo.»
La ragazza tornò con quanto gli era stato chiesto e un rotolo di bende. La ferita
era poco sotto la clavicola. Druss avvicinò i due lembi e li cucì.
«Hai molte cicatrici,» disse Niobe osservando il petto del drenai.
«Tutti gli uomini diventano imprudenti,» gli rispose lui. La ferita cominciò a
pulsare. Il drenai si alzò in piedi e uscì dall’ospedale. Dietro il cancello una trentina
di guerrieri stavano innalzando un muro semicircolare con i blocchi di granito. Il
lavoro era lento e sfiancante, tuttavia nessuno di loro si lamentava. Avevano
innalzato una carrucola rudimentale con la quale sollevavano i pesanti blocchi.
Improvvisamente la corda cedette e il suo carico cadde a terra colpendo due
uomini. Druss corse verso di loro. Il primo giaceva a terra con il cranio spappolato,
mentre il secondo era stato appena sfiorato. Gli altri guerrieri trascinarono via il
corpo e ripresero il lavoro torvi in volto. Davanti al cancello erano state posate
quattro file di blocchi che formavano un muro circolare largo due metri e mezzo.
«Avranno una brutta sorpresa quando supereranno il cancello,» disse Lin-tse,
mentre scendeva gli scalini degli spalti per unirsi a Druss.
«Quanto verrà alto?»
«Penso che sarà alto quattro metri davanti e tre metri sui lati, ma abbiamo
bisogno di barre per rinforzarlo.»
«Usate le tavole dei pavimenti degli alloggi,» consiglio Druss. «Usate anche le
travi a croce.»
Tornato sul muro, Druss si mise il giustacuore e infilò i guanti di pelo grigio.
Gorkai lo raggiunse e gli disse. «I Corni Ricurvi saranno al tuo fianco per il
prossimo attacco,» disse. «Questo è Bartsai il loro capo.» Druss annuì quindi
strinse la mano al robusto nadir.
«Bene, ragazzi,» disse, sfoderando un largo sorriso, «voi combattete bene
quanto i Lupi Solitari?»
«Meglio,» ringhiò un giovane guerriero.
«Sei disposto a scommettere, ragazzo?»
CAPITOLO DODICESIMO

La luna era alta nel cielo. Talismano e Lin-tse osservarono i gothir che
trasportavano via dal campo di battaglia i morti e i feriti. I barellieri lavoravano
con molta efficienza e non poco coraggio poiché si avventuravano molto vicini alle
mura per recuperare i feriti. I nadir non scagliarono neanche una freccia contro di
loro. Talismano l’aveva proibito espressamente, non per una ragione umanitaria ma
poiché ogni ferito necessitava di cibo e acqua e questo sarebbe servito a esaurire
ancora più velocemente le riserve del nemico. I corpi dei nadir morti erano stati
avvolti nelle coperte e messi nel luogo più fresco del santuario.
«Hanno perso sessantaquattro uomini e hanno ottantuno feriti,» disse Lin-tse,
raggiante. «Le nostre perdite sono meno di un terzo delle loro.»
«Ventitré morti,» precisò Talismano, «e nove feriti che non potranno tornare a
combattere.»
«È andata bene, non trovi?»
«Ci superano di dieci a uno. Un morto nostro contro cinque dei loro va già
abbastanza bene,» rispose Talismano. «Comunque come Fanlon era solito dire i
peggiori muoiono sempre per primi e sono quelli meno abili o meno fortunati.
Oggi ci siamo comportati bene.»
«I lancieri non sono usciti,» osservò Lin-tse.
«Come gli uomini le loro cavalcature sono stanche e assetate,» disse
Talismano. «Questa mattina hanno mandato fuori dei carri per rifornirsi d’acqua,
ma non sono tornati. Kzun li sta ancora tenendo lontani dall’acqua.»
Lin-tse si avvicinò al limitare degli spalti. «Vorrei riuscire a riportare dentro il
corpo di Quing-chin,» affermò. «Mi rattrista pensare che il suo spirito stia vagando
cieco e mutilato.»
Talismano non rispose. Due anni prima, tre guerrieri nadir avevano vendicato la
morte di un loro compagno. Avevano provato piacere nel rapire e uccidere il figlio
di Gargan; anche lui era stato accecato e mutilato. Ora la stessa violenza era stata
rivolta contro di loro e il corpo di Quing-chin testimoniava la crudele realtà della
vendetta. Talismano si stropicciò gli occhi.
Sentì l’odore di legno bruciato. Il portone aveva subito due attacchi. I gothir
avevano cercato di bruciarlo cercando di far attecchire meglio il fuoco con dell’olio
da lampade, ma avevano fallito e venti soldati erano morti. Talismano rabbrividì.
«Cosa c’è che non va, fratello?» gli chiese Lin-tse.
«Non li odio più,» disse Talismano.
«Odiarli? I gothir? Perché?»
«Non fraintendermi, Lin-tse. Io li combatterò e se gli dèi della pietra e
dell’acqua lo permetteranno, assisterò alla caduta delle loro città, ma non riesco più
a odiarli. Quando uccisero Zhenshi, noi cercammo la vendetta. Ti ricordi il terrore
negli occhi di Argo quando lo bendammo e lo portammo via dalla sua stanza?»
«Certo.»
«Ora il padre nutre molto odio per noi e quel sentimento gli penzola attaccato
alla gola come un pipistrello, pronto per essere passato a uno dei suoi eredi.»
«Ma fu suo padre a iniziare tutto ciò. Egli ha sempre odiato i nadir,» gli fece
notare Lin-tse.
«Esatto. E qual è la causa di tale odio? Alcune atrocità perpetrate contro di lui
dai nadir quando era giovane? Il mio sogno è quello di vedere i nadir uniti che
camminano dritti e orgogliosi, ma non odierò mai più un nemico.»
«Sei stanco, Okai. Dovresti riposarti. Non torneranno stanotte.»
Talismano si incamminò lungo gli spalti. Nosta Khan era andato via, gli uomini
l’avevano visto calarsi da uno dei muri. Aveva cercato di raggiungere Zhusai, ma
si era trovato Gorkai fermo davanti alla porta della stanza della ragazza.
Nel momento stesso in cui pensò alla sua amata la vide camminare nel cortile
del santuario. Indossava una camicetta bianca e dei pantaloni grigio argento.
Zhusai agitò una mano nell’aria quindi gli corse incontro e l’abbracciò.
«Siamo insieme, adesso e per sempre,» gli disse.
«Adesso e per sempre,» concordò lui.
«Vieni. Ho dell’olio profumato nella mia stanza e cercherò di alleviare la tua
stanchezza.» Insieme si diressero verso gli alloggi.
Druss e Sieben osservarono la scena dagli spalti del muro ovest. «L’amore nel
mezzo della morte,» commentò Druss. «Molto bene.»
«Non c’è nulla di buono qua,» sbottò Sieben. «Tutta la faccenda puzza come un
pesce vecchio di dieci giorni. Vorrei non essere mai venuto.»
«Dicono tutti che sei un bravo chirurgo,» lo incoraggiò Druss.
«Una brava sarta, più che altro. Mi sono morte undici persone tra le mani,
Druss. Sono soffocate nel loro stesso sangue. Non posso neanche dirti quanto
questa situazione mi dia la nausea. Odio la guerra e odio i guerrieri. La feccia della
terra!»
«Comunque non smetterai di cantare le loro gesta, se sopravviverai,» gli fece
notare Druss.
«Cosa vorresti dire?»
«Chi è colui che racconta della gloria, dell’onore e della cavalleria della
guerra?» gli chiese Druss con calma. «I soldati che hanno visto uomini sbudellati o
i corvi banchettare con gli occhi dei cadaveri lo fanno molto raramente. No, è il
poeta scrittore di saghe che lo fa. È lui che propina ai giovani storie d’eroismo.
Quanti giovani drenai avranno sentito i tuoi poemi e le tue canzoni e avranno
desiderato partecipare a una battaglia?»
«Beh, essi travisano il vero significato delle mie opere,» rispose Sieben.
«Adesso sono i poeti i colpevoli, vero?»
«Non solo i poeti. Denti dell’inferno, uomo, noi siamo una razza violenta.
Quello che ti sto dicendo è che i soldati non sono la feccia del mondo. Ogni uomo
qua combatte per ciò in cui crede. Lo sapevi prima che il massacro iniziasse e
continuerai a saperlo anche quando sarà finito.»
«Non finirà mai, Druss,» affermò Sieben in tono triste. «Non finché ci saranno
uomini con asce e spade. Penso che farei meglio a tornare all’ospedale. Come sta la
spalla?»
«Pizzica come un demonio.»
«Bene,» commentò Sieben con un sorriso stanco.
«Come sta Nuang?»
«Riposa. Le ferite non erano mortali, ma non potrà più combattere.»
Sieben si allontanò e Druss si sdraiò sugli spalti in mezzo agli altri guerrieri
nadir esausti. Per alcuni di loro quella sarebbe stata l’ultima notte di sonno.
Forse anche per me, pensò. Forse morirò domani.
Forse no, decise e si abbandonò a un sonno privo di sogni.

Gargan visitò i feriti offrendo loro parole di elogio per l’eroismo dimostrato
quindi tornò alla sua tenda e convocò Premian. «Se ho ben capito i nadir ci stanno
ancora negando l’accesso all’acqua,» disse. «Quanti sono quelli che difendono la
polla?»
«È difficile dirlo, signore. Il sentiero che porta alla polla è stretto e i nostri
uomini vengono attaccati da guerrieri nascosti tra le rocce. Comunque io credo che
non siano più di una trentina. Sono guidati da un pazzo che porta una sciarpa
annodata intorno alla testa; è balzato giù da una roccia alta sei metri atterrando sul
cavallo di un ufficiale. L’impatto ha spezzato la schiena alla bestia, poi il nadir ha
ucciso il cavaliere, ne ha ferito un altro ed è sparito in mezzo alle rocce.»
«Chi era l’ufficiale?»
«Mersham, signore. Era stato promosso da poco.»
«Conosco la sua famiglia. Brava gente.» Gargan si sedette sul letto da campo,
aveva il volto smunto, stanco e le labbra secche. «Prendi cento uomini e spazzali
via. L’acqua è quasi finita e senza di essa siamo perduti. Parti stanotte stessa.»
«Sì, signore. Ho mandato degli uomini a scavare una buca in un’ansa del
torrente in secca qua vicino e hanno trovato un affioramento, non è molto grosso,
ma servirà a riempire alcuni barili.»
«Bene,» disse Gargan stancamente. Il generale si distese sul letto e chiuse gli
occhi. Premian stava per uscire, ma l’ufficiale riprese a parlare. «Hanno ucciso mio
figlio,» disse. «Gli hanno cavato gli occhi.»
«Lo so, signore.»
«Non attaccheremo prima di metà mattina. Voglio che tu sia già tornato con
l’acqua per allora.»
«Sì, signore.»

Sieben attraversò il cortile salì sugli spalti e svegliò Druss. «Seguimi,» gli
sussurrò. Druss si alzò. I due scesero e si diressero verso il santuario. L’interno era
buio e dovettero aspettare qualche momento prima di muoversi per permettere agli
occhi di abituarsi alla flebile luce della luna che filtrava dalla finestra. I cadaveri
dei nadir erano stati allineati contro il muro nord e il fetore di morte ammorbava
l’aria. «Cosa stiamo facendo qua?» sussurrò Druss.
«Voglio le pietre che guariscono,» affermò Sieben. «Non voglio che più
nessuno mi muoia sotto le mani.»
«Abbiamo già cercato in questo luogo.»
«Sì, e io credo che le abbiamo anche già viste. Sposta il coperchio.» Druss
eseguì l’ordine e spostò la lastra di pietra quel tanto da permettere a Sieben di
infilare un braccio. Le dita del poeta toccarono le ossa secche e i vestiti in
disfacimento. Mosse velocemente la mano raggiungendo il teschio, chiuse gli
occhi, si concentrò e cominciò a cercare sotto la mascella fratturata finché le sue
dita non toccarono il freddo metallo del lon-tsia di Oshikai, lo afferrò e lo tirò
fuori.
«Adesso li hai tutti e due,» gli disse Druss. «E allora?»
«Shaoshad venne qua per chiedere a Oshikai se voleva essere rigenerato ed egli
rifiutò. Voleva che Shul-sen fosse al suo fianco. Come fece lo sciamano a
cercarla?»
«Non lo so,» rispose Druss, che sentiva la sua pazienza agli sgoccioli. «Non so
nulla di magia.»
«Porta pazienza, amico mio e guarda le prove. Sia Oshikai che Shul-sen
avevano un lon-tsia: La tomba di Oshikai era già stata saccheggiata ma nessuno
aveva trovato il suo medaglione. Perché? Il prete cieco mi ha detto che il lon-tsia di
Shul-sen era protetto da un incantesimo d’occultamento. È probabile che lo stesso
accorgimento sia stato preso per quello portato da Oshikai. Ora, io credo che
Shaoshad tolse l’incantesimo su questo,» disse alzando uno dei medaglioni.
«Perché? Al fine di riuscire a trovare Shul-sen. L’uomo di Talismano, Gorkai, mi
ha detto che sui lon-tsia dei ricchi venivano apposti parecchi incantesimi. Io credo
che Shaoshad abbia usato in qualche modo questo medaglione al fine di localizzare
l’altro. Mi segui?»
«No, ma aspetto il seguito con il fiato sospeso,» gli disse Druss in tono stanco.
«Perché non aveva le pietre con sé quando venne catturato?»
«La smetti di farmi delle domande per cui non esistono delle risposte?» sbottò
il guerriero drenai.
«Era una domanda retorica, Druss. Adesso cerca di non interrompermi più.
Secondo Gorkai un incantesimo di ricerca è come un cane da caccia. Io penso che
Shaoshad abbia imbevuto il medaglione di Oshikai con il potere di una pietra e
abbia inviato l’altra in cerca del lon-tsia di Shul-sen, poi abbia cercato di seguire il
sentiero eterico. Ecco perché fu catturato tra qua e la prigione dove abbiamo
trovato i resti di Shul-sen.»
«E tutto ciò dove ci porta?» chiese Druss.
Il poeta infilò un mano in tasca, tirò fuori il secondo lon-tsia e lo avvicinò al
primo. «Ci porta a questo,» disse lui, battendo le mani e premendo i due
medaglioni l’uno contro l’altro.
Non successe nulla...
«Ci porta a cosa?» insistette Druss.
Sieben aprì le mani. I due lon-tsia brillarono alla luce della luna e lui imprecò.
«Ero sicuro di avere ragione,» disse. «Ho pensato che se fossero stati uniti le pietre
sarebbero apparse.»
«Torno a dormire,» disse Druss, dopodiché si girò e uscì.
Sieben mise in tasca i medaglioni. Stava per andare via quando si accorse che il
coperchio della bara era ancora aperto. Imprecò nuovamente, lo afferrò e cercò di
rimetterlo a posto.
«Ci sei andato molto vicino, amico mio,» sussurrò una voce alle sue spalle. Il
poeta si girò e vide la figura luminescente di Shaoshad seduta a gambe incrociate
sul pavimento. «Ma non ho nascosto gli Occhi nel lon-tsia.»
«Dove, allora?» chiese il poeta. «E perché li hai nascosti?»
«Non avrebbero mai dovuto essere creati,» affermò Shaoshad con voce velata
di dolore. «Hanno privato la terra della sua magia per donare potere a quelle pietre.
Fu un atto d’arroganza colossale. Sai perché le ho nascoste? Sapevo che avrei
potuto essere catturato e che non sarei riuscito a impedire loro di rimettere a posto
gli Occhi. Anche adesso provo una grande tristezza nel sapere che sono tornati in
superficie.»
«Dove sono?»
«Sono qua. Sei stato molto intelligente, hai capito tutto. Io usai il loro potere
per localizzare la tomba di Shul-sen ed effettivamente avevo imbevuto il suo lon-
tsia con abbastanza energia da poterla rigenerare. Guarda e rimani stupito!»
I due lon-tsia si alzarono dal palmo della mano di Sieben e fluttuarono sopra la
bara di pietra fermandosi a pochi centimetri d’altezza dalla targa. «Riesci a
capire?» gli chiese lo spirito dello sciamano.
«Sì!» disse Sieben, quindi afferrò i due medaglioni e li premette entrambi sulle
lettere “i” del nome “Oshikai”. Entrambe i lon-tsia scomparvero e una luce viola
cominciò a uscire dalla bara. Sieben si alzò e guardò all’interno. Nelle orbite del
teschio brillavano due gioielli grossi come le uova di un piccione. Il poeta li prese.
«Non dire a nessuno che li hai,» lo mise in guardia Shaoshad, «neanche a
Druss. È un grande uomo, ma è privo di astuzia. Se i nadir dovessero venire a
sapere che avete le pietre vi ucciderebbero, quindi non usare il loro potere in
maniera troppo evidente. Quando curi i feriti applica i punti e le bende come facevi
prima, poi concentrati sul fatto che devono guarire. Non avrai bisogno di tirare
fuori i gioielli. Anche se li terrai nascosti su di te il loro potere avrà lo stesso
effetto.»
«Come farò a sapere che sono guariti?»
Shaoshad sorrise. «Non c’è bisogno che tu lo sappia, questo è il bello della
magia, poeta. Appoggia semplicemente le mani sulla ferita e pensa di guarirla. Una
volta che l’avrai fatto capirai.»
«Ti ringrazio, Shaoshad.»
«No, poeta, sono io che ti ringrazio. Usale con saggezza. Adesso chiudi la
tomba.»
Sieben appoggiò le mani sul coperchio e abbassò la testa. In quel momento vide
il lon-tsia di Oshikai brillare per qualche attimo quindi sparire. «Lo indossa
nuovamente,» disse il poeta.
«Già, come doveva essere, nascosto da un incantesimo d’occultamento.
Nessuno lo ruberà. L’altro è tornato nel luogo in cui riposano le ossa di Shul-sen.»
«Possiamo vincere?» chiese Sieben all’immagine dello sciamano che stava
lentamente svanendo.
«Vincere o perdere dipende solamente dalla causa per cui stai combattendo,»
rispose Shaoshad. «Tutti gli uomini che difendono il santuario possono morire,
tuttavia tu puoi vincere. Oppure tutti gli uomini possono vivere e tu perdere. Addio
poeta.»
Lo spirito scomparve. Sieben rabbrividì quindi infilò le mani in tasca e chiuse
le dita intorno alle pietre.

Tornato all’ospedale camminò silenziosamente tra i feriti. Da un angolo della


stanza giunse un lamento. Il poeta raggiunse l’uomo e si inginocchiò al suo fianco.
La lanterna che brillava poco distante gli illuminava il volto. Aveva subito una
brutta ferita allo stomaco. Sieben aveva ricucito la parte esterna, ma non era riu-
scito a suturare le lesioni agli organi. Gli occhi del nadir erano febbricitanti. Sieben
gli appoggiò una mano sulle bende e chiuse gli occhi cercando di concentrarsi. In
un primo momento non successe nulla poi la sua mente fu invasa da colori brillanti
e vide i muscoli strappati, le interiora lacerate e il sangue che si raccoglieva
all’interno della ferita. In quell’istante si rese conto delle condizioni dei muscoli e
delle fibre, delle giunture, della circolazione sanguinea e dei punti da cui scaturiva
il dolore. Era come se stesse fluttuando all’interno della ferita. Il sangue fluiva da
un taglio profondo su un contorto condotto cilindrico... ma appena Sieben la
guardò la lacerazione si richiuse. Salì lentamente continuando a guarire le altre
ferite interne e quando giunse ai punti si fermò. È meglio che li senta tirare, pensò.
Se avesse guarito del tutto ogni ferita il segreto delle pietre sarebbe stato scoperto.
Il guerriero sbatté le palpebre. «Ci vuole molto tempo per morire,» disse.
«Non stai per morire,» gli promise Sieben. «Le tue ferite stanno guarendo e tu
sei un uomo molto forte.»
«Mi hanno ferito alla pancia.»
«Dormi ora. Domani mattina ti sentirai più forte.»
«Davvero?»
«Sì. La ferita non era profonda come credevi. Stai guarendo bene. Dormi.»
Sieben gli toccò la fronte e l’uomo si addormentò all’istante.
Il poeta si recò da ogni ferito. Stavano tutti dormendo tranne due che guarì
mentre conversava a bassa voce con loro. Infine si avvicinò a Nuang. Mentre
fluttuava all’interno delle ferite del vecchio la sua attenzione venne attratta dal
cuore. Una delle pareti del muscolo era praticamente trasparente. Nuang sarebbe
potuto morire in qualsiasi momento a causa dello sforzo. Sieben si concentrò su
quell’area e la osservò diventare più spessa quindi spostò l’attenzione sulle arterie
indurite e intasate e le liberò permettendo al sangue di tornare a scorrere senza
intoppi.
Finito si sedette. Non era stanco, anzi si sentiva contento.
Niobe dormiva in un angolo della stanza. Il poeta mise le due pietre in una
sacca di pelle, la nascose dietro un barile d’acqua e si andò a sdraiare a fianco della
ragazza. Avvolse i loro corpi in una coperta e le baciò una guancia. Lei emise un
gemito e sussurrò un nome che non era quello del poeta. Sieben sorrise.
Niobe si svegliò e si appoggiò su un gomito. «Perché sorridi, po-eta?» gli
chiese.
«Perché non dovrei? È una bella notte.»
«Vuoi fare l’amore?»
«No, ma mi piacerebbe abbracciarti. Avvicinati.»
«Sei molto caldo,» disse lei premendosi contro l’uomo e appoggiando un
braccio sul petto.
«Cosa vuoi dalla vita?» le sussurrò.
«Voglio? Cosa altro c’è da volere dalla vita se non un brav’uomo e dei figli
forti?»
«È tutto?»
«Tappeti,» aggiunse Niobe, dopo aver pensato per qualche secondo. «Dei bei
tappeti e un braciere di ferro. Mio zio ne aveva uno e scaldava la tenda durante le
fredde notti invernali.»
«Braccialetti, anelli, ornamenti d’oro e argento?»
«Sì anche quelli,» approvò lei. «Mi darai queste cose?»
«Penso di sì.» Si girò e le baciò la guancia. «Per quanto possa essere
stupefacente io mi sono innamorato di te. Ti voglio con me. Ti porterò nella mia
terra e ti comprerò un braciere di ferro e una montagna di tappeti.»
«E i bambini?»
«Venti se ne vuoi.»
«Sette. Ne voglio sette.»
«E sette siano.»
«Se mi stai prendendo in giro po-eta, ti strapperò il cuore.» Sieben rise. «Non ti
sto prendendo in giro, Niobe, tu sei il tesoro più prezioso che io abbia mai trovato.»
La ragazza si sedette e fissò la stanza. «Stanno dormendo tutti,» disse
improvvisamente.
«Sì.»
«Io penso che alcuni siano morti.»
«Non credo,» rispose lui. «Ne sono sicuro, come sono sicuro del fatto che
nessuno si sveglierà per diverse ore. Torniamo alla tua precedente offerta.»
«Adesso vuoi fare l’amore.»
«Proprio così. Forse per la prima volta in vita mia.»

Il sergente maggiore Jomil premette le spesse dita sulla ferita alla guancia per
cercare di fermare il flusso di sangue. Il sudore penetrò nel taglio e il soldato
cominciò a imprecare a causa del bruciore. «Stai diventando lento, Jomil,» disse
Premian.
«Quel piccolo bastardo mi ha quasi cavato un occhio... signore,» aggiunse.
I corpi dei nadir erano stati tirati fuori da dietro le rocce e allineati in fila su una
sponda della polla. I quattordici fanti gothir uccisi erano stati coperti con i loro
mantelli e sepolti sul posto, i corpi dei sei lancieri morti erano legati di traverso
sulle selle dei loro cavalli.
«Per il Sangue di Missael, hanno opposto una bella resistenza, vero, signore?»
disse Jomil.
Premian annuì. «Essi stavano combattendo per difendere la loro terra. È la
motivazione più forte che esista.» Premian in persona aveva guidato la carica su
per il pendio mentre i fanti assillavano i nadir dietro le rocce. La schiacciante
differenza numerica aveva permesso ai gothir di vincere, ma i nadir si erano battuti
come leoni. «Quella ferita ha bisogno di punti. La cucio io.»
«Grazie signore,» replicò Jomil con voce priva d’entusiasmo. Premian rise.
«Come è possibile che un uomo possa affrontare le spade, le asce, le frecce e le
lance senza scomporsi minimamente ed essere terrorizzato da un po’ di ago e
filo?»
«Io picchio i pederasti con le spade e le asce,» disse Jomil. Premian scoppiò a
ridere quindi si avvicinò alla polla. L’acqua era chiara, profonda e fresca. Si
inginocchiò, bevve, quindi si alzò e si avvicinò ai cadaveri dei nadir. Diciotto
uomini, alcuni erano poco più che ragazzi. La rabbia bruciò in lui: che razza di
sforzo inutile era quella piccola guerra! Duemila soldati gothir bene addestrati che
marciavano in una terra desolata per saccheggiare un santuario.
Tuttavia c’era qualcosa di sbagliato, Premian lo avvertiva. C’era un pensiero
che lo preoccupava. Un fante lo avvicinò e salutò. L’uomo aveva una fascia
insanguinata intorno alla testa.
«Possiamo accendere i fuochi da campo, signore?» gli chiese.
«Sì, ma piazzateli in profondità tra le rocce. Non voglio che il fumo spaventi i
cavalli dei carri dell’acqua quando arriveranno. Sarà già abbastanza duro farli
salire per il pendio.»
«Sì, signore.»
Premian si avvicinò al suo cavallo e prese ago e filo da una bisaccia. Jomil lo
vide arrivare e imprecò sottovoce. Erano passate appena due ore dall’alba e il caldo
era già soffocante. Premian si inginocchiò a fianco del sergente, avvicinò i lembi
della ferità e la cucì con mano esperta. «Ecco fatto,» disse infine, «adesso hai
un’altra bella cicatrice con cui affascinare le signore.»
«Ho più di una cicatrice di cui vantarmi,» grugnì Jomil, poi rise. «Ricorda la
battaglia fuori del Passo di Licarn, signore?»
«Sì, hai ricevuto una ferita sfortunata, se ben ricordo.»
«Non so se era sfortunata, ma le donne amano quando racconto la storia di
come l’ho ricevuta.»
«Le ferite alle natiche sono sempre grande fonte di divertimento,» disse
Premian. «Se ben ricordo sei stato premiato con quaranta corone d’oro per il tuo
coraggio. Ne hai avanzata qualcuna?»
«Neanche una. Le ho spese quasi tutte in bevande alcoliche, donne grasse e
scommesse. Il resto l’ho perso.» Premian tornò a fissare i morti vicino alla polla.
«C’è qualcosa che la preoccupa, signore?» gli chiese Jomil.
«Sì, ma non so di cosa si tratti.»
«Si aspettava che ce ne fossero di più, signore?»
«Qualcuno in più, forse.» Premian si avvicinò nuovamente ai cadaveri e chiamò
un giovane lanciere che lo raggiunse immediatamente. «Tu hai preso parte al primo
attacco. Chi è il capo tra questi?» Il lanciere fissò i volti.
«È difficile dirlo signore. A me sembrano tutti uguali. La pelle color vomito e
gli occhi a mandorla.»
«Sì, sì,» rispose Premian in tono irritato. «Ma ti ricordi com’era quell’uomo?»
«Aveva una sciarpa bianca intorno alla testa. Oh... e i denti marci. Me lo
ricordo bene. Erano gialli e neri.»
«Controlla i denti dei morti,» gli ordinò Premian. «Trovalo per me.»
«Sì, signore,» rispose il soldato senza entusiasmo.
Tornò da Jomil, allungò una mano e l’aiutò ad alzarsi in piedi. «È tempo di
tornare al lavoro sergente,» disse. «Porta gli uomini della fanteria lungo il pendio e
fa spostare loro i massi. Stanno per arrivare quattordici carri e sarà già abbastanza
difficile farli salire senza che debbano avventurarsi su per un percorso a ostacoli.»
«Sì, signore.»
Il lanciere a cui aveva ordinato di esaminare i cadaveri tornò a fare rapporto.
«Non è qua, signore; deve essere scappato.»
«Scappato? Un uomo che si butta in mezzo a un gruppo di lancieri da una
roccia alta sei metri? Un uomo che è riuscito a convincere altri uomini a morire per
lui? Scappato? È decisamente improbabile. Se non è qua allora... dolce Karna!»
Premian si girò verso Jomil. «I carri, sta seguendo i carri!»
«Non può avere che un pugno di uomini,» argomentò Jomil.«I conducenti sono
quattordici, tutti uomini in gamba e armati.»
Premian corse al suo cavallo e montò in sella. Chiamò a raccolta gli ufficiali,
ordinò loro di radunare le compagnie e seguirlo, dopodiché raggiunse al galoppo la
cresta del pendio. A un paio di chilometri a sud una colonna di fumo si levava
nell’aria. Quella vista lo indusse a lanciare il cavallo in un galoppo sfrenato,
seguito da una colonna di cinquanta lancieri.
Pochi minuti dopo, superata una curva, videro i carri che bruciavano. I cavalli
erano stati liberati e dai corpi di alcuni conducenti spuntavano delle frecce.
Premian frenò bruscamente la sua cavalcatura ormai esausta e controllò
rapidamente il teatro dello scontro. Aveva gli occhi che bruciavano per via del
fumo che pervadeva l’area. Cinque carri erano in fiamme.
Improvvisamente vide un uomo con una torcia in mano. Lo sconosciuto portava
una sciarpa bianca annodata intorno alla testa. «Prendetelo!» urlò Premian,
spronando il cavallo in avanti. I lancieri superarono l’ufficiale passando attraverso
il fumo oleoso.
Un piccolo gruppo di nadir stava cercando disperatamente di dare fuoco agli
ultimi carri. Udirono il rimbombo degli zoccoli, lasciarono cadere le torce e
corsero verso i pony.
I lancieri si abbatterono su di loro falciandoli. Premian girò il cavallo appena in
tempo per vedere qualcosa di scuro che si avventava su di lui. Istintivamente si
acquattò e il guerriero nadir con la sciarpa bianca in testa lo centrò in pieno
scagliandolo giù dalla sella. Entrambi colpirono duramente il terreno, Premian ro-
tolò su se stesso e cercò di afferrare la spada, ma il suo avversario lo ignorò, afferrò
il pomello della sella e montò in groppa al castrato, dopodiché estrasse la sua
sciabola e caricò i lancieri. Un soldato cadde con la gola tagliata e un secondo si
piegò a sinistra con un brutto taglio al viso. Una lancia si piantò nella schiena del
nadir con una tale forza che quasi lo sbalzò dalla sella. L’uomo si girò
selvaggiamente e cercò di colpire il lanciere. Un altro soldato spronò in avanti la
sua cavalcatura e gli piantò la spada nella spalla. Il nadir reagì immediatamente e
ferì il gothir a un braccio quindi si inclinò a destra. Il castrato si impennò buttan-
dolo a terra. Malgrado la lancia piantata in profondità nella schiena, l’uomo cercò
di alzarsi, il sangue gli gorgogliava sulla bocca e aveva le gambe malferme. Un
cavaliere gli si avvicinò e il nadir menò un fendente che ferì il cavallo al fianco.
«State indietro!» urlò Premian. «Sta morendo.»
Il moribondo barcollò e si girò verso Premian. «Nadir siamo noi!» urlò.
Un lanciere si fece avanti e cercò di abbattere l’uomo con un fendente. Il nadir
si acquattò evitando il colpo quindi scattò in avanti, afferrò il lanciere per il
mantello e lo tirò verso di sé piantandogli la sciabola nello stomaco. Il soldato urlò
e crollò contro il nadir ed entrambi gli uomini rotolarono a terra. I lancieri bal-
zarono giù circondarono il corpo del nadir e presero a trapassarlo con le spade.
Premian corse in avanti. «Indietro, stolti!» urlò. «Dobbiamo salvare i carri.»
Usando i mantelli i lancieri batterono le fiamme, ma fu tutto inutile. Il legno era
secco e ormai il fuoco infuriava inarrestabile. Premian ordinò di allontanare i
cinque carri rimanenti quindi mandò i conducenti a riprendere i cavalli che, avendo
avvertito l’odore dell’acqua, si erano recati lentamente verso la polla. Dieci
conducenti vennero trovati nascosti in un gola e furono portati davanti a Premian.
«Siete scappati,» disse loro, «da sette guerrieri nadir. Ora metà dei nostri carri sono
stati distrutti. La vostra vigliaccheria causerà molti problemi a un intero esercito.»
«Sono sbucati dalle steppe in mezzo a una nuvola di polvere, urlando,» cercò di
giustificarsi un soldato. «Abbiamo pensato che fossero un esercito.»
«Vi occuperete dei carri rimasti, farete in modo che vengano riempiti e
consegnati al campo. Una volta là, dovrete affrontare l’ira di lord Gargan. Non ho
dubbi riguardo al fatto che le vostre schiene assaggeranno la frusta. Adesso
sparite!»
Premian si allontanò dai soldati e cominciò a valutare la situazione in termini
matematici. Cinque carri che portavano otto barili ognuno. Ogni barile poteva
contenere circa quindici galloni d’acqua. In queste condizioni un soldato aveva
bisogno di due pinte al giorno. Da quel calcolo approssimativo giunse alla con-
clusione che un barile avrebbe potuto dare da bere a sessanta uomini. Quaranta
barili sarebbero stati a mala pena sufficienti per gli uomini. Per i cavalli il discorso
era diverso, quella quantità d’acqua li avrebbe abbeverati per un solo giorno... Da
quel momento in avanti avrebbero dovuto organizzare una spola giornaliera dal
campo alla polla.
Comunque, rifletté, sarebbe potuto andare peggio. Se non avesse reagito
immediatamente tutti i carri sarebbero andati perduti, ma il pensiero non lo rendeva
più felice. Se avesse fornito i carri di una scorta l’attacco dei nadir sarebbe fallito.
I suoi pensieri vennero interrotti dalle rise selvagge e dal suono delle spade che
tagliavano qualcosa. Il guerriero nadir con la sciarpa bianca avvolta intorno alla
testa era stato decapitato e smembrato. Furioso, Premian corse in mezzo al gruppo
di soldati esultanti. «Attenti!» urlò e gli uomini si misero nervosamente in linea.
«Con quale coraggio?» li investì Premian. «Con quale coraggio osate comportarvi
come dei selvaggi? Avete una minima idea di quello che sembrate in questo
momento? C’è qualcuno tra di voi che vorrebbe essere visto dai propri cari mentre
agita sopra la testa le membra di un guerriero morto? Voi siete gothir! Noi
lasciamo queste... barbarie alle razze inferiori.»
«Ho il permesso di parlare, signore?» chiese un soldato magro.
«Sputa.»
«Beh, lord Gargan ha detto che bisognava tagliare la mani a tutti i nadir, vero,
signore?»
«Quella era solo una minaccia fatta per spaventare i nadir. Essi credono che se
perdono le estremità ne rimarranno privi per l’eternità. Era solo una minaccia, io
non credo che lord Gargan volesse attuarla. Forse mi sbaglio, ma in questo
momento sono io che comando qua. Scaverete una tomba e gli piazzerete le sue
mani vicino al corpo. Era un nemico, ma era coraggioso e ha dato la sua vita per
una causa in cui credeva. Il suo corpo verrà seppellito integro. Chiaro?»
Gli uomini annuirono. «Allora fatelo.»
Jomil si avvicinò a Premian e insieme si allontanarono dal gruppo di arcigni
soldati. «Non è stata una mossa saggia,» gli disse Jomil a bassa voce. «Diranno che
simpatizza per i nadir e si spargerà la voce che lei è clemente con il nemico.»
«Non me ne importa nulla, amico mio. Farò il mio rapporto a battaglia finita.»
«Forse, signore, ma, se perdona la mia franchezza, non penso che quella di lord
Gargan fosse una minaccia vana. E non voglio vederla sotto processo per
disubbidienza.»
Premian sorrise e fissò il volto rugoso del vecchio soldato. «Tu sei un buon
amico, Jomil. Ho molta stima di te. Ma, mio padre mi ha detto di non prendere mai
parte ad azioni prive d’onore. Una volta mi disse che la più grande soddisfazione
per un uomo è quella di radersi al mattino ed essere orgoglioso del volto che vede
riflesso nello specchio. In questo momento non mi sento orgoglioso.»
«Io penso che dovrebbe esserlo,» disse Jomil, con calma.

Erano le tre del pomeriggio e il nemico non aveva ancora attaccato. I fanti
sedevano a terra e molti di loro si erano costruiti dei ripari rudimentali con le spade
e i mantelli per proteggersi dal sole. I cavalli dei lancieri erano stati impastoiati a
ovest. La maggior parte di essi lasciavano penzolare la testa con aria sconsolata
mentre altri erano crollati a terra per mancanza d’acqua.
Druss si mise una mano sulla fronte per ripararsi dal sole, vide i cinque carri
entrare nel campo e imprecò a bassa voce. I soldati gothir corsero ai mezzi
circondandoli.
Talismano lo raggiunse sugli spalti. «Avrei dovuto mandare più uomini con
Kzun,» disse.
Druss scrollò le spalle. «Se ben ricordo la scorsa notte sono usciti con
quattordici carri. Il tuo uomo ha fatto un ottimo lavoro. Avranno acqua sufficiente
solo per un giorno e i cavalli hanno bisogno di molta più acqua di quella contenuta
in quei carri.»
«Hai già preso parte a degli assedi?» gli chiese Talismano.
«Sì, ragazzo. Troppi.»
«Qual è la tua opinione riguardo la nostra situazione?»
«Penso che ci scaglieranno addosso di tutto. Non possono permettersi di
aspettare. Non hanno ingegneri per scavare sotto le mura, né arieti per sfondare i
cancelli. Penso che ci lanceranno contro ogni uomo che hanno a disposizione, fanti
e lancieri. Cercheranno di prendere queste mura con il numero.»
«Non penso,» disse Talismano. «Io credo che tenteranno un attacco su tre
fronti. L’ondata principale si scaglierà contro il muro ovest, un secondo
contingente attaccherà i cancelli e un terzo una delle mura rimanenti. Cercheranno
di sparpagliarci lungo gli spalti e solo se falliranno tenteranno l’assalto finale.»
«Beh, lo sapremo presto,» disse Druss. «Se la tua previsione si dovesse rivelare
giusta, cosa pensi di fare?»
Talismano sorrise stancamente. «Abbiamo ben poche opzioni Druss.
Cercheremo di resistere al meglio delle nostre forze.»
Druss scosse la testa. «Devi tener conto che alcuni soldati riusciranno a salire
sugli spalti e a entrare nel forte, la nostra reazione in quel momento potrà decidere
le sorti della battaglia. L’istinto ti suggerisce di impegnare l’uomo più vicino, ma
in questa situazione un tale istinto può rivelarsi fatale. Se si apre una breccia nel
muro la prima cosa da fare è cercare di tamponare la falla. Gli uomini già dentro
devono essere considerati in un secondo momento.»
«Cosa suggerisci?»
«Tu hai già una piccola forza di riserva pronta a tappare i buchi. Aumentala e
dividila in due. Se il nemico prendesse un muro il primo gruppo si recherà a dar
man forte ai difensori e il secondo gruppo attaccherà quelli che sono penetrati
all’interno. Non abbiamo un’altra cinta interna di mura dietro la quale ritirarci
quindi è fondamentale riuscire a tenere gli spalti. Nessun difensore deve lasciare i
camminamenti, non importa quello che sta succedendo nel cortile. Le mura,
Talismano! Il resto non ha importanza.»
Il giovane nadir annuì. «Sono d’accordo con te uomo con l’ascia. Riferirò tutto
agli uomini. Sapevi che le tribù si sono giocate tra di loro il privilegio di stare al
tuo fianco oggi?»
Druss rise. «Ecco cosa stavano facendo? Chi ha vinto?»
«I Corridori del Cielo. Sono molto contenti. È raro che un gajin sia così
popolare.»
«Credi?» Druss bilanciò l’ascia. «Di solito sono molto popolare in giorni come
questi. Può essere la canzone del soldato, forse sì, forse no, chi lo sa? Quando la
paura della guerra cala sulle persone esse riveriscono il guerriero. Quando tutto è
finito egli viene dimenticato o oltraggiato. La cosa non cambierà mai.»
«Non mi sembra che questo fatto ti intristisca,» notò Talismano.
«Non mi intristisco se il sole scalda o se il vento del nord è freddo. La vita è
così. Una volta presi parte a una scorreria per salvare dei contadini dai sathuli. Oh,
certo essi parlarono a lungo dicendo quanto eravamo stati coraggiosi e che ci
avrebbero sempre onorati. C’era un giovane soldato che quel giorno perse un
braccio. Proveniva dalla loro città. Entro sei mesi lui e la sua famiglia furono
ridotti alla fame. È la vita.»
«Sono morti?»
«No. Io tornai nella Piana Sentriana e parlai al capo dei contadini ricordandogli
l’impegno preso.»
«Non mi sorprende che ti abbia ascoltato,» disse Talismano fissando i freddi
occhi azzurri di Druss. «Ma non ti succederà questo con noi. I nadir hanno la
memoria lunga. Tu sei Morte che cammina; la tua leggenda vivrà grazie a noi.»
«Leggende. Pah! Ne ho abbastanza delle leggende. Se avessi la metà del
coraggio di un contadino sarei a casa con mia moglie a badare alle terre.»
«Non hai figli?»
«No, né ne avrò,» affermò Druss, freddo. «No, l’unica cosa che mi lascerò
dietro sono quelle dannate leggende.»
«Alcuni uomini morirebbero per avere la tua fama.»
«Molti l’hanno già,» gli fece notare Druss.
I due guerrieri rimasero in silenzio a osservare i gothir che circondavano i carri
dell’acqua. «Ti dispiace essere qua?» gli chiese Talismano.
«Cerco di non lamentarmi mai delle decisioni che prendo,» replicò Druss. «Non
è di nessuna utilità.» Venti Corridori del Cielo si radunarono sugli spalti,
fermandosi vicini ai due uomini che parlavano. Druss fissò il primo, un giovane dal
volto rapace e gli occhi castani. «Tu eri uno di quelli che ha saltato il precipizio?»
gli chiese.
L’uomo fece un largo sorriso e annuì.
«Mi piacerebbe sentire quella storia,» disse Druss. «Più tardi quando avremo
respinto i gothir me la racconterai.»
«Lo farò Morte che cammina.»
«Bene. Adesso radunatevi intorno a me, ragazzi, e vi darò qualche consiglio su
come ci si difende in un assedio.»
Talismano scese dagli spalti. Appena raggiunse il cortile sentì delle risa levarsi
dal gruppo che attorniava Druss. Lin-tse lo raggiunse. «Dovrei essere là,
Talismano. Sul muro con i miei uomini.»
«No.» Talismano gli disse di scegliere quaranta guerrieri tra le varie tribù. «Tu
guiderai il primo gruppo e Gorkai il secondo.» Quindi delineò il piano di difesa
suggerito da Druss.
Un giovane guerriero li superò e si diresse verso il muro nord. Talismano lo
chiamò. «Come ti chiami?» gli chiese.
«Shi-da, generale.»
«Tu eri un amico di Quing-chin?»
«Sì.»
«Ieri ho visto che ti hanno ferito allo stomaco.»
«Non erano ferite profonde come temevo, generale. Il chirurgo mi ha guarito e
ora posso combattere.»
«Non senti dolore?»
«Sì, lo sento, i punti sono stretti, ma io mi schiererò a fianco dei Pony Veloci,
generale.»
«Fammi vedere la ferita,» disse Talismano. Portò il ragazzo all’ombra e lo fece
sedere sul tavolo. Shi-da si tolse il giustacuore in pelle di capra. La benda che gli
cingeva i fianchi era sporca di sangue. Il giovane cominciò a svolgerla, ma
Talismano lo fermò.
«La ferita è ben fasciata. Non disturbarti. Combatti bene oggi, Shi-da.»
Il giovane assunse un’espressione torva, annuì e si allontanò. «Perché l’hai
fermato?» gli chiese Lin-tse.
«Tutti i feriti sono tornati a combattere sulle mura oggi,» affermò Talismano.
«Il poeta è veramente un bravo chirurgo. Ho visto quando hanno colpito Shi-da,
avrei giurato che la lama l’avesse quasi passato da parte a parte.»
«Pensi che abbia trovato gli Occhi di Alchazzar?» sussurrò Lin-tse.
«Se è così, allora glieli prenderemo.»
«Credevo che avessi detto che Druss ne aveva bisogno.»
«Druss è un guerriero e io l’ammiro moltissimo. Ma gli Occhi appartengono ai
nadir. Sono una parte del nostro destino che non posso mettere in mano a un
gajin.»
Lin-tse appoggiò una mano sul braccio di Talismano. «Se sopravviveremo e se
Sieben ha i gioielli sai già cosa succederà se cercherai di prenderli. Druss
combatterà, e lui non è un uomo che si fa spaventare dal numero degli avversari.
Dovremo ucciderlo.»
«Allora lo uccideremo,» sentenziò Talismano, «anche se la cosa mi spezzerà il
cuore.»
Talismano riempì una coppa d’acqua la svuotò in un solo sorso quindi si
allontanò con Lin-tse per ispezionare il muro costruito dietro il portone. Niobe uscì
dall’ombra e si recò all’ospedale.
Sieben era seduto vicino a Zhusai. I due stavano ridendo e Niobe si stupì
nell’accorgersi che quella vista le provocava un moto di rabbia. La donna chiatze
era magra e bella e i suoi vestiti erano di seta bianca decorata con della madreperla.
Niobe portava ancora la maglia blu di Sieben, ma ora era sporca di sangue e
sudore. Il poeta la vide e un largo sorriso si dipinse sul suo bel volto, quindi
attraversò la stanza e l’abbracciò.
«Perché è qua?» chiese Niobe.
«Si è offerta di aiutarci con i feriti. Vieni a salutarla.»
La prese per mano e la portò vicina a Zhusai. Mentre faceva le presentazioni
Niobe fissò con il suo sguardo penetrante la ragazza chiatze che si innervosì
visibilmente.
«Avrei dovuto offrire il mio aiuto prima,» disse Zhusai a Niobe. «Ti prego di
perdonarmi.»
Niobe scrollò le spalle. «Non abbiamo bisogno d’aiuto. Il poeta è molto bravo.»
«Sono sicura che lo sia, ma io ho una certa esperienza con le ferite.»
«Ci sarà d’aiuto,» si intromise Sieben.
«Non la voglio qua,», rispose Niobe.
Sieben mascherò la sua sorpresa e si rivolse a Zhusai. «Forse, mia signora,
dovresti cambiarti i vestiti. Il sangue rovina la seta pregiata. Potrai tornare quando
la battaglia sarà iniziata.»
Zhusai accennò un inchino e uscì dalla stanza.
«Cosa ti è successo?» chiese Sieben a Niobe. «Sei gelosa, colomba mia?»
«Non sono una colomba. E non sono gelosa. Sai perché è qua?»
«Per aiutarci. È quello che ci ha detto.»
«Sei in pericolo, po-eta.»
«A causa sua? Non credo.»
«Non solo da lei, folle. Ogni nadir conosce la storia degli Occhi di Alchazzar, i
gioielli magici. Talismano pensa che tu li abbia trovati e anch’io. Ieri c’erano dei
moribondi che oggi si trovano sulle mura.»
«Sono insulsaggini. Erano...»
«Non mentirmi!» sbottò lei. «Ho sentito Talismano. Egli dice che se tu hai i
gioielli te li prenderà e se Druss dovesse interferire sarà ucciso. Devi dare i gioielli
a Talismano così sarai al sicuro.»
Sieben si sedette sul tavolo. «Non posso farlo amore mio. Druss ha fatto una
promessa a un uomo che sta morendo e Druss è uno che mantiene la sua parola.
Capisci? Ma non li voglio tenere, ti prometto una cosa: se sopravviveremo, cosa di
cui dubito anche nella migliore delle ipotesi, io li porterò a Gulgothir, guarirò
l’amico di Druss quindi li restituirò a Talismano.»
«Egli non te lo permetterà. Ecco perché ha mandato la sua donna. Lei ti spierà
come un serpente. Non guarire più nessun moribondo po-eta.»
«Devo. Quel potere serve proprio a quello.»
«Non è il momento di essere deboli. Gli uomini muoiono durante le battaglie,
vengono sotterrati e nutrono la terra. Lo capisci?» Lo fissò negli occhi azzurri e si
rese conto che non lo stava convincendo. «Pazzo! Pazzo!» disse. «Molto bene.
Guariscili quel tanto che basta da tenerli in vita, ma non da permettere loro di
combattere di nuovo. Hai sentito cosa ho detto?»
«Lo farò, Niobe. Hai ragione. Non posso rischiare che Druss venga ucciso a
causa mia.» Sorrise e le passò le dita tra i capelli scuri. «Ti amo. Sei la luce della
mia vita.»
«E tu sei un problema per me,» rispose. «Non sei un guerriero e sei debole
come un cucciolo. Non dovrei provare nulla per un uomo come te.»
«Invece tu provi qualcosa, vero?» le disse, abbracciandola. «Dimmelo!»
«No.»
«Sei ancora arrabbiata con me?»
«Sì.»
«Allora baciami e la rabbia sparirà.»
«Non voglio che sparisca,» disse lei, spingendosi via.
Fuori dalle mura echeggiò il suono del corno da battaglia.
«Ricomincia,» sospirò Sieben.

La fanteria gothir si dispose in tre gruppi di circa duecento uomini. Druss li


osservò con attenzione. Solo due gruppi avevano dei portatori di scale. «Il terzo
gruppo assalterà i cancelli,» disse a nessuno in particolare.
Dietro la fanteria i lancieri, appiedati, aspettavano disposti su due linee con le
sciabole in mano. Il suono del tamburo pervase l’aria e l’esercito cominciò a
muoversi lentamente in avanti. Druss avvertì la paura degli uomini che lo
circondavano.
«Non pensate al loro numero,» disse Druss, «tutto ciò che conta è il numero di
scale. Ne hanno meno di trenta quindi vuol dire che non possono salire sugli spalti
più di trenta uomini alla volta, gli altri rimarranno sotto e non potranno fare nulla.
Non fatevi mai impressionare dai numeri.»
«Tu non hai mai paura, uomo con l’ascia?» gli chiese Nuang Xuan.
Druss si girò e sorrise. «Cosa fai qua, vecchio? Sei ferito.»
«Sono resistente come un lupo e forte come un orso. Quanto mi manca per
arrivare a cento?»
«Secondo i miei conti dovrebbero mancartene una novantina.»
«Pah! È chiaro che hai sbagliato a contare.»
«Stammi vicino, Nuang,» gli consigliò Druss. «Ma non troppo, però,»
aggiunse.
«Alla fine della giornata sarò qua e i gothir morti saranno una montagna.»
Gli arcieri gothir corsero tra le file dei fanti e lasciarono partire delle salve di
frecce in direzione degli spalti. I difensori si acquattarono e nessuno venne colpito.
Il tamburo accelerò il ritmo e in pochi secondi Druss sentì il suono dei soldati in
corsa soffocare quello dello strumento. Le scale sbatterono contro il muro. Un
uomo alla sinistra di Druss fece per alzarsi, ma il drenai lo fermò. «Non ancora,
ragazzo, gli arcieri non aspettano altro.»
Il guerriero sbatté le palpebre nervosamente. Druss rimase in ginocchio per una
decina di secondi quindi scattò in piedi facendo brillare la sua grande ascia al sole.
Un soldato gothir aveva appena raggiunto la cima della scala e Snaga lo colpì in
pieno volto.
«Salite e morite!» tuonò Druss, uccidendo con un fendente un secondo
guerriero.
Intorno a lui i nadir stavano combattendo contro gli attaccanti. Due soldati
gothir balzarono sui camminamenti ma furono uccisi immediatamente. Un
guerriero nadir cadde con una freccia piantata nella tempia.
Sulle mura sopra i cancelli Talismano osservava Druss e i Corridori del Cielo
che cercavano di tenere gli spalti del muro ovest. Il secondo gruppo di gothir aveva
girato e si era diretto verso il muro nord, dove Bartsai e le Corna Ricurve li stavano
aspettando.
Le asce si abbatterono sul portone, sbrecciandone il legno. I difensori presero a
tempestare di rocce i soldati assiepati sotto di loro, ma il suono delle asce continuò
a risuonare nell’aria.
«Pronti!» disse Talismano rivolgendosi ai Pony Veloci. I nadir incoccarono le
frecce e si inginocchiarono sui camminamenti delle mura costruite dietro il
portone. In quel momento Talismano si sentì investire da un impeto d’orgoglio.
Quelli erano i nadir, la sua gente! E stavano combattendo insieme contro un ne-
mico comune. Non avrebbero più dovuto ubbidire come schiavi a quei maledetti
gajin. Non sarebbero più dovuti scappare per via delle spedizioni punitive dei
lancieri.
Improvvisamente il portone cedette e decine di uomini superarono la soglia per
trovarsi di fronte un muro alto due metri e mezzo.
«Ora! Ora! Ora!» urlò Talismano. Un nugolo di frecce si abbatté sulla folla
sottostante. I soldati che erano entrati vennero schiacciati contro il muro dai propri
compagni delle file posteriori e rimasero così compressi che pochi riuscirono ad
alzare gli scudi per ripararsi. Talismano cercò di sollevare un masso dai bordi
frastagliati, altri due uomini si unirono a lui e insieme lo scagliarono sui soldati. I
gothir si ritirarono in preda al panico inciampando sui loro stessi feriti.
Talismano fissò con torva soddisfazione i trenta e più corpi distesi a terra. Una
freccia sibilò vicina alla faccia del giovane condottiero e questi si acquattò. Il
nemico si stava radunando intorno al portone abbattuto e stava tempestando di
dardi l’interno del forte. Due nadir caddero al suolo colpiti a petto.
«State giù!» urlò Talismano. Improvvisamente sentì il suono delle scale che
venivano appoggiate contro il muro alle sue spalle e imprecò. Sarebbe stato molto
difficile tenere quella posizione con gli arcieri che tiravano alle loro spalle e la
fanteria che li assaltava di fronte. Talismano strisciò sugli spalti, ne raggiunse il
bordo e chiamò gli arcieri nadir sotto di lui. «Dieci di voi si occupino degli arcieri,
gli altri con me!» ordinò.
Ignorando la minaccia delle frecce Talismano balzò in piedi e snudò la
sciabola. Tre nemici comparvero sui camminamenti e il nadir balzò loro addosso
piantando la sua spada nella bocca del primo.
Nel cortile, Gorkai attendeva con i suoi venti uomini. Il sudore gli imperlava il
volto mentre osservava Talismano e i Pony Veloci combattere contro i soldati che
sciamavano sugli spalti. «Dovrei andare con lui,» gli disse Lin-tse.
«Non ancora, fratello. Rimani fermo.»
Sul muro nord, Bartsai e i suoi uomini arretrarono e i lancieri riuscirono ad
attestarsi sugli spalti. La linea di difesa cedette con una velocità spaventosa e i
gothir cominciarono a scendere gli scalini che portavano al cortile.
Lin-tse e i suoi uomini andarono loro incontro. Gorkai prese la sciabola con la
sinistra, e asciugò il sudore della mano destra sui pantaloni. Le Corna Ricurve
stavano per cedere e lui era pronto a correre in loro aiuto.
In quello stesso istante, vedendo il pericolo, Druss corse lungo gli spalti del
muro ovest, spiccò un salto superando il baratro che divideva i due camminamenti
e atterrò in mezzo ai nemici cominciando a falciarli con la sua ascia. La sua
improvvisa apparizione galvanizzò le Corna Ricurve che presero a combattere con
rinnovata ferocia.
Lin-tse aveva perso Otto uomini, ma aveva ridotto i dodici gothir penetrati nel
forte a quattro soldati che ora combattevano spalla a spalla. Altri due nadir caddero
di fronte a Lin-tse e per tutta risposta i suoi uomini abbatterono i quattro superstiti.
Gorkai si girò per guardare Talismano. Non era in una buona situazione: dieci
dei suoi uomini erano morti, tenevano ancora il muro era vero, ma sarebbero
crollati entro pochi minuti. Alcuni feriti si stavano recando verso l’ospedale, altri
giacevano dove si trovavano cercando di tamponare il sangue con le mani.
Lin-tse e gli uomini rimasti tornarono a unirsi al gruppo di Gorkai. Il volto del
Corridore del Cielo era ferito. «Puoi tappare l’altra breccia,» gli disse, sforzandosi
di sorridere.
Gorkai non dovette aspettare a lungo. Gli uomini di Talismano cedettero, una
sezione degli spalti crollò e lo stesso generale nadir fu trafitto al petto da una
lancia. Gorkai lanciò il suo urlo di guerra e due alla volta salì gli scalini che
portavano agli spalti. Talismano riuscì a sbudellare il feritore, si tolse la lancia
spezzata dal petto e cadde a terra. Gorkai lo superò con un balzo e si avventò
contro gli altri gothir che avevano raggiunto la cima delle mura.
La vista di Talismano si stava appannando e si sentì preda di un forte senso di
debolezza. Non posso morire, pensò. Non ora. Si sforzò di alzarsi in piedi e afferrò
la sciabola. L’oscurità incombeva su di lui.
Gorkai e i suoi uomini riuscirono a riconquistare gli spalti. Il sangue usciva
gorgogliando dal petto di Talismano. Il giovane generale capì che gli avevano
perforato un polmone. Due uomini lo afferrarono e lo alzarono in piedi. «Portatelo
dal chirurgo!» ordinò Gorkai.
Talismano venne portato all’ospedale, appena entrò sentì l’urlo di Zhusai e
cercò disperatamente di mettere a fuoco il volto di Sieben sopra di lui... svenne.

I gothir si erano ritirati dal muro nord. Druss tornò a unirsi ai Pony Veloci.
Nuang Xuan giaceva, nuovamente ferito al petto e alle braccia, contro il parapetto.
I gothir si ritirarono.
Druss si inginocchiò a fianco del vecchio capo. «Come va?» gli chiese.
«Ne ho uccisi più di cento,» disse Nuang. «Penso di aver eliminato tutti i gothir
che c’erano qua sopra e quelli che vedi là fuori sono solo dei fantasmi.»
Druss si alzò e osservò le difese. Sul muro nord erano rimasti diciotto uomini.
Intorno a lui ce n’erano venticinque. Sopra i cancelli ne contò trenta, incluso
Gorkai, l’uomo di Talismano. Nel cortile gli uomini di Lin-tse erano poco meno di
una dozzina. Druss cercò di sommare le loro forze, ma la stanchezza gli impediva
di concentrarsi. Fece un respiro profondo e ricontò.
Secondo i suoi calcoli erano rimasti meno di cento guerrieri, e i corpi dei nadir
morti erano sparsi ovunque. Vide il cadavere del capo delle Corna Ricurve,
Bartsai, giacere ai piedi degli spalti circondato dai corpi di tre gothir.
«Stai sanguinando, Morte che cammina,» gli disse un Corridore del Cielo.
«Non è nulla,» replicò Druss, riconoscendo il giovane dal volto rapace con cui
aveva parlato prima.
«Togliti il giustacuore,» gli disse il ragazzo.
Druss grugnì e si tolse l’indumento di cuoio. Era stato ferito più volte alle
spalle e alle braccia, ma quella più grave era sotto la clavicola sinistra. Il sangue
era colato fino alla cintura.
«Devi fartela cucire,» gli disse il nadir. «Altrimenti rischi di morire
dissanguato.»
Druss si sporse dagli spalti e osservò i gothir che si erano fermati fuori dalla
portata degli archi.
«Prendi il vecchio con te,» disse il nadir, ghignando. «Combatte così bene che
ci ha coperti di vergogna.»
Druss si sforzò di sorridere e aiutò Nuang Xuan ad alzarsi. «Cammina un po’
con me, vecchio.» Si girò verso il nadir e disse: «Sarò di ritorno prima che ve ne
rendiate conto.»

Talismano sentì il dolore della ferita affievolirsi e si trovò sdraiato su una


sterile collina sotto un cielo grigio. Appena riconobbe il paesaggio del Vuoto, il
suo cuore cominciò a martellare all’impazzata «Non sei morto,» lo rassicurò una
voce tranquilla vicina a lui. Talismano si sedette e vide Shaoshad seduto vicino a
un piccolo fuoco da campo. Al suo fianco c’era l’alta figura di Shul-sen avvolta nel
suo mantello argenteo che brillava illuminato dalle fiammelle.
«Perché sono qua, allora?» chiese.
«Per imparare,» disse Shul-sen. «Quando io e Oshikai arrivammo nelle steppe
fummo toccati dalla loro bellezza, ma più di tutto fummo attratti dalla loro magia.
Ogni pietra la conteneva, ogni pianta cresceva grazie a essa. Il potere elementale
veniva irradiato dalle montagne e fluiva come un torrente. Gli dèi della pietra e
dell’acqua, ecco come li chiamammo. Sai cosa da origine a questa magia,
Talismano?»
«No.»
«La vita e la morte. Le forze vitali di milioni di uomini, piante, insetti e
animali. Ogni vita viene dalla terra e vi ritorna. È un circolo armonioso.»
«Cosa c’entro io in tutto ciò?»
«Non molto, ma lo stesso vale per me, ragazzo mio,» si intromise Shaoshad «Io
fui uno dei tre che tolse la magia alla terra. La estraemmo tutta e la instillammo
negli Occhi di Alchazzar rendendo così la terra sterile: volevamo indirizzare la
magnifica potenza dell’energia in favore dei nadir. Però nel creare i gioielli
distruggemmo il legame tra i nadir e gli dèi della pietra e dell’acqua. Il nostro
popolo cominciò a diventare sempre più nomade e a non sentire più l’amore per la
terra sotto i propri piedi o per le montagne che li sovrastavano. Essi cominciarono
a dividersi e a isolarsi.»
«Perché mi stai raccontando tutto ciò?» chiese Talismano. «Tu cosa ne pensi?»
rispose Shul-sen.
«Io non ho gli Occhi. Pensavo che li avesse il poeta, ma ora credo che sia solo
un bravo chirurgo.»
«Se tu li avessi, Talismano, faresti ciò che è giusto per la terra?» chiese
Shaoshad.
«E cosa sarebbe?»
«Restituire ciò che è stato rubato.»
«Restituire il potere degli Occhi? Con essi io potrei riunire tutte le tribù insieme
fino a formare un esercito invincibile.»
«Forse,» ammise Shul-sen, «Per quale causa combatterebbe tale esercito senza
l’amore della terra? Per saccheggiare, uccidere, stuprare e vendicarsi? Questo
esercito di cui tu parli sarebbe pieno di uomini le cui vite non sarebbero altro che
un battito di palpebre nell’eternità. La terra è immortale. Ridalle la sua magia ed
essa ti ripagherà mille volte. Vi darà l’Unificatore che tanto sognate, vi darà Urlic.»
«Come posso fare?» sussurrò Talismano.

«Non è profonda come pensavo,» disse Sieben mentre Druss, sdraiato sul
tavolo, sentiva le dita del poeta che tastavano la ferita alla schiena. Effettivamente,
in quel momento il guerriero drenai, eccettuato quello provocato dai punti, sentiva
ben poco dolore.
«Sei una rivelazione per me,» disse Druss. Il guerriero si sedette sentì i punti
tirare leggermente e aggiunse: «Chi l’avrebbe mai detto.»
«Già, chi? Come va là fuori?»
«Stanno per lanciare l’attacco finale. Presto,» rispose Druss. «Se riuscissimo a
respingere questo...» la sua voce si affievolì. «Stiamo per perdere, vero?» gli chiese
Sieben.
«Anche se mi fa male dirlo, penso di sì, poeta. Talismano è morto?»
«No, sta dormendo. Le sue ferite non erano poi così brutte.»
«È meglio che torni sulle mura,» Druss stirò la schiena. «Stupefacente,»
affermò. «Mi sento come se avessi dormito per otto ore. Sento che le mie forze si
sono rigenerate. Quelle poltiglie che hai usato sono miracolose, mi piacerebbe
sapere con cosa sono fatte.»
«Anche a me. È Niobe che le prepara.»
Druss si infilò il giustacuore e assicurò la cintura alla vita. «Mi dispiace di
averti portato qua,» disse.
«Io sono un uomo libero che prende le sue decisioni da solo,»gli disse Sieben,
«e non sono per nulla dispiaciuto. Ho incontrato Niobe. Dolce paradiso, Druss, io
amo quella donna!»
«Tu le ami tutte,» commentò Druss.
«No. Veramente, questa volta è diverso. E la cosa più incredibile è che se mi
fosse dato di scegliere non cambierei una sola cosa. Morire senza aver conosciuto
il vero amore deve essere terribile.»
Nuang si avvicinò a loro. «Sei pronto uomo con l’ascia?»
«Sei un vecchio caprone robusto,» gli disse Druss e insieme tornarono agli
spalti. Sieben li guardò per un istante quindi tornò a dedicarsi ai feriti. Intercettò lo
sguardo di Niobe e appena la ragazza gli indicò Zhusai seduta a fianco
dell’addormentato Talismano, lui le sorrise. La ragazza chiatze stava piangendo.
Sieben attraversò la stanza e si accucciò vicino a lei.
«Vivrà,» le disse dolcemente.
Lei annuì.
«Te lo prometto,» le disse, appoggiando delicatamente una mano sul petto di
Talismano.
Il giovane guerriero nadir fu attraversato da un tremito e aprì gli occhi.
«Zhusai...?» sussurrò.
«Sì, amore mio.»
Talismano emise un lamento e cercò di alzarsi. Sieben lo aiutò. «Cosa sta
succedendo?» chiese.
«I nemici si stanno radunando per un’altra carica,» lo informò Sieben.
«Devo andare là.»
«No, ti devi riposare!» insistette Zhusai.
Gli occhi scuri di Talismano si girarono verso Sieben. «Dammi altra forza,»
disse.
Il poeta scrollò le spalle. «Non posso. Hai perso un mucchio di sangue e sei
debole.»
«Tu hai gli Occhi di Alchazzar.»
«Vorrei averli, vecchio cavallo, ti assicuro che avrei guarito tutti. Per il
paradiso, avrei fatto resuscitare i morti.»
Talismano lo fissò da vicino, ma Sieben sostenne il suo sguardo con
tranquillità. Il giovane nadir mise un braccio intorno alla spalla di Zhusai, le baciò
una guancia e le disse: «Aiutami a raggiungere le mura, moglie. Rimarremo sugli
spalti insieme.»
Appena si furono allontanati, Sieben sentì una vocina sussurrare nel suo
orecchio. «Va’ con loro.» Si girò, ma non vide nessuno. Il poeta rabbrividì e rimase
fermo sul posto. «Abbi fiducia, ragazzo mio,» riprese Shaoshad.
Sieben uscì dall’ospedale, raggiunse di corsa i due amanti, prese il guerriero per
l’altro braccio e l’aiutò a salire sul muro ovest.
«Si stanno radunando di nuovo,» borbottò Druss.
Nella pianura antistante il santuario i gothir stavano riformando i ranghi
attendendo il suono del tamburo. Sulle mura i guerrieri nadir, stanchi, li
aspettavano con le spade in mano.
«Devono essere più di mille,» calcolò Sieben, sentendo la paura che cresceva in
lui.
Il suono del tamburo echeggiò nell’aria e i soldati cominciarono ad avanzare.
Zhusai si irrigidì e fece un corto respiro. «Mettile una mano sulla spalla,»
ordinò Shaoshad a Sieben. Il poeta eseguì e appena la toccò sentì il potere delle
pietre fluire all’interno della ragazza come una fiammata. Zhusai abbandonò la
presa e si diresse verso il parapetto.
«Cosa stai facendo, Zhusai?» sibilò Talismano.
Lei si girò sfoderando un sorriso splendente. «Tornerà,» la voce di Shul-sen.
La donna salì in cima al parapetto e alzò le braccia. Il sole che splendeva alto
nel limpido cielo azzurro cominciò a illuminare i vestiti insanguinati della strega.
Un vento forte si levò dal nulla scompigliandole i capelli corvini e le nuvole
cominciarono a formarsi con una velocità stupefacente. Il cielo divenne sempre più
nero. Improvvisamente sopra il santuario echeggiò il rombo di un tuono. Dei
fulmini lacerarono il cielo e si abbatterono in mezzo allo schieramento gothir.
Diversi uomini furono scagliati a terra. Le luminose lance frastagliate continuarono
a cadere tra i nemici mentre l’aria veniva scossa dal boato dei tuoni.
I gothir ruppero i ranghi e cominciarono a scappare, ma i fulmini li raggiunsero
lo stesso catapultandoli in aria. Il forte vento fece arrivare l’odore di carne bruciata
alle narici dei difensori attoniti. I cavalli dei gothir strapparono i picchetti e
scapparono. Sulla piana i soldati buttarono via le armi e cercarono di togliersi le
armature, senza però ottenere alcun risultato. Sieben vide un fulmine colpire il
piastrone di un uomo facendolo esplodere e gettando a terra in preda a spasmi
terribili i compagni che gli erano vicini.
Il sole tornò a splendere tra le nuvole e la donna scese dal parapetto. «Il mio
lord è in paradiso,» disse a Talismano. «Con questo ho ripagato il mio debito.»
Dopodiché crollò contro il generale nadir che la strinse a sé.
Metà dell’esercito gothir era stato ucciso e molti altri avevano subito delle
brutte ferite.
«Non combatteranno più,» disse Gorkai, mentre le nuvole finivano di
disperdersi.
«Loro no, ma gli altri sì,» borbottò Druss indicando lo squadrone di cavalleria
che scendeva lungo la collina e raggiungeva il campo dei gothir.
Sieben ebbe un tuffo al cuore, erano più di mille uomini che marciavano
incolonnati per due.
«Chi mai avrà tutta la fortuna che ho io?» si chiese Nuang, in tono amaro.
CAPITOLO TREDICESIMO

Premian rotolò sulla pancia e premette le mani coperte di vesciche nel fango
fresco. Un fulmine aveva colpito i tre uomini vicini a lui e ora essi giacevano a
terra irriconoscibili. Si alzò in piedi barcollando. Aveva le gambe malferme e
provava un forte senso di vertigine. I morti e i moribondi erano sparpagliati ovun-
que e coloro che erano sopravvissuti camminavano come se fossero stati ubriachi.
Qualche metro alla sinistra, Premian vide lord Gargan seduto a fianco del
cadavere del suo cavallo. Il generale si teneva la testa tra le mani e sembrava molto
vecchio in quel momento. Il giovane ufficiale non indossava l’armatura. Doveva
essere frustato per disubbidienza quando era scoppiata la tempesta, ed era stata
proprio la mancanza di metallo sul suo corpo a salvarlo dai fulmini.
Si avvicinò lentamente al generale. Metà del volto di Gargan era annerito e
coperto di vesciche e quando si girò per fissare Premian, questi trattenne a stento
un’espressione d’orrore. L’occhio sinistro del generale era sparito e dall’orbita
vuota colava un rivolo di sangue.
«È tutto finito,» mugugnò Gargan. «I selvaggi hanno vinto.» Premian si
inginocchiò a fianco dell’uomo e, non avendo la minima idea di cosa dire, gli prese
la mano. «Hanno ucciso mia madre,» continuò Gargan. «Avevo cinque anni, lei mi
nascose sotto dei sacchi. Essi la violentarono e la uccisero. E io guardavo. Io...
volevo aiutarla. Non potevo. Rimasi sdraiato là sotto a farmi la pipì addosso. Poi
mio figlio...» Gargan fece un lungo e tremante respiro. «Portami la spada.»
«Non ha bisogno di una spada, lord. È finita.»
«Finita? Tu pensi che sia finita? Non sarà mai finita. Noi o loro, Premian. Ora e
per sempre.» Gargan si piegò alla sua destra. Premian lo prese e lo adagiò sul
terreno. «Sento i cavalli,» sussurrò il generale. E morì.
Premian alzò gli occhi, vide una colonna di cavalieri che si avvicinava e si alzò
in piedi. Un generale si fermò davanti a lui e fissò il corpo esanime del lord di
Larness.
«Ho l’ordine di arrestarlo e giustiziarlo sul posto,» disse. «Meno male che è già
morto. Lo rispettavo molto.»
«Arresto? Con quale accusa?» chiese Premian.
«Chi sei?» rispose il generale.
«Premian, signore.»
«Ah, bene. Ho anche degli ordini per te. Tu prenderai il comando dei lancieri e
tornerai a Gulgothir.» Si girò sulla sella e diede un’occhiata alle condizioni del
campo. «Temo che il tuo contingente non sarà molto numeroso. Cosa è successo?»
Premian fece un rapido rapporto quindi gli chiese: «L’attacco continua,
signore?»
«Il sacco del santuario? Grandi paradisi, no! Che inutile spreco di bravi soldati.
Non riesco pensare cosa abbia spinto Gargan a imbarcarsi in un’impresa tanto
folle.»
«Credo che eseguisse degli ordini, signore.»
«Tutto è cambiato ora, Premian. Abbiamo un nuovo imperatore. Il folle è
morto, ucciso dalle sue guardie. Tutto è tornato normale a Gulgothir.»
«Sia benedetta la Fonte,» disse Premian.
Sulle mura del santuario Druss, Talismano e gli altri nadir fissarono il cavaliere
che usciva lentamente dal campo devastato.-Non indossava l’armatura e i suoi
capelli argentei brillavano sotto il sole.
«Per gli Attributi di Shemak, è Majon!» esclamò Sieben. «Cavalca con la
grazia di un sacco di patate.»
«Chi è Majon?» chiese Talismano, con il volto grigio dal dolore.
«È l’ambasciatore drenai. Meglio che tu dica ai tuoi uomini di non abbatterlo.»
Talismano fece passare l’ordine. Majon raggiunse le mura, Druss osservò
l’espressione tesa del volto del diplomatico e capì che aveva molta paura.
«Oh, Druss!» lo chiamò Majon. «Sono disarmato. Sono venuto come araldo.»
«Nessuno ti farà del male, ambasciatore. Adesso caliamo una corda.»
«Qua sto abbastanza bene,» replicò con voce tremante.
«Insulsaggini,» rispose Druss. «La nostra ospitalità è ben nota e i miei amici si
sentirebbero insultati se tu non ti unissi a noi.»
Venne calata una corda. L’ambasciatore smontò dalla sella, si tolse il mantello
azzurro, lo piegò, lo mise di traverso sulla sella quindi afferrò la corda e venne
issato sugli spalti. Una volta sui camminamenti Druss gli presentò Talismano. «È
uno dei re dei nadir,» affermò il guerriero drenai. «Un uomo importante.»
«Deliziato di fare la sua conoscenza, signore,» disse Majon.
«Quale messaggio ci porti da parte del nemico?» chiese Talismano.
«Non ci sono più nemici, signore,» gli disse Majon. «La battaglia è finita. Lo
squadrone di cavalleria che avete visto è venuto per arrestare quel rinnegato di
Gargan. Il generale Cuskar mi ha chiesto di assicurarvi che tutte le ostilità sono
terminate e il santuario non verrà saccheggiato da nessun soldato gothir. Allo
stesso modo, lei e i suoi uomini siete liberi di andare. Le vostre azioni contro il
rinnegato Gargan non sono considerate dei crimini contro il nuovo imperatore.»
«Nuovo imperatore?» si intromise Druss.
«Proprio così. Il folle è morto, è stato ucciso da due delle sue guardie. C’è un
nuovo ordine a Gulgothir. Lo spettacolo in città è stupendo, Druss. La gente canta
e balla per le strade. Il nuovo governo dell’imperatore è guidato da un uomo di alto
lignaggio e rara cultura: si chiama Garen-Tsen e sembra che abbia lavorato
segretamente per molto tempo al fine di detronizzare il Dio-Re. Un uomo
affascinante, che comprende molto bene il valore della diplomazia. Abbiamo già
firmato tre accordi commerciali.»
«Vuoi dire che abbiamo vinto?» chiese Sieben. «E che vivremo?»
«In parole povere: sì,» affermò Majon. «C’è un’altra piccola cosa, Druss, amico
mio,» aggiunse l’ambasciatore allontanando il guerriero dagli altri. «Garen-Tsen
mi ha chiesto di parlarti di alcuni gioielli che dovrebbero essere nascosti in questo
luogo.»
«Non c’è alcun gioiello,» rispose Druss, amareggiato. «Solo vecchie ossa e
nuovi morti.»
«Tu...er... hai cercato nella bara, vero?»
«Sì. Niente. È solo una leggenda.»
«Ah, bene. Sono sicuro che sia una cosa priva d’importanza.» Majon tornò da
Talismano e si inchinò nuovamente. «Il generale Cuskar ha portato tre chirurghi
con sé. Mi ha chiesto di offrirvi i loro servizi.»
«Abbiamo già un buon chirurgo, ma ringrazia il generale per la sua gentilezza,»
disse Talismano. «Per ringraziarlo di tale offerta, dì al generale che se porterà qua i
carri dell’acqua farò in modo che vengano riempiti.»
Druss e Gorkai calarono nuovamente Majon. L’ambasciatore montò a cavallo e
trotterellò verso il campo gothir.
Talismano si sedette sugli spalti. «Abbiamo vinto,» disse. «Proprio così,
ragazzo, ma per un pelo.»
Talismano allungò la mano. «Tu sei un uomo tra gli uomini, Morte che
cammina,» gli disse. «Ti ringrazio a nome del mio popolo.»
«Dovresti tornare in ospedale e farti curare dal nostro bravo chirurgo,» rispose
Druss.
Talismano sorrise e, aiutato da Zhusai, raggiunse gli scalini dei camminamenti.
Nel cortile i nadir si erano divisi in piccoli gruppi che parlavano della battaglia in
toni concitati. Lin-tse fissò la scena con il volto impassibile, ma i suoi occhi erano
tristi.
«Cosa c’è che non va?» gli chiese Sieben.
«Niente che un gajin possa vedere,» disse il guerriero allontanandosi.
«Di cosa stava parlando, Druss?»
«I nadir si sono di nuovo divisi in tribù, l’unione è finita. Si erano uniti per
questa battaglia e ora si sono divisi nuovamente, i nadir sono fatti così, forse.»
Druss sospirò. «Ah, sono molto stanco, poeta. Ho bisogno di rivedere Rowena e
respirare l’aria delle montagne. Per il paradiso, sarebbe bello respirare ancora la
dolce brezza che profuma d’erba alta e di pino.»
«Lo sarebbe, Druss, vecchio cavallo.»
«Prima di tutto dobbiamo tornare a Gulgothir. Voglio vedere Klay. Riposeremo
qualche ora quindi torneremo indietro.»
Sieben annuì. «Niobe verrà con noi. La sposerò, Druss, e le darò dei bambini e
un braciere!»
Druss rise. «Mi aspetto che tu rispetti tale ordine.»
Sieben tornò all’ospedale dove Talismano stava dormendo profondamente.
Entrò nella stanzetta attigua a quella principale e trovò una penna, un pezzo di
pergamena e dell’inchiostro praticamente secco a cui aggiunse un po’ d’acqua.
Scrisse un messaggio e quando l’inchiostro si fu asciugato piegò la pergamena e la
infilò nella bendatura di Talismano dopodiché usò il potere degli Occhi di
Alchazzar per guarirlo.
Risanò gli altri feriti e li fece dormire profondamente.
Infine rimase fermo sulla porta e guardò soddisfatto la sua opera. Erano morti
molti uomini per difendere quel santuario, ma ce n’erano altri, tra i quali
Talismano, che non sarebbero morti davanti a lui e quel pensiero gli faceva molto
piacere.
Fissò i camminamenti dove Druss giaceva addormentato, lo raggiunse e lo
guarì.
Lin-tse e i Corridori del Cielo stavano smantellando il muro intorno ai cancelli.
Sieben li fissò. Il cielo era blu e anche l’aria calda era la benvenuta.
Sono vivo, pensò. Vivo e innamorato. Se c’è qualcosa di meglio al mondo
allora devo ancora provarlo, decise.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Okar, il grasso portinaio dell’ospizio, imprecò. Qualcuno stava bussando al


portone con insistenza. Scese dal lettino, si mise i pantaloni, corse lungo il
corridoio e spostò il chiavistello. «Tranquilli!» ordinò, mentre apriva la spessa
porta. «Qua ci sono dei malati che stanno provando a dormire.»
Un uomo gigantesco con un barba nera superò l’uscio, lo afferrò per un braccio
e lo sollevò a mezz’aria. «Non lo saranno ancora per molto,» disse con un largo
sorriso. Okar non era un uomo minuto, ma il gigante l’aveva alzato e spostato
come se fosse stato un bambino.
«Devi scusare il mio amico,» disse un secondo uomo, magro e affascinante,
«ma si agita facilmente.»
Una ragazza seguì i due uomini. Era una nadir incredibilmente attraente.
«Dove pensate di andare?» chiese Okar, mentre i tre imboccavano le scale. Essi
non risposero e lui si affrettò a seguirli. L’Abate, che li attendeva in cima alle scale
con la camicia da notte e una candela in mano, bloccò loro la strada.
«Cosa significa questa intrusione?» chiese in tono severo. «Siamo venuti a
guarire un nostro amico, Abate,» disse il gigante. «Ho mantenuto la promessa.»
Okar attese la risposta scurrile che però non giunse. L’Abate rimase silenzioso
per un momento e il suo volto illuminato dalla luce tremolante della candela
assunse un’espressione inintelligibile. «Seguitemi,» disse infine, «e state zitti, per
favore.»
L’Abate fece strada. Oltrepassarono la prima corsia ed entrarono in un piccolo
ufficio situato sul versante ovest dell’edificio. Accese due lanterne e si sedette
dietro una scrivania piena di scartoffie. «Adesso spiegatemi, tutto,» disse.
Il gigante fu il primo a parlare. «Abbiamo trovato le pietre che possono guarire,
padre. E funzionano! Per tutto ciò che è sacro, funzionano! Ci porti da Klay ora.»
«Non è possibile,» gli disse l’Abate con un sospiro. «Klay è morto tre giorni
dopo che siete andati via. È stato seppellito in una tomba disadorna nei giardini.
C’è solo una lapide in pietra. Mi dispiace veramente.»
«Me l’aveva promesso,» disse Druss. «Mi aveva promesso che sarebbe
sopravvissuto fino al mio ritorno.»
«Era una promessa che non poteva mantenere,» rispose l’Abate. «La quadrella
che l’aveva colpito era imbevuta di una qualche sostanza che ha fatto insorgere
immediatamente la cancrena. Nessun uomo avrebbe potuto resistere.»
«Non ci posso credere,» sussurrò Druss. «Ho le pietre!»
«Perché è così difficile da credere?» sbottò l’Abate. «Tu pensi che il mondo
ruoti intorno ai tuoi desideri? Credi veramente di essere in grado di cambiare le
leggi della natura solo perché lo vuoi? Ho sentito parlare di te, Druss. Tu hai
attraversato il mondo da un capo all’altro per trovare tua moglie. Hai combattuto in
decine di battaglie, sei un uomo indomito, ma sei di carne e ossa come tutti. Tu
vivrai e morirai proprio come gli altri uomini. Klay era un grande uomo pieno di
gentilezza e comprensione. La sua morte è una tragedia tanto grande che io non
posso neanche cominciare a descrivere. Tuttavia fa parte del ciclo della vita e io
non ho dubbi riguardo al fatto che lui sia stato accolto nella Fonte a braccia aperte.
Ero con lui quando è morto. Voleva lasciarti un messaggio. Mandai qualcuno a
prendere la penna e l’inchiostro, ma morì improvvisamente, tuttavia credo di
sapere cosa volesse chiederti.»
«Cosa?» chiese lo stupefatto Druss.
«Egli mi parlò di Kells. Mi disse che il ragazzino era convinto che lui fosse un
dio che avrebbe potuto imporre le sue mani sulla madre e farla guarire. Il ragazzino
è ancora qua. Rimase seduto con Klay tenendogli la mano finché non morì,
dopodiché pianse a lungo. Sua madre è ancora viva. Se quelle pietre possono
effettivamente guarire, io penso che Klay volesse che tu usassi il loro potere sulla
donna.»
Druss non disse nulla e rimase sulla sedia a fissarsi le mani. Sieben fece un
passo avanti. «Penso che potremo fare qualcosa di meglio, padre. Mi porti dal
ragazzo.»
Lasciato Druss nell’ufficio Sieben, Niobe e l’Abate camminarono
silenziosamente lungo i corridoi dell’ospizio raggiungendo infine una stretta stanza
in cui erano situati venti letti, dieci per parete. Kells dormiva raggomitolato ai piedi
del primo letto, mentre una donna alta e magra dormiva su una sedia. Nel giaciglio
c’era una donna morente. La pelle del volto era tesa sulle ossa del teschio e gli
occhi erano cerchiati di nero.
Sieben si inginocchiò vicino al ragazzo e gli sfiorò la spalla. Kells si svegliò
immediatamente e spalancò gli occhi. «Va tutto bene, ragazzo. Sono venuto con un
dono da parte di lord Klay.»
«Egli è morto,» disse il bambino.
«Tuttavia io ti porto il suo dono. Alzati.» disse Sieben. I movimenti e le voci
svegliarono la donna sulla sedia.
«Cosa sta succedendo?» gli chiese. «È andata?»
«Non è andata,» rispose Sieben. «Al contrario sta per tornare a casa.» Si girò
verso Kells. «Prendi la mano di tua madre.» Il ragazzino ubbidì. Sieben si inclinò
in avanti e appoggiò il palmo della propria mano sulla fronte febbricitante della
donna. La pelle era calda e secca. Il poeta chiuse gli occhi e sentì il potere delle
pietre che fluiva in lui. La donna nel letto emise un debole lamento e l’Abate si
avvicinò osservando meravigliato i cerchi sotto gli occhi che sparivano. I muscoli e
la carne presero a formarsi nuovamente sotto la pelle facendo sì che le ossa del
volto divenissero sempre meno sporgenti a ogni istante che passava. Dopo qualche
secondo il viso della donna tornò ad assumere un aspetto sano. I capelli, che prima
erano secchi e smorti, ora brillavano sul cuscino. Sieben fece un profondo respiro e
arretrò di un passo.
«Sei un angelo della Fonte?» gli chiese la donna magra.
«No, sono solo un uomo,» rispose il poeta, quindi si inginocchiò davanti al
ragazzino che aveva le lacrime agli occhi. «Lei è guarita, Kells. Ora dorme.
Vorresti aiutarmi a guarire anche le altre persone qua dentro?»
«Sì. Sì, lo voglio. È stato lord Klay a mandarti?»
«Sì, in un certo senso.»
«Mia mamma vivrà?»
«Sì, vivrà.»
Insieme a Sieben il ragazzo si mosse di letto in letto e quando giunse l’alba
l’ospizio fu pervaso dai suoni delle risate gioiose dei malati risanati.
Ma tutto ciò non interessava Druss che continuava a rimanere seduto
nell’ufficio spoglio. Era riuscito a tenere un forte pur avendo contro un esercito,
ma non era riuscito a evitare la morte di un amico. Poteva attraversare l’oceano e
combattere in centinaia di battaglie. Poteva resistere a qualsiasi uomo vivente, però
Klay era morto.
Si alzò dalla sedia e guardò fuori dalla finestra. La luce dell’alba illuminava la
fontana di marmo bianco circondata da un cordone di rose cremisi; i digitali
porpora crescevano in mezzo ai tappeti di fiori gialli piantati lungo i bordi dei
vialetti sinuosi del giardino sottostante. «Non è giusto,» disse Druss ad alta voce.
«Non mi ricordo di aver mai sentito dire da qualcuno che Io fosse,» rispose la
voce dell’Abate.
«Quella quadrella era diretta a me, Padre. Invece ha centrato Klay. Perché io
sono vivo e lui è morto?»
«Non esistono risposte a certe domande, Druss. Molta gente lo ricorderà con
affetto. Ci sarà anche qualcuno che cercherà di emulare le sue imprese. Nessuno è
destinato a rimanere a lungo su questa terra. Ti piacerebbe vedere la sua lapide?»
«Sì.»
I due uomini si recarono nel giardino che si trovava sul retro dell’edificio. l’aria
era profumata e il sole illuminava il cielo del mattina. La tomba di Klay si trovava
a fianco di un muro di pietra sotto un vecchio salice piangente. La lapide era
composta da una lunga lastra rettangolare di marmo bianco piantata a terra su cui
erano state incise le parole:

Qualsiasi cosa buona io possa fare, fatemela fare adesso,


poiché non potrò più passare di qua.

«È una frase presa da un testo antico,» gli spiegò l’abate. «Lui non l’aveva
chiesta, ma io ho pensato che fosse adatta.»
«Sì, è adatta,» concordò Druss. «Dimmi, chi è la donna che Klay voleva che
fosse salvata?»
«È una prostituta che lavora nei quartieri sud, se ho ben capito.»
Druss scosse la testa senza dire nulla.
«Tu pensi che una prostituta non sia degna di essere salvata?» gli chiese
l’Abate.
«Non direi né penserei mai una cosa simile,» rispose Druss. «Ma ho appena
partecipato a una battaglia dove sono morte centinaia di persone. Sono tornato qua
e ho trovato un grande uomo morto. Qual è stato il risultato dei miei sforzi? Ho
fatto sì che una prostituta tornasse a lavorare nei quartieri sud. Io torno a casa,»
disse tristemente. «Vorrei non essere mai venuto a Gulgothir.»
«Se non l’avessi fatto non avresti conosciuto Klay e questa sarebbe stata una
mancanza per entrambi. Ti consiglio di ricordarlo per quello che era e pensare a lui
mentre vivi la tua vita. Può darsi che venga un giorno in cui tu attingerai a questi
ricordi per far del bene a qualcun altro, proprio come avrebbe fatto lui.»
Druss fece un profondo respiro, fissò ancora una volta la lapide e si girò.
«Dov’è il mio amico? Dovremmo partire presto.»
«Lui e sua moglie sono già partiti Druss. Ha detto che sta riportando le pietre a
un uomo chiamato Talismano e che vi incontrerete lungo la strada.»

Talismano, Gorkai e Zhusai raggiunsero la cresta del pendio polveroso e


fermarono le loro cavalcature. Sotto di loro il campo delle Teste di Lupo del nord
si stendeva per tutta la vallata.
«Siamo a casa,» disse Talismano.
«Adesso, forse, mio generale,» disse Gorkai, «puoi dirci perché abbiamo
cavalcato così duramente?»
«Questo è il Giorno del Lupo di Pietra, tutti i capi delle Teste di Lupo si
riuniranno qua. La cerimonia avrà luogo a mezzogiorno nella Grotta Alta.»
«E tu devi essere là?»
«Oggi mi presenterò alla mia gente e mi riprenderò il mio nome nadir. Quando
tornai dall’accademia quel diritto mi venne negato dagli anziani perché pensavano
che l’educazione dei gothir mi avesse influenzato in qualche modo. Nosta Khan mi
chiamò Talismano e mi disse che avrei potuto avere il mio nome nadir il giorno in
cui avessi trovato gli Occhi di Alchazzar.»
«Quale nome hai scelto, amore mio?» gli chiese Zhusai.
«Non ho ancora deciso. Avanti entriamo nel campo.» I tre scesero lungo il
pendio.
Nosta Khan aveva osservato la scena dalla bocca della Caverna Alta. Provava
delle emozioni contrastanti. Avvertiva la presenza degli Occhi, chiaro segno che
Talismano aveva portato a termine la sua missione. Per lui quel fatto era fonte di
grande gioia, poiché ridando potere al Lupo di Pietra il Giorno dell’Unificatore
diventava incredibilmente vicino. Tuttavia provava anche della rabbia, Talismano
aveva disubbidito ai suoi ordini e aveva preso la donna. Adesso che lei era incinta
era praticamente inutile alla causa. C’era solo una soluzione e per quanto fosse
triste Nosta Khan valutò di non avere altre scelte: malgrado il suo coraggio e le sue
capacità Talismano doveva morire, dopodiché avrebbe dato a Zhusai delle pozioni
a base di erbe abortive. Forse non era ancora tutto perduto.
Si alzò in piedi ed entrò nella caverna. La grotta era di forma sferica e dall’alta
volta scendevano, simili a lance, delle grosse stalattiti. Il Lupo di Pietra era stato
scolpito secoli prima nella roccia della parete più lontana della caverna e ora
aspettava coi le fauci spalancate e le orbite vuote.
Oggi a mezzogiorno, anche se per poco tempo, gli Occhi sarebbero tornati a
brillare. Erano troppo potenti per essere lasciati nella statua dove sarebbero stati
una facile preda per qualsiasi ladro coraggioso. No, da quel momento in avanti gli
Occhi di Alchazzar sarebbero stati custoditi da Nosta Khan in persona, scia mano
delle Teste di Lupo.
Tre accoliti entrarono nella caverna portando dei fasci di torce che piazzarono
nei sostegni arrugginiti piantanti nella roccia intorno al Lupo di Pietra.
Nosta Khan tornò all’entrata della caverna e osservò la colonna di persone che
si avvicinava con passo sicuro. «Accendete le torce,» ordinò agli accoliti.
Tornò vicino alla statua, vi si sedette davanti, chiuse gli occhi e focalizzò il suo
potere. Oggi sarebbero stati presenti più di quaranta capi, ma nessuno di loro aveva
gli occhi viola. Dopo la cerimonia li avrebbe interrogati uno a uno. L’uomo con gli
occhi viola si trovava da qualche parte nelle steppe e con il potere degli Occhi
sarebbe riuscito a trovarlo.
I capi arrivarono nella caverna e si sedettero in semicerchio a sei metri dal
Lupo di Pietra. Ogni capo aveva i suoi campioni, dei guerrieri scelti che stavano
alle sue spalle con le mani sulle else delle spade pronti a reagire al minimo segno
di tradimento. Siamo veramente un popolo diviso, pensò Nosta Khan.
Quando tutti i capi furono presenti Nosta Khan si alzò. «Questo è un grande
giorno,» disse all’assemblea. «Ciò che un tempo scomparve è tornato a noi. Oggi è
il primo giorno dell’Unificatore. Gli Occhi di Alchazzar sono stati ritrovati!»
Un brusio si levò dalla folla che entro pochi secondi tornò a essere silenziosa.
«Vieni avanti, Talismano,» gli ordinò lo sciamano.
Talismano si alzò, si fece strada tra i suoi compatrioti e si fermò a fianco di
Nosta Khan. «Questo è l’uomo che ha guidato i difensori del santuario di Oshikai
Flagello del Demone. Questo è l’uomo che ha sconfitto i gajin. Oggi prenderà con
orgoglio il suo nome nadir e verrà ricordato come uno degli eroi delle Teste di
Lupo.» Si girò verso Talismano e gli disse: «Dammi gli Occhi, ragazzo mio.»
«Tra un momento li avrai,» affermò il giovane condottiero, quindi si girò verso
l’assemblea. «Il santuario di Oshikai è ancora in piedi,» disse ad alta voce. «È
ancora in piedi perché i guerrieri nadir hanno puntato in alto e sono stati fieri e
orgogliosi. In questo luogo io lodo Bartsai, capo delle Corna Ricurve, morto per
difendere le ossa di Oshikai. In questo luogo io lodo Kzun dei Lupi Solitari che fu
ucciso mentre guidava i Corna Ricurve nella difesa del più sacro dei nostri
santuari. Lodo anche Quing-chin dei Pony Veloci che è stato accecato, mutilato e
massacrato dai gajin. Qua, in questo luogo, io lodo Lin-tse dei Corridori del Cielo
e porto tra le file delle Teste di Lupo un nuovo guerriero. Vieni avanti, Gorkai.»
Gorkai si alzò in piedi e si diresse verso Talismano portando un pesante
martello appoggiato a una spalla. «Questo è Gorkai, un tempo era un Notas, ora è
una Testa di Lupo.
«Nosta Khan ha detto che il Giorno dell’Unificatore è vicino e ha ragione. È
tempo di mettere da parte le stupidità del passato. Guardatevi! Siete Teste di Lupo,
tuttavia sedete qua con i vostri campioni per paura che il fratello al vostro fianco vi
possa uccidere. Paura giustificata! Poiché se vi fosse data la possibilità non
esitereste un attimo a uccidervi a vicenda al fine di guadagnare più potere. Tutti gli
uomini presenti qua sono nemici tra di loro. È la peggiore delle follie. Mentre i
gothir si arricchiscono, noi moriamo di fame. Mentre i gothir distruggono i nostri
villaggi, noi ci facciamo la guerra a vicenda. Perché? Siamo un popolo di stupidi?
«Secoli fa, i saggi del popolo nadir commisero un tremendo errore. Privarono la
terra della sua magia per rinchiuderla in questi,» disse, e contemporaneamente tirò
fuori gli Occhi di Alchazzar da una tasca del suo giustacuore. Alzò la mano e i
gioielli brillarono alla luce delle torce.
«Il potere delle steppe e delle montagne,» disse. «La magia degli dèi della
pietra e dell’acqua intrappolata qua... con questi gioielli porpora ogni uomo
potrebbe diventare un khan. Potrebbe diventare immortale. Io ho sperimentato il
loro potere su di me. Durante l’assedio sono stato ferito gravemente ma non ho
neanche una cicatrice.»
Tutti gli occhi erano puntati suoi gioielli e Talismano percepiva la brama di
potere celata in quegli sguardi.
«Gli Occhi di Alchazzar!» urlò e la sua voce echeggiò nella caverna. «Ma c’è
qualcuno di voi che crede che Bartsai, Kzun o Quing-chin siano morti per far sì che
qualche sconosciuto capo delle Teste di Lupo potesse detenere il potere degli dèi
della pietra e dell’acqua? C’è qualcuno che si sente degno di tale potere? Se c’è
che si faccia avanti e ci spieghi perché pensa di meritare tale onore!»
I capi si scambiarono delle occhiate tra di loro, ma nessuno si mosse.
Talismano si girò e si avvicinò al Lupo di Pietra, rimise i gioielli nelle orbite,
quindi si girò nuovamente e fece un cenno a Gorkai che gli lanciò il martello. Il
giovane nadir l’afferrò al volo.
«No!» urlò Nosta Khan.
Talismano fece un passo indietro quindi calò il martello sulla testa della statua
con tutta la forza che aveva frantumandola. In quel momento una vampata di luce
porpora scaturì dai gioielli investendo il giovane condottiero e tutta la caverna. Dei
fulmini balenarono tra le stalattiti e un boato simile all’eco dei tuoni fece tremare il
pavimento.
La polvere si staccò dal soffitto. Le particelle illuminate dalla luce dei gioielli
sembrarono tanti diamanti in sospensione nell’aria. Quando la polvere si posò a
terra, Talismano lasciò cadere il martello e fissò il cranio infranto del Lupo di
Pietra. Gli Occhi di Alchazzar erano scomparsi.
«Cosa hai fatto?» urlò Nosta Khan, quindi corse da lui e l’afferrò per un
braccio. Talismano si girò, lo sciamano ebbe un singulto e arretrò a bocca aperta
sbattendo velocemente le palpebre.
Gorkai si fece avanti... e si fermò. Gli occhi di Talismano erano cambiati, era
come se la sfolgorante luce viola dei gioielli si fosse per sempre impressa nelle sue
pupille.
«I tuoi occhi...» sussurrò Gorkai.
«Lo so,» disse Talismano.
Superò lo stupefatto sciamano e si fermò di fronte ai capi che lo fissavano
colmi di timore reverenziale.
«Oggi io prendo il mio nome nadir,» disse. «Da oggi Talismano non esiste più.
È morto quando la magia dei gioielli è tornata alla terra. Da questo giorno in avanti
io sono Urlic delle Teste di Lupo.»
DROS DELNOCH

Trent’anni dopo

Druss la Leggenda, seduto a fianco del giovane soldato di nome Pellin,


concluse il suo racconto con una risata. «Così, alla fine,» disse, «noi compimmo
tutti quegli sforzi per salvare una prostituta! A Sieben non sembrò importare molto,
aveva Niobe, la portò a casa sua e le comprò un bellissimo braciere. Era una brava
donna, visse ancora dieci anni dopo la morte del marito. Lui non le fu fedele, ma
non credo che Sieben conoscesse il significato della parola fedeltà. Tuttavia era un
uomo leale e questo credo che valga molto.»
Calvar Syn il chirurgo si avvicinò a Druss. «Il ragazzo è morto, Druss,» gli
disse.
«Lo so che è morto, dannazione a te! Tutti muoiono intorno a me.» Diede un
buffetto sulla mano di Pellin e si alzò. «Ha combattuto bene. Era spaventato, ma
non è scappato. Ha mantenuto la sua posizione come dovrebbe fare ogni uomo.
Pensi che abbia sentito la mia storia?»
«È difficile dirlo. Forse. Adesso dovresti riposare. Non sei più un ragazzo.»
«Sì, è la stessa cosa che mi hanno detto Rek, Hogun e tutti gli altri. Presto
riposerò a lungo. Tutti lo faremo. Sono tutti morti i miei amici, sai. Io uccisi
Bodasen personalmente e Sieben cadde al Passo di Skeln.»
«E Talismano? L’hai più rivisto?»
«No. Credo che sia morto in una delle tante battaglie di Urlic.»Druss si sforzò
di sorridere e si passò la mano raggrinzita sulla barba grigia. «Sarebbe stato
orgoglioso di vedere le tribù riunite combattere davanti alle mura di Dros Delnoch,
vero?»
«Riposati, vecchio,» gli ordinò Calvar Syn. «Altrimenti domani potresti trovarti
sdraiato in uno di questi letti e non seduto a fianco.»
«Va bene, chirurgo.»
Prese la sua ascia, uscì dall’ospedale, salì sugli spalti e fissò il campo dei nadir
che si stendeva a perdita d’occhio.
Tre dei sei grandi muri erano caduti e Druss si trovava sopra la torre del Muro
Quattro. «A cosa stai pensando, vecchio cavallo?» gli chiese Arciere, uscendo
dall’ombra.
«Urlic mi ha messo in guardia dicendomi che il suo sciamano ha previsto che io
morirò qua... vicino a questo cancello. Mi sembra un buon posto.»
«Non morirai, Druss. Sei immortale, tutti gli uomini Io sanno.»
«Io sono vecchio e stanco, ecco cosa sono,» affermò Druss. «E lo sapevo prima
ancora di accettare di partecipare alla battaglia che questa sarebbe stata la mia
tomba.» Ghignò. «Ho fatto un patto con la morte, ragazzo.»
Arciere rabbrividì e cambiò discorso. «A te piace, vero? Voglio dire, Urlic.
Cosa ti ha detto?»
Druss non rispose. Dopo l’incontro con Urlic qualcosa aveva continuato a
tormentarlo, ma non era ancora riuscito a capire cosa fosse.
Né ci sarebbe mai riuscito...

Alcuni giorni dopo, Urlic, solo nella sua tenda ripensava al-l’ uomo con l’ascia
e al loro incontro tra i muri Uno e Due.
In quell’occasione il sole brillava alto nel cielo e il nemico si era ritirato da
Eldibar, il Muro Uno. Urlic si era recato nello spazio di terreno tra le due mura,
aveva disteso un tappeto porpora e si era seduto. Dei guerrieri gli avevano portato
un piatto di datteri, del formaggio e un otre di vino e il Gran Khan era rimasto ad
aspettare.
Aveva osservato Druss che veniva calato dagli spalti del Muro Due. Sembrava
vecchio e la sua barba grigia brillava al sole. Mi riconoscerai, Druss? aveva
pensato. No, come potresti? Il giovane dagli occhi scuri e dal volto fresco che
aveva conosciuto trent’anni prima era ora un guerriero dagli occhi viola con il
corpo pieno di cicatrici. Quando l’uomo si era avvicinato Urlic aveva sentito il suo
cuore battere all’impazzata. Druss aveva portato con sé Snaga, la temibile ascia
con cui al santuario di Oshikai aveva falciato un gran numero di nemici. La userai
su di me? si era chiesto Urlic? No, concluse. Sei sempre stato un uomo d’onore.
«Sono uno straniero nel tuo campo,» aveva detto il vecchio.
«Benvenuto, straniero, siediti e mangia,» l’aveva invitato Urlic. Druss si era
seduto a gambe incrociate davanti a lui. Il Khan di tutti i nadir si era tolto
lentamente il piastrone della corazza, gli schinieri e le protezioni degli avambracci.
«Io sono Urlic delle Teste di Lupo.»
«Io sono Druss dell’Ascia.» I chiari occhi azzurri del drenai si erano socchiusi e
avevano fissato con attenzione il Gran Khan.
Che mi abbia riconosciuto? si era chiesto Urlic. Diglielo! Parla con lui. Dai
voce alla tua gratitudine.
«Ben incontrato! Mangia,» aveva detto Urlic.
Druss aveva preso una manciata di datteri dal piatto d’argento davanti a lui e li
aveva masticati lentamente, dopodiché aveva assaggiato un pezzo di formaggio di
capra e aveva innaffiato il tutto con una sorsata di vino rosso. Nell’assaggiare
quest’ultimo aveva inarcato le sopracciglia e aveva sorriso.
«Rosso di Lentria,» gli aveva detto Urlic. «E non è avvelenato.»
«È molto difficile uccidermi. È uno dei miei talenti.»
«Hai combattuto bene e io sono contento per te.»
«Mi dispiace che tuo figlio sia morto. Io non ho figli, ma so quanto sia duro
perdere qualcuno che si ama.»
«È stato un brutto colpo,» aveva ammesso Urlic. «Era un bravo ragazzo. Ma la
vita è crudele, non trovi? Un uomo deve essere in grado di superare il dolore.»
Druss era rimasto zitto e aveva mangiato un’altra manciata di datteri.
«Sei un grande uomo, Druss. Mi dispiace che tu debba morire qua.»
«Sì, sarebbe bello vivere per sempre. D’altro canto però, sto diventando lento.
Qualcuno dei tuoi uomini è andato molto vicino a ferirmi, è molto imbarazzante
per me.»
«C’è un premio per colui che ti ucciderà, cento cavalli prelevati dalle mie
stalle.»
«Cosa dovrà fare quell’uomo per provare che mi ha ucciso?»
«Portarmi la tua testa e avere due testimoni che l’hanno visto ucciderti.»
«Non permettere che questa informazione raggiunga i miei uomini. Essi lo
farebbero per cinquanta cavalli.»
«Penso di no! Hai fatto un ottimo lavoro. Che individuo è il nuovo Conte?»
«Avrebbe preferito un benvenuto meno rumoroso, ma penso che si stia
divertendo. Combatte bene.»
«Come tutti voi. Ma non sarà sufficiente, comunque.»
«Lo vedremo,» aveva risposto Druss. «Questi datteri sono molto buoni.»
«Pensi veramente di potermi fermare? Dimmelo onestamente, Morte che
cammina.»
«Mi sarebbe piaciuto combattere sotto il tuo comando,» aveva detto Druss.
«Sono anni che ti ammiro. Ho servito molti re. Alcuni erano deboli altri testardi.
Molti di loro erano dei brav’uomini, ma tu... tu hai il marchio della grandezza. Io
penso che alla fine otterrai tutto ciò che vuoi... ma non finché io rimarrò in vita.»
«Tu non vivrai a lungo, Druss,» aveva detto Urlic con calma. «Abbiamo uno
sciamano che può guardare nel futuro e mi ha detto che ti ha visto difendere i
cancelli del Muro Quattro, Sumitos, come credo voi lo chiamiate, e ha visto il
teschio ghignante della morte aleggiare sopra le tue spalle.»
Druss aveva riso di gusto. «La morte aleggia sempre vicina a me, Urlic! Io sono
colui che cammina con la morte. Il tuo sciamano non conosce le vostre leggende?
Io potrei scegliere di morire a Sumitos. Potrei scegliere di morire a Musif, ma
ovunque io scelga di morire, sappi questo: io camminerò nella Valle delle Ombre
in compagnia di un gran numero di nadir.»
«Ed essi saranno orgogliosi di camminare al tuo fianco. Va in pace,» l’aveva
congedato.
Qualcuno entrò nella sua tenda allontanandolo dai ricordi. Era Ogasi il suo
luogotenente, il figlio di Gorkai che ormai era morto da anni. Il giovane lo salutò
portando il pugno al petto. «La pira è pronta, lord,» annunciò.
Urlic fece un profondo respiro e uscì nella notte.
Il corpo di Druss la Leggenda era stato composto in cima alla pira con le
braccia incrociate sul petto e la grossa ascia tra le mani. Nel guardare il cadavere,
Urlic sentì il dolore che si prova quando si viene privati di qualcosa d’importante.
Druss aveva ucciso il campione nadir, Nogusha, in un combattimento corpo a
corpo, ma il campione aveva imbevuto di veleno la sua spada. Quando i nadir
erano tornati all’attacco Druss si era difeso strenuamente malgrado stesse già
morendo finché alla fine i nadir l’avevano circondato e ucciso.
«Perché gli rendiamo onore, lord?» gli chiese Ogasi. «Era un gajin. Un nostro
nemico.»
Urlic sospirò. «Egli combatté con me e tuo padre al santuario di Oshikai. Lui
mi aiutò a riportare la magia alla terra. Senza di lui non ci sarebbe stato nessun
esercito nadir e forse neanche un futuro per la nostra gente.»
«Allora è stato più folle di quello che pensavo, si è rovinato con le sue mani,»
osservò Ogasi.
Urlic soffocò l’impeto di rabbia che sentì crescere in lui. Ogasi era un guerriero
leale e coraggioso, ma non avrebbe mai capito la grandezza di uomini come Druss
la Leggenda.
«Sono stato onorato di aver combattuto al suo fianco e mi sento anche
privilegiato,» affermò Urlic. «È stato un uomo che ha sempre combattuto per ciò in
cui credeva e non gli importava nulla se le probabilità erano tutte contro di lui. So
che tu odi i gajin, Ogasi. Ma Druss era speciale, egli ha trasceso la sua razza.
Molto tempo fa io attraversai il Vuoto con lui e Oshikai per salvare l’anima di
Shul-sen. Si, egli ci ha combattuto, ma non ci odiava. Era un grande uomo, e per
una volta, amico mio, onoralo per me.»
«Lo farò, lord,» disse Ogasi. Il guerriero rimase zitto per un attimo quindi
sorrise. «Per gli dèi della pietra e dell’acqua bisogna dire che sapeva combattere,
eh?»
«Già,» disse Urlic con calma. «Sapeva combattere.»

Fine.

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