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TOMMASO D’AQUINO

maestro spirituale J.-P.


Torrell

Tommaso d’Aquino è
indubbiamente conosciuto come
filosofo. Spesso si dimentica che egli
è anche e soprattutto mistico e
teologo, tanto più spirituale quanto
più rigorosamente dottrinale. E, in
un certo senso, proprio la chiarezza
delle sue prese di posizione
intellettuali, filosofiche e teologiche
che si riflette e confluisce in un
atteggiamento religioso capace di
rivelare l’appassionato mistico
dell’assoluto. Il “pre-giudizio”
intellettuale che contraddistingue
l’opinione comune su Tommaso è
dovuto, in realtà, alla non
conoscenza e, talvolta, all’incapacità
di saper leggere la sua opera con la
sua stessa attitudine religiosa. Forte
della sua profonda conoscenza del
pensiero e dell’opera dell’Aquinate,
J.-P. Torrell si propone di ampliare
tali giudizi, offrendo una lettura
assolutamente originale e
innovativa. Non limitandosi ai testi
classici delle opere sistematiche,
dopo aver delineato il campo
specifico della teologia spirituale
secondo Tommaso, l’autore fa
emergere i contenuti di tale
spiritualità nei nuclei principali in
cui si sviluppa la riflessione
teologica del maestro d’Aquino: dal
rapporto dell’uomo con Dio-Tri-
nità nella Chiesa al radicamento
dell’uomo nella storia della salvezza.
A servizio di tutto ciò è un’analisi
diretta, attenta e puntuale degli
scritti di Tommaso, anche dei meno
conosciuti e considerati, come i
commenti scritturistici.
Con la dichiarata rinuncia alle
sottigliezze tecniche in favore di un
maggior rigore scientifico, e con il
rifiuto di ogni forma di apologia, si
porta l’attenzione su una spiritualità
ricca di contenuti cristiani: un
«giardino segreto» nel pensiero di
Tommaso d’Aquino che merita di
essere esplorato.

Jean-Pierre Torteli, o.p., è professore


ordinario presso la facoltà di Teologia
dell’Università di Friburgo (Svizzera).
È uno dei maggiori esperti, in campo
internazionale, di Tommaso d’Aquino,
sul quale ha pubblicato numerosi testi.
Si segnala in particolare Tommaso
d’Aquino. L’uomo e il teologo, Casale
Monferrato 1994.

Città Nuova
ISBN 88-311-311-3334-9

Í 31,00 Li.
COLLANA DI TEOLOGIA

34

Jean-Pierre Torrell

TOMMASO D’AQUINO
maestro spirituale
JEAN-PIEKRE TOKRELL

TOMMASO
D’AQUINO
maestro spirituale

O
Città Nuova
Titolo originale:
Saint Thomas à’Aquin - maître spirituel
Editions Universitaires Fribourg Suisse,
1996
© 1996, Jean-Pierre Torrell
Traduzione dal francese di
Giovanni Matera
in collaborazione con
Adriano Oliva

Copertina di Gyòrgy Szokoly


© 1998, Città Nuova Editrice
Via degli Scipioni 265 - 00192 Roma
Con approvazione ecclesiastica
ISBN 88-311-3334-9

Finito di stampare nel mese di febbraio 1998


dalla tipografìa Città Nuova della P.A.M.O.M.
Largo Cristina di Svezia, 17
00165 Roma - tei. 5813475/82
Premessa

A chi conosce san Tommaso soltanto per sentito dire, può


sembrare sorprendente vederlo presentare come maestro spirituale. L!
autore della Somma di teologia è certamente conosciuto come
intellettuale di alto livello, ma non come mistico. A rischio di
sorprendere ancora di più, non bisogna temere di dirlo, questa fama è
in parte ingannevole. Colui che a volte sembra conosciuto soltanto per
la sua filosofia è anche e anzitutto un teologo, commentatore della
Sacra Scrittura, uditore attento dei Padri della Chiesa, preoccupato
delle ripercussioni pastorali e spirituali del suo insegnamento. I suoi
discepoli lo sanno bene e si sforzano da tempo di facilitare l’accesso
al giardino segreto del loro Maestro.
La lista degli autori che hanno tentato di rivelare questo
Tommaso misconosciuto sarebbe troppo lunga, ma non si può tacere
nel passato il nome di Louis Chardon (1595-1651) e la sua Croix de
Jésus, opera il cui stile ne fa un capolavoro e che si ispira in modo
molto personale alle grandi tesi tomiste 1. Più vicino a noi, il padre
Mennessier ha pubblicato successivamente due antologie di testi di fra
Tommaso che hanno avuto un buon successo 2 Si sa anche che quasi
quarantanni fa - ma il libro è costantemente ripubblicato - il padre
Chenu non ha temuto di scrivere un libro su san Tommaso per la
1 L. CHARDON, La Croix de Jésus, dove vengono trattate le più belle verità della
teologia mistica e della grazia santificante (Paris 1647), nuova edizione, Introduzione
di F. FLORAND, Paris 1937; per una presentazione dell’opera e qualche riserva si può
vedere Y. CONGAR, Les voies du Dieu vivant, Paris 1962, pp. 129-141; oltre Chardon,
occorrerebbe citare tutta una serie di autori del XVI secolo, cf. J.-P. TOR- RELL, La
théologie catholique («Que sais-je? 1269»), Paris 1994, pp. 39-41.
2 A.-I. MENNESSIER, Saint Thomas d’Aquin, Paris 1942, 19572; Saint Thomas
d’Aquin. L’homme chrétien («Chrétiens de tous les temps 11»), Paris 1965; la prima di
queste raccolte è centrata sulle condizioni e l’organicità del progresso spirituale, la
seconda è più attenta all’economia della salvezza e alla condizione dell’uomo
peccatore; in entrambi i casi, introduzioni e commenti aiutano a ben comprendere i
testi.
5
collezione «Maîtres spirituels» 3. Più recentemente, il Dictionnaire de
spiritualité gli consacrava un ampio studio 4 e, poco dopo, La Vie
spirituelle gli dedicava un numero speciale 5. Redigendo Tommaso
d’Aquino. L’uomo e il teologo, pubblicato qualche anno fa, ho avuto
modo io stesso di rendermi conto che questo era un aspetto veramente
troppo poco conosciuto della personalità e della dottrina del Maestro
d’Aquino, il quale meritava di essere valorizzato 6.
Nella scia dell’evangelista Giovanni e dei Padri della Chiesa, la
teologia di Tommaso d’Aquino ha un orientamento nettamente
contemplativo ed è tanto profondamente spirituale quanto dottrinale.
Si può anche dire, a nostro avviso, che essa è tanto più spirituale
quanto più è rigorosamente dottrinale. E la chiarezza stessa delle sue
prese di posizione intellettuali, filosofiche e teologiche, che si riflette
immediatamente in un atteggiamento religioso che non ha eguali se
non in quello del più appassionato mistico dell’assoluto. Tommaso
stesso ne sarà testimone alla fine della sua vita, quando abbandonerà
la «paglia» delle parole per il «grano» della realtà definitiva. Questo
stesso esempio ri mostra che non è necessario aggiungere dei
complementi alla sua teologia perché susciti la devozione: basta
andare fino alle sue esigenze ultime.
Se si è già letto il primo abbozzo offerto tempo fa nel
Dictionnaire de spiritualité, risulterà subito chiaro che si ritrovano
qui molti temi incontrati allora. Queste linee di fondo, strutturanti il
pensiero di Tommaso, non sono evidentemente cambiate e nessuno ha
contestato quella presentazione. Noi non cerchiamo l’originalità a
tutti i costi, ma speriamo di dare più ampiezza ad alcuni temi trattati
in maniera succinta nel precedente lavoro. Tarleremo anche di altri
soggetti cui si era allora solo alluso o di cui non si era fatta menzione.
La nostra ambizione non consiste però nel voler ricostruire quella
dottrina spirituale che Tommaso non ha ritenuto utile scrivere, ma,
più semplicemente, nel voler far emergere alcune grandi linee di tale
3 M.-D. CHENU, Saint Thomas d'Aquin et la théologie («Maîtres spirituels 17»),
Paris 1959 [ripreso in italiano nella serie «Ritorno alle fonti», collana di spiritualità
della Comunità diBose, n.d.t.).
4 J.-P. ToKRELL, Thomas d’Aquin (saint), DS 15 (1991) 718-773; vedi
soprattutto la seconda parte: «Théologie spirituelle», coll. 749-773.
5 Saint Thomas d’Aquin, Maître spirituel?, «La Vie spirituelle», nov.-dic.
1993.
6 J.-P. TOERELL, Tommaso d’Aquino. L'uomo e il teologo, Ed. Piemme, Casale
Monferrato 1994.
6
spiritualità e facilitare così l’accesso a questa ricchezza nascosta.
Malgrado ciò, non potremo dire tutto, e più di una volta
occorrerà rinunciare ad andare in fondo a tutte le piste aperte. Chi è
addentro si accorgerà indubbiamente che tentiamo di rispettare al
massimo le grandi opzioni dottrinali, ma senza sentirci obbligati a
riprenderle tutte e in ciascun dettaglio, né a entrare troppo in
discussione con dotti ed eruditi. Senza ignorare completamente i
retroscena di alcune posizioni e le legittime diversità tra i suoi
discepoli, noi preferiamo citare ampiamente i testi stessi del Maestro.
Meno difficili, nel loro rigore tecnico, di quanto non si dica, essi sono
spesso molto belli e testimoniano precisamente quella spiritualità che
vogliamo far cogliere.
Ci si interrogherà forse sull’originalità di tale spiritualità e
forse anche sulla sua esistenza. Si noterà spesso, in effetti, l’origine
giovannea, paolina o agostiniana di tale o tal altra attitudine, idea o
raccomandazione. Esiste veramente una spiritualità propria di san
Tommaso?... Ci sia permesso lasciare aperta questa domanda
all’inizio di questo libro. Essa dovrebbe ricevere progressivamente la
sua risposta nel corso dei capitoli successivi, ma non si cercherà di
stabilirla con spirito sistematico. Niente era più estraneo allo spirito
di Tommaso che l’ideologia o l’apologetica. Sarebbe strano lodarlo
con argomenti la cui debolezza sarebbe egli il primo a vedere. La sua
verità è tanto bella da non aver bisogno dei nostri orpelli.
Forse è utile aggiungere che non bisogna cercare in queste
pagine propositi edificanti. Noi certamente vogliamo essere accessibili
alla maggior parte dei lettori e perciò tenteremo di evitare le inutili
sottigliezze tecniche, ma, senza mirare all’erudizione, non possiamo
rinunciare al rigore necessario al teologo che cerca di stabilire in
verità i fondamenti di una dottrina. E evidenziare lo sviluppo
spirituale delle grandi tesi toma- siane non significa necessariamente
adottare il tono di un’omelia o di una meditazione. Non intendiamo
deprezzare questi generi letterari, ma piuttosto riconoscere la nostra
incapacità ad adoperarli con disinvoltura. Più fortunati di noi, altri
potranno eventualmente riprendere questo lavoro e ricavarne una
pietà più sensibile al cuore, per raggiungere così un pubblico più
ampio. Nulla più di ciò potrebbe rallegrare il discepolo di san
Tommaso, che non dimentica la «piccola anziana», cui il Maestro
accorda in alcuni casi la precedenza sugli eruditi.
Anche se non è firmato che da un solo autore, un libro non è mai

7
opera del tutto solitaria. È una gioia per me menzionare qui Denise
Bouthillier, Denis Chardonnens e ancor più Gilles Emery, i quali mi
hanno accompagnato con la loro presenza amicale durante questa
redazione e la cui rilettura attenta ed esigente mi ha fornito tanti
preziosi suggerimenti. Gliene sono cordialmente grato.

8
I
Teologia e spiritualità

Per prima cosa dobbiamo intenderci sulle parole. «Spiritualità» è


uno dei termini più fluttuanti della lingua religiosa del nostro tempo.
Se ognuno crede di conoscere il senso che gli dà, questo non è per
forza quello che gli accorda il suo interlocutore. E dunque inutile
servirsene senza precisioni. Avendo però definito prima ciò che si
cerca, ci si accorge rapidamente che, a difetto del senso moderno di
spiritualità 7, in Tommaso si incontra questa medesima realtà, pur non
ricorrendo il termine. Ma prima di arrivarvi occorre ricordare cosa sia
per lui la teologia e in qual modo egli la pratichi. La deviazione di
percorso non è che apparente e ci guiderà direttamente alla conclusione
che si impone.

SACRA DOCTRINA

Conserveremo la parola «teologia», in uso oggi, ma bisogna


sapere che Tommaso non aveva il titolo di professore in teologia, ma
di maestro in Sacra Scrittura (magister in sacra pagina), e che egli
indica il suo sapere come sacra doctrina. Se conosce il termine
theologia, e se ne serve relativamente spesso, egli non lo usa nello
stesso senso in cui noi lo usiamo 8 9. Bisognerà dunque accordare a
questo termine tutta la ricchezza che egli stesso attribuiva alla
locuzione sacra doctrina.
L’espressione sacra doctrina ha un significato molto esteso. Si

7 J.-P. TOKRELL, «Spiritualitas» chez S. Thomas d'Aquin. Contribution à l’histoire


d’un mot, RSPT 73 (1989) 575-584.
81. BIFFI, Per una analisi semantica dei lemmi theologia, theologus, theologizo, in san
Tommaso: un saggio metodologico nell’uso dellTndex Thomisticus, «Teologia»
9 (1978) 148-163, ripreso e amplificato in I. BIFFI, Teologia, Storia e Contemplazione in
Tommaso d‘Aquino. Saggi («La Costruzione della Teologia 3»), Milano 1995 (cap. 3:
«Ricerche su “Teologia” e su “Metaphysica” in san Tommaso»).
9
possono enumerare una decina di sensi che non coincidono
esattamente, ma che possono ricondursi a due grandi ambiti. Nel senso
oggettivo («ciò che» si insegna), essa si applica innanzitutto alla verità
cristiana come corpo di dottrine, e questo in una accezione molto
ampia che va dalla Scrittura alla teologia. In senso attivo (l’azione di
insegnare) doctrina designa tutti gli atti tramite i quali la verità
cristiana giunge fino a noi: l’insegnamento di Dio che si manifesta per
rivelazione, la Tradizione, la predicazione della Chiesa (catechesi
compresa), e, naturalmente, l’insegnamento teologico3.
In fondo, per farsi un’idea molto precisa dell’ampiezza del
campo ricoperto dalla sacra doctrina, è sufficiente considerare l’opera
di Tommaso e la sua attività. Oltre ai grandi libri eruditi quali sono lo
Scritto sulle Sentenze, le opere di sintesi come le due Somme, le lezioni
sulla Sacra Scrittura o i commenti ad Aristotele, occorre ancora
menzionare due ambiti particolari. Da una parte, le risposte a numerose
consultazioni teologiche e le piccole opere composte «su domanda»:
riguardo al prestito ad interesse o al movimento del cuore, le migliori
forme di governo, l’astrologia, le sorti o la magia; questo teologo nel
suo tempo era consultato sui più disparati argomenti 10 11. Dall’altra
parte, vi è la sua opera di predicatore che, senza farne un grande
oratore, permette di percepire meglio il legame che si stabiliva quasi
spontaneamente in lui tra le diverse forme del servizio della Parola di
Dio12.
Sacra doctrina comprende tutto ciò, per san Tommaso, ed egli
non si sentiva certamente meno teologo sul pulpito del predicatore che
sulla cattedra di professore; ma per attenerci alla forma più elaborata in
cui egli ha praticato questa doctrina, bisogna sapere che si possono
distinguere in essa tre linee di forza. In primo luogo la linea
«speculativa» per la quale egli è giustamente rinomato e che è quella
dell’intellec- tus fidei propriamente detto: lo sforzo di comprendere

10 Per maggiori dettagli cf. Y. CONGAR, Tradition et sacra doctrina


chez saint Thomas d’Aquin, in J. BETZ - H. FRIES (edd.), Église et Tradition, Le Puy
1963, pp. 157-194; A. PATFOORT, Thomas d‘Aquin. Les clefs d’une théologie, Paris 1983,
pp. 13-47; J.-P, TOKRELL, La scienza teologica secondo Tommaso e i suoi primi
discepoli, in G. D’ONOFRIO, Storia delh Teologia nel Medioevo, t. II, Piemme, Casale
Monferrato 1996, pp. 849-934.
11 Si troveranno questi «opuscoli» (a volte molto grandi!) nei tt. 40-
43 dell’edizione Leonina (in seguito: Leon.).
12 Abbiamo cercato di mostrarlo in J.-P. TORRELL, La pratique
pastorale d’un théologien du XIIIe siècle. Thomas d’Aquin prédicateur, RT 82 (1982) 213-
245.
10
con la ragione ciò che è conosciuto per fede. Questo primo
orientamento è stato perseguito con predilezione dai grandi
commentatori come Capreolo, Gaetano o Giovanni di San Tommaso,
ma esso è lungi dall’essere l’unico perseguibile; Tommaso ha anche
praticato un’altra linea che oggi chiameremmo «storico-positiva».
L’anacronismo si trova soltanto nelle parole, poiché il fatto è proprio
questo: durante tutta la sua vita Tommaso è stato un commentatore
della Scrittura - anzi era proprio questa la prima forma del suo
insegnamento - e non ha mai cessato di documentarsi su i Padri della
Chiesa e la storia dei Concili13. Questo orientamento è stato troppo
poco coltivato dai suoi discepoli; vi fu addirittura un’epoca in cui lo si
è completamente perso di vista a vantaggio di una esaltazione indebita
dell’apparato filosofico da lui messo in opera. E stato necessario
attendere il nostro tempo per riscoprire le ricchezze dei commenti
scritturistici e rendersi conto che Tommaso doveva molto anche a
sant’Agostino. Vi è infine una terza linea che si può dire «mistica», ma
in un senso che occorre precisare, riscontrabile nel carattere «pratico»
che Tommaso riconosceva alla teologia (e che noi abbiamo preso
l’abitudine di chiamare «teologia morale»).
Questi tre orientamenti maggiori che Tommaso faceva
convergere nell’unità indivisa della sacra doctrina, dopo di lui non
hanno tardato a divergere. Fin dall’inizio del XIV secolo - qualunque
sia peraltro l’interesse che si voglia attribuire a quest’epoca per la
storia del pensiero - tutta una serie di fattori, sui quali non è il caso qui
di soffermarsi, hanno contribuito a quel che l’osservatore è obbligato a
chiamare uno «sbriciolarsi» del sapere teologico nelle diverse
specializzazioni, fino alla sua disintegrazione. Attualmente si constata -
alcuni per deplorarlo, altri per rallegrarsene - l’assenza e anche
l’impossibilità di una sintesi teologica. In realtà noi siamo gli eredi di
un processo di disgregazione cominciato secoli fa14.
La linea speculativa di san Tommaso ha deviato in una «scienza
delle conclusioni» dove l’arte del teologo consisteva nel ricercare
conclusioni nuove tramite il sillogismo, eventualmente definibili da
parte del magistero in virtù, soltanto, della loro certezza teologica.
Questo modo di praticare teologia è oggi così tragicamente fuori moda
che ha trascinato nel suo scomparire la stessa teologia speculativa nel
suo sforzo d’intelligenza della fede. La linea storico-positiva, staccata
13 Cf. Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 73-78 e 161-165.
14 Noi abbiamo ricordato questa storia per sommi capi in La théologie
catholique («Que sais-je? 1269»), Paris 1994, cap. IL
11
dalla precedente - che invero per prima s’era distaccata da questa
seconda - ha evoluto sempre più verso una erudizione storica altamente
specializzata. È certamente la branca della teologia che si è meglio
sviluppata (si pensi al progresso dell’esegesi e della patrologia) e non
si potrebbe far altro che rallegrarsene se la pretesa d’indipendenza
della sua ricerca e dei suoi metodi non l’allontanasse sempre più dalla
teologia propriamente detta, allorché il suo compito non ha senso che
all’interno dell’organicità della teologia. Quanto alla linea mistica, non
essendo più onorata da nessuna delle altre due, essa ha cercato di
erigersi da sé in una branca autonoma con una tendenza anti-
intelletualista ben comprensibile. E così che si è arrivati a una teologia
«ascetica e mistica» cui si devono molte opere (alcune lodevoli,
peràltro) fino alla prima metà del nostro XX secolo. Quando non sono
stati gli autori di manuali che, per compensare l’aridità della loro
teologia, hanno aggiunto essi stessi dei pii corollari alle loro
dimostrazioni. In realtà, una teologia ben intesa deve inglobare questi
diversi aspetti e noi capiremo le ragioni di questo ricordando ciò che è
la teologia alla scuola di san Tommaso, che a sua volta ha seguito un
filone inaugurato da sant’Agostino e da sant’Anseimo.

UNA SCUOLA DI VITA TEOLOGALE

Prima di ogni altra cosa, la teologia è un’espressione della vita


teologale, un’attività che esercita a pieno le virtù di fede, di speranza e
di carità. Se nel seguito di questa ricerca si parla soprattutto della fede,
è per essere brevi e per sottolineare dove si situa il nodo esplicativo di
alcune qualità della teologia, ma deve essere chiaro che questa fede
non è dell’ordine di una pura adesione intellettuale all’insieme di verità
di cui si occupa il teologo. La fede - in san Tommaso come nella
Bibbia - è l’attaccamento vitale di tutta la persona alla stessa Realtà
divina, raggiunta per mezzo della fede attraverso le formule che la
svelano a noi.
Questo legame fra teologia e fede compare già nelle espressioni
correnti: «intelligenza della fede» (intellectus fidei) oppure «la fede
cerca di capire» (fides quaerens intellectum). E per quanto lontano
vogliamo risalire nella storia, i pensatori che hanno riflettuto sul
metodo da loro impiegato hanno espresso tale convinzione. Senza
usare la parola «teologia», che non doveva apparire se non molto più

12
tardi, sant’Agostino parla già di questa sdentiti, «che genera, nutre,
difende e fortifica la fede sovranamente salutare» 8. Nella preghiera
finale della sua grande opera sulla Trinità, quando rende conto a Dio di
ciò che ha voluto fare, egli spiega con garbo: «Dirigendo i miei sforzi
secondo questa regola di fede, nella misura in cui ho potuto farlo io Ti
ho cercato; io ho desiderato vedere con l’intelligenza dò che conoscevo
per fede» 9. Stupisce che anche sant’Anseimo - inventore della formula
fides quaerens intellectum - esprima il suo progetto teologico in una
preghiera: «Io desidero comprendere almeno un po’ la Tua verità, la
Tua verità che il mio cuore crede e ama», e aggiunge questo, che è
molto significativo: «Io non cerco di comprendere per credere, ma io
credo per comprendere (credo ut intelligam)»10.
All’origine di quest’ultima espressione si trova un versetto della
Scrittura letto nella versione dei Settanta: «Se voi non credete, non
comprenderete» 11. Agostino stesso ha ripreso varie volte questo
versetto, ma non ha temuto di formularne l’aspetto complementare:
«Bisogna comprendere per credere, ma occorre anche credere per
comprendere» 12. In Anseimo, come in Agostino, al punto di partenza
vi sono la fede e la sua oscurità, l’intelligenza e il suo desiderio di
sapere, assieme alla certezza che l’una incitando l’altra saranno
beneficiarie entrambe del successo della loro comune impresa. Questo
convincimento è rimasto per secoli un bene comune della teologia; i
teologi contemporanei - come d’altronde quelli del passato - possono
divergere su molti punti, ma se vogliono restare teologi non possono
essere in disaccordo su questo legame della teologia con la fede 13.

«De Trinitate XIV 1, 3 (BA 16, p. 348; NBA 4, p. 465).


9
Ibid., XV 28, 51: «Desideravi intellectu videre quod credidi» (BA 16, p.
564; NBA 4, p. 719).
10
Proslogion I, ed. F.S. SCHMITT, p. 100, in ANSELME DE CANTORBÉRY, Monologion.
Proslogion, intr., trad, e note di M. Corbin, Paris 1986, p. 242.
11
Is 7, 9; l’ebraico invero: «...non avrete stabilità»; cf. traduzione a cura della
Conferenza Episcopale Italiana.
12
Sermone 43,7, 9:PL 38,58.
13
Per non citare che un solo esempio del XX secolo, E. Schillebeeckx parla
della fede come «punto di partenza e fondamento permanente della teologia», e
sviluppa l’idea secondo cui «la fede esige intrinsecamente la teologia», cf. Appro- ches
théologiques, I. Pévélation et théologie, Bruxelles-Paris 1965, pp. 84-90.
Nell’eredità di sant’Agostino e di sant’Anselmo, il pensiero di
san Tommaso si può riassumere affermando che per lui la teologia

13
intrattiene nei confronti della fede una relazione di origine e di costante
dipendenza senza la quale non esisterebbe. Essa non trova lì soltanto il
suo punto di partenza ma la sua ragione d’essere. Senza la fede, non
soltanto la teologia non avrebbe alcuna giustificazione, ma non
avrebbe nemmeno il suo oggetto: la cosa è facile da capirsi poiché solo
la fede permette al teologo di entrare in possesso di questo. Un
parallelo con la filosofia può essere qui illuminante. Se non vi fosse in
noi nessuna possibilità di cogliere il reale, i nostri ragionamenti non
sarebbero che puro artificio. Per quanto fossero logicamente connessi,
essi non esprimerebbero in alcun modo la realtà. La fede costituisce in
noi questa aggiunta di capacità di cui ha bisogno l’intelligenza umana
per essere «all’altezza» del reale divino. Essa ci permette di
raggiungerlo poiché «l’atto del credente non termina alle formule [del
Credo] ma alla stessa realtà [divina]» 15. Senza la fede noi non
saremmo in possesso che di formule vacue e le nostre più belle
costruzioni non sarebbero che botti vuote. Viceversa, con essa si può
veramente iniziare ad essere teologi. A riguardo, Tommaso ha una
straordinaria espressione concernente il suo santo patrono: dal
momento in cui cade in ginocchio ai piedi del Risorto che gli mostra le
sue piaghe, l’apostolo Tommaso, l’incredulo, diventa subito un buon
teologo16.
La fede non aderisce al suo oggetto in modo statico. Animata da
un ardente desiderio proveniente dall’amore per la verità divina, il
quale la penetra da parte a parte fin dai suoi primi balbettìi, la fede è
più e meglio che una semplice accettazione nell’obbedienza della
rivelazione. Essa è animata da un «certo desiderio del bene promesso»
17
, che spinge il credente a dare il suo assenso, malgrado il possibile
timore che l’oscurità da cui resta avvolta la verità divina potrebbe
lasciargli. Questo desiderio, che spinge verso il Bene ancora
imperfettamente conosciuto e che sboccia infine nella carità
pienamente teologale, costituisce il vero motore della ricerca teologica.
San Tommaso lo riassume in un testo giustamente celebre: «Spinto da
un’ardente volontà di credere, l’uomo ama la verità che crede, la

15II-II, q.l, a. 2 ad 2: «Actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile


sed ad rem».
16 In ]oannem 20, lect. 6, n. 2562: «Statim factus est Thomas bonus
theolo- gus veram fidem confitendo».
17 De ver., q. 14, a. 2 ad 10: «quidam appetitus boni repromissi»; cf.
Super Boetium De Tritt., q. 3, a. 1 ad 4, in cui Tommaso sviluppa ciò con maggiore
ampiezza.
14
considera nella sua intelligenza e la circonda del maggior numero
possibile di ragioni che può trovare a tale scopo»18.
Se per un verso ci è impossibile amare qualcosa di cui non
abbiamo previa conoscenza, dall’altro non siamo in grado di conoscere
davvero bene se non ciò che davvero amiamo. Questa massima si
applica evidentemente alle relazioni interpersonali, ed è precisa- mente
per questo che trova la sua realizzazione eminente nel campo della
fede teologale. Se la fede non è concepibile senza amore, è perché essa
non si riferisce a una verità astratta ma ad una persona in cui Bene e
verità si identificano. La Verità prima che forma l’oggetto della fede è
anche il Bene supremo oggetto di tutti i desideri e dell’intero agire
dell’uomo; è per questo che non la si può raggiungere nella sua
globalità se non tramite un movimento complesso da parte nostra che
coinvolge simultaneamente intelligenza e volontà, e che san Paolo
chiama «fede che agisce tramite l’amore» (Gal 5, 6) 19. La conoscenza
che ne avremo non potrà che essere debole e imperfetta, eppure è la più
nobile delle conoscenze che potremmo mai acquisire e che ci darà la
più grande delle gioie20.

TEOLOGIA E VISIONE DI DIO

Tommaso ha offerto una formulazione tecnica del rapporto di


dipendenza che lega la teologia alla fede in quella che per convenzione
chiamiamo la teoria della subalternazione. Essendo stati consacrati a
questo tema numerosi studi dettagliati, sarà sufficiente ricordare di
esso l’essenziale e soprattutto valorizzarne il significato profondo 21.
18 II-II, q. 2, a. 10: «Cum enim homo habet promptam uoluntatem ad cre-
dendum, diligit ueritatem creditam, et super ea excogitat et amplectitur si quas
rationes ad hoc inuenire potest».
19 II-II, q. 4, a. 2 ad 3: «quia ueritas prima, quae est fidei obiectum, est finis
omnium desideriorum et actionum nostrarum..., inde est quod per dilectionem
operatur»; l’ispirazione agostiniana apertamente riconosciuta rinvia qui al De Trincate
I 8, 17 e 10, 20 (cf. BA 15, pp. 130 e 142; NBA 4, pp. 35 e 41; cf. SCG III 25, n. 2064:
«Est igitur ultimus finis totius hominis, et omnium operationum et desideriorum eius,
cognoscere primum rerum, quod est Deus»),
20 Cf. SCG 15 e 8.
21Si potrà completare questo accenno con J.-P. TORRELL, La théologie catholique,
cap. 3, oppure con H.-D. GARDEIL, La méthode de la théologie, in S. THOMAS D’AQUIN, Somme
théologique [della «Revue des Jeunes»], La Théologie, q. 1, a. 1, Paris 1968, pp. 93-140;
o il più erudito, ma fondamentale: M.-D. CHENU, La théologie comme science au XIIIe
siècle, Paris 19571; più recente: J.-P. TOKRELL, La scienza teologica secondo Tommaso
d’Aquino e i suoi primi discepoli, in G. D’ONOFRIO (ed.), Storia della Teologia nel Medioevo,
15
Il presupposto di base è la nozione aristotelica di «scienza».
Questa è troppo diversa da ciò che noi intendiamo oggi con tale parola
e quindi non possiamo esimerci da alcuni chiarimenti. Anche se, come
vedremo, Tommaso la modificherà sensibilmente per il suo proprio
uso, lo schema generale del suo modo di procedere resta proprio
quello. Per Aristotele, possedere la scienza di una cosa significa averne
una conoscenza certa grazie al ragionamento che permette di
dimostrare perché essa è necessariamente così e non altrimenti. Questa
conoscenza la si ottiene mettendo in relazione alcune verità conosciute
in modo evidente chiamate «principi», con altre verità meno note (che
si scoprono in effetti a partire dalle prime) chiamate «conclusioni». Il
legame necessario della verità-conclusione alla verità-principio fa sì
che si possieda allora la «scienza»22. Seguendo l’esempio dato
regolarmente da san Tommaso, la risurrezione del Cristo costituisce la
verità-principio che permette di spiegare la risurrezione dei cristiani,
che risulta la verità-conclusione23.
Questo esempio, che ritorna spontaneamente sotto la penna di
san Tommaso ogni qualvolta debba proporre un modello di
ragionamento teologico, mostra contemporaneamente la difficoltà
maggiore contro cui urta la trasposizione in teologia del modello
aristotelico della scienza. La scienza parte da principi che le sono
«evidenti», verità di base, assiomi o postulati, che restano indimostrati
e che non hanno bisogno di esserlo dato che sono immediatamente
colti alla luce dell’intuizione. Questo non può accadere nel caso della
teologia: essa non ha e non può avere l’evidenza dei suoi principi.
Lungi dall’essere evidente, la risurrezione di Gesù non può essere che
oggetto di fede. L’esempio che Tommaso propone sembra dunque
provare il contrario di ciò che vorrebbe, quasi spiegasse una cosa
oscura con una più oscura.
È qui che interviene la nozione di scienza «subalternata».
Aristotele aveva previsto il caso di alcune scienze che non hanno
l’evidenza dei loro principi, ma che dipendono da un’altra scienza che
fornisce loro l’equivalente di tale evidenza tramite la certezza delle sue
dimostrazioni. Così l’ottica dipende dai principi che le fornisce la

II, Piemme, Casale Monferrato 1996, pp. 849-934.


22 Super Boelium De Trinitate, q. 2, a. 2, Leon., t. 50, pp. 94-97;
Expositio libri Posteriorum I, 2-4; Leon., I* 2, 1989, pp. 10-22; T. TSHIBANGU, Théologie
positive et théologie spéculative, Louvain-Paris 1965, pp. 3-34: «La notion de science
selon Aristote».
231, q. 1, a. 8; De uer. q. 14, a. 2 ad 9; Sent. I, Prol., a. 5 ad 4.
16
geometria, e la musica dalle leggi della matematica 24. Non è necessario
qui entrare nei dettagli della dimostrazione, è sufficiente sapere che la
teologia si trova in una situazione analoga. La «scienza» che possiede
l’evidenza delle verità di cui tratta la teologia è la conoscenza che Dio
ha di se stesso' e del suo disegno di salvezza. Questo sapere egli lo
comunica innanzitutto ai beati in patria, i quali lo vedono faccia a
faccia grazie alla luce della gloria, ma tramite la luce della fede, lo
comunica anche agli uomini che, essendo in cammino verso la patria
definitiva, non lo vedono ancora.
La fede è dunque il luogo spirituale in cui l’ignoranza dell’uomo
si articola con la scienza divina; questo è il senso profondo della
subalternazione secondo san Tommaso. Essa fu molto combattuta nel
suo tempo poiché non corrispondeva evidentemente a tutte le
condizioni della subalternazione secondo Aristotele, ma possiamo qui
tralasciare tutto ciò. Come spesso accade quando utilizza del materiale
preso in prestito dallo Stagirita, Tommaso gli fa subire una
trasposizione radicale per il fatto stesso che lo utilizza in un clima
evangelico compieta- mente sconosciuto al filosofo pagano. Sarebbe
ingiusto rimproverare l’uno o l’altro, ma se da un lato la teologia non
può costituirsi come scienza propriamente detta secondo il canone
aristotelico (visto che non potrà mai acquisire la scienza dei suoi
principi, ma sarà sempre obbligata a crederli), dall’altro è proprio
questo che ne costituisce per noi la grandezza. La trasposizione
effettuata da Tommaso sottolinea la necessità imprescindibile della
fede teologale per il lavoro teologico:
«Colui che pratica una scienza subalternata non giunge alla
perfezione di
essa che nella misura in cui la sua conoscenza è in continuità
con quella
del sapiente che pratica la scienza subalternante. Anche in
questo caso, egli non avrà la scienza dei principi che ne riceve,
ma soltanto delle conclusioni che ne trae necessariamente. E
cosi che il credente può avere la scienza di ciò che conclude a
partire dagli articoli di fede»25.

Se ci si ricorda ora del desiderio di vedere che anima questa


ricerca, si è allora in grado di situare la teologia nella vita cristiana.
Essa non è estranea al movimento dell’essere cristiano alla ricerca di
24 I, q. 1, a. 2; Seni. I, Prol., a. 3, q. 2; Super Boetium De Trin., q. 2, a. 2 ad 5.
25De uer., q. 14, a. 9 ad 3.
17
Dio; anzi, essa si situa esattamente sulla traiettoria che va dalla fede
alla visione beatifica. E di conseguenza il teologo che la pratica si
trova in una situazione completamente diversa da quella di uno
studioso di qualsiasi altra branca del sapere. Egli non ha nessun
bisogno di abbandonarla per trovare Dio, gli è sufficiente spingere al
massimo l’esigenza della sua scienza per essere irresistibilmente
diretto verso Colui che è lo scopo ultimo della sua vita di credente.

IL SOGGETTO DELLA TEOLOGIA

Quando vuole esprimere da specialista il ruolo che gioca la realtà


divina nell’elaborazione del suo sapere, Tommaso parla di Dio come
«soggetto» della teologia. Nella enumerazione successiva delle
principali qualità della teologia, fin dalle prime pagine della Somma,
egli si chiede come essa si distingua da tutte le altre branche del sapere,
cioè quale sia la sua differenza specifica. Una parola gli basta, ma
occorre comprenderla bene: Dio è il «soggetto» di questa scienza:

«Nella sacra doctrina - scrive -, tutte le cose sono considerate


dal punto di vista di Dio: o si prende in considerazione Dio
stesso, oppure le cose in quanto sono riferite a Dio come a loro
principio o loro fine. Risulta che Dio è davvero il soggetto di
questa scienza» 26.

Con questa risposta apparentemente semplice ed evidente,


Tommaso prendeva una posizione del tutto originale tra i suoi
contemporanei. Mentre Pietro Lombardo, seguendo sant’Agostino,
vedeva nell’opposizione tra la lettera della Scrittura e la realtà da essa
significata (res e signa) la materia della teologia, mentre Ugo di San
Vittore la situava nell’opera della redenzione, e mentre i maestri
francescani, tra cui Bonaventura, la indicavano piuttosto in Cristo e
nella Chiesa, Tommaso ammette senza difficoltà che in teologia si
parla di tutto ciò, ma si rifiuta di individuare in ciò il suo soggetto
proprio. Questi diversi punti di vista descrivono soltanto la realtà; egli
la vuole invece spiegare. E molto più ambizioso, ma è proprio quanto
si propone di realizzare facendo di Dio stesso il soggetto di questa
scienza così singolare. I suoi discepoli non si sono ingannati, e già a
partire dalla prima generazione ne faranno una delle loro tesi favorite.

26I, q. 1, a. 7.
18
Noi incontriamo delle difficoltà nel capire perché questo punto
sia così importante, dato che i linguaggi filosofici di oggi impiegano
piuttosto la parola «oggetto» là dove Tommaso parla di «soggetto».
Anche se ci addentriamo in una spiegazione un po’ difficile, non
possiamo qui accontentarci di questa equivalenza approssimativa se
non vogliamo cadere in una confusione del tutto dannosa. Per capirlo
basta precisare quel che significa la nozione di soggetto nella
prospettiva aristotelica di Tommaso e ricordare a cosa conduce il suo
oblio. Il «soggetto» è la realtà extramentale che la scienza cerca di
conoscere; tutto sommato essa non ha altri scopi che quello di
conoscere il suo soggetto. Ma questa realtà esterna non sarà conosciuta
se non nella misura in cui il conoscente potrà appropriarsene
interiormente e farla esistere nella sua intelligenza. Ciò è reso possibile
tramite le idee, che formiamo a partire dalla realtà e che chiamiamo
«concetti». Essi costituiscono tante prese di intelligenza sulla realtà
esterna e sono essi che formano «l’oggetto» della scienza. Tommaso
definisce così l’oggetto della scienza come insieme delle conclusioni
che giunge a stabilire circa il suo soggetto. Molto semplice da cogliere,
questa prima distinzione tra soggetto e oggetto non è meno
fondamentale. Essa ha il merito di ricordare che la prima realtà
conosciuta, l’oggetto, non costituisce il soggetto e dunque non può
essere il fine perseguito dal sapere; in rapporto a questo fine non ha
che un valore strumentale. L’oggetto non esprime nemmeno il tutto del
soggetto e, di fatto, bisogna moltiplicare i concetti e rapportarli tra di
loro con un giudizio di esistenza affinché l’intelligenza sia in grado di
esprimere qualcosa del soggetto. E infine, il conoscente deve spesso
constatare una perpetua inadeguatezza tra l’oggetto conosciuto e la
realtà da conoscere.
Quando si tratta del sapere di cui Dio è il soggetto, le cose sono
ancora più chiare. Un vero teologo non può mai dimenticare che il
soggetto del suo sapere, il fine che persegue, è la conoscenza del Dio
vivente della storia della salvezza. Ed è qui che si può, senza giocare
troppo sul senso della parola «soggetto», ritrovare l’accezione del
linguaggio contemporaneo. Parlare di Dio come «soggetto», vuol dire
anche che egli non si riduce ad un «oggetto» - nemmeno all’oggetto
mentale puro che il teologo può conoscere. Un soggetto è una persona
che si conosce e che si ama (dato che si è fatta conoscere e amare), che
si invoca e che si incontra nella preghiera. La teologia conoscerà una
svolta drammatica il giorno in cui, ingannati dalla definizione della
scienza come «abito delle conclusioni» e dimentichi della distinzione
19
tra soggetto e oggetto e della sua reale portata, i teologi a partire dal
XVI secolo giungeranno ad assegnare come fine al loro sapere non più
la conoscenza del suo soggetto, ma quella del suo oggetto: dedurre il
maggior numero possibile di conclusioni dalle verità contenute nel
deposito della rivelazione. Questo errore è stato denunciato molto
spesso e non è qui il nostro scopo 27; ci basta comprendere che la
posizione di Tommaso è completamente diversa. Certo, egli definisce
la teologia come scienza delle conclusioni (per opposizione ai principi
di cui essa non può avere scienza, ma soltanto fede) 28, ma non è questo
il fine che le attribuisce; esso consiste senza alcun dubbio nella
conoscenza del suo soggetto 29.
È innanzitutto questo dunque che san Tommaso vuole dire
quando asserisce che Dio stesso è soggetto della teologia. Ma ciò
significa anche che bisogna risalire fino a lui per trovare la chiave che
spiega tutte le altre prospettive troppo spesso unicamente descrittive.
Come la creazione, la redenzione non può essere spiegata al livello
dell’opera compiuta; bisogna ricorrere al soggetto che ne ha avuto
l’iniziativa, Dio stesso nel suo amore misericordioso. Ancor meno la
Chiesa può spiegarsi da se stessa; occorre «risalire» a Colui che ne è il
Capo, il Cristo, ed egli stesso, quanto alla sua umanità, non è che
l’inviato del Padre e della Trinità. In tutto ciò di cui si occupa, il
teologo è rinviato incessantemente alla primitiva origine che è l’Amore
nella sua fonte trinitaria. Concretamente, e Tommaso impara la
lezione, questo vuol dire che in teologia tutto, assolutamente tutto,
deve essere considerato in rapporto a Dio: è da lui che provengono
tutte le cose, è verso di lui che si dirigono tutte le creature. Puramente
teorica di primo acchito, questa presa di posizione costituisce quindi
una radicale esigenza di ricentrare non soltanto tutto il sapere teologico
ma l’intero sforzo dell’uomo, provocato così a rimettere Dio al centro
di tutto ciò che può fare, dire e pensare. Mai nessun mistico ha detto né
potrà dire qualcosa di più forte. Poiché è fin troppo chiaro che se la
teologia è così teologalmente centrata, la spiritualità che ne fluisce lo
sarà altrettanto.
27 Si potrà vedere qui M.-J. CONGAR, Théologie, DTC 15 (1946) 398 e
418- 419; E. SCHILLEBEECKX, Approches théologiques, I. Révélation et théologie,
Bruxelles-Paris 1965, pp. 114-118; C. DUMONT, La réflexion sur la méthode
théologique, NRT 83 (1961) 1034-1050 e 84 (1962) 17-35; cf. pp. 1037-1038.
28 Si può vedere per esempio Sent. I, Prol., a. 3, sol. 2 ad 2: «In hac
doctrina non acquiritur habitus fidei qui est quasi habitus principiorum; sed
acquiritur habitus eorum quae ex eis deducuntur».
29Sent. I, Prol., a. 4: «Subiecti cognitio principaliter intenditur in scientia».
20
In secondo luogo, ma non accessoriamente, questa tesi centrale
spiega anche alcune qualità della stessa teologia. Così, il fatto che la
teologia sia contemplativa è una conseguenza di questa prima tesi su
Dio soggetto della teologia. Tommaso ci ritorna quando si chiede se la
teologia sia una scienza «pratica». Formulata in questo modo, la
questione potrebbe far sorridere, ma si tratta in effetti di sapere se la
teologia può estendersi fino a trattare delle regole dell’agire umano. La
risposta non ammette dubbi: se, come abbiamo detto, la teologia è
effettivamente una partecipazione al sapere che Dio ha di se stesso,
allora sarà certamente una scienza pratica, poiché:
«è con il medesimo sapere che Dio conosce se stesso e realizza
tutto ciò che fa [ma la teologia, aggiunge Tommaso] è tuttavia
più speculativa (= contemplativa) che pratica, perché si occupa
più delle realtà divine che degli atti umani. Essa non tratta degli
atti umani se non nella misura in cui è tramite essi che l’uomo si
orienta verso la perfetta conoscenza di Dio in cui consiste la
beatitudine» 30.
Questa è una risposta che colloca Tommaso a parte nella serie
dei teorici della scienza teologica: fino a lui se ne parlava certo come
di un sapere anche contemplativo, ma in primo luogo essenzialmente
ordinato alla realizzazione perfetta della carità. «Questo sapere è
ordinato all’agire», diceva il suo contemporaneo Roberto Kilwardby.
Tommaso, per primo, e già dal suo commento alle Sentenze, lo vede al
contrario orientato verso la contemplazione, poiché se è polarizzato da
Dio, come abbiamo appena visto, questo orientamento prevale su tutti
gli altri e non si tratta evidentemente di una realtà che l’azione umana
potrebbe porre in essere. Dio non è una costruzione delJ.’uomo, che di
lui non può disporre; egli, da noi, non può che essere conosciuto e
amato. E di questo che Tommaso vuol tener conto quando afferma che
la teologia deve essere principalmente speculativa.
Questa risposta contiene un altro elemento capitale per il seguito
che ci proponiamo. Essa permette di constatare che Tommaso non
conosce la distinzione a noi familiare tra teologia morale e teologia
dogmatica - come ignora anche la grande ripartizione del lavoro
teologico in teologia positiva e teologia speculativa. È la medesima e
unica sacra doctrina che ingloba tutto questo, come essa ricopre
ugualmente, l’abbiamo veduto, i concetti più tardivi di «spiritualità» o
«teologia spirituale». Se senza esitazione bisogna riconoscere i
301, q. 1, a. 4.
21
benefici procurati dalla crescente specializzazione dei differenti campi
del sapere teologico, è anche permesso auspicare che coloro che lo
praticano abbiano una coscienza sempre più profonda della sua unità
fontale. Per Tommaso la cosa andava da sé ed è proprio questo ciò che
riscopriremo presto nella sua grande sintesi del sapere teologico.

COME UN’IMPRONTA DELLA SCIENZA DIVINA

Al seguito di san Tommaso, è necessario ancora spiegare


un’altra tesi, in apparenza molto tecnica, ma di una portata spirituale
incontestabile: in teologia la fede gioca il ruolo che Yhabitus dei primi
principi ha nella nostra conoscenza naturale. Per capire questo bisogna
evidentemente sapere che cos’è un habitus e che cosa sono i «principi»
della teologia. Nella lingua di san Tommaso, habitus (dal greco hexis)
è una nozione capitale, che non è affatto traducibile con la parola
«abitudine», la quale suggerisce piuttosto il contrario. Mentre
l’abitudine è un meccanismo fisso, una «routine», Yhabitus costituisce
al contrario una capacità inventiva, perfettiva della facoltà in cui esso
si radica e a cui conferisce una perfetta libertà nell’esercizio. L’abilità
di un artigiano è un habitus, come l’arte di un dottore o il sapere di uno
scienziato. A metà strada tra la natura e il suo agire, Yhabitus
costituisce il segno e l’espressione della piena realizzazione di essa.
Dono divino del tutto gratuito, la fede risiede in noi sotto forma di
habitus, quindi di uno speciale perfezionamento che sopraeleva la
nostra naturale capacità di conoscere all’altezza di un oggetto nuovo,
Dio stesso e il mondo delle cose divine. Forma precisa che la grazia
assume nella nostra intelligenza, la fede è anch’essa una partecipazione
alla vita di Dio e realizza tra lui e noi una specie di connaturalità che ci
rende capaci di cogliere spontaneamente ciò che risale a Dio. Quello
che chiamiamo il sensus fidei è precisamente questa capacità di
comprendere - per così dire - «naturalmente» le cose soprannaturali,
come un amico capisce l’amico - senza discorsi31.
E questo che ci spiega la formula di san Tommaso secondo cui la
fede è in qualche modo Y habitus che permette di cogliere i principi
della teologia32; e i principi sono le verità prime a partire dalle quali
31 Cf. IH, q. 1, a. 6 ad 3, riguardo ai due modi di giudicare le cose divine;
ritorneremo più avanti su questo tema.
32 Super Boetium De Trin., q. 5, a. 4 ad 8: «.. .fides, quae est quasi habitus prin-
cipiorum theobgi»\ cf. ibid., q. 3, a. 1 ad 4, dove è sviluppato più ampiamente il
parallelo tra l’intuizione dei principi alla luce della ragione e l’apprensione per fede
22
essa sviluppa la sua elaborazione scientifica. Con il senso
dell’essenziale che lo caratterizza, egli identifica questi principi della
teologia con gli articoli stesso del Credo e, con il gioco di relazioni tra
principi e conclusioni in cui risiede il procedimento scientifico, li
riconduce, in ultima analisi, a due verità assolutamente prime: Dio
esiste e ci ama. Non è questa una ricostruzione arbitraria; Tommaso la
trova espressa nel versetto della lettera agli Ebrei (11, 6): «Colui che si
accosta a Dio deve credere che egli esiste e che egli ricompensa coloro
che lo cercano». Questi due primi credibilia contengono in sintesi tutto
l’insieme della fede:
«Nell1 essere di Dio è incluso tutto ciò che crediamo esistere
eternamente in lui: è la nostra beatitudine; nella fede nella sua
provvidenza è incluso tutto ciò che egli ha compiuto nel tempo
per la nostra salvezza: è la via alla beatitudine»33.
Si riconosce qui senza esitazione l’antica distinzione dei Padri
greci tra la theologia, la parte della teologia che si interessa
direttamente della vita intima di Dio, la Trinità delle persone, e
l'oikonomia, ciò che Dio ha compiuto nel tempo per salvarci, la storia
della salvezza. Tommaso ne offre, nel testo che segue, una
formulazione un po’ più tecnica (il fine e i mezzi), ma molto vicina alla
lettera del Nuovo Testamento:
«Appartengono di per sé alla fede quelle cose della cui visione
godremo nella vita eterna e per mezzo delle quali ivi siamo
condotti. Due cose saranno allora offerte alla nostra
contemplazione: il segreto divino, la cui visione ci rende beati, e
il mistero dell’umanità di Cristo, per mezzo del quale abbiamo
accesso alla gloria dei figli di Dio (Rm 5, 2). Come dice infatti
san Giovanni (17, 3): “Questa è la vita eterna, che conoscano te,
l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo’’»34.
Il legame qui stabilito tra la nozione di articolo di fede e la
beatitudine finale è sicuramente sorprendente, e Tommaso lo sottolinea
delle verità soprannaturali; all’obiezione che la teologia non sarebbe una scienza
perché priva della certezza più elementare, Tommaso replica che Yhabitus che
costituisce la luce di fede è più certo non soltanto di qualsivoglia dimostrazione, ma
addirittura più dello stesso habitus dei primi principi, il cui funzionamento può essere
impedito da infermità del corpo.
33H-13, q. 1, a. 7.
34 II-II, q. 1, a. 8; per E ruolo che E versetto 17, 3 di Giovanni svolge
neEa costruzione deHa Summa, vedi I, q. 2 Prol. e III, q. 1 Prol.
23
volentieri: «Ciò che di per sé appartiene all’oggetto della fede è ciò per
cui l’uomo è reso beato».35 La nozione di principio richiama
irresistibilmente quella di fine ed è qui che si rivela compiutamente
l’interesse ermeneutico della nozione di articolo di fede-principio della
teologia. Alla luce dei testi richiamati e di numerosi altri, appare
chiaramente che l’intelligibilità interna del contenuto della rivelazione
è legata alla sua valenza salvifica. Certo, tutte le verità rivelate hanno
valore di salvezza, ma il legame e in fondo la gerarchia che possiamo
stabilire tra di esse si ricavano dal loro rapporto con Dio, colto come
primo autore e fine sovranamente beatificante della sua creatura. E
dunque la loro identificazione pura e semplice a questo fine o la loro
prossimità ad esso più o meno grande che giocano qui un ruolo
assolutamente decisivo36.
Così può essere completato ciò che resta da dire a proposito del
discorso della scienza. L’entrare in relazione di una verità-principio
con una verità-conclusione non avviene in modo isolato. La mira del
procedimento scientifico è molto più ambiziosa; è l’insieme delle
verità rivelate che occorre mettere reciprocamente in relazione in modo
tale da ricostruire l’intelligibilità interna del dato rivelato 37. Infine, è
intorno ai primi due credibilia che deve organizzarsi il lavoro di
spiegazione teologica se esso vuole avere qualche opportunità di
cogliere la coerenza interna del piano salvifico di Dio. La volontà
salvifica di Dio non ha certo altra causa all’infuori del suo amore
totalmente libero e disinteressato e non si tratta qui di imporle le
strutture intelligibili della nostra intelligenza. Ma, nella convinzione
che Dio ha fatto tutto «con misura, calcolo e peso» (Sap 11, 20) e che
dirige tutte le cose «con ogni sapienza e intelligenza», il teologo si
applica a scoprire il rapporto organico che esiste tra le varie opere di
Dio: «Dio vuole che una cosa esista in vista di un’altra, ma non per
35H-n, q. 2, a. 5: «fidei obiectum per se est idper quod homo beatus efficitur».
36 Senza dilungarci possiamo segnalare che questo modo di vedere le
cose aiuta a capire la raccomandazione del Vaticano II sulla necessità di tener conto
della «gerarchia delle verità deUa dottrina cattolica neEa pratica deU’ecumenismo»,
cf. Cnitatis redintegratio, n. 11; si può vedere a tal proposito Y. CONGAR, On thè hierarchia
veritatum, «Orientalia christiana analecta» 195 (1973), pp. 409-420; W. HENN, The
Hierarchy ofTruths according to Yves Congar O.P., «Anal. Greg. 246», Roma 1987.
37 I redattori del cap. Ili della Dei Vilius al Vaticano I si sono certamente
ricordati di queste vedute quando hanno così definito il compito della teologia
speculativa: «Quando la ragione illuminata dalla fede ricerca con cura, pietà e
moderazione, essa giunge, mediante il dono di Dio, a una certa intelligenza molto
fruttuosa dei misteri, sia grazie all’analogia con le cose che conosce naturalmente, sia
grazie ai legami che collegano i misteri tra di loro e con il fine ultimo dell’uomo».
24
questo la vuole»38. E la scoperta di queste reciproche relazioni e la loro
riconsiderazione in una sintesi il più possibile completa, dove queste
saranno situate secondo la loro importanza relativa, che condurrà ad
una migliore intelligenza dell’opera e del suo autore, Dio stesso, unico
soggetto della sacra doctrina.
È questo ideale che Tommaso esprime con una formula presa
dalla tradizione avicenniana e che fa pienamente sua: la scienza non è
nient’altro che una «riproduzione nell’anima della realtà conosciuta»,
poiché la scienza è detta essere l’assimilazione del conoscente al
conosciuto 39. Oppure, secondo un’altra formula anch’essa molto
eloquente, la struttura del reale è riprodotta nell’intelligenza secondo
una organizzazione ragionata (ordinata aggregano) dei concetti delle
cose esistenti40. Il docente che insegna avendo già elaborato per sé
questa ricostruzione, ' è in grado, per questo, di imprimere
nell’intelligenza dell’ascoltatore una visione sintetica della realtà che
gli vuole comunicare. Così deve essere spiegata la celebre formula di
Tommaso a volte fraintesa: in quanto tale la sacra ioctrina è «come
un’impronta della scienza divina» 41. Lungi dal reclamare per la
teologia un privilegio esorbitante (dato che ogni scienza umana è in
qualche modo partecipazione della scienza divina), questa formula non
è altro che l’espressione esatta della situazione di dipendenza della
scienza del teologo rispetto a quella di Dio. Il privilegio non riguarda
la teologia, ma la fede, poiché essa permette di ricevere la rivelazione
che Dio offre di se stesso. 42 Mettendo così in continuità il nostro
sapere con quello che Dio ha di se stesso, la fede rende possibile la
nascita e lo sviluppo del sapere teologico.

UNA SCIENZA «PIA»

38I, q. 19, a. 5: «Vult ergo [Deus] hoc esse propter hoc, sed non propter hoc uult
hoc».
39 De ueritate, q. 11, a.l arg. 11: «Scientia nihil aliud est quam descriptio rerum
in anima, cum scientia esse dicatur assimilatio scientis ad scitum».
40 SCG 156 (n. 470): «Habitus [scientiae]... est ordinata aggregatio ipsarum
specierum existentium in intellectu non secundum completimi actum, sed medio
modo inter potentiam et actum».
411, q. 1, a. 3 ad 2: «uelut quaedam impressio diuinae scientiae».
42 D’altronde è a proposito della fede che Tommaso impiega
un’espressione molto simile, Super Boetium De Triti., q. 3, a. 1 ad 4: «Lumen... fidei...
est quasi quedam sigillatici primae ueritatis in mente...»-, sigillatici è anche usato come
equivalente di impressio nel campo del sapere naturale, cf. De uer., q. 2, a. 1 arg. 6 e ad
6 con rinvio ad Algazel.
25
Il legame della teologia con la fede, emerso ad ogni stadio della
nostra ricerca, ci permette di valorizzare due delle qualità
indispensabili della teologia. Innanzitutto, e proprio a motivo del suo
essere animata dalla fede, la teologia è una scienza «pia» e richiede
una fede «viva», cioè penetrata («informata», come dice san
Tommaso) dalla carità, per corrispondere pienamente alla sua
definizione. Se può accadere che la teologia sia praticata con una fede
morta o del tutto insufficiente, ciò non toghe che questa sia una
situazione anormale. Lo studio teologico richiede la medesima fede
esigita dalla vita cristiana o dalla preghiera; e anche se si tratta di
attività differenti, è un’unica fede quella che si esprime. «Preghiera
contemplativa o speculazione teologica costituiranno varietà
specificamente differenti nel loro gioco psicologico; ma nella struttura
teologale esse possiedono medesimo oggetto, medesimo principio,
medesimo fine»43. E per questo che nel suo Pro- logo alle Sentenze,
Tommaso diceva che, in colui che la pratica, la teologia assume una modalità
orante (modus oratiuus) 4 4 . Per lui non c’è alcun dubbio: la preghiera rientra
nell’esercizio della teologia.
D’altra parte, e sempre in dipendenza della fede che è la sua anima e il
suo motore, la teologia possiede una incontestabile dimensione escatologica.
Ed è qui che assieme alla fede e alla carità troviamo la speranza, terza virtù
teologale. La teologia, secondo Tommaso, realizza una certa anticipazione di
quella conoscenza che avrà il suo compimento nella visione beatifica. Egli lo
dice con tutta chiarezza: «il fine ultimo di questa doctrina è la contemplazione
della verità prima, in patria» 45. E questo che si intende quando si parla della
teologia come di un sapere «speculativo»; nel linguaggio di san Tommaso
questa parola, oggi così svalutata, non significa niente altro che
«contemplativo» 46, e quindi che chi pratica la teologia deve essere come essa
completamente rivolto verso l’oggetto del suo sapere, che è anche il fine
ultimo della sua vita di cristiano.
E chiaro che questa qualità non appartiene alla teologia se non per il
fatto che appartiene prima alla fede che la anima, poiché è la fede che
procura questo «assaggio» (praelibatio quaedam) dei beni divini di cui
43M.-D. CHENU, La foi dans l’intelligence, Paris 1964, p. 134.
44Sent. I, Prol., a. 5 sol.
45 Sent. I, Prol, a. 3 sol. 1 et ad 1: «Sed quia scientia omnis principaliter
pensanda est ex fine, finis autem huius doctrinae est contemplatio primae ueritatis in
patria, ideo principaliter speculatiua est»; si troveranno più dettagli in J.-P. TOR- RELL,
Théologie et sainteté, RT 71 (1971) 205-221, cf. 205-212.
46 Cf. S. PlNCKAERS, Recherche de la signification véritable du terme «spécula- tif»,
NRT 81 (1959) 673-695.
26
godremo nella visione beatifica47, ma Tommaso la applica precisamente alla
scienza delle cose divine: «Per mezzo di essa noi possiamo godere di una
qualche partecipazione e assimilazione alla conoscenza divina anche mentre
ci troviamo ancora in cammino, nella misura in cui tramite la fede infusa
aderiamo alla verità prima per se stessa»48.
Se la teologia è proprio questa realtà che abbiamo appena descritto - e
almeno nel caso di Tommaso non c’è dubbio che sia così -, si capisce che egli
non abbia avuto alcuna necessità di elaborare una spiritualità accanto alla
sua teologia. È la sua teologia stessa che è una teologia spirituale, e si
dovrebbe poter sempre riconoscere un teologo tomista dal tono spirituale, che
avrà saputo dare anche alle elaborazioni più tecniche. Se questa articolazione
a volte necessita di essere messa in evidenza, magari per quei lettori meno
preparati a scoprirla, essa è tuttavia, almeno in germe, sempre presente. Però
la parola «spiritualità» ha preso ai nostri giorni alcune connotazioni più
precise ed è importante esserne coscienti per evitare di utilizzarla a vanvera.

TRE SENSI DELLA PAROLA «SPIRITUALITÀ»

Al seguito di Walter H. Principe 49, il migliore specialista della


questione, prenderemo qui in considerazione tre significati principali del
termine «spiritualità». Ad eccezione del terzo50, gli altri due hanno il loro
corrispondente in san Tommaso.
Secondo un primo significato, «spiritualità» designa il vissuto di una
data persona. Come lo suggerisce già l’uso paolino e conformemente
all’etimologia (Spiritus - spiritualitas), il termine indica la qualità di una

47 Compendium theol. I 2; si vedrà la definizione più esplicita della Summa (II-


II, q. 4, a. 1): «la fede è un habitus dell’anima che dà inizio in noi alla vita eterna
facendo aderire il nostro intelletto alle realtà che non vediamo»; è anche la dottrina
più volte ripetuta in De uer., q. 14, a. 2.
48 Super Boetium De Trin., q. 2, a. 2.
49 W.H. PRINCIPE, Toward Defining Spirituality, «Studies in
Religion/Scien- ces religieuses» 12 (1983) 127-141, cf. pp. 153-157; Thomas Aquinas’
Spirituality («The Etienne Gilson Series 7», Toronto 1984, pp. 3-5; Spirituality,
Christian, in The New Dictionary of Catholic Spirituality, ed. M. DOWNEY, Collegeville
1993, 931-938. In francese si vedrà la sintesi dell’art. Spiritualité, DS 14 (1990) 1142-
1173, in cui due autori si sono suddivisi la materia: I. Le mot et l’histoire (A. SOLI- GNAC);
II. La notion de spiritualité (M. DUPUY).
50 Secondo Principe, si tratta allora della «spiritualità» come sapere
insegnato, disciplina scientifica; essa può essere studiata in istituti specializzati sotto i
differenti punti di vista: teologico, storico, fenomenologia delle religioni, ecc. Noi tra-
lasceremo questo terzo senso che pon presenta un interesse speciale per la nostra
ricerca.
27
vita condotta sotto la mozione dello Spirito: «L’uomo naturale (animale) non
conosce le cose dello Spirito (Pneuma) di Dio: difatti, per lui sono una follia,
e non le può comprendere, perché vanno giudicate spiritualmente. L’uomo
spirituale (pneumatikos), invece, giudica tutto e non è giudicato da
nessuno» 51. Le prime comparse del latino
spiritualitas, nel V e VI secolo 51, conservano questo medesimo
significato e lo stesso vale per san Tommaso.
Il termine stesso non è molto frequente (ricorre una settantina di
volte) e, se nella maggior parte dei casi si oppone a corporeitas (lo
spirito distinto dal corpo), esso a volte designa proprio l’equivalente di
una vita condotta nella grazia sotto l’azione dello Spirito Santo. «È nel
Cristo uomo che si trova fin dall’inizio una perfetta spiritualità», ed è
ancora «da lui che la spiritualità deriva in tutti gli uomini» 52. Se il
Cristo è così la fonte di ogni spiritualità, evidentemente è perché egli
ha ricevuto lo Spirito Santo senza misura, ma al suo seguito tutti coloro
che sono nati dallo Spirito (Gv 3 , 7 ) sono degli spirituali e li si
riconosce dal loro agire: «Le caratteristiche dello Spirito Santo si
ritrovano nell’uomo spirituale (lo si riconosce da diversi indizi, in
modo particolare dalle sue parole): all’ascoltarlo, si percepisce la sua
spiritualità»53. Ma si tratta anche di una vita tutta intera vissuta nella
carità e nelle virtù ricevute dallo Spirito d’amore: «la vita spirituale
deriva dalla carità (spiritualitas autem vita per caritatem est)» 54.
Questa prima acce-

51
La prima menzione di spiritualitas si trova nella lettera 7 dello PsEUDO-
GlROLAMO (in realtà, di Pelagio): «Age ut in spiritualitate proficias. Cave ne quod
accepisti bonum, incautus et negligens custos amittas» (PL 30, 114D-115A). Il secondo
uso si legge un secolo più tardi nella lettera 14 di sant’Avito indirizzata a suo fratello:
«Minus enim procul dubio salva observatione apparet affectus, sed ostendistis quanta
spiritualitate vos exercere delectet quod praeterisse sic doluit» (MGH, Auctores
antiquissimi VI/2, ed. R. Peiper, Berlin 1883, p. 47). Per maggiori dettagli, si può
vedere J. LECLERCQ, Spiritualitas, «Studi medievali», Serie terza 3 (1962) 279-296,
spec. pp. 280-282; A. SoLIGNAC, L’apparition du mot spiritualitas au moyen âge,
ALMA 44-45 (1985) 185-206, spec. pp. 186-189.
52
III, q. 34, a. 1 ad 1; In Iam ad Cor. 15, lect. VII, ed. Marietti nn. 994, 991 e
1004; cf. J.-P. TORRELL, Spiritualitas, pp. 582-583.
53
In Ioh. 3, lect. 1, ed. Marietti, n. 456: «In viro spirituali sunt proprietates
Spiritus Sancti... Eius indicium sumis per vocem verborum,suorum, quam dum audis,

51 1 Cor 2, 14-15; per il senso di pneumatikos in san Paolo cf. anche:


Rm 1, 11; 7, 14; 15, 27; 2 Cor 3, 1; 9, 11; 10, 3-4; 12, 1; 14, 1 e 37; 15, 44 e 46; Gal 6, 1;
Ef 1 , 3 ; 5 , 1 9 ; Col 1 , 9 ; 3 , 1 6 .
28
cognoscis eius spiritualitatem».
54
Sent. III, dist. 38, q. 1, a. 4 sol.; Quodl. VII, a. 17 ad 5: «Vita spiritualis a
nullo potest conseruari nisi per actus uirtutum»; STh I-II, q. 65, a. 2 sc.: «Per uir-
tutes perficitur uita spiritualis»; cf. III, q. 59, a. 3, arg. 2; etc. La parola spiritualis
ricorre circa 7.000 volte nell’opera di Tommaso; soltanto uno studio esaustivo
permetterebbe di sfruttare questa ricchezza, ma se estrapoliamo il risultato di un
sondaggio effettuato su 500 di questi casi, risulta che l’espressione uita spiritualis vi
si ritrova 280 volte con il senso preciso che noi cerchiamo: vita nella carità ed esercizio
delle virtù evangeliche, che si ottengono tramite il battesimo e si alimentano con
l’eucaristia e gli altri sacramenti.
zione di «spiritualità» è dunque molto vicina a quella che noi
conosciamo: la grazia dello Spirito all’opera in una persona che ne fa
la raggiante esperienza. È senza dubbio in questo senso che san
Tommaso ha avuto una spiritualità personale; se ne sono potuti
percepire alami aspetti nel ritratto che ne abbiamo proposto 52.
Il secondo significato della parola «spiritualità» è quello che essa
assume quando indica una dottrina spirituale. Insegnata da una persona
anch’essa ammirevole a causa della sua spiritualità personale, questa
dottrina consiste il più delle volte nel dare forma alla propria
esperienza vissuta, a volte appena liberata dai suoi tratti più
immediatamente personali. Pensiamo qui certamente agli scritti dei
santi, a Teresa d’Avila o a Giovanni della Croce, alle raccomandazioni
pratiche di sant’Ignazio, ma si può anche pensare alle Regole dei santi
fondatori che, come san Benedetto o san Francesco, insegnano un’arte
di vivere il Vangelo e fanno nascere così ima spiritualità - benedettina,
francescana, ecc. In questi casi, lo si percepisce molto bene, la «teoria»
si appoggia alla pratica, e queste dottrine procedono non tanto da una
scienza intellettualmente appresa, quanto da un sapere acquisito
tramite un lungo tirocinio sotto la guida dello Spirito. Non è sempre il
caso, ma a volte oltre che di spiritualità siamo obbligati a parlare anche
di dottrina spirituale e persino di teologia spirituale.
È proprio in questo ambito che possiamo sperare di ritrovare san
Tommaso. Tuttavia sarà prima utile ricordare una distinzione già
proposta da Jacques Maritain per situare i due possibili livelli di una
dottrina spirituale53. Vi è innanzitutto quello che egli chiama il piano
del sapere praticamente pratico, che è quello in cui si situano gli scritti
dei santi che abbiamo appena citato. Proponendo al discepolo le regole
concrete di un agire secondo un certo spirito, il loro scopo è quello di
provocare in lui il rinnovamento dell’esperienza originale o almeno la
52 Cf. Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, cap. 14.
53 J...MARITAIN, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir,
Paris 19465, cap. VIII: «Saint Jean de la Croix praticien de la contemplation».
29
comparsa di una esperienza simile. Nato dall’esperienza, un simile
insegnamento vi ritorna e mira direttamente all’agire morale concreto,
qui ed ora. Ad eccezione delle sue omelie - che a volte sono
effettivamente molto vicine all’esperienza cristiana di tutti i giorni -,
Tommaso d’Aquino non ha proposto nessuna dottrina praticamente
pratica in tal senso.
Le cose vanno diversamente sul piano del sapere
speculativamente pratico, che è quello della filosofia o della teologia
morale. Questo sapere è pratico a causa della sua finalità direttrice
dell’agire; resta speculativo per il fatto che studia le regole dell’agire
nella loro generalità, lasciando a un’altra istanza la cura di dirigere
l’azione nella sua singolarità concreta. Seguendo la formula
consacrata, la teologia morale è un sapere riflessivo che diventa pratico
per estensione. Se si volesse che la teologia morale proponga delle
soluzioni immediate a tutti i problemi della vita quotidiana, essa non
tarderebbe a trasformarsi in casistica - con tutte le deviazioni che la
storia ci ha fatto conoscere. Al contrario, se si accetta pienamente il
fatto che vi è un livello riflessivo entro cui la teologia ha il dovere di
cercare e di mettere in evidenza le grandi leggi che governano l’agire
umano e cristiano in questo mondo e dinanzi a Dio - ciò che
effettivamente fa san Tommaso -, allora non si tarda a scoprire che
questa riflessione è pregna di dottrina spirituale54.
A questo punto forse ci si porrà una domanda: se questa dottrina
è ben presente in san Tommaso, perché egli non l’ha sviluppata
esplicitamente, rischiando di lasciarla passare inosservata? La risposta
non presenta alcuna difficoltà: la spiritualità d’ispirazione tomasiana
passa inosservata soltanto per i suoi utilizzatori occasionali (come non
ci si accorgerebbe di quella di altri maestri spirituali se ci si
accontentasse di consultarli rapidamente), coloro che hanno familiarità
con lui sanno bene con che cosa hanno a che fare, anche se non
provano generalmente il bisogno di metterlo in evidenza. Se Tommaso
non ha scritto quella spiritualità che ci aspetteremmo, è perché in verità
la sua Somma di teologia può rimpiazzarla. Come in modo magnifico
s’era già espresso Gilson: «la Somma di teologia, con la sua limpidezza

54 A chi volesse andare oltre nella riflessione su ciò che riunisce e distingue
contemporaneamente teologia morale e teologia spirituale, non sapremmo
raccomandare uno studio più illuminante di quello di M.-M. LABOURDETTE, Qu’est-ce que la
théologie spirituelle?, RT 92 (1992) 355-372; teologo moralista senza pari, molto attento
all’esperienza dei santi e dei mistici, il P. Labourdette situa la sua riflessione nel
prolungamento di quella di J. Maritain.
30
astratta e la sua trasparenza impersonale, è, cristallizzata sotto i nostri
occhi, la vita interiore stessa di Tommaso d’Aquino»55.
Questa asserzione potrà forse stupire, e ci impegniamo a
giustificarla, ma non consente molti dubbi: la dottrina spirituale di
Tommaso è una dimensione implicita, necessaria alla sua teologia. In
questo senso possiamo dire che egli non è soltanto un pensatore o una
guida intellettuale, ma piuttosto un maestro di vita. Nell’uno e
nell’altro caso, egli non ha niente dell’ideologo che impone il suo
sistema, ma, come un vero maestro, insegna al suo discepolo come
pensare e come vivere autonomamente 56. Per dirla altrimenti, la sua
dottrina e la sua vita sono cariche di valori che possono facilmente
ispirare una maniera particolare di comportarsi da uomo e da cristiano,
e questa possiamo propriamente chiamarla «spiritualità».

55 E. GiLSON, Le Thomisme. Introduction à la philosophie de saint Thomas


d’Aquin («Etudes de philosophie médiévale 1»), Paris 19866, p. 457.
56 Si vedrà nel De Meritate, q. 11 la concezione strumentale che san Tommaso
si è fatta del ruolo del maestro, trad. italiana a cura di R. Coggi in S. TOMMASO
D’AQUINO, Le Questioni disputate, voi. II, q. 11: Il Maestro, ESD, Bologna 1992.

31
PARTE PRIMA

UNA SPIRITUALITÀ TRINITARIA


35
II
L’Al di là di tutto

Il primato che san Tommaso riconosce a Dio nell’organizzazione


del sapere teologico appare già dal primo colpo d’occhio al piano della
Somma di teologia. Che si tratti della stessa essenza divina o della
distinzione delle persone, oppure del modo in cui si può comprendere la
creazione, è sempre Dio Trinità che è preso in considerazione, in se
stesso o nella sua opera. Al teologo cristiano non è possibile, senza
mutilare il mistero, trattare di Dio nella sua unità o della sua creazione, e
lare astrazione dalla sua vita tripersonale. Il cristiano non conosce altro
Dio se non quello della rivelazione e questa luce illumina tutto il suo
sforzo d’intelligenza della fede.
Il modo in cui Tommaso abborda il suo soggetto è un po’
sconcertante per un lettore non informato; e risulta nondimeno
illuminante per capire la sua intenzione: «Occorre innanzitutto chiedersi
se Dio esista; poi come egli sia o meglio come non sia', infine bisognerà
interrogarsi sulla sua operazione: la sua scienza, la sua volontà, la sua
potenza» h E quindi necessario stabilire innanzitutto l’esistenza di Dio.
Cosa già affermata con parole molto forti nella Somma contro i Gentili:
«Alla considerazione di Dio in se stesso, si deve premettere, come
fondamento necessario di tutta l’opera, la dimostrazione della sua
esistenza. In mancanza di questa, infatti, ogni ricerca intorno alle
cose di Dio non si reggerebbe» 57 58.
Non bisogna tuttavia sbagliarsi sul perché di questo modo di
procedere. Non si tratta di simulare l’inesistenza di Dio, di fare «come
se» Dio non esistesse. Tommaso non ha alcun dubbio a tal proposito,
nemmeno metodologico. Nella sua fede, egli accoglie questa verità
come la prima che confessa nel Credo. E incessantemente si riferisce
alla Scrittura rivelata. E molto significativo, per esempio, che
l’articolo in cui sviluppa le cinque vie che devono stabilire l’esistenza
571, q. 2, Prol.
3658SCGI9.
di Dio, prenda il suo punto di partenza nella teofania del roveto
ardente: «Io sono Colui che sono» 59. Si farebbe un gran torto
all’ispirazione della sua ricerca considerandone soltanto l’armatura
filosofica. Suo scopo è accertarsi con la ragione di ciò che crede per
fede ed elaborare in quanto teologo il contenuto della rivelazione fatta
a Mose. Al contrario di ciò che penseremmo spontaneamente, il suo
procedimento è meno diretto contro l’ateismo che contro chi pretende
che l’esistenza di Dio sarebbe evidente e che non sarebbe necessario
stabilirla. A costoro Tommaso replica: in re essa è evidente, ma non
60
per noi . Ne è prova il fatto che gli increduli sono numerosi. Ma se
occorre che il teologo almeno mostri che non è irragionevole credere,
è ancora più importante, forse, ch’egli stesso prenda coscienza di ciò
che implica il primo articolo della professione di fede.
Senza rifare qui il procedimento, che continua a mettere alla
prova la sagacia degli interpreti 61, è utile ricavarne la struttura e il
senso. Tommaso non parte dalla soggettività religiosa, ma piuttosto
dall’osservazione del mondo esteriore, ed è per questo che la prova
basata sul movimento occupa il primo piano. Non il puro movimento
fìsico, che non è che un punto di partenza, ma il movimento
metafisico inferito, riscontrabile in ogni passaggio dalla potenza
all’atto. Col rischio di risalire all'infinito. da tale passaggio dalla
potenza all’atto osservabile in tutto il mondo creato, si deve arrivare
ad ammettere l’esistenza di un primo «motore» che non ha alcun
bisogno d’essere mosso da qualche altro, dato che esso è totalmente
in atto. Ed è questo che tutti intendono dire parlando di Dio. Le altre
quattro vie esplorano i diversi aspetti sotto i quali si realizza
l’universale causalità di Dio nella creazione: refficienza, il possibile e
il necessario, i gradi nell’essere e il governo del mondo; la struttura
delle vie resta però fondamentalmente la stessa e si è condotti in
ognuna all’esistenza di un Primo, che è l’unica causa esplicativa del
mondo, poiché ne è contemporaneamente il primo Principio e il Fine
ultimo.
59 I, q. 2, a. 3 se; non è meno significativo il fatto che alla fine di questa prima U
sezione dedicata alò studio di Dio, Tommaso riprenda l’esame dello stesso nome per
chiedersi se «Colui che è» è il nome proprio di Dio; cf. di seguito. j
60I, q. 2, a. 1. g
61 Le cinque vie impiegate da Tommaso per stabilire l’esistenza di Dio hanno J
costituito l’oggetto di una abbondante letteratura; rinviamo semplicemente a due »
classici in lingua francese: É. GiLSON, Le Thomisme, Paris 1986é, pp. 67-97; J. , MARITAIN,
Approches de Dieu, in Oeuvres complètes, t. 10, Fribourg-Paris 1985. j Trattandosi qui di
filosofi, sarà lecito rinviare a un teologo presso il quale si trove- f ranno gli indispensabili
complementi: G. LAFQNT, Structures et méthode dans Somme théologique de saint Thomas
d’Aquin, Paris 1961, cap. 1: «La lumière deTj Dieu», pp. 35-100. 37
Il significato religioso e spirituale di questo metodo è anch’esso
molto chiaro. L’impresa di Tommaso per stabilire l’esistenza di Dio
non è pretesa razionalista, ma confessione di umiltà: l’uomo non
dispone di Dio 62 63.1 fiumi d’inchiostro versati a proposito delle prime
questioni della Somma non possono riuscire a sommergere ciò che
una lettura «semplice» permette facilmente di constatare: non solo
Tommaso si sente obbligato a stabilire che Dio è, ma in più si
riconosce incapace di giungere a possedere di lui una conoscenza
completa; senza sosta egli ripete lo stesso ritornello: di Dio noi non
possiamo sapere «ciò che egli è» (quid est), ma soltanto «ciò ch’egli
non è» (quid non est). Se non rinuncia all’impresa, dovrà tuttavia
confessare che Dio è conosciuto come sconosciuto 1. E se osa dirne
qualcosa lo dirà «come balbettando» 64.

CONOSCENZA E NON CONOSCENZA DI DIO

Nel momento in cui fra Tommaso ne tratta, la questione ha già


una lunga storia, il cui periodo più recente non è il meno
movimentato. Nel 1241, ossia poco piu di dieci anni prima che
l’Aquinate comincias-

62 J. Maritain l’aveva molto bene espresso in passato: «Dimostrare


l’esistenza di Dio non significa sottomettere Dio alla nostra presa, né definirlo, né
impadronirsene, né maneggiare nient’altro che idee malferme in confronto a tanto
oggetto, né giudicare altro che la nostra radicale dipendenza. Il procedimento con
cui la ragione dimostra che Dio è, mette la stessa ragione in un atteggiamento di
adorazione naturale e di ammirazione intelligente», Les degrés du savoir, in Oeuvres
com- plètes, t. 4, Fribourg-Paris 1983, p. 669 [ed. it. p. 267],
63 Super Boetium De Trinitate, q. 1, a. .2 ad 1; si sarà qui riconosciuto il titolo
dell’opera di J.-H. NICOLAS, Dieu contiti comme inconnu, Paris 1966.
64Sent. I, d. 22, q. 1, a. 1: «Come noi conosciamo Dio imperfettamente, così
anche lo chiamiamo imperfettamente, quasi balbettando (quasi balbutiendo), dice
san Gregorio. Egli solo in effetti si comprende perfettamente ed è per questo che è
anche il solo a potersi chiamare perfettamente, se mi è permesso parlare in questo
modo, generando il Verbo che gli è consostanziale».
38
se a insegnare, Guglielmo d’Auvergne, allora vescovo di Parigi, su
consiglio dei teologi dell’Università aveva dovuto condannare una
tendenza diffusa, che si èra affermata fin dall’inizio del secolo,
secondo la quale era impossibile, sia per gli angeli che per gli uomini,
conoscere Dio nella sua essenza 65. Il vescovo, al contrario, ricordava
fermamente che «Dio è veduto nella sua essenza o sostanza dagli
angeli e da tutti i santi, e sarà veduto dalle anime glorificate» 66 67.
Di fatto, il pensiero cristiano aveva ereditato dalla Bibbia due
affermazioni apparentemente contraddittorie. San Paolo aveva
affermato con forza che Dio «abita una luce inaccessibile [e] che
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo». San Giovanni
da parte sua non era stato meno categorico: «Dio, nessuno l’ha mai
visto»11. E tuttavia è lui che ci assicura: «Noi saremo simili a lui,
perché lo vedremo così come egli è» 68. Seguendo la loro propria
originalità e i diversi contesti in cui si sono sviluppate, le due
tradizioni cristiane, d’Oriente e d’Occidente, hanno messo l’accento
su l’una o l’altra di queste due affermazioni.
Sotto la spinta di sant’Agostino, in connessione con quella di
Gregorio Magno, l’Occidente considera naturale sperare la visione di
Dio 'in patria come il prolungamento di una vita in grazia. Dio è
senza dubbio invisibile per sua natura ai nostri occhi carnali, ma
poiché Gesù ha solennemente dichiarato: «Beati ipuri di cuore,
perché vedranno Dio» (Mt 5,8), bisogna credere che ciò sia
possibile. Se Dio è detto invisibile, è per significare che non è un
corpo, non per interdire ai cuori puri la visione della sua sostanza 69.
Per Agostino, l’intera speranza cristiana è polarizzata dalla visione di
Dio che si avrà nella patria celeste; e noi abbiamo visto come sulla
sua scia Tommaso concepisca lo sforzo teologico nella luce pervasa
d’amore di una fede che progredisce verso l’intelligenza. In questa
linea agostiniana i teologi concedo

65 Tommaso fa più volte allusione a questa condanna; cf. per esempio De


ueritate q. 8, a. 1; Summa theologiae I, q. 12, a. 1; In loannetn I, 18, lect. 11, n. 212.
66 Chartularium Dniversitatis Varisiensis I, n. 128, p. 170: «Deus in sua
essentia vel substantia videbitur ab angelis et omnibus sanctis et videtur ab anima-
bus glorificatis»; il documento è del 13 gennaio 1241.
671 Tm 6, 16; Gv 1, 18.
68 1 3, 2; cf. anche Gv 17, 3: «Questa è la vita eterna: che conoscano
te...». 39
no senza difficoltà ai santi, perfino sulla terra, una certa
conoscenza dell’essenza divina, del quid est di Dio14.
Viceversa, alle prese con diversi errori di origine più o meno
gnostica, in modo particolare con il razionalismo di Eunomio che
sottomette Dio alla ragione umana, i Padri greci tendono piuttosto a
sottolineare rinvisibilità di Dio e la sua ineffabilità, facendo
attenzione a non metterla in pericolo quando commentano la visione
faccia a faccia di cui parla il Nuovo Testamento. Questa tradizione
greca penetra in Occidente tramite due vie privilegiate: lo Pseudo-
Dionigi da una parte, san Giovanni Damasceno dall’altra 15. Senza
entrare nei dettagli, è sufficiente sapere che Giovanni Scoto Eriugena
fu all’origine di una spiegazione che tentava di conservare
simultaneamente l’eredità di sant’Agostino e quella di Dionigi: Dio
sarà visto nella visione beatifica non nella sua essenza, ma tramite le
sue manifestazioni, in teofanie. Questa soluzione non poteva non
provocare delle proteste. Quella di Ugo di San Vittore, già alla fine
del XII secolo, è la più lucida e la più ferma: se Dio non è visto che in
immagine, allora non si tratta più di beatitudine 16. Tuttavia altri
teologi - soprattutto tra i domenicani di

14
Si può vedere a proposito H.-F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est,
RTAM 22 (1955) 72-78, che cita alcuni testi di san Bonaventura, tra cui il seguente
che individua nella conoscenza del quid est di Dio come «un genere diversamente
realizzato presso tutti gli uomini»: «Il quid est di Dio può essere conosciuto
pienamente e perfettamente in modo esaustivo; in questo modo Dio solo può
conoscersi. Esso può anche essere conosciuto in maniera chiara e netta dai beati; o
ancora può essere conosciuto in maniera parziale e oscura in quanto Dio è il sovrano
e primo Principio di tutto il creato; in questa maniera, per quanto dipende da lui, è
conoscibile da tutti», De mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1 ad 13 (Opera omnia, t. 5, p. 51 b;
tr. it. V/l, p. 249).
15
Questo movimento di penetrazione in Occidente della «luce venuta da
Oriente» è stato molto ben descritto da M.-D. CHENU, ha théologie au douzième siede,
«Etudes de philosophie médiévale 45», Paris 1957, pp. 274-322: cap. 12: «L’entrée de
la théologie grecque», e 13: «Orientale lumen».
16
«Se non si vede sempre che la sola immagine, allora non si vede mai la
verità. Poiché l’immagine non è la verità, anche se vi si riferisce. Che essi ci liberino
dunque da queste fantasie tramite le quali si sforzano di offuscare la luce delle nostre
intelligenze e che non interpongano più tra Dio e noi gli idoli delle loro invenzioni.
Per noi, niente ci può saziare se non Lui e non possiamo fermarci che a Lui» (PL 175,
955A); Tommaso tratta il problema in I, q. 12, a. 2: «Dire che Dio è veduto mediante
qualche immagine, equivale a dire che l’essenza di Dio non è veduta affatto» (dicere
Deum per similitudìnem uideri, est dicere diuinam essentiam non uiderì). Si vedrà a tal
proposito il nostro studio La vision de Dieu per essentiam selon saint Thomas

69AGOSTINO, Lettera 147, 37 e 48 (a Paolino sulla visione di Dio): PL 33,


613 e 618.
40
d’Aquin, «Micrologus» (1997).
Saint-Jacques70 71 — saranno più sensibili alla profonda religiosità che
scaturisce dalla tradizione greca, ed è così che la tesi
dell’inconoscibilità di Dio doveva finire per smuovere i garanti
dell’ortodossia teologica occidentale fino a provocare, nel 1241, la
reazione, in verità un po’ pesante, del vescovo di Parigi1S.
Preparata da quella del suo maestro sant’Alberto, la soluzione di
san Tommaso consisterà nel distinguere accuratamente ciò che
appartiene alla conoscenza terrena di Dio e ciò che non può che
appartenere alla conoscenza che avremo in patria. Così, nel 1257,
quando nella preparazione del De ueritate incontra le autorità
maggiori della tradizione greca, Dionigi e Giovanni Damasceno,
secondo i quali non si può conoscere il quid est di Dio, egli risponde
tranquillamente:
«Le parole di Dionigi e del Damasceno vanno intese della
visione mediante la quale l’intelletto del viatore vede Dio
mediante qualche forma [intelligibile]. Dato che questa forma
non può che essere inadeguata alla rappresentazione
dell’essenza divina, non si può vedere tramite essa l’essenza
divina; si sa soltanto che Dio è al di sopra di ciò che di lui viene
rappresentato all’intelletto e quindi “ciò che egli è” resta
occulto: e questo è il più nobile modo di conoscenza al quale
possiamo giungere in questa vita. E così di lui non conosciamo
“ciò che è” ma “ciò che non è”. [Tuttavia sarà differente nella
patria poiché, secondo la soluzione di sant’Alberto che
Tommaso riprende e perfeziona, noi non avremo allora nessun
bisogno di una forma creata per vedere Dio, è lui che si unirà
direttamente all’intelligenza del vedente per essere la sua
beatitudineJ. L’essenza divina, in effetti, rappresenta se stessa
sufficientemente, per cui quando Dio sarà egli stesso la forma
dell’intelletto non si vedrà di lui soltanto "ciò che non è", ma

70 Sembra sia il caso, tra altri, di Ugo di San Caro, uno dei primi maestri
domenicani di Parigi (1230-1235), cf, H.-F. DONDAINE, Hugues de Saint-Cher et la
condamnation de 1241, ESPT 33 (1949) 170-174, e del suo confratello Guerrico di San
Quintino (1233-1242), predecessore immediato di Alberto, cf. H.-F. DONDAI- NE - B.-
G. GUYOT, Guerric de Saint-Quentin et la condamnation de 1241, RSPT 44 (1960) 225-
242; C. TROTTMANN, Psychosomatique de la vision béatifique selon Guerric de Saint-
Quentin, RSPT 78 (1994) 203-226.
71Questa storia è stata descritta in modo magistrale da H.-F. DONDAINE,
L’objet et le «medium» de la vision béatifique chez les théologiens du XIII e siècle,
RTAM 19 (1952) 60-130. Si può vedere anche S. TUGWELL, Albert & Thomas Selected
Writings, New York-Mahwah 1988, pp. 39-95, e il riassunto dello stesso autore: La
crisi della teologia negativa nel sec. XIII, «Studi» n.s. 1 (1994) 241-242. 41
anche "ciò che è”»72.
Come è stato bene scritto, «questa trascrizione in categorie
aristoteliche del sicuti est (così come è) e del uidere per spedetn
(vedere tramite una forma) della Scrittura diverrà classica presso i
discepoli di san Tommaso; ma nel 1257 essa comportava per il
giovane maestro una decisione rilevante, la cui importanza non appare
se non dal confronto con i suoi massimi contemporanei» 73. Meno
aristotelico, Bonaventura non vedeva inconvenienti nell’affermare che
una certa visione del «quid est» sarebbe possibile su questa terra;
Alberto, da parte sua, pensava di poter concedere una certa
conoscenza confusa dell’essenza o dell’essere di Dio «così come esso
è» {ut est) senza che ciò costituisse allo stesso tempo una conoscenza
del suo «quid est» 74. Cosa a cui Tommaso facilmente replicava nel
testo del De Meritate appena citato: conoscere l’essenza di una cosa
significa conoscere il suo «quid est».
Il dilemma consisteva dunque nelTaccogliere in pieno
l’orientamento della tradizione latina ribadito dalla condanna del 1241
e ammettere una certa conoscenza dell’essenza divina, senza cadere
nell’ingenua illusione di una conoscenza esaustiva; e nel contempo si
trattava di ricevere l’eredità della tradizione greca portatrice di una
così profonda attitudine religiosa di rispetto del mistero e della sua
trascendenza, senza rinunciare alla speranza nutrita dalla Scrittura di
una visione davvero faccia a faccia. Da una parte è il rischio di una
pretesa blasfematoria di sottomettere il segreto di Dio alle prese
dell’uomo; dall’altra, quello di cedere allo gnosticismo di fronte a una
impersonale trascendenza irraggiungibile e di eliminare dall’esistenza
cristiana lo stimolo dell’Incontro finale, in cui la speranza troverà il
compimento del suo desiderio infinito.

72 De ueritate, q. 8, a. 1 ad 8.
73H.-F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est, p. 72,
74Cf. H.-F. Dondaine, ibid., pp. 72-75; ecco uno dei passaggi di Alberto al quale
poteva pensare Tommaso: «Bisogna distinguere tra vedere Dio “così come è” {ut est) e
vedere il quid est di Dio, così come si distingue tra vedere una cosa “così com’essa è”
{ut est) e vedere il quid est di questa cosa. Vedere una cosa “così com’essa è”, significa
vedere l’essere o l’essenza di questa cosa, vederne il quid est di questa cosa significa
vederne la sua propria definizione includente tutti i suoi dati (Rem enim videre, ut est,
est enim ridere esse rei sive essentiam rei; videre autem, quid est res, est videre
propriam diffinitionem includentem omnes terminos rei; De resurrectione, Iract. 4, q.
1, a. 9, ed. Col., t. 26, 1958, p. 328 b).
42
LA VIA NEGATIVA

43
Per giungere a una conoscenza di Dio che tenga conto
simultaneamente delle esigenze di queste due ispirazioni divergenti,
Tommaso impiega un metodo che certamente richiede tutte le risorse
della ragione, ma che consiste piuttosto nel negare che nell’affermare,
nello scartare successivamente «tutto ciò che non è Dio» più che
pretendere di precisare ciò che egli è. Si tratta dunque dell’impiego
della «via di separazione» {via remotionis) ereditata dallo Pseudo-
Dionigi e di cui si trova un bell’esempio in ciò che costituisce, per
così dire, la prefazione della Somma contro i Gentili. In questa prima
grande opera della maturità, Tommaso non era ancora dominato dalla
preoccupazione di brevità, forse eccessiva, che caratterizza la Somma
di teologia; vi si trovano perciò spesso delle spiegazioni più ampie
che aiutano il lettore a comprendere più facilmente. Nelle due opere,
una volta data per acquisita'; l’esistenza di Dio («esiste un primo
essere al quale diamo il nome di: 'Dio»), rimane da interrogarsi su ciò
che egli è in se stesso:
«Nel considerare la realtà divina si deve ricorrere soprattutto
alla via della negazione. La sostanza divina infatti sorpassa con
la sua immensità tutte le forme che la nostra intelligenza può
raggiungere, e quindi non siamo in grado di apprenderla in
modo tale da conoscere “ciò che essa è" (quid est). Ne avremo
pertanto una certa conoscenza sapendo “ciò che essa non è”
(quid non est). E tanto più ci avvicineremo a tale conoscenza,
quanto più numerose saranno le cose che col nostro intelletto
potremo escludere da Dio»75.
Il paragone è un po’ grossolano, ma si può provvisoriamente
azzardare l’immagine: Tommaso utilizza un’idea tanto semplice
quanto quella che si trova alla base di alcuni giochi di società in cui si
tratta di indovinare quale è la persona o la cosa alla quale pensa il
partner. La cosa più semplice è procedere per eliminazioni
successive: si tratta di una cosa o di un essere vivente? Di un animale
o di una persona? Di uri uomo o di una donna?... Di eliminazione in
eliminazione si arriva a poter azzardare un nome. Le cose sono
tuttavia meno semplici quando si tratta di Dio:

75 SCG114.
44
«Infatti noi conosciamo tanto più perfettamente una realtà
quanto più ne scorgiamo le differenze che la distinguono dalle
altre: poiché ogni cosa possiede un essere proprio che la
distingue da tutte le altre. Cosicché noi cominciamo col situare
nel genere le cose di cui conosciamo le definizioni, e questo ce
ne dà una certa conoscenza comune; si aggiungono in seguito
le differenze che distinguono le cose le une dalle altre: così si
raggiunge una conoscenza completa della cosa».
Per chi non fosse familiarizzato con questo modo di ragionare,
sarà sufficiente un esempio per capirlo. In questa prospettiva, le cose
si definiscono innanzitutto tramite i loro aspetti più generali (il
genere) ai quali si aggiungono delle note caratteristiche (la
differenza specifica). Così, quando si tratta dell’essere umano
definito come «animale razionale», «animale» lo situa nel genere
degli esseri animati, distinguendolo dai vegetali o dai minerali,
mentre «razionale» indica la differenza specifica che caratterizza
l’uomo fra tutti gli animali. Con questo non si vuol dire di sapere
tutto dell’uomo né soprattutto di ogni uomo. Questa conoscenza
dell’universale «uomo» non è che una conoscenza astratta che
prende in considerazione proprio gli aspetti più generali, ma che
lascia sfuggire la conoscenza del singolare (quella di Pietro o di
Paolo, che appartiene a tutt’altro tipo di approccio). Ora, nemmeno
questa conoscenza, per quanto povera sia, è possibile quando si
tratta di Dio:
«Ma nello studio della sostanza divina, poiché non possiamo
cogliere “ciò che è" (quid) e prenderlo come genere, e dato che
non possiamo nemmeno desumere la sua distinzione con le
altre cose tramite le differenze positive, siamo obbligati a
desumerla dalle differenze negative».
Noi possediamo una differenza positiva quando «razionale» si
aggiunge ad «animale» per definire l’uomo; ma poiché questo non
può valere per Dio, in tal caso bisognerà dire piuttosto: non cosa,
non animale, non razionale... Ne seguirà dunque una procedura
analoga:
«Come nel campo delle differenze positive una differenza ne
implica un’altra e aiuta ad avvicinarsi maggiormente alla
definizione della cosa sottolineando ciò che la distingue da
molte altre, così una differenza negativa ne implica un’altra ed
evidenzia la distinzione da molte altre. Se affermiamo per
45
esempio che Dio non è un accidente, lo distinguiamo in tal
modo da tutti gli accidenti. Se poi aggiungiamo che non è un
corpo, lo distinguiamo ancora da un certo numero di sostanze;
e così, progressivamente, grazie a codeste negazioni, arriviamo
a distinguerlo da tutto ciò che non è lui. Si avrà allora una
considerazione appropriata della sostanza divina quando Dio
sarà conosciuto come distinto da tutto. Ma non sarà una
conoscenza perfetta, poiché si ignorerà “ciò che è in se stesso»
(quid in se sit)».

Malgrado la sua lunghezza e la sua difficoltà, occorreva citare


questo testo che risulta molto chiaro sia in se stesso sia riguardo al-
l’intenzione di san Tommaso. Egli è animato dalla profonda
convinzione che non è piccola cosa sapere di Dio ciò che non è.
Ciascuna di queste differenze negative determina con una precisione
crescente la differenza precedente e coglie sempre meglio il contorno
esterno del suo oggetto: «E così, procedendo per ordine e
distinguendo Dio da tutto ciò che non è, tramite negazioni di questo
genere, arriveremo ad una conoscenza non positiva ma vera della sua
sostanza, poiché lo conosceremo come distinto da tutto il resto» 76.
L’immagine del nostro gioco di società rivela qui la sua insufficienza;
l’apparente parallelo non funziona fino in fondo. Supponendo che io
sia riuscito a identificare la persona o la cosa che bisognava
riconoscere, mi trovo ormai in un campo conosciuto e non vi è più
mistero per me. Non così accade per quanto riguarda Dio. Io posso
affermarlo in verità con un giudizio positivo, ma non posso farmene
un’idea, un concetto che esprimerebbe il suo proprio mistero. «Non è
una definizione che ce lo fa conoscere, ma la sua distanza da tutto ciò
che non è. Ciò che è, non è conosciuto ma affermato, cioè stabilito con
un giudizio» 77. La teologia negativa non è in alcun modo una teologia
negatrice.
Oltre alla sua pertinenza intellettuale, questo testo è anche
molto illuminante circa ciò che amerei chiamare l’implicito metodo
spirituale del Maestro d’Aquino. Non sarà mai abbastanza l’attenzione
prestata al rigore di questa dialettica negativa; essa costituisce in se
stessa un’ascesi con esigenze poco comuni. Se si sforza di praticarla
nello stato d’animo che abbiamo tentato di suggerire nelle prime

76 É. GILSON, he Thomisme, Paris 19866, p. 114.


77 T.-D. HUMBEECHT, La théologie négative chez saint Thomas d’Aquin,
RT 93 (1993) 535-566; 94 (1994) 71-99, cf. qui p. 81; questo studio, il più recente sul
soggetto, è anche tra i più perspicaci.
46
pagine di questo libro, il teologo non può non considerare le tappe del
suo cammino che come altrettanti gradi ascendenti nella via che
conduce verso Dio. Se, come ogni credente, deve abbandonare gli
idoli per rivolgersi verso il Dio:
vivente (cf. At 14, 14), egli deve anche rinunciare alle costruzioni del'
suo spirito, idoli personali che non sono i meno tenaci. A suo modo, è a
questo che invita Tommaso quando distingue la contemplazione dei
filosofi e la contemplazione cristiana. La prima ha sempre la tentazione
di fermarsi alla gioia della conoscenza in se stessa ed è in fin dei conti
ispirata dall’amore di sé; la seconda, la contemplazione dei santi,
totalmente ispirata dall’amore di carità per la Verità divina, termina
all’oggetto stesso 78. Interamente oggettiva, nel senso che è l’oggetto
stesso che ne comanda lo svolgimento, questa ascesa richiede da parte
del soggetto che vi si consacra una spoliazione a misura della pienezza
che dovrà colmarlo. L’esercizio della teologia si rivela così come una
scuola di vita spirituale.

Dio CONOSCIUTO COME SCONOSCIUTO

Se il procedimento seguito dalla teologia negativa non cambia


direzione passando dalla Somma contro i Gentili alla Somma di teologia,
la sua pratica concreta è tuttavia molto differente. Nella prima opera,
Tommaso parte dal fatto che Dio è immutabile. Non si tratta di postulato
o conclusione d’ambito filosofico, ma di un dato ricevuto dalla
rivelazione. In tre differenti luoghi la Bibbia riprende la stessa
affermazione: «Dio non è un uomo da potersi smentire» diceva già il
libro dei Numeri (23, 19), al quale fanno eco sia il profeta Malachia (3,
78 Cf. Seni., Ili, d. 35, q. 1, a. 2 sol. 1: Tommaso s’interroga sul molo della volontà
(affettività) nella vita contemplativa e sottolinea che se la contemplazione è opera
dell’intelligenza, quest’ultima è sostenuta e accompagnata dalla volontà: «Sicché la vita
contemplativa consiste in un atto della potenza conoscitiva messa in moto dalla volontà.
Ma accade che l’operazione è per così dire a metà strada tra il soggetto, e l’oggetto; essa
è una perfezione per il soggetto che conosce e riceve la sua qualità dall’oggetto che la
specifica. Ne deriva dunque che l’operazione della potenza conoscitiva può essere
qualificata mediante l’affettività (affectari) in duplice modo. Da una parte, in quanto essa
è la perfezione del conoscente; e in questo caso la qualità affettiva dell’operazione
conoscitiva procede dall’amore di sé; questo era il caso dell’affettività nella vita
contemplativa dei filosofi. Dall’altra, in quanto essa termina all’oggetto, e in questo caso il
desiderio della contemplazione procede dall’amore dell’oggetto, poiché dove si trova
l’amore là si trova anche lo Sguardo... Questo è il caso dell’affettività nella vita
contemplativa dei santi di cui noi parliamo... (e che) esige la carità»-, vedere anche II-II, q.
180, aa. 1 et 7.
47
6): «Io sono Dio, non cambio», sia l’apostolo Giacomo (1, 17): «In lui
non vi è alcun cambiamento». Partendo da ciò, Tommaso stabilisce che
se è immobile, Dio è anche eterno, e dunque gli è assolutamente
impossibile trovarsi in potenza nei riguardi di qualsiasi cosa. Di
conseguenza, in lui non vi è nemmeno materia — poiché essa si
definisce per il fatto di essere in potenza - e questo ci spinge a scartare da
lui ogni composizione. E se non si compone con nient’altro, occorre
allora ritenere per certo che Dio è la sua propria essenza, ch’egli è il suo
essere stesso. Non possiamo seguire i dettagli del procedimento fino alla
fine: esso sfocia neH’affermazione della semplicità divina, da dove
riparte all’esame delle altre perfezioni di Dio.
Nella Somma di teologia, l’autore utilizza l’ordine inverso e prende
la semplicità divina come punto di partenza. Non per questo rinnega però
la sua prima ispirazione, ma al contrario l’approfondisce; per
comprenderlo è sufficiente leggere il testo parallelo a quello che abbiamo
appena citato:
«Conosciuta l’esistenza di una realtà, resta da ricercare il suo
modo di essere, per giungere a conoscere ciò che essa è. Ma,
poiché non possiamo sapere di Dio che cosa è, ma soltanto ciò che
non è, così non possiamo nemmeno considerare come egli è, ma
piuttosto come non è. Perciò è necessario esaminare prima di tutto
come egli non è, in seguito come è conosciuto da noi, e infine come
è denominato. Si può dimostrare di Dio come non è, scartando le
cose che a lui non convengono, quali sarebbero la composizione,
l’essere in movimento ed altre cose simili. E per questo che ci si
interroga innanzitutto sulla sua semplicità, per la quale scartiamo
da lui ogni composizione. Ma siccome negli esseri corporali le
cose semplici sono imperfette e frammentarie, bisognerà indagare
in seguito sutla perfezione di Dio, la sua infinità, la sua
immutabilità e la sua unità» 79.
Partendo dalla semplicità divina, Tommaso impernia il suo
discorso sulla pienezza d’essere di Dio e sull’identità in lui dell’essenza e
dell’essere: Dio si identifica al suo essere stesso. Ed è questo che fonda
la successiva trattazione sugli attributi divini. Ciascuno di essi
meriterebbe una lunga considerazione, ma sarà sufficiente sottolineare
ciò che emerge più chiaramente del metodo tomasiano. Lungi dal portare
l’uomo ad impossessarsi del mistero divino, dominandolo, questo pro

791, q. 3 Pro/.; questo enunciato riassume l’ordine delle questioni 4-11.


48
cedimento suscita in lui una coscienza affinata del mistero che
l’oltrepassa. La teologia negativa è la forma intellettuale del rispetto e
dell’adorazione dinanzi al mistero80.
E qui che Tommaso appare in ima certa misura come un erede
autentico della tradizione greca, e lo dimostra fin dall’inizio della sua
carriera, quando incontra per la prima volta in questo contesto i nomi
prestigiosi che patrocinano il suo apofatismo 81. Si tratta di sapere se
l’espressione utilizzata dalla Volgata quando Dio si fa conoscere da
Mosè, «Colui che è» (Qui est), significhi veramente «ciò che è» Dio (il
suo quid est) o soltanto, come afferma san Giovanni Damasceno, «un
certo oceano infinito di sostanza» 82. Se il Damasceno ha ragione, dice
l’obiettante, dato che l’infinito non è comprensibile (nel senso di una
conoscenza esaustiva), esso non sarà nemmeno «nominabile»; dunque
sarà impossibile parlare di Dio, ed egli resterà sconosciuto. Per
Tommaso non vi sono dubbi; tra tutti gli altri nomi, «Colui che è» offre
vantaggi incontestabili per parlare di Dio, poiché è un nome rivelato; ma
ciò non significa che per questo si esaurisca il mistero:
«Tutti gli altri nomi esprimono l’essere determinato e particolare,
come ‘"saggio” dice un certo essere; ma il nome “Colui che e’
dice l’essere assoluto e non determinato da qualcosa di aggiunto;
ed è per questo che il Damasceno afferma che esso non significa
ciò che è Dio, ma “un certo oceano infinito di sostanza, come non
determinato”. E per questo che quando noi procediamo alla
conoscenza di Dio per via di negazione, neghiamo di lui
innanzitutto le cose corporali e in seguito anche le intellettuali
secondo la modalità in cui si trovano nelle creature, come la bontà
e la saggezza; e allora non resta nel nostro intelletto che la sua
esistenza (quia est) e nient’altro, e il nostro intelletto viene a
trovarsi

80 Si rileggerà volentieri ciò che diceva a tal proposito É. GILSON, Le Thomisme, p.


99: «Questo modo negativo di pensare Dio ci apparirà come sempre più caratteristico
della conoscenza che noi abbiamo di lui. Dio è semplice; ora, ciò che è semplice ci sfugge,
dunque ci sfugge la natura divina. La conoscenza umana di un tale Dio non può che essere
una teologia negativa. Sapere in cosa consista l’essere divino, significa accettare di
ignorarlo».
81 «Apofatismo» (dal greco apophasis = negazione) a volte è utilizzato come
equivalente di «teologia negativa» (theologia apophatikè), che è l’espressione dello stesso
Pseudo-Dionigi.
82 De fide orthodoxa I 9, 2: PG 94, 836; Burgundionis versio, ed. E.M. BUY- TAERT,
Louvain 1955, p. 49; «Totum enim in seipso comprehendens habet esse, velut quoddam
pelagus substantiae infinitum et indeterminatum».
Al
allora in una specie di confusione. Infine, anche l’essere, quale si
trova nelle creature, è negato di lui, e allora egli resta in una certa
tenebra dell’ignoranza (et tunc remanet in quadam tenebra
ignorantiae), ignoranza secondo la quale siamo uniti a Dio in
modo ottimale, almeno durante la vita presente; come afferma
Dionigi) questa è come una nuvola in cui si dice che Dio abiti»83.
Questo testo, che si è detto essere «il piu apofatico di tutta l’opera
di san Tommaso»84 85, non è però il solo della sua specie ed è molto
importante il fatto che si ritrovano delle annotazioni simili in tutte le
epoche dell’evoluzione intellettuale del Maestro. Dieci anni dopo le
Sentenze, la Somma contro i Gentili riprende queste espressioni in
maniera ancora piu esplicita:
«La sostanza separata conosce da se stessa che Dio esiste (quia
est), che è la causa di tutto, al di sopra di tutto (eminentem),
distinto (remo- tum) non solo da ciò che è, ma da tutto ciò che può
concepire un’intelligenza creata. Anche noi possiamo ottenere
qualcosa di questa conoscenza di Dio: infatti dagli effetti
sappiamo che Dio esiste (quia est) e che è la causa degli esseri, al
di sopra e separato da essi (supereminens et reinofus). Questo è il
limite della nostra conoscenza di Dio in questa vita, come afferma
Dionigi (Teologia mistica 13): noi siamo uniti a Dio come ad uno
sconosciuto. Ciò avviene perché di lui sappiamo “ciò che non è”
(quid non sit), rimanendoci totalmente ignoto (peni- tus ignotum)
“ciò che è”. E per questo che, per esprimere l’ignoranza di questa
sublime conoscenza, si dice di Mosè che si avvicinò alla nube
oscura in cui Dio era presente (Es 20, 21)»i2.
È In occasione di un parallelo con la conoscenza angelica che
Tommaso formula queste precisazioni. Bisogna osservare che senza
83 Sent. I, d. 8, q. 1, a. 1 ad 4; i testi dello Pseudo-Dionigi che ritornano
costantemente in questo contesto sono i seguenti: De diuinis nominibus VII 3 (PG 3, 869-
872); De mystìca theologia 1-2 (ibid., 997-1000); Epistola V,Ad Dorothaeum (ibid., 1074); ci
si può riferire alla trad, francese di M. DE GANDILLAC, Oeuvres complètes du Pseudo-Denys
TAréopagite, Paris 1943, pp. 144-145; 177-178; 330- 331; si vorrà anche vedere in questo
contesto: SAINT ALBERT LE GRAND, Commentaire de la «Théologie mystique» de Denys le
Pseudo-Aréopagite suivi de celui des Epîtres I-V, introd., trad, francese, note e indici a
cura di E.-H. WÉBER («Sagesses chrétiennes»), Paris 1993.
84 T.-D. HÜMBRECHT, RT 1994, pp. 78ss; questo testo è stato
commentato spesso, cf. soprattutto J. OWENS, Aquinas «Darkness of Ignorance» in the
Most Refined Notion of God, «The Southwestern Journal of Philosophy» (Norman,
Oklahoma) 5 (1974) 93-110.
85 SCG III 49, n. 2270; oltre Tinfluenza di Dionigi, questo testo
manifesta anche quella di Proclo, poiché è da lui che Tommaso riprende il penitus
ignotum,
48
tentare di eliminare il mistero, egli sottolinea però che non siamo
completamente sprovveduti dinanzi ad esso. Questi due orientamenti si
ripetono formulati più o meno brevemente a seconda dei testi e sarebbe
facile moltiplicarne gli esempi. Senza cercare di essere esaustivi si può
almeno osservare che, se mettiamo da parte le opere erudite per
verificare in che modo Tommaso si rivolga ai fedeli, riscontriamo che il
predicatore non si esprimeva diversamente dal teologo:
«Nessuna via è così fruttuosa per la conoscenza di Dio come
quella che procede per separazione (per remotionem). Si viene
allora a sapere che Dio è perfettamente conosciuto, quando sì
diventa coscienti che egli è ancora al di là di tutto ciò che può
essere pensato di lui. E per questo che si dice di Mosè - il quale fu
tanto intimo (familiarissimus) con Dio quanto è possibile esserlo
in questa vita - che si avvicinò a Dio nella nuvola dell’oscurità,
cioè che giunse alla conoscenza di Dio apprendendo "ciò che Dio
non è”. E questa via di separazione che indica il nome “santo” [il
“tre volte santo” dei serafini in Is 6, 2]»33.
Come una litania, questa serie di testi, che non sarebbe difficile
prolungare ulteriormente34, testimonia in modo impressionante che la
modestia iniziale del proposito non è mai persa di vista e che viene
ripetuta ogni volta che se ne presenta roccasione. Ma nello stesso tempo -
e tanto spesso quanto è necessario - il teologo rifiuta di abdicare: Dio gli
ha dato l’intelligenza come il bene più prezioso, ed egli considera che
l’omaggio più alto che gli può rendere consiste precisamente nell’im
piegare le sue forze per scrutare il mistero. Molti studi sono stati
consacrati all’apofatismo di san Tommaso, ma nei suoi riguardi non si
può utilizzare questo termine senza operare alcune sfumature che si
impongono. Il riferimento costante a Dionigi, che ritorna in questo icf.
Super Ubrum De Causis, prop. 6, ed. H.-D. SAFFKEY, Fribourg-Louvain 1954, p. 43; C.
D’ANCONA COSTA, Tommaso d‘Aquino, Commento al «Libro delle Cause», Milano 1986, pp.
229ss.; il passaggio del Contra Gentiles è commentato da A.C. PEGIS, Penitus manet
ignotum, MS 27 (1965) 212-226.
33
Sermone Seraphtm stabant (inedito), in J.-P. TOKRELL, La pratique pastorale,
p. 241, nota 141.
34
Cf. Sent. IH, d. 35, q. 2, a. 2 sol. 2; Super Boetium De Trin., q. 2, a. 2, ad 1; De
ueritate, q. 2, a. 1 ad 9; De potentia, q. 7, a. 5 ad 14; In Col. 1, lect. 4, n. 30.
contesto come una specie di ritornello rituale, esprime indubbiamente la
considerevole autorità che questi aveva agli occhi dei medievali. Ma
fedele al suo modo abituale - che si tratti di Aristotele o di altri -
Tommaso non riprende Dionigi senza modificarlo profondamente.

49
La più evidente di queste modificazioni è stata notata da molto
tempo e a giusto titolo. Contrariamente a ciò che trovava nelle traduzioni
a sua disposizione, Tommaso non riprende Dionigi, che dice che Dio
resta totalmente sconosciuto («omnino» ignotum), ma si limita a dire che
noi lo raggiungiamo come sconosciuto («tanquam» ignotum\ o ancora
«quasi» ignotum)86 87 88. D’altronde, mentre Dionigi situava Dio al di là
dell’essere e concludeva alla sua inconoscibilità assoluta, Tommaso situa
Dio al di sopra di «questo essere quale si trova nelle creature» 89,
indicando così che non vi è un concetto d’essere che sarebbe comune a
Dio e alle creature. Ma ciò non significa che il nome «Colui che è» non
si applichi a Dio in nessun modo 90 91. Tommaso non vede Dio soltanto
come la causa dell’essere; egli è molto di più. Se la via della causalità gli
permette di esprimere riguardo a Dio qualcosa d’indispensabile, egli
vuole andare ancora più avanti.
Ci si rende conto molto bene di ciò osservando il modo in cui egli
riprende, prolunga e insieme modifica la triplice via che gli proponeva
l’Areopagita per accedere a Dio 3S. La semplice modificazione
dell’ordine stesso delle tre vie mostra bene che egli non condivide
l’apofatismo assoluto di Dionigi, e che la negazione non sopprime i
diritti dell’affermazione 92. Come osserva Tommaso stesso a proposito di
Maimonide, non è sufficiente dire che Dio è vivente perché non ha
l’essere alla maniera di un corpo inanimato. Parimenti si potrebbe dire
benissimo che Dio è un leone, poiché non ha l’essere alla maniera di un
uccello:
«Il senso della negazione è esso stesso fondato su una certa
affermazione. .. Così se l’intelletto umano non potesse conoscere
niente di Dio affermativamente, non potrebbe nemmeno negare
86 Cf. la nota di P. MARC SU SCG III 39 n. 2270 e T.-D. HUMBRECHT, RT
871994, p. 91, n. 92.
88Cf. il testo delle Sentenze I, d. 8, q. 2, a. 2 ad 4, citato qui sopra all’inizio
89della nostra serie.
90 Si vedrà a tal proposito É. GlLSON, he Thomisme, p. 165, secondo il quale il
modo in cui Tommaso modifica l’ordine del metodo proposto da Dionigi capovolge tutta
la dottrina di quest’ultimo; è vero che Tommaso sovverte compieta- mente tutta la
dottrina di Dionigi, ma le cose non sono così semplici: se Tommaso non ritiene utile di
attenersi una volta per sempre allo stesso modo di proporre le tre vie, non è né
inavvertitamente né arbitrariamente, ma proprio secondo i contesti, come l’ha ben
dimostrato M.B. Ewbank (cf. nota seguente).
91 M.B. EWBANK, Diverse Orderings ofDionysiuss Triplex Via by St.
Thomas Aquinas, MS 52 (1990) 82-109.
92 Lo studio di T.-D. Humbrecht è in questo caso prezioso, visto che esso
mostra bene come la teologia negativa non si ha senza una teologia positiva preliminare.
50
niente di lui. Poiché se niente di ciò che afferma di Dio si
verificasse affermativamente, non avrebbe allora nessuna
conoscenza in proposito. È per questo che al seguito di Dionigi,
occórre dire che questi nomi [di perfezione] esprimono
[realmente] la sostanza divina, seppure in modo incompleto e
imperfetto» 93.

UNA TRIPLICE VIA VERSO DIO

È importante per il nostro scopo soffermarsi un istante su questo


nuovo aspetto delle cose. Se è vero che Tommaso attende dal suo
discepolo una attitudine di rinuncia intellettuale spinta al massimo,
tuttavia non si tratta affatto di una abdicazione più o meno mascherata. Il
teologo deve dar prova di una non meno grande magnanimità
intellettuale per impiegare con lo stesso rigore tutte le risorse della sua
mente. Ci si rende conto molto bene di questo osservando la
progressione metodica con cui avvia lo sviluppo delle «tre vie». Per
riprenderla molto Uberamente, si può seguire qui una delle esposizioni
più espHcite di san Tommaso, nel suo commento su un versetto della
lettera ai Romani (1, 20): «Fin dalla creazione del mondo, ciò che Dio ha
di invisibile si lascia vedere dall’intelUgenza nelle opere di lui». Questo
luogo comune della Scrittura si ritrova sulla bocca di san Paolo nel
discorso agU ateniesi {At 17, 24-28), oppure nel Ubro della Sapienza
(13, 5): «La grandezza e la bellezza delle creature permettono, per
analogia, di contemplare il loro autore». Questi testi richiedono subito
una prima messa a punto:
«Occorre sapere che vi è qualcosa di Dio che resta totalmente
sconosciuto all’uomo durante questa vita: ciò che Dio è (quid est
Deus)... La ragione sta nel fatto che la conoscenza umana trova il
suo punto di partenza nelle realtà che ci sono connaturali, le
creature corporali, che non sono adatte a rappresentare l'essenza
divina. Tuttavia, così come afferma Dionigi nel libro Sui nomi
divini (7, 4), all’uomo è possibile conoscere Dio a partire da
93De potentia q. 7, a. 5: «Intellectus negationis semper fundatur in aliqua
affirmatione... Unde nisi intellectus humanus aliquid de Deo affirmatiue cognosce- ret,
nihil de Deo posset negare. Non autem cognosceret si nihil quod de Deo dicit uerificaretur
affirmatiue. Et ideo... dicendum est quod huiusmodi nomina significant diuinam
substantiam, quamuis deficienter et imperfecte». G. Emery mi segnala qui la prossimità
di Tommaso rispetto al suo maestro Alberto che scriveva da parte sua: «Omnis negatio
fundatur supra aliquam affirmationem; unde ubi non est uere affirmatio, neque erit
etiam uere negatio» {Super Dion. Myst. Theol. V; ed. Col., p. 475).
51
queste creature in maniera, triplice.
La prima è costituita [dalla via della] causalità. Dato che queste
creature sono defettibili e mutevoli, è necessario ricondurle
[reducere.• riportare alla loro spiegazione] a un principio
immutabile e perfetto. Secondo questa via, si arriva all’esistenza di
Dio (cognoscitur de Deo an est)»94.
Considerata in se stessa, questa prima via sarebbe insufficiente e
anche assolutamente ingannatrice, poiché il concetto di causa non ha lo
stesso senso se lo.si utilizza per Dio o se lo si utilizza per l’uomo. In
termini tecnici - che bisogna spiegare, ma che sono indispensabili -, si
tratta di un concetto analogo e non univoco 95. Diciamo concetto univoco
quello applicato in modo uguale a due o più realtà differenti: applicato al
cane o al gatto, «animale» ha sempre lo stesso senso. Il concetto analogo,
al contrario, indica una certa somiglianza all’interno di una completa
dissomiglianza. Questo sarà vero per tutti i nomi o tutte le qualità che
potremo applicare a Dio. Nessuna delle nostre perfezioni, fosse anche la
più elevata che possiamo immaginare, potrebbe convenire a Dio nello
stesso modo in cui conviene a noi. Se prendiamo per esempio il concetto
di causa applicato a Dio oppure all’uomo, non si dirà semplicemente:
Dio gioca nei riguardi della creazione un ruolo simile a quello che un
artigiano gioca nei confronti della sua. Col rischio di indurre in errore,
questo primo accostamento deve essere immediatamente rettificato:
applicato alla creazione dell’universo, non rimanda al suo autore come
l’esistenza di un quadro permette di inferire l’esistenza del pittore,
poiché l’azione di Dio non si esercita su una materia preesistente (prima
della creazione non vi è niente), e bisogna abbandonare quindi l’ordine
del creato per trovare la sua ragion d’essere. E per questo che Tommaso
aggiunge subito:
«La seconda è la via d’eminenza {qui: excellentiae). Infatti, le
creature non sono riferite al primo principio come possono esserlo
alla loro causa propria ed univoca (ciò che accade quando un
uomo genera un uomo), ma giustamente come a una causa
universale e trascendente. Si comprende così che Lio si trova al di
sopra di tutto (super omnia)».
Si potrebbe pensare che il procedimento è compiuto a partire dal
momento in cui Dio è stato caratterizzato come causa trascendente, la
causa al di sopra di tutte le cause. Ciò significherebbe conoscere male
94In AdRomanos I, lect. 6, nn. 114-115.
95Cf. I, q. 13, a. 5.
52
l’esigenza intellettuale e spirituale del Maestro d’Aquino.
«Dicendo di Dio che è vivente, non intendiamo dire che egli sia la
causa della nostra vita o che differisca dai corpi inanimati... Così
pure, quando si dice: Dio è buono, non si vuol dire che Dio è
causa della bontà, oppure: Dio non è malvagio; invero il senso è
questo: ciò che noi chiamiamo bontà nelle creature preesiste in
Dio - e, in verità, secondo un modo ben superiore - 96. Non ne
segue dunque che a Dio spetta essere buono perché è la causa
della bontà; ma piuttosto, al contrario, perché egli è buono,
effonde la bontà nelle cose, secondo il detto di sant’Agostino: È
perché egli è buono, che noi esistiamo»97.
Se in Dio non si vedesse che la causa di ogni bontà o di ogni
saggezza che si trova in questo mondo, egli sarebbe concepito a partire
da questo mondo: Dio potrebbe essere, buono o saggio, alla maniera
dell’uomo. Anche così restiamo sotto la minaccia dell’univocità. È
necessario dunque compiere un ultimo passo:
«La terza via è quella della negazione. Se in effetti Dio è una causa
trascendente, niente di ciò che si trova nelle creature gli può
essere attribuito... Così noi diciamo di Dio che è in-finito, im-
mutabile, e così via».
Quest’ultimo momento del processo consiste dunque nel negare
che ciò che noi chiamiamo essere, bontà o saggezza si realizza in Dio nel
modo in cui Io sperimentiamo quaggiù: Dio ne è la fonte poiché tutto ciò
preesiste in lui, ma egli non è essere, saggio o buono nel modo in cui lo
sono gli uomini. Pur affermando l’esistenza di questa perfezione,
Tommaso nega la possibilità di conoscerne il modo di realizzazione 45.
Sappiamo dunque che Dio possiede in modo eminente tutto ciò che
rappresenta qualche bene nel nostro mondo, ma il modo in cui lo
possiede ci sfugge completamente. L’essenziale (la ratio o la res
significata, secondo l’espressione consacrata) di queste perfezioni si
ritrova in lui, ma il modo della nostra conoscenza e del nostro linguaggio
(modus significando non è proporzionato al modo in cui esse vi si
trovano, modo che resta inaccessibile.

96Tommaso si è già espresso su questo tema in I, q. 4, aa. 2-3.


97 I, q. 13, a. 2 con citazione del De doctrina christiana I 32, 35; Tommaso ritorna
su questo tema nell’a. 6 della stessa questione: «i nomi attribuiti a Dio non riguardano
soltanto la sua causalità; essi concernono la sua essenza; poiché quando si dice: Dio è
buono, o saggio, si vuol dire non solo che Dio sia causa di saggezza o di bontà, ma si vuol
dire anche che in lui queste qualità preesistono in modo sovreminente».
53
«COLUI CHE È»

Il bilancio tuttavia non è assolutamente negativo. Al termine della


lunga questione sulla conoscenza di Dio a cui l’uomo può pretendere di
pervenire in questa vita, Tommaso poteva riassumere così il risultato del
suo studio:
«Quindi conosciamo di Dio la sua relazione con le creature, che
cioè è la causa di tutte; sappiamo cosa lo differenzia da queste
creature, che cioè egli non è niente di quanto causato da lui;
sappiamo infine che ciò che si elimina da lui, non lo si elimina a
causa di una mancanza, ma a causa di un eccesso» 46.
Se ci si ricorda che questa triplice certezza è alla.base di tutti gli
sforzi di Tommaso, si può allora capire come anche i testi più «negativi»
possono sfociare in una vigorosa affermazione:
«Possiamo dire che alla fine del nostro procedimento conosciamo
Dio come sconosciuto, poiché lo spirito scopre allora che è
avanzato al mas- 98 simo della sua conoscenza, quando ha saputo
che l’essenza divina è al di sopra di tutto ciò che può carpire nello
stato della vita presente; e sebbene di Dio gli resta ignoto ciò che
è, sa tuttavia che egli è» 99.

La conoscenza per grazia non può che rinforzare questa certezza,


ma fondamentalmente non cambia niente alla struttura di questa
conoscenza fintantoché noi siamo su questa terra. Essa ci permette di
conoscere Dio tramite gli effetti più estesi e ci rivela di lui dati ai quali la
sola ragione non potrebbe pervenire, ma nemmeno essa può accedere al
quid est di Dio. La questione che allora si pone è di sapere se malgrado
tutto è possibile parlare di Dio in un altro modo che non sia per (iperbole
o per metafore poetiche. Si tratta di sapere come «chiameremo» Dio,
dato che «gli esseri li nominiamo a partire da ciò che ne sappiamo» 100.
Teologo e predicatore, Tommaso non può rinunciare a questa ambizione
senza rischiare di vedere la missione del suo Ordine e la propria messe
radicalmente in causa.
985 Ciò è stato ben colto e detto da T.-D. HUMBRECHT, ha théologie
négatwe, p. 92, con rinvio molto opportuno a C. GEFFRÉ, Théologie naturelle et
révélation dans la connaissance du Dieu un, in L’existence de Dieu («Cahiers
de l’actualité reli- gieuse 16»), Paris-Tournai 1961, pp. 297-317.
«I, q. 12, a. 13.
99 Super Boetium De Trin., q. 2, a. 2 ad 1.
1001, q. 13 : «Sui nomi divini».
54
Conseguentemente a tutto ciò che ha già detto, egli concederà fin
(dall’inizio che, «se possiamo nominare Dio a partire dalle creature, ciò
non accade in modo tale da pretendere di esprimere l’essenza divina così
come è in se stessa». Si può ben dire in questo senso con Dionigi che:
«Dio non ha nome o che è al di sopra di ogni denominazione» 101. Ma
significherebbe proprio conoscere male Tommaso pensare che egli si
limiti a questo: il suo apofatismo non è un agnosticismo. Simile a
Giacobbe che lotta con l’Angelo e pretende di sapere il suo nome, egli
non vuole demordere prima di essere stato benedetto. Pazientemente, si
interroga sulla possibilità di dire qualcosa di Dio a partire dai suoi effetti
creati e a quali condizioni. Concede certamente che i nomi predicati di
Dio metaforicamente (roccia, fortezza) convengono primaria- mente alle
creature; ma non così accade per quanto riguarda i nomi di perfezioni
(saggezza o bontà). Poiché esse si trovano in Dio prima che nelle
creature, non si può propriamente negarle di Dio. Se ha un senso il detto
di Dionigi secondo cui questi nomi sono negati di Dio con maggiore
verità di quanto non gli siano attribuiti, ciò significa che «la realtà
significata dal nome non conviene a Dio sotto la forma stessa in

1011, q. 13, a. 1 et ad 1.
55
cui il nome li esprime, ma in un modo più eccellente» 102. La
distinzione tra realtà significata e modo propriamente divino di
realizzarla rivela qui la sua utilità. Se Tommaso non vuole a nessun costo
rinchiudere Dio in un concetto, egli pretende però dirne qualcosa.
Due nomi privilegiati si offrono qui alla nostra considerazione.
Consacrato dall’uso, il nome stesso «Dio» non è privo di vantaggi. Se
viene applicato ad altri all’infuori di Dio, ciò non può verificarsi che in
apparenza, «secondo l’opinione», poiché la natura divina non è
comunicabile a vari individui come lo è la natura umana. Non
diversamente da un altro nome, questo non ci permette di conoscere la
natura divina, ma corona molto bene la dialettica ascendente di
eminenza, di causalità e di negazione, poiché «esso è destinato
precisamente a designare un essere che è al di sopra di tutto, che è il
principio di tutto e separato da tutto. Ciò che precisamente tutti
intendono significare quando dicono “Dio”»103.
Il secondo nome che conviene massimamente a Dio è quello con
cui egli stesso si è rivelato a Mosè (Es 3, 14): «Colui che è». Tommaso
ha già avuto varie volte l’occasione di commentarlo 104, ma quando lo
ritrova nella Somma egli enumera tre ragioni che gli sembrano
giustificare questa eminenza. In primo luogo «a causa del suo significato,
visto che non designa una forma particolare di esistenza, ma l’essere
stesso». Poiché - è solo il caso di Dio - il suo essere è identico alla sua
essenza, nessun altro nome potrebbe denominarlo in modo più
appropriato, giacché ogni essere è denominato dalla sua forma. In
secondo luogo è a causa della sua universalità che questo nome conviene
a Dio, dato che ciò che è determinato e limitato non potrebbe
convenirgli, mentre tutto ciò che è assoluto e generale si applica molto
meglio a lui. E per questo che san Giovanni Damasceno reputa «Colui
che è» come il
nome principale di Dio, perché esso comprende tutte le cose in se
stesso come un oceano di sostanza infinita e senza limiti. Mentre ogni

1021, q. 13, a. 3 ad 2.
1031, q. 13, a. 8 ad 2; è sorprendente ritrovare qui la conclusione che conclude
l’enunciato di ciascuna delle cinque vie della I, q. 2, a. 3.
104 E. ZüM BBUNN, La «métaphysique de l'Exode» selon Thomas d’Aquin, in Dieu
et l’être. Exégèse d’Exode 3, 14 et de Coran 20, 11-24, Paris 1978, pp. 245- 269, ha
enumerato una ventina di testi nei quali Tommaso commenta questo versetto: nelle sue
prime opere, egli ripete la formula Colui che è; ma a partire dalla Summa theologiae
sembra preferire la formula completa Ego sum qui sum. Apparentemente senza una
esclusività, poiché se si trova precisamente questa formula in I, q. 2, a. 3 se., è invece
Colui che è che ritroviamo in I, q. 13, a. 11.
56
altro ! nome determina un certo modo della sostanza della cosa, questo
nome «Colui che è» non determina nessun modo di essere particolare;
esso si comporta in maniera indeterminata nei confronti di tutti. Infine,
a causa di ciò che esso include nel suo significato (consignificario):
questo nome significa l’essere al presente, ciò che conviene
sovranamente a Dio, il cui essere non conosce né passato né avvenire.
A leggere questo testo, Tommaso sembra definitivo: nessun altro
dome potrebbe essere più conveniente per designare Dio. Tuttavia, le
póse sono più sfumate e una risposta complementare mette in
competizione, per così dire, i due nomi principali che abbiamo appena
esaminato:
«Il nome "Colui che è” designa Dio con più proprietà di quanto
lo faccia lo stesso nome “Dio”, se ci si riferisce all’origine del
nome (id a quo imponitur), cioè l'essere, e al suo modo di
significare e di “consignificare”. Tuttavia, se si considera ciò
che esso intende significare (id ad quod imponitur nomen) il
nome ’Dio” è più adatto poiché è utilizzato per significare la
natura divina».
Il nome «Dio» non dice niente indubbiamente dell’essenza
divina, ma ha il vantaggio di designarla come se si applicasse a un
individuo singolare un nome universale in un modo che gli sarebbe
proprio: per esempio, «uomo» applicato a Pietro. Al contrario, il nome
«Colui che è», che designa Dio tramite una perfezione che si ritrova in
tutti gli esistenti, non presenta gli stessi vantaggi d’incomunicabilità. Se
il teologo non rinuncia per questo al vocabolario dell’essere è perché,
sottomettendosi alla rivelazione del «Colui che è», ha ricevuto
conferma della validità di esso: «Di (conseguenza, abbiamo due nomi:
“Dio”, che esprime bène la natura (divina ma in maniera puramente
indicativa, ed “essere”, che esprime Bène la perfezione sovreminente di
Dio, ma a partire dalle creature. È per questo che “Dio” afferma il
modo di significare senza raggiungere il modo di essere, e “Colui che
è” enuncia il modo di essere senza signifi- carlo. Nessuno dei due
rinchiude l’essenza divina ed è per questo che in \ùltima analisi il
“Colui che è” tomasiano designa Dio come ineffabile»^. 105

105 T.-D. HUMBRBCHT, ha théologie négative. . . , p. 93; il corsivo è nostro.

57
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI NOME

Dopo tutto ciò che abbiamo appena detto, si potrebbe credere


che Tommaso raggiunga alla fine quel che cerca. Ma egli sa bene che
non è così. In questa stessa risposta in cui mette a confronto i due
nomi, egli aggiunge molto curiosamente qualcosa che assomiglia ad
un ripensamento letterario: «Ancora più appropriato è il
Tetragramma che è impiegato per significare la sostanza stessa di
Dio in quanto incomunicabile e, se così è lecito esprimersi,
singolare»106.
. Il Tetragramma, come si sa, è il nome con il quale Dio nomina
se stesso nella rivelazione del Roveto ardente. Questo nome di quattro
lettere (JHWH), che gli ebrei evitavano di pronunciare per timore
reverenziale e di cui avevano perso il senso esatto e la vera pronuncia,
ha dato luogo ad innumerevoli esegesi 107. Sebbene non fosse ignoto
alla tradizione teologica latina, Tommaso sembra avere scoperto la
sua importanza soltanto dalla lettura di Maimonide, che
consacrandogli lunghe trattazioni, ritiene il Tetragramma un nome
differente da «Colui che è»108.
Anche se Tommaso non condivide né l’equivocità né l’apofati-
smo estremo di Maimonide109, questa ascendenza merita di essere
sottolineata poiché essa non poteva che confermarlo nella sua opzione
per la teologia negativa. In ogni caso è l’esegesi dell’erudito ebreo che
gli permette d’affermare che il Tetragramma è un nome ancora più
appropriato di «Colui che è». Egli lo ha già affermato nell’articolo
precedente della Somma quando si interrogava sulla proprietà del
termine «Dio»; «Se fosse dato un certo nome a Dio per significarlo
non sotto l’aspetto di natura, ma sotto l’aspetto di soggetto, in quanto
è tale essere, questo nome sarebbe assolutamente incomunicabile. E

1061, q. 13, a. 11 ad 1.
107 Per lo stato della questione si vedrà A. CAQUOT, Les énigmes d’un
hémistiche biblique, e A. CAZELLES, Pour une exégèse de Ex. 3,14, in Dieu et l’être, pp.
17- 26 e 27-44.
108 Cf. A. MAURER, St. Thomas on the Sacred Name
«Tetragrammaton», MS 34 (1972) 274-286; ripreso senza cambiamenti nella raccolta
dello stesso autore: Being and Knowing. Studies in Thomas Aquinas and Later
Medievals Philosophers, Toronto 1990, pp. 59-70. Maurer sottolinea che questa
distinzione tra «Colui che è» e il Tetragramma era già stata operata ben prima di
Maimonide, da san Girolamo e anche da Filone.
109 Cf. A. WOHLMANN, Thomas d’Aquin et Maimonide. Un dialogue
exemplaire, Paris 1988, soprattutto pp. 105-164.
58
forse il caso

59
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI NOME
del Tetragramma presso gli ebrei» 5S. Il «forse» potrebbe tradurre una
certa perplessità circa il vero significato di questo nome, ma è più
importante osservare che se egli lo cita già nella Somma contro i
Gentili110 111, è soltanto nella Somma di teologia che ne fa questo uso
topico. Il cambiamento è capitale, poiché Tommaso non si situa più
solamente nella prospettiva dell’origine del nome, ma piuttosto in
quella della realtà che il nome è destinato a significare. Il nome
rivelato al credente è preferito al nome definito dal filosofo. Davvero
singolare, esso è di certo il nome al di sopra di ogni nome e non
designa che Dio.
Giunto a questo punto della ricerca, sembrerebbe che l’uomo in
cerca dell’intelligibilità di Dio non possa andare oltre. Ciò sarebbe
vero se Tommaso ragionasse come un semplice filosofo, ma non è mai
stato il caso in questo contesto. Nel momento stesso in cui sembrava ;
utilizzare soltanto le risorse della sua ragione naturale, egli in qualità
di teologo aveva già esplicitamente posto dei cardini e faceva appello
alla conoscenza nettamente più elevata ottenuta per mezzo della
grazia:
«Malgrado la rivelazione della grazia, resta vero che fino a
quando siamo in questa vita noi non conosciamo l’essenza di
Dio {il suo quid est) e che gli siamo uniti come ad uno
sconosciuto; tuttavia, lo conosciamo in modo più completo
perché ci è accessibile per mezzo di effetti più numerosi e più
eccellenti e perché la rivelazione divina ci permette di
attribuirgli delle qualità alle quali la ragione naturale non può
giungere, come il fatto che Dio sia uno e trino» 112.
Tommaso non si addentra immediatamente in questa pista, ma vi
ritornerà alcune pagine più avanti quando riprenderà la questione dei
nomi divini in pieno trattato della Trinità, dove si interroga sui nomi
personali attribuiti in proprio ad ogni persona divina: il Padre, che non
ha altri nomi propri; il Figlio, che ha anche come nomi propri quello di
Verbo e di Immagine; lo Spirito Santo, a cui convengono anche
personalmente i nomi di Dono e di Amore 113. Questo nuovo modo di
trattare le cose non toglie nulla all’impossibilità in questa vita di
conoscere il «quid est» di Dio o alla struttura di una conoscenza di Dio

1101, q. 13, a. 9.
111 Come lo ha segnalato T.-D. Humbrecht, cf. SCG IV 7, n. 3408.
112601, q. 12, a. 13 a d ì .
113 Cf. I, qq. 33-38.
60
ottenuta a

61
partire dagli effetti, ma permette di vedere che Tommaso non
perde di vista le nuove prospettive offerte alla ragione a partire dalla
rivelazione.
Già la rivelazione del «Colui che è» autorizzava la teologia a
prendere il suo posto e a penetrare nel mistero di Dio al di là di quella
sua unità, che la ragione filosofica avvertiva di non avere il diritto di
oltrepassare. Con una chiarezza d’intuizione che fa onore alla loro
grande conoscenza della Bibbia, i teologi medievali non temettero di
ampliare il «Colui che è» dell’Esodo e di vedere in esso un abbozzo
della rivelazione del mistero della Trinità. Essi si sentivano autorizzati
a fare ciò da tutta una tradizione che ha trovato la sua espressione
nèll’arte e nella liturgia, e di cui la Glossa si faceva l’eco: «Questo
vero essere è quello del Dio vivente, della Trinità: solo esso è, in
verità, il Padre con il Figlio e lo Spirito Santo. Per questo si dice: Dio
vive, poiché Tessenza divina vive di una vita che la morte non affetta»
62
. Mettendo in relazione il testo dell ’Esodo con tutti i passaggi del
Nuovo Testamento in cui Gesù parla di se stesso affermando la sua
esistenza nei termini assoluti di «Io sono», molti autori, sia francescani
che domenicani, potevano offrire un’esegesi cristologica del nome
rivelato a Mosè.
Tommaso non è dunque un isolato quando si incammina al loro
seguito nella stessa direzione, ricordando con la Glossa che il nome
divino si appropria alla persona del Figlio, «non affatto in virtù del suo
significato proprio, ma a causa del contesto: cioè nella misura in cui la
parola rivolta da Dio a Mosè prefigurava la liberazione del genere
umano compiuta più tardi dal Figlio» 114 115. I dossier riuniti nella
Catena aurea mostrano a che punto egli condivida il sentimento
generale dei Padri per i quali le teofanie dell’Antico Testamento erano
annunci velati del Verbo, prefigurazioni delPincainazione 116. Ma tra i
teologi della sua epoca egli, meglio di altri, salvaguarda la portata
della sua teologia negativa117. Senza riprendere qui tutti i testi, ci
limiteremo alla
114 Si vedrà qui l’importante studio di E.-H. WÉBER,
h’herméneutique christo- logique d’Exode 3,14 chez quelques maîtres parisiens du XIIIe
siècle, in Celui qui est, Paris 1986, pp. 47-101, dal quale prendiamo in prestito questa
citazione della Glossa (cf. p. 54).
115 I, q. 39, a. 8.
116 Cf. E.-H. WÉBER, ibid., p. 92.
117 Secondo la felice espressione di E.-H. Wéber: «Albert et Thomas
sont les protagonistes très peu suivis de la doctrine apophatique héritée de Denys
expliqué par Jean Scot Erigène» {ibid., p. 88).
lettura del più esplicito per comprendere fino a che punto la
rivelazione sconvolga l’approccio puramente razionale:
«Riguardo a ciò che si deve credere di lui, Cristo insegna tre
cose: innanzitutto, la maestà della sua divinità; poi, la sua
origine a partire dal Padre; infine, la sua unione indissolubile
con il Padre.
Insegna la maestà della sua divinità dicendo: Io sono; cioè, lo
ho in me la natura di Dio, e sono il medesimo che ha parlato a
Mosè dicendo: Io sono colui che sono.
Ma poiché l’essere sussistente appartiene all’intera Trinità, per
non escludere la distinzione delle persone, subito dopo insegna
agli ebrei a credere nella sua origine dal Padre, affermando: E
non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre
così io parlo. Avendo fin dall’inizio realizzato delle opere ed
insegnato, Gesù mostra la sua origine dal Padre, sia in ciò che
egli fa: E non faccio nulla da me stesso..., sia in ciò che insegna:
ma come mi ha insegnato il Padre, cioè mi ha comunicato la
scienza generandomi nella conoscenza. Dato che la natura della
verità è semplice, per il Figlio conoscere significa essere.
Quindi, come il Padre generandolo ha dato al Figlio il fatto di
essere, così gli ha dato anche il conoscere: La mia dottrina non
è mia.
E perché non si pensi che egli è stato inviato dal Padre come
distaccandosi da lui, in terzo luogo insegna a credere la sua
indissolubile unione con tl Padre, dicendo: E colui che mi ha
inviato, cioè il Padre, è con me; da una parte, per unità
d’essenza: Io sono nel Padre e il Padre è in me; d’altra parte,
per unione d’amore: il Padre ama il Figlio e gli manifesta tutto
quello che fa. Cosicché il Padre ha mandato il Figlio senza che
questi si distaccasse da sé: e non mi ha lasciato solo, poiché il
suo amore mi circonda. Sebbene però essi siano inseparabili,
l’uno è inviato (missus) e l’altro invia, poiché l’incarnazione è
una missione, ed appartiene soltanto al Figlio e non al Padre»
118 119
.
Il seguito del testo merita di essere conosciuto, ma ci porterebbe
troppo lontano. È necessario almeno prevenire lo stupore, che si
rischia di provare altrove, di non trovare qui lo Spirito Santo.
Tommaso si preoccupa di avvertire il suo lettore: «Se lo Spirito Santo
non è citato qui, occorre sapere che ovunque si tratti del Padre e del
Figlio, e soprattutto quando si tratta della maestà divina, lo Spirito
118 In Ioannem 8, 28, lect. 3, n. 1192.
119 Inloannem 17, 3, lect. 1, n. 2187.
Santo è sottinteso (letteralmente: è “co-inteso”), poiché esso è il
legame che unisce il Padre ed il Figlio» 67. Non è affatto necessario
insistere affinché si
percepisca l’ampiezza del nuovo campo che si apre alla
riflessione, ma il clima di ricerca non cambia. Tommaso non ritira
niente di ciò che ha detto circa rinconoscibilità dell’essenza divina.
Egli sa che la rivelazione della semplicità divina fatta a Mosè, nella
teofania del Roveto ardente, si sviluppa al tempo opportuno in
rivelazione dell’unità trinitaria, ed egli accoglie nell’umiltà della sua
fede cristiana la rivelazione di questo al di là assoluto a cui la sua
ragione non poteva pretendere di arrivare. Gesù è venuto a dare alla
questione di Dio una risposta che l’uomo non poteva nemmeno
immaginare.

Dio NESSUNO L’HA MAI VISTO

Tommaso è ritornato un’ultima volta su questa questione,


proprio alla fine della sua vita, nelle sue lezioni su san Giovanni, senza
dubbio il più compiuto dei suoi commenti scritturistici 120. Il Prologo
del quarto Vangelo si conclude con l’affermazione dalla quale siamo
partiti in questo capitolo: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio
unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18). Non
mancano tuttavia testi, osserva il commentatore, che parlano della
possibilità di vedere Dio: come bisogna dunque intendere
l’affermazione di san Giovanni? L’Aquinate si lancia allora in quella
che è indubbiamente .la sua trattazione più ampia del soggetto. Senza
le spiegazioni tecniche, troppo difficili ed ora non più necessarie,
ritroveremo qui la maggior parte dei grandi temi incontrati:
«Occorre tenere presente che si può “vedere Dio” in tre modi.
Primo, attraverso una creatura sostitutiva [di Dio], presentata
alla vista corpo- dea; come si pensa che sia stato visto da
Abramo, quando vide tre uomini e ne adorò uno solo (cf. Gn
18).
Secondo, mediante una visione immaginaria, come Isaia che
vide il Signore seduto su un trono alto ed elevato (cf. Is 6). Nella
Scrittura s’incontrano parecchie visioni di questo tipo.
Terzo, si può anche vedere Dio mediante una specie intelligibile
(spe- ciem intelligibilem) astratta dalle realtà sensibili da parte
di chi, riflettendo sulla grandezza del creato, intravede la
grandezza del Creatore (cf. Sap 13, 5; Rm 1, 20).
C’è poi un altro modo di vederlo, mediante una illuminazione

120 Cf. Tommaso d’Aquino. Duomo e il teologo, pp. 224-228.


62
infusa da Dio all’intelligenza durante la contemplazione. Fu in
questo modo che Giacobbe vide Dio faccia a faccia (cf. Gn 28,
10-19), in una visione che egli ebbe, secondo san Gregorio,
grazie ad una sublime contemplazione. Tuttavia, con nessuna di
queste conoscenze si può raggiungere la visione dell’essenza
divina... poiché nessuna immagine creata (creata species) può
rappresentare l’essenza divina, dato che niente di finito può
rappresentare l’infinito... Dunque la conoscenza di Dio
raggiungibile attraverso le creature non è la visione della sua
essenza, ma soltanto una visione da lontano, enigmatica, come
in uno specchio (cf. 1 Cor 13, 12)..., per- ché nessuna di queste
conoscenze ci dice di Dio cosa egli è, ma solamente che cosa
non è e che esiste. Ecco perché, secondo Dionigi, la conoscenza
più elevata di Dio che un uomo può raggiungere in questa vita
esige l’esclusione di tutte le creature e di ogni nostro concetto.
Alcuni hanno sostenuto che l’essenza divina non sarà mai vista
da nessuna intelligenza creata e che non è vista né dagli angeli
né dai beati. [Si riconosce il testo della proposizione
condannata nel 1241; Tommaso la dichiara falsa ed eretica per
tre ragioni, di cui l’ultima ha per lui una importanza estrema e
che noi ritroveremo.] Togliere agli uomini la possibilità di
vedere l’essenza divina significa privarli della beatitudine
stessa. La visione dell’essenza divina è dunque necessaria alla
beatitudine dell’intelligenza creata: Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio (Mt 5, 8).
Quando si tratta della visione dell’essenza divina, occorre
prestare attenzione a tre cose. Primo, mai l’essenza divina sarà
vista da un occhio corporeo, né percepita con i sensi o con
l’immaginazione, giacché con i sensi si possono percepire
soltanto le cose sensibili. Dio invece è incorporeo... Secondo,
l’intelligenza umana finché rimane unita al corpo non può
vedere Dio, perché appesantita dal corpo corruttibile, e
incapace di raggiungere l’apice della contemplazione. Quanto
più l’anima è libera dalle passioni corporali e liberata dagli
affetti terreni, più essa avanza nella contemplazione della verità
e gusta come è buono il Signore /Sai 33, 9]. Ora, il più alto
grado della contemplazione consiste nel vedere Dio nella sua
essenza, perciò finché l’uomo vive nel corpo soggetto per
necessità a molteplici passioni, non può vedere Dio per
essenza: L’uomo non può vedermi e restare vivo (Es 33, 20).
Perché l’intelletto umano possa vedere l’essenza divina occorre
dunque che abbandoni totalmente il corpo, o con la morte... (cf.
2 Cor 5, 8), o mediante l’estasi (cf. 2 Cor 12, 3).
È necessario infine ricordarsi che nessun intelletto creato, per
63
quanto sia possibile immaginarlo separato dal suo corpo sia
mediante la morte che mediante l’estasi, può comprendere
l’essenza divina vedendola. Per questo si dice comunemente
che, sebbene i beati vedano l’essenza divina tutta intera (tota),
poiché è semplicissima e senza parti, non la vedono
tuttavia totalmente (tot alitcr), perché ciò significherebbe
"comprenderla”. Quando dico “totalmente”, io indico un certo
modo di visione. Ora, in Dio ogni modo si identifica alla sua
essenza; perciò chi non lo vede totalmente non lo “comprende”.
Propriamente parlando, si dice che qualcuno “comprende” una
realtà quando la conosce nella misura in cui . essa è conoscibile
in se stessa; in caso contrario, per quanto la conosca, non la
“comprende”. [Questo tipo di conoscenza esaustiva non è
possibile che nei confronti delle realtà create. Quando si tratta
di Dio, increato e infinito, è del tutto impossibile che l’intelletto
creato e finito possa acquistarne questa conoscenza
comprensiva.] Dio soltanto può comprendere pienamente se
stesso, perché la sua potenza conoscitiva e tanto grande quanto
la sua entità d’essere...
Considerando ciò che è stato detto precedentemente, ecco allora
che occorre intendere l’espressione di san Giovanni: Nessuno
ha mai visto Dio, in un triplice senso: 1. Nessuno, cioè nessun
mortale ha mai visto Dio, vale a dire l’essenza divina, con una
visione corporea o immaginativa. 2. Nessuno durante questa vita
mortale ha visto l’essenza divina così come è. 3. Nessuno, uomo
o angelo, ha visto Dio con una visione comprensiva» 121.
Questo lungo testo avrebbe potuto servire come canovaccio per
questo capitolo; terminando con esso abbiamo il vantaggio di
raggruppare i punti essenziali in una visione d’insieme difficilmente
riscontrabile altrove. Non si può che essere sorpresi del permanere
della volontà iniziale di salvaguardare l’approccio della tradizione
latina: l’uomo non sarebbe mai veramente felice se non giungesse a
vedere l’essenza divina. Ma allo stesso tempo bisogna constatare una
volontà altrettanto ferma di non svuotare il mistero di cui la tradizione
greca affermava così fortemente i diritti: tale visione dell’essenza
divina non sarà mai una conoscenza completa, perfino in patria. Mai si
può cogliere Tommaso in fallo su questo punto:
«La stessa anima beata dì Cristo non possedeva la conoscenza
<<> n prensiva; soltanto il Piglio unico di Dio che è nel seno
121 In loannem 1, 18, lect. 11, nn. 211-221.
10
In loannem 1, 18, lect. 11, n. 219.
64
del Padre ne godeva. Per questo il Signore diceva (Mt 11, 27):
Nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il
Figlio lo voglia rivelare. 1 di questa conoscenza di
comprensione che sembra parlare qui l’evangelista. Infatti
nessuno comprende l’essenza divina se non Dio soltanto, Padre,
Figlio e Spirito Santo»10.
Un luogo comune dell’agiografia rappresenta san Tommaso
bambino che pone insistentemente la domanda: «Cos’è Dio?». Se non
fosse autentico, sarebbe tuttavia uno di quei casi in cui la leggenda
esprime la verità di un essere più profondamente della veridicità
stretta- mente storica di un dato episodio. Appare ora con evidenza che
il teologo esperto ha fatto di questa presunta domanda del bambino il
grande impegno della sua vita di adulto. Riutilizzando il suo metodo e
l’approfondimento della sua dottrina, anche il discepolo di Tommaso è
sollécitato a situare Dio al di là di tutto.

65
Dio e il mondo

In linea retta con una concezione della teologia che situa Dio al
centro del suo progetto, un certo numero di opzioni si impongono. La
più immediata concerne l’organizzazione stessa della materia teologica:
la sintesi del sapere su Dio deve essere presentata obbligatoriamente in
modo da far risaltare il primato sovrano che tocca all’unico soggetto di
questo sapere. La soluzione si trova nel piano della Somma di teologìa.
Lo svolgimento pedagogico della questione non deve indurre in
errore:'* è in questa maniera che veniamo introdotti nell’insieme della
dottrina di fra Tommaso e soprattutto nella sua dottrina della creazione,
dell’uomo come immagine di Dio, della presenza di Dio nel mondo e
dell mondo in Dio. Grandi questioni teologiche che formano altrettanto
temi portanti della spiritualità di ogni tempo.

L’ALFA E L’OMEGA

A soli dieci anni dall’inizio del suo insegnamento, dopo aver


conosciuto vari tipi di pubblico, Tommaso aveva potuto misurare L limiti
della pedagogia in uso allora nelle facoltà di teologia. Luso 'Éjj
commentare sia le Sentenze sia la Sacra Scrittura condannava i maestri, a
impartire il loro insegnamento in modo frammentario, a seconda delle
occasioni offerte dal testo commentato. Il raggruppamento di Questioni
disputate permetteva indubbiamente di mettere in evidenza alcu- g ne
tematiche, ma non si superava la loro dispersione e gli studenti noni^
avevano nessuna visione globale della materia teologica. E a questa*
situazione che fa eco il celebre Prologo della Somma-, *
«Abbiamo notato che nell’uso degli scritti di vari autori, i novizi
questa materia sono molto imbarazzati: sia per la moltiplicazione
inutì
le delle questioni, degli articoli o degli argomenti; sia perché ciò
che devono imparare non è trattato secondo l’esigenza della
materia insegnata (secundum ordinem disciplinad, ma come
richiede il commento dei libri o l’occasione delle questioni
disputate; sia infine perché la ripetizione frequente delle stesse
cose genera negli animi degli ascoltatori stanchezza e
confusione» b
Ci si è spesso interrogati sulle qualità intellettuali degli studenti
ai quali fra Tommaso si rivolgeva, visto che ancora oggi anche
specialisti competen ti possono incontrare difficoltà nel leggere il libro
così intro- dotto. Ma lo stesso interrogativo potrebbe essere sollevato a
proposito di sant’Alberto o di san Bonaventura, anch’essi di non facile
accesso. Supponendo che Tommaso abbia sopravvalutato le capacità
dei suoi ascoltatori, egli non pensava tanto alla difficoltà dei temi
trattati quan- to piuttosto al modo in cui li avrebbe messi in relazione
in un corpo di dottrina organizzata. Invece di proporre una semplice
serie di questioni che si sarebbero succedute senza uno stretto legame,
egli offriva una sintesi già generatrice di sapere mediante la semplice
valorizzazione dei legami e della coerenza interna delle questioni. La
grande novità della Somma non consiste nel suo contenuto, ma nella
sua organizzazione - Tommaso si accontenta, per lo più, di riprendere
la dottrina cristiana tradizionale: la sua dipendenza da numerosi
filosofi e teologi lo mostra bene. E questo ciò che egli chiama
«l’ordine del sapere» (ordo discipli- nae) e che enuncia, con una
sobrietà di cui possiede il segreto, all’inizio della questione seguente:
«Dato che l’oggetto principale della sacra doctrina è di far
conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è
principio e fine delle cose, e specialmente della creatura
ragionevole..., noi dovremo trattare innanzitutto di Dio (Prima
Pars), poi del movimento della creatura razionale verso Dio
(Secunda Pars), infine di Cristo, il quale, nella sua umanità, è
per noi la via che conduce a Dio (Tertia Pars)»2. 122
La straordinaria semplicità di questo enunciato non esprime,,
evidentemente tutto ed occorrerà spiegarlo al momento opportuno. Per
ora, l’essenziale è notare la continuità con quanto abbiamo percepito

1221, q. 1, Pro/.; la severità di questa critica non è mai abbastanza sottolineata:


«moltiplicazione inutile dei problemi, articolazioni e argomentazioni; ordine assurdo e
fortuito delle cose riferite; ripetizione delle stesse cose. E il risultato: un insegna-
mento antipedagógico e dottrinalmente rovinoso, che aumenta la confusione degli
spiriti, scoraggia gli studenti e paralizza Finsegnamento» (M. HUBERT, L’humour de
faifCChomas d’Aquin enface de la scolastique, in 1274-Année charnière-Mutations
et $óntinuités, Paris 1977, p. 729). La consueta moderazione di Tommaso sottolinea
per contrasto la durezza di colui che fa la requisitoria.
Y; 21, q. 2, Prol. 67
circa il soggetto della teologia: «Dio inizio e fine di tutte le? cose». Con
un vocabolario leggermente diverso, questa era già la dottrina del
commento alle Sentenze: «Il teologo considera le creature iti 123 124 quanto
escono dal primo Principio e ritornano verso il loro fine ultimo, che è
Dio stesso»3. Secondo l’espressione consacrata, è dunque lo schema
«uscita-ritorno» (exitus-reditus) che si trova alla base del piano della
Somma.- Tale questione è stata lungamente trattata altrove quando ho
ricordato sia il cammino che aveva spinto Tommaso ad iniziare la sua
opera, sia le interpretazioni che ne propongono oggi i discepoli del
Maestro 4. Non è dunque necessario riprendere qui i dettagli di queste
spiegazioni, ma resta molto da dire sulle implicazioni di questa scelta.
Si è spesso sottolineata l’origine neoplatonica dello schema
utilizi1 _zato da Tommaso. Ciò non è vero se non in un senso da
precisare: vi è qui il rischio di un grave equivoco. Quando Tommaso, al
seguito delle sue fonti, utilizza la parola exitus (o egressus) per dire che
le creature «escono» da Dio, evidentemente non ripropone per conto suo
una emanazione di tipo neoplatonico, eterna e necessaria 125. Pensatore
appartenente alla tradizione giudeo-cristiana, Tommaso non può
concepire questa uscita se non come una creazione libera, inauguratrice
del tempo e della storia della salvezza. E, per essere più espliciti, forse è
questo il motivo per cui egli fa sempre un minore uso di questo voca-’
boiario, passando dalle Sentenze alla Somma. invece di parlare di
«uscita» delle creature, ormai parlerebbe piuttosto del modo in cui esse
«procedono» da Dio mediante l’atto creatore126.
Ciò non modifica per niente l’intuizione centrale che intende il
rapporto dell’universo con Dio come un movimento circolare che
riconduce verso la loro origine, ormai vista come fine, le creature che ne
sono uscite. Se fino a poco tempo fa si poteva attribuire a
Tommaso ]’onorc di aver eliminato la concezione ciclica a favore di quella
lineare del tempo 127, oggi si è più coscienti del fatto che questa concezione
123Sent. Il,Prol.
124 Cf. la mia opera: Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, cap. Vili; alla
bibliografia proposta si aggiungerà il titolo dell’inchiesta molto più dettagliata di I,"
BIFFI, Teologia, Storia e Contemplazione, pp. 223-312, cap. 6: «Il piano della Sum- I ma
theologiae e la teologia come scienza e come storia». *
125 Oltre ai suoi contemporanei Bonaventura e Alberto (cf. G. Emery, qui
sotto). occorre citare soprattutto il Liber de Causis e lo Pseudo-Dionigi tra gli autori in cui
Tommaso poteva trovare questa dottrina. Rinviamo qui all’opera sempre deter-|l minante
di M. SECKLER, Le salut et l'histoire. La pensée de saint Thomas d’Aquin sut J la théologie
de l’histoire («Cogitatio fidei 21»), Paris 1967; vedere in modo particoB|j re il cap. Ili:
«Saint Thomas et le néoplatonisme», che manifesta bene la doppia correzione apportata al
necessitarismo plotiniano mediante l’idea cristiana di creazioti libertà dell’iniziativa divina
e inizio della creazione nel tempo.
126 Nel latino della Volgata è il termine procedere che viene impiegato da
Gesù |jpt|3ire che egli «è uscito (processit) da Dio» (Gv 8, 42); lo stesso vale per lo Spiri
68
127listato «che proviene (procedit) dal Padre» (Gv 15, 26). Da qui la spenalizzalo i|é|cLi
lineare - ben reale dato che la storia della salvezza va verso un fine - si
ifiscfive essa stessa in questo grande movimento di «uscita-ritorno» di cui
Tommaso ha fatto la struttura della sua opera, proprio perché ne scopriva
la presenza in tutto l’universo:
«Allora un dato effetto raggiunge il culmine della perfezione quando
ritorna al proprio principio. Così, tra tutte le figure geometriche, il
cerchio è quella più perfetta, come il moto circolare è il più perfetto
tra tutti i moti, perché in essi si fa ritorno al rispettivo principio.
Ora, affinché l’universo creato possa conseguire la sua ultima
perfezione, è necessario che le creature ritornino al loro principio.
Ma tutte e singole le creature ritornano al loro principio in quanto
rivestono una somiglianza di esso nel loro essere e nella loro natura
che costituiscono per esse una certa perfezione» 128 129 130 131.
L’apparente semplicità del punto di partenza non deve indurre a
pensare che si tratterebbe soltanto di una mera rappresentazione
immaginativa. La formulazione filosofica può essere molto più precisa:
«Tutto ciò che si trova in noi viene da Dio e a lui risale perché egli
ne è o la causa efficiente o la causa esemplare: causa efficiente, in
quanto è mediante la potenza attiva di Dio che tutto si compie in
noi; causa

termini «procedere» o «processione» per parlare delle relazioni trinitarie.


128Tommaso usa la stessa parola «processione» per definire «l’uscita» da Dio delle
129creature mediante la creazione; vedi in modo particolare I, q. 44, Prol. Tuttavia non è il
caso di consolidare queste sfumature, poiché il vocabolario della proces- sionc è già ben
presente nelle Sentenze.
130| | ji v 7 Così E. GlLSON, L‘esprit de la philosophie médiévale («Études de philo-
sbpitie médiévale 33»), Paris 19482, p. 369.
1318 SCGII46, n. 1230. 69
esemplare, in quanto tutto ciò che in noi è di Dio, in un certo modo
imita Dio»132.
Tommaso non si lascia sfuggire nessuna occasione per sottolineare
questo movimento circolare d’insieme, ed è questo che il piano della
Somma cerca di riprodurre. E così dunque che, dopo la parte che parla del
Dio uno e trino della rivelazione cristiana (qq. 2-43), più della metà della
Prima Pars tratta principalmente della processione delle creature a partire
da Dio creatore, e del modo in cui egli se ne occupa (qq. 44-i| 119). In
seguito comincia la descrizione del movimento di ritorno delle creature a
Dio, che occupa tutta la Secunda «e» la Tertia Pars. Occorre sottolineare
questo «e» poiché è il caso qui di prevenire un altro equivoco che spesso si
fa a seguito del primo. Alcuni lettori, applicando iiff modo molto materiale
alla Prima Pars il movimento di uscita e il movimento di ritorno alla
Secunda, non riescono più a situare correttamente la Tertia Pars, e hanno
ragione di meravigliarsi del fatto che Tommaso non parli di Cristo se non
come un’aggiunta, a modo di un ripensamento letterario.
Che un autore cristiano così rigoroso come Tommaso abbia potili*
to «dimenticare» Cristo, componendo il suo piano, è già molto poco
verosimile. Se l’ha situato in questa Terza parte, è proprio perché egli così
ha voluto e ben presto diremo il perché. Ma si nota già come qué- j sto
errore di lettura non si spiega molto se non mediante la precedente erronea
identificazione dello schema «uscita-ritorno» con quello del- l’emanatismo
plotiniano. Un’attenta frequentazione dell’opera tot lipsiana non permette
questo equivoco: se il vocabolario è neoplatonico la. realtà è biblica, e non
si tratta soltanto di una questione di struttura,! verificata nell’intemporale
di un mito d’eterno ritorno, ma proprio di una storia che si svolge nel
tempo della salvezza. Così, il ritorno della creatura verso Dio non termina
con la descrizione della vita contemplativa che si trova alla fine della
Secunda Pars. Esso non è completo se non con l’ingresso effettivo nella
beatitudine al momento del ritorno di Cristo che viene ad assumere gli
eletti nella sua gloria. La morte ha

132 SCG IV 21, n. 3576; questo aspetto delle cose è sempre più riconosciuto, cf.
Tommaso d‘Aquino. L'uomo e il teologo, pp. 178-181; J. AERTSEN, The Circuldi tion-
Motive and Man in the Thougth of Thomas Aquinas, vaUbomme et son ; : ! S au Moyen Age,
CHR. WENIN ed., Louvain-la-Neuve 1986, t. 1, pp. 432-439; Naturi^ and Creature, Thomas
Aquinas’s Way of Thougth, «STGMA 21», Leiden 1988.
impedito a Tommaso di completare la sua opera, ma è proprio qui che
voleva condurre il suo lettore; il Prologo della Terza Parte è molto chiaro a
questo proposito:

«Il nostro Salvatore, il Signore Gesù... si è presentato a noi come la


via della verità, mediante la quale ci è possibile ormai giungere alla
risurrezione e alla beatitudine della vita immortale».

Questi termini riprendono quasi testualmente le prime parole della


Somma che già annunciavano così lo scopo di questa Terza Parte: «Cristo,
che nella sua umanità è per noi la via che conduce verso Dio». Qualunque
fossero le ragioni che hanno portato alle scelte concrete che guidano
l’esposizione di Tommaso, non si può dubitare che il movimento circolare
che egli descrive non si completa se non mediante Cristo. Il Dio di cui ci
parla non è il primo Principio impersonale di un qualsiasi deismo, ma il
Creatore e il Redentore della Bibbia. Ci si può ancora rendere conto di ciò
leggendo il Prologo alla Seconda Parte, che inizia col ricordare la prima
pagina della Genesi sull’uomo come immagine di Dio. Situato al centro di
gravità della Somma, nel luogo stesso in cui, dopo aver descritto
l’«uscita», Tommaso inaugura il movimento di «ritorno», questo testo-
chiave che ritroveremo ben presto non lascia alcun dubbio circa questa
ispirazione biblica.

TRINITÀ E CREAZIONE

Non si sarà ancora compreso del tutto lo schema circolare della


Somma fintantoché non si sarà capito che si tratta di uno schema trinita-
rio che Tommaso vede già all’opera nei rapporti del mondo col suo
Creatore. Questa visione del mondo teologalmente unificata - che egli
condivide largamente con i suoi grandi contemporanei Alberto e
Bonaventura - era già presente fin dagli inizi della sua riflessione
teologica10. Meno conosciuti, questi testi della giovinezza di Tommaso
sono a volte preziosi per spiegare quelli della maturità. All’inizio della sua
carriera, su alcuni temi egli è stato sovente più esplicito di quanto non lo
sarà in

«l' i A. 1° Ciò è stato magistralmente messo in luce da G. EMERY, Creatrix Trinitas. fLS^Trinité
créatrice dans les commentaires aux Sentences de Thomas d’Aquin et de sespn'cursetrrs Albert
le Grand et Bonaventure, Diss., Fribourg 1994.
seguito. Il fenomeno è noto: la prima volta che un autore percepisce
un’idea importante, egli cerca di esplorarla a fondo e di mostrarne tutti gli
aspetti. In seguito, si accontenta di ricordarla succintamente e di supporre
71
conosciuta dal suo lettore la prima spiegazione che ne ha dato. Così accade
per le relazioni della creazione con la Trinità: nelle Sentenze pur
esprimendosi in maniera molto condensata, troviamo tuttavia una dottrina
più ampiamente sviluppata rispetto alla Somma:
«Nell’uscita delle creature dal primo Principio si osserva una specie
di movimento circolare (quaedam circulatio uel regiratio) per il
fatto che tutte le cose ritornano, come al loro fine, verso ciò da cui
sono uscite come dal loro Principio. Ed è per questo che è
necessario che il loro ritorno verso il fine si compia mediante le
stesse cause per cui si ha la loro uscita dal Principio. Ora, come si è
già detto, poiché la processione delle persone è la ragione
esplicativa [ratio; questo termine molto ricco ha simultaneamente
vari significati: causa, modello, ragione, motivo, ecc.J della
produzione delle creature operata dal primo Principio, questa stessa
processione è dunque anche la ratio del loro ritorno al loro fine» u.
Un po’ enigmatico nella sua concisione, questo testo si spiega
facilmente se ci si riferisce al passaggio al quale rinvia l’autore 133 134.
Alcune pagine prima egli ha spiegato che la processione delle creature,
altrimenti detta creazione, non si spiega bene da parte del suo autore se
non tenendo conto di due punti di vista: da una parte, quello della natura
divina, la cui pienezza e perfezione spiegano la perfezione delle creature -
dato che essa ne è contemporaneamente la causa realizzatrice e il modello
e dall’altra parte, quello della volontà, che fa sì che tutto ciò sia donato
liberamente, per amore, e non per una specie di necessità naturale. Ora,
siccome noi riteniamo mediante la nostra fede che in Dio vi è una
processione delle persone all’interno dell’unità dell’essenza divina, ne
concludiamo che questa processione intratrini- taria, che è perfetta, deve
anche essere la causa e la ragione esplicativa della processione delle stesse
creature.
Dal punto di vista della natura, è chiaro che la perfezione delle
creature non rappresenta se non molto imperfettamente la perfezione della
natura divina; ma noi la riferiamo tuttavia, come a suo principio
esplicativo, al Figlio, che contiene tutta la perfezione della natura divina
poiché è la perfetta immagine del Padre. E così che la processione del
Figlio è il modello, l’esemplare e la ragione della processione delle
creature nell’ordine naturale, dove esse imitano e riproducono qualco- sa
della natura divina.
In base al secondo punto di vista, secondo cui la processione delle f
creature risulta dalla volontà divina, occorre riferirsi a un principio che :
Ma esplicativo di tutti i doni elargiti da tale volontà. Il principio primo in
133 Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2.
134 Tommaso rinvia qui al testo assolutamente decisivo di Sent. I, d. 10, q.
1, a. 1;72
la sua densità sfida la traduzione, ma è esso che noi parafrasiamo qui sopra.
quest’ordine non può essere che l’amore, poiché non è che in sua virtù f
che tutte le cose sono liberamente accordate dalla volontà divina, dunque
esso ne è anche la ragione esplicativa. È per questo che, in quanto risulta
dalla liberalità divina, la processione delle creature è ricondotta alla
persona dello Spirito Santo, che procede per modo di amore.
Tale dottrina, già presente in molti altri testi di questo stesso libro
delle Sentenze 13, è anche quella della Somma che la riprende con molta più
chiarezza:
«A DÌO appartiene l’atto creativo in forza del suo essere: e questo non
è che la di lui essenza, comune alle tre Persone. E così il creare non
è proprietà di una sola Persona, ma opera comune di tutta la
Trinità. Tuttavia le Persone divine hanno un influsso causale sulla
creazione in base alla natura delle rispettive processioni... Dio è
causa delle cose per mezzo del suo intelletto e della sua volontà,
come Tartigiano nei confronti dei suoi manufatti. Ora, l’artigiano si
pone all’opera servendosi di un verbo [parola intima o idea]
concepito dall’intelligenza, e spinto da un amore [o inclinazione]
della sua volontà verso qualche oggetto. Allo stesso modo anche Dio
Padre ha prodotto le creature per mezzo del suo Verbo, che è il
Figliuolo; e per mezzo del suo Amore, che è lo Spirito Santo. E sotto
questo aspetto le processioni delle Persone sono causa della
produzione delle creature, in quanto esse includono attributi
essenziali, quali la scienza e la volontà»135 136.
Dopo aver chiarito ciò che riguarda direttamente la produzione delle
creature, possiamo ritornare al brano delle Sentenze che stiamo
commentando e che continua trattando del ritorno delle creature verso
Dio, parimenti messo da Tommaso in relazione con la processione del
Figlio e dello Spirito:
«Infatti come siamo stati creati per mezzo del Figlio e dello
Spirito Santo, così mediante essi siamo uniti al nostro fine
ultimo. Questo già pensava sant’Agostino quando evocava il
Principio al quale ritorniamo, cioè il Padre, il Modello che
seguiamo, cioè il Figlio, e la Grazia che ci riconcilia, cioè lo
Spirito Santo. Come pure sant’Ilario, che parla dell’unico
senza-principio e principio di tutto, al quale riferiamo iurte le
cose mediante il Figlio»137.
135 Si può vedere per esempio Seni. I, d. 14, q. 1, a. 1, che tratta anche delle
piocessioni intratrinitarie e dei loro rapporti con la creazione; vedere anche Seni. I, d. 27,
q. 2, a.3 ad 6: «...non tantum essentia [diurna] habet ordinem ad creaturam, fei etiam
processio personalis, quae est ratio processionis creaturarum».
1361, q. 45, a. 6.
137 Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2; la citazione di sant’Agostino è presa dal De nera reli
gione c. 55, n. 113 (BA 8, pp. 188-191; NBA 6/1, p. 157); quella di santuario dal De Synodis
59, XXVI (PL 10, 521); a tal proposito si leggerà volentieri il magnifico stu dio di G.
EMERY, Le Pére et l’oeuvre trinìtaire de création selon le Commentaire des t Sentences 73 de
Questo testo ha su molti altri il vantaggio di prolungare la dottri- - na
della processione delle creature con una dottrina delle «missioni» :| divine.
Si parla di missione, è chiaro, per esprimere l’invio (in latino: missio) del
Figlio da parte del Padre, o dello Spirito da parte del Padre e del Figlio,
mediante il dono della grazia accordato alle creature razionali. Ne
parleremo più ampiamente nel capitolo seguente; per il momento è
sufficiente sapere che è l’operazione dello Spirito in mezzo alle creature
che permette il ritorno dell’opera all’Artefice. Incontriamo qui per la prima
volta, ma la ritroveremo spesso, una opzione tomasiana fondamentale che
traduce esattamente la sua visione del mondo: malgrado la differenza di
livello tra il dono dell’essere e quello della grazia, Tommaso non vede
nessuna rottura in due parti: è lo stes- .? so Dio che prende l’iniziativa di
questi due tipi di doni nell’unità del i suo piano di salvezza per il mondo:
f
«Mi'sono due modi di considerare la processione delle persone nelle
creature. In primo luogo in quanto essa è la ragione dell’uscire dai
Principio, ed è questa la processione dei doni naturali nei quali
sussi stiamo; in tal modo Dionigi può affermare nei Nomi divini che
la sa, ; gezza e la bontà divine procedono nelle creature... ».
I «doni naturali» corrispondono a ciò che chiamavamo poco fa il '1
livello della natura; si tratta del fatto di esistere, che l’uomo condivide

74 d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 85-117.


S. Thomas £
con tutto dò che è, ma che nel suo caso riveste una nobiltà particolare,
dato che egli è dotato di un’anima intelligente e libera. È proprio un
dono divino, ma ciò non è sufficiente per permettere il ritorno della
creatura razionale verso Dio e nemmeno per spiegarlo, perciò
Tommaso continua:
«Questa processione può ancora essere osservata in quanto è la
ragione del ritornare alfine, ma soltanto nei doni che ci
uniscono da vicino al Fine ultimo, cioè Dio, e che sono la
grazia santificante [per questa vita] e la gloria [per la vita
futura]... ».
Per fare comprendere dò, Tommaso usa un paragone con quanto
accade nel processo di generazione naturale. Non si potrà dire di un
bambino che è imito con suo padre nel possesso della stessa spede
umana fin dal momento in cui egli è concepito; ciò non potrà
verificarsi che al termine dell’atto generatore, cioè quando il bambino
è diventato a sua volta persona umana. Allo stesso modo, nelle diverse
partecipazioni alla bontà divina che noi conosciamo, non vi è unione
immediata a Dio mediante i primi doni che egli ci fa (cioè il fatto di
sussistere nell’essere naturale); questa unione non si realizza se non
mediante i doni ultimi che ci permettono di aderire a lui come nostro
fine. Per questo diciamo che lo Spirito Santo non è dato
immediatamente con l’essere della natura, ma soltanto con i doni
santificanti che procurano ila nostra nascita secondo l’essere di
grazia138.
Se i testi che parlano direttamente della creazione sottolineano a
giusto titolo il ruolo decisamente centrale dell’esemplarità
dell’Immagine e dell’efficienza del primo Principio che permettono di
valorizzare il ruolo del Verbo incarnato, in quello che commentiamo
ora è evidentemente lo Spirito che passa in primo piano, poiché è per
esso e mediante i suoi doni che la creatura sarà resa effettivamente
capace di raggiungere l’Esemplare. Detto altrimenti, nell’immediato
prolungamento della Trinità creatrice, Tommaso ci parla della Trinità
divinizzatrice. Al centro della sua teologia, la Trinità è subito messa in
relazione esplicita con la dottrina della creazione e della salvezza. A
Tommaso piace questa scorciatoia e la riprende in un testo della
Somma anch’esso molto illuminante:
«La conoscenza delle persone ci era necessaria per due ragioni.
La prima era quella di farci pensare in modo giusto circa la
creazione delle cose. Infatti, affermare che Dio ha fatto tutto per
mezzo del suo Verbo, significa rigettare l’errore secondo il quale
Dio ha prodotto le cose per necessità di natura, e porre in lui la
138 Quest’ultimo capoverso è una parafrasi della fine del testo di Seni. I, d.
14, q. 2, a. 2.
75
processione dell'Amore significa dimostrare che se Dio ha
prodotto delle creature, non è perché ne abbia avuto bisogno, né
per nessun’altra causa esterna a Lui: è per amore della sua
bontà»139.

Si riconosce qui ciò che fondava la messa in guardia circa una


possibile confusione sull’origine dello schema circolare, ma si nota
anche che l’idea di Dio che Tommaso si fa non è meschina. Egli sa per
esperienza che nel nostro mondo nessun essere agisce se non in vista
di un fine, in vista d’acquisire qualcosa o di arrivare ad un risultato —
detto altrimenti, in modo interessato -, Ma quando si tratta dell’yl/ di là
di tutto, è chiaro che il suo agire non può essere motivato
dall’acquisizione di qualcosa che gli mancherebbe. Occorre dunque
concludere che la creazione del mondo da parte di Dio non ha altro
motivo che quello di comunicare la sua propria bontà, la sua propria
perfezione. Poiché non gli manca assolutamente niente, Dio solo può
agire in maniera perfettamente disinteressata 140. Veniamo così a
comprendere quanto sarebbe erroneo sopravvalutare l’uso del
vocabolario neoplatonico. Se vi è somiglianza, al massimo essa è
materiale. Ci troviamo in pieno pensiero cristiano e la nascosta
debolezza dello schema emanatista è qui corretta in modo radicale. Se
Dio crea mediante il suo Logos, la sua Parola (Gv 1, 3) è un’attività di
pensiero riflesso, non un’emanazione naturale. E «attività d’Artista e
non proliferazione della Sostanza»141.
In un primo tempo, la rivelazione della Trinità ci permette di < <
imprendere rettamente il perché della creazione, eppure Tommaso gli
riconosce un altro motivo, secondo lui ancora più importante:
«La seconda ragione, e la principale, era quella di darci una
vera nozione della salvezza del genere umano, salvezza che si
compie tramite l’incarnazione del Viglio e il dono dello Spirito
Santo».

Questo mettere in relazione la creazione e la salvezza, l’origine


¡lèi mondo e la sua realizzazione finale nella beatitudine - si riconosce
qui il piano della Somma - mostra a che punto, in questa prospettiva, il
corso intero del tempo è immerso per così dire nel seno della Trinità:
1391, q. 32, a. 1 sol. 3.
140 Cf. I, q. 44, a. 4: «Ogni agente agisce in vista di un fine... e ogni agente
imperfetto... intende acquistare qualcosa con la sua azione. Ma al primo agente... non
compete agire per raggiungere qualche fine; esso non si propone altro clic comunicare
la sua perfezione, cioè la sua propria bontà. Siccome da parte sua ogni creatura
intende ottenere la sua propria perfezione, che è una somiglianza della perfezione e
della bontà divine, questa è dunque la divina bontà che è il fine di tutte le cose»; cf.
ìbid., ad 1; Depot, q. 3, a. 7 ad 2; ecc.
141 H.-F. DONDAINE, nota 85 a SAINT THOMAS D’AQUIN, La Trinità,
76 des Jeunes», Paris 1950,1.1, p. 200.
«Revue
la uscita-creazione e il ritorno-divinizzazione sono inglobati nel ciclo
eterno delle processioni divine. Per riprendere un’espressione ben
coniata da uno dei suoi migliori commentatori, «la rivelazione
concreta del mistero della Trinità è come avvolta nella rivelazione
dell’economia della salvezza e in quella delle origini del mondo» 142.

L’ARTISTA DIVINO

Questa dottrina della creazione è carica di implicazioni dottrinali


e spirituali di ogni specie che saranno esposte a poco a poco nel
seguito dii queste pagine. La prima che si offre alla meditazione è
quella del Dio an elice e artista che imprime alla sua opera una traccia
della sua bellezza143. Si tratta di un luogo comune del pensiero
medievale che ha trovato la sua traduzione perfino nella pittura; inoltre
è nota quella miniatura della scuola di Chartres in cui il Creatore, con
il compasso in mano, si dà da fare per realizzare una terra
perfettamente sferica. Non si può dire qui che l’arte imiti la natura
perché prima della creazione non vi è niente, occorre perciò che il
Creatore divino prenda se stesso come modello. Essendo acquisito
peraltro il principio generale secondo cui l’effetto assomiglia alla sua
causa e, più precisamente, l’opera al suo; autore, si è dunque obbligati
a concluderne che la creazione asso- miglia al suo Creatore:
!: «Lio è causa esemplare di tutte le cose. È sufficiente per
convìncersene ricordarsi che un modello è necessario alla
produzione di una cosa se si

142 H.-F. DONDAINE, ihid; per uno studio più completo, si vedrà E.
BAILLEUX, La création, œuvre de la Trinité, selon saint Thomas, RT 62
(1962) 27-50.
143 Cf. R. IMBACH, Dieu comme artiste. Méditation historique sur les
liens de rioS: conceptions de Dieu et du Beau, «Les Echos de Saint-Maurice», n.s. 15
(1985) 5-19. 77
vuole che l’effetto riceva una forma determinata. Infatti, è
perché osserva un modello che l’artigiano produce nella materia
una forma determinata, sia questo modello a lui esterno, oppure
interiormente concepito dalla sua intelligenza. Ora, è chiaro che
le cose prodotte dalla natura ricevono una forma determinata.
Questa determinazione delle forme deve essere riportata come al
suo primo principio, alla saggezza divina che ha elaborato
l’ordine dell’universo, il quale consiste nella disposizione
differenziata delle cose. E per questo bisogna dire che la
saggezza divina contiene le nozioni di tutte le cose, che
precedente- mente abbiamo chiamato "idee”, cioè forme
esemplari esistenti neU l’intelligenza divina 144. E sebbene
queste siano molteplici secondo la loro relazione alle realtà, non
sono realmente distinte dall’essenza divina, poiché la
somiglianza di questa può essere partecipata in modo diverso
dai diversi esseri. Così dunque Dio è egli stesso il primo modello
di tutto» 145.

Per quanto approssimativo sia, il paragone dell’Artista divino


con un artigiano di questa terra che lavorando crea, è in se stesso
altamente suggestivo. E ciò molto più di quanto non si penserebbe di
primo acchito, dato che qui è la Trinità che è all’origine di questa
opera d’arte che è il mondo, e noi abbiamo visto che ogni Persona vi
partecipa secondo quanto le è proprio, seguendo l’ordine stesso delle
processioni146. Se è così, una nuova conclusione s’impone: si troverà
necessariamente una somiglianza, una «traccia» (vestigium) della
Trinità in tutte le creature e non solo nell’uomo. Basandosi su
sant’Agostino, Tommaso non teme di affermarlo, anche se distingue
due modi in cui un effetto può assomigliare alla sua causa: come
vestigio o come immagine.

144 Si può vedere a tal proposito l’importante studio di L.B. GEIGER, Les
idées divines dans l’oeuvre de S. Thomas, in Commemorative Studies I, pp. 175-209.
145 I, q. 44, a. 3; queste idee sono familiari a Tommaso, cf. De uer., q. 2, a. 5
e il commento di S.-TH. BONINO, La question 2 des «Quaestiones disputatae De ventate»
de Thomas d’Aquin, diss. Fribourg, t. 2, note 37-42, pp. 447-451; F.J. KOVA- CH, Divine
Art in Saint Thomas Aquinas, in Arts libéraux et Philosophie au Moyen Age. Actes du
quatrième Congrès international de philosophie médiévale (Montréal 27 août - 2 sept.
1967), Montréal-Paris 1969, pp. 663-671; più ampiamente H. MERLE, Ars, BPM 28 (1986)
78
95-133.
Ritroveremo l’immagine nel capitolo seguente, ma la dottrina del
vestigio è già molto ricca. Si parla di vestigio o di traccia quando
ll’effetto rappresenta la causalità dell’agente che l’ha prodotto, ma non
fla sua forma; così il fumo o la cenere evocano, il fuoco ma non lo
riproducono: «La traccia mostra proprio che qualcuno è passato in quel
posto, ma non ci dice chi». Eppure ciò è già qualcosa ed è sufficiente a
Tommaso per affermare che
«in tutte le creature vi è una rappresentazione della Trinità per
modo di vestigio, nel senso che si trova in ciascuna di esse
qualcosa che bisogna necessariamente riferire alle persone
divine come a loro causa... Infatti, in quanto è una sostanza, la
creatura rappresenta la sua causa e il suo principio e così
manifesta il Padre, Principio senza principio. In quanto ha una
data forma e specie essa rappresenta il Verbo, poiché la forma
dell’opera deriva dall’artefice che l’ha concepita. Infine, in
quanto è ordinata ad altre realtà la creatura rappresenta lo
Spirito Santo che è amore: infatti, l’orientamento di una cosa a
un’altra è l’effetto di una volontà creatrice»2*’.
Per fondare questi esempi di cui trova l’ispirazione in
sant’Agosti- no Tommaso si riferisce alla celebre triade del libro della
Sapienza (11, 21) secondo la quale Dio ha disposto tutto con misura,
calcolo e peso; «la misura riferendosi alla sostanza di una cosa
limitata ai suoi propri eiematti, il calcolo alla specie e il peso
all’ordine». Secondo lui, si potrebbero facilmente ricondurre a questa
triade molte spiegazioni proposte dai vari autori, ma si guarda dallo
spingere troppo lo spirito di sistema al punto di ritrovare la triade
dappertutto. E sufficiente che l’uno o l’altro di questi elementi sia
presente affinché, essendo sempre la Trinità creduta per fede, sia
possibile procedere a questo tipo di appropriazioni.
San Tommaso ha spesso dato delle spiegazioni su questa distinzione
fondamentale tra immagine e vestigio147 148 149; senza soffermarci ora su
146 Se non bisogna disistimare il metodo filosofico che ci fa risalire
dall’effetto alla causa, è anche importante non sopravvalutarlo in questo contesto delle
orme trinitarie nella creazione: soltanto la rivelazione della Trinità ci permette di
coglierle come tali. Ci si ricordi degli avvisi severi contro la pretesa di «provare» la
Trinità delle Persone con la ragione naturale, cf. I, q. 32, a. 1.
147 I, q. 45, a. 7; cf. SCG III 26 n. 3633, dove Tommaso sottolinea che in
simili casi si parla di vestigio e non di immagine perché la somiglianza negli esseri
irrazionali non è che remota e oscura (propter remotam repraesentationem et obscu- fàm
in irrationabilibus rebus).
148 Si può rinviare qui al De Trinitate VI 10, 11-12 (BA 15, pp. 496-501;
NBA 4, pp. 284-287) e, più ampiamente, ai libri X-XI; vedere la nota complementare
45: «L’homme à l’image», pp. 589-591.
149 Cf. soprattutto Seni. I, d. 3, q. 2, a. 2; Depot, q. 9, a. 9; e in modo79
di essa, occorre sottolineare en passant l’interesse spirituale di questa
dottrina, Che Dio sia in tal modo riconoscibile mediante la sua traccia
nella creazione, costituisce evidentemente il punto di partenza per
dimostrare l’esistenza di Dio 28, ma è anche lecito adottare
«riconoscere» nel senso di «confessare», e allora è aperta la via alla
lode e all’ammirazione. Come il Salmista, Tommaso sa bene che «i
cieli narrano la gloria di Dio» e non è né il primo né il solo. E
soprattutto con sant’Agostino, al quale rinvia, egli ritiene che «le
creature sono come delle parole che esprimono l’unico Verbo divino»
29
. Senza avere il brio di Agostino né il lirismo di san Giovanni della
Croce, che pure si serve di questa vena 30, egli condivide la stessa
convinzione e la esprime con la sobrietà del suo proprio carisma: «Il
mondo intero così non è nient’altro che una vasta rappresentazione
della Sapienza divina concepita nel pensiero del Padre» 31. La
preoccupazione, legittima e necessa- che comporta la nozione di vestigio,
rinviamo allo studio di B. MoNTAGNES, La Parole de Dieu dans la création, RT 54 (1954)
213-241; osserviamo tuttavia che il testo di partenza non appartiene alle prediche
autentiche di Tommaso.
28
Cf. I, q. 2, a. 3; Super lob 11, linn. 112-114, Leon. t. 26, p. 76: «le vestigia
sono come dei segni di Dio nelle creature, a partire dai quali Dio può essere conosciuto
in qualche modo»; si noterà che si tratta di un processo «ascendente», contrariamente
a quello «discendente» della Summa nella parte che commentiamo.
29
Sent. I, d. 27, q. 2, a. 2, qc. 2 ad 3: «La creazione propriamente parlando
non può essere detta “verbo”, essa è piuttosto la “voce del verbo” ( uox nerbi)-, come
infatti la voce manifesta il pensiero (uerbum), così la creazione manifesta l’arte divina.
Per questo i Padri affermano che con il solo suo Verbo Dio ha detto tutta la creazione.
Le creature sono dunque come delle parole che esprimono l’unico Verbo divino (Vnde
creaturae sunt quasi uoces exprimentes unum Verbum diuinum). Ecco perché
sant’Agostino poteva dire: Omnia clamant, Deus fecit. Ma ciò non poteva dirlo che per
metafora»; ci si ricorda del passaggio indimenticabile delle Confessioni X 6, 9 (BA 14,
p. 154-159; NBA L P- 307): alla domanda di colui che cerca Dio, la bellezza delle
creature risponde: «E lui che ci ha creato».
30
Senza volerne fare un tomista come a volte si è tentato di fare, non è vietato
osservare che è questa ispirazione che si nota facilmente nel Cantico spirituale, V
strofa: «Mille grazie versando, / Passò per queste selve agile e snello; / Mentre le andò
mirando, / Solo col suo bel volto / Fe’ ch’ogni bel rimase in esse accolto». H commento
del mistico si avvicina sorprendentemente alle espressioni dei teologi: «Dio creò tutte le
cose con grande agevolezza e rapidità, ed in esse lasciò un certo vestigio del suo essere,
non solo traendole dal nulla all’esistenza, ma anche dotandole di innumerevoli grazie
e virtù [...] Le creature sono come un’orma del passo di Dioj nella quale si scorge la sua
grandezza, potenza e sapienza, e altri suoi attributi», cf. SAN GIOVANNI DELLA
CROCE, Cantico spirituale, a cura del p. Nazareno dell’Addolorata, Torino 1947, pp.
74-75.
31
In loannem 1,10, lect. 5, n. 136.
ria, di ben precisare lo statuto esatto di questa conoscenza di Dio a
partire dalla creazione ha fatto sì che a volte i suoi discepoli mettessero
in secondo piano il sentimento di ammirazione estasiata che coglie il
80
particolare I, q. 93, a. 6, che ritroveremo ben presto; per l’elaborazione riflessiva di ciò
credente alla vista di tutti questi segni della Trinità; niente tuttavia
impedisce di leggere il Maestro anche in questo modo150.

PRESENZA DELLA TRINITÀ NEL MONDO

Questo insegnamento sulla Trinità tutta impegnata nell’opera


creatrice e restauratrice ci situa ancora alla radice di una dottrina della
presenza di Dio nel mondo, che Tommaso condivide con i più grandi
mistici, ma che egli esprime con una forza insospettabile e di cui dà le
ragioni con la sua abituale giustezza e precisione. Riferendosi diretta-
mente ad un versetto del Prologo di Giovanni (1, 3), di cui conosce non
meno di sei differenti esegesi, e che seguendo sant’Agostino legge nel
seguente modo: «Ciò che fu fatto era vita in lui»151, vede preesistere in
Dio non soltanto le creature spirituali ma tutta la creazione: «Se si
considerano le cose in quanto sono nel Verbo, esse non sono solamente
viventi, ma sono la Vita. Infatti le loro “idee”, che esistono spiritual-
mente nella sapienza di Dio e mediante le quali le cose sono state fatte
dal Verbo stesso, sono vita»152.
La creazione artistica permette qui un nuovo paragone: prima
della sua esecuzione, l’opera propriamente parlando non è inesistente
perché esiste già nel pensiero dell’artista, tuttavia essa non è puramente
e semplicemente la vita, poiché l’intelligenza dell’artista non si
identifica con il suo essere. Al contrario, in Dio non vi è niente che non
sia
Dio e la sua intelligenza si identifica con la sua vita e con la sua
essenza. «Perciò tutto ciò che è in Dio non solo vive ma è la vita
stessa... ed è per questo che la creatura in Dio si identifica all’essenza
creatrice (icreatura in Deo est creatrix essentid). Così, in quanto sono
nel Verbo, le cose sono vita». Questa è una dottrina costante che
Tommaso sostiene sempre con lo stesso riferimento al Prologo
giovanneo: «Le cose preesistono in Dio secondo il modo del Verbo
stesso. Esso consiste nell’essere uno, semplice, immateriale, nel non

150 Malgrado l’aridità della reportatio (semplici appunti di corso), se ne


scopre qualcosa nei commenti ai Salmi: In Ps. 8, n. 3; 18, nn. 1-3, passim-, Vivès, t. 18,
pp. 266; 326-328.
151 «Quod factum est in ipso vita erat»; oltre Agostino, Tommaso cita
Origene, Ilario, Crisostomo, i manichei e una omelia anonima; gli esegeti attuali
leggono piuttosto: «Senza di lui niente fu. Di ogni essere egli era la vita», ma non
dobbiamo qui addentrarci in questa discussione; ci è sufficiente mettere in evidenza il
punto di partenza di Tommaso.
152 In loannem 1, lect. 2, n. 91; si sa che i mistici riprendono volentieri
questo linguaggio, cf. per esempio ANGELUS StLESlUS, Le pèlerin chérubique, I 73
(«Sages- ses chrétiennes»), Paris 1994, p. 48: «Prima di essere qualsiasi cosa, io ero la
vita di Dio. Per questo Egli si è anche donato totalmente a me».
81
essere soltanto vivente ma la Vita stessa, giacché il Verbo è il suo
essere»153.
E dunque in questo modo che vi è presenza della creazione in Dio,
ma il contrario non è meno vero: c’è un’«esistenza di Dio nelle cose» 154.
Questo è un luogo privilegiato per comprendere come una presa di
posizione in apparenza semplicemente filosofica esige immediatamente la
sua traduzione teologica e il suo prolungamento mistico. Tommaso trae il
suo punto di partenza da una delle sue posizioni più nette: Dio solo è
l’essere per essenza e la sua essenza è il suo essere ■. stesso (lpsum esse
subsistens); ne segue quindi che, in ogni altro esistente, l’essere non può
che essere creato e ricevuto da Dio, il quale lo produce come suo proprio
effetto. Secondo un’immagine fisica prediletta: «essendo Dio l’essere
stesso per essenza, è necessario che l’essere i creato sia il suo proprio
effetto, come bruciare è l’effetto proprio del fuoco». Questa dipendenza
nell’essere di tutte le cose nei confronti di Dio non si verifica soltanto
nella loro creazione, nel momento in cui cominciano ad esistere, ma dura
per tutto il tempo che esse sussistono.
Un paragone molto eloquente permette di capire ciò molto
facilmente: non fa giorno se non quando il sole diffonde nell’aria la
sua luce; se il sole scompare, non si ha più luce né giorno. Il parallelo
con Dio che dà l’essere impone la conclusione:

«Fintantoché dunque una cosa ha l’essere, è necessario che


Dio le sia presente, e ciò conformemente al modo in cui essa
possiede l'essere. L’essere poi è in ogni essere ciò che vi è di
più intimo e di più profondamente radicato, poiché gioca nei
confronti dì tutto ciò che è in esso il ruolo di forma, di
principio determinatore... Occorre dunque concludere
necessariamente che Dio è in tutte le cose e nel modo più
intimo»155.
153 SCG IV 13, n. 3494; cf. Depot., q. 3, a. 16 ad 24; I, q. 39, a. 8; q. 4,
a. 2: «poiché Dio è la prima causa efficiente delle cose, le perfezioni di tutte le cose
devono preesistere in Dio secondo un modo superiore». Tommaso è qui molto vicino
a SANT’AGOSTINO, La Genesi alla lettera, V 15, 33: NBA 9/2, pp. 265-267; BA 48, pp.
419-420; Omelie sul Vangelo di San Giovanni 37, 8: NBA 24/1, pp. 771-773; BA 73A,
pp. 231-235, e forse ancora di più a SANT’ANSELMO, Monologion 36, ed. F.S.
SCHMITT, Edinburgh 1946,1.1, p. 55. Per i problemi metafisici che si pongono qui,
rinviamo a J.-H. NICOLAS, Synthèse dogmatique. Complément: De l’univers à la
Trinité, Fribourg-Paris 1993, pp. 34-42.
154 Cf. I, q. 8, totalmente dedicata a questo tema.
155 I, q. 8, a. 1: «Oportet quod Deus sìt in omnibus rebus, et intime»; si
vedrà qui I, q. 3: «Sulla semplicità di Dio», e soprattutto l’a. 4 per l’affermazione
secondo cui in Dio l’essenza è identicamente il suo atto di essere (esse); per quanto
riguarda 0 fatto che l’esse sia la forma di ogni essente ricordiamo la formula così
forte: «l’essere è l’attualità di tutte le cose e delle stesse forme» (ipsum esse est
àctualitas omnium rerum et etiam ipsarum formarum, I, q. 4, a. 1 ad 3; cf. De pot. q. 7,
82
Tommaso insiste su questo punto con una forza un po’
sorprendente 156 157, ma ci troviamo in un luogo di affermazioni
paradossali. Contrariamente a quanto succederebbe per una realtà
materiale, questa presenza di Dio nelle cose non equivale a un
imprigionamento: le cose non contengono Dio; è il contrario che è
vero: «le cose spirituali contengono ciò in cui esse sono, così l’anima
contiene il corpo. Quindi anche Dio è nelle cose come contenente le
cose» y>. Avendo precisato ciò, Tommaso non teme di aggiungere:
«Dio è in tutti gli esseri e interamente in ciascuno, così come l’anima
è tutt’intera in ciascuna parte del corpo» 158. L’affermazione di
partenza è dunque arricchita e precisata: dato che il conosciuto si
trova nel conoscente e l’amato nell’amante, ne consegue che, secondo
l’intelligenza e la volontà, «le cose sono in Dio molto più che Dio
nelle cose» 159.
Non è quindi se non per analogia con il mondo materiale che si
dice che Dio si trova in tutte le cose. Questi paragoni sono tuttavia
delicati da maneggiare; Tommaso non lo ignora e, dal momento in
cui incontra il panteismo160, rigetta l’eredità dello stoicismo antico
che considerava Dio come l’anima del mondo. Questo
antropomorfismo relativamente grossolano non solo non è sufficiente
a rendere conto in modo soddisfacente dell’immanenza di Dio alla
sua creazione, ma fallisce anche completamente nel preservare la sua
trascendenza161. Ora, Tommaso conserva simultaneamente l’una e
l’altra e, ancora meglio, si impegna a valorizzare il modo
profondamente differenziato in cui Dio è presente nella sua creazione,
aprendo così alla contemplazione prospettive inesauribili.
In un celebre testo scritto mentre era giovane teologo,
Tommaso distingue tre modi in cui si può dire che Dio esiste nella
creazione162. Il primo si verifica in tutta la creazione, animata o
inanimata; il secondo al contrario non lo si incontra che negli esseri

a. 2 ad 9: esse est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium
perfectionum). Etienne Gilson si è molto impegnato per rimettere in primo piano
questo insegnamento, cf. in modo particolare Le Thomisme, Paris 19866, inizio del
cap. Ili, pp. 99-112.
156 Poiché egli arriva fino al punto di concedere che Dio si trova
anche nei demoni, almeno in quanto essi sono delle realtà esistenti (a. 2 ad 4). A
maggior [ragione egli sarà nei peccatori di cui l’atto stesso di peccare non ha altra
realtà fisica se non quella che gli presta Dio ad ogni istante.
1571, q. 8, a. 1 ad 2.
1581, q. 8, a. 2 ad 3.
1591, q. 8, a. 3 ad 3: «Magis res sunt in Deo quam Deus in rebus».
1601, q. 3, a. 8.
161 Cf. J.-H. NICOLAS, Transcendance et immanence de Dieu, ST 10
(1981) 337-349.
162 Seni. I, d. 37, q. 1, a. 2. 83
spirituali capaci di ricevere la grazia e dunque di accedere a Dio in un
modo personale; quanto al terzo, esso si realizza soltanto in Cristo,
che l’unione ipostatica situa al vertice della creazione:
«La prima [presenza] si realizza per semplice similitudine, cioè
nella misura in cui si trova nella creatura una somiglianza
della divina bontà [questo corrisponde a ciò che abbiamo
caratterizzato qui sopra come "vestigio”], senza che essa
raggiunga Dio considerato nella sua sostanza. Questo modo di
congiunzione [tra Dio e la sua creatura] lo si incontra in tutte
le creature nelle quali Dio si trova per la sua essenza, la sua
presenza e la sua potenza».
I teologi parlano in questo caso di una «presenza di immensità».
Tommaso spiega ciò molto chiaramente nella Somma 163, ma ha pure
un testo ancora più esplicito, che risale alla fine della sua carriera:
«Si dice comunemente che Dio è in ogni realtà per la sua
essenza, presenza e potenza. Per comprendere ciò, bisogna
sapere che qualcuno è detto essere per la sua potenza in tutti
coloro che gli sono sottomessi, così come il re è detto essere in
tutto il regno che gli è sottomesso, senza tuttavia esservfcon la
sua presenza né con la sua essenza. Per la sua presenza,
qualcuno è detto essere in tutte le realtà che sono al suo
cospetto, così come il re è detto essere presente nel suo
palazzo. Invece qualcuno è detto essere per la sua essenza nelle
realtà in cui è la sua sostanza, così come il re è [nella sua
propria individualità] in un solo determinato luogo.
Noi affermiamo che Dio è dappertutto nel mondo per la sua
potenza, poiché tutte le cose sono sottomesse al suo potere - Se
salgo in cielo, là tu sei (...), se prendo le ali dell’aurora per
abitare alPestremità del mare, anche là mi guida la tua mano e
mi afferra la tua destra (Sai 138, 8) Dio è anche dappertutto
per la sua presenza, poiché tutto ciò che è nel mondo è nudo e
scoperto agli occhi suoi (Eb 4, 13). Infine Dio è dappertutto
per la sua essenza, poiché la sua essenza costituisce ciò che vi
è di più intimo in tutte le realtà... Ora, Dio crea e conserva
tutte le cose seconda l’atto d’essere di ogni realtà. E dato che
l’atto d’essere forma ciò che vi è di più intimo in ogni realtà, è
chiaro che Dio è in tutte le realtà per la sua essenza, mediante
la quale le crea» 46.

1631, q. 8, a. 3: «Dio è in tutto per la sua potenza, perché tutto gli è


sottomesso; è in tutto per la sua presenza, perché tutto è allo scoperto e come nudo
dinanzi ai suoi occhi; è in tutto per la sua essenza, perché è presente a tutto come
causa universale dell’essere»; occorre vedere in questo articolo il modo in cui queste
tre parole rifiutano altrettanti errori opposti: potenza mira a quello dei manichei che
pretendevano sottrarre le cose corporali e visibili all’influenza del Dio buono per
sottometterle al Dio cattivo che nel loro sistema gli è prospiciente; presenza vuole
84quello di Aweroè e di altri che, pur ammettendo che tutto è sottomesso
scartare
Noi purtroppo non possediamo il commento di Tommaso al
Salino 138, ma ciò che conosciamo della sua riflessione sul libro di
Giob- he mostra bene com’egli sia lontano dal vedere in questo Dio
che ha tutto al suo cospetto, e scruta le reni e i cuori, il giudice
spietato a cui lo si è a volte ridotto; Tommaso, molto diversamente,
vede Dio in questa immagine come colui che conduce l’uomo «sul
cammino dell’eternità» 47. C’è infatti un secondo modo in cui Dio si fa
presente alla sua creatura; esso si verifica
«quando la creatura raggiunge Dio stesso considerato nella
sua sostanza e non nella sua semplice somiglianza, e questo
mediante la sua operazione. È quanto succede quando
qualcuno aderisce con la fede alla

alla potenza divina, pretendevano che essa non si occupa di queste umili realtà
materiali (cf. I, q. 22, a. 2); essenza rettifica la posizione di Avicenna che, pur
ammettendo la divina provvidenza su tutte le cose, negava che la creazione sia sta- ta
effettuata senza intermediari (cf. I, q. 45, a. 5).
46
In loannem 1, lect. 5, n. 134.
47
Sai 139, 24; si può ampliare con T.-P, TORRELL, Dieu qui es-tu?, Paris 1974,
pp. 170-175.
stessa Verità prima, e con la carità alla sovrana Bontà. Tale è
dunque il secondo modo, secondo il quale Dio è specialmente
nei santi mediante la grazia».
Con questa scarna formula Tommaso evoca qui la dottrina
dell’inabitazione divina che, pur dando origine a eruditi commenti,
conserva in lui una semplicità tutta giovannea: «Se uno mi ama..., noi
verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il
contesto qui è molto chiaro: non si tratta dei santi canonizzati ma
proprio di tutti i cristiani che vivono secondo le virtù teologali.
Questa precisazione è sufficiente per mettere in risalto
l’incommensurabile differenza tra la presenza di immensità del Dio
creatore in tutte le cose, anche materiali, e la presenza che egli
riserva a coloro che lo amano perché per primo li ha amati: «al di
fuori della grazia, non esiste una perfezione aggiunta alla sostanza
che introduca Dio in un essere a titolo di oggetto conosciuto e amato.
Solo la grazia fonda un modo particolare di essere di Dio nelle
cose» 164.
Circa il terzo tipo di presenza di Dio nel mondo, Tommaso lo
menziona qui molto brevemente: «Eppure c’è un altro modo
1641, q. 8, a. 3 ad 4; per maggiori dettagli su questo passaggio, cf. lo studio
esaustivo di J. PRADES, «Deus specialiter est in sanctis per gratiam». El
misterìo de la inhabitación de la Trinidad en los escritos de santo Tomàs
(«Analecta gregoriana 261»), Roma 1993. 85
singolare di esistenza di Dio nell’uomo: mediante l’unione». Così
com’è, questa semplice parola ha qualcosa di enigmatico, Tommaso
però l’ha spiega
ta nel testo delle Sentenze che ci serve da canovaccio:
«La creatura raggiunge Dio stesso non solo mediante la sua
operazione, ma anche nel suo proprio essere. Quest’ultimo
bisogna intenderlo non dell’atto che costituisce l’essenza
divina - poiché la creatura non può mutarsi nella natura divina
- ma dell’atto che costituisce l’ipostasi o la persona alla cui
unione la creatura è elevata. È l’ultimo modo [di presenza],
quello secondo il quale Dio è in Cristo tramite l’unione
[ipostatica]».
Con una formula più semplice possiamo dire che è la venuta
del Verbo nella carne che realizza questo terzo modo di presenza
nella sua creazione. Noi incontriamo qui la questione, celebre tra i
teologi, sul
motivo dell’incarnazione: Perché Dio si è fatto uomo?... Partendo dal
principio che questo genere di questioni può avere una risposta
soltanto dalla Scrittura, Tommaso vi risponde dicendo che Dio
probabilmen- f te non si sarebbe incarnato se l’uomo non avesse
peccato, ma ammette che esiste a riguardo una diversità di opinioni
possibili:
«Alcuni dicono che anche se l’uomo non avesse peccato, il
Figlio di Dio si sarebbe incarnato; altri affermano il contrario.
Quest’ultima opinione sembra preferibile. Infatti, le cose che
dipendono dalla sola volontà di Dio e sulle quali le creature
non hanno nessun diritto, non possono esserci note se non nella
misura in cui Dio vuole manifestarcele e ce le trasmette
mediante la Sacra Scrittura. Ora, il motivo che la Sacra
Scrittura dà dappertutto dell’incarnazione, è il peccato del
primo uomo. Sembra dunque più probabile (conuenientius) che
questo mistero sia stato voluto da Dio come rimedio al peccato,
sicché senza il peccato non ci sarebbe stata l’incarnazione.
Tuttavia bisogna ammettere che la potenza di Dio non si limita
a questo e che, anche senza il peccato, Dio avrebbe potuto
incarnarsi»165.

165 III, q. 1, a. 3; il passaggio parallelo delle Sentenze III, d. 1, q. 1, a.


3 sembrava più favorevole a quest’ultima opinione: «Altri dicono che, siccome
mediante l’incarnazione del Figlio di Dio non si è prodotta soltanto la liberazione dal
peccato ma anche la glorificazione (exaltatio) della natura umana e il coronamento di
tutto l’universo, rincamazione avrebbe potuto verificarsi per queste ragioni anche
senza il peccato. E questo può essere sostenuto con probabilità»; cf. anche In lam ad
Tim. 1, 15, lect. 4, n. 40; per questa questione, un tempo molto discussa, rinviamo allo
studio86
completo di H. BOUESSÉ, Le Sauveur du Monde, I, La place du Christ
L’ardore della controversia con gli scotisti aveva indotto i
tomisti ad esacerbare un po’ questa risposta del Maestro. Non si
prestava così molta attenzione alla sua moderazione (sembra
preferibile) e al fatto che non faceva altro che sottolineare la sua
maggiore «convenienza» 166, lasciando aperte altre possibilità. Infatti,
quando in un quadro più
ampio si interroga sulla convenienza dell’incarnazione, egli situa in
primo piano piuttosto una ragione di ordine metafisico e, seguendo
Dionigi, spiega:
«La natura di Dio è la bontà... Di conseguenza, tutto ciò che è
esseri*, I ziale al bene conviene a Dio. Ora è proprio
dell’essenza del bene il | comunicarsi... Si addice dunque al Bene
supremo di comunicarsi (dia j sua creatura in modo sommo. E
questa sovrana comunicazione si reai \ lizza quando Dio si
unisce alla natura creata in modo tale da formare, una sola
persona da queste tre realtà: il Verbo, l’anima, la carne, così
come afferma sant’Agostino... La convenienza dell’incarnazione
appaf re dunque con chiarezza»167.
In questo modo, la venuta del Verbo nella carne non è più
causata soltanto dalla felix culpa — che a volte è difficile dissociare da
un certo antropocentrismo -, ma Cristo appare anche come il vertice e
il coronamento di un universo interamente retto dalla comunicazione
dell’Essere e del Bene divini, secondo le tre grandi modalità che
abbiamo ricordato 168. Solo così completiamo la visione della
meravigliosa gradazione che Tommaso introduce circa la presenza di
Dio nel mondo, anche se è evidente che il secondo e il terzo modo di
presenza non sono in continuità naturale con il primo. Se questo deve
esistere affinché la grazia possa essere «innestata» su di esso, c’è tra
di essi l’alterità radicale della natura, ridotta alle sue possibilità, e

,dans le pian de Dieu, Chambéry-Leysse 1951. Cf. anche lo splendido articolo, che non
si può non seguire in tutti i suoi dettagli, di M. CoRBIN, La Parole devenue chair.
Lecture de la première question de la Tertia Pars de la Somme théologique de Thomas
d’Aquin, RSPT 67 (1978) 5-40, ripreso in L’inouì de Dieu. Six études chri- stologiques,
Paris 1980, pp. 109-158 (a p. 112, l’autore impiega un «no» che non si trova nel testo
del commento a Timoteo; dunque bisogna leggere piuttosto: «questa questione non è
di una grande importanza»).
166 Per il significato dell’argomento di convenienza, rinviamo
all’illuminante studio preliminare di G. NARCISSE, Les enjeux épistémologiques de
l’argument de Èprivènance selon saint Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris,
pp. 143-167.
167 III, q. 1, a. 1.
168 Sebbene tratti della questione senza uno speciale rapporto al nostro u-
m.i, si può rinviare qui allo studio più ampio di TH.R. POTVIN, The Theology of thè
l'r; macy of Christ According to St. Thomas Aquinas and its Scriptural Toundations,
«Studia Friburgensia» n.s. 50, Fribourg (Svizzera) 1973. 87
della grazia che proviene dalla pura liberalità divina. Ed è per questo
che non è possibile concepirli in un modo rigorosamente simmetrico
169
. L’ordine discen-
dente dei doni naturali non tollera nessun intermediario tra l’azione di
Dio e la sua creatura quando si tratta di comunicare l’essere; invece ' i
l’ordine ascendente, che è quello del ritorno della creatura verso Dio, non
solo accetta alcune mediazioni ma le esige necessariamente, come nel caso
dell’umanità di Cristo e del dono della grazia dello Spirito Santo. Cristo si
trova infatti all’esatta congiunzione dei due ordini di mediazione,
discendente e ascendente, e perciò - Tommaso lo spiega commentando un
versetto un po’ ermetico del Siracide (1,7) che parla dei «fiumi che
ritornano alla loro fonte» - la circolarità trova in lui la sua realizzazione
più perfetta e la sua più bella espressione:
«E il mistero dell’incarnazione che è significato da questo
ritorno dei fiumi verso la loro fonte... Questi fiumi sono in effetti i
beni naturali di cui Dio ha colmato le creature: l’essere, la vita,
l’intelligenza... e la fonte dalla quale essi provengono è Dio...
Mentre poi si trovano dispersi in tutta la creazione, questi beni si
trovano riuniti nell’uomo perché costui è come l’orizzonte, il limite
in cui si congiungono la natura corporale e quella spirituale;
trovandosi come al centro, egli è « partecipe sia dei beni spirituali
che di quelli temporali... Per questo quando la natura umana fu
unita, a Dio tramite il mistero dell’incarna- R zione, tutti i fiumi dei
beni naturali ritornarono alla loro fonte»54.

Dio CHE AMA IL MONDO

Se ci si lascia guidare da questi testi, la coerenza dello schema


circolare ci conduce irresistibilmente da Cristo verso il Padre.
Tuttavia, prima di riconsiderare più ampiamente il movimento di
ritorno nei capitoli seguenti, occorre ancora soffermarsi un po’ sul
movimento di uscita. Per il modo in cui dovremo ben presto parlare
del comportamento del crisi iano in questo mondo, è fondamentale
focalizzare bene il modo in cui Dio stesso si comporta, se così si può

169 Tommaso spiega ciò precisamente a proposito dell’unione ipostatica dii.


q. 6, a. 1 ad 1): «Si può considerare un duplice rapporto tra la creatura e Dio. J!
primo consiste nel fatto che le creature sono causate da Dio e dipendono da lui come
dal principio del loro essere; e in base a questo, in virtù dell’iniinità della sua potenza,
Dio raggiunge immediatamente tutte le cose causandole e conservandole. In tal modo
Dio è immediatamente in tutte le cose per la sua essenza, la sua presenza e la sua
potenza. Il secondo rapporto consiste nel fatto che le cose si ricon-. ducono a Dio
come al loro fine; in tal modo, si trovano degli intermediari tra la creatura e Dio,
poiché le creature inferiori ritornano a Dio mediante le superiori, come afferma
88 ne La Gerarchia celeste (4, 3); è a questo rapporto e in que-
Dionigi
dire, al cospetto del mondo.

st’ortline che appartiene l’assunzione della natura umana da parte del Verbo di Dio
che è il termine di questa assunzione, e che è in tal modo unito alla carne mediante
l’anima».
54
Seni. Ili, Prole, decisamente nello stesso senso, SCG IV 55, n. 3937: «Dato che
l’uomo è in un certo senso il compimento delle creature, poiché le presuppone tutte
nell’ordine naturale della sua generazione, era del tutto giusto che fosse imito al
primo principio affinché la perfezione dell’universo fosse completata mediante una
specie di cerchio».

89
Si può partire qui da una semplice constatazione. Tommaso è,
come si sa, un frequentatore abituale della Bibbia, specialmente della
letteratura sapienziale170. Ora, tra le numerose citazioni del libro della
Sapienza che ritornano spesso sotto la sua penna, questa è una delle
più frequenti: «Tu ami tutti gli esseri e nulla disprezzi di quanto hai
creato; poiché se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creato.
Come potrebbe sussistere una cosa se tu non l’avessi voluta? Come
conserverebbe l’esistenza se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?»
171
. Tommaso ama dunque citare queste parole e quando si chiede:
Dio ama tutte le cose?, senza esitare risponde:
«Dio ama tutto ciò che esiste. Infatti, tutto ciò che esiste è buono per
| il solo fatto che esiste, poiché l’essere è in se stesso un bene così
come % | ogni perfezione che esso può avere. Dato che la volontà di
Dio è la causa di ogni cosa, ogni cosa allora non ha essere né
perfezione se non nel- \ la misura in cui è voluta da Dio. Dio dunque
vuole bene ad ogni esistente e, poiché amare qualcuno non è
nient’altro che volergli bene, è evidente che Dio ama tutto ciò che è.
fi
Ma questo amore non è come il nostro... L’amore, mediante il quale
f| voghiamo del bene a qualcuno, non è la causa della sua bontà; è
al con- | trario la sua bontà che, vera o supposta, provoca l’amore
con il quale f \ vogliamo conservargli il bene che possiede e perfino
aumentarlo, facen- J dori impegnare in questo. L’amore di Dio
invece è la causa che infon- [ de e crea la bontà negli esseri»172. '
Non è possibile esprimere più semplicemente e più vigorosamente la
differenza tra l’amore di Dio e il nostro. Ciò che l’amore più lolle 1
si rivela impotente a realizzare per l’essere più amato, Dio lo fa per eia- \
scuno di noi. Come un sole farebbe sbocciare il fiore anche senza seme t e
senza acqua, l’amore di Dio fa sorgere l’essere dal niente, lo serba »
nell’esistenza e lo ricolma della sua bontà in ogni istante. Sicché la
creazione non è un atto senza continuazione. Dio non si disinteressa di
questo mondo che ha fatto. Tanto la fede quanto la ragione ci obbliga-

170 Cf. J.-P. TORKELL - D. BOUTHILLIER, Quand saint Thomas méditait sur le
prophète Isaïe, RT 90 (1990) 5-47, cf. p. 9.
171Sap 11, 25-26 Volg., cit. in I, q. 20, a. 2 se.; del versetto 25 si possono
contare un totale di 18 ricorrenze e 4 del versetto 26, ripartite in una decina di opere,
tra cui le due Somme sono nettamente maggioritarie (10 ricorrenze).
1721, q. 20, a. 2: «Sed amor Dei estperfundens et creans bonitatem in rebus».
no ad ammettere che le creature sono conservate nell’essere da Dio:
I«Eessere delle creature dipende a tal punto da Dio che esse non
potrebbero sussistere e sarebbero ridotte al niente se, mediante
l’operazione Ideila potenza divina, non fossero mantenute
nell’essere»58. Ciò si spiega facilmente se ci si ricorda che Dio non è
soltanto causa del divenire di fógni essere ma, nel modo più diretto e
intimo, ¿.éA essere stesso59. La conclusione s’impone da sola, senza
però alcun bisogno di immaginare un nuovo intervento divino: «La
conservazione delle cose operata da ©io non suppone una nuova
azione da parte sua, ma soltanto che con- tinui a donare l’essere» 60.
Senza insistervi molto, dato che la cosa ora dovrebbe essere
evidente, bisogna tuttavia dire che ritroviamo all’opera in questo
contesto del governo divino - o della Provvidenza: i termini sono
quasi sinonimi - le tre Persone così come le abbiamo scoperte nella
prima creazione delle cose. Quando Tommaso trova in san Giovanni
(5, 17) la parola di Cristo: «Il Padre mio è all’opera fino ad oggi e
anch’io opero», commenta senza timore:
«Perciò come il Padre mio, pur avendo istituito in principio
l’universo, opera tuttora, mantenendolo e conservandolo con
un’unica operazione, così anch’io opero/ poiché sono il Verbo
del Padre, per il quale egli opera ogni cosa... Perciò come
intervenne nella prima istituzione delle cose mediante il Verbo,
così opera nella loro conservazione... Anch’io opero, perché
sono il Verbo del Padre per mezzo del quale tutte le cose sono
prodotte e conservate nell’essere» 61. [Tommaso sembra che
non perda nessuna occasione per sottolineare la costanza di
questa azione del Verbo. Così quando spiega le parole di Gesù:
«io lascio il mondo e vado al Padre», crede utile precisare che
si tratta solo di una 173
partenza fisica e non di un abbandono del mondo]. «Lo lascia
non già sottraendogli la provvidenza del suo governo, poiché
egli governa: sempre il mondo insieme col Padre, e rimane

17381, q. 104, a. 1.
59
Tommaso riprende qui il suo paragone preferito (ibid.): «La situazione di
ogni creatura al cospetto di Dio è come quella dell’atmosfera nei confronti del sole
che la illumina... Dio solo è essere per essenza, poiché la sua essenza è la sua esi-
stenza; ogni creatura invece è essere per partecipazione in quanto non appartiene
alla sua essenza resistere».
60
Se si vuole, si potrà parlare qui di creazione continuata, ma a condizione di
ben capire che è soltanto in rapporto a noi che ciò accade nel tempo. Dal punto di
vista di Dio, «questa azione (si compie) al di fuori del movimento e del tempo», I, q.
104, a. 1 ad 4; si possono vedere a tal proposito le note di CH.-V. HERIS, in SAINT
THOMAS D’AQUIN, Le gouvernement divin («JRevue des Jeunes»), Paris 1959, 1.1,
pp. 253ss.
61
In Ioannem 5, 17, lect. 2, n. 740. 91
sempre con i suoi mediante il conferimento della sua grazia»
174
.
La stessa cosa vale per lo Spirito Santo. Quando Tommaso
parla del modo in cui «le persone divine, a causa della loro stessa
processione, hanno una causalità riguardante la creazione delle cose»
e di ciò; che appartiene a ciascuna di esse per appropriazione, precisa
in questo modo il ruolo dello Spirito Santo: «governare come
Signore e vivificare ciò che è creato dal Padre e dal Figlio». Se
questo ruolo gli spetta, «è perché gli si attribuisce la bontà, a cui
appartiene il condurre, governandole, le cose verso i loro propri fini,
e il vivificare: infatti la vita consiste in un certo movimento interiore;
ora, il primo movente degli esseri è il fine e la sua bontà» 175. Questo
insegnamento fa eco esattamente ad un grande testo della Somma
contro i Gentili al quale occorrerà riferirsi quando parleremo dello
Spirito Santo:
«Giacché il governo del mondo è simile ad un certo moto
mediante il quale Dio regge e guida tutte le cose verso i loro
propri fini, e se è vero che l’impulso e la mozione spettano allo
Spirito Santo in quanto è amore, è giusto allora attribuire allo
Spirito Santo il governo dell’universo e la sua propagazione»
176
.
Tale dottrina della creazione e della presenza permanente del
Verbo «che sostiene l’universo con la potenza della sua parola» 177
induce Tommaso ad esaminare en passant una di quelle supposizioni
impossibili che gli storici molto frequentemente ritrovano presso i
mistici: «Se Dio ritirasse la sua potenza un solo istante dalle realtà
create, queste sarebbero tutte ridotte al niente e cesserebbero di
esistere». Egli attribuisce ad Origene (ma si dovrebbe trattare
piuttosto di Giovanni Scoto Eriugena) un paragone suggestivo: se si
smette di parlare, non si ha più voce; come pure: se Dio smettesse di
pronunciare il suo Verbo,
l’effetto del Verbo terminerebbe immediatamente e non si avrebbe
più l’universo creato é6.
Tommaso non si lascia intimidire da questa supposizione, ma la
considera più un dettaglio. Bisogna ammettere che Dio potrebbe
ridurre al nulla gli esseri che ha fatto, poiché egli non ha creato per

174 In loannem 16, lect. 28, n. 2163.


175 I, q. 45, a. 6 ad 2.
176 SCGIV 20, n. 3572.
177 Eb 1, 3; cf. il bel commento a questo passaggio: In Hebraeos 1, lect. 2,
nn.
92
30-37.
una necessità di natura. Dato che tutto dipende dalla sua libera
volontà, è necessario ammettere che niente lo obbliga a sostenere ciò
che ha creato. così come niente lo obbligava a creare. Egli non
avrebbe bisogno nemmeno di una nuova azione: sarebbe sufficiente
che cessasse di agire67. Ma qui il carattere impossibile della
supposizione riprende i suoi diritti e infatti subito Tommaso
corregge il tiro: «Assolutamente niente è ridotto al niente», visto che
un simile annientamento non servirebbe affatto alla manifestazione
della potenza di Dio, anzi vi si opporrebbe perché è nella
conservazione degli esseri che la potenza e la bontà di Dio si
esprimono al massimo68.
A volte si è avanzato il sospetto che Tommaso insegnasse una
concezione dell’immutabilità divina secondo la quale Dio sarebbe
indifferente alla sua creazione. In effetti però dice che «(se) le
creature hanno una relazione reale con Dio... non si dà relazione
reale di Dio nei confronti della sua creatura» 69. Qui è necessario
prevenire l’equivoco che potrebbe derivare da una cattiva lettura di
questa frase, se cioè la si comprendesse in un senso puramente
psicologico, mentre di fatto enuncia un’asserzione metafisica
incontestabile. Essa significa semplicemente che «Dio è al di fuori
dell’intero ordine del creato (cum... Deus sit extra totum ordinem
creaturae... )»; egli conferisce la consistenza, mentre il contrario non
è vero e la relazione è necessariamente dissimmetrica.
L’immaginazione non ha niente a che vedere qui, e se si volesse
implicare realmente Dio nella sua creazione (fargli condividere le
nostre sofferenze, per esempio, come oggi tentano di fare molti teo-

't|66In loannem 1, lect. 5, n. 135; Commentaire sur S. Jean, trad. frane, di ML- D.
Philippe, pp. 168-169; Depot. q. 4, a. 2 ad 8 et 14.
% 67 Ci. I, q. 104, a. 3.
V 68 Cf. I, q. 104, a. 4 ad 1.
i 691, q. 13, a. 7; cf. su questo tema H. SFIDI,, De l’immutabilité de Dieu dans l’acte de
la création et dans la relation avec les hommes, RT 87 (1987) 615-629; più accessibile
forse, ma meno illuminante, M. GEBVAIS, Incarnation et immuabilité divine,
RevSR50 (1976) 215-243, mostra in modo convincente l’inanità delle criti- che
rivolte a san Tommaso da alcuni teologi contemporanei.
logi), ci si fabbricherebbe un idolo supplementare, niente di più178.
178 Si vedrà qui J.-H. NICOLAS, Aimante et bienheureuse
Trinité, RT 78 (1978) 271-292, che offre una buona messa a punto del libro di J.
MOLTMANN, Le Dieu crucifié. La croix du Christ, fondement et critique de la
théologie chrétienne, Paris 1974, e che cita numerosi autori. Si notera che J.
MARITAIN, Réflexions sur le savoir théologique, RT 69 (1969) 5-27, che ha
tentato di parlare della compassione di Dio, evita questo difetto psicologizzante: «...il
concetto e la parola di dolore non possono essere impiegati nei confronti di Dio 93se
Questo dio non sarebbe Dio.
Lungi dall’essere estraneo alla sua creazione, il Dio di
Tommaso è personalmente presente ad ogni essere più intimamente
di quanto lo sia questo essere a se stesso. Più di una volta il lettore
esperto non può fare a meno di pensare a sant’Agostino al quale
Tommaso deve tanto: «E tu eri più dentro in me della mia parte più
interna e più alto della mia parte più alta» 179. Tommaso non ha certo
il genio letterario di Agostino, eppure non dice altro, e la lettura delle
sue pagine sulla presenza attiva di Dio nella sua creazione è proprio
fatta per provocare l’adorazione ammirativa che deriva dal provato
sentimento di questa presenza.
Questo sentimento non può che ampliarsi quando ci si rende
conto a che punto il Dio di Tommaso non abbia niente in comune
con il principio impersonale del deismo che non si occupa del
mondo. Si tratta proprio del Dio-Trinità della Bibbia attivamente
implicato nella sua creazione. Non solo egli ne è l’origine assoluta e
il costante sostegno, ma l’ama con l’amore con cui ama se stesso:
«Il Padre non ama soltanto il Figlio mediante lo Spirito Santo,
ma anche se stesso e noi; poiché... amare, in senso nozionale,
non evoca solamente la produzione di una Persona divina,
evoca anche la Persona prodotta per modo di amore, e l’amore
dice rapporto alla cosa amata. Per questo come il Padre
esprime se stesso e ogni creatura tramite il Verbo che genera,
dato che il Verbo generato da solo è sufficiente a rappresentare
il Padre e ogni creatura; così pure, il Padre ama se stesso e
ogni creatura mediante lo Spirito Santo, visto che lo Spirito
Santo procede come amore da questa bontà originaria a causa
della quale il Padre ama se stesso così come ogni creatura. In
questo modo si evoca anche come in secondo piano, nel Verbo
e nell’Amore procedente, un rapporto alla creatura, poiché la
verità e la bontà divine sono principio della conoscenza e
dell’amore che Dio ha per le creature»180.
Non ci si sorprenderà di ritrovare un insegnamento simile a

non metaforicamente... dobbiamo tuttavia cercare in una perfezione divina


innominata l’esemplare eterno di ciò che è in noi il dolore con la sua nobiltà» (p.
314).
179 Confessioni III 6, 1: «Tu autem eras interior intimo meo et
superior sum- mo meo»; si prenderà volentieri in considerazione il commento della
Bibliothèque augustinienne (t. 13, p. 383; NBA 1, pp. 67-69) che vede in questa
breve «definizione» di Dio l’espressione perfetta della sua immanenza e della sua
trascendenza: ; «così Dio è contemporaneamente intimo al cuore dell’uomo, fosse
anche peccato^ re, e totalmente altro dall’uomo nella sua santità».
1801, q. 37, a. 2 ad 3; più o meno sviluppate, indicazioni simili non mancano,
per esempio: De uer. q. 22, a. 1 ad 11: «Ex hoc enim quod Deus se ipso fruitur alia
in se94
dirigit»; cf. De poi. q. 3, a. 15 ad 14; Seni. I, d. 32, q. 1, a. 3.
proposito della persona del Figlio. San Tommaso lo propone in un
suo commento dell’espressione di san Paolo agli Efesini (1, 6): «La
grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto»:
«È importante considerare come alcuni sono amati in se stessi
e altri a causa di un altro. In effetti, quando io amo veraménte
qualcuno, lo amo con tutto ciò che lo concerne. Così quando
siamo amati da Dio ciò non è dovuto [direttamente] a causa di
noi stessi; siamo amati a causa di colui che è il Prediletto del
Padre. Per questo l’Apostolo aggiunge nel suo Figlio diletto, a
causa del quale ci ama nella misura in cui gli assomigliamo.
L’amore infatti è fondato sulla somiglianza... Ora il Figlio è
per natura simile al Padre, e perciò è amato in se stesso e in
primo luogo; egli è per natura e nel modo più eccellente il
Prediletto del Padre. Quanto a noi, siamo figli per adozione
nella misura in cui siamo conformi al Figlio [per natura]; è
per questo che abbiamo una certa partecipazione all’amore di
Dio» 181.
La lettura di alcuni testi raccolti in questo capitolo dovrebbe
essere sufficiente a mostrare la coerenza della visione del mondo e di
Dio che se ne ricava. Tommaso non può parlare di creazione senza
mostrare le tre Persone all’opera, così come non può parlare della
presenza di Dio nella sua creazione senza indicare il suo
coronamento in Cristo. Né inoltre può parlare della creazione
nell’essere senza parlare della salvezza, cioè della ricreazione
nell’amore. Questa costanza e questa insistenza non sono arbitrarie e
questi legami sono dappertutto presupposti, anche quando non sono
esplicitamente evocati. Questi, dato che entrano a titolo strutturale
nella costruzione stessa della Somma, non possiamo dimenticarli.

IV
Immagine e beatitudine

L’accostamento di questi due termini si impone al lettore fin


dalle primissime pagine della Somma. Tommaso, quando si interroga
sulla possibilità per una creatura di essere simile a Dio, risponde con
due testi tratti dalla Sacra Scrittura. Ci si aspetterebbe di sicuro il
181 In ad Ephesios 1, 6, lect. 2, n. 16. 95
primo: «Faccia- ;■ mo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gn
1,26), ma il secondo è inatteso: «Quando egli si sarà manifestato, noi
saremo simili a lui, perché
10 vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2) b Questo breve scorcio
evocatore pone accanto l’una all’altra la creazione e la parusia, o
meglio ricorda in termini biblici la destinazione finale dell’immagine
e suggerisce chiaramente l’intero cammino che essa deve percorrere
per raggiungere
11 suo compimento. L’accostamento non è evidentemente fortuito:
tutte le volte che parlerà della beatitudine, Tommaso citerà di nuovo
lo stesso versetto di san Giovanni: «Lo vedremo così come egli è»,
completando un po’ più avanti con un altro testo dello stesso
evangelista: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero
Dio»182 183.

IL PRINCIPIO E IL FINE

Familiare a Tommaso, questo procedimento pone


incessantemente il suo discepolo dinanzi al fine che si propone, o
meglio dinanzi al
fine che Dio gli propone. Si cita abitualmente - vi ritorneremo ben
presto - il Prologo della Seconda Parte, ma in realtà già la prima que-
stione della Somma recita così:
«L’uomo è ordinato a Dio come ad un certo fine che supera la
capacità della ragione, secondo il detto di Isaia (64, 4):
“Occhio non vide, eccetto te, o Dio, quello che tu hai preparato
a coloro che ti amano”. Ora è necessario che gli uomini
conoscano in precedenza questo loro fine, perché vi indirizzino
le loro intenzioni e le loro azioni. Cosicché per la salvezza
dell’uomo fu necessario che mediante la divina rivelazione gli
fossero fatte conoscere delle cose superiori alla ragione
umana» ^.
Si pensa inevitabilmente al detto popolare: Qui veut la fin, veut
les moyens [Chi vuole il fine, vuole i mezzi], Tommaso però gli dà
subito la sua forma più elaborata e situa la creatura di fronte al fine
1821, q. 4, a. 3 se.; la nostra attenzione è stata attirata su questo accostamento
dal buono studio di C.E. O’NEILL, L’homme ouvert à Dieu (Capax Dei), in
N.A. LÜYTEN (ed.), L’anthropologie de saint Thomas, Fribourg 1974, pp. 54-
74, cf. pp. 61-62; ripreso in P. BÜHLER (ed.), Humain à l’image de Dieu,
Genève 1989, pp 241-260. Il Prologo generale alle Sentenze moltiplica anch’esso
questi accostamen ' tra la protologia e l’escatologia; G. Emery, al quale devo questa
indicazione, vede giustamente un’intuizione propria di Tommaso.
96 183I, q. 12, a. 1 se. e, a. 4 se.
veramente ultimo, in rapporto al quale si ordinerà tutto il resto. Tutto
il resto non è ridotto così allo stato di puro mezzo - ciò
significherebbe tenere in poco conto autentici valori che a loro modo
sono dei veri fini -, ma dò significa certamente che questi stessi valori
non hanno tutto il loro significato |e non in rapporto a questo fine
ultimo. Raggiunto all’ultimo, il fine deve fgsSère conosciuto per
primo ed è in sua funzione che tutto il resto deve organizzarsi. Se
dunque vogliamo avere qualche probabilità di comprenderlo, occorre
tentare di cogliere l’iniziativa divina là dove appare con maggiore
chiarezza - giustamente all’inizio e alla fine della storia della salvezza.
E esattamente quanto fa Tommaso, il quale inizia la descrizione del
suo movimento di ritorno col ricordare congiuntamente la dottrina
dell’immagine di Dio e il fine che gli è proposto.
«L’uomo, essendo stato creato a immagine di Dio - e con
questo bisogna intendere, come insegna Giovanni Damasceno, che è
dotato di intelligenza, di libero arbitrio e di un potere d’azione
autonomo - dopo aver parlato dell’Esemplare, che è Dio..., ci rimane
da trattare della sua immagine, cioè dell’uomo, in quanto è, anche
egli, il princi- w pio dei suoi propri atti inforza del libero arbitrio e
del controllo che ha kjf su di essi».
Questo testo che fa da Prologo alla Seconda Parte viene subito
completato da alcune righe che non lasciano alcun dubbio sull’inten-
184

184I, q. 1, a. 1. 97
zione dell’autore. L’uomo di cui ci parla non è considerato in modo «
statico, alla stregua di una natura morta, se così ci si può esprimere, ma
come un essere in divenire:

[Nel movimento della creatura verso Dio,] «la prima cosa da


conside- rare è il fine ultimo della vita umana; la seconda saranno i
mezzi che , permettono all'uomo di raggiungerlo o di
allontanarsene: infatti è a , partire dal fine che ci si deve fare
un’idea di ciò che ad esso è ordinato. ■ E, poiché si ammette che il
fine ultimo della vita umana è la beatitudine, bisogna prima di tutto
trattare del fine ultimo in generale, quin- j di della beatitudine»4.

Più noto del precedente, questo secondo testo offre una chiave di J
lettura alla quale bisognerà ricorrere spesso. Ma la lettura simultanea di
queste due dichiarazioni di intenzione permette già un’importante \
osservazione. Passando da una parte all’altra della Somma, il teologo 1 non
abbandona Dio a favore dell’uomo. Il soggetto della sacra doctrina j resta
sempre Dio, ma non lo si considera più direttamente in se stesso, I né
come il principio assoluto dell’uomo e dell’universo, ma come il suo j
completamento, come il fine anch’esso assoluto, ultimo, che attira a sé
tutte le cose mediante l’irradiamento della sua suprema bontà e suscita &
come risposta e in modo speciale l’agire libero della creatura razionale. *
Tutta la vita spirituale trova qui la sua origine ed è nel campo di altra- f
zione così creato che essa deve svilupparsi.
Nelle prime righe tuttavia, non è ancora questa idea di finalità ad
essere proposta, ma quella dell’esemplarità. Se l’essere umano ha Dio per
fine, è perché esso è stato fatto da lui «a sua immagine e somiglianza» (Gn
1, 26), onde deriva un’irresistibile attrazione iscritta nella sua stessa natura
ad essergli simile, così come l’immagine assomiglia al a modello a partire
dal quale viene formata. La persona umana raggiun- j gerà il suo
compimento sforzandosi di imitarlo sempre più. Per questo, | Tommaso,
quando parla della creazione dell’uomo e della sua mirimi * nella Prima
Parte (q. 93), accorda molto spazio al tema dell’immagine . di Dio ed è
ancora questo che spontaneamente ritorna quando tratta ! dell’agire
dell’uomo. È in questo modo che il tema dell’immagine di I Dio connette
in modo organico la Prima e la Secunda Pars5. |

j
4
1-II, q. 1, Prol.
5
Questo ci sembra sottolineato a giusto titolo da G. LAFONT, Structures-
méthodes dans la Somme théologique de saint Thomas d’Aquin, Paris 1961, pp. 265 98
99
Questi due dati congiunti permettono dunque a Tommaso di passare
da Dio all’uomo (dalla teologia dogmatica alla teologia morale, come si
diceva) e di unire in una stessa teologia la primaria preoccupazione
contemplativa alla preoccupazione di condurre la vita cristiana secondo
la verità evangelica. Situando l’intera sua considerazione del- l’agire
umano sotto il duplice segno congiunto dell’immagine da restaurare e del
fine da raggiungere (l’immagine essendo restaurata quando il fine è
raggiunto), Tommaso propone al suo discepolo un programma di vita
posto sotto il segno del compimento di sé, poiché la creatura si scopre
essa stessa in ricerca del suo fine. Morale della beatitudine, dunque, ma
di una beatitudine che non si ottiene se non me- mante l’imitazione
dell’Esemplare a partire dal quale siamo fatti. Questo ci rimanda sia a san
Paolo: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi» (E/ 5, 1),
che al Discorso della Montagna: «Siate voi dunque perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste» (Mi 5, 48).
Non è un caso se da professore di Sacra Scrittura qual era,
Tommaso accorda al tema dell’immagine di Dio un’importanza così
considerevole. Insieme a lui anche noi siamo invitati ad attingere così
alla fonte sempre zampillante della Parola di Dio. Un teologo che si
preoccupi di spiritualità non può dimenticare questo continuo riferimento
alla Bibbia. Per fortuna è passato il tempo in cui i discorsi sugli incipienti
e i proficienti, o sulle età della vita interiore, credevano di potersi
sviluppare fondandosi unicamente su considerazioni di psicologia
religiosa. Ma non è inutile sottolineare che si tratta anche di uno dei temi
maggiori della patristica e il patrocinio di san Giovanni Damasceno ce lo
conferma 6. Esso gioca infatti il ruolo di crocevia per l’intera patristica
orientale, sicché tramite esso Tommaso si trova collegato a tutta questa
tradizione, ad ascoltare la quale egli è stato attento forse 298* sebbene egli
abbia forse anche esagerato la presenza materiale del tema deD-immagine nel seguito
della Secunda e della Tertia Pars, secondo vari autori: H.-D. Gardeil, A. Solignac e D.-
J. Merriell (vedere le note seguenti). La portata strutturante del tema per la costruzione
della Summa è al contrario sostenuta da S. PINÌKAERS, Le thème de l’image de
Dieu en l’homme et l’anthropologie, in P. BUH- LER:(ed.), Humain à l’ìmage de
Dieu, pp. 147-163.
6
Raramente si rileva che questo testo del Damasceno è già citato nel contesto
dello studio dell’immagine di Dio (I, q. 93, a. 5 arg. 2); vedere anche D. MON- Gll.LO,
La concezione dell’uomo nel Prologo della l-II, in De homine: Studia hodier-
nae anthropologiae. Acta VII Congressus thomistici intemationalis, t. 2, Roma
1972, pp. 227-231.
più di ogni altro teologo della sua generazione (la Catena aurea ne è
eloquente testimonianza). In questa linea patristica non è certamente abusivo
parlare di una morale della divinizzazione. Troppo poco conosciuto, questo
aspetto è tuttavia ben reale.
100
L’IMMAGINE DELLA TRINITÀ

Il lettore della Somma non può non osservare il fatto che l’autore ha
diviso in due sezioni distinte quanto aveva da dire sull’uomo: mentre le
Questioni 75-89 trattano della natura dell’uomo, le Questioni 90- 102
parlano della sua creazione {de produzione prima hominis). Se è un filosofo
un po’ frettoloso, tale lettore limiterà il suo studio alla prima parte e lascerà
la seconda al teologo. Questo sarebbe un errore fatale che gli impedirebbe di
capire lo scopo del suo autore, in quanto costui afferma che è proprio nella
sua qualità di teologo che intende considerare la natura dell’uomo 185 186.
Lasciando lo studio del corpo al medico, egli parlerà soprattutto dell’anima e
della relazione che essa ha con il suo corpo. Nello stesso tempo annuncia
con fermezza che il suo studio sull’uomo non sarà completo prima di aver
parlato dell’immagine di Dio, giacché questo è il fine che Dio si propone
creando l’uomo '. Come egregiamente si è espresso un filosofo, Tommaso
ha compreso il tema dell’immagine «come causa finale della produzione
dell’uomo. L’essere umano è stato creato o prodotto per essere a immagine
di Dio, Se le parole fine o termine hanno un senso, bisogna affermare che
l’essere umano è, è stato creato, e dunque voluto e concepito dal suo
Creatore, non per essere una sostanza pensante o un animale razionale, ma
per essere a sua immagine» 187. Detto altrimenti, nella sua esegesi di
Gn 1, 26 il Maestro d’Aquino vede all’opera e in modo simultaneo
l’efficienza e la finalità: Dio, mentre crea l’uomo, è mosso
dall’intenzione di comunicargli la sua somiglianza.
San Tommaso ha più volte parlato dell’immagine di Dio nei luoghi
più decisivi dei suoi scritti teologici 10, ma sembra proprio che, pur
conservando ima base comune delle sue prime ricerche, egli abbia
costantemente progredito nel suo approfondimento, grazie alla
rinnovata attenzione con la quale ha riletto l’opera di sant’Agostino xl.
Anche se non sarà trattato ex professo che verso la fine della Prima
Parte, il tema lo si trova fin dalle pagine iniziali della Somma12, ed è

185 Cf. I, q. 75, Prol.: «È proprio del teologo (theologus) considerare la


natura umana dal punto di vista dell’anima e non del corpo [ciò appartiene al “fisico”], a, 1
meno che non si tratti del rapporto tra ranima e il corpo».
186 Si sa che è il titolo stesso della questione sull’immagine di Dio (I, q. 93): De
fine siue termino productionis hominis prout dicitur factus ad imaginem et simili- ' tudinem
Dei.
187 L.B. GEIGER, L’homme image de Dieu. À propos de Stimma
theologiae, f. a. 93, a. 4, KFNS 66 (1974) 511-532, cf. pp. 515-516; l’autore prosegue con
un’osse:- vazione di cui si scoprirà l’importanza nel seguito di questo capitolo: «Il fine per il £
quale un essere è creato, deve perciò apparire nella definizione, se la definizione di 5 questo
essere è perfetta. Il fine fa capire la natura di un essere... Ora, il fine della"
101
... creazione dell’essere umano consiste nell’essere abilitato a conoscere e amare Dio così
come egli stesso si conosce e si ama. L’uomo è stato creato da Dio affinché,
.... secondo la natura prodotta da Dio, fosse capace di conoscere e amare Dio allo
stesso modo in cui questi ama e conosce se stesso, capacità che si attuerà imperfet-
tamente mediante il dono della grazia e perfettamente tramite il dono della gloria. Del resto è
per tale ragione che, come sarà mostrato nella seconda parte della Sum- ma, la beatitudine
dell’uomo non può che consistere in questo fine. Il fine della creazione dell’uomo fa capire ciò
che egli è, indicando ciò per cui viene creato. %= Esso perciò deve apparire nella definizione,
se questa deve essere perfetta» (pp. 518-559).
10
Oltre ai luoghi isolati a volte importanti, i posti principali si trovano in Sent.
I, d. 3, qq. 2-5; II, d. 16; De uer. q. 10, soprattutto aa. 1, 3, 7; SCG II 26, nn. 3631-3633;
Depot. q. 9, a. 9. Tra i numerosi studi sul soggetto, occorre citare M.-J. S. DÉ
LAUGIER DE BEAURECUELL, E’homme image de Dieu selon saint Thomas
i, : i’Aquin, «Études et Recherches» 8 (1952) 45-82; 9 (1955) 37-96, secondo cui Tommaso
avrebbe progressivamente abbandonato Agostino a favore di Aristotele f- e dello Pseudo-
Dionigi, ma al quale bisogna preferire tuttavia l’interpretazione di D.J. MERRIELL, TO thè
Image of thè Trinity. A Study in thè Development of Aquinas’ Teaching («Studies and
Texts 96»), Toronto 1990, che mostra al contrario come il progresso di Tommaso è legato a
una rilettura approfondita del De Trinita- te di Agostino (rinviamo anche alla sua
bibliografia aggiornata); si può vedere anche H.-D. GARDEIL, Appendice II, «L’image de
Dieu», in SAINT THOMAS D’AQUIN, Les origines de l’homme («Revue des Jeunes»),
Paris 1963, pp. 380-421 :v (nella linea di Beaurecueil); A. SOLIGNAC, art. Image et
ressemblance, DS 7 (1971) 1446-1451 (art. più sintetico e bibliografia; l’autore però si
sbaglia quando crede di scoprire in san Tommaso la relativa eliminazione del tema
dell’immagine dovuta a = un recedere dal fondamento trinitario della creazione, cf. il nostro
cap. II). J. PELIKAN, Imago Dei. An Explication of Summa theologiae, Pari 1,
Question 93, in A. PARJEL (ed.), Calgary Aquinas Study, Toronto 1978, pp. 29-48,
sottolinea ,» anch’egli la preponderante influenza agostiniana.
11
Questo emerge con molta chiarezza dallo studio minuzioso e diligente di D J.
MERRIELL, TO thè Image of thè Trinity.
12
Cf. I, q. 3, a. 1 ad 2: «Si dice che l’uomo è ad immagine di Dio, non in quanto
è un corpo, ma in quanto sorpassa tutti gli altri animali... cioè a causa della in
riferimento ad esso che Tommaso coglie già il13 tipo di somiglianza
che la creatura può avere con il suo creatore . Questi riferimenti
precoci sono il segno, non trascurabile, che il tema è presente alla
mente del teologo anche quando non ne parla. Tuttavia, e ciò non
ha più niente di cui sorprenderci, è a proposito della Trinità e della
creazione che egli stabilirà i punti fondamentali 14. Quando spiega
perché la Sacra Scrittura riserva il termine «immagine» per
parlare del Figlio e gli si obietta che questo termine è anche
utilizzato per l’uomo, egli risponde con una prima distinzione:
«L’immagine di qualcuno può trovarsi in un altro in due modi: sia
in un essere della stessa natura specifica, come l’immagine del re
si trovai nel suo figlio; sia in un essere di natura diversa, come
Vimmagine del re si trova sulle monete. Ora, è nel primo modo
che il Figlio è l’Immagine del Ladre e soltanto nel secondo che
l’uomo è immagine di Dio. Perciò per significare questa
imperfezione dell’immagine, nel caso dell’uomo, non si dice
semplicemente che egli è l’immagine di Dio, ma che è “ad
immagine”, e con ciò si vuole significare lo sforzo di una tendenza
alla perfezione. Del Figlio di Dio invece non si può dire che sia
102
"ad immagine“ perché è la perfetta Immagine del Padre»15.

ragione e dell’intelligenza. Dunque è per l’intelletto e la ragione che sono incorporee che
l’uomo è ad immagine di Dio».
13
I, q. 4, a. 3; molto riservato qui, Tommaso sembra soprattutto preoccupato di
scartare l’ingenuo errore secondo cui, per il fatto che la creatura assomiglia ai suo
Creatore, si dovrebbe concludere al contrario: «in un certo senso, la creatura è simile a
Dio, ma Dio non assomiglia alla creatura» (ad 4). Dal momento che Dio è al di fuori di
ogni genere, la sua efficienza si esercita senza che vi sia comunicazione di genere o di
specie; le creature non sono simili a lui se non seguendo una certa analogia, dato che
esse sono degli esseri riducibili al principio universale di ogni essere: illa quae sunt a
Deo assimilantur ei in quantum sunt enfia ut primo et uniuefp sali principio
totius esse.
14
E molto apprezzabile il fatto che dire «immagine di Dio» per Tommaso
significa dire allo stesso tempo «immagine della Trinità»; se non ignora la somiglianza
rispetto alla natura divina (cf. per es. I, q. 93, a. 5), non è questa che generalmente egli
mette in primo piano.
15
1, q. 35, a. 2 ad 3; nella sua semplicità, questa spiegazione sottolinea senza
commenti l’abisso ontologico che separa il creato dall’increato; è di questo che si vuol
rendere conto parlando di una somiglianza analogica e non di una identità. Tommaso
ritornerà su questa costruzione «ad immagine» per escludere la possibp lità che l’uomo
sia detto «ad immagine dell’Immagine», cioè del Figlio soltanto; egli ci tiene molto al
fatto che sia veramente ad immagine della Trinità; per questo bisogna vedere nellW
imaginem l’idea della causalità esemplare: immagine essendo intesa per «modello» (I,
q. 93, a. 5 ad 4).
Supponendo che occorra cercare delle ragioni che spieghino
perché Tommaso attribuisce una tale importanza alla nozione
dell’immagine - essendo sufficiente di per sé il fatto che sia un dato
rivelato -, la SK: sfumatura qui introdotta è particolarmente illuminante.
L’idea di una realtà che non è data allo stato perfetto, ma considerata
come chiamata a progredire, corrisponde molto profondamente alla sua
concezione della natura, la quale comporta certamente un dato di base
stabile, ma genninalmente ricco di un compimento futuro. L’uomo non è
pienamente se stesso se non nello stadio di cultura; così anche
l’immagine di Dio che è in lui non sarà pienamente se stessa se non nello
stadio per- ISfetto della sua attività di natura spirituale.
Naturalmente, ritroviamo l’immagine nello sviluppo della Somma
quando Tommaso si interroga sulla somiglianza della creazione al suo
Creatore, sulla traccia che l’Artista divino ha lasciato nella sua opera; è |f
in questa occasione che ha precisato la sua dottrina sulle vestigia della
Trinità 188. Ciononostante, è ora che si fa un passo decisivo. Se è vero “'
che l’uomo partecipa, nella sua condizione corporea, insieme all’intera
creazione, a questa somiglianza per modo di vestigio, in più gli tocca il
fatto di essere un’immagine propriamente detta della Trinità, essendo

188 Cf. I, q. 45, a. 7, e sopra, cap. 2.


103
dotato di intelligenza e di volontà. Perciò è possibile trovare in lui un
verbo concepito e un amore che procede. Si ha in questo caso molto più
che una semplice somiglianza esteriore; è al livello della mens, ciò che vi
è di più spirituale nell’uomo, che rimmagine si situa:
«Siccome la Trinità increata si distingue secondo la processione
del Verbo a partire da colui che lo proferisce e la processione
dell’Amore a partire da ambedue... si può affermare che nella
creatura razionale, in cui si trova la processione del Verbo
secondo l’intelligenza e la processione dell’amore secondo la
volontà, esiste un’immagine della Trinità increata che arriva fino
ai tratti specifici»189.

1891, q. 93, a. 6; altri luoghi sono anche molto espliciti, così I, q. 45, a. 7: «Le
processioni delle Persone divine si presentano quali atti dell’intelligenza e della
volontà..infatti il Figlio procede come Verbo dell’intelligenza e lo Spirito Santo come
amore della volontà. Perciò, nelle creature razionali, in cui si trovano intelligenza e
volontà, in quanto si riscontra un verbo concepito e un amore che procedi, si trova
anche una rappresentazione della Trinità a modo di immagine».
104
Poiché il corpo non ha altra somiglianza se non quella del vestigio,
è al livello dell’anima spirituale quindi che si trova l’immagine lgv Infatti
essa è come Dio stesso capace di conoscenza e d’amore. Si ritrova qui un
dato di base presente in ogni essere umano in virtù della sua creazione e
che fonda l’analogia di proporzionalità propria che Tommaso sviluppa
nel testo appena citato. Tuttavia non si tratta che di un punto di partenza;
Tommaso infatti non smette di tentare di superare il carattere statico di
questo dato bruto e mettere in risalto il carattere progressivo e dinamico
dell’immagine. Questa è anche una realtà in divenire, presente nella
natura umana come un appello. Perciò, per suggerire tale carattere
evolutivo dell’immagine, oltre all’analogia di proporzionalità che si
fonda su un dato ontologico indistruttibile, Tommaso impiega una
gradazione di conformità ascendente che apre il cammino a una crescita
indefinita:
«L’immagine di Dio nell’uomo si può considerare sotto tre aspetti.
Primo, in quanto l’uomo ha un’attitudine naturale a conoscere e ad
amare Dio, attitudine che risiede nella natura stessa dell’anima
spirituale che è comune a tutti gli uomini. Secondo, in quanto
l’uomo■< conosce e ama Dio in maniera attuale o abituale;
sebbene in modo 190

190 Perciò Tommaso osserva, I, q. 93, a. 4 ad 1: «se si considera la natura


intellettuale in cui l’immagine risiede principalmente, la qualità di immagine di Dio si
riscontra tanto nella donna quanto nell’uomo»; questa risposta rifiuta un’obiezione
molto negativa secondo cui la donna non avrebbe potuto essere immagine di Dio, ma
Tommaso non sfugge al suo tempo e, per dar ragione all’insegnamento paolino, aggiunge
subito: «da un punto di vista secondario, fimmagine di Dio si, trova nell’uomo in un
modo che non si verifica nella donna, poiché l’uomo è priijg cipio e fine di tutta la
creazione», con citazione di 1 Cor 11, 7-9. Oggi si sa che l’inciso di Gn 1, 27b: «maschio e
femmina li creò», non ha niente a che vedere cogl «l’immagine di Dio» propriamente
detta e non evoca altro che la produzione sessuata degli esseri umani; non sarebbe
possibile perciò fondare su di esso un’antro : pologia egualitaria come nemmeno il suo
contrario; cf. lo studio di PlUU.lS A. BIRD, in K.E. B0RRESEN (ed.), Image of God and
Gender Models in Judaeo-Chri- stian Tradition, Oslo 1991. Si sa che, per evitare
l’interpretazione misogina dell’immagine di Dio alla quale hanno ceduto numerosi
rappresentanti della tradizione cristiana, alcuni autori (tra cui R.R. Ruether, in questo
stesso volume) propongono di rinunciare decisamente ad un’antropologia dell’immagine
di Dio; non è tanto necessario sottolineare il mancato profitto che ne risulterebbe. Senza
adden-' trarci ulteriormente in questa questione, ricordiamo l’opera equilibrata di C.
CAPELLE, Thomas d’Aquin féministe? («Bibliothèque thomiste 43»), Paris 1982;|fl lo
studio di C.-J. PINTO DE OLIVEIRA, Homme et {emme dans l'anthropologie de
Thomas d’Aquin, in P. BÜHLER (ed.), tìumain à l’image de Dieu, pp. 165-190
imperfetto: si tratta allora dell'immagine per conformità di grazia.
Terzo, in quanto l’uomo conosce e ama Dio in maniera attuale e
perfetta: si ha così l’immagine secondo la somiglianza di gloria.
Perciò, commentando il versetto del Salmo 4: La luce del tuo volto
è stata impressa su di noi, Signore, la Glossa distingue tre tipi di
immagine: e cioè di creazione, di nuova creazione e di
somiglianza. La prima di queste immagini si trova in tutti gli
uotnini, la seconda solo nei giusti e la terza soltanto nei beati»19.

Come si è giustamente osservato, «questi tre aspetti dell’immagine


sono intimamente legati l’uno all’altro come i tre momenti di uno stesso
itinerario spirituale»20. Se sembra che Tommaso non sia giunto di primo
acchito a questa formulazione definitiva, egli ha almeno costantemente
proposto dei gradi nel suo modo di comprendere l’immagine, l’uno
suppónendo l’altro e completandolo in un grado superiore 21. E ciò
mostra che è proprio in questo dinamismo dell’immagine che risiede il
suo inte-

19
1, q. 93, a. 4; si noterà l’insistenza sui verbi «conoscere» e «amare» Dio in aito;
è soltanto in questo caso che si verifica rimmagine nel suo più alto livello; eredità
agostiniana per eccellenza di cui Tommaso è molto cosciente (cf. De uer. q. 10, a. 3); lo
si è ben dimostrato, Agostino non usa forme sostantive memoria, intel- legentia,
dilectio, se non quando si tratta di un grado inferiore dell’immagine {memoria sui
[hominis])-, quando si tratta dell’attività che ha Dio per oggetto, egli nsà sempre delle
forme verbali: meminit, intellegit, diligit, cf. l’illuminante nota di w'.l 1.
PRINCIPE, The Dynamism of Augustine’s Terms for Describing thè Highest
Tiinitarian Image in thè Human Person (Studia Patristica 18, 3), E.A.
LlVlNGSTONE (ed.), Oxford - New York 1982, 1291-1299.
20
A. SoLlGNAC, Image et ressemblance, col. 1448, che cita alcuni testi illumi-
n.inti e sottolinea bene come «i tre momenti dell’immagine corrispondono anche ai tre
lumi dello spirito»: lumen naturale, gratiae, gloriae.
21
G. LAFONT, Structures et méthodes, pp. 271, ne trova un primo esempio in De
poi. 9, 9 che parte dal vestigio del Creatore riconoscibile dal ternario «sostanza- forriia-
ordine», per elevarsi, a partire di là, all’immagine specifica che è la creatura spirituale
in esercizio di conoscenza e d’amore di sé, e sfociare infine alla creatura graziata, resa
conforme a Dio dalla sua conoscenza e dal suo amore di Dio. Altrove (IH, q. 23, a. 3;
Sent. Ili, d. 10, q. 2, a. 2 q.la 1), Tommaso propone lo stesso tipo di gradazione, ma in
termini di filiazione adottiva (poiché il Verbo è simultaneamente Immagine e Figlio,
l’accostamento non è arbitrario); noi abbiamo allora 1 assimilazione esterna di ogni
essere creato a Dio (che non è ancora veramente filiazione), 1 assimilazione specifica
della creatura spirituale che è una specie di filiazione al livello della natura, e infine
l’assimilazione unitiva mediante la grazia e la carità. Non è che in quest’ultimo caso che
si parlerà in modo appropriato di filiazione adottiva, dato che essa dà diritto all’eredità
dei figli di Dio: la beatitudine. Quanto al terzo modo di presentare questa gradazione, è
quello che impiega i
rèsse per la teologia spirituale: «Vi sono due modi di essere conformati
[all’immagine dell’uomo celeste, Cristo, cf. 1 Cor 15, 49], l’uno nella vita
105
della grazia e l’altro in quella della gloria, la prima essendo una via verso
la seconda (uia ad aliam), poiché senza la vita della grazia non si giunge a
quella della gloria»22. Come ben dice un commentatore recente, l’uomo-:
immagine non riflette Dio-Trinità come uno specchio, ma come un attore
che imita il modello rappresentato, entrando sempre più profondamente
nella vita del suo personaggio23.

gradi di conoscenza e di amore in se stessi e che troviamo nel testo della Summaì
analizzato qui sopra.
22
In I ad Cor. 15, 49, lect. 7, n. 998. Altrove, ma sempre in riferimento«
all’immagine di Dio - riprendendo il detto di san Paolo: «[riflettendo] come in uno
specchio la gloria del Signore, noi siamo trasformati in questa stessa immagine semg pre
più gloriosa» -, Tommaso esplicita ciò come un progresso nell’ordine della conoscenza (e
dell’amore): «Riflettendo (speculantes) non è inteso qui di speculai (osservatorio) ma
di speculum (specchio). Questo vuol dire che noi conosciamo Dio stesso nella sua gloria
mediante lo specchio della ragione nella quale è impressa una,; certa immagine di lui. Ed è
lui che noi riflettiamo quando, dalla considerazione di noi stessi, ci eleviamo ad una certa
conoscenza di Dio che ci trasfigura. Infatti, come ogni conoscenza si fa per assimilazione
del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto, così occorre che coloro che vedono Dio
siano in un certo modo trasformati in Dio. Se essi lo vedono perfettamente, sono
perfettamente trasfigurati, così come i beati nella patria mediante l’unione di fruizione...
Se non lo vedono che imperfettamente, la loro trasfigurazione è imperfetta, così come
accade quaggiù mediante la fede... (S. Paolo) distingue tre gradi della conoscenza nei
discepoli di Cristo. Il primo ci fa passare dalla chiarezza della conoscenza naturale a
quella della conoscenza della fede. H secondo ci conduce dalla chiarezza della conoscenza
dell’Antica Alleanza alla chiarezza della conoscenza della grazia della Nuova Alleanza. Il
terzo ci ele\ a dalla chiarezza della conoscenza naturale e dell’Antica e della Nuova
Alleanza alla chiarezza della visione eterna», In II ad Cor. 3,18, lect. 3, nn. 114-115.
23
D.-J. MERREELL, TO thè Image, p. 245: «Through Thomas’ study of Augu-
stine’s De Trinitate he carne to realize than man reflects thè divine Trinil\ not merely as
a mirror reflects a thing set to some distance from it, but as an actor whn imitates thè
character he plays by entering into his character’s life». E neci '.'..ilio precisare che la
parola «specchio» in questo contesto non è intesa completamente nello stesso senso in cui
si trova nella metafora dello specchio in san Paolo nel testo della nota precedente? Quanto
alla parola «attore», non ha qui niente « di sgradevole, dato che si tratta di una imitazione
interna e che san Tommaso mette sulla via dell’accostamento quando spiega il modo in cui
si può dire che la grazia è essa stessa immagine di Dio, Sent. Il, d. 26, q. 1, a. 2 ad 5:
«Immagine e somiglianza di Dio si dicono dell’anima e della grazia diversamente: l’anima
è detta immagine in quanto imita Dio, la grazia è detta immagine come essendo ciò
mediante cui l’anima imita Dio». Si pensi anche a san Paolo che ben presto ritroveremo:
«Imitare Dio come dei figli prediletti»,
Tutto questo è vero, ma per essere pienamente fedeli all’intuizione
centrale di fra Tommaso è necessario dire ancora di più. Se la dottrina
dell’immagine ha una tale importanza, è perché essa permette di
comprendere come si realizza nella creatura l’articolazione dell’exitus e
del reditus. Infatti, se la prima, l’immagine di creazione, è il termine
deU’«uscita», la seconda, l’immagine di ri-creazione o secondo la

106
grazia, costituisce quella da cui comincia il «ritorno», avviando il
movimento che troverà il suo compimento nella patria con la terza,
l’immagine di gloria, infine perfettamente somigliante. Soltanto cosi noi
ridiamo allo slancio interno dell’immagine tutta la sua forza,
ricollocandolo nel dinamismo più ampio del movimento circolare
infinito che riconduce verso Dio l’intera creazione.
L’intera creazione - e in modo particolare le persone umane che
entrano coscientemente in questo processo - si trova così coinvolta e
trascinata nel movimento delle relazioni trinitarie. Come si può vedere
sull’icona della Trinità di Andre) Rublév (sotto la forma del rettangolo
in basso all’altare che simboleggia l’universo creato 191), la creazione
non si trova al di fuori, ma proprio al centro della comunione trinitaria. Il
genio del pittore lambisce senza saperlo l’intuizione del teologo e rende
visibile qualcosa di questa circulatio che parte dal Padre mediante il
Figlio e ritorna verso di lui mediante e nello Spirito, trascinando
l’universo nel suo amore.

IMMAGINE E INABITAZIONE

Per ben comprendere l’intera dinamica del grande testo della


Somma sui tre gradi di conformità dell’immagine al suo modello,
occorre tuttavia ritornare un po’ indietro e sforzarsi di considerare più da
Ricino la somiglianza per grazia dell’imago recreationis'. essa giunge
alla sua pienezza quando perviene al massimo splendore permesso su
questa terra dall’inabitazione della Trinità nell’anima. Fedele al suo
procedimento, Tommaso approfondisce la sua riflessione mediante
approcci successivi; non gli basta stabilire la somiglianza trinitaria sul
piano delle potenze, ma vuole farlo anche sul piano degli atti. Anche in
questo caso però non si tratta di atti qualsiasi:

191 Cf. CoSMAS INDICOPLEUSTES, Topographie chrétienne IV 7 («Sources


chrétiennes 141»), Paris 1968, pp. 544-545.
107
«Se si deve trovare l’immagine della Trinità nell'anima, è necessario
ricavarla principalmente da ciò che si avvicina maggiormente, per
quanto è possibile, ad una rappresentazione specifica delle Persone
divine. Ora, le Persone divine si distìnguono secondo la processione
del Verbo a partire da colui che lo proferisce e secondo quella
dell’Amore che unisce entrambi. D’altra parte, come afferma
sant’Agostino, il verbo non può esistere nella nostra anima “senza
un pensiero in atto”. Quindi è sul piano degli atti che si riscontra in
maniera primaria e principale l’immagine di Dio nell’anima, in
quanto a partire dalla conoscenza che abbiamo, formiamo,
pensando, un verbo, e da que- sto prorompiamo nell’amore»192 193.
L’intero contesto della questione ci autorizza a intendere che si tratta
della conoscenza e dell’amore di Dio, ed è così che possiamo
comprendere il termine utilizzato da san Tommaso. Conformemente 1
all’etimologia, egli impiega spesso il verbo prorumpere per esprimere una
pressione interiore irresistibile: «precipitarsi nel piacere», <<prorompere
in ingiurie», «sàogliersi in lacrime» o, più nobilmente, «esplodere in
rendimento di grazie»... Per rispettare questa sfumatura, e il soggetto,
bisognerebbe poter tradurre: Prorumpimus in amorem, con: Noi fondiamo
in amore [per Dio così conosciuto]. In ogni caso vi è qui, e dovremo
ritornarvi altrove, una forte evocazione del modo in cui Tommaso
concepisce l’amore come una forza vitale che spinge l’amante verso
l’amato. Secondo la formula classica ricavata dallo Pseudo-Dio- nigi,
l’amore provoca un’uscita da sé {amor facit extasim)2b. Esso sradica colui
che ama dal suo tenore di vita e lo precipita in un’avventura : dalla quale
non uscirà indenne. E altrettanto importante osservali io me la parola
prorumpere si ritrova con lo stesso senso soltanto in un altro contesto194:
«La grazia rende l’uomo conforme a Dio. Quindi, affinché una
Persona divina sia inviata nell’anima mediante la grazia, è
necessario che l’anima sia conformata o assimilata a questa Persona
tramite q,,< i dono di grazia. Ora, lo Spirito Santo è l’Amore:
dunque è il dono della carità che assimila l’anima allo Spirito Santo,
ed è a causa della carità

1921, q. 93, a. 7.
193 Cf. per es. I, q. 20, a. 2 ad 1; I-II, q. 28, a. 3; II-II, q. 175, a. 2; ecc.
194 La cosa è stata notata anche da D.-J. MEKRIELL, TO the Image of the
Trinity, p. 231, che ha inoltre appurato come la parola non deriva da sant’AgOMino Egli
stesso traduce molto giustamente prorumpere con to burst forth into love.
che si parla di una missione dello Spirito Santo. Il Figlio, lui, è il
Verbo - e non un verbo qualsiasi, ma Quello che spira l’Amore: “il
Verbo che cerchiamo di fare intendere, dice Agostino, è una
conoscenza piena d’amore” (De Trin. IX 10, 15). Non si ha dunque
missione del Figlio per un perfezionamento qualsiasi dell’intelletto,
ma solo quando l’intelletto è istruito in modo tale che giunge a
prorompere in affezione d’amore (quo prorumpat in affectum
amoris), secondo quanto è scritto in san Giovanni (6, 45):
“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” o nel
Salmo (38, 4): “Un fuoco divampò nelle mie considerazioni”. Per
questo sant’Agostino impiega dei termini significativi: “Il Figlio è
inviato quando è conosciuto e percepito” (tbid. IV 20, 28); la parola
percezione significa infatti una certa cognizione sperimentale. In ciò
consiste propriamente la “sapienza” o “scientia sapida”, secondo il
detto deU’Ecclesiaste (6, 23): “La sapienza della dottrina giustifica
il suo nome”»2%.

Il fatto che san Tommaso utilizza il verbo prorumpere soltanto in


questi due luoghi è un invito molto chiaro ad accostarli. Alcuni
potrebbero rammaricarsi del fatto che egli non vi insista maggiormente,
ma ciò non rientra affatto nel suo modo di procedere, che è più allusivo.
Come ha ben notato un commentatore perspicace, «tutto accade come se
un certo pudore spirituale impedisse al Dottore angelico di proseguire
ulteriormente la presentazione di questa teologia deirimmagine ed entrare
nei dettagli di una teologia spirituale che si sarebbe voluto vedergli
sviluppare» 195 196. E vero; tuttavia questo è proprio uno di quei casi in cui
è del tutto lecito al commentatore mettere in evidenza ciò che il Maestro
stesso non ha potuto o creduto dover sviluppare a causa del piano che
perseguiva: la dottrina dell’inabitazione della Trinità costituisce il
coronamento della dottrina dell’immagine di Dio 197. E sufficiente
ricordare in che modo egli presenta questa dottrina deU’inabita- zione, in
stretto legame con la dottrina delle missioni delle Persone divine, o
piuttosto come la sua conseguenza:
«Si dice che una Persona divina è inviata in quanto esiste in
qualcuno in un modo nuovo; che è data in quanto è posseduta da
qualcuno. 0>< ciò non si verifica se non a causa della grazia
santificante. Infatti vi è per Dio un modo comune di esistere in tutte
le cose mediante la sua essenza, la sua potenza e la sua presenza,
1951, q. 43, a. 5 ad 2; si sarà notata in questo testo, e in altri diari sopra, l’insistenza
sulla conformità a Dio che la grazia realizza in noi, o sull’assimilazione allo Spirito Santo
che produce la carità; certamente dovremo ritornare su questo tema.
196 G. LAFONT, Structures et méthodes, cit., p. 288.
19790 Si è un po’ sorpresi che Merriell, pp. 226-233, manifesti qui una così grande
esitazione, benché egli sia più positivo nella sua conclusione (p. 242); si troveranno alcuni
sviluppi in questo senso in F.L.B. CUNNINGHAM, Si. Thomas’ Doc- trtne on thè Divine
lndwelling in thè Light ofScolastic Tradition, Dubuque (Iowa) 1955, pp. 339-349.
109
come causa negli effetti che partecipano della sua bontà. Ma al di
sopra di questo modo comune, c’è un modo speciale che è proprio
della creatura razionale: in questa si dice che Dio esiste come il
conosciuto nel conoscente e l’amato nell’amante. E siccome,
conoscendolo e amandolo, la creatura ra/io naie giunge con la sua
operazione fino a Dio stesso, si dice che tramite questo modo
speciale, non solo Dio è nella creatura razionale, ma anche che
abita in essa come nel suo tempio»198.

Questo «modo speciale di presenza», lo si capisce bene, non consiste


semplicemente in un «essere là», così come accade quando due persone si
trovano fisicamente nello stesso luogo senza che nient’altro le renda
vicine. Questa presenza particolare raddoppia, se così si può dire,
l’intensità della presenza di Dio, poiché, all’azione con la quale egli dà
l’essere e da cui risulta la presenza di immensità, si aggiunge l’azione con
la quale dà la grazia199. E, nello stesso tempo, dà alla per sona umana la
capacità di raggiungerlo al livello di questa nuova pii senza. Non si tratta
qui di due atti differenti: per Dio, dare la grazia significa darsi da
conoscere e da amare. Secondo un’espressione con la quale Tommaso
riassume quanto accadrà nella visione beatifica, della quale però quaggiù
si ha una realizzazione iniziale, «se esistessi uni realtà che fosse
simultaneamente la fonte della capacità di vedere c la stessa realtà vista,
occorrerebbe che colui che vede riceva da questa realtà sia la capacità di
vedere, sia la “forma” mediante cui il vedere si attualizza» 200. Tenendo
conto del fatto che quaggiù «camminiamo nella fede e non nella chiara
visione», è esattamente quanto accade in questa
presenza speciale: Dio non soltanto viene incontro all’uomo, ma gli dà
anche e nello stesso tempo la possibilità di incontrarlo.
Questo è dunque quanto rende possibile il dono della grazia
santificante: è solo per un atto delle virtù teologali di fede (conoscenza)
e di carità (amore) che Dio è raggiunto così in se stesso. Ma ciò che è
importante notare per il nostro scopo è il fatto che Tommaso descrive
l’inabitazione di Dio nell’anima come il risultato degli stessi atti che
danno all’immagine la conformità di grazia della nuova creazione, ed è
questo che ci spinge a sottolineare la continuità tra queste due dottrine. Il

198 I, q. 43, a. 3; la dottrina delle missioni divine e dell’inabitazione è tema


molto studiato e sempre attuale; si troverà un riassunto agevole e affidabile' in J.-H.
NICOLAS, Synthèse Dogmatique I, pp. 227-265; per uno studio esausl ivo. cf. J. PRADES,
«Deus specialiter est in sanctis per gratiam». El misterio de la inhabitación de la Trinidad en
los escritos de santo Tomás («Analecta gregoriana 261»), Roma 1993.
199 E Tommaso ritrova qui la sua immagine prediletta: «la grazia è causata
nell’uomo dalla presenza della divinità, così come la luce nell’atmosfera deriva dalla
presenza del sole», III, q. 7, a. 13.
200 I, q. 12, a. 2.
110
dinamismo implicato nella nozione di immagine di Dio trova la sua più
alta realizzazione quaggiù in ciò che costituisce anche il vertice
dell’avventura umana: l’unione con Dio di cui l’anima gode come di un
oggetto d’amore liberamente posseduto. Se si segue Tommaso si va
molto lontano, ed è possibile rendersene conto dal modo in cui egli
spiega perché si può attribuire allo Spirito Santo il titolo di «Dono»
(iionum Dei, come dice l’inno Veni Creator)-.
«Noi possediamo ciò di cui possiamo fare liberamente uso o fruire
a piacere: in questo senso una Persona divina non può essere
posseduta se non da una creatura razionale unita a Dio. Le altre
creature possono ben essere mosse da una Persona divina, però ciò
non conferisce loro il potere di godere di questa Persona divina né
di usufruire del suo effetto. Ma la creatura razionale ottiene a volte
questo privilegio, allorquando diventa partecipe del Verbo divino e
dell’Amore che procede, fino a poter liberamente conoscere Dio
con verità e amarlo perfettamente. Perciò soltanto una creatura
razionale può possedere una Persona divina. Quanto poi alla
realizzazione di tale possesso, essa non può giungervi con le sue
proprie forze: occorre che le sia dato dall’alto - giacché ciò che
otteniamo da altri, si dice che ci è dato. Ecco come conviene a una
Persona divina di essere data e di essere un Dono»201.

L’ESPERIENZA DI DIO

Questa descrizione è già molto vigorosa, ma per tentare di dire in


modo ancora più preciso ciò che è qui in questione, Tommaso non esita
a ricorrere a un vocabolario ancora più suggestivo e - nel testo in cui
parla di «sciogliersi in affezione d’amore» al vertice terrestre della
somiglianza dell’immagine - parla anche di una «conoscenza sperimentale»
di Dio. Questa espressione ha fatto esitare più di un commentatore e ci si è
impegnati a sottolineare come il Maestro parli di una conoscenza «quasi
sperimentale», attribuendo al «quasi» il valore di un’attenuazione. Ciò che
significherebbe: «per così dire» o «in qualche modo» sperimentale. Dopo gli
studi del padre Albert Patfoort202 203 204, l’esitazione non è più ammissibile;
questi ha infatti ricordato che esistono altri testi in cui Tommaso parla senza
restrizioni di una conoscenza sperimentale di Dio 205, e che, anche dove
2011, q. 38, a. 1,
202 A. PATFOORT, Cognitio tsta est quasi experimentalis (Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2
203ad 3m), «Angelicum» 63 (1986) 3-13; nello stesso senso, cf. H.R.G. PEREZ ROBLES,
204The Experimental Cognition of thè lndwelling Trinity in thè Just Soni: The Thought qf Fr.
Ambroise Gardeil in thè Line of Saint Thomas, Diss. PUST, Roma 1987.
205 Così Sent. I, d. 15, q. 2 ad 5: «Sebbene la conoscenza sia appropriata al
Figlio, il dono a partire dal quale si ricava questa conoscenza sperimentale ( experim
111
impiega un «quasi», continua nello stesso testo con un «propriamente».
Poiché Tommaso certamente non si contraddice a distanza di due righe, è
necessario dedurne che il «quasi» non ha il: senso di un’esperienza a ribasso
ma sottolinea la distinzione di questa conoscenza da un altro tipo di
conoscenza che non sarebbe che intellettuale. Per questo, commentando
sant’Agostino, egli può scrivere: «“Ciascuno di essi [il Figlio o lo Spirito] è
inviato allorquando è conosciuto” *. Questo bisogna intenderlo di una
conoscenza che non è soltanto speculativa, ma di una conoscenza che ha
anche un lato [chiaramente] sperimentale (quodammodo experimentalis).
Ciò è sottolineato da quanto segue: “(conosciuto) e percepito", il che
significa un’esperienza propriamente detta (proprie experientiam) nel dono
ricevuto»206.
Questi testi hanno dato origine a esegesi diverse, per non dire opposte:
alcuni hanno voluto ridurre l’esperienza di cui parla qui Tommaso al senso
che la parola poteva avere presso i suoi predecessori e contemporanei con
una connotazione fortemente affettiva 207; altri, contestando questa tesi con
vigore e a volte giustamente, sostengono al contrario che san Tommaso si
libera di questa accezione comune del termine e gli attribuisce una portata
sicura intellettuale208. Senza voler entrare in questo dibattito che ci
porterebbe molto lontano dal nostro proposito, ci sembra difficile voler
ridurre l’intenzione di Tommaso all’una o all’altra di queste alternative. Non
si può certamente eliminare la conoscenza intellettuale propriamente detta di
questa esperienza, ma è impossibile che essa non abbia anche e
simultaneamente una dimensione affettiva non meno sicura. Sarebbe proprio
strano che, giunta al vertice del suo incontro terrestre con Dio, l’anima non
mentalis cognitio), necessaria perché vi sia una missione, non è tuttavia necessariamente
appropriato al Figlio, ma a volte può esserlo allo Spirito Santo nella sui} qualità d’amore»;
Seni. Il, d. 16, a. 2: «Nella missione invisibile dello Spirito Santo, la grazia sgorga nell’anima
in virtù della pienezza dell’amore divino e, per questo effetto di grazia, la conoscenza
sperimentale di questa persona divina è ottenuta d" colui al quale è fatta questa missione
(cognitio illius personae diuinae experimentalis ah ipso cuifit missio)».
206 Sent. I, d. 15, expositio secundae partis textus: «Hoc intelligendum
est non tantum de cognitione speculativa, sed quae est etiam quodammodo
experimentalis, quod ostendit hoc quod sequitur: “atque percipitur” quod proprie
experientiam in dono percepto demonstrat».
207 Queste parole riassumono semplificandola al massimo la tesi di J.F.
DEDEK, Experimental Knowledge ofthe Indwelling Trinity: An Historical Study
of thè Doctri- ne of S. Thomas, Mundelein (111.) 1958; ripresa nell’essenziale per quanto
riguarda san Tommaso nell’articolo dello stesso autore: «Quasi experìmentalìs
cognitio»: a Historical Approach of thè Meaning of St. Thomas, JTS 22 (1961) 357-
390.
208 E la posizione di A. COMBES, Le P. John F. Dedek et la connaissance quasi-
expérimentale des Personnes divines selon saint Thomas d’Aquin, «Divinitas» 7 (1963 ) 3-82,
approvata non senza sfumature da A. PATFOORT, Missions divines et expérience des
Personnes divines selon S. Thomas, «Angelicum» 63 (1986) 545-559.
112
vi fosse implicata che per una delle sue potenze.
Qui forse si potranno ricordare alcuni testi utilizzati poco o affatto in
questi studi, che, sebbene non appartengano al contesto diretto che ha dato
origine a queste dispute tecniche, nondimeno ci sembrano tali da
illuminarlo. Infatti, ricavata innanzitutto dal vocabolario dei sensi 209, la
parola esperienza continua a suggerire qualcosa del contatto diretto con la
realtà quando è trasposta nel dominio delle cose divine:
«L’esperienza di una cosa si fa mediante i sensi... Ora Dio non è
lontano da noi, né fuori di noi, egli è in noi... Ed è per questo che
l’esperienza della bontà divina è chiamata “gusto” (gustatio)...
L’effetto di questa esperienza è duplice: il primo consiste nella
certezza dell’intelligenza, il secondo nella sicurezza dell'’affettività»
210
.
L’immediatezza della realtà divina così sperimentata si irradia/ dunque
sia sull’intelligenza sia sulla volontà che essa conforta nel loro ordine
proprio. È chiaro che Tommaso segue qui l’uso comune secondo cui il
termine «esperienza» designa altra cosa che una conoscenza puramente
intellettuale e che gli accorda anche una carica affettiva certa:
«Vi sono due modi di conoscere la bontà o la volontà di Dio. Uno è
speculativo, e da questo punto di vista, non è permesso dubitare della
bontà divina né metterla alla prova [il contesto parla di "tentare"
Dio], L’altro consiste in una conoscenza affettiva o sperimentale
(affectiua seu experimentalis) della bontà o della volontà divine, e si
ha quando uno sperimenta in se stesso (dum quis experitur in seipso)
il gusto della dolcezza divina e la benevolenza della sua volontà.
Come Dionigi dice di leroteo, il quale “apprese le cose divine per
averle provate". E in questo senso che siamo invitati a fare esperienza
della volontà divif na e a gustare la sua soavità»211.
Vi è dunque una conoscenza delle cose divine che non si acquista
unicamente con lo studio. Questa ammissione ha tanto più valore poiché:
209 Cf. I, q. 54, a. 5 ad 2: «In noi vi è esperienza quando conosciamo i singoli
esseri mediante i sensi»; il testo più sviluppato si trova in Super loh 12, 11-14, Leon., t. 26, p.
81, righe 163-226; l’origine sensibile dell’esperienza nell’udito e nel gusto ( auditus e
gustus) serve da paradigma per quanto accade nella conoscenza, contemplativa o pratica.
Per uno studio completo e molto accurato di ciò che implica la conoscenza sperimentale nei
suoi vari livelli, ci si riferirà a F. ELISONDO ARAGON. Conocer por experiencia. Un
estudio de sus modos y valoración en la Stimma theologica de Tomàs de Aquino,
RET 52 (1992) 5-50, 189-229.
210 In Ps. 33, n. 9: Vivès, 1.18, p. 419.
211II-II, q. 97, a. 2 ad 2; cf. I, q. 64, a. 1: «Vi è una duplice conoscenza della verità:
una che si ottiene per grazia, l’altra che si ottiene mediante la natura. Quella che si ottiene
per grazia è essa stessa duplice: una che è soltanto speculativa, come quando qualcuno riceve
la conoscenza dei segreti divini per rivelazione; l’altra che è affettiva e produce l’amore di
Dio, e questa è un dono dello Spirito Santo».
113
Tommaso aveva già rinviato a questa stessa citazione dello Pseudo-Dio- nigi
circa la saggezza teologica. Senza rinunciare ai diritti della conoscenza
chiara, egli attribuiva tuttavia il primo posto alla conoscenza per
connaturalità derivante dal dono di saggezza infuso dallo Spirito Santo 212.
Questo appello all’esperienza vuole dunque suggerire anche qualcosa del
carattere ineffabile che comporta l’incontro delle Persone divine:
«Venite e vedete, dice Cristo in san Giovanni. In senso mistico ciò
significa che /’inabitazione, sia di gloria, sia dia grazia, non può
essere conosciuta che per esperienza, poiché non si può spiegarla con
parole. Venite, credendo e agendo, e vedete, sperimentando e
comprendendo. Bisogna ben osservare che si giunge a tale
conoscenza in quattro modi: con il compimento delle opere buone...
con il riposo dell'anima... con il gusto della dolcezza divina... con
l’operazione della devozione» 213.
Un altro linguaggio perciò si impone ed è necessario completare il
vocabolario dell’esperienza con quello della fruizione delle realtà divine.
Prediletto dai mistici, questo linguaggio risale a sant’Agostino e alla sua
distinzione tra le realtà di cui ci si può servire luti) e quelle di cui non si può
che goderne, dilettarsi {fruì). Esso è stato trasmesso tra l’altro tramite la via
classica di Pietro Lombardo e delle sue Sentenze, ed è per questo che lo si
ritrova già nelle prime pagine del commento di san Tommaso 214. È ancora a
lui che l’Aquinate si riferisce spontaneamente per parlare della beatitudine,
non soltanto nel suo stato compiuto ma anche in quello iniziale,
l’inabitazione delle Persone divine. E il caso del seguente testo di cui
abbiamo citato la prima parte e che si conclude così:
«Al di fuori della grazia santificante non vi è niente che possa
costituire la ragione di un nuovo modo di presenza della Persona
divina nella creatura razionale. Dunque è soltanto a causa della
grazia santificante che si ha missione e processione temporale della
Persona divina. - Così pure, si dice che noi “possediamo” solamente
ciò di cui possiamo liberamente fare uso o godere. Ora, non si ha
potere di godere di una Persona divina se non a causa della grazia
santificante. Tuttavia, nel dono stesso della grazia santificante è lo
212 Cf. I, q. 1, a. 6 ad 3; la conoscenza per connaturalità ha dato origine a
numerosi studi, cf. I. BIFFI, Teologia, Storia e Contemplazione in Tommaso d’Aquino, pp. 87-
127, cap. 2: «H giudizio “per quandam connaturalitatem” o “per modum inclinationis”
secondo san Tommaso: Analisi e prospettive», con la bibliografia, p. 90, n. 22.
213 In loan. 1, 39, Iect. 15, nn. 292-293; cf. ancora ibid., 17, 23, lect. 5, nn.
2250.
214 Seni. I, d. 1; cf anche I-II, q. 11; anche se si discosta dal Lombardo, che
non era riuscito a stabilire l’esistenza di un habitus per la grazia creata, Tommaso riprende
da lui - e con molta fermezza - la dottrina secondo la quale è veramente lo Spirito in persona
che si dona.
114
Spirito Santo che si possiede e che abita l’uomo. Perdo lo stesso
Spirito Santo è dato e inviato». [Tommaso continua un po’ più avanti,
in una risposta]: «Il dono della grazia santificante perfeziona la
creatura razionale per metterla in grado non solo di usare
liberamente il dono creato, ma anche di godere della stessa Persona
divina. Perciò la missione invisibile avviene tramite il dono della
grazia santificante, e tuttavia è proprio la stessa Persona divina che ci
è data» 215.
La grazia non permette dunque al fedele di condurre soltanto la sua
vita cristiana, ma lo prepara già all’esperienza mistica più alta: il
godimento delle Persone divine. «Lo stato di grazia», come si suol
dire, è la «possibilità abituale di vivere una tale fruizione, possibilità
abituale di vivere una conoscenza sperimentale delle Persone divine»
216
. Questo non ha niente a che vedere con le risorse intellettuali, e
Tommaso considera ciò come perfettamente realizzabile in persone
sprovviste peraltro di ogni conoscenza sapiente, giacché «questa
conoscenza da cui sgorga l’amore si trova in abbondanza presso
coloro che sono ferventi nell’amore di Dio, in quanto essi conoscono
la bontà divina come fine ultimo, che effonde con abbondanza su di
loro i suoi benefici». Al contrario, «tale conoscenza non potrebbe
essere perfetta presso le persone che non sono infiammate da questo
amore» 217.
Poco noti, questi testi di Tommaso non sono isolati; accostati a
tutti quelli che abbiamo appena citato sull’esperienza delle Persone
divine, che va oltre la conoscenza chiara che possiamo averne, essi
trovano la loro formulazione, in qualche modo esemplare, in questi
altri passaggi in cui Tommaso non esita a dare chiaramente la
preferenza a una «piccola anziana» (uetula) ardente dell’amore di Dio
rispetto a un saggio imbevuto della propria superiorità 218. Evidente per
un cristiano, il paragone assume un nuovo valore sotto la penna di
questo intellettuale d’alta classe. Solo Pascal può affermare con un
minimo di credibilità che «tutta la filosofia non vale un’ora di pena».

L’IMMAGINE IN GLORIA

Di argomento in argomento ci siamo allontanati, sembra, dal tema


dell’immagine. Non è però che un’impressione, poiché, ora lo si capisce

2151, q. 43, a. 3 ad 1.
216 A. PATFOORT, Missions divines et expérience, p. 552.
217Sent. I, d. 15, q. 4, a. 2 arg. 4 et ad 4.
218 Cf. J.-P. TOKRELL, La pratique pastorale, p. 242.
115
bene, se l’anima diventa simile al suo modello divino nell’attività pervasa |
di grazia della sua conoscenza e del suo amore di Dio, è mediante questa
stessa attività che Egli viene ad abitare in essa e che questa, a un grado
inimmaginabile, fa l’esperienza della sua prossimità e della sua dolcezza.
Per quanto sia cosciente della necessità della saggezza teologica, che
sola permette di esprimersi correttamente, Tommaso senza rinunciarvi
impiega dunque il vocabolario dell’esperienza, che gli sembra il solo
appropriato a suggerire qualcosa di questa totalità appagante in cui
l’affettività
si unisce necessariamente all’intelligenza, poiché Dio non è conosciuto
soltanto come vero, ma anche come bene.
Il termine del processo sarà raggiunto solamente allorquando
all’immagine per conformità di grazia sarà seguita l’immagine per
conformità di gloria. Tommaso considera ciò come esigito dalla
definizione stessa deU’immagine:
«L'immagine implica una somiglianza che giunga in qualche
modo a rappresentare i tratti specifici [del modello]. Occorre
perciò che l'immagine della Trinità nell’anima sia riscontrata
sotto un aspetto che rappresenti le Persone divine con una
rappresentazione specifica, nella misura in cui ciò è possibile
alla creatura. Ora, come già abbiamo visto, le Persone divine
si distinguono: secondo la processione del Verbo a partire da
colui che lo proferisce, e quella dell’Amore a partire da
entrambi. L’altra parte, il Verbo di Dio nasce da Dio secondo
la conoscenza che Dio ha di se stesso e l’Amore procede da
Dio secondo l’amore che Dio ha per se stesso. Ora, è chiaro
che la diversità degli oggetti comporta una diversità specifica
nel verbo e nell’amore; infatti il verbo [concetto] che il cuore
dell’uomo concepisce di una pietra o di un cavallo non sono
della stessa specie, né lo sono i rispettivi amori. Quindi
l’immagine divina nell’uomo si riscontra in rapporto al verbo
che è concepito a partire dalla conoscenza di Dio e all’amore
che ne deriva. E così l’immagine di Dio è presente nell’anima
in quanto questa si porta o è capace di portarsi verso Dio». [E
se si obietta che non importa quale tipo di conoscenza di
oggetti temporali possa dare luogo a questa attività di
conoscenza e d’amore, Tommaso risponde:] «Per verificare la
nozione di immagine, non bisogna osservare che vi sia soltanto
processione di una cosa a partire da un’altra, ma è necessario
vedere ancora ciò che procede e da chi procede; occorre
trovare cioè un verbo [o concetto] di Dio procedente da una
conoscenza di Dio»219.

2191, q. 93, a. 8 et ad 1.
116
In questa prospettiva, è evidente allora che l’uomo esercita la
sua attività di conoscenza e d’amore di Dio al massimo grado a cui
può giungere. Eppure, ancor di più, la condizione posta da san
Tommaso circa l’origine di questa processione conosce qui una
realizzazione inaspettata. Poiché nella beatitudine la conoscenza di
Dio avverrà senza mediazione di qualsiasi similitudine creata, noi
siamo spinti a dire che in quel momento Dio stesso sarà
immediatamente al principio e al termine di tale atto di conoscenza e
d’amore beatificante. Riprendendo

117
qui una felice espressione: «la congiunzione attuale tra Dio e l’anima-
immagine non conosce intermediari. E Dio stesso che procede da Dio
attraverso i nostri atti umani»220.
Se ci è permesso concludere questo capitolo con una specie di
omaggio, ameremmo riportare qui alcune righe di un autore che ha
reso immensi servigi alla causa tomasiana. Di una densità e di una
precisione degne del Maestro, esse riuniscono con garbo l’essenziale
di ciò che abbiamo cercato di dire:
«Il ritorno della creatura razionale si compie nell’unione di
conoscenza e d’amore a Dio nostro Oggetto; è in essa che
termina tutto il ciclo delle processioni temporali; essa è il fine di
tutta la storia del Mondo: manifestare alle creature razionali la
gloria intima delle Persone divine. Questa unione dell’anima a
Dio-Trinità è inaugurata, almeno sul piano degli abiti, fin dalla
prima infusione della grazia, con la dote di virtù e di doni che
abilitano l’anima agli atti proporzionati a questo oggetto
divino; tale unione si attualizza gradualmente in atti imperfetti
di percezione di Dio nella vita del cristiano quaggiù: essa si
espande infine in visione consumata nella visione beatifica, che
è un atto perfetto e immutabile. Lungo tutto questo progresso,
Dio nelle sue tre Persone si dona, si rende presente all’anima,
con una presenza reale e sostanziale che si chiama Abitazione:
presenza di un Oggetto da cogliere sperimentalmente... la cui
percezione e fruizione definitive non si avverano pienamente che
nella visione beatifica; ma le cui percezioni progressive
abbozzate quaggiù rispondono ad altrettante missioni del Figlio
e dello Spirito Santo»221.

220 G. LAFONT, Structures et méthodes, cit., p. 270; occorrerebbe


ripoi't.in qui una grande pagina di Chardon che ha molto bene espresso ciò che
accade quando la processione eterna di una Persona divina si prolunga nella sua
proces sione temporale (= missione); eccone almeno la fine: «La produzione eterna è
l’on gine della seconda; o piuttosto la seconda non è che un’estensione della prima.
Dico meglio: la processione eterna e temporale non è che una stessa produzione. La
condizione del tempo non aggiunge niente di nuovo in Dio, il quale è immul libile ed è
la pienezza di ogni perfezione, ma soltanto nella creatura la quale è resa
“partecipante”, mediante un nuovo cambiamento che si opera in essa, di ciò che Dio
è sin dall’eternità; ossia Dio inizia a produrre nell’anima santa le Persone
che sono procedenti nel suo seno dall’eternità», La croix dejésus, pp. 413-414.
221 H.-F. DONDAINE, La Trinité, II, pp. 437-438; oltre a numerosi lavori e al
magnifico commento in due tomi delle Questioni sulla Trinità dal quale estraiamo il
passaggio citato, il P. Dondaine è stato l’editore meritevole di quattro volumi
d’opuscoli di san Tommaso: ed. Leon., tt. 40-43.
La Via, la Verità, la Vita

È stato facile comprendere, leggendo il capitolo precedente,


come il cammino dell’uomo-immagine verso la beatitudine e il
successivo ingresso nella gloria, suppongano un cammino da
percorrere, così come l’acquisizione della somiglianza perfetta
implica un modello da imitare. Già presente nel nostro discorso
come l’Arte del Padre e sua Immagine perfetta, la seconda persona
della Trinità, mediante la quale procediamo dal Padre e ritorniamo
verso di lui, rappresenta un modello tanto inaccessibile nella sua
perfezione increata quanto il Padre stesso. Con la sua incarnazione
però il Verbo è voluto diventare uno di noi, e in Gesù, il Cristo,
possediamo contemporaneamente il cammino e il modello che
cercavamo, e ancor di più la patria a cui aspiriamo.
San Tommaso propone qui un insegnamento chiaro e denso e
offre già delle indicazioni molto forti nei luoghi nevralgici della
Somma: «Nella sua umanità, Cristo è per noi la via che conduce
verso Dio» b Solida ma breve, questa affermazione è sviluppata più
ampiamente all’inizio della Terza Parte:
«Poiché il nostro Salvatore, il Signore Gesù Cristo, “salvando
il suo popolo dai peccati” (Mt 1, 21)... ci ha presentato in se
stesso la via della verità per la quale possiamo giungere,
mediante la risurrezione, alla beatitudine della vita immortale.,
è necessario, per portare a termine la nostra impresa teologica,
che dopo aver trattato del fine ultimo della vita umana, delle
virtù e dei vizi, consideriamo ora in se stesso il Salvatore di tutti
e i benefìci di cui ha gratificato il genere umano».
Piccola meraviglia di composizione, questo testo ricorda a
grandi linee il cammino percorso e annuncia quello che resta da fare
con le

1
1, q. 2, Prol.
stesse parole di Gesù che troviamo nel quarto Vangelo (Gv 14, 6):
119
«Io sono la via, la verità, la vita». Ancora una volta, il maestro
domenicano si mostra attento all’ascolto della Sacra Scrittura che
inserisce nel suo testo senza soluzione di continuità, combinando in
una sola frase l’aspetto «negativo» dell’opera di Cristo, la liberazione
dal peccato, col suo aspetto «positivo», il ritorno verso il Padre, la
via che Cristo incarna nella sua persona: «Nessuno va al Padre se non
mediante me». Si comprende meglio ora come egli possa parlare di
compimento dell’impresa teologica: tutta la Somma tende verso
Cristo.
Tuttavia, questa singolare collocazione di Cristo alla fine
dell’opera ha costituito per i teologi un punto interrogativo e continua
ad essere tale fintantoché non se ne vedono le ragioni profonde. E
necessario dunque dissipare il malinteso già incontrato e tentare di
capire perché egli ha scelto di parlarne soltanto nella Terza Parte.
Allo stesso tempo di ordine teologico e pedagogico, queste ragioni si
percepiscono meglio esaminando il modo in cui si articolano morale
e cristologia nella visione d’insieme. Potremo allora passare al
seguito del nostro proposito, dato che è chiaro che se la
considerazione di Cristo è necessaria affinché il proposito teologico
sia portato a termine, a maggior ragione la vita cristiana, che vuole
ispirarsene, ne risulterà illuminata in maniera definitiva. Fra
Tommaso ne parla in bei testi che non lasciano alcun dubbio sul
posto da lui occupato nella vita cristiana e nella sua propria vita.

LA VIA CHE CONDUCE VERSO DIO

Nel momento in cui Tommaso cercava di sintetizzare a suo


modo il sapere teologico, vi erano già nelle Sentenze di Pietro
Lombardo due grandi insiemi di questioni morali 222. Il primo si trova
nel Secondo Libro (distinzioni 24-44): dopo la creazione e il peccato
del primo uomo, il Lombardo aveva raggruppato in esso diverse
considerazioni sulla grazia e il libero arbitrio, il peccato originale e la
sua trasmissione, il bene e il male negli atti umani, ecc. Il resto della
materia veniva discusso nel Terzo Libro (distinzioni 23-40), dopo la
cristologia; è in esso che si tratta delle virtù teologali e morali, dei
doni dello Spirito Santo, degli stati di vita, dei comandamenti. Coloro
che hanno familiarità con la Somma riconosceranno facilmente in
questi due insiemi i due grandi poli intorno ai quali è stata riunita la
222 Cf. L.-B. GlLLGN, h’imitation du Christ et la morale de saint Thomas^
«Angelicum» 36 (1959) 263-286; questo studio è stato ripreso in italiano: ID., Cristo e
la teologia morale, Roma 1961, e in inglese: Christ andMoral Theology, Staten Island
1967.
120
materia della Prima Secundae e della Secunda Secundae. Essa vi è
considerevolmente arricchita e riorganizzata secondo un piano che
non deve più molto al Lombardo, anche se è in costui che se ne trova
un primo abbozzo.
Due opzioni erano dunque possibili. La prima sarebbe
consistita nel riunire finterà teologia morale al seguito della
cristologia (secondo polo delle Sentenze). Tommaso avrebbe potuto
così organizzare tutta la sua morale in funzione di Cristo. Tale scelta
avrebbe avuto il vantaggio di mettere in primo piano la figura di
Cristo nell’organizzazione della sua teologia morale così come
accade nella vita cristiana. Secondo le sue stesse parole, nella sua
qualità di Figlio di Dio, Cristo è in effetti «il Modello assoluto che
tutte le creature a loro modo imitano, perché costituisce la vera e
perfetta immagine del Padre» 223. Questa opzione ■ avrebbe avuto
viceversa lo svantaggio di non integrarsi bene nella visione
d’insieme della sacra doctrìna. Il suo teocentrismo assoluto deriva
dal fatto che solo Dio è un principio tanto esplicativo da poter essere
collocato a chiave di volta dell’intero sapere teologico. Se è vero che
la sintesi teologica mira a ritrovare l’ordine e la coerenza del piano
divino, senza cercare di imporgli una logica che non gli
apparterrebbe, allora occorre necessariamente che la Trinità occupi il
primo posto nella spiegazione così come lo occupa nella realtà. E
vero per l’opera della creazione; lo è altrettanto per quella della ri-
creazione: il teologo non può dimenticare il ruolo mediatore
dell’umanità di Cristo, ma è invitato a risalire tramite essa fino
all’unica fonte principale della grazia e della salvezza, Dio stesso.
Tommaso ha quindi optato per una seconda risoluzione, che
consiste nel sistemare la teologia morale dopo aver parlato della
creazione e del governo divino (primo polo del Lombardo). Invece
di imperniarla sul Cristo, egli la collegava alla Trinità mediante la
dottrina biblica dell’uomo come immagine di Dio. Poiché è proprio
di quest’uomo che vuole descrivere il ritorno verso il suo Creatore
dopo averne descritto l’uscita. Egli non rinuncia tuttavia ai vantaggi
della prima alternativa perché può integrarla senza difficoltà. Parlare
dell’uomo come immagine di Dio significa infatti essere spinti ad
evocare l’Esemplare a partire dal quale è fatto e al quale deve
somigliare, ed è questo quanto esprime il Prologo della Seconda
Parte: «Dopo aver parlato dell’Esemplare, cioè di Dio... resta da
parlare della sua immagine, cioè dell’uomo...». Questo fine ultimo
223 In ad I Cor. 11, 1 n. 583: «Primordiale exemplar quod omnes
creaturae imitantur tanquam ueram et perfectam imaginem Patris»; si leggerà un
po’ più avanti per intero questo passaggio.
121
però non può che essere raggiunto da Cristo, perché l’immagine non
trova la sua somiglianza se non «per conformità di grazia» 224, e
questa grazia non la si può ottenere se non tramite la sua mediazione
poiché egli è «come la fonte della grazia» 225. Cristo sarà dunque
strutturalmente presente ovunque sarà la grazia, e lo stesso vale per
lo Spirito Santo: «Uniti dallo Spirito Santo... noi accediamo al Padre
mediante Cristo perché Cristo opera tramite lo Spirito Santo... Ed è
per questo che tutto ciò che è compiuto dallo Spirito Santo è
compiuto anche da Cristo» 226.
Se pertanto è proprio vero che la persona di Cristo non gioca da
sola il ruolo centrale nella costruzione della Somma né
nell’organizzazione della morale tomasiana, non è per una ragione di
disprezzo, ma proprio come conseguenza di una opzione in primo
luogo trinitaria. Non si renderebbe giustizia a Tommaso se non si
sottolineasse a che punto tale scelta è conforme al dato biblico. Non
soltanto ciò gli viene dettato dal racconto della Genesi, ma gli viene
imposto sia dal Discorso della Montagna: «Siate perfetti, come il
Padre vostro celeste è perfetto» (Mt 5, 48), sia da san Paolo: «Fatevi
dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi» (Ef 5,1).
La fecondità di questa scelta si manifesterà ben presto, ma ci è
necessario anzitutto comprendere le ragioni impiegate nel piano della
Somma. Oltre alla grande opzione teologale ispirata alla Sacra
Scrittura che abbiamo appena evocata, resta ancora da citare una
ragione pedagogica non meno importante. L’autore non poteva dare
fin dall’inizio della sua morale il proprio riferimento all’esemplarità
eristica, dato che doveva innanzitutto mettere in evidenza le strutture
essenziali dell’agire umano. Queste strutture sono troppo universali
per potersi applicà?

224 Cf. I, q. 97, a. 4 e il nostro capitolo «Immagine e beatitudine».


225 In loannem 1, 16, lect. 10, n. 201: «quasi auctori gratiae».
226 In ad Ephesios 2, 18, lect. 5, n. 121.
122
p-

| re all’umanità stessa di Cristo, poiché essa resta immutata nella sua


intima costituzione, nonostante la sua assunzione da parte del Verbo.
E sufficiente leggere un po’ attentamente quanto afferma la Tertia
Pars sugli atti umani di Cristo (libertà, merito, passione, virtù) per
essere rimandati costantemente a ciò che è detto nella Prima
Secundae. Indubbiamente, questa umanità di Cristo, assolutamente
unica, richiede delle precisazioni valide soltanto per essa, ma molte
cose dette precedentemente si ritrovano in colui che ha assunto la
nostra condizione in tutto «eccetto il peccato». È chiaro che esse
valgono anche per Cristo, ma Tommaso non ; avrebbe potuto parlare
di lui in primo luogo senza essere spinto in seguido a fare numerose
ripetizioni. D’ordine più tecnico che la precedente, questa scelta non
era meno dettata dalla materia.
Questo non significa però che le strutture della morale generale
(Prima Secundae) si sviluppano al di fuori di ogni riferimento a
Cristo e falla sua grazia. Nonostante tutti i suoi riferimenti ai saggi
dell’Anti- fchità, il trattato delle virtù abbonda di annotazioni
propriamente cristiane. Esso è seguito da un’esposizione sui doni
dello Spirito Santo e da un commento del Discorso della Montagna
che sarebbero sufficienti a mostrare come Cristo esercita già il suo
fascino ancor prima che si ■(parli esplicitamente di lui 227. Lo stesso
vale per il trattato della legge antica, di cui fautore sottolinea con
vigore il ruolo prefiguratore del mistero di Cristo 228, e per quello
della legge nuova, di cui l’essenziale è la grazia dello Spirito Santo
che si ottiene mediante la fede in Cristo 229. L’insieme è coronato
dallo studio della grazia propriamente detta, che riprende e completa
tutto ciò che è stato detto fino ad allora circa gli atti umani e le
virtù230. Tutto questo ci invita a non comprendere male il proposito di
Tommaso: la collocazione di Cristo nella Terza Parte della Somma
non significa un’incomprensibile messa tra parentesi dello specifico
cristiano, ma proprio una deliberata volontà di valorizzare il suo
ruolo nel movimento di ritorno della creatura verso Dio e nel
compimento della storia della salvezza.
La nuova presenza realizzata con la grazia e le missioni divine,
ritrovate in così numerosi testi che abbiamo letto, arricchiva l’idea di
una semplice presenza di Dio nel mondo, in un modo che la creatura
227 Cf. I-II, qq. 68-70.
228«Cf.I-II, qq. 98-105.
229 Cf.I-II,qq. 106-108.
230 Cf.I-II,qq. 109-114.
123
da sola non avrebbe potuto sperare. Ponendo Cristo al vertice di
questo universo, Tommaso introduce in questa dottrina tutto il
dinamismo di un reditus evangelicamente rettificato. Esso non si
realizza soltanto tramite il Verbo, ma proprio mediante il Verbo
incarnato che continua ad inviarci il suo Spirito. Mediatore unico
attraverso il quale ci giunge la grazia ricevuta dalla Trinità, è anche
la guida suprema che dirige il nostro ritorno verso Dio: «Era
conveniente infatti che volendo portare molti figli alla gloria, Colui
per il quale e del quale sono tutte le cose rendesse perfetto mediante
la sofferenza il capo che li avrebbe guidati verso la loro salvezza»
(Eb 2, 10).

UNA NUOVA VIA

Le spiegazioni precedenti forse hanno assunto l’andatura di


un’arida parentesi tecnica, ma dovrebbero avere il vantaggio di
aiutare a comprendere ciò che è in causa. Noi ora possiamo rileggere
alcuni di quei testi in cui Tommaso parla di Cristo. Se egli è
soprattutto celebre, e a giusto titolo, come colui che meglio ha
parlato dei problemi metafìsici posti dall’unione ipostatica, questo
non è tuttavia che un aspetto del suo insegnamento. In conformità
allo scopo di questa iniziazione,: ci piacerebbe far scoprire un altro
aspetto del suo approccio al mistero. Senza voler rifare tutto il suo
percorso, sarà più che illuminante riprendere qui al suo seguito la
questione che i teologi si ponevano già da molto tempo: Cur Deus
homo? Perché Dio si è fatto uomo?
Si è già citata la parte più conosciuta della risposta del Maestro
Tommaso 231, ma è necessario che noi recepiamo tutto ciò che egli ha
detto a riguardo. Visto poi che si rifiuta di parlare di ima necessità
pura e semplice dell’incarnazione - in quanto non possiamo mettere
dei limiti all’onnipotenza di Dio e costui poteva salvarci in tutt’altro
modo 232 -, egli cerca piuttosto le ragioni di convenienza che possono
aiutare a percepire qualcosa dell’incomprensibile amore che ha
spinto Dio a un tale estremo 233. Al seguito di sant’Agostino, di
sant’Anseimo e di tanti altri, orientati in questa direzione dalla Sacra
Scrittura, Tom-

231 Cf. sopra, cap. Ili: «Dio e il mondo», p. 87.


232 III, q. 1, a. 2.
233 Cf. sopra, cap. Ili, p. 88, n. 51.
124
maso fa appello naturalmente alla guarigione della ferita causata dal
peccato (remedium peccati), alla restaurazione (reparatio)
dell’umanità neE’amicizia con Dio, alla soddisfazione per il peccato,
che apparivano quindi come i motivi più evidenti 234. È così che il
tema della soddisfazione, presente nelle Sentenze e perfettamente
formulato nel Compendium theologiae, persiste ancora nella Somma
di teologia-,
«L’incarnazione libera l’uomo dalla schiavitù del peccato.
Come afferma sant’Agostino, “è stato necessario che il
demonio fosse vinto dalla giustizia dell’uomo Gesù Cristo’’. E
questo è accaduto con la soddisfazione di Cristo per noi.
L’uomo, semplicemente uomo, non poteva soddisfare per tutto
il genere umano; Dio, lui, non doveva/ era quindi necessario
che Gesù fosse contemporaneamente Dio e uomo (Homo autem
purus satisfacere non poterai, Deus autem satisfacere non
debebat). [Il bilanciamento dette formule sarebbe sufficiente a
rivelare la loro provenienza d’origine, dato che Anseimo non è
stato qui che un intermediario. Lungi dal dissimularla,
Tommaso la mostra, e, dopo aver citato Agostino, continua con
Leone] “La potenza si è rivestita di debolezza, la maestà di
umiltà; poiché era necessario per la nostra guarigione che un
solo e medesimo mediatore tra Dio e gli uomini fi Tm 2, 5)
potesse da una parte morire e dall’altra risorgere. Vero Dio
egli apportava il rimedio; vero uomo ci offriva l’esempio»235.
Nonostante la sua pertinenza e la sua persistenza, questo tema
della riparazione dell’equilibrio perduto con il peccato costituisce
sempre il pericolo di favorire ima vista antropocentrica delle cose,
come se il peccato imponesse a Dio una finalità da lui non prevista.
In cerca di una nuova via, Tommaso sembra averla trovata nella

234 Cf. ANSELME DE CANTORBÉRY, Pourquoi Dieu s’est fait


homme, ed. R. ROQUES, SC 91, Paris 1963; per un confronto si può vedere J.
BRACKEN, Thomas Aquinas and Anselm’s Satisfaction Theory,
«Angelicum» 62 (1985) 501-530, che oppone tuttavia i due autori in maniera troppo
sistematica.
235 IH, q. 1, a. 2; cf. Sent. IH, d. 1, q. 1, a. 2; Compendium theol. I,
200 (Leon., t. 42, p. 158); tra le recenti pubblicazioni su questo tema, si vedrà R.
CESSARIO, The Godly Image. Christ and Salvation in Catholic Thought from St
Anselm to Aquinas, Petersham (Mass.) 1990, e lo studio di A. PATFOORT, Le vrai
visage de la satisfaction du Christ selon St. Thomas. Une étude de la
Somme théologique, in Orda sapientiae et amoris, pp. 247-265; tuttavia si
può esitare nell’accordare alla soddisfazione una posizione così centrale come quella
che questi autori le accordano.
125
Somma contro i Gentili, dove senza ripudiare l’eredità tradizionale,
si libera un po’ dalla gogna troppo stretta delle autorità, per essere
più personale236. Pro-' pone allora un argomento che, almeno sotto
questa forma, sembra; molto inedito in questo contesto; conveniva
che Dio si facesse uomo;; per dare all’uomo la possibilità di vedere
Dio:
«Se si considera con attenzione e con devozione il mistero
dell’incarnazione, vi si scopre un tale abisso di sapienza che la
conoscenza umana ne viene sommersa. L’Apostolo lo ha ben
detto (1 Cor 1, 25): La stoltezza di Dio è più sapiente degli
uomini. Ecco perché, a colui che considera le cose con
devozione, le ragioni di questo mistero appaiono sempre più
ammirabili»237 238 239.
Queste poche parole introducono un lungo capitolo di cui non
riterremo che alcuni elementi, ma non si può restare insensibili alla
passione contenuta che le ispira. Nonostante la sobrietà del teologo,
non si può non ricordare che si tratta dello stesso uomo la cui
biografia si sofferma sul suo amore per Cristo Gesù 1S. Si tratta della
stessa emozione che soggiace allo stretto rigore del seguente
ragionamento:
«Prima di tutto, l’incarnazione offre all’uomo in cammino
verso la beatitudine (ad beatitudinem tendenti) l’aiuto più
efficace. Come si è già detto (cf. SCG III 48ssd, la perfetta
beatitudine dell’uomo consiste nell’immediata visione di Dio.
Ebbene, a causa dell’immensa distanzi! delle nature, a
qualcuno potrebbe sembrare impossibile che l’uomo possa
raggiungere un tale stato, in cui l’intelletto umano è unito alla
stessa essenza divina in modo immediato, come l'intelletto
all’intelligibile. Paralizzato dalla disperazione, l’uomo allora
si potrebbe bloccare nella sua ricerca della beatitudine 19 Ma il
236 Questo cambiamento di prospettiva è stato ben percepito da M. CORJHN,
La Parole devenue chair, ma ci sembra che lo tratti in modo troppo esclusivo; le
altre prospettive non sono tuttavia rifiutate.
237 SCG IV 54, n. 3922; cf. De rationibus fidei 7, Leon., t. 40, p. B 66.
238 Cf. Tommaso di Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 317-324.
239 È forse farne una lettura troppo psicologizzante il vedere in questa
frase un’eco del celebre passaggio in cui Tommaso compatisce l’«angoscia di queste
grandi menti» (quantam angustiam patiebantur... eorum praeclara
ingenia; Alessandro d’Afrodisia, Averroè, Aristotele) che, non conoscendo
l’immortalità dell’anima, non sapevano dove collocare la beatitudine dell’uomo? Cf.
SCG IH 48 n. 2261.
126
fatto che Dio abbia voluto unirsi in persona alla natura umana,
dimostra con evidenza agli uomini che è possibile essere
immediatamente uniti a Dio con l’intelligenza, vedendolo senza
intermediari. Perciò era convenientissimo che
Dio assumesse la natura umana al fine di ravvivare la speranza
dell’uomo nella beatitudine. Infatti dopo l’incarnazione di
Cristo gli uomini hanno cominciato ad aspirare più
ardentemente alla beatitudine celeste, secondo quanto afferma
egli stesso fGv 10, 10): «Io sono venuto perché abbiano la vita
e l’abbiano in abbondanza» 240.
Il seguito immediato di questo testo prende in considerazione
un altro argomento tratto dalla dignità dell’uomo che riceve
dall’incarnazione una clamorosa manifestazione; vi ritorneremo più
avanti. Ma per leggere correttamente le righe che precedono,
conviene non ipertrofiz- zare la loro apparenza «intellettualistica». H
seguito del testo ce lo ricorderà: la beatitudine non è una cosa astratta
che riguarderebbe soltanto la ragione. Essa concerne tutto l’uomo
con le sue potenze d’amare:
«Poiché l’uomo trova la sua perfetta beatitudine nella fruizione
(frui- tio) di Dio, era necessario che la sua affettività venisse
predisposta al desiderio di codesta divina fruizione, desiderio
naturale della beatitudine di cui constatiamo l’esistenza
nell’uomo. Ora, è l’amore per una cosa che sveglia il desiderio
di goderne. Occorreva quindi che l’uomo, in cammino verso la
beatitudine perfetta, fosse sollecitato ad amare Dio. Ma niente
ci spinge ad amare maggiormente qualcuno, quanto lo
sperimentare il suo amore per noi. Ebbene, gli uomini non
potevano aspettarsi una prova più efficace dell’amore di Dio
per essi che il vedere Dio unirsi personalmente all’uomo,
poiché è proprio dell’amore unire per quanto è possibile
l’amante all’amato. Era quindi un’esigenza per l’uomo in
cammino verso la beatitudine che Dio si incarnasse» 241.
Non è affatto necessario insistere perché si riconoscano molti
temi che hanno nutrito la nostra meditazione fin qui. Ritroveremo
ben presto quest’uomo affamato di beatitudine, perché è di lui che
parla fra Tommaso da un capo all’altro della sua considerazione
morale. Ma il tema dell’amore che ha appena ricordato con una
citazione implicita dello Pseudo-Dionigi, sembra aver richiamato alla

240 SCG IV 54, n. 3923.


241 SCG IV 54, n. 3926.
127
sua mente - ma è lungi dall’essere fortuito - il modo in cui Aristotele
parla dell’amicizia:
«Siccome l’amicizia consiste in una certa uguaglianza, non è
possibile che esseri troppo disuguali si uniscano in amicizia.
Affinché dunque l’amicizia tra Dio e l’uomo fosse più intima,
era conveniente per l’uomo che Dio si facesse uomo, perché
l’uomo è amico dell’uomo per natura. Cosicché conoscendo
Dio sotto una forma visibile, noi fossimo rapiti da lui all’amore
dell’Invisibile»242.
Ben evidente, il riferimento ad Aristotele non deve offuscare
l’esplicita citazione del Prefazio della Natività che termina questo
passaggio e in cui Tommaso ha probabilmente trovato la sua
ispirazione: Dum uisibiliter Deum cognoscimus, in inuisibilium
amorem rapiantur. Posta sotto il segno della filantropia divina e
della sua manifestazione tramite la venuta del Verbo nella carne, la
celebrazione liturgica di Nàtale era proprio adatta per aiutare
Tommaso ad approfondire la sua meditazione sulle convenienze
dell’incarnazione243. Quando lo ritroviamo nel Contra Gentiles,
questo tema gli era familiare già da molto tempo poiché lo si
incontra già nelle Sentenze'.
«Affinché vi fosse un modo facile per risalire a Dio, era
conveniente che l’uomo potesse mettersi alla sua ricerca
(consurgeret), sia con là sua intelligenza sia con la sua
volontà, a partire da ciò che gli è noto. E considerato che è
connaturale all’uomo, nel presente stato di miseria, trarre la
sua conoscenza dalle realtà visibili e attenervisi, era
conveniente (congruenter) che Dio si rendesse visibile
assumendo la natura umana. Cosicché, a partire dalle realtà
visibili noi fossimo condotti all’amore e alla conoscenza delle
realtà invisibili»244.
242 SCGIV 54, n. 3927; cf. ARISTOTELE, Etica a Nicomaco Vili 1,3 (1155
a) e 5,5 (1157 b).
243 Y. CONGAR ha pubblicato tempo fa un bello studio (soprattutto pali
ittico) su questo tema: «Dum visibiliterDeum cognoscimus»... Méditation
théologiquè, «La Maison-Dieu», n. 59 (1959) 132-161, ripreso in ID., Les voies du Dieu
vivant. Théologie et vie spirituelle, Paris 1962, pp. 79-107.
244 Sent. HI, d. 1, q. 1, a. 2; questo tema di una progressiva assuefazione
alle realtà divine a partire da ciò che l’essere umano può sperimentare è familiare a
Tommaso, lo si ritrova nel De rationibus fidei dove un capitolo è dedicato ai
motivi dell’incarnazione (c. 5, n. 976, Leon., t. 40, p. B 62): «Siccome l’uomo ha
un’intelligenza e un’affettività immerse nella materia, non poteva facilmente
128
p-

Senza il riferimento liturgico, il tema riappare un’ultima volta


nella Somma di teologia. Esso ha indubbiamente un po’ meno
rilievo, poiché la preoccupazione di sintesi che anima quest’opera ha
spinto Tommaso a raggruppare due imponenti serie di ragioni di
convenienza, complementari, in cui sembra aver avuto a cuore di
non omettere niente di quanto si poteva dire a tale proposito. Con un
accento leggermente diverso, il tema resta tuttavia ben presente, a
patto che il lettore gli ridia tutte le sue risonanze a partire da ciò che
conosce delle altre opere:
«La quinta ragione si riferisce alla nostra piena partecipazione
alla divinità, che costituisce la beatitudine dell’uomo e il fine
stesso della vita umana. E questo ci viene conferito attraverso
l’umanità di Cristo. Infatti, dice Agostino: “Dio si è fatto
uomo, perché l’uomo diventasse Lio” (Factus est Deus homo,
ut homo fìeret Deus)»245.
Se il nostro autore non manifesta qui niente di originale, in
quanto la parte finale di questo testo è un bene comune della
patristica, risalta Bene invece la menzione della beatitudine, che è un
tema molto più per- Jònale in questo contesto. In confronto a una
motivazione troppo stretta- pnente antropocentrica dell’incarnazione
a causa del peccato dell’uomo, la differenza risiede evidentemente
nel desiderio di vedere Dio che costituisce il vuoto lasciato in lui dal
suo Creatore. L’amore di Dio per l’uomo non si limita a ristabilire
solo in giustizia l’equilibrio distrutto dal peccato, esso desidera
ancora di più la riuscita del suo piano di salvezza. Per questo
l’incarnazione è considerata come una manuductio 246, un prendere
elevarsi alle realtà superiori. È facile all’essere umano conoscere e amare un altro
essere utrià no, ma non è dato a tutti di contemplare la sublimità divina e portarsi
verso di essa con lo slancio di un amore purificato; vi giungono, con l’aiuto di Dio,
con grande sforzo e impegno, solo coloro che si distolgono dalle cose corporee per
elevarsi a quelle spirituali. Perciò, è per aprire a tutti una via di facile accesso verso
Dio che Dio volle diventare uomo, affinché anche i piccoli potessero
contemplare e amdte qualcuno che fosse, per così dire, simile a loro ; così,
mediante ciò che potevano cap: re, essi progredivano a poco a poco verso ciò che è
perfetto».
245 III, q. 1, a. 2; si tratta qui di un apocrifo di sant’Agostino (cf.
Sermone 128: PL 39, 1997). Le quattro ragioni precedenti di questa serie di
convenienze, che riguardano il «nostro progresso nel bene», considerano
successivamente il profitto che ne deriva per la nostra fede, la nostra speranza, la
nostra carità e la nostra pratica della virtù; la beatitudine appare quindi come il
termine di un cammino percorso secondo tutte le virtù della vita cristiana.
246II-II, q. 82, a. 3 ad 2: l’umanità di Cristo costituisce una pedagogia molto
129
p-

per mano l’uomo per condurlo sul cammino di Dio. È proprio questa
la «via nuova e vivente» di cui parla la lettera agli Ebrei (10,20):
«(L’Apostolo) mostra come abbiamo fiducia di avvicinarci,
perché Cristo con il suo sangue ha inaugurato (initiauit), cioè
cominciato (inchoauit), per noi una via nuova.... Questa è
quindi la via che conduce al cielo. Essa è nuova, perchè prima
di Cristo, nessuno l’aveva trovata: “Nessu-
no sale al cielo, se non colui che discende dal cielo” (Gv 3,
13). Perciò colui che\ vuole salire deve attaccarsi a lui come un
membro alla sua testa... E vivente, cioè dura sempre, dato che
in essa si manifesta la fecondità (uirtus) della deità che vive
sempre. Quale sia questa via, l’Apostolo lo precisa quando
continua: “attraverso il velo, cioè la sua carne”. Come il gran
sacerdote entrava nel Santo dei santi oltre il velo, così se noi
vogliamo entrare nel santuario della gloria, dobbiamo passare
per la carne di Cristo, che fu il velo della sua divinità. “Tu sei
veramente un Dio nascosto!” (Is 45, 15). Non è sufficiente
credere in Dio se non sì crede nell’incarnazione»21.
Senza averla mai veramente abbandonata, visto che affiora in
numerosi testi sopra riportati, la tematica esplicita del cammino
rivela ancora una volta la sua importanza. Come il desiderio della
beatitudine, essa attraversa da parte a parte l’opera di Tommaso.
Meglio ancora, ritroviamo in questo contesto il movimento circolare
di cui abbiamo già visto la fecondità. Questo testo è già stato citato
in parte, ma non bisogna temere la ripetizione, poiché mette in luce il
carattere centrale dell’intuizione:
«(Con l’incarnazione) l’uomo riceve un esempio eccellente di
questa felice unione mediante la quale l’intelletto creato sarà
unito con la sua intelligenza all’intelletto increato. Dal
momento in cui Dio si è unito all’uomo assumendo la sua
natura, non è più ormai incredibile che l’intelletto creato possa
essere unito a Dio vedendo la sua essenza. È così che termina
in qualche modo l’insieme dell’opera di Dio, allorquando
l’uomo, creato per ultimo, ritorna al suo princìpio con una
specie di cerchio, ricongiungendosi al principio stesso delle
cose tramite l’opera dell’incarnazione» 247 248.

adatta per condurre alla sua divinità.


247 In ad Hebraeos 10, 20, lect. 2, n. 502.
248 Compendiata theologiae I 201.
130
Questa piccola scelta di testi potrebbe essere
considerevolmente arricchita. Così come è, dovrebbe essere
sufficiente a dissipare i timori suscitati dal fatto che la trattazione del
mistero di Cristo si trovi alla fine del piano della Somma. Il
teocentrismo di fra Tommaso non respinge Cristo ai margini. Egli si
trova esattamente nel posto in cui deve stare: nel pieno centro della
nostra storia, nel punto di congiunzione tra Dio e l’uomo. Non come
un centro statico, ma come cammino che sale verso la patria celeste,
come «capo della nostra fede e suo perfe-:
zionatore» (Eh 12, 2), che ci trascina al suo seguito con la forza
irresistibile che anima la sua propria umanità verso il Padre 249,

IMITARE DIO IMITANDO CRISTO

La sera dell’ultima cena, «sapendo che era venuto da Dio e a


Dio ritornava», Gesù dà un ultimo segno di ciò che attende dai suoi,
con la lavanda dei piedi (Gv 13, 3). Tommaso non ha più bisogno di
insistere ;) nel suo commento sulla perfetta «circolarità» che esprime
questo versetto; si impegna piuttosto a mettere in rilievo ciò che
deriva dall’atteggiamento di Cristo:

«(Questa scena mostra varie cose), la quarta riguarda la


santità di Cristo, perché tornava a Dio. Infatti la santità
dell’uomo consiste nel tornare a Dio. Per questo, egli (Gesù)
dirà ben presto: poiché va egli stesso verso Dio, gli tocca
condurre anche gli altri a Dio. E questo lo compie
specialmente con l’umiltà e con la carità. Per questo volle dare
loro un esempio di umiltà e carità»250.

Non si potrebbe trovare migliore transizione per il nostro


scopo. Quando Tommaso parla dell’esempio di Cristo, non pensa
alla statica riproduzione di un modello fisso ma, come nel caso
dell’immagine in via di somiglianza, lo concepisce come un
249 Rinviamo qui al commento di Gv 6, 44: «Nessuno viene a me se il Padre
mio non lo attira», in cui Tommaso spiega che «coloro che seguono Cristo... sono
attirati dal Padre», senza violenza, poiché si tratta della realizzazione del loro
desiderio: In loannem 6,44, nn. 935ss.; si può consultare la bella ricerca di R.
LAFONTAINE, ita personne du Père dans la pensée de saint Thomas, in ID. e
AL., L’Écriture âme de la théologie («Institut d’études théologiques 9»),
Bruxelles 1990, pp. 81-108.
250I« loannem 13, 3, lect. 1, n. 1743.
131
cammino: imitare Cristo significa camminare alla sua sequela.
Ormai, troveremo questi due atteggiamenti costantemente legati tra
di essi e anche con un terzo: "seguire Cristo significa apprendere a
seguire il Padre.
Tutto questo è disseminato e strettamente amalgamato in
numerosissimi testi, e noi non abbiamo altra difficoltà qui se non
quella dei- ila scelta e della disposizione ordinata 251. Cosa che non è
peraltro senza significato poiché mostra l’onnipresenza di queste
idee nell’opera del Maestro d’Aquino. I testi tratti dai commenti del
Nuovo Testamento sono naturalmente più numerosi e più espliciti,
ma non vi faremo riferimento se non per prolungare quanto
apprendiamo dalle opere di sintesi. Infatti, è molto importante vedere
come il richiamo all’esempio di Cristo non dipenda soltanto
dall’esortazione morale. Esso è profondamente inserito nella
struttura stessa della teologia di fra Tommaso e costui ha due modi
ben precisi per evidenziarne i fondamenti.
Dopo tutto ciò che abbiamo detto non si sarà sorpresi se è ancora a
proposito delle convenienze dell’incarnazione che troviamo il primo
modo di fondare l’esemplarità eristica. Così nella Somma contro i
Gentili, dopo aver precisato che la venuta del Verbo nella carne
corrisponde alla necessità di aprirci un accesso alla beatitudine,
Tommaso aggiunge, » in attinenza diretta col nostro proposito, ancora
quanto segue:
«La beatitudine è il premio della virtù. Quindi è necessario che
coloro che tendono alla beatitudine si esercitino nella virtù, alla
quale siamo J provocati e dalle parole e dagli esempi. Ora, gli
!

esempi e le parole di una persona ci inducono tanto più


efficacemente alla pratica della js virtù, quanto più si ha
uriopinione solidamente fondata della sua bontà. Ma di nessun
uomo, semplicemente uomo, è possibile farsi un’opinione infallibile
della sua virtù, poiché anche gli uomini più san- '
ti mancano in qualche cosa. Affinché l'uomo fosse stabile
nella virtù, era quindi necessario che ricevesse da un Dio fatto uomo
l’insegnamento e gli esempi della virtù. Ecco perché lo stesso Signore
afferma in san Giovanni (13, 15): Vi ho dato l’esempio, affinché
come ho fatto io, facciate anche voi»32. ,

251 Si troverà l’insieme dei testi classificati secondo le opere nello studio
di A. VAISECCHI. L’imitazione di Cristo in san Tommaso d‘Aquino, in
Miscellanea Carlo Figini, G. COLOMBO - A. RIMORDI - A. VALSECCHI (eddj,
Venegono Inferiore 1964
132
In maniera più breve ma altrettanto chiara, ritroviamo lo stesso
percorso nella Somma di teologia. In questa però si riscontra anche un
accento un po’ nuovo, dato che l’autore vi combina l’imitazione del T
Padre con quella di Gesù Cristo:
«[Come già sappiamo, si possono citare varie ragioni
dell’incarnazio- ne] dal punto di vista del nostro progresso nel
bene... La quarta consiste nel fatto che essa ci offre un modello per la
pratica della virtù. Per ;| questo, come dice sant’Agostino: “Occorreva
imitare non l’uomo che

pp. 175-203; l’autore si sorprende giustamente che si sia potuto lasciar credere che
san Tommaso non conosceva il tema dell’imitazione di Cristo.
32
SCGIV 54, n. 3928.
potevamo vedere, ma era necessario imitare Dio che non
potevamo vedere”. Quindi è per offrire all’uomo un esempio
che si potesse vedere e imitare, che Dio si è fatto uomo»252.
Questi due testi rappresentano quindi una spiegazione del
primo modo in cui Tommaso fonda il valore esemplare dell’umanità
di Cristo. Tuttavia, il secondo testo ci orienta già verso un altro modo
di stabilirla, certamente più profondo, perché ci rinvia direttamente
alla dottrina della Trinità e dei suoi rapporti con il mondo. Per evitare
di comprenderlo a metà e per ben inserirlo nel modo di procedere
d’insieme, occorre riunirlo a un passaggio-chiave della Prima
Secundae, in cui si vede meglio che, se Tommaso non perde di vista
il Padre come ultimo fmodello di perfezione, egli si mostra anche
attento ad indicare i mezzi per giungervi, ancor prima di parlare più
esplicitamente del ruolo svolto da Cristo. Questo passaggio è molto
caratteristico, perché in esso Tautore allega l’autorità della Sacra
Scrittura a quella dei suoi autori di riferimento: Agostino e anche
Aristotele. Vale la pena osservare ciò in quanto è caratteristico sia di
un metodo che vuole beneficiare della sapienza degli Antichi sia di
una volontà di combinare inseparabilmente la ricerca dell’uomo alla
premura di Dio nei suoi confronti:
«Come afferma sant’Agostino, “è necessario che l’anima segua
un modello affinché la virtù possa formarsi in essa; questo
modello è Dio; se
252 III, q. 1, a. 2, con citazione del Sermone 311, 2: PL 39, 1024; il
tema ritorna più implicitamente nel Compendium theologiae I, 201: Leon., t. 42,
158.
133
10 seguiamo, vivremo bene”. Quindi è evidente che il modello
della virtù umana preesiste in Dio, come in lui preesistono
anche le ragioni di tutte le cose (...). Compete all’uomo
avvicinarsi a Dio per quanto è possibile, come dice anche il
Filosofo e come ci è raccomandato nella Sacra Scrittura in vari
modi: Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto (Mt
5, 48)»253.
11 riferimento ultimo al Padre è messo innanzi con forza; è
indubbio che resta in primo piano 254. Ma occorre osservare anche
quanto

253 I-II, q. 61, a. 5; con citazione di SANT’AGOSTINO, De moribus


ecclesiae, c. 6, nn. 9-10.
33
254 Cf. In ad Ephesios V, 1, lect. 1, n, 267: «La natura umana non trova la
sua perfezione se non nell’unione con Dio... E necessario quindi imitarlo per quanto è
possibile, poiché compete al figlio imitare suo padre (ad filium pertinet patrem
imi-
134
questo articolo è posto sotto il segno del divenire. Contrariamente
alla mediocrità, spesso associata all’idea del giusto mezzo, con la
quale volentieri si caratterizza la virtù, Tommaso distingue tra virtù
umane e virtù divine «così come si distingue tra il movimento e il suo
termine»:
«Da un lato alcune sono le virtù di coloro che sono in cammino
e tendono verso la somiglianza divina: sono queste le virtù che
chiamiamo “purificanti” (...). D’altro canto vi sono le virtù di
coloro che hanno già raggiunto la somiglianza divina: le
chiamiamo virtù dell ¡mima già purificata. Esse sono tali che la
prudenza non vede altro che il divino; che la temperanza non sa
più niente della cupidigia terrena;5 che la forza ignora le
passioni; che la giustizia fa costantemente lega con
l’intelligenza divina tramite il suo impegno nell’imitarla.
Diciamo che queste virtù sono quelle dei beati, o di coloro che
in questa vita sono molto avanzati nella perfezione».
Nella sua ripetitiva insistenza, questo testo rivela un non so che
di scottante che va ben oltre la sua precisione tecnica. Se ci rinvia
contemporaneamente ai temi sviluppati a proposito della creazione;
dell’immagine di Dio e del progresso, che dominano la riflessione
tomistica, esso è anche sollevato dall’ardente desiderio del Bene che
è al di là di ogni bene. Ma per noi il suo immediato interesse risiede
nel rinvio all’Esemplare divino di tutte le cose, che abbiamo trovato
nella prima parte del testo. Se Tommaso vede in Cristo l’esemplare
di tutte le virtù, è perché costui è il Verbo incarnato che, nella sua
eternità, già presiede alla creazione di tutte le cose. Un altro
passaggio capitale, la etri analogia di struttura con questo testo è
sorprendente, precisa ciò con maggiore chiarezza:
«Il primo principio dell’intera processione delle cose è il Figlio
di Dio: “Per mezzo di lui tutto è stato creato” (Gv 1, 3). Per
questo egli è anche il Modello originale (primordiale exemplar)
che tutte le creature imitano. come la vera e perfetta immagine
del Padre. Da qui l’espressione della lettera ai Colossesi (1,
15): “Egli è immagine del Dio invisibile, il Primogenito di tutta
la creazione, poiché in lui sono state create tutte le' cose”. In
un modo speciale è anche il modello (exemplar) di tutte le groß
tari)... Noi siamo suoi figli, perché egli è nostro Padre mediante la
creazione.. prediletti perché ci ha scelti per partecipare alla sua propria
vita» (letteralinenie, «per partecipare di lui», ad participationem sui
ipsius).
zie spirituali di cui risplendono le creature spirituali, secondo
quanto è detto al Figlio nel salmo (109, 3): “Dal seno
dell’aurora oggi io ti ho generato nello splendore dei santi”.
Poiché è stato generato prima di ogni creatura con grazia
risplendente, egli possiede in lui in modo esemplare
(exemplariter) gli splendori di tutti i santi. Tuttavia tale
modello divino era molto lontano da noi... Perciò è voluto
diventare uomo per offrire agli uomini un modello umano»i(>.

Il commentatore continua con alcuni esempi di applicazioni


concrete che per il momento possiamo lasciare da parte. E più
importante ¡notare come, a partire da un tale testo, si apra una duplice
pista alla meditazione e alla contemplazione. La prima, che considera
le cose dal punto di vista di Dio, si inserisce sotto ogni aspetto
nell’immediato pro- Slungamento di tanti testi già letti: è quella
dell’ésemplarismo ontologico. In termini più scritturistici, diciamo
che in essa è messo l’accento sulla creatura nuova plasmata da Dio a
immagine dell’Immagine. Essa impiega l’insegnamento così frequente
in san Paolo secondo cui siamo interiormente modellati, «ri-formati»
a immagine del Figlio prediletto me- diante la grazia di cui è il
mediatore: «Quelli che da sempre ha conosciuto li ha anche
predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché
egli sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29). Molto presente e
di una grande fecondità nell’opera tomasiana, questo tema
relativamente complesso sarà trattato nel capitolo seguente.
La pista dell’ esemplarismo morale è più immediatamente
evidente, ma in realtà è seconda in rapporto alla precedente.
Anch’essa prosegue lo slancio abbozzato in numerosi luoghi già
citati: l’incarnazione del Verbo permette di offrire all’uomo-immagine
un modello accessibile che gli insegna a conformarsi all’inaccessibile
modello originale che ¡tuttavia ha presieduto alla sua creazione. L
accento qui è messo sul Cristo, incarnazione vivente delle virtù
evangeliche, e sullo sforzo dell’uomo che collabora con Dio mediante
la grazia ricevuta. Piuttosto omiletico, questo tema è
abbondantemente presente nei commenti scritturistici, ma è lungi
dall’essere assente nelle altre opere. 255

255 In ad I Cor. 11,1 n. 583; la stessa argomentazione si ritrova nel De


rationi- bus fide: 5. n. 973 (Leon., t. 40, p. B 61): essendo state create tutte le cose per
mezzo del Verbo, era conveniente che esse fossero anche restaurate da lui; vedere
anche qui sotto il commento di Gv 13,15.
135
Vi HO DATO L’ESEMPIO. ..

Il fatto che Cristo rappresenti il modello assoluto della vita


cristiana è evidentemente sufficiente a spiegare l’insistenza di
Tommaso su questo punto. Noi, tuttavia, comprenderemo meglio le
sue ragioni se rileggiamo la sua meditazione sulla lavanda dei piedi.
Come un vero maestro spirituale, Tommaso non teme di insistere
sull’aspetto pratico:
«(Cristo Gesù) ha dunque detto: Ho fatto questo per darvi i\
sempio, perciò dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri: era
appunto questa lag mia intenzione nel compierlo. Infatti,
nell’agire degli uomini, gli esempi sono più efficaci delle
parole (plus mouent exempla quam uerba). L’uomo agisce e
sceglie secondo ciò che gli sembra buono; quindi per il fatto
stesso che sceglie questo o quello mostra ciò che gli sembra
buono, molto di più che se dicesse che bisogna sceglierlo. Ne
consegue che se si dice qualcosa mentre se ne fa un’altra, ciò
che si fa persuade gli altri molto di più di ciò che si dice.
Perciò è necessario aggiungere l’e-- sempio alla parola.
Ma l’esempio di un uomo, di un semplice uomo, non era
sufficiente per spingere all’imitazione l’intero genere umano,
sia perché la ragioni umana è incapace di concepire tutto
[della vita o del bene], sia perché essa si sbaglia nella
considerazione delle cose stesse. Perciò ci è stato dato
l’esempio del Piglio di Dio che non può sbagliarsi ed è più che
sufficiente in tutti i campi. Se sant’Agostino afferma che
“l’orgoglio non può essere guarito se non dall’umiltà divina”,
lo stesso vale per l’avarizia e gli altri vizi.
Ben riflettendo, era molto “conveniente” che il Piglio di Dio
ci fosse dato come esempio di tutte le virtù. Egli infatti è l’Arte
del Padre e dunque, come è stato l’esemplare archetipo della
creazione, cost e l’esemplare archetipo della santità (1 Pt 2,
21): “Cristo ha sofferto per noi, lasciando a voi l’esempio
perché seguiate le sue orme”...»256.
Plus mouent exempla quam uerba. Il tono è dato. Questa
formula della Lectura super Ioannem, Tommaso la conosce da
molto tempo, dato che la si può già leggere tra i motivi
dell’incarnazione raggruppati nella Contra Gentiles257, e l’ha ripresa

256 In Ioannem 13,15, lect. 3, n. 1781.


257 SCG IV 55, nn. 3950-3951: «Non è inconveniente affermare che
Cristo ha voluto soffrire la morte di croce per darci un esempio di umiltà. [Si
136
Vi HO DATO L’ESEMPIO. ..

testualmente nella Somma di teo-

tratta senz’altro di una virtù che non conviene a Dio, ma nella sua umanità il
Verbo poteva assumerla]. Sebbene gli uomini avrebbero potuto essere formati
all’umiltà
137
logia con un significativo richiamo all’esperienza comune 39.
Indubbiamente si tratta qui di una acquisizione comune della
sapienza umana, ma sarebbe forse avventurarsi troppo il pensare
all’eredità domenicana del nostro Dottore, dato che si dice di san
Domenico che predicava tanto con l’esempio che con la parola
(nerbo et exemplo)40.
L’esemplarità di Cristo e del suo agire per l’intera vita cristiana si
ritrova in numerose opere, in modo particolare negli opuscoli scritti in
difesa della vita religiosa. Di questo però ne tratteremo in un altro
contesto, quando parleremo della sequela di Cristo nella vita religiosa.
Si ¡“3 potranno così spigolare nella Seconda Parte della Somma un
insieme di testi che mostrano bene come Tommaso non la perde mai di
vista. Ma poiché questo lavoro è stato già fatto41, e bene, sarà più
fecondo seguire lo svolgimento della Terza Parte per reperirvi alcune
delle menzioni ripetute sulle virtù illustrate da Cristo e proposte
all’imitazione dei suoi, fi Così, nel prolungamento delle ragioni
dell’incarnazione, Tommaso spie ga che era conveniente che Cristo
assumesse un corpo passibile, «per darci un esempio di pazienza,
sopportando con coraggio le sofferenze e i limiti umani» 42. Al
contrario, egli non volle assumere il peccato, poiché li in questo non
avrebbe potuto dare né esempio di umanità - visto che il peccato non
appartiene alla definizione della natura umana -, né esempio di virtù,
dato che il peccato le è contrario43. In compenso, se ha

IÈ: dall’insegnamento divino..., i fatti provocano all’azione più delle parole {ad agenti
dum magis prouocant facta quam uerba), e questo tanto più efficacemente in
quanto Itila reputazione di virtù di colui che agisce risulta così meglio affermata. Così,
pur trovando presso gli altri uomini numerosi esempi di umiltà, era convenientissimo p,
essere sollecitati dall’esempio dfell’Uomo-Dio, di cui si sa che non ha potuto sbagliarsi e
la cui umiltà è tanto più mirabile, quanto la sua maestà era più sublime»; y®cf. le note
di P. Marc (ed. Marietti della SCG) su questo passaggio, che indicano gli antecedenti
classici e patristici.
39
I-II, q. 34, a. 1: «Nel campo delle azioni e delle passioni umane, in cui
IJl’esperienza della maggior parte conta molto, magis mouent exempla quam
uerba».
40
Cf. M.-H. VlCAntE, Histoire de saint Dominique, t. I, Paris 1982, p.
279 1 [tradotto in italiano].
41
Cf. A. VALSECCHI, L’imitazione di Cristo, pp. 194-198; lo stesso autore
ha 1 [ricollocato l’insegnamento di Tommaso nel più ampio contesto della tradizione |
Iscritturistica e patristica in un illuminante articolo: Gesù Cristo nostra legge, «La
Scuola Cattolica» 88 (1960) 81-110; 161-190, in cui mostra anche che molte di queste
idee, appartenenti al patrimonio comune del pensiero cristiano, si ritrovano pure in
altri autori e particolarmente in san Bonaventura.
42
III, q. 14, a. 1: «propter exemplum patientiae quod nobis exhibet
138
passio- 1 nes et defectus humanos fortiter tolerando».
43
III, q. 15, a. 1.
voluto pregare, lo ha fatto proprio per esortarci alla preghiera
fiduciosa e continua 258; se ha accettato di sottomettersi alla
circoncisione e agli altri precetti della legge, lo ha fatto per darci un
esempio vivente di umiltà e di obbedienza 259 ; come pure, il suo
battesimo ci incita con l’esempio a ricevere a nostra volta il
battesimo260.
Ogni evento della vita di Gesù (digiuno, tentazioni, vita tra la
folla) dà luogo a simili osservazioni; cosicché Tommaso può
riassumere: «Per il modo in cui ha vissuto (conuersatio), il Signore
ha dato a tutti l’esempio della perfezione in tutto ciò che di per sé
appartiene alla salvezza»261. Meglio ancora, egli usa questa formula
sorprendente: «L’agire di Cristo fu nostro insegnamento (Christi
actio fuit nostra instruc- tio)» 262. Sotto una forma leggermente
diversa secondo i contesti, questo assioma, che Tommaso riceve da
Cassiodoro tramite Pietro Lombardo, ricorre diciassette volte nella
sua opera 263. Anche se si preoccupa di sottolineare che non accade
esattamente la stessa cosa nel caso di Cri-; sto e nel nostro, e che è
necessario leggere questa asserzione alla luce della vera fede per ben
comprenderla, egli non ne contesta mai la verità fondamentale, e tale
frequenza è molto significativa della sua; volontà di considerare
seriamente l’agire concreto di Cristo tanto quanto il suo
insegnamento.
Questo valore esemplare dell’agire di Cristo culmina, è
evidente, negli ultimi giorni della sua vita terrena. Alla domanda se
c’era un mezzo più appropriato della passione per liberare il genere
umano, Tommaso risponde secondo il suo uso con tutta una serie di

258III, q. 21, a. 3.
259 III, q. 37, a. 4.
260III, q. 39, a. 2 ad 1; c£, a. 1 et, a. 3 ad3: Christusproponebatur hominibus in
exemplum omnium.
261 III, q. 40, a. 2 adì.
262 III, q. 40, a.l ad 3.
263 Si vedrà a tal proposito lo studio preciso e suggestivo di R. SCHENK,
«Omnis Christi actio nostra est instructio». The Deeds and Sayings of
Jesus as Reve- lation in thè View of Thomas Aquinas, in La doctrine de la
révélation divine, ST 37. 1990, pp. 103-131. L’uso della formula è più frequente
nelle Sentenze che nella. Somma (unica occorrenza quella citata qui sopra), ma si
ritrova in vari altri luoghi (cf. Schenk, p. Ili, n. 51). Nel sermone Puer lesus (Busa,
t. 6, p. 33a) si trova una formula equivalente: Cuneta quae Lominus fecit uel in
carne passus est, documenta et exempla sunt salutaria.
139
convenienze. In primo luogo, e questa priorità è significativa, la
passione mostra all’uomo «quanto Dio l’ami, sollecitandolo a
riamarlo: e in ciò consiste la
perfezione della salvezza». Ma, in secondo luogo, Cristo ci ha dato
con la sua passione «un esempio di obbedienza, di umiltà, di
costanza, di giustizia e di altre virtù in essa manifestate, che pure
sono indispensabili per la salvezza dell’uomo. Perciò san Pietro
scriveva (1 Pt 2, 21): Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un
esempio, perché seguissimo le sue orme»264.
Queste brevi annotazioni della Somma sono indubbiamente
sufficienti ad assicurarci che l’esemplarismo cristico è
incessantemente presente nella riflessione di Maestro Tommaso,
tuttavia non lasciano trasparire abbastanza l’emozione che può
animarlo quando ne parla nei suoi corsi o nella sua predicazione.
Sarà piacevole quindi leggere l’una o l’altra di queste pagine; al
commento della lavanda dei piedi che sottolineava l’umiltà di Cristo,
aggiungeremo il seguente passaggio che parla dell’amore che
ispirava la sua obbedienza:
«L’osservanza dei comandamenti è un effetto della divina
carità. Non solo di quella mediante cui noi amiamo, ma anche
di quella con la quale (Gesù) ci ha amato. Per il fatto stesso
che ci ama, egli ci incita e ci aiuta ad osservare i suoi
comandamenti, il che non può avvenire se non per grazia. In
questo consiste il suo amore: non siamo noi che abbiamo
amato Dio, è lui che ci ha amati per primo (1 Gv 4, 10).
A ciò egli aggiunge l’esempio dicendo: Come io stesso ho
osservato i comandamenti del Padre mio. Infatti, come l'amore
con cui il Padre lo ama è il modello dell’amore con cui ci ama,
così ha voluto che la sua obbedienza fosse il modello della
nostra. Cristo mostra così che egli dimora nell’amore del
Padre perché osserva i suoi comandamenti in tutte le cose.
Infatti è giunto fino alla morte (Pii 2, 8): Egli si è fatto
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce; si è astenuto
dal peccato fi Pt 2, 22): Non ha commesso peccato, e non si è
trovato inganno sulla sua bocca. Occorre comprendere questo
di Cristo secondo la sua umanità (Gv 8, 29): Non mi lascia mai
solo, poiché faccio sempre ciò che gli piace. Per questo può
dire: Io resto nel suo amore perché non vi è niente in me
(sempre secondo la sua umanità) che sia contrario al suo

264IH, q. 46, a. 3; altre citazioni analoghe: ibid., a. 4; q. 50, a. 1; q. 51, a.


1, ecc.
140
amore»265.
Lo si capisce facilmente che testi come il precedente sono
molto significativi per illustrare una teologia che vuole essere
ispiratrice della vita cristiana. Senza insistervi ulteriormente,
concluderemo questa evo-
cazione citando un passaggio tratto dalla predicazione sul Credo in
cui troviamo questa bellissima meditazione sul senso della croce:
«Come afferma il beato Agostino, la passione di Cristo è
sufficiente per istruirci in maniera completa sul nostro modo di
vivere. Chiunque vuole condurre una vita perfetta non ha
nient’altro da fare che disprez- tare ciò che Cristo ha
disprezzato sulla croce e desiderare ciò che ha desiderato.
Non esiste infatti un solo esempio di virtù che la croce non ci
dia. ('.crei: i un esempio di carità? "Non vi è più grande amore
che dare la prò- s pria vita per coloro che si ama”. E Cristo lo
ha fatto sulla croce...
Cerchi un esempio di pazienza? Il più perfetto si trova sulla
croce... Un esempio di umiltà? Guarda il Crocifisso. Un esempio
di obbedienza? Segui colui che si è fatto obbediente al Padre
fino alla morte... Urte esempio di disprezzo delle cose terrene?
Cammina dietro colui che è il Signore dei Signori e il Re dei Re,
in cui si trovano tutti i tesori della sapienza e che tuttavia, sulla
croce, appare nudo, oggetto di derisione,% schernito, colpito,
incoronato di spine, abbeverato di fiele e di aceto, messo a
morte»266.
Bisogna ammettere che questi accenti appassionati non
traspaiono molto nelle opere erudite. E un peccato che le altre opere
siano così poco conosciute dato che in esse si scopre un altro aspetto
del genio db fra Tommaso. Ciononostante, essi non sono passati
inosservati a tutti i lettori, e qualcuno come Louis Chardon ha tratto
beneficio da quesiti passaggi in cui traspare l’amore alla croce del
frate domenicano267. Ne dovremo riparlare un po’ più avanti quando

265 In Ioannem 15,10, lect. 2, nn. 2002-2003.


266 In Symbolum 4, nn. 919-924; questo passaggio potrebbe essere
stato ispirato molto lontanamente da sant’Agostino, Enarrano in Ps. 61, 22: PL 36,
745-746, ma la formulazione sembra essere propria di Tommaso. Si può vedere anche
Enar ratio in Ps. 48, ser. 1, 11: PL 35, 551, ma se l’ispirazione agostiniana del
commento di Tommaso su Giovanni è evidente, non abbiamo però saputo trovare dei
paralleli per questo slancio tomasiano; cf. Ili, q. 46, a. 3 ad 2, cit. sopra, n. 50.
267 Cf. L. CHARDON, La croix de Jésus, Introduzione, pp. XCVI-CV; cf.
anche D. BOUTHILLIER, Le Christ en son mystère dans les collationes du super Isaiam
141
tratteremo dei percorsi verso Dio che egli propone ai suoi discepoli.
Tommaso però non si ferma qui nella sua considerazione del
mistero di Cristo. Dopo la passione e la croce, vengono
evidentemente la risurrezione, l’ascensione e l’esaltazione di Cristo
alla destra dèli
Padre. L’approccio sarà diverso e lo vedremo ben presto, ma occorre
già sapere che Tommaso non lascia niente da parte della Pasqua di
Cristo. In questo è fedele al programma che si è fissato nel suo
studio: tenere conto di tutto ciò che Cristo ha fatto e sofferto per noi
{acta et passa Christiin carne)268.

LA PATRIA E LA VIA

Poiché questo capitolo è posto principalmente sotto il segno


della via, ameremmo concluderlo con una lettura delle spiegazioni
sul Vangelo di Giovanni che considera Cristo come la porta, poi
come via mediante la quale occorre che passiamo per raggiungere il
Padre. Parafrasi e ampie citazioni permetteranno di farci un’idea più
completa dello stile di Tommaso commentatore della Sacra Scrittura.
Datata alla fine della sua vita 269, la Lectura super loannem offre uno
degli esempi più completi dell’esegesi teologica così come Tommaso
la praticava270.
A proposito della porta che introduce nell’ovile (Gv 10),
Tommaso, in un primo tempo, ricorda con una certa compiacenza
l’esegesi di san Giovanni Crisostomo secondo il quale tale porta sono
le Sacre Scritture. Tramite queste infatti, noi accediamo innanzitutto
alla conoscenza di Dio; inoltre, come la porta protegge coloro che
sono all’interno, così le Sacre Scritture conservano i fedeli in vita;
infine, come la porta non permette al lupo di entrare, così le Sacre
Scritture mettono i fedeli al sicuro e al riparo dai danni che
recherebbero loro gli eretici. Non si entra quindi per la giusta porta se

de saint Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 37-64.


268 Cf. Ili, Prol.; q. 27 Prole, q. 48, a. 6: «omnes actiones et
passiones Christi instrumentaliter operantur in uirtute diuinitatis ad saluterà
humanam».
269 Probabilmente 1270-1272, cf. Tommaso d’Aquino. L’uomo e
il teologo, pp. 224-228.
270 Rinviamo alla «Prefazione» di M.-D. PHILIPPE in Saint
Thomas d’Aquin, Commentaire sur l’Évangile de saint Jean, Versailles-
Buxy, 1.1,19812, pp. 7-49.
142
si pretende di istruire i fedeli in maniera diversa dalla Sacra
Scrittura271. Tommaso non lo dice qui, ma la sua preoccupazione di
teologo glielo fa ripetere altrove: quando si parla di Dio, non ci si
allontani facilmente dalle parole della Sacra Scrittura 272.
Contro questa esegesi del Crisostomo vi è tuttavia l’esplicita
affermazione di Gesù: «Io sono la porta delle pecore». Il Crisostomo
certamente non l’ignorava, e Tommaso sulla sua scia osserva che
Cristo afferma pure di essere non solo la porta, ma il portinaio e anche
il pastore. Se dunque parla di lui in modo così diverso, niente
impedisce che la parola «porta» possa avere anch’essa due diverse
applicazioni: dopo Cristo, non potrebbe essere applicata più
giustamente se non alla Sacra Scrittura59. Eppure, Tommaso conosce
ancora un’altra esegesi:
«Secondo sant’Agostino 60, tuttavia, la parola porta si applica
innanzitutto a Cristo, poiché secondo /’Apocalisse (4, 1: Una
porta era aperta nel cielo), è tramite lui che si entra. Chiunque
quindi vuole entrare nell’ovile deve entrare per la porta,
Cristo, e non tramite un altro accesso. Perciò è necessario
osservare che sono sia le pecore sia il pastore che entrano
nell’ovile: le pecore per essere al riparo, il pastore per
proteggerle. Se dunque tu vuoi entrarvi come una pecora per
essere protetto, o come un pastore per proteggere le pecore,
occorre che tu acceda tramite Cristo porta e non per un’altra
via. [Dopo un lungo passaggio in cui Tommaso elenca le
caratteristiche dei cattivi pastori, egli conclude:] Infatti
bisogna sapere che, così come è impossibile essere5 protetti
come pecore se non si entra per la porta, così pure non è
possibile proteggere come pastori se non si entra per questa
stessa porta: Cristo (...). I pastori cattivi non passano per
questa porta, ma per quella dell’ambizione, del potere secolare
e della simonia; sono dei ladri e dei briganti (...). E siccome
Cristo, la porta, si è fatto piccolo con la sua umiltà, non
potranno entrare per essa se non coloro che imiteram no
l’umiltà di Cristo. Coloro che non entrano per essa, ma per
un’altra via, sono dei superbi che non imitano colui che
essendo Dio si è fatto uomo e non riconoscono la sua umiltà»
61
.
Il carattere indispensabile di Cristo emerge tanto chiaramente
da questo testo che non vi è bisogno di sottolinearlo ulteriormente.
271 In loannem 10,1, lect. 1, n. 1366.
272 Cf. Contra errores graecorum I, Leon., t. 40, p. A 72.
143
Ciò che occorre tuttavia osservare per inciso è forse il tono impiegato
qui dall’autore: l’esortazione morale si congiunge alla presentazione
dogmatica ed esegetica senza soluzione di continuità. Come per i testi
già citati, non si tratta di predicazione, ma vi siamo molto vicino.
Questo e

w
Ibid.n. 1367.
60
Cf. Omelìe sul Vangelo di San Giovanni, 45, 6 e 15:, NBA 24/1, pp. 899 e
913-915; BA 73 B, Paris 1989, pp. 55 e 83-85.
61
Ibid., n. 1368.
infatti quanto ci si aspettava dal Maestro che commentava la Bibbia:
doveva mettere in evidenza anche il senso spirituale della Sacra
Scrittura 273. Si comprende così quanto sia spiacevole l’ignoranza
ancora così diffusa di questa parte dell’opera di Tommaso. Se si vuole
avere qualche opportunità di scoprirlo come maestro di vita cristiana,
occorre imparare a frequentarlo anche in questi testi. Ciò sarà meglio
percepito leggendo il seguito:
«Se Cristo è la porta, ne deriva che per entrare nell’ovile egli
passa per se stesso. Certamente, ma è la caratteristica di
Cristo. Nessuno infatti può passare per la porta che conduce
alla beatitudine se non mediante la verità, perché la beatitudine
non è nient’'altro che la gioia della verità (gaudium de
ueritate). Ora, Cristo, nella sua divinità, s identifica alla verità;
perciò, nella sua umanità, entra per se stesso, cioè tramite la
verità che egli è in qualità di Dio. Noi, invece, non siamo la
verità, siamo soltanto dei figli della luce mediante la nostra
partecipazione alla luce vera e increata. Ver questo è
necessario che passiamo tramite la verità che è Cristo» 274.
Dello stesso stile, ma ancora più ampia, la spiegazione della
dichiarazione di Gesù: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno va
al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 6), offre a fra Tommaso
l’occasione di una pagina molto sorprendente:
«Cristo aveva già insegnato ai suoi molte cose circa il Padre e
il Figlio, ma essi ignoravano che è al Padre che Cristo andava
e che il Figlio era la via mediante la quale sarebbe andato.
Infatti è difficile andare al Padre. Niente di sorprendente se lo

273 Cf. Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 73-78.


274 Ibid., n. 1369; cf. J.C. SMITH, Christ as <ri?astor», «Ostium» et
«Agnus» in St. Thomas Aquinas, «Atigelicum» 56 (1979) 93-118.
144
ignoravano! Poiché, se Cristo nella sua umanità era a loro ben
noto, nella sua divinità lo conoscevano molto imperfettamente
(...).
Io sono la Via, la Verità, la Vita, risponde Gesù.
Simultaneamente, egli svela loro la strada e il termine della
strada (...). La strada, l’abbiamo visto, è Cristo. Ciò è
comprensibile dato che è tramite lui che accediamo al Padre
(Ef 2, 18)... Ma tale via non è lontana dal suo termine, lo tocca;
perciò Cristo aggiunge: la Verità e la Vita; egli è
contemporaneamente l’uña e l’altro: la via secondo la sua
umanità, il termine secondo la sua divinità (...).
Il termine di questa strada, è il fine dell’intero desiderio umano.
Infatti l'uomo desidera due cose al di sopra di tutto; una che gli
è pròpria: conoscere la verità, l’altra che condivide con tutto
ciò che esiste: restare nell’essere. Ora; Cristo è la via per
giungere alla verità poiché è la Verità...; è anche la via per
giungere alla vita perché è egli stesso la Vita (...). Così dunque
Cristo si è definito lui stesso come la via e il termine; egli è il
termine perché è di per se stesso tutto ciò che può essere
oggetto di desiderio: la Verità e la Vita.
Se allora cerchi la tua via, passa per Cristo: egli è il Cammino.
Isaia (30, 21) profetizzava: “E il cammino, seguitelo”. Come
dice sant’Agostino: “Passa dall’uomo per giungere a Dio”. “È
meglio zoppicare sulla strada che camminare speditamente
fuori strada”. Anche se non avanza velocemente, colui che
zoppica sul retto cammino si avvicina alla meta; colui che
invece cammina al di fuori della strada più corre e più se ne
allontana.
Se cerchi dove andare, legati a Cristo: egli è la Verità che tutti
noi; desideriamo raggiungere (...). Se cerchi dove riposarti,
aderisci a Cristo, perché egli è la Vita... Aderisci dunque a
Cristo se vuoi essere sicuro; non potrai infatti deviare perché
egli è la Via. Coloro che aderiscono a lui non camminano nel
deserto, ma su una strada ben tracciata. .. Inoltre, non potrai
essere ingannato perché lui è la Verità e insegna tutta la
verità... Né potrai essere perturbato perché lui è la Vita e dà la
vita... Sant’Agostino dice che, quando il Signore afferma: Io
sono la Via, la Verità e la Vita, è come se dicesse: Per dove
vuoi passare? Io sono la Via. Dove vuoi andare? Io sono la
Verità. Dove vuoi dimorare? Io sono la Vita» 275.

Per il frequentatore abituale di san Tommaso, il lirismo di


275 In loannem 14, 6, lect. 2-3, nn. 1865-1870; cf. P. DE COINTET,
«Attache-toi au Christ!». L’imitation du Christ dans la vie spirituelle selon S. Thomas
d’Aquin, «Sources» 12 (1989) 64-74.
145
questa pagina ha qualcosa di sorprendente e subito si sospetta una
forte ispirazione agostiniana, e anche la presenza di citazioni esplicite
non identificate nelle edizioni correnti. Fatta la verifica, l’influenza
agostiniana è reale, ma vi sono poche citazioni letterali 276. In modo
particolare, se
la costante opposizione tra la via e il termine, su cui Agostino si è
soffermato varie volte, costituisce certamente un debito di Tommaso
nei suoi confronti, in lui non si trova il ritornello: «Aderisci a Cristo»,
come neppure si trova letteralmente — sebbene l’idea sia presente -
l’opposizione cara al dottore di Ippona tra la Patria e la Via66. Si tratta
quindi piuttosto di reminiscenze che ritornano spontaneamente alla
mente di fra Tommaso, di cui è così penetrato che trasformano il suo
stile abituale. Colui che non conosciamo se non tramite il modo sobrio
e discreto delle grandi opere filosofiche o teologiche, si lascia
sorprendere nell’atto d’insegnare. Infatti il commento di san Giovanni
ci è pervenuto dagli appunti (reportationes) di Reginaldo da Piperno e
sembra proprio che qui si colga lo stile orale di Tommaso. L’insistente
ripetizione dell’esortazione Adhaere Christo potrebbe dunque rivelarci
qualcosa del suo animo di frate predicatore, e questa non sarebbe
l’acquisizione meno preziosa che potremmo ricavare dalla nostra
ricerca.

276 II passaggio più vicino è il Sermone 141, 4, 4: PL 38, 111 -Hit, da


cui solici tratte due citazioni lettetali: «Ambula per hominem, et peruenis ad Deum»;
«Melius est enim in uia claudicare, quam praeter uiam fortiter ambulare». Si può
vedere anche Tractatus in lam Ioannìs X, 1, SC 75, pp. 408-410; Lnarratio in
Ps. 66, 3, 5: PL 36, 807; ecc.; cf. lo studio di M.-F. BEKROUAKD, Saint Augustin et
U, mystère du Christ Chemin, Vérité et Vie. La méditation théologique du
Tractatus 69
146
in Iohannis Euangelium sur lo. 14 6, in Collectanea Augustiniana. Mélanges T.J. Van
Bavel, Louvain 1991, t. Il, pp. 431-449.
66
Si riconosce il bel titolo del libro di G. MADEC, La patrie et la voie. Le
Christ dans la vie et la pensée de saint Augustin («Jésus et Jésus-Christ 36», Paris
1989; cf. Agostino, Sermo 92, 3, 3: «Ipse est patria quo imus, ipse uia qua imus» (PL
38, 573); Sermo 123, 3, 3: «Deus Christus patria est quo imus: homo Christus uia est
qua imus» (PL 38, 685).

Ad immagine del Figlio primogenito

Considerando le cose dal punto di vista dell’uomo,


l’esemplarità'': morale di Cristo è il primo aspetto che si presenta alla
riflessione del teologo. Quando si tratta di vita cristiana, l’imitazione
di Cristo è davvero la via della salvezza. Ma guardando più da
vicino, questo primo approccio rivela subito la sua insufficienza. Lo
slittamento dalla morale;: al moralismo è cosa facile e frequente, e si
rischia di fare di Cristo un modello di umanità tra tanti altri che
hanno rappresentato il genere umano. Essi certamente onorano la
nostra specie, ma Cristo per un cristiano è molto più che un semplice
uomo.
San Tommaso nella Somma ci invita piuttosto a considerare le
cose dal punto di vista di Dio: è una prospettiva molto più vasta
quella che si apre allora allo sguardo del teologo. Infatti l’imitazione
di Cristo non è resa possibile se non tramite la grazia donataci e che
ci ha già; conformati a lui. Secondo una bella raffigurazione che si
trova sulla facciata nord del portale della cattedrale di Chartres, Dio
creando il primo uomo ha gli occhi fissi sul Nuovo Adamo ed è a sua
immagine che lo plasma. L’accento è messo ormai non più sullo
sforzo dell’uomo, ma sull’opera di Dio in lui.
Per esprimere ciò, dovremo fare appello ad alcune precisazioni
tecniche che rischiano di rendere più ardua la lettura di questo
capitolo. Ciononostante, non abbiamo creduto opportuno di dover
eludere queste difficoltà. Come si è già detto nelle prime pagine di

147
questo libro, è nel suo stesso rigore che la teologia del Maestro
d’Aquino è generatrice di vita spirituale. Perciò non ci si lascerà
scoraggiare allorquando la incontreremo per la prima volta mediante
espressioni quali: agente o strumento, causa efficiente o dispositiva.
Necessarie per esprimere esattamente ciò che è in causa, esse
introducono ad un pensiero teologico ricco e profondo che sarebbe
un peccato ignorare.
La riflessione di questo capitolo sarà guidata da un versetto di
san Paolo già incontrato, ma di cui non abbiamo ancora sfruttato le
potenzialità: «Quelli che egli (il Padre) da sempre ha conosciuto li ha
anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo,
perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» b E ciò che i teologi
esprimono in un linguaggio più tecnico quando dicono che la grazia è
una realtà «cristoconformante». Il termine parla da sé e la dottrina è
tanto semplice quanto bella. Essa mette in opera due grandi dati: Dio
solo è la fonte della grazia; questa però ci giunge tramite la
mediazione di Cristo e porta la sua impronta.

SOLO DIO DEIFICA

Il principio di base risiede dunque nel fatto che solo Dio può
dare la grazia. Il motivo è evidente. Se, in base alla descrizione che
ne dà la seconda lettera di Pietro (1, 4), la grazia è una
«partecipazione alla natura divina», è chiaro che Dio solo può
comunicarla. Fra Tommaso lo spiega con più precisione ma non dice
niente di più:
«Il dono della grazia sorpassa le capacità di ogni natura creata
dato che non è nient''altro che una certa partecipazione alla
natura divina che trascende ogni creatura. Perciò è impossibile
che una creatura qualsiasi possa causare la grazia. È dunque
necessario che Dio solo deifichi (deificet), condividendo con
noi (consortium) la natura divina sotto la forma di una certa
partecipazione per modo di assimilazione...» 277 278.
Oltre alla conclusione principale sulla quale non è il caso

277 Rm 8, 29; secondo la traduzione della TOB, più vicina sia


all’originale greco sia al testo latino che Tommaso aveva a sua disposizione.
278 I-II, q. 112, a. 1; senza l’impiego di deifico, è anche la conclusione
molto solida del De Meritate q. 27, a. 3.
148
d’insistere perché è evidente, si noterà in questo testo l’uso del verbo
«deificare». A volte succede che si rimprovera alla tradizione
teologica d’Oc- cidente d’ignorare la dottrina dei Padri greci che
concepisce la vita cristiana come una «divinizzazione». Senza
addentrarci in una polemica sterile che sarebbe fuori luogo, è lecito
osservare per inciso che questo rimprovero è del tutto infondato
quando si tratta di san Tommaso. Per lui la grazia è precisamente una
struttura deiforme e che perciò Dio solo può dare. Egli, per non
lasciare alcun dubbio a tale proposito, impiega molto spesso i termini
«deificare» e «deiforme» 3. Non vi è d’altra parte nessun mistero in
ciò. E sufficiente ricordarsi della Catena aurea che raggruppa le
opere di 51 autori greci, mentre i latini ammontano solo a 22, per
capire che Tommaso si considerava un erede legittimo della
patristica greca; è naturale quindi che i nomi di Gregorio di
Nazianzo, dello Pseudo-Dionigi o di Giovanni Damasceno ritornino
regolarmente in questo contesto sotto la sua penna con il loro
specifico vocabolario4.
Senza che avverta l’esigenza di farne sfoggio, l’Aquinate non
esita dunque a utilizzare personalmente questo linguaggio e parla dei
santi come deificati dalla grazia dell’adozione 5 o dalla conoscenza
gloriosa di Dio in patria 6. In quest’ultimo contesto parla anche dei
santi diventati deiformi con la visione di Dio a faccia a faccia 7,
utilizzando però questo vocabolario anche per i santi ancora in
cammino su questa terra. La grazia e la carità rendono effettivamente
deiformi8, come anche il dono del-

5
L’Index thomisticus permette di contare 34 ricorrenze di deifico, di cui
10 si trovano nel commento ai Nomi divini di Dionigi, nel senso di partecipa-
zione/unione a Dio, e altri 17 in un contesto cristologico: Cristo è l’uomo deificato
per eccellenza. Il vocabolario della deiformitas si ritrova 51 volte con un maggior
numero d’impiego (28) per gli angeli ed ha una forte connotazione intellettuale di cui
deifico sembra sprovvisto.
4
Cf. Tommaso d’Aquino, L’uomo e il teologo, pp. 161-165; nuovi
lavori mostrano ogni giorno in che misura generalmente insospettata Tommaso sa
mettersi all’ascolto dei Padri, tanto per la sua documentazione quanto per il suo
metodo, cf. G. EMERY, Le photinisme et ses précurseurs chez saint
Thomas, Cérinthe, les Ebionites, Paul de Samosate et Photin, RT 95 (1995)
371-398.
5
Compendium theol. I 202 (Leon., t. 42, p. 138); il contesto è quello degli
errori concernenti l’unione ipostatica, e Tommaso ripete che Cristo non era un
homo per gratiam deificatus, né per gratiam adoptionis deificatus.
6
In Ioannem 13,32, n. 1830.

149
7
I, q. 12, a. 6; In de diuinis nominibus I, 2, n. 70; cf. anche la deiformità
dei corpi gloriosi: In ad 1 Thessal. 4,16, n. 103.
8
Seni. II, d. 26, q. 1, a. 4 ad 3: «La grazia conferisce all’anima una
perfezione in un certo esseré divino, non solo nell’ordine dell’agire, ma anche in
quanto coloro che hanno la grazia sono costituiti deiformi, ed è per questo
che, come dei figli, essi sono graditi a Dio»; Seni. IH, d. 27, q. 2, a. 1 ad 9: «Nella
misura in cui gli uomini sono resi deiformi mediante la carità, sono al di sopra
della condizione umana e la loro conuersatio si trova nei cieli. Essi si incontrano
con Dio e con gli angeli nella misura in cui assomigliano loro, secondo quanto ha
detto il Signore (Mi 5,48): Siate perfetti come il Padre vostro celeste è
perfetto».
la sapienza279, ma in realtà i cristiani sono deiformi fin dal loro
battesimo perché lo Spirito Santo ne è l’agente principale 280 281. Questi
dati, che strettamente riguardano soltanto le due parole prese in
esame, devono essere completati da tutto ciò che Tommaso afferma
della grazia creata come partecipazione alla natura divina. Per lui si
tratta di una cosa così grande che considera il dono della grazia come
una specie di nuova creazione che sorpassa l’antica n, dato che la
grazia è un bene migliore di quello dell’intero universo 282; essa supera
anche la nobiltà dell’anima di Cristo 283, perché ciò che Dio è per
sostanza, si realizza a modo di accidente nell’anima che partecipa alla
divina bontà284.

L’AGENTE E LO STRUMENTO

Scelte tra tante altre, le citazioni che precedono non esigono per
il momento di essere moltiplicate, perché avremo molte altre
occasioni di ritornare sulla grazia all’opera nella nostra vita; ci è
sufficiente l’aver ricordato che essa costituisce per Tommaso il
principio della nostra divinizzazione285 286. Ora occorre aggiungere che
tale divinizzazione è realizzata tramite la mediazione di Cristo poiché,
secondo la parola tecnica sempre usata nell’opera tomasiana, egli ne è

279Sent. HI, d. 35, q. 2, a. 1, qc.l ad 1.


280Seni. IV, d. 3, a. 3, qc.l ad2.
281 In ad2 Corinthios 5,17, n. 192.
28212I-II, q. 113, a. 9 ad 2.
283 De Meritate, q. 27, a. 1 ad 6.
2841-H, q. 110, a. 2 ad 2.
285 per completare queste poche indicazioni, si potrà vedere l’insieme dei tèsti
raggruppati da H.-T. CoNUS, art. Divinisation, DS 3 (1957) 1426-1432: «Saint
Thomas».
2861-II, q. 112, a. 1 ad 1; cf. SAN GIOVANNI DAMASCENO, De fide orthoxa, ed.
BUYTAERT, cap. 59, p. 239, e cap. 63, p. 258 (PG 94, 1060; 1080). Tommaso non è
150
lo «strumento»:
«Secondo l’espressione di Giovanni Damasceno, l’umanità di
Cristo è come 'lo strumento della sua divinità". Ora, lo
strumento non produce l’azione dell’agente principale in virtù
della sua propria efficacia, ma soltanto tramite la mozione di
questo agente principale. Ecco perché l’umanità di Cristo non
causa la grazia da se stessa, ma soltanto mediante la divinità
alla quale è unita e che fa sì che queste azioni siano salutari»Ié.
Queste prime precisazioni sono facili da comprendere; che si
tratti di un martello o di una penna, lo strumento non fa niente da se
stesso. Occorre che qualcuno se ne serva. Occorre soprattutto
osservare qui la citazione di san Giovanni Damasceno; questa
dottrina fondamentale* che si immaginerebbe essere un prodotto
della Scolasdca occidentale, è recepita anch’essa dai Padri greci.
Tommaso la spinge a un grado di precisione a cui i suoi predecessori
non erano indubbiamente giunti ma, specialmente quando è applicata
a Cristo, la fecondità di questa intuizione è tale che vale la pena
approfondirla al suo seguito.
La si incontra fin dalle prime pagine della Tertia Pars in una
confutazione dell’eresia attribuita a Nestorio. Secondo san Cirillo,
quest’ultimo affermava che il Verbo aveva assunto la sua umanità
non secondo un’unione personale, ma soltanto nel modo in cui ci si
può servire di uno strumento. In questa prospettiva, quest’uomo non
era veramente Dio ma soltanto il suo organon, il suo strumento. Ma
laddove san Cirillo rifiutava semplicemente questo modo di parlare in
tal contesto, san Giovanni Damasceno, al seguito di sant’Atanasio tra
l’altro, gli riconosceva una parte di verità. Tommaso si unisce alla
sua posizione e la spiega, osservando che si può parlare di strumento
in due diversi sensi. Vi è lo strumento separato che può essere un
attrezzo o un’arma qualsiasi, la sega o la spada; ma vi è anche lo
strumento congiunto e inseparabile che rappresenta per una persona il
suo corpo o la sua mano. E in questo modo che l’umanità di Cristo si
comportava come uno «strumento» inseparabilmente unito alla
persona del Figlio di Dio17.
Risulta già chiaro che questo modo di comprendere lo
strumento come inseparabilmente congiunto alla persona, modifica
singolarmente l’analogia di base e la purifica da ogni risonanza
troppo strettamente materiale. Nonostante fosse già così rettificata,
Tommaso l’attenua ancora di più allorquando l’impiega a proposito
dell’umanità di Cristo, in
151
giunto di primo acchito a questa dottrina; seguendo sant’Agostino, non parlava nelle
Sentenze (III, d. 13, q. 2, a. 1) che di una causalità dispositiva o ministeriale
dell’umanità di Cristo: producendo Dio la grazia in occasione dell’agire di Cristo.
Il passaggio ad una vera causalità strumentale non è avvenuto che tra le qq. 27 e 29
del De Meritate: ormai l’umanità di Cristo concorre realmente alla produzione
della grazia e vi lascia la sua impronta; adesso la grazia non è più soltanto divina,
essa è anche «cristiana»; J.R. GEISELMANN, Christus und die Kirche nach
Thomas von Aquin, «Theol. Quartalschrift» 107 (1926) 198-222; 107 (1927) 233-
255, ha ben esaminato questa evoluzione.
17
HI, q. 2, a. 6 ad 4.

152
quanto questo strumento non è soltanto congiunto ma è anche animato
e Ubero. Ma prima di precisare ulteriormente l’analogia,
un’applicazione privilegiata permetterà di collocarla al suo giusto
posto nel processo della produzione della grazia. Tommaso si chiede
se i sacramenti della legge nuova ricavino la loro efficacia dalla
passione di Cristo:
«Il sacramento opera, per causare la grazia, come uno
strumento... Ma vi sono due tipi di strumenti: l’uno separato,
come il bastone; l’altro congiunto, come la mano. È tramite lo
strumento congiunto che quello separato è messo in movimento,
così come il bastone è mosso dalla mano. Ora, la causa
efficiente principale della grazia è Dio stesso, per il quale
l’umanità di Cristo è uno strumento congiunto e il sacramento
uno strumento separato. Per questo è necessario che l’efficacia
(uirtus) salvifica della divinità di Cristo passi nei sacramenti
mediante la sua umanità (...). E chiaro quindi che i sacramenti
della Chiesa ricavano la loro efficacia specifica dalla passione
di Cristo, ed è la ricezione dei sacramenti che ci mette in
comunicazione con la virtù salutare della passione di Cristo.
L’acqua e il sangue sgorgati dal costato di Cristo appeso m
croce indicano questa verità; l’acqua annunciava il battesimo e
il sangue l’eucaristia, poiché sono i sacramenti più
importanti»287.
La semplice lettura permette di percepire quale apertura questo
testo prepari alla Chiesa; per Tommaso l’esistenza cristiana non può
essere che un’esistenza ecclesiale, bisognerà ricordarsene. Ma ciò che
qui ci interessa direttamente è l’esatta gerarchia secondo la quale si
organizzano le cause operanti nella produzione della grazia: tra Dio, la
fonte prima, e i sacramenti, ultimi tramiti per mezzo dei quali essa ci
raggiunge, vi è Cristo, punto di passaggio obbligato. È qui che la
nozione di strumentalità svela una nuova potenzialità. Secondo la
costante dottrina del Maestro d’Aquino, lo strumento «modifica»
l’azione della causa principale:
«Lo strumento ha una duplice azione: un’azione strumentale

287 HI, q. 62, a. 5; il trattato dei sacramenti è il luogo adatto per questo
genere di precisazioni, cf. Ili, q. 64, aa. 3 et 4; ma Tommaso l’annunciava già nella
sua questione sulla causa della grazia, cf. I-E, q. 112, a. 1 ad 2; per avere più dettagli
si possono vedere per esempio le spiegazioni di A.-M. ROGUET, in S. THOMAS
D’AQUIN, Somme Théologique, Les sacrements, ed. de la «Revue des Jeunes», Paris
19512.
secondo la quale opera non per virtù propria, ma per virtù
dell’agente principale, e anche un’azione propria che gli
compete in virtù della sua propria forma. Così, per l’acutezza
del taglio, compete alla scure incidere, ma
come strumento utilizzato da un artigiano le compete fare un
mobile. Tuttavia, la scure non esercita la sua azione strumentale
se non esercitando la sua propria azione: è tagliando che fa il
mobile»288.
L’esempio rudimentale ricavato dal mondo della sua esperienza
quotidiana gli permette di enunciare una dottrina tanto semplice
quanto fondamentale per il seguito del nostro proposito. Possiamo
non servirci di uno strumento, ma se ce ne serviamo, esso lascerà la
sua impronta sull’effetto prodotto. E vero che lo strumento non fa
niente da se stesso, però fa qualcosa, e il risultato finale reca la sua
impronta. Si pensi soltanto all’universo della musica: il violino non è
che uno strumento nelle mani del violinista, ma a seconda che si tratti
di uno Stradivari o di uh pessimo violino il suono ottenuto cambia
completamente. Pur rivestendo una forma eminente e del tutto
singolare, questa dottrina generale si applica anche all’umanità di
Cristo e al suo agire:
[Poiché ciascuna delle due nature di Cristo ha la sua propria
operazione% spiega san Tommaso, l’agire dell’umanità non è
soppresso dalla sua unione alla natura divina nella persona dèi
VerboJ, «tuttavia la naturai divina si serve dell’operazione
della natura umana così come l’agente principale impiega
l’operazione del suo strumento». «L’azione dello strumento
come strumento non è differente dall’azione dell’agente
principale, però questo non gli impedisce di avere la sua
propria azione. Per- tanto, in Cristo, l’operazione della natura
umana, in quanto è lo mento della divinità, non differisce
dall’operazione divina: la nostra salvezza è opera unica
dell’umanità e della divinità di Cristo. Ma la naturà umana di
Cristo, in quanto tale, ha un’operazione diversa da quella della
natura divina» 289.
Per tradurre in termini che ben presto si chiariranno, e di cui
bisognerà verificare il campo di applicazione, diremo che, senza
288 DI, q. 62, a. 1 ad 2; la stessa dottrina la si ritrova in I, q. 45, a. ^ in
maniera ancora più esplicita in SCGIV 41, nn. 3798-3800.
289 HI, q. 19, a. 1 et ad 2; il testo di questa questione è troppo lungo per
esse re citato integralmente, ma costituisce il luogo decisivo sul soggetto. Tommaso
non ha sempre tenuto l’applicazione della strumentalità nella linea della causalità
efficiente (cf. sopra, n. 16); in Sentenze ni, d. 18, a. 6, qc. 1 sol. 1, egli ne parla
ancora nella linea della causalità meritoria; tranne una sola eccezione (in, q. 1, a. 2
ad 2), legata al contesto anselmiano della soddisfazione, quel linguaggio non sarà più
ripreso nella Summa.
152
I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO
perdere la sua qualità divina, la grazia avrà quindi anche un carattere
cristico.

153
I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO

Tutti i lettori della Somma, compresi quelli occasionali, sanno


che la sua Terza Parte è consacrata allo studio del mistero di Cristo
(qq. 1- 59), molti però ignorano che il suo autore non si è limitato ad
investigare l’ontologia e la psicologia dell’Uomo-Dio (qq. 2-26), ma
ha dedicato una sezione importante a ciò che si è soliti chiamare, in
modo improprio ma suggestivo, «Vita di Gesù» (qq. 27-59)290. In
trentatré questioni - tante quanti gli anni della vita terrena di Cristo -,
e secondo uno schema circolare di cui ora sappiamo che gli è tra i più
familiari291, Tommaso esamina tutti gli atti significativi che hanno
segnato l’esistenza di Gesù e si interroga sul loro significato per la
salvezza. Lungi dal restringere l’opera salutare di Cristo alle
sofferenze dei suoi ultimi giorni e alla sua morte in croce, Tommaso
pensa che niente di quanto ha vissuto il Verbo incarnato è senza
significato per la salvezza; al contrario, tutto ciò ha la sua risonanza
nella vita del cristiano oggi.
Per dare a questa impresa il nome che le è proprio, ciò che
Tommaso ha voluto fare è una «teologia dei misteri» della vita di
Gesù. Si capirà facilmente di cosa si tratta, se ci si ricorda che il
mysterìon di san Paolo riassume contemporaneamente il piano divino
di salvezza e il modo in cui questo piano si è compiuto in Gesù 292.
Sicché, se tutta la vita di Cristo è essa stessa il mistero dell’amore di
Dio che si rivela e agisce nella storia, ciascuno dei suoi atti è pure un
«mistero», nel senso che significa e realizza questo «mistero» totale.
Questo modo di vedere molto tradizionale, dato che ha
antecedenti presso i Padri293, era stato un po’ perso di vista dagli
scolastici.
290 A tal proposito si troveranno dei dettagli supplementari in
Tommaso d’Aquino. L'uomo e il teologo, pp. 293-299.
291 Questo schema circolare è sviluppato nelle prime tre parti: 1)
ingresso (tjngressus) del Figlio di Dio in questo mondo, che coincide in effetti con il
mistero dell’incarnazione (qq. 27-39); 2) svolgimento (progressus) della sua vita
terrestre passando attraverso tutti i suoi momenti più importanti (qq. 40-45); 3)
uscita (exitus) da questo mondo, cioè passione e morte (qq. 46-52); la quarta parte
(qq. 53-59), la vita celeste di Gesù glorificato (exaltatió), senza addentrarsi
direttamente nel movimento circolare, ne descrive il termine e lo mostra in tutta la
sua ampiezza. È precisamente quest’ultima considerazione che mostra l’improprietà
dell’espressione «Vita di Gesù».
292 Vedere, per esempio, Ef 3,1-14, con le note della Bibbia di Gerusalemme.
293 Cf. A. GRILLMEIER, Généralités historiques sur les mysières de
Jésus, in ìMysterium salutis, t. 11, Paris 1975, pp. 333-357.
154
Almeno sotto questa forma, quindi, si tratta di una novità introdotta
dà; san Tommaso nel vagliare la materia cristologica 294. Presso i
teologi anteriori o contemporanei, la considerazione dei misteri della
vita dii Cristo era collocata generalmente sia all’interno dello studio
degli arti- : coli del Credo, sia nel commento delle questioni
cristologiche delle Sentenze di Pietro Lombardo, e così essi
risultavano trattati separatamente o mescolati ad altre questioni 295.
Raggruppandone la trattazione in un tutto organico, Tommaso mostra
al tempo stesso il valore riconosciuto alla vita concreta di Cristo
nell’organizzazione della sua cristologia e l’importanza accordata al
Nuovo Testamento e ai Padri nella sua propria riflessione. A lungo
trascurata, questa parte della Somma comincia a ricevere l’attenzione
che merita 296, e giustamente, poiché è indicativa del metodo
teologico del Maestro d’Aquino. Costituisce senz’altro anche il luogo
in cui si vede meglio la ripercussione nel campo spirituale di
un’opzione teologica decisiva, perché è qui che egli impiega in modo
sicuro la sua dottrina sulla strumentalità dell’umanità di Cristo.
Quando Tommaso, con significativa insistenza, parla
dell’efficienza salvifica esercitata strumentalmente da tutto ciò che
Cristo ha fatto e subito, non si esprime in generale, in maniera
soltanto astratta. Egli vuole effettivamente dire che tutti e ciascuno
degli atti che Cristo ha compiuto nella sua umanità sono stati e
continuano ad essere portatori di un’efficacia salvifica. Il classico
luogo a cui bisogna attribuire

294 Cf. in proposito l’importante studio di L. SCHEFFCZYK, Die


Stellung des Thomas von Aquin in der Entwicklung der Lehre von den Mysteria Vitae
Christi, in M. GEKWING - G. RUPPERT (ed.), Renovatio et Reformatio... Festschrift fùr
Ludwig Modi..Miinster 1986, pp. 44-70.
295 Così nello stesso san Tommaso, la risurrezione di Cristo è trattata
una prima volta in se stessa in Sent. Ili, d. 21, q. 2, e una seconda volta per
l’efficienza che esercita nella risurrezione dei mortali in Sent. IV, d. 43, q. 1, a. 2.
296 Segnaliamo R. LAFONTAINE, La résurrection et l’exaltation
du Christ chez Thomas d’Aquin. Analyse comparative de STh III, qq. 53 à
59, Excerpta ex Diss. PUG, Roma 1983 (qui ci si riferirà alla tesi originale, che ha lo
stesso titolo ma che è più completa dell’estratto pubblicato); L. SCHEFFCZYK, Die
Bedeutung derMyste- rien des Lebens Jesu fiir Glauben und Leben des
Christen, in ID. (ed.), Die Myste- rien des Lebens Jesu und die christliche
Existenz, Aschaffenburg 1984, pp. 17-34; I. BIFFI, I Misteri di Cristo in
Tommaso d’Aquino («Biblioteca di cultura medievale» 339), 1.1, Milano 1994, ha
cominciato a comporre una serie di studi in cui mostra ronnipresenza del tema e
della sua fecondità in tutte le opere di Tommaso; si può vedere anche, ma in una
linea rahneriana, G. LoHAUS, Die Geheimnisse des Lebens Jesu in der Summa
Theologiae des hi. Thomas von Aquin («Freiburg, theol. Studien 131»),
Freiburg i.Br. 1985.
tutta la sua importanza, in quanto decisivo per fondare questa dottrina,
si trova in una questione sulla risurrezione:
«(Secondo Aristotele), “ciò che è primo in un dato genere di
cose è causa di tutto ciò che ne fa parte" 297. Ora, nell'ordine
della nostra risurrezione, ciò che è primo è la risurrezione di
Cristo. Perciò è necessario che la risurrezione di Cristo sia la
causa della nostra. E appunto quanto dice san Paolo: Cristo è
risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se
la morte è stata causata da un solo uomo, da un solo uomo è
derivata la risurrezione dei morti» 298.
Non ci si lascerà sconcertare dalla citazione di Aristotele
all’inizio di questo articolo. E evidente che il Filosofo non è invocato
se non per congiungere la spiegazione che segue a un tipo di
ragionamento noto. Il vero punto di partenza è la fede nella
risurrezione di Cristo così come la enuncia san Paolo. Ma ciò che si
tratta di spiegare è precisa- mente quest’asserzione, ed è per questo
che Tommaso s’interroga un po’ più avanti sul tipo di causalità che
compete a tale «primo» di un genere così particolare:
«Propriamente parlando la risurrezione di Cristo non è la
causa meritoria della nostra risurrezione [il merito è infatti
legato al tempo della vita terrena; Cristo risuscitato sfugge alle
condizioni di questa vita e quindi non può più meritare, è
invece in possesso di ciò che aveva meritato], ma ne è la causa
efficiente ed esemplare. Innanzitutto causa efficiente: l’umanità
di Cristo, secondo la quale è risuscitato, è in un certo modo lo
strumento della sua divinità e agisce per virtù di questa, come si
è già detto [cf. Ili, q. 13, a. 2; q. 19, a. 1; q. 43, a. 2], E come
tutto ciò che Cristo ha fatto o sofferto nella sua umanità è
salutare per noi in virtù della sua divinità, come è stato già
stabilito [cf. Ili, q. 48, a. 6], così la risurrezione di Cristo è
anche la causa effi- cíente della nostra risurrezione per “virtù”
divina, cui spetta propria- mente risuscitare i morti. Questa
"virtù”’ raggiunge con la sua presenza tutti i luoghi e tutti i

297 Si riconosce qui un’applicazione del principio del maxime tale di


cui Tommaso fa un uso tanto abbondante quanto personale (poiché inverte il senso
aristotelico originale): «ciò che è primo in un dato genere è principio e causa nei
confronti degli altri elementi dello stesso genere». Cf. i lavori determinanti di V. DE
COUESNONGLE, La causalité du maximum. L’utilisation par saint Thomas d’un
passage d’Aristote, e La causalité du maximum. Pourquoi saint Thomas a-t-il mal cité
Aristote?, RSPT 38 (1954) 433-444; 658-680, completati da L. SOMME, Fils de Dieu
par Jésus Christ. La filiation divine par adoption dans la théologie de saint Thomas
d’Aquin («Bibliothèque thomiste 49»), Paris 1997, pp. 437-442.
298III, q. 56, a. 1, con citazione di 1 Cor 15,20.
155
tempi, e questo contatto “virtuale” è sufficiente perché si abbia
vera efficienza. Pertanto, come abbiamo appena accennato [cf.
Ili, q. 56, a. 1 ad 2], la causa primordiale della risurrezione
degli uomini è la giustizia divina, in virtù della quale Cristo ha
il potere di giudicare in quanto è il Figlio dell’uomo (cf. Gv 5,
27), e là virtù efficiente della sua risurrezione si estende non
soltanto ai buoni, ma anche ai malvagi, essendo essi sottomessi
al suo giudizio»30.

Non si può che essere colpiti leggendo questo testo dalla


molte-; plicità dei rinvìi in cui l’autore afferma di aver già parlato
dell’uno o dell’altro aspetto di questa dottrina. Palesemente siamo
dinanzi a uh punto strategico della sua riflessione. Ritroveremo
l’aspetto esemplare di questa causalità, ma per il momento ci
limiteremo solo all’efficienza esercitata dalla risurrezione. Questo
testo è quello al quale si fa sempréi riferimento dato che è il più
esplicito, ma è lungi dall’essere il solo, poiché Tommaso parla allo
stesso modo della passione: «(La passione agisce) per modo
d’efficienza: poiché la carne, nella quale Cristo ha subito la sua
passione, è lo strumento della sua divinità...» 31. La stessa cosa è detta a
proposito della morte e anche del corpo morto di Cristo, «poiché
questo corpo era lo strumento della divinità che gli era unita; è
operante per virtù divina anche da morto»32. Per colui che si
sorprendesse, Tommaso precisa che nello stato di morte, il corpo di
Cristo non poteva certamente più essere strumento di merito, ma
poteva essere strumento d’efficienza a causa della divinità che gli
restava imita (raggiungendo così i dati dogmatici meglio affermati: la
persona del Verbo non ha abbandonato il suo corpo durante il triduum
mortis). La stessa precisazione è data a proposito dell’ascensione:
«L’ascensione del Cristo è cau-

■ 30 III, q. 56, a. 1; Tommaso ha già spiegato precedentemente (III, q. 53, a. 1)


che la risurrezione di Cristo era un’opera della giustizia divina, perché era
conveniente esaltare colui che si era umiliato; secondo Le 1, 52, che egli cita qui, è ciò
che si può chiamare la logica del Magnificat: «Egli rovescia i potenti, innalza gli
umili»; circa l’opera che tocca qui al Figlio dell’uomo, cf. il Commento In Ioannem 5,
21, lect. 4, n. 761.
31
III, q. 49, a. 1; cf. Ili, q. 48, a. 6 ad 2: «La passione di Cristo,
sebbene corporale, possiede tuttavia una virtù spirituale a causa dell’unione alla
divinità; essa ottiene la sua efficacia per contatto spirituale, cioè mediante la fede e i
sacramenti della fede...».
32
HI, q. 50, a. 6 et ad 3; è qui che si percepisce meglio come Tommaso non
pensi soltanto alle azioni strettamente volontarie dell’umanità di Cristo.
sa della nostra salvezza non per modo di merito ma per modo di

156
efficienza, così come è stato già mostrato per la risurrezione» 299.
Per il solo fatto che qui sono menzionati soltanto i grandi
momenti del mistero pasquale, sarebbe errato concludere che
Tommaso limita ad essi questa dottrina; in effetti la estende a tutto
ciò che Cristo ha fatto e patito:
«Vi è una duplice efficienza: principale e strumentale.
L’efficiente principale della salvezza degli uomini è Dio; ma
dato che l’umanità di Cristo è lo strumento della sua divinità...
ne segue che tutte le azioni e passioni di Cristo agiscono
strumentalmente, in virtù della divinità, per la salvezza degli
uomini E a questo titolo che la passione di Cristo causa in
modo efficiente la salvezza degli uomini»’’300.

MEMORIA O PRESENZA?

Tommaso ha formulato questa dottrina fin dai suoi scritti


giovanili e la si ritrova nei suoi commenti scritturistici.
L’affermazione è quindi costante quanto chiara, ma c’è disaccordo tra
i tomisti sul modo di spiegarla. Senza soffermarci troppo in
discussioni a volte sottili, occorre tuttavia scendere un po’ nei
particolari, perché è in gioco un punto capitale della teologia
spirituale. L’interrogativo che si pone è di sapere se bisogna intendere
questi testi come riferiti alla risurrezione e ai diversi «misteri», nella
loro realtà già avvenuta (in facto esse, secondo il linguaggio accettato
tra gli specialisti), oppure alla loro realtà in divenire {in fieri). In
termini più semplici, chi ci salva oggi è il Cristo risuscitato o il Cristo
risuscitante? Per comodità ragioneremo a partire dalla risurrezione,
ma è certo che ciò che diciamo vale anche per gli altri misteri.
Secondo l’opinione fino a poco tempo fa considerata ancora
tradizionale, alcuni autori pensano che si tratti della risurrezione nel
suo (stato compiuto301. Essi sostengono che la risurrezione non ha
efficienza
attuale se non perché è stata resa eterna nell’umanità gloriosa di
Cristo. Durante la sua vita terrena, Cristo ha per così dire
«memorizzato» nell la sua umanità la virtù divinizzatrice che si

299 III, q. 57, a. 6 adì.


300 III, q. 48, a. 6: «omnes actiones et passiones Christi
instrumentaliter ope- rantur in uirtute diuinitatis ad salutem humanam».
301 Cf. J. GAILLARD, Chronique de liturgie. La théologie des mystères,
RT 57 (1957) 510-551; l’autore passa in rassegna le principali posizioni in occasione
di
157
fissava a ciascuno dei suoi ì atti terreni, per esercitarla solamente nel
suo stato glorificato. «Cristo risorto è tale nella sua umanità perché la
sua umanità è passata attraverso tutti quegli stati e quei sentimenti di
cui egli conserva la “memoria” eterna, il frutto interiore, la virtù, lo
spirito... è appunto l’umanità; glorificata di Cristo la causa
strumentale della grazia, però in quantum modificata per mysteria
vitae hujus terrestris (in quanto è “modificata” dai misteri di questa
vita terrena)»36.
Questa interpretazione vuole fondarsi sulla lettera agli Ebrei (7,
24-25) che parla dell’intercessione dell’umanità gloriosa di Cristo,
che porta sempre i segni della sua passione. Tommaso naturalmente
l’ammette, tuttavia non attribuisce una speciale efficacia strumentale
a queste piaghe gloriose37. E se il ragionamento è comprensibile
allorquando si tratta delle cicatrici che Cristo conserva eternamente
nella sua umanità, che ne è degli altri misteri che non hanno lasciato
alcuna traccia visibile (per esempio quelli della vita nascosta a
Nazaret) e che ciononostante continuano a operare la nostra salvezza,
dato che è l’intera vita di Cristo, a partire dalla sua incarnazione, che
è stata salvifica38?
Se è vero che l’umanità glorificata di Cristo continua ad
esercitare attualmente la sua mediazione strumentale, non è tuttavia
questo diverse pubblicazioni: per l’opinione detta «tradizionale», vedi p. 538; per
la vera posizione di Tommaso, pp. 539-540, e per il prolungamento che le accordaiio
alcuni autori con un richiamo alla visione beatifica di cui Cristo godeva secondò:
Tommaso, pp. 540-542.
36
M.-J. NICOLAS, Les mystères de la vie cachée, in H. BOUESSÉ - J.-J. LALOLR
(edd.), Problèmes actuels de christologie, Paris 1965, pp. 81-100, cf. pp. 84-85; dello
stesso autore nello stesso senso: La théologie des mystères selon saint Thomas
d’Aquin, in Mens concordet voci (Mélanges, A.-G. Martimort), Paris 1983, pp. 489-
496; nello stesso senso, si possono vedere gli studi di J. LECUYER, La pérennité des
mystères du Christ, VS 87 (1952) 451-464; La causalité efficiente des mystères du
Christ selon saint Thomas, DC 6 (1953) 91-120.
37
Cf. III, q. 54, a. 4.
38
1 sostenitori di questa teoria sbagliavano ritenendola tradizionale nella
scuola tomistica; Ch. Journet (La Messe, présence du sacrifice de la croix,
Paris 1957, p. 110) ha dimostrato che in realtà proviene da Suarez. Quanto al
Gaetano, è incerto: nel suo commento In 3am, q. 56, a. 1, n. II, egli va nel senso
suareziano per imetpre- tare l’efficienza della risurrezione; invece, per rendere
conto di quella del corpo morto, rende perfettamente il pensiero di Tommaso, cf. In
3am, q. 50, a. 6, n. II.
che vuole affermare Tommaso quando parla dell’efficienza della
risurrezione (o di ogni altro mistero), e a tal riguardo è molto chiaro:
è proprio Cristo in atto di risurrezione che ci salva. La sua posizione
è già chiaramente affermata nelle Sentenze-. «In quanto è Dio e uomo

158
risuscitante (homo resurgens) Cristo è la causa prossima e per così
dire univoca della nostra risurrezione»302. La si ritrova nel commento
alla lettera ai Romani o al libro di Giobbe, in cui Tommaso parla
sempre della risurrezione in divenire 303, e, naturalmente, nella Somma
dove, accanto al passaggio citato qui sopra, si trova il seguente:
«L’efficienza della risurrezione di Cristo giunge alle anime [si
tratta qui della risurrezione spirituale, cioè del ritorno alla vita
di grazia dell’anima che il peccato aveva per così dire uccisa]
non per virtù propria dello stesso corpo risuscitante, ma per
virtù della divinità alla quale è personalmente unito» 304.
Questi testi non lasciano affatto dubbi sulla vera posizione
toma- siana e, sebbene con notevoli sfumature, numerosi autori
convergono su questo 305. Ma è possibile che i misteri della vita di
Cristo, essendo degli atti storicamente passati, possano continuare ad
agire attualmente? A meno che non si consideri - come aveva tempo
fa proposto Odo
Casel306 - una specie di perennità storica dei misteri che resterebbero
presenti nella liturgia della Chiesa, sembra proprio che si sia
obbligati ad ammettere che è la stessa umanità gloriosa di Cristo che
agisce, e si ritornerebbe allora alla spiegazione dei misteri
memorizzati.
302 Sent. IV, d. 43, q. 1, a. 2 sol. 1; cf. ad 3: mediante Christo homine
résurgente,
303 In ad Romanos 6, 10-11, n. 490: «uita quam Christus resurgens
acquisiuit»; n. 491: «ut (fidelis) conformetur uitae Christi resurgentis»-, Super Iob 19,
25, Leon., Ifti 26, p. 116, linee 268-270: «Vita Christi resurgentis ad omnes homines
diffunde- tur in resurrectione communi»; per il commento di Tommaso a questo
versetto, si vedrà D. CHARDONNENS, Lespérance de la résurrection selon Thomas
d’Aquin, commentateur du Livre de Job, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 65-83.
304III, q. 56, a. 2 ad 2.
305 Oltre Journet e Gaillard citati sopra, si può ricordare H. BOUESSÉ, La
%causalité efficiente instrumentale de l’humanité du Christ et des sacrements chrétiens,
RT 39 (1934) 370-393; La causalité efficiente et la causalité méritoire de l’humanité du
Christ, RT 43 (1938) 265-298; T. TscHIPKE, Die Menschheit Christi lais Heilsorgen der
Gottheit unter besonderer Berücksichtigung der Lehre des hl. iThomas von Aquin,
Freiburg i.Br. 1940; F. HOLTZ, La valeur sotériologique de la résurrection du Christ
selon saint Thomas, ETL 29 (1953 ) 609-645; CL.-J. GEFFKE, recensione critica di J.
Lécuyer - F. Holtz, cit. sopra, in BT 9 (1954-56) nn. 1569- 1571, pp. 812-817 (a nostro
avviso, è lo studio che rende meglio il pensiero di san Tommaso). Più recentemente, cf.
M.G. NEELS, La résurrection de Jésus sacrement de salut. La causalité salvifique de la
résurrection du Christ dans la sotériologie de St. Thomas, Diss. PUG, Roma 1973; R.
LAFONTAINE, La résurrection (tesi originale), pp. 267-278.
306 Cf. O. CASEL, Le mystère du culte dans le christianisme, Paris 1956;
Faites ceci en mémoire de moi, Paris 1962; cf. TH. FILTHAUT, La Théologie des
Mystères: Exposé de la controverse, Paris-Toumai 1954.
159
A ciò è facile replicare con san Tommaso che non è l’azione
passata in se stessa che dura sempre. In quanto tale, essa ha cessato
di esistere. È il suo influsso strumentale che continua ad essere
efficace sottò la mozione divina. L’efficienza attuale dei misteri
passati della vita di Cristo deriva loro dalla potenza divina che
raggiunge tutti i tempi e i luoghi; e questo contatto «virtuale», cioè
secondo la uirtus, l’efficacia, è sufficiente a rendere conto di questa
efficienza307.

COME UNA STELLA INVISIBILE

A volte si obietta contro questa posizione che una causa


efficiente strumentale non potrebbe produrre il suo effetto senza
coesistere con esso. Questa difficoltà sarebbe tale però soltanto se si
trattasse di un contatto causale di ordine fisico, ma non è così che
Tommaso considera la causalità della risurrezione. Questo contatto
«virtuale» ' una realtà eminentemente spirituale. Com’egli spiega in
modo eccellente,: lo strumento è spinto a produrre il suo effetto dalla
causa principale e ne sposa le condizioni, comprese le temporali. In
quanto opera m uir- tute diurna, l’atto compiuto da Cristo non è
sottomesso al tempo, poiché Dio ha il privilegio nella sua eternità di
raggiungere come presenti degli esseri che per noi sono passati e
futuri. Egli potrà allora unire l’efficienza di uno strumento con il suo
destinatario quando costui esisterà, senza che l’operazione propria
dello strumento lo raggiunga essa stessa308. Detto altrimenti, la
risurrezione di Cristo produrrà veramente
I
fil suo effetto attuale in ciascuno dei suoi beneficiari nel momento
scelto da Dio:
«L’effetto è prodotto dalle cause strumentali secondo le
condizioni della causa principale. Perciò•, dato che Dio è la
causa principale della nostra risurrezione e la risurrezione di
Cristo ne è la causa strumentale, ne segue che la nostra propria

307 Ecco il testo latino del passaggio citato sopra, III, q. 56, a. 1 et ad 3:
«Vir- tus diurna praesentialiter attingit omnia loca et tempora. Et talis contactus
uirtualis sufficit ad rationem efficientiae».
308 Questa risposta è stata sottoposta a una severa critica da parte di J.-H.
NICOLAS, Réactualisation des mystères rédempteurs dans et par les
sacrements, RT 58 (1958) 20-54, senza sospettare, sembra, che è la posizione stessa
di san Tommàs so che citiamo nei testi qui di seguito.
160
risurrezione sarà prodotta dalla risurrezione di Cristo secondo
quanto la disposizione divina ha previsto che accadesse in quel
determinato tempo»309.
La stessa dottrina si ritrova nel testo seguente, tanto più
interessante in quanto Tommaso dialoga lì con un interlocutore che gli
obietta, giustamente, l’impossibilità di un effetto differito nel tempo:
«La causa comune della nostra risurrezione è la risurrezione di
Cristo. Se tu dici: “essa è già accaduta. Perché dunque il suo
effetto non si è verificato?”, io rispondo che essa è la causa
della nostra risurrezione in quanto opera secondo la virtù
divina. Ora, Dio agisce secondo la disposizione della sua divina
sapienza. Quindi la nostra risurrezione si produrrà secondo
quanto ha previsto il disegno divino»310.
Se è possibile concretizzare un po’ una realtà essenzialmente
spirituale e che sfugge dunque risolutamente ad ogni
materializzazione, si può illustrare ciò con un esempio tempo fa
proposto da Charles Journet J perfezionato da Humbert Bouessé: «Per
questo passato dall’influenza attuale, accade un po’ - visto che non
esistono immagini adeguate - come per la luce di una stella
attualmente esistente ma invisibile [si tratta evidentemente
dell’umanità gloriosa di Cristo] che mi raggiungerebbe oggi tramite i
raggi di rifrazione di un pianeta che, esso, non esisterebbe più [gli atti
della sua vita terrestre]»311.
Comunque si voglia giudicare l’adeguatezza del paragone e le
divergenze di spiegazione tra specialisti, l’aspetto tecnico non deve
velare la profonda semplicità della dottrina e delle implicanze
spirituali, che le danno una seduzione incontestabile. Senza nulla
togliere al carattere fondamentalmente trinitario dell’ispirazione
tomasiana, essa mette in evidenza con incomparabile forza la presenza
di Cristo salvatore al centro della vita cristiana. Non è soltanto Dio-
Trinità che è presente a ciascun uomo in stato di grazia in un modo
costante e universa le, ma è anche Cristo nella sua umanità; e non solo
di una presenza di ricordo o di una presenza intenzionale mediante la
conoscenza e l’amore, ma proprio di una presenza efficace di grazia. Il
Cristo storico oggi glorificato ci raggiunge con ogni atto della sua vita
309 In I ad Cor. 15, 12, lect. 2, n. 915.
310 In I ad Thess. 4, lect. 2, n. 98; stessa risposta, III, q. 56, a. 1 ad 1: «Non
Òportet quod statini sequatur effectus, sed secundum dispositionem Verbi Dei»; era
già la spiegazione di Seni. TV, d. 43, q. 1, a. 2 ad 1 et ad 2.
311 H. BOUESSÉ, De la causalità de l’humanité du Christ, in Problèmes actuels de
christologie, p. 175.
161
terrena, che t così portatore di una vita e di un’energia divinizzatrici 312.
Riguardo al modo concreto in cui gli atti compiuti dal Salvatore;:
c ciò che ha patito nella sua carne, possono raggiungerci ancora oggi, è
sufficiente rispondere con Tommaso che ciò avviene: «spiritualmente
mediante la fede e corporalmente mediante i sacramenti, dato che
l’umanità di Cristo è contemporaneamente spirito e corpo, affinché
potessimo ricevere in noi [che siamo spirito e corpo] l’effetto della
santificazione che proviene da Cristo» 313. Per Tommaso, come per san
Paolo, la ; *,i a/u del battesimo ci fa partecipare misticamente alla
morte e alla risurrezione di Cristo. Lo stesso vale per l’eucaristia e gli
altri sacramenti314.
Ci si chiederà forse cosa accada con i misteri della vita nascosta
che non sono esplicitamente ripresi nei sacramenti e che nondimeno
hanno anche questa efficienza salutare. Anche se non è sacramentale
che in senso largo,, si può certamente pensare alla loro
commemorazione liturgica, visto che costituisce uno dei luoghi
privilegiati in cui si esprime e si nutre la fede. E sufficiente aver
partecipato alla celebrazio- f ne dell’Ufficio di Pasqua o di Natale in una
comunità monastica o in una comunità fervente per capire che si è in
presenza di un’attualizza- zione del mistero celebrato il cui effetto è
interiorizzato dalla preghiera. 'La teologia del memoriale, a volte
ristretta all’eucaristia, permette in- fdubbiamente questa estensione: oggi
Cristo è nato... oggi è risuscita- : to... oggi sale al cielo. Ciò che
eminentemente è vero della preghiera pubblica, lo è anche della
preghiera personale; basta pensare qui alla meditazione delle scene della

312 Non si finirà mai di sottolineare abbastanza l’importanza di questa


dotiri- na, ma ci si guarderà bene dal ridurre ad essa l’insegnamento del nostro
autorésui misteri della vita di Cristo; le questioni 27-59 della Tertia Pars sono di una
ricchezza eccezionale e niente sostituisce la loro lettura diretta.
313 De ueritate, q. 27, a. 4 (in fine)’, cf. STh III, q. 49, a. 3 ad 1: «La passione
di Cristo ottiene il suo effetto in coloro ai quali è applicata mediante la fede e la carità
e i sacramenti della fede»’, ibid., a. 1 ad 4 et ad 5; q. 48, a. 6 ad 2: «La passione di
Cristo esercita la sua efficienza con un contatto spirituale, cioè tramite la fede e i
sacramenti della fede».
314 Sebbene si tratti di un’ampia e delicata questione, ci si può domandare se
questi atti di salvezza possono raggiungere i giusti pagani che non hanno accesso al
culto sacramentale. Bisogna rispondere positivamente senza esitare: non vi <_ ahi i
grazia che quella di Cristo ed essa deriva, per loro come per noi, dalla passione-
risurrezione del Salvatore. Fede e sacramenti della fede normalmente vanno insieme,
ma. possono essere accidentalmente separati e l’economia della salvezza conosce delle
supplenze proprie a ciascuna situazione. Quindi si può dire che, spiritualiter, è
mediante una fede che non si riconosce ancora come esplicitamente cristiana che .
giusti pagani possono partecipare alla grazia della morte e risurrezione di Gesù; cor-
poraliter, tramite delle mediazioni che sono loro proprie e che solo Dio conosce.
162
vita di Cristo care a sant’Ignazio e ad altri 315. Sarebbe errato però
limitare questo agli atti esplicitamente religiosi; il servizio fraterno o
l’azione caritatevole sono anche dei luoghi in Lui Gesù, vero uomo e
vero Dio, continua l’azione efficace di grazia, che la sua presenza fisica
ha comportato per i suoi contemporanei316.

LA CONFORMITÀ A CRISTO

Se ora ci interroghiamo su ciò che i misteri realizzano in noi in


virtù della loro efficacia strumentale, occorre riprendere una di quelle
spiegazioni familiari al Maestro d’Aquino in cui traspone coraggiosa-
ffnente un principio ricevuto da Aristotele per metterlo al servizio di
una realtà che costui non poteva nemmeno immaginare. Si tratta della
grande legge secondo cui l’agente efficiente non può produrre se non
qualcosa che gli assomiglia, in modo tale che vi è in ogni agire una
certa assimilazione dell’effetto alla sua causa. In parole più chiare,
questo |§uol dire che i misteri sono prima di tutto realizzatori di
un’assimilazione a Gesù e, tramite lui, a Dio stesso. O più
esattamente: Dio Padre agendo in noi mediante la grazia che d
accorda tramite Cristo, ci confor- iha all’immagine del suo Figlio
primogenito. La nostra grazia è una gra-
zia di figli adottivi, ma anche di sofferenza, di morte, di risurrezione e
di ascensione per lui, con lui e in lui. Ci troviamo qui al centro
dell’esemplammo ontologico e del mistero della grazia
cristoconformante.
L’importanza concreta di questo tema spicca con evidenza da
alcune cifre che useremo come punto di partenza. Il vocabolario della
conformitas ritorna infatti con una costanza impressionante 317. Si può
contare un totale di 435 ricorrenze di conformitas e parole affini. Poco
più della metà (236) si riferiscono alla conformità della creatura a Dio
o alla sua volontà. Dopo tutto quello che abbiamo detto, ciò non
315 Sebbene il senso da lui attribuito a questa meditazione sia molto
diverso da ìquanto abbiamo cercato di esprimere con «misteri» al seguito di san
Tommaso; cf. H.J. SiEBEN, art. Mystères de la vie du Christ, I. Étude historique, DS
10,1874-1880.
316 Si può pensare qui a quanto il Vaticano II afferma dei religiosi:
«(Essi devono mostrare) Cristo ai fedeli e agli infedeli, o mentre egli contempla sul
monili, o annunzia il regno di Dio alle turbe, o risana i malati e i feriti e converte a
miglior vita i peccatori, o benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, e sempre obbedisce
alla volontà del Padre che lo ha mandato» (Lumen gentium, n. 46).
317 Cf. J.-P. TORRELL, Imiter Lieu comme des enfants bien-aimés. La
conformité à Dieu et au Christ dans l’oeuvre de saint Thomas, in Novitas et veritas vitâe,
pp. 53-65.
163
sorprende: Tommaso non perde di vista il tema deirimmagine e del
suo modello ultimo. Restano 199 ricorrenze, delle quali 102
riguardano la conformità a Cristo in genere, 32 la conformità alla sua
passione, 11 alla sua morte, 47 alla sua risurrezione, 7 ad altri aspetti
della sua vita e delle sue virtù.
Queste cifre naturalmente esigono di essere ponderate - non
fosse altro che dall’uso del vocabolario della configuratio, meno
frequente, ma che offre constatazioni analoghe 318 -, tuttavia
permettono di sottolio neare subito l’importanza di questo tema.
Osservando con più attenzione scopriamo che esso si trova soprattutto
nei passaggi che trattano dei grandi misteri della salvezza. Dato il
carattere peregrinante della vita cristiana, forse vi è una preferenza per
la conformazione a Cristo nella sua passione; tuttavia, sarà facile
percepirlo, essa non è mai considerata sola, separata dalla risurrezione:
«La soddisfazione di Cristo ha il suo effetto in noi, in quanto
siamo incorporati a lui come le membra al loro capo... Ora, è
necessario che le membra si conformino al capo (membra autem
oportet capiti conformari). Quindi, come Cristo cominciò col
ricevere insieme alla grazia la passibilità del corpo e, mediante
la sua passione, giunse alla gloria dell’immortalità, così anche
noi, che siamo sue membra, \.v'w liberati per mezzo della sua
passione da ogni pena, però in modo tale che riceviamo prima
nella nostra anima lo Spirito di figli adottivi (Rm 8, 15) grazie al
quale ci è attribuita un’eredità di gloria immortale
Solo in seguito, dopo essere stati configurati alle sofferenze e
alla morte di Cristo (Fil 3, 10), saremo condotti alla gloria
immortale, secondo quanto afferma l’Apostolo (Rm 8, 17): Se
siamo figli di Dio, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di
Cristo: purché soffriamo con lui, per essere con lui glorificati»
319
.
Questa conformità a Cristo nella sua passione in genere, ha
anche un ruolo specifico per gli altri misteri, in particolare per la sua
morte:

318 Si contano 57 ricorrenze: 10 riguardano la configurazione a Dio, 15 al


Cristo in genere, 12 alla sua passione, 10 alla sua morte e alla sua sepoltura, 6 alla sua
risurrezione, 4 ad altri aspetti del suo mistero (sacerdozio o santità).
319 III, q. 49, a. 3 ad 3; esattamente nello stesso senso, si può ancora
citare IH, q. 56, a. ad 1: «È necessario innanzitutto che siamo conformati al Cristo
sofferente e morente in questa vita passibile e mortale per giungere in seguito a
partecipare alla somiglianza della sua risurrezione»; cf. I-II, q. 85, a. 5 ad 2; III, q.
66, a. 2; SCG IV 55, n. 3944 {in fine)-, In ad Romanos 8, lect. 3 et 4, nn. 651-653; cf.
J.-P. TORRELL, Inutile sainteté?, Paris 1971, pp. 49-64.
164
«Come noi siamo conformati alla sua morte [di Cristo] nella
misura in cui moriamo al peccato, così egli è morto alla vita
mortale, in cui vi è similitudine di peccato, sebbene egli stesso
non avesse avuto peccato. Così noi tutti che siamo stati
battezzati siamo morti al peccato»320.
Anche se ci sorprende un po’ - ma qui Tommaso non fa altro
che seguire san Paolo e lo svolgimento del mistero pasquale -, tutto
questo vale anche per il mistero della sepoltura: «Con il battesimo gli
uomini sono sepolti in Cristo (sepeliuntur Christo), conformati, cioè,
alla sua sepoltura»321. A maggior ragione ciò vale anche per la
risurrezione: «Dopo essere morto, Cristo è risuscitato; “conviene”
dunque che coloro che sono stati conformati a Cristo quanto alla sua
morte mediante il battesimo, siano anche conformati alla sua
risurrezione tramite l’innocenza della loro vita» 322. H trattato dei
sacramenti è particolarmente ricco di annotazioni di questo genere: se
«con il battesimo l’uomo è incorporato a Cristo e diventa suo
membro..conviene che ciò che è accaduto nel Capo si realizzi anche
nelle membra che gli sono incorporate.»323. In questo contesto, le
conseguenze molto concrete non tardano ad apparire, così come
quando si parla del sacramento della penitenza:
«Affinché qualcuno sia liberato efficacemente dalle pene
[temporali], è necessario che sia reso partecipe della passione
di Cristo, cosa cheA avviene in due modi. Primo, mediante il
sacramento della passione, if battesimo, con il quale [il
battezzato] è sepolto con Cristo nella morte, come dice Rm 6, 4,
e in cui opera la virtù divina che non conosce inefficacia; perciò
tali pene sono eliminate nel battesimo. Secondariamem te,
qualcuno diventa partecipe della passione di Cristo per una
reale conformità ad essa, cioè quando soffriamo con Cristo
sofferente: questo si realizza con la penitenza. Quest’ultima
conformità si produce con la nostra propria operazione e per
questo può essere perfetta o imperfetta.. ,»61.
È impossibile citare tutti i testi. Se non si fosse già intuito, è ora

320 In ad Romanos 6, 3, lect. 1, n. 473.


321 Ibid., n. 474; il testo continua sottolineando che se nel battesimo vi è
una triplice immersione, non è soltanto a causa della Trinità, sed ad repraesentandum
triduum sepulturae Christi.
32255ibid., n. 477.
323 III, q. 69, a. 3; cf., a. 7 ad 1: «Il battesimo apre al credente la porta
del regno dei cieli nella misura in cui lo incorpora alla passione di Cristo applicandogli
la sua “virtù”»; q. 73, a. 3 ad 3: «Il battesimo è il sacramento della morte e delia
passione di Cristo in quanto l’uomo è rigenerato in Cristo in virtù della sua passio-
165
di sottolineare l’ispirazione profondamente paolina di questa dottrina.
In nessun luogo il teologo Tommaso si mostra più attento all'ascolto
della Sacra Scrittura che quando si tratta di Cristo, e il lettore attento:
non può evitare di essere impressionato dalla facilità con cui la
tecnica più rigorosa è impiegata a servizio di una profonda vita di
fede. Evidentemente è il versetto leitmotiv di questo capitolo che
emerge sullo sfondo di questa dottrina:
«Quelli che egli (il Padre) da sempre ha conosciuto li ha anche
pre destinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo...
[Contro
"alcuni” che pretendono che la prescienza di Dio dei meriti
futuri di una persona è la ragione della sua predestinazione e
che così vogliono intendere san Paolo: “Coloro che egli ha
saputo in precedenza dover essere conformi all’immagine del
Figlio suo, li ha anche predestinati...”, Tommaso replica:] Si
potrebbe affermare ciò con ragione se la predestinazione
riguardasse soltanto la vita eterna, che rispoi merito; ma in
realtà è ogni beneficio salutare previsto per l’uomo da tutta
l’eternità a riguardare la predestinazione: è la ragione per cui
tutti i benefici che ci sono stati accordati nel tempo sono stati
preparati da tutta l’eternità. Affermare che da parte nostra è
presupposto un merito qualsiasi che sarebbe la causa della
nostra predestinazione, significa

ne. Mentre l’eucaristia è il sacramento della passione di Cristo in quanto l’uomo è


reso perfetto con l’unione a Cristo nella sua passione».
61
Seni. HI, d. 19, q. 1, a. 3 sol. 2.
affermare che la grazia è data in virtù dei nostri meriti, che noi
siamo all’origine delle nostre buone opere e che a Dio spetta
soltanto il loro compimento.
Il testo bisogna piuttosto leggerlo nel seguente modo: “Quelli
che egli da sempre ha conosciuto, sono proprio coloro che ha
predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo".
Questa conformità non è la ragione della predestinazione, ma il
suo termine, il suo effetto. L’Apostolo dice bene altrove (Ef 1,
5): “Ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi". L’adozione
filiale non è nient’altro che questa conformità. Colui che è
adottato come figlio di Dio viene conformato al suo vero Figliò.
[Questo accade] prima di tutto mediante il diritto di partecipare
all’eredità, così come è stato detto prima (Rm 8, 17): "Figli ed
eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo". In seguito tramite una
partecipazione alla sua gloria. Egli infatti è stato generato dal
Padre come “splendore della sua gloria" (Eh 1, 3). Perciò, per

166
il fatto stesso che illumina i santi con la luce della sua sapienza
e della sua grazia, li rende a lui conformi. Per questo è detto nel
salmo (109, 4): “Dal seno dell’aurora ti ho generato prima
della luce nello splendore dei santi”, cioè irradiando lo
splendore dei santi (...).
Circa la conseguenza di questa predestinazione, Paolo
aggiunge: “Perché egli sia il primogenito tra molti fratelli".
Infatti, come Dio ha voluto comunicare la sua natura ad altri
facendoli partecipare alla somiglianza della sua bontà, in modo
tale che egli fosse non solo buono ma anche autore di bontà,
così il Figlio di Dio ha voluto comunicare la conformità della
sua filiazione, in modo tale che non fosse soltanto Figlio ma
anche il Primogenito dei figli. È così che colui che è unico a
causa della sua generazione eterna, secondo Giovanni (1, 18),
“il Figlio unico che è nel seno del Padre”, diventa, con la
comunicazione della grazia, “il Primogenito tra molti fratelli” :
“Colui che è il Primogenito dei morti, il Principe dei re della
terra” (Àp 1, 3).
Noi siamo così i fratelli di Cristo, sia per il fatto che ci ha
comunicato la somiglianza della sua filiazione, come è stato
detto qui, sia per il fatto che ha assunto la somiglianza della
nostra natura, secondo la lettera agli Ebrei (2, 17): “Egli ha
dovuto rendersi in tutto simile ai suoi fratelli”» 324.

Oltre all’ispirazione paolina, è possibile cogliere con un colpo d’occhio


l’articolarsi dell’insieme della dottrina. Il suo modo di presen-
tare il Verbo incarnato, allo stesso tempo exemplar secondo il quale
siamo stati creati e ricreati, ed exemplum che dobbiamo imitare con
il§ nostro agire, permette a Tommaso di sottolineare con forza il posto
di Cristo nella nostra vita cristiana e di insistere contemporaneamente
su una vita spirituale pienamente trinitaria 325. La dottrina del Cristo
modello costituisce sì uno dei suoi grandi temi spirituali, ma, con il
tema dell’immagine che fa da sfondo a questi sviluppi, ritroviamo
senza alcuno iato l’Esemplare ultimo: «Dato che è a causa della sua
uguaglianza nell’essenza che il Figlio è simile al Padre, è necessario,
se l’uomo è stato creato a somiglianza del Figlio, che egli sia stato
fatto anche ad immagine del Padre» 326. Questo stesso testo prosegue,
come già sappiamo, dicendo che in effetti è ad immagine dell’intera
Trinità che siamo conformati. Senza insistervi ulteriormente, visto che
vi ritorneremo ben presto, questo ci offre l’occasione di ricordare
324 In ad Romanos 8, lect. 6, nn. 703-706; è lo stesso passaggio di Rm 8,
29 che dirige la riflessione della Summa sulla predestinazione, cf. I, q. 23, in modo
particolare l’a. 5.
325 Cf. G. RE, 1/ cristocentrismo délia vita cristiana, Brescia 1968.
3261, q. 93, a. 5 ad 4; cf. É. BAILLEUX, À l’image du F ils premier-né, pp. 192-2035
167
almeno il ruolo dello Spirito Santo. Lungi dall’essere assente da
questo processo di conformazione a Cristo e a Dio, egli ne è l’agente:
«Si legge nella Sacra Scrittura che noi siamo conformati al
Figlio mediante lo Spirito Santo. Testimone questo passo della
lettera ai Romani (8, 15): “Avete ricevuto uno Spirito da figli
adottivi”, e il seguente, della lettera ai Galati (4, 6): “Poiché
siete suoi figli, Dio ha inviato nei vostri cuori lo Spirito di suo
Figlio”. Ora, niente si conforma a qualche modello se non
mediante il suo proprio sigillo. Lo si constata nelle nature
create, in cui ciò che rende simile al modello procede da esso;
così il seme umano che procede dall’uomo rende simile
all’uomo. Ora, lo Spirito Santo procede dal Figlio come suo
carattere proprio. Perciò si dice di Cristo: “Ha impresso in noi
il suo sigillo, la sua unzione, ci ha dato come pegno lo Spirito
Santo presente nei nostri cuori”» 327.

«IL PRIMOGENITO DI OGNI CREATURA»

Si potrebbe illustrare la colorazione eristica della grazia con là bella


immagine di cui si serviva Louis Chardon: l’acqua di una sorgen-

327 Depotentia, q. 10, a. 4, da É. Bailleux, pp. 202-203.


168
te che conserva le proprietà dei minerali che ha attraversato 328, ma
come per l’analogia dello strumento, non bisogna essere vittime delle
implicanze materiali. Cristo è per noi molto più che un semplice
strumento, è il Capo del suo Corpo mistico, la Chiesa. Questo fa dire
a san Tommaso che la grazia è stata data a Cristo per fare di lui il
principio primo e universale che causa la grazia in tutti coloro che si
legano a lui329. Molto più epurato, questo principio metafìsico
permette di sottolineare che Cristo non è soltanto tramite, ma anche
causa della grazia. Ben presto, il Maestro d’Aquino ha avvertito i
limiti dell’analogia dello strumento e, senza rigettarla, dato che gli ha
permesso un progresso decisivo, si è incamminato verso un
approfondimento del dato paolino sul Corpo di Cristo:
«Secondo san Giovanni Damasceno, l’umanità di Cristo è stata
come lo strumento della sua divinità, e per questo le sue azioni
potevano essere salvifiche per noi. [Ciò è acquisito e non sarà
più abbandonato, ma ecco la precisazione che s’impone:] In
quanto però è stato uno speciale strumento della divinità, fu
necessario che vi fosse ima qualche unione speciale fra
rumanità e la divinità.
Secondo Dionigi... ogni essere tanto più partecipa alla bontà di
Dio quanto più vi si avvicina. Per cui anche l’umanità di Cristo,
per il fatto stesso che è unita alla divinità in modo più stretto e
speciale che qualsiasi altra creatura, partecipa in modo più
eccellente alla bontà divina. Per cui vi fu in essa non solo la
capacità di avere la grazia, ma anche quella di trasmetterla, un
po’ come i corpi che brillano trasmettono agli altri la luce del
sole. E poiché Cristo comunica la grazia a tutte le creature
razionali, ne deriva che, secondo la sua umanità, Cristo è in
qualche modo il principio di tutta la grazia, come Dio è il
principio di tutto l’essere.

328 L. CHARDON, La Croix de Jésus, pp. 127-128: «E come le acque delle


fontane che sono passate attraverso alcuni minerali ne ritengono le qualità e le
proprietà principali e producono degli effetti simili nelle persone che le bevono o le
toccano, così, visto che la grazia proviene dall’anima di Gesù come dalla sua fonte
originaria in cui essa produce un peso che riguarda il fine per cui egli si è fatto Uomo,
è una necessità che essa risenta di questa disposizione in coloro che sono resi degni di
parteciparvi. Si tratta di ciò che il divin Apostolo chiama “carità pressante”, amore
che forza e costringe i cuori, “perché se uno solo è morto per tutti, gli altri, dunque,
sono morti similmente” (2 Cor 5,14); come se volesse dire che, se la grazia del capo ha
obbligato Gesù alla morte e gli ha dato una propensione così forte verso la Croce, è
una conseguenza necessaria che essa formi lo stesso amore che forma nell’anima
fedele».
329 HI, q. 7, a. 9: «tanquam cuidam immersali principio in genere habentium
gratiam»; si riconosce qui un’applicazione del principio del maxime tale.
Perciò, come in Dio si ritrova tutta la perfezione dell’essere,
così in Cristo si trova tutta la pienezza della grazia; egli non
solo può agire da se stesso nell’ordine della grazia, ma può
anche condurre gli altri alla grazia, e per questo motivo ha la
prerogativa di capo.
Ora, nel capo di un corpo naturale vi è la potenza sensitiva non
solo perché gli permetta di vedere, di ascoltare, di toccare e così
via; ma anche come nella radice dalla quale le sensazioni
profluiscono nelle altre membra. Così dunque; in Cristo, è
l’unica e medesima grazia abituale che viene detta “grazia
d’unione" in quanto conviene a una natura unita alla divinità,
"grazia capitale" in quanto essa rifluisce sugli altri per la loro
salvezza, e “grazia personale” in quanto abilitava tale umanità
a compiere azioni meritorie»330.

Si possono notare alcune differenze tra questo testo giovanile e


le formulazioni più compiute della Somma. Qui Cristo appare come
Capo in virtù dell’irradiamento della sua grazia, mentre poco più tardi
è la formulazione inversa che sarà affermata: l’effusione della grazia
sulle membra della Chiesa sarà vista come la conseguenza
dell’attribuzione a Cristo del titolo di Capo. Parimenti, nella Somma
Tommaso distinguerà più nettamente la grazia d’unione dalle altre
due. Dono increato che la persona del Verbo fa di se stessa
all’umanità che assume331, essa non è commensurabile né alla grazia
personale né a quella capitale. Ciò su cui ci soffermeremo per il
momento è il modo in cui le cose si organizzano nel-; la sintesi: è
proprio perché è Figlio di Dio che Cristo è anche «pieno di grazia e di
verità» 332 333, e che può quindi causare la grazia con un’autorità
maggiore di quella di uno strumento, anche se questo fosse congiunto.
Si sarà osservata la formula così vigorosa sottolineata nel testo qui
sopra: «Cristo è in qualche modo il principio di tutta la grazia, come
Dio è il principio di tutto l’essere» (principium quodammodo omnis
gratiae, sicut Deus est principium omnis esse). Tommaso non poteva
affermare niente di più forte, e per questo aggiunge poco dopo:
«Cristo ha realizzato la nostra salvezza quasi ex propria uirtute»11.
La dottrina del Corpo di Cristo si mostra decisiva per ben
comprendere, infine, la conformazione dei cristiani a Cristo per
grazia. Spiritualmente, tra Cristo e le sue membra non vi è soluzione

330 De ueritate, q. 29, a. 5; vedi il commento di É. BAILLEUX, Le Christ et son


Esprit, RT 73 (1973) 386-389.
331 Cf. HI, q. 2, a. 10; q. 6, a. 6; q. 7, a. 11; etc.
332 Gv 1,14, cit. in De ueritate, q. 29, a. 5 ad 1.
333 De ueritate, q. 29, a. 5 ad 3.
170
di continuità, poiché egli forma con essi «una sola persona mistica» 334.
E quindi tutto ciò che fa, «merito» o «soddisfazione», appartiene a
loro «così come le azioni di un uomo qualsiasi costituito in grazia
appartengono a tutta la sua persona»335. Perciò l’onnipresenza di
Cristo agente e raggiante nella vita cristiana, secondo san Tommaso
trova la sua migliore espressione nella dottrina del Corpo mistico, in
quanto è la grazia che deriva da Cristo-Capo che con le sue proprie
qualità speciali discende sulle membra, in modo da conformarle a lui.
In un passaggio che gli esegeti attuali riterrebbero indubbiamente
curioso, egli spiega come, secondo lui, l’unico soggetto delle lettere di
san Paolo è la grazia di Cristo considerata in rapporto al suo corpo
ecclesiale:
«L’Apostolo ha scritto quattordici lettere... Questo
insegnamento è tutto concentrato sulla grazia di Cristo che può
essere considerata in tre modi. Primo, in quanto essa è nel Capo
stesso, Cristo, ed è così che la troviamo nella lettera agli Ebrei.
Poi, in quanto è nelle membra principali del Corpo mistico, ed è
così che la troviamo nelle lettere indirizzate ai prelati [le
Pastorali], Infine, in quanto si trova nel Corpo mistico stesso,
ed è così che la troviamo nelle lettere rivolte ai Gentili» 336.
Poco importa qui l’esattezza della ricostruzione. Essa, almeno,
fa luce sull’idea che Tommaso si faceva della Chiesa, nella quale
mette innanzi, con ineguagliabile forza, l’elemento interiore della
comunione ecclesiale. Sulla scorta di Paolo e soprattutto di Agostino,
superando però quest’ultimo grazie al Damasceno 337, Tommaso
considera la Chiesa innanzitutto come un organismo di grazia che
dipende totalmente dal suo capo, Cristo338:
«Cristo possedeva la grazia non solo a titolo individuale, ma in
quanto Capo della Chiesa alla quale noi tutti siamo uniti come
le membra al loro Capo, in modo tale da costituire misticamente
con lui una sola persona. Ne deriva che il merito di Cristo si
estende anche agli altri in quanto sono sue membra, così come
in ciascun uomo l’azione del capo appartiene in qualche modo a
334 ITI, q. 48, a. 2 ad 1.
335 HI, q. 48, a. 1.
336 Prologo generale alle Lettere, n. 11; questo testo è tradotto più
ampiamente in Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 288-289.
337 Vedi Y. CONGAR, Saint Augustin et le traiti scolastique De gratia
capitis, «Augustinianum» 20 (1980) 79-93, che ricorda come la dottrina della
strumenta- lità dell’umanità di Cristo nella produzione della grazia era sconosciuta a
sant’Agostino, il quale non concepiva il suo agire se non come una causalità
dispositiva (cf. sopra n. 16).
338 Cf. Ili, q. 8, aa. 1 et 5; q. 7, aa. 1 et 9.
171
tutte le membra, dato che non agisce soltanto per se stesso ma
per tutte le sue membra»339.
Poiché ricapitola in lui tutti coloro che sono in grazia, Cristo può
quindi comunicare loro il merito infinito che ha acquisito con la sua
obbedienza amorosa alla volontà del Padre. Ed è nella misura in cui
sono legati a lui che essi possono ricevere lo Spirito Santo:
«Se l’Apostolo aggiunge in Cristo Gesù (Km 8, 2), è perché lo
Spirito non è dato se non a coloro che sono in Cristo Gesù.
Come il soffio vitale naturale non giunge alle membra che non
sono legate al loro capo, così lo Spirito Santo non giunge alle
membra che non sono unite al loro capo, Cristo» 340.
Questo non esclude quanto abbiamo appena detto dello Spirito
come agente della nostra conformazione a Cristo. A motivo della
primaria origine trinitaria e della circuminsessione delle persone divine,
esiste un condizionamento reciproco della loro azione e, a seconda del
punto di vista, la priorità sarà diversa caso per caso. E se lo Spirito non
è donato se non a coloro che sono in Cristo, esso è anche colui che
costituisce Cristo come primogenitus, «il primogenito tra molti
fratelli», poiché gli è stato dato «senza misura» (Gv 3, 34). Anche il
Padre però viene implicato, poiché è per il modo in cui è stato generato
che il Figlio si trova ad essere anche il Primogenito dell’intera
creazione:
«Dio non conosce la creazione diversamente da come conosce
se stesso, e conosce tutte le cose nella loro essenza, come nella
causa prima efficiente. Ora, il Figlio è il concepimento
intellettuale di Dio, che conoscendo se stesso conosce così
anche ogni creatura. In quanto generato, egli è il Verbo che
rappresenta ogni creatura ed è egli stesso principio di ogni
creatura. Se non fosse generato in questo modo, egli sarebbe
il Primogenito del Padre ma non il Primo di ogni creatura.
[Ora, la Sapienza dice di se stessa:] “Uscita dalla bocca
dell’Altissimo, io sono la primogenita di tutte le creature” (Sir
24, 5, Volgata)»341.

UN CORPO SACERDOTALE, REGALE E PROFETICO

339 III, q. 19, a. 4; cf. q. 48, a. 2 ad 1: «H capo e le membra formano


come una sola persona mistica (quasi una persona mystica)»', cf. sopra, le note 55-56;
per i diversi aspetti della capitalità di Cristo, si può vedere TH.R. POTVIN, The Theology
of the Primacy of Christ, spec. pp. 27-35 e 226-249.
340 In ad Romanos 8, 2, lect. 1, n. 606.
341 In ad Colossenses 1,15, lect. 4, n. 35.
172
Ancora una volta siamo stati rinviati alle processioni
intratrinitarie per capire in che modo il Verbo incarnato si rapporti
agli uomini. Ma ci si ricorda del parallelismo tra la maniera in cui Dio
comunica la sua bontà alle creature e il modo in cui il «Figlio di Dio
ha voluto comunicare ad altri la conformità della sua filiazione,
cosicché egli non è soltanto il Figlio, ma il primo dei figli» 342. Ciò può
essere sviluppato sottolineando che egli comunica anche a loro, nello
Spirito, Funzione che ha fatto di lui l’Unto per eccellenza, cioè il
Messia, facendo così di essi altri «cristi» che come lui possiedono la
triplice qualità sacerdotale, regale e profetica. Questa trilogia,
rivalutata nel XX secolo343, era ben nota al Maestro:
«Nell’antica alleanza si dava l’unzione ai sacerdoti e ai re,
come fu il caso di Davide (1 Sam 16) e Salomone (\ Re 1). E
anche i profeti ricevevano l’unzione, come accadde con Eliseo
che fu unto da Elia (1 Re 19). Queste tre (unzioni) convengono a
Cristo che fu re: “Regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe”
(Le 1, 33). Fu anche sacerdote ed offrì se stesso a Dio in
sacrificio (Et 5, 2). Fu anche profeta e proclamò la via della
salvezza: “Il Signore susciterà un profeta tra i figli di Israele”
(Dt 18, 13). Come è stato unto? Non con un olio visibile poiché
il suo “regno non è di questo mondo” (Gv 18, 36). E siccome
non ha svolto un sacerdozio materiale, egli non è stato quindi
unto con un olio materiale ma con l’olio dello Spirito Santo...»
344
.
La formulazione a volte è un po’ differente secondo i contesti,
però, se non sempre riveste esattamente la stabilità che acquisterà più
tardi, la trilogia messianica è veramente operante:
«Gli altri uomini hanno alcune grazie particolari, ma Cristo,
come capo di tutti gli uomini, possiede perfettamente tutte le
grazie. Perciò, per quanto riguarda gli altri uomini, l’uno è
legislatore, l’altro sacerdote, l’altro re; in Cristo al contrario
tutto ciò si ricongiunge come nella fonte di tutte le grazie. Per

342 Cf. sopra, p. 167.


343 Sono noti gli sviluppi di Y. CONGAR, Jalons pour une théologie du laïcat
(«Unam Sanctam 23»), Paris 19643; come pure di P. DABIN, Le sacerdoce royal des
fidèles dans la tradition ancienne et moderne («Musaeum Lessianum 48»), Bruxelles-
Paris 1950, che ha elaborato un ricco dossier di 650 pagine sulla qualità sacerdotale,
regale e profetica del Popolo di Dio dalle origini fino ai nostri giorni; più recente la
pregevole sintesi di J. ALFARO, Les fonctions salvifiques du Christ comme prophète, roi et
prêtre («Mysterium salutis 11»), Paris 1975, pp. 241-325; Y. CON- GAR, Sur la trilogie
Prophète-Roi-Prêtre, RSPT 67 (1983) 97-116.
344 In Ps. 44, 5 (Vivès, t. 18, p. 508); cf. In ÎAatthaeum 1, 1, lect. 1 nn. 19-20:
«Vi erano tre unzioni nella legge antica. Infatti, Aronne ha ricevuto l’unzione dei
173
questo è detto in Isaia (33, 22): “Il Signore è nostro giudice, il
Signore è nostro legislatore, il Signore è nostro re. Egli verrà e
ci salverà’’» 83.
Come ci si può ben aspettare dopo tutto ciò che abbiamo detto,
poiché la Chiesa - Corpo di Cristo è un’espansione della sua grazia
capitale, tutti coloro che le sono aggregati mediante il battesimo
diventano con lui re, sacerdoti e profeti:
«[Dopo aver ricordato il significato dell’unzione e il senso della
parola Cristo, Tommaso continua:] Cristo è egli stesso re... È
anche sacerdote... Fu pure profeta... Era conveniente per lui
essere quindi unto d’olio di santificazione e di allegrezza [lo
Spirito Santo, secondo l’esegesi di Tommaso], Infatti è da lui
che derivano i sacramenti della grazia... Ma questa unzione
conviene anche ai cristiani. In effetti essi sono re e sacerdoti:
"Voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale” (1 Pt 2, 9),
“Tu hai fatto di noi per Dio un regno di sacerdoti” (Ap 3, 10).
Essi hanno anche lo Spirito Santo, che è lo Spirito di profezia:
“Io effonderò il mio spirito su ogni uomo” (Gl 2, 28; cf. Al 2,
17). E per questo tutti sono unti di un’unzione invisibile: “È Dio
stesso che ci conferma insieme a voi in Cristo e ci ha conferito
l’unzione” (2 Cor 1, 21); “Voi avete ricevuto l’unzione dal
Santo e sapete tutto” (1 Gv 2,

sacerdoti... Saul ha ricevuto da Samuele l’unzione dei re... Eliseo ha ricevuto funzione
dei profeti... Poiché Cristo fu vero sacerdote... e re e profeta, a giusto titolo è quindi
chiamato Cristo [cioè Unto] a causa delle tre funzioni che ha esercitato... Dato che
Cristo fu re, sacerdote e profeta, giustamente è quindi chiamato loro figlio [di
Abramo e di Davide]»; In ad Romanos 1,1, lect.l, n. 20: «Cristo vuol dire Unto... Con
ciò viene manifestata la dignità di Cristo quanto alla santità, perché i sacerdoti erano
unti... quanto alla potenza, perché anche i re erano unti... e quanto alla conoscenza,
perché pure i profeti erano unti».
83
III, q. 22, a. 1 ad 3: qui si trova «legislatore» laddove ci si aspetterebbe
«profeta», ma il contesto generale indica abbastanza che non è il caso di forzare la
differenza; cf. q. 31, a. 2: «Cristo doveva essere re, profeta e sacerdote»; Super Isaiam
61, 1 (Leon., t. 28, p. 240, linee 65ss.); In Matthaeum 28, 19, nn. 2462-2464.
20). Ma che rapporto c’è tra Cristo unto e i cristiani unti come
lui? Eccolo: lui ha l’unzione a titolo principale e primo, noi e
gli altri l’abbiamo ricevuta da lui... Quindi gli altri sono
chiamati santi, però lui è il Santo dei santi. E la fonte di ogni
santità»345.
Se, preoccupati di essere brevi, a volte abbiamo omesso le
citazioni scritturistiche fatte dall’autore, ne abbiamo lasciate tuttavia
345 In ad Hebraeos 1, 9, lect. 4, nn. 64-66.
174
un numero sufficiente perché si possa cogliere l’ispirazione
profondamente biblica di questa dottrina. E indubbiamente una delle
ragioni per cui essa si trova così spontaneamente in accordo alla
dottrina del Concilio Vaticano II, il quale ha fatto della trilogia
messianica la spina dorsale della Costituzione dogmatica Eumen
gentium. Certamente non è in san Tommaso che il Concilio ha trovato
la sua ispirazione, ma non è senza interesse sottolineare per inciso che
ciò che all’epoca del Concilio è apparso come una vera novità era in
realtà ben ancorato in una Tradizione di cui è anch’egli un testimone.
Forse non è necessario concludere questo capitolo con una
conclusione a modo, che ne riprenda tutti gli apporti. E chiaro ormai
che l’umanità di Cristo gioca nella sintesi di Tommaso d’Aquino un
ruolo strutturale, e che esso si ripercuote nell’esperienza vissuta del
cristiano, cominciando proprio dalla sua. Egli considera se stesso
come appartenente al «noi» dei cristiani che così spesso ritorna nei
suoi testi, alcuni dei quali lasciano addirittura percepire qualcosa del
suo atteggiamento nei confronti dell’umanità di Cristo Gesù e della
sua fiducia illimitata nella sua intercessione:
«(L’Apostolo mostra che Cristo non può né accusare né
condannare coloro per i quali ha versato il suo sangue [cf. Rm
8, 31-39]) al contrario, egli accorda ai santi grandi benefici
secondo la sua umanità e secondo la sua divinità. Secondo la
sua umanità, Paolo cita quattro benefici: 1. La sua morte per la
nostra salvezza... 2. La sua risurrezione, mediante la quale ci dà
la vita: vita spirituale su questa terra, vita corporale nel mondo
futuro... Egli sottolinea anche la risurrezione (“Cristo Gesù, che
è morto, anzi, che dico? Che è risuscitato"), giacché all’epoca
attuale è piuttosto della potenza della risurrezione che
dobbiamo far memoria che non della debolezza della passione.
3. La sua propria esaltazione tramite il Padre, quando afferma
“che sta alla destra di Dio”, cioè in una situazione di
uguaglianza con Dio Padrèi secondo la natura divina, e in
possesso dei migliori beni secondo lai natura umana. E questo
torna a nostra propria gloria perché, come dice l’Apostolo (Ef
2, 6): “Egli ci ha risuscitati e fatti sedere nei cieli, in Cristo
Gesù". Poiché siamo sue membra, noi dimoriamo con lui nello:
stesso Dio Padre... 4. La sua intercessione per noi, quando dice:
“egli intercede per noi” come se fosse nostro avvocato.
“Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo” (l Gv 2,
1). All’avvocato compete non accusare o condannare, ma al
contrario respingere l’accusa ed impedire la condanna. Egli
intercede per noi in un duplice modo. Prima di tutto, pregando
per noi... e la sua preghiera per noi consiste nella sua volontà di
175
salvarci: “Voglio che là dove io sono, anch’essi siano con me”
(Gv 17, 24). L’altro modo d’intercedere per noi consiste nel
presentare al cospetto del Padre l’umanità che ha assunto per
noi e i misteri che ha celebrato in essa: “Egli stesso è entrato in
cielo per apparire ora al cospetto di Dio in nostro favore’’» 346.

Alcune righe più avanti, in un passaggio fortemente ispirato a


san Giovanni Crisostomo, ma di cui riformula il tenore a modo suo,
Tommaso ricorda il comportamento degli innamorati che non
smettono di parlare a tutti, vicini e lontani, dell’oggetto della loro
passione. Egli si incanta allora su san Paolo, «questo eminente
innamorato di Cristo» (.eximius amator Còristi), che ha trovato tali
espressioni per parlare dell’oggetto del suo amore 347. Tommaso
stesso è raramente lirico, ma ciò che dice di Cristo lascia ben
intravedere i suoi sentimenti.

VII
Parlare dello Spirito Santo

Da quando il dialogo ecumenico ha rimesso i teologi latini in


contatto con i loro colleghi ortodossi, è molto frequente sentire
deplorare l’assenza dello Spirito Santo nella nostra teologia e
spiritualità occidentali t Senza voler qui polemizzare sull’eventuale
fondatezza dei rimproveri o delle lamentele formulate a tal proposito,
dovremo constatare ben presto che, almeno per quanto concerne san
Tommaso, queste lamentele si rivelano false. Lo Spirito Santo non è
per lui né un assente né uno sconosciuto. Egli è presente quanto il
Cristo nella sua teologia, e quindi anche nella sua spiritualità.
Ciononostante, è meglio non ignorare questo rimprovero e tentare di
capire dove risiede il malinteso.

Lo SPIRITO SANTO NELLE OPERE DI TOMMASO D’AQUINO

346 In ad Romanos 8, 33-34, lect. 7, nn. 719-720.


347 Ibid., n. 728; cf. SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, Ad Demetrium. De Com- punctione I,
8: PL 47, 406.
176
A proposito di Cristo, avevamo riscontrato che era fonte di
malinteso la sua collocazione nel piano della Somma; per quanto
riguarda lo Spirito Santo sorge un dubbio che sembra anche più
fondato, perché a parte il trattato sulla Trinità in cui era impossibile
non parlarne, pare che non gli sia riservato altro posto. I lettori
occasionali della Somma invano cercano nell’indice un luogo in cui si
parli unica- 348
mente dello Spirito Santo. Per coloro che abitualmente ricorrono a
monografie, scientifiche o no, che trattano di unico soggetto e sotto
tutti i suoi aspetti, è quindi sconcertante non trovare l’equivalente in
san Tommaso.
Senza rifiutare di entrare in materia, occorre dire chiaramente
che questa lettura non è quella buona. E senza voler fare apologetica a
priori, si può anche dire con certezza che, se qua e là nell’opera di
Tommaso d’Aquino non si trova lo Spirito Santo, in realtà è perché
egli si trova dappertutto. Valorosi ricercatori si sono dedicati a
minuziosi conteggi che mostrano irrefutabilmente una massiccia
presenza,: statistica dello Spirito Santo nella Somma349. Ma più che
insistere sulle statistiche che troppo spesso si attengono a un aspetto
puramente ma-s teriale, sarà forse utile ricordare qui rapidamente i
principali luoghi in: cui si ritrovano degli sviluppi più o meno lunghi a
riguardo dello Spirito Santo. Questo quadro non sarà né completo né
dettagliato dato che si tratta di cose di cui riparleremo nelle pagine
seguenti. Ma se qualche lettore desidera collocare da solo le nostre
citazioni in un contesto più ampio, sarà forse agevolato da queste
poche indicazioni.
Innanzitutto, dobbiamo rivolgerci evidentemente al trattato sulla
Trinità. Nella Somma di teologia, dopo una prima parte in cui
348Y. CONGAR ha ripreso queste lamentele mostrando quanto di eccessivo vi è
in esse: Eneumatologie ou «christomonisme» dans la tradition latine?, in
Ecclesia a Spiritu Sancto edocta. Lumen gentium, 53. Mélanges théologiques
offerts à Mgr Gérard Philips, Gembloux 1970, pp. 42-63; dello stesso autore,
Lapneumatologie dans la théologie catholique, RSPT 51 (1967) 250-258;
rinviamo ancora al suo buon libro ]e crois en l’Esprit-Saint, 3 tt, Paris 1979-1980,
in cui si troverà una documentazione molto più ampia.
349 Cf. A. CALVIS RAMÍREZ, El Espíritu Santo en la Suma teològica de santo
Tomás, in Tommaso d’Aquino nel suo settimo centenario, t. 4, Napoli 1976,
pp. 92- 104. L’A. ha rilevato 70 articoli nella Prima Pars, 45 nella Prima
Secundae, 108 nella Secunda Secundae, 138 nella Tertia Pars, in cui si parla
dello Spirito Santo. Queste cifre, ottenute senza l’aiuto del l’Index thomisticus che
solamente in seguito è stato disponibile, potrebbero oggi essere precisate o sfumate,
anche se tuttavia non potrebbero che essere rinforzate circa le conclusioni a cui
portano; infatti esse non sono che la traccia di una «presenza fondamentale,
profonda, che vivifica ogni parte, ogni trattato dando loro armonia e unità» (p. 94).
177
Tommaso situa le tre Persone in se stesse, a partire dalle processioni e
dalle relazioni (I, qq. 27-38), segue una seconda parte in cui le
considera nei loro rapporti (qq. 39-43). I dettagli dell’organizzazione
interna di ciascuna parte c’interessano meno, rispetto a una
sorprendente progressione del modo in cui ogni Persona è trattata in
particolare: è sufficiente una questione per parlare del Padre (q. 33);
ne occorrono due per il Figlio nei suoi titoli di Verbo e di Immagine
(qq. 34-35); ne servono tre per lo Spirito Santo: Spirito, Amore, Dono
(qq. 36-38). La progressione è troppo regolare per essere dovuta al
caso, soprattutto quando si sa
che Tommaso non era insensibile alla simbolica delle cifre 350. Senza
fare ulteriori commenti a tal proposito, si può osservare per inciso che
ciò indica almeno che lo Spirito Santo è considerato allo stesso titolo
che le altre due persone351 352.
Se lasciamo da parte le citazioni disseminate qua e là che, a
seconda della necessità, si ritrovano lungo l’intera Sommai, è alla fine
della Prima Secundae che troviamo ciò che un osservatore attento ha
proposto di chiamare «zone ad alta concentrazione pneumatologica»
353
. La prima di queste zone è costituita da un gruppo di tre questioni
(I-H, qq. 68-70) dedicate precisamente ai doni, alle beatitudini e ai
frutti dello Spirito Santo (menzionato 94 volte). Questo modo di
mettere in relazione doni, beatitudini e frutti dello Spirito Santo
costituisce un’originalità del Maestro d’Aquino su cui ritorneremo 354.
Un secondo passaggio si trova un po’ più lontano, in un gruppo di tre
questioni sulla legge evangelica o «legge nuova» (I-H, qq. 106-108).
Ben noto agli scolastici, questo tema è trattato da Tommaso in modo
molto personale, e la maniera in cui vi inserisce lo Spirito Santo (34
menzioni) è tutt’altro che accidentale poiché si tratta di ciò che vi è di
«principale» nel Vangelo355. Quanto al terzo grande sviluppo, c’era da
350 Cf. J. TONNEAU, La loi nouvelle, trad. francese, note e Appendici a S.
THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, 1“ 2ae QQ. 106-108, Paris 1981, pp. 98-99.
351 Sebbene con delle sfumature proprie, ciascuna di queste questioni è
stata ugualmente trattata nelle Sentenze, i passaggi paralleli saranno facilmente
reperibili utilizzando una buona edizione della Somma.
352 Esse sono più numerose, come ci si può aspettare nella Secunda
Secundae, per parlare delle virtù - in particolar modo teologali -, e nella Tertia
Pars per parlare di Cristo e dei sacramenti, ai quali lo Spirito Santo dà la loro
efficacia.
353 Cf. A. PATFOORT, Morale et pneumatologie. Une observation de la I-II,
in Les Clés, pp. 71-102; in seguito riprenderemo vari risultati cui è giunto A. Patfoort.
354 Cf. S.T. PiNCKAERS, La loi évangélique, vie selon l’Esprit, et le Sermon
sur la montagne, NV 1985, 217-228; ID., Les sources de la morale chrétienne. Sa
méthode, son contenu, son histoire, Fribourg-Paris 19933, cap. VII, pp. 180-200.
355 Cf. U. KUHN, Via caritatis. Theologie des Gesetzes bei Thomas
178
aspettarselo, è situato nel trattato della grazia (I-II, qq. 109- 114), che
Tommaso regolarmente chiama «la grazia dello Spirito Santo {grafia
Spiritus Sancii)» - con il duplice significato possibile che comporta
l’espressione latina: la grazia che è lo Spirito Santo o la grazia data
mediante lo Spirito Santo 356. Se questi tre gruppi di questioni non
dicono ancora tutto sullo Spirito Santo, sono ricchi però di idee e di
suggerimenti diversi sulla sua presenza e la sua azione nella vita del
cristiano.
Un insieme altrettanto importante lo si ritrova nella Somma
contro i Gentili. E risaputo che l’intenzione di quest’opera e la sua
costruzione sono molto diverse da quelle della Somma di teologia, e
l’elaborazione sulla Trinità non si trova se non nel libro IV,
consacrato alle «verità inaccessibili alla ragione» 357 358. Dopo un
Prologo in cui presenta il contenuto generale del libro, l’autore inizia
con la generazione del Verbo (2-14), continua con le questioni
sollevate dalla processione dello Spirito Santo (15-25), e conclude
con un capitolo in cui mostra che effettivamente non vi sono che tre
Persone in Dio (26). Leggendolo, ci si renderà conto di come queste
pagine offrono un mirabile esempio del metodo teologico del Maestro
d’Aquino e, in modo particolare, del modo in cui egli si pone
all’ascolto della Sacra Scrittura e dei Padri. Troviamo qui tre capitoli,
in particolare, che abbozzano un grandioso affresco sul ruolo dello
Spirito Santo nella creazione, nella storia della salvezza e nel ritomo
della creatura verso Dio. Bell’esempio di una simbiosi riuscita tra
teologia biblica e teologia riflessiva, essi offrono alla meditazione
prospettive inesauribilin.
Agli studi più elaborati delle grandi opere bisogna aggiungere
gli sviluppi dei commenti biblici. Nella «Lettura» sul quarto Vangelo,
i luoghi più significativi si trovano a proposito dell’incontro di Gesù
con Nicodemo. Le espressioni giovannee «rinascere dall’acqua e
von Aquin, Gottingen, 1965, pp. 218-223; questo autore offre uno studio dettagliato
del tema nelle opere anteriori di Tommaso, pp. 49-120 (abbozzo in francese e
discussione in M. FROIDURE, La théologie protestante de la loi nouvelle peut-elle
se réclamer de saint Thomas?, R.SPT 51 [1967], 53-61); per uno studio più
conciso, vedi J. TONNEAU, La loi nouvelle, pp. 196-203.
356 Cf. J. TONNEAU, La loi nouvelle, pp. 226-233; il trattato della grazia
ha evidentemente i suoi paralleli nelle Sentenze (III, dd. 26-29) e nel De ueritate (qq.
27-29), ma si farà attenzione qui al fatto che Tommaso ha evoluto su questo puntò dal
momento in cui ha scoperto il semipelagianesimo; cf. H. BOUILLAKD, Conversion et
grâce chez S. Thomas d’Aquin. Étude historique («Théologie 1»), Paris 1944, pp. 92-
122.
357 Cf. la nostra presentazione in Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo,
cap. VI, soprattutto pp. 130-139.
358 SCGIV 20-22.
179
dallo Spirito Santo», oppure «lo Spirito soffia dove vuole», offrono al
commentatore buone prospettive359. La promessa di fiumi d’acqua
viva permette di precisare che questa fonte zampillante è lo stesso
Spirito Santo360.1 capitoli che riportano i «logia» di Gesù sul Paráclito
sono anch’essi oggetto
di una gustosa esegesi le cui annotazioni spirituali accattivano il
lettore 14. Il commento alle lettere paoline non è tuttavia meno ricco:
quello al capitolo 8 della lettera ai Romani costituisce probabilmente
uno dei vertici del genere 15, ma quello della prima ai Corinzi, circa la
dottrina di Paolo sui carismi (cap. 12), è anch’esso di grande
interesse16, come pure quello alla lettera ai Galati (cap. 5) sulla libertà
nello Spirito, che costituisce proprio uno dei temi privilegiati di
Tommaso17.
Questa lista certamente potrebbe essere prolungata, ma il nostro
scopo non è quello di esaurire la materia 18. Volevamo semplicemente
segnalare l’esistenza di questi numerosi testi per permetterne a chi lo
desiderasse un accesso più facile. Nonostante la proliferazione di
studi validi da una trentina d’anni a questa parte, la dottrina dello
Spirito Santo in Tommaso è lungi dall’aver ricevuto l’attenzione che
merita19. Questa enumerazione permetterà almeno di capire che
sarebbe ingiusto rigettare sul Maestro l’eventuale negligenza dei suoi
discepoli.

14
Super loannem 14, lect. 4 et 6, nn. 1907-1920 e 1952-1960; cap. 15, lect. 5,
nn. 2058-2067; cap. 16, lect. 2-4, nn. 2082-2115.
15
In adRomanos 8, lect. 1-7, nn. 595-731.
16
In 1 ad Cor. 12, lect. 1-2, nn. 709-730.
17
In ad Galatas 5, lect. 6-7, nn. 327-341.
18
Segnaliamo tuttavia un buon commento degli articoli del Credo sullo
Spirito Santo e la Chiesa (Expositio in Symbolum nn. 958-998), e la collatio 19 del
Super Isaiam con il nostro commento: J.-P. TORKELL - D. BOUTHTLLIER, Quand saint Thomas
méditait sur leprophète Isaie, RT 90 (1990) 5-47, cf. pp. 35-37.
19
Oltre ad opere già citate che seguiranno, ecco l’indicazione di alcuni lavori
supplementari: G. FERRARO, LO Spirito Santo nel commento di San Tommaso ai capitoli
XIV-XVI del quarto Vangelo, in Tommaso d’Aquino nel suo Settimo Centenario. Atti del
Congresso intemazionale, t. IV, Napoli 1977, pp. 79-91; ID., Il tema dello Spirito Santo
nel Commento di San Tommaso d‘Aquino all'Epistola agli Ebrei (Annotazioni di dottrina e
di esegesi tomista), ST 13 (1981) 172-188; ID., Aspetti di pneu- matologia nell’esegesi di
S. Tommaso dAquino dell'Epistola ai Romani, «Euntes Docete» 36 (1983) 51-78; ID., La
pneumatologia di San Tommaso d’Aquino nel suo commento al quarto Vangelo,
«Angelicum», 66 (1989) 193-263; ID., Interpretazione dei testi pneumatologici biblici nel
trattato trinitario della «Summa theologiae» di san Tommaso d‘Aquino (I, qq. 27-43), ST
359 Super Ioannem 3, lect. 1 e 2, soprattutto nn. 449-456.
360 Super Ioannem 7, lect. 5, nn. 1091-1096.
180
45 (1992) 53-65; L. ELDERS, Le Saint-Esprit et la Lex Nova dans les commentaires bibliques
de S. Thomas d’Aquin, in Credo in Spiri- tum Sanctum. Atti del Congresso teologico
internazionale di Pneumatologia, Città del Vaticano 1983, t. Il, 1195-1205; S. ZEDDA,
Cristo e lo Spirito Santo nell’adozione a figli secondo il commento di S. Tommaso alla
lettera ai Romani, in Tommaso d’Aquino nel suo settimo centenario, t. IV, pp. 105-112.
Per ricerche più approfondite vedi A, PEDRINI, Bibliografia tomistica sulla
pneumatologia («Studi tomistici 54»), Roma 1994, che elenca i titoli dal 1870 al 1993.

181
NOMI COMUNI E NOMI PROPRI: L’APPROPRIAZIONE TRINITARIA

Quanto abbiamo appena detto sarà insufficiente fino a quando


non ci saremo immersi nei testi stessi e non avremo scoperto ciò che
dice Tommaso dello Spirito Santo e il modo in cui lo dice. Ma per
fare questo è necessario sapersi confrontare col mistero della Trinità
e interrogarsi su come è possibile affermare qualcosa di fondato
riguardo alle caratteristiche delle Persone divine. Il teologo deve
trovare qui un discorso che sia allo stesso tempo soggettivamente
significante per la nostra intelligenza e fedele all’unità dell’essenza
divina. Per cui deve navigare in modo da evitare due scogli
individuati da tempo nella storia del pensiero cristiano: il triteismo,
che accentuando le differenze tra le persone, arriverebbe a farne tre
dèi e devierebbe così il monoteismo cristiano verso un’idolatria
politeista; e il modalismo, che cade nel pericolo contrario e non
vuole vedere nei nomi di Figlio e di Spirito se non delle modalità di
manifestazione o di designazione di rrn’unica persona divina,
rischiando quindi di ritornare a un monoteismo pre-trinitario.
Tra questi due scogli, il primo grande sforzo di chiarificazione
dogmatica intrapreso dalla Chiesa fu compiuto nei Concili di Nicea
(325) e di Costantinopoli (381), con la netta affermazione della
Trinità nell’unità. Tuttavia bisognava ancora pensare questa verità,
cercare di «comprendere con l’intelligenza ciò che si riteneva per
fede». Nella nostra tradizione latina, lo sforzo di sant’Agostino,
raggiunto da quello di Anseimo, ripreso ancora da san Tommaso e
dai grandi teologi del Xm secolo, è stato portato da essi - almeno per
quanto riguarda la Trinità - a un livello di elaborazione difficilmente
superabile. La teologia delle distinzioni delle persone mediante la
loro relazione di origine forma uno degli esempi più notevoli di
questa elaborazione. Ne esiste un altro che è importante capire bene
dato che costituisce una delle rare possibilità che abbiamo di
balbettare l’indicibile: si tratta di ciò che viene designato con il
termine di «appropriazione» 361.

361 Questo tema capitale e bello è anche molto ampio; per quanto qui non
potremo dire, rinviamo a H. DE LAVALETTE, La notion d’appropriamoti dans la théo- logie
trinitaire de S. Thomas d’Aquin, Roma 1959, e a H.-F. DONDAINE, La Trinité, t. II, pp.
409-423, al quale questo richiamo deve molto; cf. anche J.-H. NICOLAS, Les
profondeurs de la gràce, Paris, pp. 110-126; B. MONTAGNES, La Parole de Dica dans la
création, RT 54 (1954) 213-241, per l’appropriazione vedi pp. 222-230; i principali
testi di Tommaso sono i seguenti: I, q. 39, aa. 7-8; q. 45, aa. 6-7, con i loro paralleli.
182
Secondo la sua stessa definizione, il procedimento
dell’appropriazione consiste nel «portare un nome comune a
svolgere la funzione di nome proprio» (trahere commune ad
proprium). Si può prendere come esempio la pratica ben nota al
mondo latino antico in cui la parola «città» (urbs), pur applicata a
molti agglomerati, si applicava per eccellenza alla capitale
dell’impero: Roma era b Città (Urbs) per appropriazione. Qualcosa
di simile accade quando si attribuisce ad una delle Persone della
Trinità una qualità, in realtà comune alle tre Persone dato che essa
appartiene alla stessa essenza divina (perciò si parla di attributi
essenziali, mentre si parla di proprietà per le Persone). E ciò che
succede quando si usa «Sapienza» per parlare del Figlio, o «Bontà»
per parlare dello Spirito Santo. Basta prestarvi attenzione per
rendersi conto che il procedimento è uno dei più ricorrenti, ma
bisogna comprenderlo bene:
«Per chiarire questo mistero della fede, “conveniva”
appropriare alle Persone gli attributi essenziali. Infatti, se,
come si è detto, è impossibile provare b Trinità con una
dimostrazione propriamente detta, “conviene“ tuttavia
illuminare il mistero mediante cose più alla portata della
nostra ragione. Ora, gli attributi essenziali per la nostra
ragione sono più accessibili delle proprietà delle Persone.
Perché, partendo dalle, creature, cause della nostra
conoscenza, possiamo giungere a conoscere con certezza gli
attributi essenziali di Dio, ma non le sue proprietà personali.
Perciò, come ricorriamo alle analogie delle vestigia e
dell’immagine, ritrovate nelle creature, per esporre la dottrina
intorno alle persone divine, così ricorriamo anche agli attributi
essenziali. Questa manifestazione delle Persone per mezzo
degli attributi essenziali, è ciò che si suol chiamare
“appropriazione”»362.
Questo breve testo meriterebbe di apparire in un’antologia. In
esso si possono cogliere con molta chiarezza vari punti decisivi del
metodo tomasiano: il carattere progressivo del modo di procedere
(dal più noto al meno noto); il senso del mistero (impossibilità di
dimostrare la Trinità) e, ciononostante, il desiderio di penetrarlo
nella misura del possibile con ragioni di «convenienza» («conviene»
chiarire il ¡mistero). L’appropriazione dipende infatti proprio da
questa maniera di procedere per convenienza, tipica della teologia,
3621, q. 39, a. 7.
183
che non può pretendere nessuna conclusione necessaria, ma che
offre, malgrado ciò, qualche lume in un campo in cui, senza di essa,
regnerebbe un’oscurità ancora maggiore.
In verità, la maniera di procedere non è soltanto teologica.
Agostino, e Tommaso al suo seguito, l’avevano già potuta riscontrare
nel Nuovo Testamento. Il nome di Dio qui è correntemente riservato
al Padre, quello di Signore al Figlio, quello di Spirito alla terza
Persona (cf. Ef 2, 18). Altrove san Paolo attribuisce i carismi allo
Spirito, i ministeri al Signore, le «operazioni» a Dio (2 Cor 12, 4-6).
Questo modo di parlare continua nel Credo: qui la creazione è
attribuita al Padre, la salvezza degli uomini al Figlio, la
santificazione e la vivificazione allo Spirito. In ogni caso, si tratta sia
di nomi «essenziali» che convengono! alle tre Persone
simultaneamente, sia di operazioni che hanno la Trinità per unico
autore comune. Legato alla rivelazione dell’economia della salvezza,
ratificato dall’espressione dogmatica della fede, anche questo
linguaggio deve avere perciò la sua legittimità in teologia. L’unico
problema risiede nel suo fondamento e nei limiti del suo impiego.
H testo suddetto enunciava ciò che si potrebbe chiamare il suo
fondamento «soggettivo»: l’appropriazione trinitaria trova una prima
giustificazione nel profitto che ne ricava il teologo, ossia una certa
intelligenza del mistero 363. Legittimo, il procedimento potrebbe
aprire la porta a molte appropriazioni fantasiose che non avrebbero
nessun valore se non quello di una suggestione per chi le formula. E
importante perciò verificare ciò che lo giustifica da parte
dell’oggetto. Ora, a tal proposito il Maestro d’Aquino è molto chiaro:
«L’unico e principale fondamento dell’appropriazione è la
somiglianza con la Proprietà»364:
363 Evidentemente ciò è lungi dall’essere trascurabile; nel testo parallelo
delle Sentenze (I, d. 31, q. 1, a. 2), Tommaso parla della «utilità» che ricaviamo da
questo processo: sebbene mediante gli attributi essenziali non possiamo giungere
suffi-: cientemente alle proprietà delle Persone, vediamo tuttavia in questi attributi:
appropriati qualche somiglianza delle Persone, e questo dà una certa, seppure
imperfetta, «manifestazione» della fede; così come a partire dalle immagini e dati
vestigi della Trinità che incontriamo nella creazione, si può proporre un certo
approccio (uia persuasiua) alle Persone.
364 Seni. I, d. 31, q. 2, a. 1 ad 1; anche nella I, q. 39, a. 7 è la somiglianza
che viene in primo luogo: la Sapienza attribuita al Verbo a causa della sua
processione per modo d’intelletto; in secondo luogo, Tommaso cita anche la
dissomiglianza: la Potenza attribuita al Padre in contrapposizione alla debolezza dei
padri umani nella loro vecchiaia; qui però si ricade di nuovo in una visione più
soggettiva delle); cose e non sembra che Tommaso abbia seguito tale pista.
184
«Sebbene gli attributi essenziali siano comuni ai Tre, un
attributo, considerato nella sua ragione formale, ha maggiore
somiglianza con la Proprietà di tale Persona che con quella di
un’altra; esso allora può benissimo (conuenienter) essere
appropriato a questa Persona. Per e- sempio, la potenza evoca
un principio: essa è allora appropriata al Padre, che è il
Principio senza Principio; la sapienza si appropria al Piglio, il
quale procede come Verbo; la bontà allo Spirito Santo che
procede come Amore che ha il Bene per oggetto. Così dunque,
da parte dell’oggetto, è la somiglianza dell’attributo
appropriato con la proprietà della Persona che fonda la
convenienza dell’appropriazione, convenienza che sussiste
indipendentemente da noi>>24.

Il padre Dondaine, che ha attirato la nostra attenzione su questo


passaggio, sottolinea che tale somiglianza dell’attributo può vertere
sia suli’«origine della Persona, come accade per la “potenza”, sia sul
modo caratteristico d’origine, come succede per la “sapienza” eia
“bontà”... E chiaro che san Tommaso sfrutta fino in fondo e senza
riserve Tappropriazione delle cose delTintelletto al Figlio, e delle
cose del volere allo Spirito Santo-, ecco la potente ossatura che
organizza e costruisce l’intero edificio delle appropriazioni nella
teologia trinitaria derivata da sant’Agostino e da sant’Anseimo» 25.
Questa osservazione di un esperto è preziosa per la comprensione del
proposito del Maestro d’Aquino in cui si scopre con ammirazione
l’ampiezza dello spazio - a dir vero senza limiti - attribuito allo
Spirito Santo.
Così, tra coloro che da un lato non vedrebbero
nell’appropriazione molto di più che un semplice gioco di parole,
un’appropriazione verbale che non riguarderebbe la realtà stessa, e
coloro che d’altro canto le farebbero dire troppo, pretendendo che
l’attributo appropriato converrebbe soltanto o anche semplicemente
di più alla Persona beneficiaria dell’operazione, Tommaso, con più
modestia, vede il fondamento dell’appropriazione in «un’affinità
reale tra l’attributo e la proprietà, anteriore all’attività del nostro
spirito», che si accontenta di riconoscerla. Certamente è molto poco,
e ci si sorprende meno dei teologi che non possono farle dire di più,
avendo la tendenza a trascurarla e spesso a rinunciare di farle dire
qualsiasi cosa, riducendola a un puro gioco verbale. Tuttavia, come

2
^Sent. I, d. 31, q. 1, a. 2.
185
25
H.-F. DONDAINE, La Trinità, t. n, p. 418, nota; il corsivo è nostro; Dondaine
osserva anche che Tommaso va qui molto più lontano di Bonaventura, per il quale
sono realmente fondate solo le appropriazioni che connotano l’ordine di origine.
osserva Dondaine, se ciò appare un po’ ridotto dinanzi alla ragione,
non è questo il segno che essa ha raggiunto i suoi limiti 26? Alle prese
con il Mistero, Tommaso si confronta con esso e non rinuncia a
tentare di coglierlo e di esprimerlo; per quanto modesti siano stati i
suoi risultati, l’appropriazione resta fondata e, nel suo sforzo di dire
l’indicibile, il teologo può accordarle una portata limitata sì, ma
reale27.

Lo SPIRITO CREATORE

Dopo le considerazioni che precedono, apparentemente un po’


teoriche, ma la cui necessità ora sarà indubbiamente meglio
percepita, stiamo per leggere uno di quei testi di cui abbiamo
ricordato l’esistenza. Si tratta di un passaggio tra i più importanti
della Somma contro i Gentili, in cui il principio dell’appropriazione
gioca a pieno per parlare dello Spirito Santo. Fedele alla nostra
opzione, citeremo abbondantemente i testi stessi; ci si renderà conto
così dell’importanza concreta che Tommaso attribuisce allo Spirito
Santo28.

26
Cf. ibid,, pp. 418-420; Dondaine riporta qui una confessione molto
importante del Gaetano: «In questa materia, ci mancano le parole stesse: per cui ci è
necessario ben concepire e insinuare le proprietà delle Persone a partire dalle
appropriazioni» (In Iam, q. 36, a. 4, n. 8).
27
Tommaso non perde mai di vista il fatto che l’appropriazione non
comporta alcuna esclusività; tra tanti altri, ecco un testo che conferma molto
chiaramente l’osservazione del P. Dondaine sulla suddivisione delle appropriazioni
tra quelle che dipendono dalla volontà e quelle che dipendono dall’intelletto: «È
vero che tutti i doni, in quanto doni, sono appropriati allo Spirito Santo perché
costui, in quanto Amore, ha il carattere di primo Dono. Ciononostante alcuni doni,
considerati secondo il loro tenore proprio e specifico, sono attribuiti per appropriazione
al Figlio: si tratta precisamente di tutti quelli che hanno a che fare con l’intelletto. E
secondo questi doni si parla di una missione del Figlio. Sant’Agostino afferma anche
che il Figlio è «invisibilmente inviato a ciascuno, allorquando lo si conosce e
percepisce» (De Trinitate IV 20)», I, q. 43, a. 5 ad 1; cf. De ueritate q. 7, a. 3 ad 3.
28
Ci riferiamo a SCG IV 20-22, di cui un eminente esegeta ha potuto
affermare che si tratta di una «spiegazione risoluta e fervente di questo “dovere” di
appropriazione nel campo della causalità divina» (A. PATFOORT, Morale et pneu-
matologie, in Les clés, p. 95, n. 16, dove si troverà anche un abbozzo molto riuscito

186
della teoria dell’appropriazione); in un altro articolo, Missions divines et expérience
des Personnes divines selon S. Thomas, «Angelicum» 63 (1986), p. 557, n. 30, lo stesso
autore ha giustamente sottolineato che non bisogna sorprendersi di non trovare in
essa alcuni punti della teologia trinitaria, anche se ne restano abbastanza: per
illustrare il nostro proposito.
In un primo capitolo, il Maestro d’Aquino si impegna a cogliere
gli effetti che la Sacra Scrittura attribuisce allo Spirito Santo rispetto
all’intera creazione. Il primo effetto è evidentemente la creazione
stessa e sappiamo già perché:
«L’amore con cui Dio ama la sua propria bontà è la causa
della creazione delle cose... Ora, lo Spirito Santo procede come
l’amore col quale Dio ama se stessoDunque lo Spirito Santo è
il principio della creazione delle cose. E quanto viene detto nel
salmo (103, 30): “Manda il tuo Spirito e gli esseri saranno
creati”»365.
In secondo luogo, è necessario attribuire allo Spirito Santo il
movimento degli esseri; la spiegazione di questa appropriazione
dev’essere cercata ancora nel suo modo di processione:
«Lo Spirito Santo procede come amore, e l’amore è dotato di
un certo impulso e movimento. Bisogna quindi attribuire
propriamente allo Spirito Santo il movimento che Dio
comunica alle cose. [È quanto esprime Gn 1, 2 in cui si vede lo
Spirito “planare” sulle acque]. Secondo sant’Agostino, per
“acque” qui si deve intendere la materia prima sulla quale si
dice che lo Spirito del Signore si librava, non come soggetto al
moto, ma come principio del movimento» 366.
E ancora a causa di questa qualità fondamentale dello Spirito
Santo che Tommaso attribuisce a quest’ultimo il governo
dell’universo:
«[Infatti,] il governo delle cose da parte di Dio bisogna
concepirlo come un certo impulso con cui egli dirige e mette in
movimento tutti gli esseri verso il loro fine. Quindi, se l’impulso
e la mozione, a causa dell’amore, spettano allo Spirito Santo,

365 Cap. 20, n. 3570; senza andare oltre, si può già constatare ciò che
dicevamo poco fa del carattere non esclusivo delle appropriazioni, dato che non
mancano luoghi in cui Tommaso attribuisce la creazione al Padre; cf. G. EMERY, Le
Pére et l’oeuvre trinitaire de la création selon le Commentane des Sentences de S.
Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 85-117, cf. pp. 105ss.
366Ibid., 3571.
187
conviene (convenienter) attribuirgli il governo e lo sviluppo
degli esseri. Di qui le parole di Giobbe (33, 4): “È lo Spirito
che mi ha fatto”, e quelle del salmo (142, 10): “II tuo Spirito
buono mi conduce per la retta via”. E poiché governare i
sudditi è l’atto proprio di un signore, conviene (convenienter)
giustamente attribuire la Signoria della creazione allo Spirito.
“Lo Spirito è
Signore” dice l’Apostolo (2 Cor 3, 17); e nel Simbolo della
fede è detto: "Lo Spirito Santo è Signore”»01.
Si sarà notato in questi testi l’uso regolare dell’avverbio
convenien- ter. Questo corrisponde esattamente a quanto permette di
dire il procedimento dell’appropriazione. Creare gli esseri, dare loro
la possibilità di muoversi, dirigerli verso il loro fine sono unicamente
e semplicemente delle prerogative divine; Tommaso non lo mette in
dubbio ma, cercando la forza segreta (egli parla volentieri
dell’origine nascosta dello Spirito) che può spiegare tutto ciò, non ne
trova una migliore dell’Amore, cui si identifica lo Spirito Santo. E
ancora a quest’ultimo che fa riferimento quando a partire dal
movimento risale alla vita ch’esso manifesta:
«È soprattutto il movimento che esprime la vita... Se dunque, a
causa dell’amore, l’impulso e il movimento appartengono allo
Spirito Santo, conviene attribuirgli la vita. “E lo Spirito che dà
la vita”, dice san Giovanni (6, 64); ed Ezechiele afferma (37,
6): “Vi darò lo Spirito e vivrete". Idei Credo confessiamo lo
Spirito “che dà la vita”. Ciò concorda d’altra parte col nome
stesso di Spirito (Spiritus = soffio): è il soffio vitale diffuso dal
principio in tutte le membra che assicura la vita fisica degli
esseri viventi»32.

LA VITA NELLO SPIRITO

Fin qui Tommaso si è limitato a descrivere gli effetti «naturali»


dello Spirito che operano nella creazione, corporea o inanimata. Solo
in un secondo capitolo egli tratta della creatura razionale e descrive,
con una ricchezza di dettagli e un’abbondanza di citazioni
scritturisti- che com’è suo uso, ciò che è attribuibile allo Spirito
Santo nei nostri rapporti con Dio. Con un vocabolario che ora ci è
familiare si può affermare che, dopo aver visto ciò che deriva dalla
presenza di immensità di Dio nel mondo, giungiamo qui a un nuovo

188
modo di presenza, che è secondo la grazia:
«Poiché lo Spirito Santo procede come amore, amore col quale
Elio ama se stesso..., e dato che amando Dio noi siamo
assimilati a questo 367
amore, diciamo che lo Spirito Santo ci è dato da Dio. Per
questo l’Apostolo afferma: “L’amore di Dio è stato effuso nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato’’
(Rm 5, J>)»368.
Ancora una volta non possiamo esimerci dall’osservare la
costanza con cui Tommaso ritorna al suo punto di partenza: è la
processione dello Spirito come Amore che fonda obiettivamente le
appropriazioni che si appresta a sviluppare369. Egli ricorda
innanzitutto che l’azione divina non si limita a creare ciò che chiama
all’esistenza; essa è anche ciò che conserva tutte le cose nell’essere.
Questo suppone certamente il fatto che Dio è presente dappertutto
così come l’agente è presente al suo effetto:
«È necessario che dovunque cè un effetto di Dio, là ci sia pure
Dio che
10 causa. Perciò siccome la carità con la quale amiamo Dio è
in noi per opera dello Spirito Santo, bisogna che anche lo
Spirito Santo sia presente in noi, finché in noi rimane la carità.
Di qui le parole dell’Apostolo (1 Cor 3, 16): “Non sapete che
siete tempio di Dio, e che lo Spirito Santo abita in voi?’’.
[Questa prima constatazione implica un corollario immediato:]
Quindi siccome è per opera dello Spirito Santo che diventiamo
amici di Dio e che l’essere amato, proprio in quanto tale, è
367 Ibid.
,3572-3573.
i2
Ibid., n. 3574.
368 SCGIV 21, n. 3575.
369 Ma qui Tommaso avverte il bisogno di precisare ulteriormente,
«poiché è necessario sapere che tutto ciò che in noi viene da Dio, è riferito a lui come
alla sua causa efficiente ed esemplare». Che Dio è causa efficiente va da sé, poiché
niente di ciò che esiste arriva all’essere se non mediante la sua potenza; causa
esemplare, è altrettanto chiaro, perché ogni perfezione riflette una certa
imitazione della sua essenza. Questo vale però in egual misura per le tre Persone;
quindi sarà per appropriazione che il «verbo» di sapienza tramite il quale
conosciamo Dio sarà attribuito al Figlio, dato che costui ne è rappresentativo in
modo speciale. «Ugualmente, l’amore col quale amiamo Dio è specialmente
rappresentativo dello Spirito Santo. Per questo diciamo che la carità
risiede in noi specialmente mediante lo Spirito Santo, sebbene sia un effetto
[comune] al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» (n. 3576).
189
presente in colui che l’ama, è necessario che anche il Padre e
il Figlio abitino in noi per opera dello Spirito Santo. Questo è
quanto afferma il Signore in san Giovanni (14, 23): “Verremo
a lui e faremo dimora presso di lui”; o anche (1 Gv 3, 16):
“Sappiamo che egli rimane in noi grazie allo Spirito che ci ha
dato”»370.
11 primo effetto della presenza in noi del dono di Dio che è la
carità consiste quindi nella presenza del Donatore stesso, lo Spirito
Santo, e, con lui, dell’intera Trinità che viene ad abitare nell’anima
del; giusto. Ovunque si interroghi la dottrina della grazia o dello
Spirito Santo, è sorprendente vedere come con Tommaso giungiamo
subito: alla verità, simultaneamente elementare e sublime, che i
mistici di tutti i tempi hanno collocato al vertice della loro
esperienza. Tommaso però non si ferma qui e sottolinea con vigore la
verità complementare:
«È chiaro che Dio ama soprattutto coloro che egli ha costituito
suoi amici per mezzo dello Spirito Santo, poiché solo un così
grande amore poteva conferire un tale bene... Ora, dato che
ogni essere amato abita: in colui che lo ama, è perciò
necessario che per opera dello Spirito: Santo non solo Dio abiti
in noi, ma che anche noi abitiamo in Dio. Di qui le parole di
san Giovanni (1 Gv 4, 16): “Chi rimane nell’amore rimane in
Dio e Dio in lui”, e "da questo conosciamo che siamo in lui e
che egli è in noi, perché ci ha resi partecipi del suo Spirito”»
Sarà necessario ricordarsi di questo testo quando tra poco
parleremo della comunione dei santi e della «circuminsessione
affettiva» che riunisce tra di loro tutte le membra della Chiesa.
Questa parola erudita, con la quale la teologia designa la reciproca
presenza delle tre Persone nell’indicibile unità della Trinità, può
essere utilizzata per esprimere anche come la comunione ecclesiale
realizza, al suo livello creato, qualcosa dell’ineffabile scambio
intratrinitario. In realtà è la definizione stessa dell’amicizia, che
Tommaso riprende da Aristotele mettendola al servizio della sua
concezione, che gli permette di pensare questo mistero. Qui è lo
stesso registro della carità-amicizia che viene utilizzato fino in fondo
per tentare di far capire meglio tutto ciò che implica questo modo di
vedere le cose:

370 Ibid., n. 3576.


190
«E proprio dell’amicizia che uno riveli all’amico i propri
segreti. Siccome l’amicizia crea una comunione d’affetto e fa
per così dire di due quasi un unico cuore, ciò che si confida
all’amico sembra non abbandonare il proprio cuore. Ecco
perché il Signore poteva dire ai suoi disce-, poli (Gv 15, 15):
"Non vi chiamerò più servi, ma amici; poiché tutte le cose che
ho udite dal Padre, le ho manifestate a voi”. Perciò, siccome è
lo Spirito Santo che ci rende amici di Dio, conviene attribuirgli
la rivelazione dei misteri divini agli uomini. È quanto afferma
l’Apostolo (l Cor 2, 9): "Ciò che occhio non vide, orecchio non
udì né mai ven-

Klbid., n. 3577.
ne in mente all’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che
lo amano, Dio lo ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo”. E
siccome è in base a ciò che conosce che l’uomo può parlare,
conviene dunque attribuire allo Spirito Santo [il fatto che]
l’uomo possa parlare dei misteri divini... Di qui Vaffermazione
del Simbolo a proposito dello Spirito Santo: “Ha parlato per
mezzo dei profeti”»37.

Scoprendo a poco a poco tutte le convenienze implicate


dall’amicizia che Dio intrattiene con noi mediante lo Spirito Santo,
siamo così passati dalla rivelazione dell’intimità divina alla sua
manifestazione alle moltitudini. Infatti, Tommaso può citare vari
passaggi della Bibbia che attribuiscono l’ispirazione dei profeti e
degli scrittori sacri allo Spirito; inoltre, una delle caratteristiche
maggiori del suo insegnamento sulla profezia consiste nel fatto che
l’annuncio profetico deve essere necessariamente preceduto da
un’esperienza interiore in cui il profeta ottiene la rivelazione di ciò
che deve trasmettere38.
Quest’ultimo dato esprime una specie di legge generale che si
applica ad ogni annuncio della Parola, chiunque ne abbia l’incarico:
«Il predicatore deve abbandonare il segreto della contemplazione per
il contatto della predicazione. Infatti egli deve prima di tutto
attingere nella sua contemplazione ciò che deve in seguito diffondere
con la predicazione». Estratta da un’omelia di fra Tommaso, questa
frase riflette fedelmente una delle sue opzioni fondamentali; è questa
che si trova nel passaggio ben noto della Somma in cui ha descritto il
suo ideale di frate predicatore domenicano:

191
«La vita attiva che deriva dalla pienezza della contemplazione,
come accade per l’insegnamento e la predicazione [...] è
preferibile alla sola contemplazione. Come è maggior cosa
illuminare che brillare soltanto, così è preferibile trasmettere
agli altri ciò che si è contemplato piuttosto che contemplare
soltanto»39.

”Ibid., n.3578.
38
Cf. II-II, qq. 171-174 (soprattutto q. 171, aa.1-2 e q. 173, a. 2), con gli
studi di J.-P. TOREELL, Le traité de la prophétie de S. Thomas d’Aquin et la
théologie de la révélation, in ST 37 (1990) 171-195, ripreso in Recherches sur
la théorie de la prophétie au Moyen Age, pp. 205-229, e, meno tecnico:
Révélation et expérience (bis), FZPT 27 (1980) 383-400, ripreso in ibid., 101-
118.
39
II-II, q. 188, a. 6; la citazione precedente è tratta dal sermone Exiit qui
seminai, di cui si troverà un commento in J.-P. TOKRELL, Le semeur' est sorti
pour semer. L’image du Christ prêcheur chez frère Thomas d’Aquin, «La
Vie spirituelle», nov.-dic. 1993, pp. 657-670.
Non potremmo soffermarci su questi testi senza allontanarci
troppo dal Contra Gentìles, ma era importante vedere come, qua e là,
ritroviamo un costante movimento la cui origine si situa in un’intima
comunione di vita con lo Spirito Santo. Se ora ritorniamo alla nostra
lettura, è necessario riprendere il modo in cui Tommaso sviluppa il
suo appello all’esperienza dell’amicizia: gli risulta impossibile
restare al piano delle confidenze, delle “buone parole”, se così ci si
può esprimere:
«È proprio dell’amicizia, però, non solo rivelare agli amici i
propri segreti a causa dell’unità d’affetto (propter unitatem
affectus); questa unità richiede che si comunichi all’amico
anche ciò che si possiede. Poiché un amico è per un uomo “un
altro se stesso”, è necessario provvedere all’amico come a se
stesso dandogli tutto ciò che si possiede. Da qui questa
definizione dell’amicizia: “Volere e realizzare il bene
dell’amico”. Così come è scritto in 1 Gv 3, 17: “Se qualcuno
possiede beni di questo mondo e, vedendo il suo fratello nella
necessità, chiudesse le sue viscere alla compassione, come
potrebbe l’amore di Dio restare in lui?”. Ora, questo avviene
soprattutto in Dio, per il quale volere significa agire; ecco
perché conviene affermare che tutti i doni di Dio ci sono
concessi per opera dello Spirito Santo» 371.
Qui si colgono di sfuggita delle espressioni proprie della

371Ibid., n. 3579.
192
dottrina di Aristotele 372, che fra Tommaso adotta così volentieri
quando parla dell’amore di Dio per noi e che ritroveremo nella sua
dottrina della comunione dei santi. Ora, quando considera i beni
propri di Dio che costui deve comunicarci a causa della sua amicizia
con noi, Tommaso cita prima di tutto, senza esitare, «la beatitudine
della fruizione divina, propria di Dio per la sua stessa natura»:
«Affinché l’uomo raggiunga la beatitudine è necessario prima
di tutto che acquisti la somiglianza con Dio mediante alcune
qualità spirituali, che in seguito operi in conformità con esse, e
finalmente conseguirà la suddetta beatitudine. Ora, i doni
spirituali a noi sono dati per opera dello Spirito Santo; quindi
noi acquistiamo la somiglianza con Dio e siamo resi capaci di
compiere il bene per opera dello Spirito Santo, e per opera sua
ci viene aperta la via verso la beatitudine. L’Apostolo evoca
questa triplice tappa (2 Cor 1, 21-22): ‘Dio ci ha unti, ci ha
segnati col suo sigillo, e ha infuso nei nostri cuori il pegno
dello Spirito Santo”; e ancora (Ef 1, 13): “Siete stati segnati
col sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è
pegno della nostra eredità". Il sigillo (signatio) sembra riferirsi
all’impressione della somiglianza; l’unzione (unctio)
all’abilitazione con cui l’uomo viene disposto alle azioni
perfette; il pegno (pignus) alla speranza che ci orienta
all’eredità celeste, la perfetta beatitudine»4'2.

Tutti i doni ci vengono dallo Spirito. Possiamo generalizzare


con sicurezza questa affermazione, poiché niente è lasciato fuori
dalla sua influenza: tramite lui siamo conformati, poi siamo anche
abilitati, infine è sempre col suo intervento che ci viene aperto il
cammino. L’accento è troppo insistente per non essere
profondamente significativo. Inoltre, se ci si ricorda che il Maestro
d’Aquino parla della beatitudine j come luogo spirituale in cui
Tuomo-immagine giungerà alla somiglianza perfetta con l’Esemplare
divino, e se ci si rammenta del ruolo che egli fa giocare al fine ultimo
nella vita umana e nell’organizzazione di tutta la sua teologia, si
noterà subito come non poteva dire niente di più forte sulla presenza

372 Cf. Etica a Nicomaco IX 4, 1166 a, e: «Tra fratelli e amici, tutto è


comune» {ibid., Vili 11,1159 b 32), che Tommaso commenta così: «Vediamo che tra
fratelli e amici così uniti, tutte le cose sono comuni: casa, tavola, ecc., ... Da questo
punto di vista, alcune amicizie sono più grandi di altre, a seconda che gli amici
mettano più o: meno cose in comune» (In Ethic. Vili, lect. 9, Leon., t. 47,2, pp. 472-
473).
193
dello Spirito Santo nella vita cristiana. Molti altri esempi ce lo
confermeranno.
Oltre a questo bene definitivo e perfetto della beatitudine, che
tuttavia non ci sarà accordato se non alla fine del nostro cammino
terreno, il bene che Dio d vuole lo ha spinto ad adottarci come figli,
in modo tale da garantirà per così dire la certezza della sua eredità.
Anche questo è attribuibile allo Spirito Santo poiché, secondo Rm 8,
15, abbiamo ricevuto «lo Spirito di adozione che grida in noi: Abbà»
373 374
. Molto breve, l’annotazione è ripresa altrove con una
precisazione significativa per l’appropriazione trinitaria: «Sebbene
l’adozione sia comune a tutta la Trinità, tuttavia essa è appropriata al
Padre come al suo autore, al Figlio come al suo esemplare, allo
Spirito Santo come a colui che imprime in noi la somiglianza di tale
esemplare»375.
Tra i doni che riceviamo dallo Spirito, Tommaso cita per ultimo
la remissione dei peccati. Cosa molto curiosa, perché noi la
metteremmo piuttosto come preliminare. Ma la ragione è la stessa che
abbiamo trovato in tutto ciò che precede: per il fatto stesso che vi è
amicizia tra due esseri, ogni offesa che potrebbe farvi torto è
eliminata: «L’amore copre tutti i peccati» (Prv 10, 12):

«Siccome per opera dello Spirito Santo siamo fatti amici di Dio,
è dunque normale che sia per opera sua che Dio ci rimette i
peccati.
Perciò il Signore ha detto ai suoi discepoli: "Ricevete lo Spirito
Santola chi rimetterete i peccati, saranno rimessi”. E in san
Matteo (12, S b. u perdono dei peccati è negato a coloro che
bestemmiano contro lo Stmi- to Santo poiché non hanno in sé
colui dal quale Vuomo può ottenerejla remissione dei peccati.
Ed ecco perché si dice che dallo Spirito Santo noi siamo
rinnovati, purificati e lavati.. ,»45.

Si potrebbe credere che questa enumerazione ha passato in


rivista tutti i doni che riceviamo dallo Spirito Santo. Non è questo il
parere di Tommaso. In realtà, egli non ha fatto altro che organizzar»,
lo dice egli stesso all’inizio del capitolo seguente - alcuni testi

373lbid., n. 3580.
374 Ihid., n. 3581.
375 EH, q. 23, a. 2 ad 3; su questo testo si possono vedere alcune pagine
di E. BAILLEUX, Le cycle des missions trinitaires d’après saint Thomas, RT 63 (1963) 166-
192, cf. pp. 186-192. Questo tema dell’adozione, evocato qui en passant, occupa
194
riguardanti il ruolo che la Sacra Scrittura attribuisce allo Spirito Santo
nell’azione ricreatrice di Dio nei nostri confronti. Ci resta da vedere
ora con lui come lo Spirito Santo ci coinvolga nel nostro ritorno verso
Dio.

VIENI VERSO IL PADRE

Più di una volta dovremo menzionare degli abbozzi di itinerari


spirituali che Tommaso propone qua e là. Essi restano allo stalo di
abbozzo perché lo scopo della Somma di teologia - e a maggior
ragione quello delle altre opere meno importanti - non gli permette di
soffermarvisi; tuttavia sono ben presenti 46. L’interesse di colui che ci
piopo- un posto importante nell’opera tomasiana, cosi corne ha ben mostrato L.
SOMME, Fils de Dieu par Jésus Christ. La filiation divine par adoption dans la
théoloj’.ie de saint Thomas d’Aquin («Bibliothèque thomiste 49»), Paris 1997; cf. C.
BERMUDEZ, Hijos de Dios por la gracia en los comentarios de Santo
Tomâs a las cartas paulinas, ST 45 (1992) 78-89.
45
Ibid., n. 3582.
46
Cf. il nostro cap. XIV: «Itinerari verso Dio».
ne questo nuovo capitolo della Somma contro i Gentili consiste nel
voler valorizzare la presenza dello Spirito Santo. Ben presto
parleremo di una presenza strutturale dello Spirito Santo nel
movimento di ritorno della creatura verso Dio; ecco in anticipo un
buon esempio:
«La cosa più peculiare dell’amicizia è di vivere nell’intimo
dell’amico. Ora, l’amicizia dell’uomo con Dio si realizza nella
contemplazione di Dio, secondo quanto l’Apostolo diceva ai
Filippesi (3, 20): “La nostra patria è nei cieli”. Quindi,
siccome è lo Spirito Santo che ci rende amici di Dio, è normale
che sia egli a costituirci contemplatori di Dio. Perciò
l’Apostolo afferma ancora (2 Cor 3, 18): "Noi tutti però a
faccia scoperta, guardando come in uno specchio la gloria del
Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, di luce in
luce, ad opera dello Spirito del Signore”»376 377.
Si comprende facilmente il posto primordiale della
contemplazione all’inizio dell’itinerario. Se la beatitudine è il fine

376SCGIV 22, n. 3585.


37748Ibid., n. 3586.
195
ultimo, allora è importante avere gli occhi fissi su di essa fin
dall’inizio per essere sicuri di dirigersi veramente nella buona
direzione. D’altronde solo in questo modo si può realizzare qualcosa
dell’esigenza fondamentale dell’amicizia: vivere con l’Amico;
giustamente la vita contemplativa vuol essere fin da quaggiù
un’anticipazione dell’intimità che sarà perfetta soltanto nella
beatitudine ma che, anche nelle condizioni fragili e minacciate di
questa terra, è già feconda di gioia spirituale:
«È proprio dell’amicizia godere della presenza dell’amico,
come pure delle sue parole e delle sue opere, e trovare in lui
consolazione da tutti gli affanni: ecco perché nei momenti di
tristezza ricorriamo soprattutto agli amici per essere consolati.
Ora, come si è appena visto, è lo Spirito Santo che ci rende
amici di Dio e fa abitare Dio in noi e noi in Dio; è normale
dunque che sia per opera dello Spirito Santo che otteniamo la
gioia di Dio e la consolazione contro tutte le avversità e le lotte
del mondo. D'altronde dice il salmo (SO, 14): “Rendimi la
letizia della tua salvezza e che il tuo Spirito generoso mi
sostenga”. San Paolo (Km 14,
17) afferma che “il Regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello
Spirito Santo”... E il Signore chiama lo Spirito Santo
“Paráclito”, cioè Consolatore (Gv 14, 26)» 4S.
È evidente che qui ci troviamo su un registro che supera di
molto il livello psicologico in cui le nostre gioie, anche spirituali,
restano a volte impure e interessate e spesso mescolate a tristezze e
inquietudini varie. Tommaso pensa certamente a quella «pace di
Dio» di cui parla san Paolo e che «supera ogni intelligenza» (Fil 4,
7). Tuttavia è ugualmente sorprendente vedere la costanza con la
quale ricorre al tema dell’amicizia per spiegare l’azione dello Spirito
nel credente. Per quanto lo si possa intuire, Tommaso non aveva
dell’amicizia una conoscenza soltanto libresca: le sue espressioni
infatti lasciano ben intuire un’esperienza diretta e un cuore capace di
compatire 378. Certamente non sarebbe esagerato vedere nel modo
grazioso in cui descrive il ruolo dello Spirito un’eco della sua propria
esperienza vissuta. Lo Spirito non solo è colui che offre la possibilità
di vivere in presenza di Dio amato al di sopra di ogni cosa, ma è
anche colui al quale si deve la gioia provata dagli amici in questa
presenza reciproca. Tuttavia, quando si tratta dell’amicizia con Dio,
viene implicato per l’uomo il senso di una dipendenza assoluta della

378 Cf. Tommaso d'Aquino. Duomo e il teologo, p. 317.


196
creatura al cospetto del suo Creatore, che tradurrà in dolce
obbedienza la conformità dei voleri:
«Un’altra proprietà dett’amicizia comiste nel rendere concorde
la propria volontà con quella dell’amico. Ora, la volontà di
Dio ci è manifestata dai suoi comandamenti. Perciò l’amore
col quale amiamo Dio implica l’osservanza dei suoi
comandamenti: “Se mi amate, osservate i miei comandi” (Gv
14, 15). Quindi, poiché è per opera dello Spirito Santo che
siamo resi amici di Dio, è sempre per opera sua che siamo
spinti ad adempiere i comandamenti di Dio, secondo quanto
afferma l’Apostolo (Tm 8, 14): “Sono figli di Dio coloro che
sono spinti dallo Spirito di Dio”»379.
Visto che l’accordo delle volontà non può tradursi
concretamente se non in una sottomissione della volontà dell’uomo a
quella di Dio, e che siamo quindi in un senso unico, Tommaso si
preoccupa subito di eliminare il possibile equivoco: tale
sottomissione non ha nulla a che fare con quella di uno schiavo:
«E necessario notare tuttavia che i figli di Dio sono mossi dallo
Spirito Santo non come schiavi, bensì come persone libere. E
poiché uomo
libero è “colui che è padrone di sé” (Aristotele), noi compiamo
liberamente ciò che compiamo da noi stessi, cioè
volontariamente. Quello che compiremmo contro la nostra
volontà non sarebbe compiuto liberamente, ma eseguito
servilmente [in qualunque modo la nostra volontà fosse
costretta]. Lo Spirito Santo, lui, rendendoci amici di Dio, ci
inclina ad agire in maniera tale che la nostra azione sia
volontaria. Figli di Dio quali siamo, lo Spirito Santo ci fa agire
liberamente, per amore, e non servilmente, per timore. Di qui
le parole dell’Apostolo (IRm 8, 15): “Voi non avete ricevuto lo
Spirito di servitù per vivere di nuovo nel timore, ma lo Spirito
d’adozione a figli’’» 380.
Questo testo esprime con vigore una delle idee fondamentali
della riflessione di Tommaso; egli ha dovuto meditare a lungo il
capitolo ottavo della lettera ai Romani e il suo commento costituisce
uno dei migliori passaggi della sua opera sullo Spirito Santo. La

379Ibid., n. 3587.
380Ibid., n. 3588.
197
stessa insistenza la si ritrova nella sua predicazione 381. Nessun
dubbio che in un’epoca in cui la servitù costituiva una realtà sociale
ancora diffusa, fra Tommaso abbia visto in essa, come san Paolo,
un’analogia privilegiata per evocare qualcosa della grandezza dei
fedeli di Cristo, liberi della libertà gloriosa dei figli di Dio.
«Di per sé, la volontà è orientata verso ciò che è veramente
bene. Se ci si allontana per passione, cattiva disposizione o
abitudine da quello che è il bene reale, rispetto all’ordine
naturale della volontà, si agisce in maniera servile se si è spinti
da un agente esterno. Se invece si considera l’atto della
volontà, della volontà in quanto inclinata ad un bene
apparente, è liberamente che l’uomo agisce seguendo una
passione o abitudine cattiva; mentre agirebbe servilmente se,
nella stessa disposizione della volontà, si astenesse dal fare ciò
che vuole per timore di una legge che lo vieta. Lo Spirito Santo,
lui, inclina per amore la nostra volontà verso il vero bene al
quale essa è naturalmente orientata; così ci libera sia dalla
schiavitù che ci fa agire - succubi della passione e delle
conseguenze del peccato - contro l’orientamento della nostra
volontà, sia dalla schiavitù che ci fa agire secondo la legge,
contro il movimento della nostra volontà, non già come amici,
ma come schiavi. “Dov’è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà”
(2 Cor 3, 17); "Se siete guidati dallo Spirito Santo non siete
sotto la legge” (Gal 5, 18). Per questo si dice che lo Spirito
Santo dà la morte alle opere della carne: con il suo amore lo
Spirito Santo ci orienta verso il vero bene dal quale ci
allontanano le passioni della carne, secondo quanto è detto in
Rm 8, 13: “Se con lo Spirito mortificherete le opere della carne,
avrete la vita”»53.

La nostra lettura della Somma contro i Gentili si conclude


quindi provvisoriamente su questo registro, o meglio su questa
apertura, questo rinnovato invito a scegliere la vita. Cercando di
«verificare» la fe- : condità della teoria dell’appropriazione, abbiamo
potuto constatare come essa permetta di giustificare e organizzare
381 Più avanti ritroveremo il sermone Emitte Spiritum, ma si può anche
citare la predicazione sui comandamenti: «Tra la legge del timore e quella
dell’amore c’è una duplice differenza. La prima è che la legge del timore rende
schiavi coloro che la osservano, mentre la legge dell’amore li rende uomini liberi; -
infatti, colui che agisce soltanto per timore agisce come uno schiavo, ma colui che
agisce per amore agisce come un figlio. Perciò l’Apostolo dice: “Dove è lo Spirito del
Signore, ivi è la libertà”», De Decem preceptis I, ed. J.-P. ToKRELL, p. 25, linee
28-52; cf. ibid., Ili, p. 29, linea 45: Caritas facit libertini et amicutn.
198
teologicamente ciò che ci insegna la Sacra Scrittura della terza
Persona della Trinità. La dottrina di Tommaso su di essa non si
ferma qui, ma già ne sappiamo abbastanza per capire a che punto lo
Spirito è universalmente presente e agente nella nostra storia.
Appropriare così allo Spirito Santo il governo degli esseri e la loro
vivificazione, «cioè in fin dei conti... tutta la storia del mondo e della
Chiesa», significa riconoscergli «il privilegio di apparire come la
Persona divina più vicina alla creazione, special- mente a coloro che
si sentono sospinti dal moto della carità»54.

PREDICARE LO SPIRITO SANTO

Sebbene sia già perfettamente accessibile, questo insegnamento


sullo Spirito Santo non è rimasto un mero tema di dissertazione
teologica; fra Tommaso ne parlava altrettanto volentieri nella sua
predicazione. Abbiamo già utilizzato all’occasione le sue omelie sul
Credo, ma per cogliere meglio la forma concreta che poteva
assumere questa parola, abbiamo ancora un sermone che ci offre
un’eco più precisa.
Pronunciato per una solennità di Pentecoste è uno dei rari
sermoni che conserva assieme alla predica del mattino, anche la
ripresa 382 pomeridiana della stessa, durante i Vespri 55; questo vuol
dire che ci permette una panoramica molto ampia. Sfortunatamente
esso è ancora inedito e quindi occorrerà accontentarsi di un breve
riassunto 383 384, che consente di riconoscere molti temi già incontrati
in questo capitolo e, nonostante la differenza dei generi, una
profonda parentela.
L’esordio dà il tono: «Oggi bisogna parlare di Colui senza il
quale nessuno può parlare convenientemente, ma che dà e può dare a
chiunque la possibilità di parlare in maniera eloquente» 385. Tommaso
382 Ibid., nn. 3589-90.
54
A. PATFOORT, Les clés, p. 96.
383 Per alcuni dettagli della predicazione di san Tommaso, rinviamo al
nostro libro Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 89-94, e, più
ampiamente, a La
pratique pastorale d’un théologien du XIIIe siècle: Thomas d’Aquin prédicateur, RT 82
(1982 ) 213-245.
384 Si tratta del sermone Emitte Spiritum, di cui il P. Bataillon ci ha
ampiamente comunicato il testo preparato per l’Edizione Leonina.
385 «Loquendum est de eo sine quo nullus recte loqui potest et qui omnes
abundanter loqui potest facere uel facit».
199
presenta allora lo Spirito come la fonte di ogni essere, perché
l’amore è all’origine della creazione, fonte di ogni vita, di ogni
movimento, di ogni santità. Il parallelo con Al 17, 28 s’impone: «in
lui abbiamo la vita, il movimento e l’essere». Tommaso vi aggiunge
la santità perché, egli spiega, donando tutto ciò, lo Spirito non può
che muovere verso la fonte nascosta dalla quale procede: Dio stesso.
Parlare però dello Spirito creatore non significa evocare soltanto la
prima produzione delle cose nel loro essere di natura; bisogna
pensare anche alla ri-creazione nell’ordine della grazia. Quest’opera
di ri-creazione implica un quadruplice aspetto: la grazia della carità
che dà la vita all’anima; la sapienza della conoscenza che inclina il
cuore all’assenso e all’esecuzione di ciò che ha così compreso; la
concordia della pace con cui il soggetto vive in armonia con se
stesso, con gli altri e con Dio; la costanza nella fermezza che esclude
ogni timore o debolezza nel combattimento cristiano.
Lo Spirito è anche rinnovatore. Anche qui gli effetti di questo
rinnovamento si possono osservare da un quadruplice punto di vista:
secondo la grazia, che purifica l’anima dal vecchiume del peccato e
la rinnova profondamente; secondo il progresso nella giustizia,
poiché invece di soccombere alla fatica nelle lotte quotidiane,
l’uomo trova nuove forze nella testimonianza della sua coscienza;
secondo la sapienza illuminatrice, dato che più conosce Dio più il
cristiano viene rinnovato: Cristo è l’Uomo nuovo, perché nuova è la
sua concezione, nuova la sua nascita, nuove le sue passioni, la sua
risurrezione e la sua ascensione; il quarto rinnovamento infine è
quello della gloria perfetta, quando il nostro corpo sarà interamente
liberato dal «vecchiume» del peccato e della sua pena. Lo Spirito
Santo è il pegno di questo compimento e ci conduce all’eredità
celeste.
In questo breve riassunto non compaiono le citazioni o allusioni
bibliche disseminate nell’esposizione; il lettore le ha probabilmente
lette tra le righe. Ma è necessario segnalare un ultimo tratto: questa
parte del suo discorso si presta molto bene ad osservare l’arte
dell’oratore. Per esempio, quando afferma che la grazia libera dalla
vetustà del peccato, egli chiede al suo uditorio: da dove viene questa
novità? La risposta s’impone da sola: dallo Spirito Santo. Allora
continua: la grazia dà anche la possibilità di progredire nella
giustizia; chi è dunque l’autore di questo progresso? Lo Spirito
Santo. Questo procedimento per domanda e risposta non ricorre
meno di sette volte in questa omelia. Lo si potrebbe giudicare
200
affettato, ma non è così; al contrario, introduce un forte elemento
d’interesse e si rivela pienamente adatto a suggerire agli ascoltatori
questa onnipresenza dello Spirito nella vita cristiana386.
Come ulteriore prova di questa presenza universale e costante
dello Spirito, si potrebbe aggiungere qui una bellissima omelia per il
giorno di Ognissanti, che permette di situare il credente al centro
della comunione ecclesiale, tuttavia essa si troverà meglio in un
nostro prossimo capitolo. Niente sostituisce evidentemente la lettura
diretta dei testi e, ancor meno, l’ascolto diretto di questa parola. Gli
echi che abbiamo riportati qui ne hanno dato almeno una prima
impressione. Resta ancorà da scoprire come il teologo ha saputo
rendere conto nella sua dottrina sulla Chiesa di ciò che implica il suo
impegno di predicatore.

Vili
Il Cuore della Chiesa

H capitolo precedente ci ha permesso di incontrare lo Spirito


Santo presente «a fior di testi», se così è lecito esprimersi. Come
primule a primavera egli affiora da ogni parte e in tutte le possibili
situazioni; ad ogni passo è evocato come Colui che rende conto di
tutto. A questo livello però Tommaso non fa altro che ordinare ciò
che apprende dalla Bibbia, e ciò non costituisce che una parte del suo
lavoro di teologo. Se vogliamo cogliere più profondamente il perché
di questa presenza universale e costante dello Spirito, bisogna
riferirsi alle grandi intuizioni che ordinano la sintesi teologica di

386 II nostro scopo qui non è analizzare l’arte oratoria di san Tommaso;
tuttavia, non dispiacerà conoscere il seguente parere di un esperto: «Le omelie
autentici che di san Tommaso sono di un valore molto differente; alcune non superano
i| livello medio, peraltro onesto, della predicazione dell’epoca; altre sono di alta
qualità e, senza collocare il loro autore al livello dei grandi predicatori del secolo, gli
assicurano presso costoro un posto del tutto onorevole e non sono indegni del suo
genio» (L.-J. BATAILLON, Un sermon de saint Thomas sur la parabole du jestin, RSPT58
[1974], pp. 451-456, cf. p. 451).
201
Tommaso. Si scopre allora che è nella «definizione» dello Spirito
Santo come Amore e nel suo specifico posto in seno alla comunione
trinitaria che si trova la spiegazione del ruolo che esso ricopre
nell’intera creazione e nel ritorno di questa «come Chiesa» verso la
Fonte divina dalla quale è sgorgata.

AMATI DELL’AMORE CON IL QUALE DIO STESSO SI AMA

Ancora una volta la nozione di processione sarà una chiave


privilegiata. E bene ricordare che Tommaso riceve questo termine
tecnico della teologia trinitaria dal Nuovo Testamento: «lo Spirito di
verità che procede dal Padre» b Di per sé, egli spiega, «la
processione delle persone divine non esprime, propriamente
parlando, se non l’uscita dal principio», e non dice niente circa il
termine in cui si conclude il movimento della Persona che procede.
Quando però si tratta della processione dello Spirito Santo, data la
modalità propria secondo cui questi procede, cioè come Amore, essa
non può non implicare il suo termine. 387
Infatti non si può concepire un amore senza un oggetto amato. La
processione dello Spirito Santo ha quindi questo di proprio: tendere
verso uni altro come verso il proprio oggetto, cioè verso l’essere
amato. Stabilito ciò, Tommaso può completare il parallelo tra il
Figlio e lo Spirito alla luce di un principio che ricorda
frequentemente:
«Le processioni eterne delle persone sono la causa e la ragione
dell’intera produzione delle creature. E così che la generazione
del Figlio costituisce la causa di tutta la produzione delle
creature in quanto si dice che il Ladre ha fatto tutto nel Figlio.
Allo stesso modo occorre che l’Amore del Padre tendente verso
il Figlio come verso il suo oggetto, sia la causa secondo la
quale Dio accorda ogni effetto d’amore alla creatura. Perciò lo
Spirito Santo, che è l’Amore mediante il quale il Padre ama il
Figlio, è anche l’Amore tramite il quale egli ama la creatura e
la rende partecipe della propria perfezione»388.
Per chi comprende il valore delle parole, questa frase contiene
qualcosa di sconcertante, addirittura di vertiginoso, e si teme di
indebolirla con un commento mal riuscito. Se si riflette però con
387 Cf. Gv 15, 26: «Spiritum ueritatis qui a Patreprocedit».
388Sent. I, d. 14, q. 1, a. 1.
202
Tommaso sul mistero di Dio e della sua creazione, essa esprime
un’incontestabile evidenza. Non siamo noi che abbiamo amato Dio, è
lui che ci ha amati per primo. Dato che niente di esterno può
spingerlo a creare il mondo o ad interessarsi ad esso, occorre che
questa motivazione si trovi all’interno di Dio stesso: solo l’Amore
con il quale il Padre ama il Figlio e con il quale il Figlio ama il
Padre, e che è la Persona stessa dello Spirito Santo, può dunque
rendere conto di questa «uscita» di Dio al di fuori di se stesso; noi
siamo amati dell’amore di cui Dio si ama.
Non è possibile esaurire questa verità in poche parole 389, ma già
si converrà sul fatto che era impossibile a Tommaso dire qualcosa di
più forte circa lo Spirito Santo e la sua collocazione nel mondo della
fede. Ancora una volta ci troviamo al centro della teologia trinitaria
e, se occorre spiegare i termini, la dottrina è troppo bella e profonda
per

389 Torcinaso la riprende testualmente nella I, q. 37, a. 2; vedi anche Seni. I,


d. 32, q. 1, a. 3; Depotentia q. 9, a. 9 ad 13; egli ne dà altrove una spiegazione
riferendosi all’esperienza quotidiana: «Il primo dono che accordiamo alla persona
che amiamo è l’amore stesso con il quale le vogliamo bene. Così l’amore costituisce il
primo dono in virtù del quale sono dati tutti gli altri doni che le offriamo. Quindi,
poiché lo Spirito Santo procede come Amore, esso procede nella sua qualità di primo
Dono» (I, q. 38, a. 2).
203
non meritare uno sforzo. Infatti si dà il caso che questo modo di
comprendere lo Spirito Santo ci permetterà di parlare di Dio in un
nuovo modo, anzi in diversi nuovi modi. Per capire questo, è
sufficiente elaborare più a fondo quanto è implicato dall’idea di una
processione dell’amore.
«Quindi si potrà considerare la processione di questo Amore in
due modi: sia in quanto tende verso un oggetto eterno e si
tratta allora della processione eterna; sia in quanto procede
come amore verso un oggetto creato e allora, poiché mediante
questo Amore Dio accorda qualcosa alla creatura, si parla di
processione temporale. Infatti a causa della novità di ciò che
viene accordato nasce un nuovo modo di relazionarsi della
creatura a Dio, ed è in virtù di questa nuova relazione che Dio
può essere chiamato con un nome nuovo» 390.
Quest’ultima osservazione in generale vale per tutto ciò che è
detto di Dio temporalmente. Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo, da
tutta l’eternità proprio in virtù della sovreminente fecondità della
vita intradivina, ma «Creatore» non lo è che rispetto alla creazione.
Così pure, è rispetto a noi che si dice del Figlio che è «Salvatore» o
dello Spirito Santo che «è Signore e dà la vita» (per esprimersi come
il Credo). Qual è dunque qui l’effetto temporale causato dall’agire di
Dio, e in particolar modo dello Spirito Santo, a partire dal quale
nasce una nuova relazione tra la creatura e il suo Creatore?
Evidentemente è la grazia che, agli occhi di Tommaso, ha con lo
Spirito Santo un rapporto così diretto e privilegiato da far sì che egli
la chiami quasi sempre «la grazia dello Spirito Santo»391.
Giacché è mediante la sua grazia che lo Spirito agisce nel
390 Seni. I, d. 14, q. 1, a. 1; la formulazione un po’ astratta diventa più
concreta in Super Ioannem 15, 26, lect. 7, n. 2061: «Terzo, [Giovanni] parla della
duplice processione dello Spirito Santo, e prima di tutto della sua processione
temporale, quando afferma: “Il Paráclito che vi manderò dal Padre”. Occorre
sapere che quando si dice dello Spirito Santo che è inviato, non si vuol dire che si
sposta localmente, se pensiamo che “riempie l’universo” (Sap 1, 7), ma che con la
grazia comincia ad essere in un modo nuovo in coloro che egli rende
Tempio di Dio».
391 Secondo l’Index thomisticus, l’espressione grafìa Spiritus
Sancii ricorre 158 volte nell’insieme dell’opera; qui sarà sufficiente citare il
passaggio più celebre: «Ciò che vi è di più importante nella legge nuova e in cui
risiede tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santo data mediante la fede in
Cristo. La legge nuova consiste quindi principalmente nella grazia stessa dello
Spirito Santo accordata ai fedeli di Cristo» (I-II, q. 106, a. 1, che riprenderemo più
ampiamente nel capitolo seguente).
204
LA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO

mondo, è anche in essa allora che si trova la ragione ultima della


presenza strutturale dello Spirito nella teologia di fra Tommaso. Per
capirlo è sufficiente riferirsi di nuovo al grande passaggio del
Commento alle Sentenze dal quale abbiamo tratto la nostra
ispirazione. Ricordiamo Tidea direttrice: «Poiché tutte le cose
ritornano al Principio dal quale sono uscite come verso il loro fine,
c’è da aspettarsi che questo ritorno verso il fine si compia secondo le
stesse cause della loro uscita dal Principio». In questo ampio quadro,
dal movimento circolare, che Tommaso ama sottomettere alla nostra
attenzione, è annunciato ciò che per lui costituisce una evidenza:
«Come siamo stati creati mediante il Figlio e lo Spirito Santo, così è
tramite essi che siamo uniti al nostro fine ultimo». Questo principio
non è meno operativo trattandosi dello Spirito Santo, di quanto non
lo sia stato per il Verbo incarnato. Il motivo è tanto bello quanto
profondo: poiché è nello Spirito Santo e tramite lui che il Padre e il
Figlio si amano e amano le creature, è anche in lui e tramite lui che si
effettua il movimento di ritorno di queste ultime verso il Padre. In
termini più tecnici, lo Spirito è la ratio secondo la quale Dio accorda
alle creature tutti gli effetti del suo amore; ratio vuol dire
contemporaneamente il modello e la causa, e dunque anche la
ragione esplicativa. Il movimento di ritorno della creatura verso il
Padre non inizia se non con il dono della grazia santificante, con il
dono dello Spirito, e se essa arriva al suo fine ciò avviene
evidentemente sotto la sua guida 6. Infatti, possiamo affermarlo con
certezza, niente nell’universo della natura o della grazia gli sfugge:
assolutamente unico, egli riempie tutte le cose 7. Il fatto che questo
accada per appropriazione non toglie niente al vigore di questa
constatazione; tuttavia bisogna tentare di approfondire ulteriormente
ciò che ne consegue per la vita cristiana.

è
Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2.
7
Seni. Ili, d. 13, q. 2, a. 2, qla 2 ad 1: «Unus numero omnes replet»; è difficile
non pensare all’antifona liturgica del giorno di Pentecoste: Spiritus Domìni: repleuìt
orbem terrarum (Sap 1, 7), che Tommaso cita volentieri: Sent. II, Prol.\ SCGIV17.

205
Quando san Tommaso afferma che siamo amati con l’amore di
cui Dio ama se stesso, in realtà egli si fa eco di una tradizione
teologica che parte da sant’Agostino 392. Ma il Maestro delle
Sentenze vi aveva aggiunto un’interpretazione personale dalla quale
si dissociarono i teologi del XTH secolo, Tommaso compreso. Vale
la pena tentare di vedere dove si situava il dibattito, giacché ci
troviamo dinanzi a qualcosa che è lungi dall’essere una semplice
discussione di scuola. Pietro Lombardo insegnava che, essendo lo
Spirito Santo l’amore del Padre e del Figlio, «è tramite questo amore
che essi si amano tra di loro e amano noi». Tommaso non ha
difficoltà ad accettare questo insegnamento e vi si atterrà lungo tutta
la sua vita, ma ha delle difficoltà ad ammettere quanto segue: «ed è
ancora egli (lo Spirito Santo) ad essere l’amore effuso nei nostri
cuori per amare Dio e il prossimo» 393. Secondo Pietro Lombardo la
carità è dunque una realtà increata, la stessa persona dello Spirito
Santo presente in noi, che muove il nostro libero arbitrio ad amare e
ad agire rettamente.
Di primo acchito, la tesi è grandiosa: cosa c’è di più semplice e
di più bello di quest’azione diretta e multiforme dello Spirito Santo
nel cuore dei credenti? Eppure Tommaso non è soddisfatto di questa
posizione e si impegna a distinguere tra la carità nella sua origine,
che è lo Spirito Santo, Dono assolutamente primo e increato, e la
carità in noi, dono che riceviamo dallo Spirito e che è una realtà
creata394 395. La stessa cosa egli la dirà subito per la grazia e, ogni
volta che incontrerà la questione, situerà ormai la grazia prima della
392 Cf. De Trinitate Vili 7,10 e XV 19, 37.
393 PIETRO LOMBARDO, Seni. I, d. 17, c. 6 (ed. I. BRADY, 1.1, p. 148): «.. .Spiri-
tus Sanctus caritas est Patris et Filii, qua se invicem diligimi et nos, et ipse idem
est caritas quae diffunditur in cordibus nostris ad diligendum Deum et
proximum»; la stessa tesi è ripresa in Seni, n, d. 27, c. 5 (ibid., p. 484): caritas
est Spiritus Sanctus.
394wSent. I, d. 17, q. 1, a. 1.
395 Cf. per es. Sent. IL, d. 26, q. 1, a. 1; De uer. q. 27, aa. 1-2 (grazia e
carità); I- II, q. 110, a. 1 (grazia); H-II, q. 23, a. 2 (carità); è a partire da lDe
ueritate che Tommaso, padrone dell’ordine della sua esposizione (ciò che non si
verificava nelle Sentenze), parla della grazia prima di parlare della carità; questo
è comprensibile, giacché la grazia qualifica l’anima nella sua essenza, facendone un
principio radicale di azione nel campo soprannaturale - così come accade per la
nostra natura nel campo naturale 0habitus entitativo nel suo linguaggio) -,
mentre la carità qualifica la volontà, potenza dell’anima - (habitus operativo, nel
linguaggio scolastico).
206
LA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO

carità e non smetterà di riaffermare il carattere creato dell’una e


dell’altra n.

207
208 li
Ma come stabilisce Tommaso il carattere creato della grazia?
Nel modo più semplice che ci sia, facendo un parallelo tra la
conoscenza che Dio ha degli esseri e l’amore che ha per essi da una
parte, e la conoscenza e l’amore che ne abbiamo noi dall’altra. Nel
nostro caso sono cose già esistenti quelle che noi conosciamo e che
sono all’origine del nostro sapere; nel caso di Dio avviene il
contrario: egli non conosce le cose perché esistono, ma esse esistono
perché le conosce; la scienza di Dio è realizzatrice, pone le cose
nell’esistenza. Se ora consideriamo non più la conoscenza ma
l’amore, occorre fare un ragionamento simile: il nostro amore per un
essere è causato dalla sua bontà (reale o supposta! Noi tuttavia non
amiamo se non ciò che ci sembra amabile). Per Dio, accade ancora il
contrario: è il suo amore che crea la bontà degli esseri e delle cose.
Così, quando si dice che Dio ama un essere si vuol dire che egli causa
in colui che ama un effetto derivante dallo stesso amore divino.
Se adesso parliamo del dono della grazia, dobbiamo certo dire
che Dio è all’opera e, più precisamente, lo Spirito Santo, realtà
increata. Quando però ima persona riceve un dono di grazia che non
aveva precedentemente, ciò non vuol dire che questo accade con un
cambiamento dello stesso Spirito Santo; è piuttosto la persona stessa
che cambia sotto l’effetto di questa azione dello Spirito. Quando
dunque si dice che lo Spirito Santo è dato a qualcuno, questo significa
che questa creatura ha ricevuto un dono d’amore di Dio che prima
non possedeva. Anche a rischio di ridurlo a nulla, questo dono deve
essere una realtà creata, gratuitamente donata da Dio.
Il carattere necessariamente creato di questo dono sarà più
comprensibile se ci si ricorda del detto di san Giovanni, che è
sottinteso al ragionamento: «Dio ci ha amato per primo» 396. L’amore
di Dio per noi non è perciò il risultato della nostra propria amabilità.
Tommaso aggiùnge semplicemente: Dio, che ci ha amato per primo,
ci dà anche di che amarlo. Ci troviamo qui al centro della tesi e del
problema da

396 Cf. 1 Gv 4,10 e 19; Tommaso volentieri si rifa a questi versetti; per es. in \
Super Ioannem 14, 15, lect. 4, n. 1909: «Nessuno può amare Dio se non ha lo Spiri- :j to
Santo: poiché noi non possiamo mai prevenire la grazia di Dio, ma essa ci previene.
“Egli per primo ci ha amato”. Gli Apostoli hanno perciò ricevuto dapprima lo Spirito
Santo per amare Dio e obbedire ai suoi comandi. Ma perché lo ricevessero con
maggiore pienezza, era necessario che usassero bene nell’amore e nell’obbedienza
questo primo dono ricevuto da lui».
209
risolvere. Infatti occorre che la creatura sia proporzionata al fine a cui
Dio la chiama. Questo fine, come sappiamo, consiste nella
beatitudine, nel godere di Dio in una perfetta comunione di
conoscenza e d’amore. Per definizione, questa beatitudine è
completamente sproporzionata alle forze dell’uomo; essa è
connaturale soltanto a Dio. E necessario quindi che Dio doni
all’uomo qualcosa con cui possa non solo agire in vista di questo fine
e avere il suo desiderio orientato verso di esso, ma anche qualcosa
con cui la stessa natura dell’uomo sia elevata all’altezza di questo
fine397.
A una creatura così soprelevata alla vita stessa di Dio, la
beatitudine diverrà per così dire connaturale. La grazia è data proprio
per questo: mettere la creatura all’altezza del suo fine soprannaturale,
farne ima creatura soprannaturalizzata che potrà essere principio
d’azione in questo nuovo campo. A questa natura ormai
«divinizzata» Dio concede anche il dono della carità e delle altre
virtù teologali che permettono all’uomo, mediante la sua intelligenza
e la sua volontà così sopran- naturalizzate, di agire effettivamente in
quest’ordine al quale gli sarebbe impossibile accedere senza questo
dono primordiale. Tuttavia da quanto detto non si concluderà che
Tommaso rinuncia alla parte di verità contenuta nella tesi del
Lombardo, anzi!
«E necessario che ci sia in noi un habitus di carità che sia il
principio formale dell’atto di carità. Ciononostante, non si
esclude che lo Spirito Santo, che^è la Carità increata, sia
presente nell’uomo che possiede la carità. È lui che sprona
l’anima all’atto di carità, così come Dio incita tutte le cose al
loro agire, a cui sono tuttavia inclinate in virtù della loro
propria forma. Di qui il fatto che “egli dispone tutto con
dolcezza’’ (suauiter, Sap 8, 1) giacché dà a tutte le cose le
forme e le virtù che le orientano verso ciò che le muove, in
maniera tale che vi tendono non per forza, ma
spontaneamente»398.
Bisognerà ricordarsi di questo testo quando nel capitolo
seguente ritroveremo la questione dei rapporti tra legge e libertà. Per
Tommaso non vi è qui nessun problema perché l’uomo
abitato dallo Spirito Santo non può che amare liberamente 27, a. 2;
cf.
397 Tommaso ne dà una spiegazione molto chiara
in De uer., q. I-II, q. 110, a. 3.
398 De cantate, q. un., a. 1.
210
ciò che intende come volontà di

211
Dio. Ma prima di ritornarvi occorre ancora considerare un altro
aspetto della discussione sollevata dalla tesi di Pietro Lombardo.
Lungi dall’essere una curiosità di storia intellettuale, essa è al
contrario sempre viva nella teologia ortodossa399.
In questo stesso contesto, Tommaso sottolinea infatti un altro
punto a volte mal compreso: rispetto alla natura dell’uomo, la grazia
qualifica l’anima come una qualità accidentale 400. Di primo acchito
questa tesi non può non sorprendere, tuttavia non è meno
fondamentale. Essa non vuol dire che è accidentale per l’uomo avere
la grazia - nell’economia della salvezza non è possibile realizzare
niente senza di essa - ma semplicemente che la grazia non fa parte
della definizione dell’umanità. Se fosse altrimenti, perdendo la grazia
cesseremmo di essere uomini. O ancora, chi non possedesse la grazia
non sarebbe:; veramente un essere umano. Se si fosse tentati di
pensare diversamente dicendo che Dio giusto non può non dare la
grazia, basterebbe ricordarsi che, a queste condizioni, è Dio stesso
che sarebbe obbligato ad agire così e, quindi, la grazia stessa non
sarebbe più gratuita.
Questo modo di parlare della grazia come accidente permette
una prima importante precisazione. Infatti, l’accidente propriamente
parlando non è creato, in quanto non ha l’essere per se stesso, ma lo
riceve dalla realtà ch’esso qualifica. Esistono delle mura o degli
uomini bianchi, ma la bianchezza in sé non esiste. Perciò non è
questa che si affaccia all’esistenza, ma è una sostanza qualificata
dall’accidente della bianchezza che comincia ad esistere secondo
questa nuova determinazione. La stessa osservazione vale per la
grazia: al di fuori della sua fonte, Dio, essa non esiste allo stato
separato. Ciò che esiste sono delle persone che hanno ricevuto questo
dono che chiamiamo «grazia» e che vivono ormai secondo questa
nuova qualità. Perciò parlare della grazia come realtà creata significa
utilizzare una scorciatoia che potrebbe ingannare. Tommaso, che non
esita a utilizzarla, lo fa solo dopo aver ricordato il modo in cui
l’accidente esiste nel suo soggetto, ed è così che aggiunge una
precisazione fondamentale che allaccia diretta- mente
aH’insegnamento di san Paolo:

399 Cf. J. MEYENDOKFF, Introduction à l’étude de Grégoire Palamas,


«Patristica Sorbonensia», Parigi 1959, e l’importante discussione di CH. JOURNET,
Palamisme et thomisme, RT 60 (1960) 429-462.
400 Cf. I-II, q. 110, a. 2, e i suoi luoghi paralleli.
212
«La grazia può essere detta creata per il fatto che gli uomini,
rispetto ad essa, sono creati, cioè costituiti in un nuovo essere;
e lo sono ex nihilo [aa partire da niente”, è la formula accettata
e tipica per qualificare la prima creazione], cioè senza alcun
merito da parte loro, secondo quanto è detto nella lettera agli
Efesini (2, 10): "Creati in Cristo, Gesù in vista delle opere
buone“»401.

Il carattere un po’ tecnico di questa discussione non deve


indurre in errore; qui ci troviamo al cuore di varie tesi centrali del
pensiero tomasiano e di quello cristiano tout court. Se Tommaso
rifiuta la soluzione del Lombardo, è innanzitutto perché essa conduce
ad un’assurdità. Perché lo Spirito Santo operasse in noi il nostro atto
di carità, occorrerebbe che la nostra volontà fosse unita alla sua nello
stesso modo in cui la volontà umana di Cristo era unita alla volontà
divina del Verbo. In altri termini, bisognerebbe che noi fossimo uniti
a lui con un’unione secondo la persona, un’unione ipostatica402.
Tommaso non lo dice qui, ma ciò è chiaro in questa
prospettiva: se è lo Spirito Santo che agisce al nostro posto, non
siamo più noi che agiamo; il soggetto umano viene leso. Noi non
avremmo né il controllo del nostro atto di carità, né la sua libertà, né
il suo merito 403; saremmo esclusi da questo atto d’amore di Dio e del
prossimo, e non ne saremmo che il teatro. Affinché vi prendiamo
veramente parte e siamo, al nostro modesto livello, la causa libera e
meritoria, è necessario che Dio ce ne dia la possibilità, cioè che ci
conceda un principio d’azione connaturale a noi e alle nostre potenze
di conoscere, d’agire e d’amare. È a questo che risponde la grazia
creata e le virtù che l’accompagnano.
Senza insistere qui, dato che vi ritorneremo più ampiamente,
questa posizione sul carattere creato della grazia avrà la sua
ripercussione immediata e profonda quando parleremo dell’impegno
del cristiano in questo mondo. La mediazione della grazia creata è per
così dire il mezzo che Dio ha trovato per rispettare l’autonomia della
nostra natura e

4011-H, q. 110, a. 2 ad 3; in altri termini si potrebbe dire che la grazia è


18
creata in Cf. Seni.
senso I, d. cioè
morale, 17, q. 1, a.senza
è data 1. che niente la preceda nel suo ordine, ma non
in senso19metafisico stretto, in cui sono creati solo i sussistenti e non i loro accidenti.
Cf.I-II, q. 114.
402Questa distinzione permette di giustificare la strumentalità dell’umanità di Cristo e
403dei sacramenti nella produzione della grazia, poiché la nozione di creazione in
senso stretto non tollera intermediari: creare è caratteristico di Dio solo.
213
la consistenza delle cose di questo mondo. Infatti, il carattere
«accidentale» della grazia non modifica la struttura del reale nel suo
proprio ordine: le realtà di questo mondo restano ciò che sono e
conservano la loro propria finalità. D’altra parte però, la grazia non è
semplicemente «incollata» (come l’oro fino su una materia qualsiasi)
sulla creatura razionale; essa vi si incarna come un accidente nel
soggetto cui inerisce, la trasforma e la eleva. E così che in questi
uomini e queste donne trasformati dalla grazia nasce il Mondo nuovo
di cui l’umanità di Cristo è la sorgente, e che noi chiamiamo Chiesa.
Ed è così che, nell’intenzione di quelli e quelle che utilizzano le cose
di questa terra, questo mondo acquista una nuova finalità, compiendo
in tal modo il nuovo orientamento verso Dio della creazione, che a
causa del peccato se ne era allontanata 404. A Tommaso sarebbe
piaciuta questa massima profonda di Clemente d’Alessandria: «Come
il suo volere (di Dio) è un’opera compiuta e porta il nome di mondo
così il suo amore è salvezza per gli uomini e si chiama Chiesa» 405. La
comunione ecclesiale è infatti un’opera specifica dello Spirito Santo,
giacché egli ne assicura l’unità nel tempo e nella storia un po’ come è
l’Amore reciproco del Padre e del Figlio nell’eternità della
comunione trinitaria.

IL VINCOLO DELL’AMORE

Al seguito di sant’Agostino, che a tal proposito è stato un


innovatore e ha segnato col suo genio l’intera riflessione trinitaria
latina - distinguendosi dalla tradizione greca che prende tutt’altra via
-, i teologi del Medioevo occidentale amavano parlare dello Spirito
Santo come l’amore reciproco con il quale si amano tra di loro il
Padre e il Figlio. Per Agostino lo Spirito Santo è «l’unità delle due
altre Persone, oppure la loro santità o il loro amore»; e lo è
personalmente, poiché «che sia la loro unità in quanto è il loro amore,
e il loro amore in quanto è la loro santità, è chiaro che egli non è
affatto Una delle due prime Persone, in cui si opererebbe la loro
reciproca unione». E non lo si potrebbe denominare meglio che a
partire dall’opera che compie:
«Se la carità con la quale il Padre ama il Figlio e il Figlio ama
il Padre ci rivela l’ineffabile comunione dell’uno con l’altro,

404 Cf. Rm 8,19-21.


405 Cf. Il Pedagogo I, VI, 27, 2; cf. CLEMENTE ALESSANDRINO, Il
Protrettico. Il Pedagogo, a cura di M.G. BIANCO, UTET, Torino 1971, p. 219.
214
non è forse consigliabile attribuire in proprio il nome di Carità
allo Spirito comune del Padre e del Figlio?»406.

Tommaso non fa eccezione a questa unanimità e nella sua prima


opera sviluppa il tema con un’evidente compiacenza:

«Siccome lo Spirito Santo procede come amore, spetta a lui


essere l’unione del Padre e del Figlio (unio Patris et Filii) a
causa di questo modo proprio di procedere. Infatti si possono
considerare il Padre e il Figlio sia in quanto condividono la
stessa essenza, e sono così uniti nella stessa essenza, sia in
quanto sono personalmente distinti, e allora sono uniti
mediante la convergenza dell’amore (per consonantiam amoris)
; se per assurdo si supponesse che non fossero uniti per
essenza, occorrerebbe allora ammettere tra di loro un’unione
d’amore affinché la loro gioia fosse perfetta»407.

In questa prospettiva, lo Spirito è quindi un atto d’amore


sussistente, che il Padre e il Figlio emettono in comune, l’atto per
mezzo del quale si amano reciprocamente e che li unisce nella
maniera tendenziale ed estatica in cui l’amore unisce l’amante
all’amato. La profonda bellezza di questa visione delle cose spiega la
seduzione che esercitò e continua ad esercitare sulle menti; tuttavia ha
l’inconveniente di sovrapporre l’atto d’amore «nozionale», cioè la
spirazione dello Spirito Santo da parte del Padre e del Figlio,
all’azione d’amore «personale» che è lo Spirito Santo stesso, amore
reciproco delle prime due Persone408. Oltre ai pro- hi fin i di linguaggio
e al rischio di antropomorfismo, questa rappresentazione dello Spirito
come «ambiente» nel quale e tramite il quale si uniscono il Padre e il
Figlio, lascia la difficoltà di intravedere; la sua origine, ed è per la sua
406 De Trinitate XV 19, 37 (BA 16, p. 523; NBA 4, p. 689); cf. tbid., VI,
5, 7: «Lo Spirito Santo è dunque qualcosa di comune al Padre e al Figlio... ma questa
comunione è consustanziale e coeterna: se il nome di “amicizia” le si addice, che la si
chiami così, ma è più corretto chiamarla “carità”» (NBA 4, p. 277); vedi anche in BA
15, p. 485; con la nota 40, pp. 587-588: «L’Esprit amour et lieti»; si vorrà ben leggere
a tal proposito M.-A. VANNIER, Saint Augustin et le mystère trinitaire («Foi
Vivante 324»), Paris 1993, che riporta tradotti i testi principali dotandoli di
un’illuminante introduzione.
407 Seni. I, d. 10, q. 1, a. 3; questa dottrina è ripresa nelle varie soluzioni
di questo stesso articolo; cf. ibid., a. 5 ad 1: procedere per modurn uoluntatis
conuenit Spiritui sancto, qui procedit a duobus, uniens eos, inquantum
sunt distinctae perso- nae (allo Spirito Santo «conviene» procedere come amore,
[egli] che procede dagli altri due unendoli, in quanto sono [due] Persone distinte).
408 Le cose sono molto chiare in Seni. I, d. 10, q. 1, a. 1 ad 4; vedi anche
Sent.
I, d. 32, q. 1, a. 1, dove questa spiegazione è posta in primo piano.
215
relazione d’origine che conviene individuare la Persona divina che
procede409 410. Per questo, sensibile alla relativa insufficienza di questo
modo di concepire le cose, Tommaso a poco a poco si orienta verso
un’altra spiegazione che metterà in primo piano nelle sue grandi
opere sintetiche, la Contra Gentiles o la Somma di teologia. Per
rispettare tutte le esigenze di una teologia rigorosa, ormai è sulla base
dell’amore con il quale Dio ama la sua propria bontà che egli
introduce il mistero della terza Persona. Come Dio, conoscendosi,
produce il suo Verbo, così amandosi produce o «spira» il suo Spirito.
Infatti, in seno all’atto d’amore Tommaso discerne la presenza di un
«affetto» o «impressione» amorosa mediante la quale l’essere amato
si trova in colui ch’egli ama. In mancanza di un termine più preciso
per descrivere questa attrazione d’amore o impressione affettuosa che
emana in colui che ama, noi gli attribuiamo il nome stesso di
Amore2é, ed è in questo modo che conviene percepire la processione
dello Spirito Santo in Dio che si ama.
Il vantaggio di questo modo di spiegare le cose si coglie
facilmente. Esso da una parte permette di riunire intorno a uno stesso
oggetto, che è la bontà divina, l’amore comune alle tre Persone
(l’amore «essenziale») e l’amore con il quale il Padre e il Figlio
spirano lo Spirito Santo (l’amore «nozionale»); dall’altra manifesta
con rigore la relazione che costituisce la Persona dello Spirito Santo
procedente come amore411. L’intuizione di sant’Agostino non è
tuttavia dimenticata in quanto su questa base Tommaso non ha
nessuna difficoltà a riprenderla e integrarla:
«Bisogna affermare che lo Spirito Santo è il legame (nexus) del
Padre e del Figlio in quanto è l’Amore. Infatti, è mediante una
409 Tommaso è molto attento a rispettare il principio ricevuto da
sant’Anseimo e ripreso più tardi dal Concilio di Firenze: «Omnia in Deo sunt unum
et idem ubi non obuiat relationis oppositio (In Dio tutto è uno e identico
tranne dove interviene un'opposizione di relazione)»-, cf. ANSELMO DI CANTERBURY,
De processione Spiritus sancti, cap. I, Opera omnia, ed. F.S. SCHMITT, t. 2, p.
181. H Figlio ha tutto ciò che ha il Padre tranne l’essere Padre, in quanto trae da lui
la sua origine; lo Spirito a sua volta ha tutto dò che hanno il Padre e il Figlio, tranne
l’essere Padre o Figlio, in quanto trae da loro la sua origine. Questa d’altronde è la
ragione per la quale all’origine dello Spirito Santo deve esserd anche il Figlio
(Filioque), poiché, se non fosse così, non ci sarebbe nessuna possibilità di distinguere
tra il Figlio e lo Spirito Santo.
410 Tommaso tuttavia rileva il carattere misterioso di questa processione
d’amore per la quale non abbiamo parole nelle nostre lingue e che non possiamo che
descrivere mediante circumlocuzioni, cf. I, q. 37, a. 1.
411 I problemi inerenti alla concezione dello Spirito Santo come azione
sussistente d’amore sono pertanto superati. A tal proposito si vedranno i chiarimenti
di H.-F. DONDAINE, La Trinità, t. II, pp. 393-409.
216
dilezione unica che il Padre ama sia se stesso sia il Figlio - e
reciprocamente; in seguito, in quanto Amore, lo Spirito Santo
evoca un rapporto reciproco tra il Padre e il Figlio, quello da
amante ad amato. Ma per il fatto stesso che il Padre e il Figlio
si amano l’un l’altro, occorre proprio che il loro reciproco
amore, altrimenti detto Spirito Santo, proceda dall’uno e
dall’altro. Se dunque si considera l’origine, lo Spirito Santo
non si trova al centro: egli è la terza Persona della Trinità. Se
si considera però il rapporto reciproco di cui abbiamo parlato,
allora sì, egli è tra le altre due Persone come il legame che le
unisce, pur procedendo da ciascuna di esse»412.
Questo testo è fondamentale e si nota subito dove si situa la
discreta ma decisiva correzione. Senza rinunciare alla geniale
intuizione di sant’Agostino, le cui implicazioni spirituali sono così
ricche, Tommaso la introduce nella sua spiegazione in un secondo
momento, dopo averla sistemata su una base metafisica e concettuale
più solida: l’amore che Dio ha per la sua propria bontà. È tramite
questa sola e unica dilezione di Dio per la sua propria bontà, che il
Padre e il Figlio si amano reciprocamente, e per questo lo Spirito
Santo in quanto Amore implica questo rapporto reciproco tra
l’amante e l’amato; inoltre è ancora questo stesso Amore che si
estende a tutto il creato 413.
Ma bisogna affermarlo risolutamente: se questo tema dello
Spirito Vincolo d’amore nella spiegazione tomasiana è inserito
soltanto in un secondo momento, è lungi però dall’essere
abbandonato. Al contrario, esso è ripreso con una costanza
significativa nei Commenti alle lettere di san Paolo, anche se la
maggior parte delle volte è semplicemente ricordato en passant, così
come si fa con una dottrina supposta acquisita e ben conosciuta 414.
Tanto più che è interessante ritrovarla a volte con una bella
amplificazione che permette di vedere a che punto questa qualità
dello Spirito sia inseparabile dalla sua stessa definizione. In una delle
sue Questioni disputate Tommaso incontra un’obiezione un po’
speciosa che pretende di dissociare il concetto di communio dalla
processione dello Spirito Santo. Allo stesso tempo essa tenta di
mostrare che si può pensare alla processione dello Spirito Santo senza
4121, q. 37, á. 1 ad 3.
413 In I, q. 37, a. 2 si troveranno i dettagli dAIiter.
414 E quanto accade nei Commenti scritturistici dove, a proposito dei
passaggi in cui san Paolo saluta i suoi corrispondenti menzionando soltanto il Padre e
il Figlio, Tommaso aggiunge regolarmente: «La persona dello Spirito Santo non è
citata espressamente in quanto è compresa (intelligitur) nei suoi doni che sono la
grazia e la pace, oppure è compresa nelle due Persone del Padre e del Figlio di cui
217
pensare alla comunione e al Filioque (implicato dalla comunione).
Apparentemente molto semplice, l’argomentazione fa notare che è
concettualmente possibile distinguere tra ciò che è anteriore e ciò che
è posteriore, e che si può negare ciò che è posteriore senza mettere in
causa ciò che è anteriore. Così, anche senza la comunione, si potrebbe
quindi pensare nonostante tutto alle Persone divine senza attentare
alla loro pluralità, dato che non si toccherebbero per questo le
processioni d’origine che fondano questa pluralità. A ciò san
Tommaso replica così:
«È vero che, concettualmente (per intellectum), la processione è
prima rispetto alla comunione, così come ciò che è comune
viene prima di ciò che è proprio. T.uttavia questa processione
(talis processio), quella dello Spirito Santo, che procede come
amore e comunione e vincolo d’amore del Padre e del Figlio,
non è, [anche] concettualmente, previa rispetto alla comunione.
[Ne segue che se si eliminasse la comunione, non ci sarebbe più
la processione dello Spirito Santo, poiché si tratta in realtà
della stessa cosa. Un esempio lo farà capire facilmente:
concettualmente, “animale” viene prima di “uomo”, ma non è
così se si tratta deWanimale razionale”, in quanto questa è la
definizione stessa dell’uomo]»
In apparenza un po’ sottile per chi non è familiarizzato con
questo linguaggio, la discussione ha una considerevole portata.
L’obiezione confondeva tra il senso generale di «processione» e il
senso proprio del- è l’unione e il legame (intelligitur in duabus personis Patris
et Filii, quarum est unio et nexus)», In ad Rom. 1, lect. 4, n. 73; cf. In I ad Cor. 1,
lect. 1, n. 10; In II ad Cor. 1, lect. 1, n. 10 (!); In Gal. 1, lect. 1, n. 7; AdEphes. 1,
lect. 1, n. 4.
31
De pot., q. 10, a. 5 ad 11: «Licet processio sit prius per intellectum quam
communio, sicut commune quam proprium; tamen talis processio, scilicet
Spiritus sancti, qui procedit quasi amor et communio et nexus Patris et
Pilii, non est prius secundum intellectum quam communio ; unde non
oportet quod remota communio- ne remaneat processio; sicut animai est prius
secundum rationem quam homo, non autem animai rationale». Devo a Gilles Emery
dei preziosi chiarimenti sul senso di questo testo così come dei suggerimenti di
teologia trinitaria per questo capitolo.
la stessa parola quando designa la processione dello Spirito Santo
(talis processiti)415. Ora, procedere per lo Spirito Santo non significa
altro che procedere come Amore o Comunione del Padre e del
Figlio. Se nella nostra mente sopprimiamo questa comunione del
Padre e del Figlio, sopprimiamo anche la processione dello Spirito

415 Cf. Sent. I, d. 13, q. 1, a. 3.


218
Santo in quanto queste due realtà sono solidali. Allora non si può più
pensare né alla distinzione della terza Persona 416 né rendere conto
dell’opera che compie nella comunione ecclesiale 417.

IL LEGAME DELLA CARITÀ

Non è indifferente, come si può ben comprendere, il fatto che


sant’Agostino - e tutti coloro che si riferiscono a lui - per parlare
dello Spirito Santo abbia trovato un’espressione così vicina a quella
di san Paolo il quale, almeno a due riprese, parla della koinónia dello
Spirito Santo418. San Tommaso, che nella Volgata incontrava societas
o commu- nicatio come traduzioni di koinónia (comunione),
probabilmente non dubitava che sullo sfondo si potesse trovare
un’identica parola greca; tuttavia egli ha perfettamente compreso la
ripercussione ecclesiale della sua dottrina trinitaria 419. Per riassumere
tutto in una parola: lo Spirito Santo svolge in seno alla Chiesa un
ruolo di unificazione nell’amore che rinvia a quello esercitato in seno
alla Trinità; così egli trasforma la riunione dei battezzati in una
comunione d’amore a immagine della sua fonte trinitaria 37.
Come si sa, la dottrina ecclesiale di Tommaso è specificamente
ima teologia del Corpo di Cristo 38. Fedele a quanto apprende da san
■Paolo, egli considera il Corpo come il risultato del travaso della
grazia che gli viene dal Capo: «L’anima di Cristo ha ricevuto la
grazia al massimo della sua eminenza. Perciò, a causa di questa
eminenza, spetta a Cristo farla riversare sugli altri. Ciò è proprio del
suo ruolo di capo»39, In questo contesto, il ruolo dello Spirito Santo
consiste precisamente nello stabilire la «continuità» tra il Cristo-capo

416 Cf. sopra, nota 26.


417 Non era il caso di entrare qui in troppi dettagli di tecnica teologica;
colui che desiderasse documentarsi ulteriormente su questa dottrina dello Spirito -
Amore reciproco del Padre e del Figlio e sulla sua ripercussione ecclesiale, può
riferirsi allo specialista di questa materia: F. BoURASSA, Questions de théologie
trinitaire, Roma 1970, pp. 59-189; ID., L’Esprit-Saint «communion» du Pere
et du Fils, «Science et Esprit» 29 (1977) 251-281; 30 (1978) 5-37; ID., Dans la
communion de l’Esprit-Saint, «Science et Esprit» 34 (1982) 31-56; 135-149; 239-
268; questi studi, storici o sistematici, in larga parte riguardano san Tommaso.
41833 2 Cor 13, 13 e Fil 2, 1; traducendo: «comunione dello Spirito Santo» o
«comunione nello Spirito Santo», la traduzione ecumenica della Bibbia sottolinea il
carattere trinitario dei passaggi in cui si ritrova questa espressione.
419 Si vedrà a tal proposito B.-D. DE LA SoUfEOLE, «Société» et
«communion» chez saint Thomas d’Aquin. Etude d’ecclésiologie, RT 90
(1990) 587-622; vedi in par- ticolar modo la seconda parte per l’uso e il senso di
communio e communicatio.
219
e i fedeli-membra, giacché egli possiede questa proprietà di restare
numericamente uno e il medesimo nel Capo e nelle membra.
Tommaso, che riprende spesso questa formula 40, non ne ha dato
un’ampia spiegazione se non nel seguente passaggio:

37
Come si vedrà, il parallelo tra comunione trinitaria e comunione ecclesiale
è particolarmente illuminante, ma bisogna fare attenzione a non spingerlo troppo
lontano. Nella comunione trinitaria, lo Spirito Santo non è il principio dell’amore o
dell’unione; egli è colui che procede come Amore o come Vincolo (si ricordi «l’albero
fiorito di fiori» evocato da Tommaso: non sono i fiori il principio della fioritura, ma
l’albero). Nella comunione ecclesiale invece, come diremo più avanti, lo Spirito Santo
è proprio il principio (causa esemplare ed efficiente) dell’amore- carità che anima il
Corpo di Cristo e lo aggrega in unità.
38
Tra numerosi studi, si può trovare una panoramica generale in Y. CON- GAB,
L’idée de l’Église chez saint Thomas d’Aquin, in ID., Esquisses du mystère de TÉglise,
nuova ed. («Unam sanctam 8»), Paris 1953, pp. 59-91; cf. anche «Ecclesia» et «populus
(fidelis)» dans l'ecclésiologie de saint Thomas, in Commemorative : Studies I, Toronto
1974, pp. 159-174, ripreso in ID., Thomas d’Aquin. Sa vision del la théologie et de l’Église,
London 1984, oppure in ID., Églìse et Papauté. Regardsì historiques («Cogitatio fidei
184»), Paris 1994.
39
III, q. 8, a. 5; cf., a. 1; questa dottrina è stata accettata nell’insegnamento
della Chiesa, come per es. da Pio XII che nella Mystici Corporis (ed. S. Tromp, §
78) afferma non senza una certa forza: «Tutti i doni, tutte le virtù, tutti i carismi che
si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel capo, sono effusi
in tutti i membri della Chiesa...»; e, più di recente, il Vaticano II, in Lumen
gentium I, 7: «In questo corpo, la vita di Cristo si effonde in tutti i credenti...».
40
De ueritate, q. 29, a. 4: «Est etiam in Ecclesia continuitas quaedam
ratione Spiritus sancti, qui unus et idem numero totam Ecclesiam replet et unit»;
cf. Expo- sitio in Symbolum, a. 9, n. 971: «La Chiesa cattolica è un solo corpo che
possiede differenti membra; l’anima che vivifica questo corpo è lo Spirito Santo»;
questo modo di esprimersi ricorre una quindicina di volte (cf. Vauthier, qui sotto),
ma pei lo più molto brevemente. Si trova un’eccezione nel seguente testo del Super
Ioan- nem 1, 16, lect. 10, n. 202: «In questo senso, la pienezza di Cristo è lo Spirito
Santo che da lui procede ed è a lui consustanziale nella natura, nella potenza e nella
«Nel corpo naturale, le facoltà diffuse in tutte le membra
differiscono numericamente secondo la loro essenza, però si
riuniscono nella loro radice che è numericamente una [cioè
l’anima, come forma del vivente, la cui sede è sia il cuore sia la
testa, secondo l’antropologia fisica di Tommaso], e, in più, esse
hanno un’unica forma ultima [cioè di nuovo l’anima, ma in
quanto è il principio trascendente che permette al corpo così
informato di essere una persona umana]. Similmente, tutte le
membra del Corpo mistico hanno come perfezione ultima (prò
ultimo complemento) lo Spìrito Santo che è numericamente uno
in tutti [egli assume così nel corpo ecclesiale il ruolo
dell’anima], E la stessa carità, effusa in esse mediante lo
Spirito Santo, sebbene sia differente secondo l’essenza nella
diversità dette persone, tuttavia si unifica tramite la sua radice
220
numericamente una, poiché la radice propria di un’operazione
è l’oggetto stesso dal qualè riceve la sua determinazione. Ed è
per questo che, in quanto tutti credono e amano un solo e
identico oggetto, la fede e la carità di tutti sono unificate in
un’unica e medesima radice, non solo netta loro radice prima
che è lo Spirito Santo, ma anche nella loro radice prossima che
è il loro proprio oggetto»41.

L’esegesi dettagliata di questo testo, bello ma difficile, ha dato


luogo a interpretazioni divergenti42, anche se non è necessario
addentrarsi in troppe sottigliezze per comprenderne il significato. Ci è
sufficiente ritenerne l’essenziale. Lo Spirito Santo gioca nel corpo
ecclesiale il ruolo attribuito aH’anima nel corpo umano: interamente
nel Tutto e interamente in ciascuna delle sue parti, egli è presente sia
nel Capo che nel Corpo e in ciascuno delle sue membra. Non solo è il
principio dell’unità del Tutto, al quale comunica la vita
soprannaturale, ma è anche la fonte della sua santità, la causa del suo
agire soprannaturale e

maestà. Infatti, sebbene i doni abituali che si trovano in noi siano diversi da quelli
che si trovano nell’anima di Cristo, tuttavia è l’unico e medesimo Spirito che è in
lui e che riempie tutti i santificati. Lo conferma san Paolo quando scrive: “Ora tutti
questi doni li produce l’unico e medesimo Spirito” [ 1 Cor 12,11]; nonché il profeta
Gioele: “Io riverserò il mio Spirito su ogni carne” [Gl 3, 1; At 2, 17]. Cosicché, a
detta dell’Apostolo: “Se uno non ha lo Spirito di Cristo, costui non gli appartiene”
[Rm 8, 9]. Infatti l’unità dello Spirito Santo crea l’unità della Chiesa».
41
Sent. Ili, d. 13, q. 2, a. 2, qla. 2 ad 1.
42
Cf. E. VAUTHIER, Le Saint-Esprit principe d’unité de l’Église d’après S.
Thomas d’Aquin. Corps mystique et inhabitàtion du Saint-Esprit, MSR 5 (1948) 175-
196; 6 (1949) 57-80, con la discussione di Y. CONGAR, Sainte Église. Études et
approches ecclésiologiques («Unam sanctam 41»), Paris 1963, pp. 647-649. Cf. anche
S. DoCKX, Esprit Saint, âme de l’Église, in Ecclesia a Spirita Sancto edocta, pp. 65-80.
*

la ragione della sua fecondità. Onnipresente nella Chiesa, lo Spirito


ne è l’Ospite interiore così come lo è dell’anima giusta. Ma con lo
Spirito Santo, chiaramente è anche l’intera Trinità che risiede nella
Chiesa poiché, conformemente al principio che Tommaso ha appena
ricordato, laddove è all’opera una delle Persone le altre due non
possono non essere presenti. «Se qualcuno mi ama - diceva Cristo -
osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà; noi verremo a lui e
stabiliremo in lui la nostra dimora» (Gv 14, 23).
A questo bene comune del pensiero cristiano ereditato da sant’A-

221
gostino420, questo testo aggiunge tuttavia un insegnamento un po’
circostanziato allorquando parla di un altro principio di unità: le membra
della Chiesa sono riunite mediante la fede e la carità o, più precisamente,
per il fatto che credono e amano un’unica e medesima realtà. Tom- : maso
esprime ciò in termini più tecnici affermando che è l’oggetto che dà all’atto
la sua specificazione. Semplice traduzione di un fatto d’esperienza
facilmente constatabile sul piano naturale: varie persone differenti si
trovano riunite per il semplice fatto di volere insieme ima stessa cosa;
quest’ultima svolge allora per tale gruppo il ruolo di un fine comune, di un
principio unificatore. Qual è dunque questo fine ! conosciuto e amato che
svolge il ruolo di principio unificante per il corpo ecclesiale? Anche se
Tommaso qui non lo precisa e sembra lasciar intendere che sarebbe lo
Spirito Santo affermando che questi è contemporaneamente «radice prima»
(l’anima) e «radice prossima» (l’oggetto conosciuto e amato),
evidentemente non può che essere Dio stesso, la Trinità 421. E questa che
sarà la beatitudine perfetta dell’intera
Chiesa così come lo è dell’anima di ciascun eletto e lo è già allo stato
iniziale nell’anima di ciascun giusto fin da questa vita, giacché,
laddove si trovano fede e carità, là si trova anche il fine che esse ci
permettono di raggiungere: Dio stesso.
Il beneficio di questa precisazione aggiunta alla dottrina
comune consiste precisamente nel permetterci di ben comprenderla.
Certamente si è subito colpiti dalla bellezza di questa affermazione,
ma se ci si interroga con più precisione su Cosa si vuol dire parlando
dello Spirito Santo come anima della Chiesa, questo modo di parlare
dice troppo o troppo poco. Dice troppo, in quanto anima e corpo,
nella realtà naturale che conosciamo, si compenetrano così
strettamente da risultare impossibile separarli; è questo che si vuole
esprimere quando si dice che l’anima «informa» il corpo, le dà «la
420 Si rileggerà volentieri questo bel testo: «Il nostro spirito,
mediante il quale, l’uomo vive, si chiama anima... E voi vedete cosa fa l’anima nel
corpo. Essa vivifica tutte le membra; guarda attraverso gli occhi, ascolta con le
orecchie... È presente allo stesso tempo in tutte le membra per farle vivere; a tutte dà
la vita e a ciascuna il proprio ruolo. Non è l’occhio che ascolta, né l’orecchio che vede,
né l’orecchio o l’occhio che parlano. E tuttavia essi vivono: l’orecchio vive, la lingua
vive; le funzioni sono diverse, ma la vita è comune. Così accade per la Chiesa di Dio.
Con alcuni santi essa compie dei miracoli, con altri insegna la verità, con altri
conserva la verginità... gli uni questo, gli altri quello. Ciascuno compie la legge che gli
è propria e tutti vivo? no in egual modo. Ciò che l’anima è per il corpo umano, lo
Spirito Santo lo è per il cori po di Cristo, la Chiesa. Lo Spirito Santo compie in tutta la
Chiesa ciò che l’anima compie in tutte le membra di un unico corpo» (Omelia 267, n. 4:
PL 38,1231).
421 II P. Congar a tal proposito ha ragione nel suo confronto con lo
studio di Vauthier.
222
vita, il movimento e l’essere». È proprio impossibile però affermare
questo dello Spirito Santo: come infatti lo Spirito increato potrebbe
comporsi con le persone create quali sono le membra della Chiesa?
Vi è qui un’impossibilità metafisica.
L’esempio a noi più vicino e allo stesso tempo il più forte che
potremmo utilizzare, il caso dell’incarnazione, non ha implicato
nessuna composizione tra il Verbo e la sua umanità. Ricordiamoci del
Concilio di Calcedonia: l’unione è avvenuta «senza confusione né
mescolanza». Se fosse stato diversamente, l’unione avrebbe prodotto
un ibrido, né Dio né uomo. E tuttavia si può dire del Verbo incarnato
che la sua umanità gli è unita in persona (unione secondo l’ipostasi,
per dirlo tecnicamente). Questo non lo si può affermare dello Spirito
Santo giacché se fosse così sarebbe l’intera umanità ecclesiale che gli
sarebbe unita. Assurdità nella quale il Concilio Laterano IV vedeva
non tanto «un’eresia» quanto «un’inanità» che poteva nascere solo
nella mente di un insensato. Occorre allora svuotare questa
espressione di «anima della Chiesa» da ogni significato reale e non
vedervi se non una metafora? In tal caso ciò significherebbe dire
troppo poco.
San Tommaso introduce in questo contesto la fede e la carità,
permettendoci così di comprendere come lo Spirito Santo può essere
detto «in un certo senso» l’anima della Chiesa, senza lasciarci
trascinare in nessuna assurdità, ma senza rinunciare nemmeno a
riconoscergli la sua verità. La grazia, nell’anima, così come la fede e
la carità, nelle facoltà dell’intelligenza e della volontà, sono
indiscutibilmente doni dello Spirito Santo. Essi ci sono dati per
elevarci alla vita divina che siamo chiamati a condividere quando si
tratta della grazia e per permetterci di agire a questo livello come figli
e figlie di Dio quando si

223
tratta della fede e della carità. Per comprendere nella misura del
possibile ciò che accade quando Dio è così conosciuto e amato, ci si
può servire dell’analogia della conoscenza e dell’amore nel nostro
mondo quotidiano. Anche se presente accanto a me, la persona che
amo non è fisicamente presente nel mio spirito; essa è presente
soltanto mediante la visione che ne ho e la rappresentazione che me
ne faccio, grazie alle quali interiorizzo questa presenza nel mio cuore
in modo tale che potrò conservare questa presenza interiore come
ricordo quando la presenza fisica avrà fine. Presenza «intenzionale»
di conoscenza e d’amore 422, dicono gli specialisti, ma tuttavia
presenza ben reale: l’amato abita spiritualmente nell’amante come
l’amante nell’amato.
Liberata da tutti i limiti legati alla nostra condizione carnale,
questa rappresentazione puramente umana ci offre proprio l’analogia
di cui abbiamo bisogno. Dio, come abbiamo già visto, è presente a noi
stessi più intimamente di qualsiasi altro oggetto di conoscenza e
d’amore umani, come abbiamo detto; ma quando si tratta della
presenza di grazia è proprio di una presenza di questo tipo che si
tratta. Tramite la sua grazia noi abbiamo di lui una nuova presenza
giacché egli è ormai presente a noi come una persona
soprannaturalmente conosciuta e amata. Ritroveremo per un’altra via
quanto abbiamo scoperto qui sopra parlando della presenza di Dio alla
sua creatura. Oltre alla presenza d’immensità comune a tutte le cose,
«c’è questo modo speciale che è proprio della creatura
razionale: in questa si dice che Dio esiste come il conosciuto
nel conoscente e l’amato nell’amante. E poiché conoscendolo e
amandolo la creatura razionale giunge con la sua operazione
fino a Dio stesso, si dice che, mediante questo modo speciale,
non solo Dio è nella creatura razionale, ma anche che egli
abita in essa come nel suo tempio»423.
Abbiamo qui l’esatta verità dell’espressione «anima della
Chiesa» applicata allo Spirito Santo. Per evitare l’assurdità segnalata
poco fa, è stato dunque necessario distinguere tra lo Spirito Santo e i
suoi doni. Lo Spirito Santo non può esercitare direttamente il ruolo
dell’anima, ma lo esercita indirettamente tramite i suoi doni. Per dire
le cose un

422 Le «intenzioni» significano qui precisamente quei supplenti della


realtà che sono le rappresentazioni che noi elaboriamo per poterla interiorizzare
mediante la conoscenza e l’amore.
4231, q. 43, a. 3 e qui sopra, capp. IH e IV.
224
po’ diversamente, con parole più vicine alla Sacra Scrittura, si può
schematizzare quanto accade nel seguente modo. Non solo Dio ci ama
per primo (cf. 1 Gv 4, 10 e 19), ma ci dà anche di amarlo, «poiché
l’amore di Dio è stato effuso nei cuori per opera dello Spirito Santo
che ci è stato dato» (Rm 5, 5); e, infine, egli viene in noi che l’amiamo
{Gv 14, 23). Solo a questo punto può essere definito veramente
l’ospite delle nostre anime e quello della Chiesa. Tutto questo processo
è attribuito preferibilmente allo Spirito Santo per la ragione che
indicavamo all’inizio: Vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio, spetta a
lui in maniera speciale realizzare nel Corpo dei credenti il radunarsi
nella carità 424.

IL CUORE DELLA CHIESA

Tranne qualche sfumatura, il Maestro d’Aquino non esprime


nulla di molto originale quando parla dello Spirito Santo come anima
della Chiesa. Egli però è l’unico della sua epoca 425 a fargli svolgere
nella Chiesa il ruolo di «cuore»: «Il cuore esercita una certa influenza
nascosta [sulle membra esterne]. Per questo si paragona al cuore lo
Spirito Santo che vivifica e unifica invisibilmente la Chiesa» 426. Se,
nella Chiesa-Corpo, essere Capo conviene a Cristo, poiché si è
manifestato in maniera ben visibile, l’efficacia del cuore, invisibile ma

424 I lettori esperti avranno certamente notato che non abbiamo


utilizzato il discusso vocabolario della distinzione tra l’anima increata (lo Spirito
Santo) e l’anima creata (la grazia) della Chiesa. Non si trattava qui di evitare una
discussione inopportuna in questo contesto, poiché fatta astrazione delle parole
inopportune (ma quali sarebbero migliori?), la necessità di questa distinzione è
indubbia ai nostri occhi. Poco curata nella teologia attuale, essa, è sostenuta a buona
ragione dai due maggiori ecclesiologi del nostro tempo: CH. JOURNET, L'Église du
Verbe incarné, t. Il, Paris 1951, pp. 510-580; Y. CONGAR dà en passant il suo assenso
alle tesi di Journet (Sainte Église, pp. 643 e 647-649), ma già aveva difeso per
proprio conto un’identica posizione in Chrétiens désunis. Principes d’un
«oecuménisme» catholique («Unam Sanctam 1»), Paris 1937, pp. 64 e 68-70. La
critica di S. Dockx (cf. qui sopra, nota 41) dimentica di considerare il fatto che la
Chiesa è una «persona» mistica o, se si vuole, un tutto misticamente personale. Senza
addentrarci qui in questo nuovo tema, rinviamo ai due medesimi teologi presso i quali
si troverà l’essenziale del dibattito: CH. JOURNET, La sainteté de l’Église. Le livre de
Jacques Maritain, «Nova et Vetera» 46 (1971) 1-33 (presentazione e discussione di
J. MARITAIN, De l’Église du Christ, Paris 1970); Y. CONGAR, La personne «Église», RT
71 (1971)613-640.
425 Secondo M. GRABMANN, Die Lehre des heiligen Thomas von Aquin von
derKirche als Gotteswerk, Regensburg 1903, pp. 184-193.
426 ni, q. 8, a. lad 3.
225
non meno indispensabile, spetta di preferenza allo Spirito Santo 427.
Dato il valore simbolico del cuore, non si tratta che di un altro modo
per affermare che è l’amore la causa suprema della vita e dell’unità
della Chiesa.
La metafora ne richiama un’altra. Se nel nostro corpo fisico
tutte le membra sono irrorate dalla circolazione dello stesso sangue
che parte dal cuore, nel Corpo mistico questo flusso vitale è la carità.
Tramite essa lo Spirito Santo stabilisce tra tutte le membra un legame
organico che le rende interdipendenti in una stessa comunione:
«Come in un corpo naturale l’operazione di un membro si
volge a vantaggio di tutto il corpo, così accade nel corpo
spirituale che è la Chiesa. E siccome tutti i fedeli formano un
solo corpo, il bene dell’uno viene comunicato all’altro. "Noi
siamo tutti membra gli uni degli altri" (Rm 12, 5). Per questo,
tra gli articoli di fede che gli Apostoli ci hanno trasmesso, vi è
quello di una comunione dei beni (communio bonorum) nella
Chiesa; si tratta della cosiddetta comunione dei santi
(communio sanctorum)»428.
Per quanto lontano sia possibile risalire nella storia del Simbolo
degli Apostoli, lo Spirito Santo, la Chiesa e la comunione dei santi
appaiono sempre insieme. Non giustapposti, ma proprio come realtà
strettamente legate tra di loro: «Credo nello Spirito Santo, nella santa
Chiesa cattolica, nella comunione dei santi» 429. La comunione dei
santi non si aggiunge qui alla Chiesa; essa non ne è che
l’esplicitazione ed esige però un’osservazione preliminare. A metà
strada tra grammatica e teologia, questa è molto più che una semplice
curiosità grammaticale. Forse lo si sa, la formula «communio
sanctorum» può avere un duplice senso. In quanto sanctorum è il
genitivo di sancii, significa «comunione dei santi», cioè dei fedeli,
delle persone che hanno la fede. Ma sancto- rum può anche essere il
genitivo plurale di sancta, cioè delle cose sante, i beni che i fedeli
possiedono in comune e che li riuniscono: i sacramenti, la fede, la

427 Soltanto «di preferenza», perché l’attribuzione sembra non avere


niente di esclusivo sotto la mano di Tommaso; in un passaggio parallelo del De
Meritate, q. 29, a. 4 ad 7, egli osserva: «Il cuore è un organo nascosto.,, per questo
può significare sia la divinità di Cristo sia lo Spirito Santo».
428 Expositio in Symbolum, art. 10, n. 987.
429 È risaputo che si tratta qui della forma autentica del Simbolo degli
Apostoli così come la si può trovare in una delle sue prime testimonianze, presso
sant’Ippolito di Roma, verso Fanno 200, cf. P. NAUTIN, Je crois à l’Esprit-Saint
dans la sainte Église pour la résurrection de la chair. Etude sur l’histoire et
la théologie du Symbole («Unam Sanctam 17»), Paris 1947.
226
carità, Dio stesso. Storicamente i due sensi sono ben attestati e
sémbra impossibile precisare quale dei due sia apparso per primo.
Teologicamente, tuttavia, il dubbio non è possibile: è la comunione
con le realtà sante e, tramite esse, con la stessa santa Trinità che
fonda la comunione dei fedeli tra di loro.
Ora, per l’espressione «communio bonorum», utilizzata qui da
Tommaso, valgono le stesse osservazioni: bonorum può intendersi
dei boni, i buoni, cioè ancora una volta i fedeli, ma può intendersi
anche in rapporto a bona, i beni a loro comuni, e il Maestro
domenicano non lascia alcun dubbio su ciò che situa per primo:
«Ma tra i membri della Chiesa, il membro principale è Cristo,
perché ne è il Capo. “Dio l'ha dato per Capo a tutta la Chiesa
che è il suo Corpo” (Ef 1, 22-23). Il bene di Cristo è quindi
comunicato a tutti i cristiani, così come la virtù del Capo è
comunicata a tutte le membra; e questa comunicazione si
effettua mediante i sacramenti della Chiesa nei quali opera la
virtù della passione di Cristo che dà efficacemente la grazia per
la remissione dei peccati»430.
Tommaso passa allora rapidamente in rivista i sette sacramenti
e il loro effetto, e soltanto dopo arriva al secondo senso della
comunione dei santi, quello al quale senza dubbio pensiamo più
spontaneamente:
«Bisogna ancora sapere che non è soltanto l’efficacia della
passione di Cristo che ci è comunicata, ma anche il merito
della sua vita. E tutto il bene che hanno compiuto tutti i santi
viene comunicato a coloro che vivono nella carità, poiché tutti
sono uno: “Sono associato a tutti coloro che ti temono” ("Sai
118, 63). Perciò colui che vive nella carità diventa partecipe di
tutto il bene che si fa nel mondo intero»431.
Evidentemente occorre notare la frase sottolineata; essa è
ripetuta come un ritornello in tutti i testi in cui l’autore riparla di
questo tema 432.
Ci sarà permesso riportare ancora il seguente testo, raramente citato
in quanto appartenente a un’opera poco conosciuta dalla maggior
parte dei lettori di san Tommaso:
«[Due ragioni possono spiegare l’efficacia della preghiera per
430 Expositio in Symbolum, art. 10, n. 988.
431 Expositio in Symbolum, art. 10, n. 997.
432 Vedi per esempio: Seni. IV, d. 45, q. 2, a. 4 qla. 1 (= Suppl., q. 71, a.
12); QuodlibetVlll, q. 5, a. 2 [12].
227
qualcun altro; bisogna chiaramente voler pregare per questa
persona, però ciò che viene per primo] è l'unità della carità, in
quanto tutti coloro che vivono nella carità formano come un
unico corpo. In tal modo, il bene dell’uno rifluisce su tutti, così
come la mano o qualche altro membro è al servizio dell’intero
corpo. E così che tutto il bene compiuto dall’uno vale per
ciascuno di coloro che vivono nella carità, secondo quanto è
detto dal salmo (118, 63): “Sono associato a tutti coloro che ti
temono e osservano i tuoi comandi”»433.
Se bisogna osservare il posto della carità in questi testi,
naturalmente ciò è dovuto al fatto che si tratta della comunione dei
santi e che non vi è santità al di fuori della carità. Ma se si vuole
capire perché la carità ha questa misteriosa fecondità, occorre
ricordarsi del legame speciale che esiste tra essa e lo Spirito Santo.
Soltanto la presenza dello Spirito nel corpo di cui egli è l’anima
permette di capire come si produce questa misteriosa reversibilità dei
beni spirituali che chiamiamo «comunione dei santi». Charles Journet
a tal proposito utilizzava un sorprendente paragone. Dare gli occhi a
qualcuno che non li avesse significherebbe certamente dargli una
perfezione finita-, precisamente questi organi che sono gli occhi di
carne-, ma significherebbe anche introdurre allo stesso tempo in lui
spiritualmente tutto l’infinito dell’orizzonte. Dargli la capacità di
vedere significherebbe offrirgli la possibilità di appropriarsi
nell’ordine dell’intenzionalità dell’immensità del mondo esterno:
permettergli di comunicare con esso in un modo nuovo.
La carità, anch’essa, ha queste due facce. In quanto è dono
creato, effetto prodotto in me mediante lo Spirito Santo, essa
perfeziona il mio essere spirituale, ma è necessariamente limitata alla
mia persona. In questo senso, essa non potrebbe spiegare questa
comunione reciproca di cui cerchiamo di rendere conto. Se però
consideriamo che questa carità finita ci permette di entrare in
comunicazione con la Carità infinita che è lo Spirito Santo, di farla
abitare in noi come una forma spiritualmente presente, allora cambia
tutto. Infatti la Carità nella sua fonte ci mette anche in comunicazione
con il mondo delle altre Persone in cui essa è presente, giacché non è
nient’altro che l’Amore increato che, unico e identico, riempie tutta
la Chiesa e ne fa l’unità. Presente nel Tutto del Corpo ecclesiale e in
ciascuno delle sue membra, questi realizza in esso un’abitazione
reciproca di tutti coloro che sono in grazia, una «mutua circum-
insessione affettiva delle membra della Chiesa l’uno nell’altro»

433 Quodlibet II, q. 7, a. 2 [14].


228
(Journet). Se lo Spirito d’amore abita in noi e se noi abitiamo nello
Spirito, allora tutti coloro in cui abita lo Spirito e che dimorano nello
Spirito abitano anch’essi in noi e noi in loro. E fin qui che occorre
arrivare per rendere conto del mistero della comunione dei santi. La
nostra carità non si limita soltanto ai nostri fratelli, essa è la loro, e la
loro è anche la nostra. Esse si comunicano reciprocamente le risorse
e la fecondità che traggono dallo Spirito in modo tale che la carità del
più debole è sollevata da quella del più forte, e quella di entrambi è
assunta nella carità senza crepe della Chiesa intera, visto che è quella
dell’Amore increato, indivisibile e onnipresente che tutti possiedono
in comune434 435. Se è vero che «ogni opera pia e santa di uno solo
appartiene a tutti» 5S, ciò è dovuto proprio alla loro radice comune, la
carità, essendo essa stessa il frutto del suo Cuore, lo Spirito Santo 436.
Tra le rare omelie che ci sono giunte di san Tommaso, ce n’è
una per il giorno di Ognissanti437, nella quale si ritrovano la maggior
parte dei temi che abbiamo appena evocato in questo capitolo. Sarà
illuminante vedere ancora una volta come il frate predicatore
riprende nella sua esposizione l’insegnamento più elaborato 1 della
sua teologia.
Molto palesemente, questa omelia si fonda sull’idea della
congregatici fidelium, che è forse la sua definizione preferita della
434 Si riconosce qui la trasposizione suprema in termini cristiani della
dottrina dell’amicizia incontrata nel capitolo precedente; san Tommaso la ricava da
Aristotele, ma costui la riceveva già da Platone, anch’egli ben presto ripreso e
cristianizzato dai primi pensatori cristiani nello stesso senso che abbiamo appena
esposto, come per esempio da Clemente d’Alessandria: «E se “le cose degli amici sono
comuni” (PLATONE, Fedro, 279C; Leggi, V, 739C), e l’uomo è amico di Dio (e infatti egli
è amico di Dio per la mediazione del Verbo), allora tutte le cose diventano dell’uomo
poiché tutte le cose sono di Dio, e tutte le cose sono cornimi a questi due amici, Dio e
l’uomo» (Protrettico XII122, 3; cf. CLEMENTE ALESSANDRINO, Il Protrettico. Il Pedagogo,
a cura diM.G. BIANCO, UTET, Torino 19711, p. 189).
435 L’espressione è del Catechismo Romano, detto «del Concilio di
Trento», ma essa si connette bene ai testi di san Tommaso appena ricordati; cf.
Catechismus Romanus..., ed. P. RODRIGUEZ, Città del Vaticano 1989, Pars I a, cap.
10, p. 119. Ciò è stato evidentemente ripreso dal Catechismo della Chiesa
Cattolica.
436 Cf. Seni. IV, d. 45, a. 2, q. 1, sol. 1: «propter communicantiam in
radice operis quae est caritas». Questa dottrina della comunione dei santi
evidentemente è più ampia del breve richiamo riportato qui sopra; eventualmente si
potrà completare con CH. JOURNET, L’Église du Verbe incarni, t. II, pp. 548-561 e 662-
667, e soprattutto, con il buon articolo di J.-M.R. TILLARD, La communion des saints,
«La Vie spirituelle» 113 (1965) 249-274; vedi anche Y. CONGAR, Aspects de la
communion des saints. Les voies du Dieu vivant, Paris 1962, pp. 347-356; Je
crois en l'Bsprit-Saint, t. Il, Paris 1979, pp. 83-87 (con abbondante bibliografia).
437 Sermone Beati qui habitant, in TH. KÀPPELI, Una raccolta di prediche
attribuite a S. Tommaso d'Aquino, AFP 13 (1943) 59-94, cf. pp. 88-94.
229
Chiesa e che mette l’accento con risolutezza sulla comunione delle
persone438. Supposto ciò, il testo inizia quindi molto bruscamente:
nessuno, tra coloro che pensano rettamente, ignora che la societas tra
Dio, gli angeli e gli uomini è unica. Questa affermazione è sostenuta
da due citazioni scrit- turistiche che menzionano entrambe la
comunione (societas, nella Volgata) alla quale Dio chiama gli uomini
nel suo Figlio Gesù Cristo 439. Tommaso spiega qui questa
comunione con il fatto che c’è communica- tio degli angeli e degli
uomini in uno stesso fine, la beatitudine. Tuttavia, mentre Dio
possiede tale beatitudine per essenza, gli angeli e gli uomini
accedono ad essa soltanto per partecipazione. La comunione non si
ferma qui: tra tutti coloro che sono partecipi di questo stesso fine
deve esserci anche una communicatio delle opere; cosicché coloro
che non hanno ancora raggiunto il fine, gli uomini che sono ancora su
questa terra (i uiatores, nel linguaggio ormai accettato), sono condotti
verso di esso mediante le parole e gli esempi di coloro che già lo
possiedono. Per questo celebriamo le feste dei santi i quali hanno già
ottenuto la beatitudine: aiutati dalla loro preghiera, edificati dal loro
esempio, stimolati dalla loro ricompensa noi vi giungeremo a nostra
volta.
La conseguenza diretta di questa opzione fondamentale consiste
nel fatto che Tommaso non considera in una prospettiva
individualista né lo sforzo del cristiano né il termine di questo sforzo.
Egli ricorda che la persona può contare sulla comunità di cui fa parte:
anche se non siamo sempre decisi a perdonare, noi possiamo recitare
il «Padre No- stfo» senza mentire poiché il peccatore non prega
soltanto per propuo
conto {in persona sut), ma anche a nome della Chiesa Un persona
eccle- siae) che, essa, non mente 440. D’altra parte è per sottolineare
questo inserimento nella comunione ecclesiale che Cristo ci insegna
a dire «Padre nostro» e non solamente «Padre» 441. La comunione dei
santi finisce con l’apparire così per ciò che realmente è: il mistero
della nostra solidarietà soprannaturale nell’organismo di grazia che è
438 Cf. Exposilio in Symbolum, a. 9, n. 972: «Bisogna sapere che
“Chiesa” significa “comunità” (congregatio); perciò “santa Chiesa” è la stessa
cosa che “comunità dei fedeli” ( congregatio fidelium) e ogni cristiano è membro
di questa Chiesa».
439 Cf. 1 Cor 1,9 e 1 Gv 1, 7.
440 In orationem dominicani expositio VI, n. 1090.
441 In orationem dominicam expositio, Prol., n. 1024: «Per
suggerire l’amore di Dio, lo chiamiamo “Padre”, per suggerire l’amore del
prossimo, preghiamo comunitariamente e per tutti dicendo “Padre nostro" e
“rimetti a noi i nostri debiti”; questo ci spinge all’amore del prossimo».
230
il Corpo di Cristo, nuovo Adamo 442.

IX
Il Maestro interiore

Se a volte è difficile per gli specialisti mettersi d’accordo su ciò


che intendono esattamente con la parola «spiritualità», esiste almeno
un punto sul quale storia e teologia permettono loro di essere
concordi. Quando occorre definire cosa si intende con persona —
uomo o donna - «spirituale», si sa che si tratta sempre di «qualcuno
che si lascia condurre dallo Spirito». San Tommaso chiaramente non
fa eccezione; egli insiste anche su questo aspetto: «Colui che è
“spirituale” {homo spiritualis) non è soltanto istruito dallo Spirito su
ciò che deve fare, ma il suo stesso cuore è mosso dallo Spirito Santo»
443
. Secondo lui - come spiega a proposito di un versetto dell’incontro
di Gesù con Nicodemo {Gv 3, 8) -, «l’uomo spirituale» {uir
spiritualis) ha le proprietà stesse dello Spirito:
«“Il vento soffia dove vuole e tu senti la sua voce, ma non sai
né da dove viene né dove va. Cosi accade per chiunque è nato
dallo Spirito”. Certamente si tratta dello Spirito Santo. E
questo non ha niente di sorprendente poiché così come aveva
detto [Gesti]: “Ciò che è nato dallo Spirito è spirito",
nell’uomo spirituale si trovano le proprietà dello Spirito, così
come nel carbone incandescente si trovano le proprietà del
fuoco.
Ora, in colui che è nato dallo Spirito si trovano le quattro
proprietà dello Spirito che abbiamo appena enumerate 444. Egli

44263 Si è già caratterizzato il pelagianesimo come «un cristianesimo privato


di due misteri che sono in buona parte misteri di solidarietà... nel male e nella morte,
...nel bene e nella vita», E. MERSCH, Le corps mystique du Christ. Études de
théolo- gie historique, Bruxelles-Paris 19513, t. 2, p. 66; la dottrina della
comunione dei santi si trova agli antipodi di questa deviazione.
443 In adRom. 8,14, lect. 3, n. 635.
444 Cf. Super Ioannem 3, 8, lect. 2, nn. 451-454: il Signore insinua a
Nicodemo: quattro qualità dello Spirito: «La prima è la sua potenza... perché data la
potenza del suo libero arbitrio, egli spira “quando vuole e dove vuole” illuminando i
cuor i . ; la seconda è il segno di lui, “tu senti la sua voce”, [ciò si può intendere in
231
gode innanzitutto
della libertà: “Dov'è lo Spirito del Signore, là c’è libertà” (2
Cor 3, 17), perché lo Spirito conduce alla rettitudine: “Il tuo
Spirito buono mi conduce sulla terra della rettitudine” (Sai
142, 10), e libera dalla schiavitù del peccato e della legge:
‘“La legge dello Spirito che dà la vita in Cristo mi ha liberato”
(Rm 8, 2).
In seguito, dall’espressione delle sue parole si scopre [la
presenza dello Spirito], poiché ascoltandolo si riconosce la sua
spiritualità: “La bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12,
34). Infine la sua origine e il suo fine sono anch’essi nascosti
perché nessuno può giudicare un uomo spirituale: “L’uomo
spirituale giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da
nessuno” (1 Cor 2, 13). A meno che non occorra riferire il “tu
non sai da dove viene” al principio della nascita spirituale, che
è la grazia battesimale, e il “né dove va” alla vita eterna che ci
è ancora occulta»3.

DOV’È LO SPIRITO DEL SIGNORE, IVI È LA LIBERTÀ

Ritroveremo spesso le ultime tre qualità dell’uomo spirituale,


però è sorprendente che la prima è citata quasi dappertutto 4. In
maniera significativa, Tommaso mette regolarmente in relazione il
versetto di Gv 3, 8: «Colui che è nato dallo Spirito è spirito», con
quello di 2 Cor 3, 17: «Il Signore è lo Spirito e dov’è lo Spirito del
Signore ivi è la libertà», e, ad eccezione di ciò che chiama il contesto
immediato, ne formula un’esegesi praticamente identica:
«In un primo senso, “Spirito” [può intendersi in senso
personale, e bisogna comprendere:] Io Spirito Santo, che è
l’autore della Legge, è Signore, cioè agisce secondo la sua
libertà: “Lo Spirito soffia dove vuole” (Gv 3, 8); “Egli
distribuisce i suoi doni come vuole” (1 Cor 12, 11). Quando
Paolo aggiunge: “Dov’è lo Spirito del Signore, ivi è libertà”, è

mediante i predicatori... che è udita perfino dagli infedeli e dai peccatori; la terza è la
sua origine sconosciuta: sebbene senti la sua voce, “tu non sai da dove viene”, in
quanto viene dal Padre e dal Figlio... che abitano una “luce inaccessibile”; la quarta è
il suo termine finale, anch’esso sconosciuto, “tu non sai dove va”, che allora bisogna
intendere: poiché conduce a un fine che ci sfugge, ossia la beatitudine eterna...».
3
Ibid., n. 456.
4
Così nel Super Ioannem 15, 26, lect. 5, n. 2058: «Qui sono evocati quattro

due: sensi:] la voce mediante la quale parla interiormente nel cuore dell’uomo e che
odono soltanto i giusti e i santi..., e quella con la quale parla nelle Scritture o
232
punti riguardanti lo Spirito Santo: la sua libertà, la sua dolcezza, la sua processione, la
sua azione...».
come se dicesse: Poiché lo Spirito è Signore, egli può darci la
libertà di utilizzare la Sacra Scrittura dell’Antico Testamento
liberamente e senza velo 445. Cosa che non possono fare coloro
che non hanno lo Spirito Santo.
In un secondo senso, si può intendere “Signore” di Cristo
stesso; allora si può leggere così: il Signore, cioè Cristo, è
spirituale, cioè spirito di potenza (spiritus potestatis), e perciò
“laddove è lo Spirito del Signore”, ivi è la legge di Cristo
intesa nello Spirito (spiritualiter intellecta), non solo scritta ma
infusa nei cuori mediante la fede, ivi è quindi anche la libertà,
senza nessun ostacolo proveniente dal velo» 446 447.
Lo Spirito Santo è dunque libertà e il suo primo dono è la
libertà nell’anima del credente. Coloro che abitualmente frequentano
san Tommaso non possono non pensare qui al suo insegnamento sulla
legge nuova, troppo centrale per non ricomparire spesso. Coloro però
che conoscono meno la Somma rischiano di lasciarlo passare
inosservato poiché, come spesso accade nella teologia scolastica, la
questione che l’introduce sembra banale: «La legge nuova è una
legge scritta?». In realtà, si tratta di esprimere la novità del Vangelo
rispetto alla Legge antica:
«Secondo quanto afferma Aristotele nel IX libro dell’Etica,
“ogni realtà si definisce con quanto di più importante c’è in
essa”. Ora, ciò che c’è di più importante nella legge nuova, ciò
in cui risiede tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santo
data mediante la fede in Cri-: sto. La legge nuova consiste
quindi principalmente nella stessa grazia dello Spirito Santo
accordata ai fedeli di Cristo... Questo spinge sant’Agostino ad
affermare nella sua opera Sullo spirito e la lettera...
. (XXI 36): "Cosa sono dunque queste leggi divine scritte da Dio
stesso nei cuori se non la presenza stessa dello Spirito
Santo?”... Bisogna concluderne che principalmente la legge
nuova è una legge interiore, secondariamente però è ima legge
445 II velo evidentemente è quello di cui parla 2 Cor 3, 12-18, quello che
portava Mosè e che, secondo san Paolo, si trovava ancora sui cuori degli ebrei,
impedendo loro di riconoscere Gesù come il Messia, mentre dal cuore dei cristiani
era caduto il giorno della loro conversione.
446 In II ad Cor. 3, 17, lect. 3, n. Ili; si sa che gli odierni esegeti applicano
a Cristo l’espressione di san Paolo, e preferirebbero dunque la seconda interpreta?
zìone alla prima, ma il passaggio resta controverso e si vede come Tommaso ne era
già cosciente.
447 I-II, q. 106, a. 1; rinviamo all’eccellente commento di J. TONNEAU: S.
Thomas d’Aquin, La loi nouvelle, I-II, Questions 106-108, trad. francese, note e
appen-; dici («Revue des Jeunes»), Paris 1981.
233
scritta»1.
Giustamente celebre, questo articolo è stato spesso commentato,
e bene 448; se non è nuovo in egual misura in tutti i suoi punti
(Tommaso non nasconde ciò che deve ad Agostino), l’importante
non consiste in questo, ma proprio nell’affermazione forte, e fondata
sulla Scrittura e sulla Tradizione, della centralità dello Spirito Santo e
della sua grazia. Ne consegue che tutto il resto è radicalmente
relativizzato in quanto subordinato al rango di semplice valore
strumentale rispetto all’unica grandezza che abbia valore di fine.
Questo non significa però professare un qualche rifiuto
anarchico di ogni legge, perché il testo aggiunge subito che ci sono
elementi secondi al servizio di quest’unica legge del Vangelo 449.
Infatti è ammirevole il fatto che, come sant’Agostino, Tommaso si
preoccupa di una cattiva comprensione di questa dottrina, che
porterebbe a passare facilmente dalla libertà alla licenziosità: non si
tratta tanto di mettere in guardia, quanto di precisare la ragione per
cui lo Spirito Santo è la fonte della libertà cristiana:
«Occorre sapere che fondandosi su queste parole: "Dov'è lo
Spirito del Signore, ivi è la libertà", così come sulle parole
seguenti: “Per il giusto non c’è legge” (1 Tm 1, 9), alcuni
hanno insegnato falsamente che gli uomini spirituali non sono
sottomessi ai precetti della legge divina. Il che è falso, poiché i
comandamenti di Dio sono la regola dell’agire umano...
Quanto è affermato del “giusto per il quale non c’è legge", deve
intendersi così: non è per i giusti, i quali sono mossi
dall’interno verso le cose che prescrive la legge di Dio, che la
legge è stata promulgata, mài per gli ingiusti, senza per questo
che i giusti non vi siano tenuti. Similmente, “Dov’è lo Spirito
448 Oltre a J. Tonneau, vedi soprattutto S. PlNCKAERS, La loi de
l’Évangile ou Loi nouvelle selon saint Thomas, in Loi et Évangile, Genève
1981, pp. 57-80; Les sources de la morale chrétienne, cap. VII, pp. 180-200;
vedi anche J. ETIENNE, Loi et gràce. Le concepì de loi nouvelle dans la Somme
théologique de S. Thomas i’Aquin, RTL 16 (1985) 5-22 (presentazione
sommaria), e l’insieme degli studi raccolti in L. ELDERS - K. HEDWIG, Lex et Lihertas.
Freedom and Law according to St. Thomas Aquinas («Studi Tomistici 30»),
Roma 1987. Per l’apporto di sant’Agostino, cf. I. BIFFI, Teologia, Storia e
Contemplazione in Tommaso d'Aquino, pp. 177- 213, cap. 4: «La legge nuova.
Agostino e Tommaso»,
449 U. KUHN, Via caritatis. Theologie des Gesetzes bei Thomas
von Aquin, Gòt- tingen 1965, p. 201, fa notare giustamente: «La legge nuova, nella
misura in cui è una legge scritta è, come ogni legge scritta, destinata a curare e a
guarire un oscuramento reale o almeno possibile della lex indita. Qui Tommaso
vede chiaramente la realtà: fino a che l’uomo vive in questo mondo, perpetuamente
incalzato dal peccato, questa informazione è necessaria malgrado la legge dello
Spirito, per mettere l’uomo in qualche modo sul retto cammino e mantenervelo».
234
del Signore ivi è la libertà” deve intendersi così: è libero colui
che dispone di se stesso (liber est qui est causa sui), mentre il
servo (seruus) dipende dal suo signore. Perciò colui che ; agisce
da se stesso agisce liberamente, colui però che agisce sotto l’im-
pulso di un altro non agisce liberamente. E così che colui che
evita il male non perché è male, ma a causa del comandamento
di Dio, costui non è libero; colui però che evita il male perché è
male, costui è Ubero. Ora, questo è quanto realizza lo Spirito
Santo, che perfeziona interiormente lo spirito dell’uomo
mediante un habitus buono, in modo tale che egli faccia con
amore ciò che prescrive la legge divina. Questi è detto quindi
libero, non perché si sottomette alla legge divina, ma perché è
spinto dal suo habitus buono a fare proprio quanto ordina la
legge divina»450 451.

Le formule di fra Tommaso sono decisamente molto forti, al


limite della provocazione, e addirittura incomprensibiU per la
mentaUtà legali- stica qual è la nostra da molti secoU, e secondo la
quale un atto è valutato in base alla sua conformità alle leggi o alle
norme sociaU. Sotto la sua apparente negUgenza della legge,
Tommaso si mostra invece esigente e attinge così a san Paolo con
molta più sicurezza: «Tutto ciò che non procede da una convinzione
di fede è peccato» n. Non vi è qui nessun disdegno o disprezzo della
legge, ma l’affermazione cosciente della grandezza dell’uomo: «La
suprema dignità di un uomo consiste nell’essere spinto al bene da se
stesso e non da altri»452.
Questa coscienza della necessità assoluta dell’origine interna
dell’atto libero pone precisamente una questione allorquando
Tommaso incontra un altro versetto, non meno decisivo, di san Paolo
450In II ad Cor. 3, 17, lect. 3, n. 112; il commento di 1 Tm 1, 9 (n. 23) va
evidentemente nello stesso senso: «La legge non è imposta ai giusti come un fardello
poiché il loro habitus interiore li spinge a compiere ciò che appartiene alla legge;
essa non è per loro un peso perché “essi sono legge a se stessi” {Km 2,14)». Si può
anche intendere: «La legge non è data per i giusti ma per gli ingiusti, giacché se
fossero esistiti soltanto i giusti non sarebbe stata necessaria la legge;
tutti sarebbero stati legge a se stessi». Nello stesso senso vedi I-II, q. 93, a. 6 ad
1: «Gli uomini spirituali non sono sotto la legge perché, tramite la carità che lo
Spirito Santo infonde nel loro cuore, essi compiono spontaneamente quanto
appartiene alla legge».
451 Rm 14, 23; ritroveremo questo versetto quando parleremo del ruolo
della coscienza nell’agire morale.
452 In ad Rom. 2, 14, lect. 3, n. 217; si tratta del commento del versetto:
«Essi sono legge a se stessi», che Tommaso cita volentieri per evidenziare il carattere
spontaneo che deve presiedere all’azione buona; oltre agli accostamenti citati qui
sopra, cf. per es. Seni. Ili, d. 37, a.l ad 5; I-II, q. 96, a. 5 ad 1. L’importanza di
questo versetto nell’opera di Tommaso è stata ben evidenziata da un ottimo studio
235
(Rm 8, 14): «Sono figli di Dio coloro che sono guidati dallo Spirito di
Dio (Spiritu Dei aguntur)». Come intendere questo?
«“Coloro che sono guidati dallo Spirito” sono “condotti” da
lui così come si è “guidati” da una guida o da un conducente;
questo è quanto fa in noi lo Spirito allorquando ci illumina
interiormente su cosa dobbiamo fare: "Il tuo Spirito buono mi
condurrà” (Sai 142, 10). Ma dato che colui che è così
“condotto” non agisce da se stesso, l’uomo spirituale non è
soltanto istruito dallo Spirito Santo, ma costui muove anche il
suo cuore. Bisogna perciò accordare un senso più forte
all’espressione “coloro che sono condotti dallo Spirito di Dio”.
Si dice infatti che gli esseri che sono “guidati”, lo sono per un
istinto superiore. Così diciamo degli animali che non si
guidano da soli ma che sono guidati, cioè sono spinti dalla loro
natura e non da una loro propria mozione a produrre certe
azioni. Farimenti, non è prima di tutto dalla sua propria
volontà, ma da un istinto dello Spirito Santo che l’uomo
spirituale è spinto a fare qualcosa, così come afferma Isaia 09,
19): “Verrà come un fiume impetuoso che precipita, il Soffio
del Signore”, oppure Luca (4, 1) che dice di Cristo che fu
"guidato dallo Spirito nel deserto". Questo non esclude tuttavia
che gli uomini spirituali agiscano mediante la loro volontà e il
loro libero arbitrio, giacché è lo Spirito Santo che causa in essi
il movimento stesso della loro volontà e del loro libero arbitrio,
secondo quanto afferma la lettera ai Filippesi (2, 13): “È Dio
che produce in noi il volere e l’operare”»1}.
Fra Tommaso predilige questa espressione di san Paolo che
ritorna spontaneamente nel suo commento alla lettera ai Galati.
Coloro che sono guidati dallo Spirito non possono fare niente contro le
opere virtuose prescritte daña legge perché lo Spirito insegna loro a
compierle. E ciò senza costrizione: «la legge nuova produce
un’affezione d’amore

di B. MoNTAGNES, Autonomie et dignità de l’homme, «Angelicum» 51 (1974)


186- 211, sul quale ritorneremo.
In ad Rom. 2, 14, lect. 3, n. 635; esattamente nello stesso senso si può
citare il commento alla lettera agli Ebrei 8, 10, lect. 2, n. 404: «La nuova Alleanza è
stata data per ispirazione interiore, in quanto essa consiste neU’infusione dello Spirito
Santo che istruisce interiormente. Tuttavia non è sufficiente conoscere soltanto,
bisogna poi agire; e quindi se lo Spirito Santo illumina innanzitutto l’intelletto per
conoscere..., egli è anche “impresso” nel cuore per inclinare l’affettività a ben agire».
che dipende dalla libertà, poiché colui che ama si muove

236
liberamente» 453. Se viviamo dello Spirito, in tutte le cose saremo
guidati da lui. D’altronde vi è qui un’equivalenza significativa: «Se
qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene», dice san
Paolo {Rm 8, 9); e Tommaso continua: «Quindi coloro che sono
guidati dallo Spirito appartengono a Cristo»454.
Mettendo così in evidenza il legame reciproco dello Spirito e di
Cristo, Tommaso non fa che obbedire al linguaggio del Nuovo
Testamento ed è felice di ritrovarlo esplicitamente in san Paolo: «La
legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù mi ha liberato dal peccato e
dalla morte» (Rm 8, 2):
«In un primo senso, questa legge è lo Spirito Santo stesso.
Cosicché per "'legge dello Spirito”, bisogna intendere: la legge
che è lo Spirito. Infatti il proprio della legge consiste
nell’incitare l’uomo a fare il bene. Secondo Aristotele...
l’intenzione del legislatore consiste nel formare dei buoni
cittadini; ora, la legge umana non può fare questo se non
facendo conoscere il bene che bisogna compiere. Lo Spirito
Santo, lui, che abita nell’anima, non solo insegna ciò che
bisogna fare illuminando l’intelligenza, ma inclina anche
l’affettività ad agire rettamente. “Il Raraclito, lo Spirito Santo
che il Padre invierà in mio nome, è lui che vi insegnerà tutto -
ecco il primo aspetto - e vi suggerirà - ecco il secondo - tutto
ciò che gli dirò per voi”.
In un secondo senso, “la legge dello Spirito” può intendersi
dell’effetto proprio dello Spirito Santo, cioè della fede che
opera mediante la carità. Anch’essa insegna interiormente ciò
che bisogna fare, secondo quanto afferma san Giovanni (1 Gv
1, 27): “La sua unzione vi insegnerà tutto”; come pure inclina
l’affettività ad agire, secondo quanto afferma san Paolo (2 Cor
5, 14): “la carità di Cristo ci spinge”. Questa legge è dunque
chiamata legge nuova sia perché si identifica allo Spirito Santo,
sia perché lo Spirito stesso la opera in noi [...]. E se l’Apostolo
aggiunge “in Cristo Gesù”, è perché questo Spirito non è dato
che a coloro che sono in Cristo Gesù. Come il soffio vitale
naturale non giunge al membro che non è legato alla testa, così
lo Spirito Santo non giunge al membro che non è legato al
capo: Cristo»455.
Non è affatto necessario insistere per riconoscere in un testo
come questo - ma l’esperienza si può rifare a volontà con molti altri
testi - il legame reciproco delle due missioni temporali delle Persone
453 In ad Gal. 4, 24, lect. 8, n. 260: lex nona generai affectum amoris qui perti-
net ad libertatem, nam qui amat ex se mouetur.
454 In ad Gal. 5, 24-25, lect. 7, n. 338, ma vedere anche i numeri 336-340.
455 In ad Rom. 8, 2, lect. 1, nn. 602-603 e 605.
237
divine del Figlio e dello Spirito. La storia della salvezza di cui
Tommaso raccoglie preziosamente le indicazioni nei suoi commenti
scritturi- stici, riflette la reciproca interiorità della comunione
trinitaria456. Senza attardarci a dimostrare ciò che non ha bisogno di
esserlo, sarà meglio seguire Tommaso nelle sue spiegazioni sul modo
in cui lo Spirito opera in noi. Infatti nella Somma egli ha formulato la
teoria di quanto abbiamo potuto leggere nelle sue lezioni sulla Sacra
Scrittura.

L’ISTINTO DELLO SPIRITO SANTO

Ciò che abbiamo appena visto attribuire da parte di Tommaso


allo Spirito Santo, ossia l’illuminazione dell’intelligenza affinché
questa veda il bene da farsi e la mozione della volontà per compierlo,
non è che la parte più evidente - la più appariscente, se così si può
dire - dell’opera dello Spirito in noi. E sufficiente conoscere i grandi
dati che dirigono l’onnipresenza di Dio alla sua creatura e il modo in
cui egli la sostiene nell’essere e nell’agire per capire facilmente come
l’azione dello Spirito Santo operata mediante la grazia sposi
anch’essa le stesse leggi. In un caso come nell’altro, Dio non
potrebbe fare violenza sull’azione della sua creatura senza rinnegare
se stesso. Tommaso però sembra che si prefigga qui un altro
obiettivo: voler far sentire ancora Tintimità di questo agire divino e
farne assaporare la dolcezza. È a questo che corrisponde il suo
insegnamento sui doni dello Spirito Santo.
Nella dottrina tomasiana i doni dello Spirito Santo occupano un
posto qualificato ed è importante comprendere bene il loro ruolo nella
vita spirituale del cristiano. Infatti, ci si potrebbe interrogare sulla
loro necessità dato che essi intervengono in un organismo già dotato
di grazia nel più intimo dell’anima, fornito persino delle virtù che lo

456 Quest’impronta trinitaria della storia della salvezza è fortemente


sottolineata nella I-II, q. 106, a. 4 ad 3: «La legge antica non era soltanto del Padre,
ma anche del Figlio poiché essa prefigurava il Cristo. Infatti il Signore afferma nel
Vangelo: “Se aveste creduto a Mosè, avreste creduto anche a me; poiché egli ha
scritto di me” (Gv 5, 46). Così pure la legge nuova non è soltanto di Cristo, ma anche
dello Spirito Santo, secondo quanto è affermato in Rm 8, 2: “la legge dello Spirito di
vita in Cristo Gesù”. Perciò non si deve attendere un’altra legge dello Spirito Santo»;
il tono di questa risposta, così come l’intero contenuto di questo art. 106, 4,
naturalmente è diretto contro Gioacchino da Fiore e i suoi discepoli: cf. J. TONNEAU, La
hi nouvelle, nota 28, pp. 129-131; vedi alcune indicazioni a tal proposito in B.T.
VIVIANO, Le Royaume de Dieu ians l’histoire («Lire la Bible 96»), Paris 1992, pp. 98-
107.
238
abilitano a conoscere e ad amare nel campo soprannaturale 457. Di
fatto, così come i doni dello Spirito Santo, anche le virtù teologali
sono dei doni divini e, anch’esse, perfezionano la persona per
metterla in grado di agire secondo Dio. Per questo non mancano
teologi, prima e dopo san Tommaso, che dubitano fortemente non
solo della necessità di distinguere tra doni e virtù, ma finanche della
stessa esistenza dei doni458. Soltanto la Sacra Scrittura, e questo
bastava ad eliminare ogni incertezza al nostro autore, parla
chiaramente dei sette doni dello Spirito Santo 459; quindi è ad essa che
egli ricorre per spiegare dove si colloca la differenza. È uno dei
passaggi della sua opera, come altri già incontrati, che sono
particolarmente illuminanti circa il suo metodo teologico al quale la
ragione prende parte, dato che si tratta di comprendere, ma la Sacra
Scrittura rimane la norma:
«Per distinguere i doni dalle virtù, dobbiamo seguire il modo di
esprimersi della Scrittura, dalla quale ci vengono presentati
non sotto il nome di “doni”, ma piuttosto sotto quello di
“spiriti” (spirituum). Così infatti si esprime Isaia (11, 2): “Si
poserà su di lui lo spirito di sapienza e d’intelletto”, ecc. Da
queste parole si può comprendere facilmente che le sette
(realtà) sono là enumerate come conferite a noi per ispirazione
divina. E “ispirazione” indica sempre una mozione
dall’esterno. Infatti bisogna considerare che nell’uomo si
danno due principi di moto: il primo, interno, è la ragione; il
secondo, esterno, è Dio 460 (...).
[Ma questo suppone una certa attitudine della persona che
viene mossa a porsi sotto la mozione dell’agente che la deve
fare progredire. Così uno studente dovrà acquisire molte
conoscenze prima di essere ben preparato e mettersi alla scuola
di un maestro famoso], Perciò, finché si tratta di essere mosso
457 Cf. la distinzione tra grazia e virtù, abito entitativo e operativo,
ricordata nel capitolo precedente.
458 Vedi l’indicazione illuminante di O. LOTTIN, Morale fondamentale,
Toumai 1954, pp. 414-434; Lottin si situa egli stesso nella linea degli autori che
rifiutano questa distinzione e pensa che Tommaso non l’avrebbe fatto che per
conformarsi agli usi del suo tempo; è lecito dubitarne, considerato il molo che egli fa
svolgere ad essi.
459 Cf. Is 11, 2, letto secondo i Settanta e la Volgata, che aggiunge la
pietà alla lista del testo ebraico. Questo infatti non conosce che sei doni: saggezza,
discernimento, consiglio, coraggio (o forza), conoscenza e timore; Tommaso elabora
qui un’esposizione molto estesa sui doni: Super Isaiam 11, Leon., t. 28, pp. 79-80,
righe 126-212.
460 E sufficiente evocare Dio per capire come questa «esteriorità» non
ha niente di esteriorizzante, niente di materiale; si tratta piuttosto di alterità: ciò che
Dio opera in me, non è riducibile a ciò che proviene da me.
239
dalla ragione, le virtù umane sono sufficienti a perfezionare
l’uomo nel suo agire interiore o esteriore. Se però si tratta di
essere mosso da Dio, occorre che vi siano in lui delle perfezioni
più alte che lo dispongano ad essere mosso divinamente.
Queste perfezioni sono chiamate “doni”, non solo perché sono
infuse da Dio, ma perché da esse l’uomo viene disposto ad
assecondare con prontezza le ispirazioni divine, secondo
l’espressione di Isaia (50, 5): "Il Signore mi ha aperto
l’orecchio e io non mi sono opposto, non mi sono tirato
indietro”. Il Filosofo stesso notava che coloro i quali sono
mossi per istinto divino non hanno bisogno di deliberare
secondo la ragione umana, ma devono seguire l’istinto interiore,
poiché sono mossi da un principio superiore alla ragione
umana»461.

Estratta da un contesto sensibilmente differente, l’affermazione


di Aristotele subisce una trasposizione piuttosto audace 462 ; noi però
possiamo tralasciare ciò e considerarne soltanto la portata: mentre la
virtù, seppure infusa da Dio, resta ancora a disposizione della
persona, la quale può farne un uso più o meno generoso, il dono
mette il suo beneficiario in una situazione di perfetta docilità rispetto
all’azione dello Spirito Santo. Egli si trova in un tale stato di
dipendenza e contemporaneamente di spontaneità, all’ascolto
dell’operazione divina in sé, che non deve più preoccuparsi del
giudizio della ragione; è mosso da un istinto superiore che lo rende
sicuro di essere nel vero e nel bene - perfino nelle cose più folli -. Le
vite dei santi traboccano di queste decisioni prese contro ogni
sapienza umana, malgrado le rimostranze dei circostanti. Senza
cercare troppo lontano, Tommaso poteva ricordarsi di san Domenico
che rischiando di distruggere la sua giovane fondazione di Predicatori
disperse senza indugi ai quattro angoli della cristianità i pochi frati
che aveva raggruppato a Tolosa: «Non opponetevi! Io so bene ciò che
faccio»463.
Si è fatta osservare giustamente l’originalità del vocabolario
utilizzato e ancor più delle idee di Tommaso presenti nel passaggio
appena citato 464. Innanzitutto, la parola spiritus, che una buona

4611-II, q. 68, a. 1: «prompte mobilis ab inspiratione divina»; stessa


espressione nella II-II, q. 121, a. 1, ma si ritrova più spesso: « bene mobilis a Spiritu
Sancto (o: per Spiritimi Sanctum)», cf. I-H, q. Ili, a. 4 ad 4; II-II, q. 8, a. 5; q. 19, a.
9; q. 52, a. 1.
462 Cf. Etica a Eudemo VII, 14,1248 a 32.
463 Processo di Bologna, n. 26; su questo episodio, vedi M.-H. VICAIKE,
Relec- ture des origines dominicaines, «Mémoire dominicaine» 3 (1993) 159-171.
464 Vedi il breve ma prezioso studio di S. PlNCKAERS, L’instinct et
240
traduzione; deve rendere qui con «soffio», ma soprattutto la presenza
della parola «istinto» e dell’idea che essa suggerisce 465 466. Dal
semplice punto di vista statistico, le cifre sono in se stesse molto
impressionanti: l’espressione «istinto dello Spirito Santo» (instinctus
Spiritus Sancii) ricorre più di cinquanta volte, e la menzione di un
istinto divino ricorre una trentina di volte, soprattutto a proposito
della profezia, ma non solo. Nella maggior parte dei casi si tratta
della vita morale o del discernimento tra il bene e il male, o del
rapporto alla legge, o, ancora più significativo, di ciò che accade
allorquando qualcuno giunge alla fede, nell’esperienza di
conversione. Tommaso distingue allora l’appello esterno, che può
risuonare per esempio all’orecchio di colui che ascolta una
predicazione, dall’appello interno che gli è rivolto da Dio e che non è
nient’altro che un «certo istinto interiore {per quemdam instinctum
interiorem), con il quale Dio mediante la grazia tocca il cuore
dell’uomo affinché si orienti verso di lui; così facendo egli chiama
dal cattivo al buon cammino, e ciò tramite la sua grazia e non per i
nostri meriti»21.
Non si può fare a meno di sottolineare in quest’ultimo testo la
mozione della grazia che interviene senza meriti precedenti in colui
che si converte. Mentre nei suoi primi scritti Tommaso seguiva
apparentemente senza difficoltà l’opinione comune inconsciamente
semipe- lagiana, secondo la quale l’uomo poteva prepararsi alla
grazia con le sue sole forze 467, una lettura più approfondita di
sant’Agostino lo ha
spinto ad abbandonare questa posizione e a sottolineare senza
possibili equivoci che, anche e soprattutto in questo caso, «Dio opera
in noi il volere e il fare» (FU 2, 13). Acuti interpreti hanno attirato
l’attenzione sul fatto che questa sempre più netta coscienza che niente
l’Esprit au coeur de l’éthique chrétienne, in Novìtas et veritas vitae, pp.
213-223, al quale siamo debitori di numerosi suggerimenti.
465 S. PlNCKAERS, ibid., p. 217: «ciò che chiamiamo i doni sono dei
soffi, delle ispirazioni ricevute dallo Spirito Santo»; cf. p. 215, per le cifre citate qui
sopra.
466 In ad Gal. 1, 15, lect. 4, n. 42; cf. In adRom. 8, 30, lect. 6, n. 707:
«Questo appello interiore non è altro che un certo istinto della mente {quidam
mentis instinctus), mediante il quale l’uomo è mosso da Dio affinché aderisca alla
fede o alla virtù... Questo appello interiore è necessario perché il nostro cuore non
potrebbe volgersi verso Dio se Dio stesso non ci attirasse».
467 Così in Sent. II, d. 28, q. 1, a. 4: «In accordo con gli altri autori
{aliis con- sentiendó), affermiamo quindi che l’uomo può prepararsi a ricevere la
grazia santificante con il suo solo libero arbitrio»; Tommaso continua ad esprimersi
così nel De ueritate, q. 24, a. 15; soltanto un po’ più tardi, durante il suo soggiorno
ad Orvieto,
241
nella vita cristiana sfugge alla grazia è da mettersi in parallelo con
una crescente frequenza nell’opera tomasiana delle citazioni
dell’istinto dello Spirito Santo. Significativamente, è anche nella
stessa epoca che la citazione di Aristotele circa l’istinto superiore
interviene come esempio di quanto effettivamente realizza la venuta
dello Spirito nell’essere che si sottomette totalmente alla sua
influenza29.
Tommaso, possedendo ormai questa nozione-chiave della vita
spirituale, si richiama costantemente alla mozione interiore, sia dello Spirito
sia di Dio, e ne offre una bella spiegazione nel suo commento al detto di
Gesù riportato da san Giovanni: «Nessuno può venire a me se ì il Padre che
mi ha inviato non lo attira (traxerit)» 30:
¡111
«Noi veniamo a Cristo mediante la fede,... perché venire a lui e
credere in lui è la stessa cosa. Ora, poiché non si può credere
senza volerlo e poiché dire “attrazione” (tractio) significa
supporre una certa violenza, colui che viene a Cristo perché
“attirato” (tractus) subisce una costrizione. Rispondo a questo
dicendo che l’attrazione del Padre non implica nessuna
costrizione, giacché non necessariamente tutto ciò che attira fa
violenza. Perciò il Padre ha molteplici modi di attrarre a Cristo
senza violenza. Infatti si può attirare qualcuno sia
persuadendolo con la ragione..., sia attirandolo col proprio
fascino... Così sono attirati dal

egli riconosce che Dio previene con la sua grazia ogni movimento dell’uomo verso il
bene (vedi per es. SCG IH 149). Come ha ben mostrato H. BOUILI.ARD, Conversion et
grace chez S. Thomas d’Aquin. Étude historique («Théologie 1»), Paris 1944,
pp. 92-122, è la lettura più completa degli ultimi scritti di sant’Agostino sulla grazia,
il De predestinatione sanctorum e il De dono perseuerantiae, che fino ad
allora egli non avrebbe conosciuto se non attraverso florilegi, che lo ha reso attento
all’errore semi- pelagiano (che egli continua a chiamare «pelagiano»),
29
Cf. M. SECKLER, Instinkt und Glauhenswille nach Thomas von Aquin , Mainz
1961 (con l’importante discussione di E. SCHUXEBEECKX, L’instinct de la foi selon S.
Thomas d’Aquin, RSPT 48 [1964] 377-408, vedip. 382); J.H. WALGRAVE, Instinctus
Spiritus Sancii. Een proeve tot Thomas-interpretatie, ETL 45 (1969) 417- 431
(riassunto in francese).
30
Gv 6, 44; per ben comprendere il testo che segue occorre ricordarsi che le
parole «attira», «attrazione», che per noi suppongono un certo consenso della
persona attirata, nel latino di Tommaso si leggono tractus, tractio e implicano
molto più nettamente una «trazione» contro la volontà della persona così «tirata».
Padre coloro che sono colpiti dalla sua maestà; essi però sono
attirati anche dal Figlio a causa di una mirabile benevolenza e
per l’amore della verità, che non è nient’altro che lui. Se, come
afferma sant’Agostino, “ciascuno è attirato dal proprio
242
piacere” tanto più l’uomo sarà
atti
rato verso Cristo se trova la sua gioia nella verità, nella
beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in quanto Cristo è
tutto questo. Se dunque dobbiamo essere attratti da lui,
lasciamoci attrarre dalla gioia che procura la verità...
Ma poiché il potere di attirare non l’ha soltanto la rivelazione
esterna e l’oggetto [al quale si crede], ma anche l’istinto
interiore che spinge e muove a credere, il Padre attira molti
verso il Figlio mediante l’istinto di quell’operazione divina che
muove interiormente il cuore dell’uomo a credere: “E Dio
stesso che opera in noi il volere e l’operare” (Fil 2, 13); “Io li
attiravo con legami di bontà, con vincoli d’amore” (Os 11, 4);
“Il cuore del re è nelle mani di Dio: lo inclina a tutto ciò che
vuole (Prv 21 I)"»468 469.

NECESSITÀ DEI DONI DELLO SPIRITO SANTO

Le tre citazioni scritturistiche che sostengono questa dottrina


suggeriscono tutte e tre non solo rintimità dell’azione divina nel più
profondo dell’essere in cui si esercita, ma anche la sua dolcezza e la
gioia che ne deriva. Ritroviamo, è evidente, l’insegnamento di san
Paolo su coloro che si lasciano condurre dallo Spirito. Se Tommaso
ha sviluppato questa dottrina in unione con l’inizio della fede
(l’initium fidei), è perché così facendo si può cogliere meglio la
libertà dell’iniziativa divina che collabora con la libertà umana:
«L’atto stesso di credere appartiene a un’intelligenza che aderisce alla
verità divina sotto l’impulso di una volontà umana mossa dalla
grazia: si tratta perciò proprio di un atto del libero arbitrio ordinato
verso Dio»470. In effetti si tratta della legge irresistibilmente dolce
dello Spirito operante in noi per grazia, che ad un tempo illumina
l’intelligenza in modo che non ceda se non all’evidenza, e
contemporaneamente muove la volontà, la quale si decide

468 Trahit sua quemque uoluptas: VIRGILIO, Bucoliche II 65, citato da


AGOSTINO, Homélies sur S. Jean, tr. 26, 4 (BA 72, pp. 491-493).
469 Super loannem 6, 44, lect. 5, n. 935: «Sed quia non solum reuelatio, uel
obiectum, uirtutem attrahendi habet, sed etiam interior instinctus impellens et mouens ad
credenium, ideo trahit multos Pater ad Filium per instinctum diuinae operationis mouentis
interius cor hominis ad credendum».
470 Cf. II-II, q. 2, a. 9; si ritrova l’istinto nell’ad 3 di questo stesso articolo:
«Colui che ha la fede ha un motivo sufficiente per credere; egli infatti è spinto
dall’autorità divina confermata dai miracoli, e, più ancora, da un istinto interiore di
Dio cho lo invita (interiori instinctu Dei inuitantis)».
243
liberamente, perché individua il suo bene471.
Con questo gusto di arrivare in fondo alle cose, Tommaso
esamina ciascuno dei sette doni per determinare a che potenza e a che
virtù collegarli. L’impresa non è senza sottigliezze, ma bisogna
credere che l’autore la ritenesse importante, dato che vi ritorna con
diverse sfumature dalle Sentenze alla Somma, in vista precisamente di
abbracciare la realtà più da vicino472. Senza volerlo seguire nei
dettagli, è sufficiente sapere che non si tratta d’altro se non di
mostrare a che punto la vita spirituale è sotto la mozione totale e
costante dello Spirito, né più né meno473. Lungi dal lasciare intendere,
come si è potuto fare in altre epoche, che i doni sarebbero riservati ad
alcune «anime à’élites», Tommaso pensa invece che non solo essi
sono dati a tutti congiuntamente alla stessa carità, ma anche che sono
dati tutti contemporaneamente, secondo un illuminante parallelo con
quanto accade nel caso della virtù di prudenza:
«Sono le virtù morali che dispongono le nostre facoltà
appetitive ad
essere governate dalla ragione; similmente, sono i doni che
dispongono
tutte le potenze della nostra anima nei confronti della mozione
dello Spirito Santo. Ora, se lo Spirito Santo abita in noi, ciò
avviene mediante la carità: “L’amore di Dio è stato riversato
nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,

471 Circa il posto dell’affettività nel movimento della fede, si leggerà con
profitto Io studio di M.-M. LABOURDETTE, La vie théologale selon saint Thomas. L’af-
fection dans la fai, RT 60 (1960) 364-380, che ricorda tra l’altro il bel testo del De
Meritate, q. 14, a. 2 ad 10: «Quanto al suo line, [la fede] trova il suo compimento
nell’affettività, perché è in forza della carità che diventa meritoria del fine. Anche
l’inizio della fede si trova nell’affettività nella misura in cui la volontà determina
Fintelligenza ad assentire agli oggetti della fede».
472 Oltre a Seni. HI, d. 34, q. 1, a. 2, vedi I-II, q. 68, a. 4, e a diversi luoghi
della Secunda Secúndate in cui Tommaso ha trattato di ciascun dono dopo una
determinata virtù: intelligenza e scienza in relazione alla fede (qq. 8-9); il timore, che
corrisponde alla speranza (q. 19), la sapienza alla carità (q. 45), il consiglio alla
pmdenza (q. 52), la pietà alla giustizia (q. 121), il dono di fortezza all’omonima virtù
(q. 139).
473 Rinviamo qui allo studio illuminante di M.-M. LABOURDETTE, Saint
Thomas et la théologìe thomiste, nell’alt. Dons du Saint-Esprit, DS 3 (1957),
coll. 1610- 1635; cf. M.-J. NICOLAS, Les dons du Saint-Esprit, RT 92 (1992) 141-152;
vedi anche J. M. MUÑOZ CUENCA, Doctrina de santo Tomás sobre los dones del
Espíritu Santo en la Suma teológica, «Ephemerides carmeliticae» 25 (1974) 157-
243. Senza averlo utilizzato qui per un’evidente ragione di metodo - lasciare la parola
a san Tommaso -, sarà lecito rinviare al classico e bel libro di GIOVANNI DI SAN TOMMASO, I
Doni dello Spirito Santo, che dipende largamente dal Maestro, perfino nei suoi
commenti scritturistici.
244
5), come pure è mediante la virtù di prudenza che la nostra
ragione è perfezionata. Ne consegue che, come le virtù morali
sono tra loro connesse nella prudenza, così i doni dello Spirito
Santo sono tra loro connessi nella carità. Quindi, chi ha la
carità possiede tutti i doni dello Spirito Santo; senza di essa
però non se ne può avere nessuno»474.
Incomprensibile di primo acchito a colui che nella sua
mediocrità s’immaginasse che è possibile essere buono senza essere
giusto o casto, questa posizione traduce in realtà sul suo piano la
grande tesi della connessione delle virtù che reggono la vita cristiana
secondo il Maestro d’Aquino. Bisogna qui osservare a qual punto
questa posizione sia lontana da ogni spirito d’élite. La vita sotto il
regime dei doni non è una riserva di caccia riservata a pochi. Niente
potrebbe essere più lontano dal pensiero di Tommaso, dato che egli
afferma con la più grande chiarezza che i doni sono necessari alla
salvezza. L’affermazione sembrerebbe troppo forte nella sua
generalità, se Tommaso non l’avesse prima giustificata. I doni sono
tanto necessari alla salvezza quanto la carità e le altre virtù teologali,
senza le quali è impossibile giungere alla comunione con Dio, e per
questo sono dati con esse. Tuttavia resta illuminante seguire il suo
ragionamento che mostra una profonda conoscenza delle leggi della
vita secondo lo Spirito. L’idea generale resta la stessa: se la ragione è
sufficiente quando si tratta di raggiungere un fine puramente umano,
essa resta radicalmente insufficiente quando si tratta di un fine
soprannaturale; perciò Dio ci dà la grazia e le virtù. Ma le stesse virtù
restano a nostra disposizione e non possiamo che fame un uso timido,
poco generoso, timoroso e senza slancio; è proprio qui che lo Spirito
Santo entra in gioco:
«Nell’ordine delfine soprannaturale, la ragione non ci muove
che nella misura in cui essa è trasformata, un po’ e
imperfettamente, dalle virtù teologalila sua mozione non è
sufficiente se l’istinto e la mozione dello Spirito Santo non
intervengono dall’alto; secondo quanto afferma san Paolo:
“Coloro che sono guidati dallo Spirito di

474 I-II, q. 68, a. 5; assolutamente centrale, questa dottrina della connessione


di tutte le virtù con la prudenza e la carità sarà trattata con più ampiezza in un
capitolo seguente.
245
Dio, sono figli di Dio; se sono figli, sono anche eredi”; il salmo (142,
10) ugualmente dice: "Il tuo Spirito buono mi condurrà su una terra
di rettitudine”. Bisogna capire che nessuno può ottenere l’eredità di
questa terra dei beati se non è mosso e attirato dallo Spirito Santo.
Ed ecco perché, per ottenere questo fine, è necessario che l’uomo
possieda il dono dello Spirito Santo»}S.
La necessità dei doni dello Spirito Santo per la salvezza si estende, è
ovvio, ai doni che dipendono dalla grazia santificante propriamente detta;
esistono altri doni dello Spirito (quelli che si chiamavano nel linguaggio
scolastico le grazie gratis datae, che corrispondono a quelli che oggi
chiamiamo «carismi»). Accordati secondo le necessità per l’utilità della
comunità, essi non rientrano nello stesso tipo di necessità e Tommaso lo
spiega molto chiaramente:
«Alcuni doni dello Spinto Santo sono necessari alla salvezza; essi
sono comuni a tutti i santi e restano sempre in noi, come accade per la
carità "che non passa mai” (1 Cor 13, 8) e che resta nella vita futura.
Altri non sono necessari alla salvezza e sono dati ai fedeli per la
manifestazione dello Spirito: “A ciascuno è data la manifestazione
dello Spirito per il servizio” (1 Cor 12, 7)... Quanto a questo secondo
tipo di doni, è riservato a Cristo avere lo Spirito Santo sempre con sé»
475 476
[Tuttavia è molto apprezzabile che a proposito del grande
passaggio in cui Paolo ■ parla dei carismi, Tommaso abbia questa
frase decisiva:] «Nella Chiesa non vi è nessuno che non abbia la sua
parte di grazie dello Spirito Santo (nullus est in Ecclesia qui non
aliquid de gratiis Spiritus Sancti participet)»477.
Quando si parla della necessità dei doni e del loro rapporto alle virtù,
non occorre dunque immaginarsi che si tratterebbe di andare oltre le virtù.
Al contrario, secondo una formula che Tommaso ripete spesso, i doni sono
accordati «per aiutare le virtù {in adiutorium uirtutum)» a raggiungere il
loro fine ultimo478, e questo nonostante le nostre timidezze, le nostre
tiepidezze, le nostre piccolezze. Certo, niente può andare più lontano se non
la fede o la carità, ma la nostra ragione che esita e calcola non sempre lascia
ad esse libero corso. Dio allora interviene e ci prende per così dire per la
mano e ci fa avanzare più risolutamente sulle sue vie:

475I-II, q. 68, a. 2.
476SuperIoannem 14,17, lect. 4, n. 1915; cf. soprattutto I-II, q. Ili, aa. 1 e 4-5.
477 In I ad Cor. 12, 7, lect. 2, n. 725.
478 E la formula del Super Isaiam 11, Leon., t. 28, p. 79, linea 127; essa
raggiunge quella della III, q. 7, a. 5 ad 1: «Le virtù perfezionano le potenze dell’anima a
seconda che sono condotte dalla ragione; per quanto perfette siano, tuttavia esse
hanno ancora bisogno di essere aiutate dai doni che perfezionano le potenze
dell’anima in quanto sono mosse dallo Spirito Santo».
246
I FRUTTI DELLO SPIRITO
«La ragione umana non è in grado, né di conoscere, né di compiere
tutte le cose, sia che la si consideri nella perfezione del suo sviluppo
naturale, sia che la si consideri nella perfezione che le danno le virtù
teologali. Quindi essa non può su tutti i punti respingere la stoltezza
né gli altri mali dello stesso genere [di cui parlava san Gregorio
nell’obiezione]. Ma Dio, alla cui scienza e al cui potere tutto è
sottomesso, con il suo intervento ci protegge da ogni stoltezza,
ignoranza, pigrizia spirituale, durezza di cuore e altre cose simili.
Perciò si dice che i doni, i quali ci fanno seguire docilmente l’istinto
dello Spirito Santo, sono accordati contro questi tipi di difetti» 479.
Non si può che ammirare la profondità di queste osservazioni. Ciò
che i doni dello Spirito Santo permettono di superare non sono degli atti
manifestamente contrari alla grazia; questo è dato per scontato presso
chiunque vive sotto il regime della legge nuova. Non sono nemmeno le
virtù teologali che restano superiori ai doni giacché esse ne sono la radice,
ma è la loro modalità umana di realizzazione, ciò che chiamiamo
imperfezioni e che costituiscono altrettanti limiti e ostacoli alla gloriosa
libertà di movimento dei figli di Dio. Cosicché l’essere che sarà più docile
all’azione dello Spirito sarà anche il più libero. In lui, tutto il suo agire
dipende dalla grazia, ma la grazia stessa non solo rispetta, ma fonda il
carattere libero del suo movimento480.

479I-II, q. 68, a. 2 ad 3.
480 I-II, q. Ili, a. 2 ad 2: «Dio non ci giustifica senza la nostra collaborazione,
perché allorquando siamo giustificati aderiamo col nostro libero arbitrio alla giustizia
di Dio. Ciononostante, questa adesione non è la causa della grazia, ne è l’effetto. Tutto
dipende quindi dalla grazia (Unde tota operatio pertinet ad gra- tiam )». Questa è per
così dire la teoria generale; quando si tratta specialmente dell’azione dei doni, Tommaso si
esprime così a proposito del dono di consiglio (TL-II, q. 52, a. 1 ad 3): «I figli di Dio sono
mossi dallo Spirito Santo secondo la loro propria maniera, cioè nel rispetto del loro libero
arbitrio (secundum modum eorum, saluato scilicet libero arbitrio)».
247
248
I FRUTTI DELLO SPIRITO

Dopo aver parlato dei doni, san Tommaso aggiunge ancora altre
due questioni, a dire il vero molto sorprendenti per chi non si
aspetterebbe da lui che una semplice descrizione di strutture mentali,
ma che non dovrebbero più sorprenderci, poiché sappiamo che egli è
un lettore assiduo della Sacra Scrittura. Pienamente cosciente del fatto
che «il Discorso della Montagna contiene il programma completo
della vita cristiana» 44, egli si interroga dunque su ciò che sono le
beatitudini di cui parla il Signore nei Vangeli (Mt 5, 3-12; Le 6, 20-
26), e su quelli che san Paolo chiama «i frutti dello Spirito» {Gal 5,
22-23) 45. L’accostamento non è arbitrario poiché vi è più di un punto
in comune tra frutti e beatitudini, e il legame con lo Spirito Santo è
evidente a partire dal momento in cui ci si rende conto che tutto questo
si radica in lui come nella sua sorgente. Troppo poco lette, in quanto si
tenderebbe a considerarle secondarie nel movimento d’insieme della
Somma 46, queste due questioni sono al contrario apprezzate dai
migliori

44
I-II, q. 108, a. 3: «Sermo quem Dominus in Monte proposuit, totam
informationem christianae uitae continet»; nella sua Lettera-Dedica a Urbano IV
che accompagnava la Catena aurea su san Matteo, Tommaso aveva dichiarato
verosimilmente: «Nel Vangelo ci è dato l’essenziale della fede cattolica {forma fidei
catholicae) e la regola dell’intera vita cristiana (totius uitae regala
christianae)». E evidente qui l’ispirazione agostiniana, cf. S. PINCKAERS, Le
commentane du sermon sur la montagne par S. Augustin et la morale de S.
Thomas, in La Teologia morale nella storia e nella problematica attuale.
Miscellanea L.-B. Gillon, Roma 1982, pp. 105-126.
45
I-n, qq. 69-70; vedi anche il più ampio passaggio parallelo del Commento
ai Galati5, 22-23, lezione 6, nn. 327-334. In Seni. Ili, d. 34, q. 1, a. 6, e al seguito di
sant’Agostino, Tommaso aveva aggiunto in questo contesto una considerazione sulle
sette domande del Pater. Vedi anche il Super Matthaeum 5, nn. 396-443, e, oltre
l’articolo citato nella nota precedente, il commento di S. PINCKAERS, La voie spiri-
tuelle du bonheur selon saint Thomas, in Orcio sapientiae et amoris, pp.
267-284, soprattutto le pp. 276ss., in cui l’autore parla del «sorprendente dialogo
instaurato da san Tommaso tra la filosofia d’Aristotele e la teologia che trova la sua
fonte nella fede in Cristo crocifisso» (p. 284); dello stesso autore, vedi anche Les
sources de la morale chrétienne, pp. 154-177. Su questo tema, cf. A. GARDF.IL, art.
Fruits du Saint- Esprit, DTC 6 (1920), coll. 944-949; CH.-A. BERNARD, art. Fruits du
Saint-Esprit, DS 5 (1964), coll. 1569-1575.
46
Queste due questioni, osserverà il Gaetano, «richiedono una lettura
frequente e una meditazione costante, ma non hanno bisogno di commenti (lectione
frequenti, meditationeque iugi egent, non expositione)», Comm. in loco.

249
teologi moralisti attuali481 482. Costoro vedono in esse «un programma
di vita e di progresso spirituale», e se ne ispirano per «tracciare un
intero ritratto dell’uomo spirituale» 4S.
La lista delle beatitudini non ha affatto bisogno di essere qui
ricordata, ma forse sarà utile ricordare quella dei dodici frutti dello
Spirito così come Tommaso la trovava nel latino della Volgata: carità,
gioia, pace, pazienza, benignità, bontà, longanimità, mansuetudine,
fede, modestia, continenza, castità 483. Per capire di che cosa si tratta,
bisogna sapere che, rispetto alle virtù e ai doni, beatitudini e frutti non
rappresentano nuove categorie di abiti, ma semplicemente gli atti che
ne derivano:
«Il termine “frutto” è stato trasposto da cose materiali a quelle
spirituali. Ora, nelle cose materiali, si dice “ frutto” ciò che la
pianta produce giunta che sia alla sua perfezione, ed in se stesso
ha una certa dolcezza. E codesto frutto si può riferire a due
cose: all’albero che lo produce e all’uomo che dall’albero lo
raccoglie. Secondo questo esempio, quando si tratta di realtà
spirituali, noi possiamo considerare il termine “frutto” in una
duplice accezione: in un primo senso, si parlerà del frutto
dell’uomo per designare ciò che è da lui prodotto; in un secondo
senso, il frutto dell’uomo sarà ciò che è da lui colto»484.
Questa semplice sistemazione del vocabolario permette così una
prima chiarificazione. Se si pensa a ciò che è prodotto dall’uomo, è
evidente che sono gli atti umani che si chiamano «frutti». Se lo sono
secondo la capacità della ragione, essi sono allora frutti della ragione;
se però sono prodotti secondo una virtù più alta, quella dello Spirito
Santo all’opera nelle virtù e nei doni, «allora si dice che

481 Si leggeranno a tal proposito i pregevoli studi di D. MONGILLO, Les béatitudes et la


béatitude. Le dynamisme de la Somme de théologie de Thomas d’Aquin: une lecture de la
TII, q. 69, RSPT 78 (1994) 373-388, e La fin dernière de la personne humaine, RT 92
(1992) 123-140.
482 R. BERNARD, annotazione 137 a SAINT THOMAS D’AQUIN, La Vertu, t. 2,1- II,
Questions 61-70 («Revue des Jeunes»), Paris 1935, p. 382; sarà utile leggere l’insieme
di questo commento penetrante.
483 Non si cercherà nel greco del Nuovo Testamento l’integrità di
questa lista di cui non conosce che nove elementi.
4841-II, q. 70, a. 1; è ovvio, Tommaso si distingue qui da Bonaventura (Sent.
Ili, d. 34, p. 1, a. 1, q. 1; Opera III, 737-738), il quale vedeva nelle beatitudini non atti,
ma abiti, cf. E. LONGPKÉ, art. Bonaventure, DS 1 (1937) 1789-1790.
l’azione dell’uomo è il frutto dello Spirito Santo, come se
provenisse da un seme divino»485.
Se tuttavia si pensa al frutto come ciò che è colto dall’uomo,
allora si apre una prospettiva dall’ampiezza insospettata. Il frutto
dell’uomo, come quello di una terra, non è soltanto tale o talaltro
prodotto isolato, ma la rendita totale prodotta dalla piantagione.
Trasposto al campo dell’agire umano, il frutto colto sarà proprio il fine
ultimo di cui l’uomo godrà. «Ne deriva che le nostre opere, in quanto
effetti dello Spirito Santo operante in noi, si presentano come frutti;
però nella misura in cui esse sono ordinate al loro fine che è la vita
eterna, si presentano piuttosto come fiori» 486. Tommaso, di cui si vanta
volentieri il rigore del linguaggio, all’occasione non indietreggia
dinanzi alla metafora, anzi questa è particolarmente benvenuta: dal
seme che lo Spirito Santo depone nell’anima al frutto della
beatitudine, passando tra i fiori delle nostre buone opere, è
effettivamente tutto un programma.
Ma se, seguendo san Paolo, egli parla più volentieri dei frutti che
dei fiori, è perché gli atti virtuosi portano in se stessi il loro proprio
diletto e anche in qualche modo la loro ricompensa 487. Perciò è qui che
ritroviamo le beatitudini. Come i «frutti», le «beatitudini» sono anche
degli atti che hanno per origine le virtù e i doni, ma si distinguono dai
frutti nel senso che sono degli atti ancora migliori: «Si esige di più per
la nozione di “beatitudine” che per quella di frutti... Si chiamano
“beatitudini” soltanto le opere perfette-, d’altronde è per questo che
vengono attribuite piuttosto ai doni che alle virtù» 488. Soprattutto,, per
il fatto che portano lo stesso nome del frutto ultimamente colto, le
beatitudini dicono ancora meglio dell’immagine del frutto, che non
sono se non l’inizio di un compimento ancora da realizzarsi.
Tra sant’Ambrogio, che riservava le beatitudini per la vita
futura, e sant’Agostino, che le intendeva della vita presente, o ancora
san Giovanni Crisostomo, che le suddivideva in due categorie,

4851-II, q. 70, a. 1; rimmagine del seme per lo Spirito Santo è familiare a


Tommaso; essa si ritrova soprattutto nel passaggio parallelo del Commento ai Galati 5,
22-23, lect. 6, n. 330: «si parla del frutto dello Spirito poiché egli “spunta” nell’anima
a partire dal seme spirituale della grazia (ex semine spiritualis gratiae)»; vedi anche I-
II, q. 114, a. 3 ad 3 (qui di seguito n. 63).
486I-H, q. 70, a. 1 ad 1.
487 In ad Galatas 5, 22, lect. 6, n. 322: «le opere delle virtù e dello
Spirito costituiscono in noi una realtà ultima (quid ultimimi)».
488 I-II, q. 70, a. 2.
247
Tommaso ha dovuto cercare la sua via personale 489; la sua risposta
quindi è più interessante:
«Bisogna rendersi conto che la speranza della beatitudine
futura può trovarsi in noi in un duplice modo: sia a causa di una
certa preparazione o disposizione a tale beatitudine, ciò che
accade sotto forma di merito; sia come un certo inizio
imperfetto della futura beatitudine attuato nei santi anche in
questa vita, ha speranza di vedere un albero portare frutti
quando si vedono soltanto le foglie, è diversa da quella
determinata dall’ apparire dei primi frutti.
Perciò, tutto ciò che nelle beatitudine appare come merito
costituisce una preparazione o disposizione alla beatitudine, sia
perfetta sia iniziale. Invece tutto ciò che appare come
ricompensa appartiene sia alla beatitudine perfetta e dunque
alla vita futura, sia alla beatitudine iniziale come avviene nei
santi e nei perfetti, e quindi alla vita presente. Infatti, quando
qualcuno inizia a progredire negli atti delle virtù e dei doni, di
lui si può sperare che raggiungerà la perfezione come viatore e
come cittadino del cielo»490.

Queste riflessioni trasmettono senza alcun dubbio l’eco di una


esperienza spirituale, se non proprio quella dell’autore - ma è tuttavia
lecito crederlo -, almeno quella di tanti santi che hanno illustrato le
beatitudini a modo loro. E proprio vero, come spiega Tommaso a
proposito della beatitudine delle lacrime, che i santi sono consolati già
in questa vita poiché partecipano dello Spirito consolatore;
ugualmente, gli affamati di giustizia sono anch’essi saziati in quanto il
loro cibo, come quello di Gesù, è fare la volontà del Padre. Quanto ai
puri di cuore, è altrettanto vero che vedono Dio in un certo modo
mediante il dono dell’intelligenza491 492. Ma l’eco di questa esperienza
forse si percepisce ancor meglio allorquando Tommaso si interroga sul
modo in cui i frutti sono contemporaneamente distinti e connessi tra di
loro:
«Poiché si sono caratterizzati i frutti come ciò che procede da
un principio, un seme o una radice, essi si distingueranno tra
489 Cf. D. BUZY, art. Béatitudes, DS 1 (1937) 1306-1307.
490I-H, q. 69, a. 2.
491I-n,q. 69, a. 2 ad 3.
492 R. Bernard interpreta un po’ il testo allorquando traduce, qui e
più avanti,
mens hominis (la mente dell’uomo) con l’uomo spirituale-, certamente non è
ingiu-
248
loro secondo la differente “spinta” (processus) dello Spirito
Santo in noi. Ora, questa spinta si sviluppa così: la mente
dell’uomo (mens hominis)58 sarà ordinata prima in se stessa, poi
rispetto a ciò che le è vicino, infine rispetto a ciò che è al di
sotto di lui.
La mente dell’uomo è ben disposta in se stessa allorquando si
possiede perfettamente, nella prosperità come nell’avversità.
Ora, rispetto al bene, la prima disposizione della mente umana è
dovuta all’amore che è l’appetito principale e la radice di tutta
la nostra affettività (cf. I-II, q. 21, a. 4). Perciò, tra i frutti dello
Spirito, il primo posto tocca alla carità, poiché con essa lo
Spirito Santo è dato in una maniera speciale, come in una
somiglianza appropriata, essendo egli stesso l’amore. “L’amore
di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito
Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5).
L’amore di carità è necessariamente seguito dalla gioia. Sempre
infatti chi ama gode di essere unito all’amato. Ora, la carità è
sempre in presenza di colui che ama: “Chi sta nell’amore
dimora in Dio, e Dio dimora in lui” (l Gv 4, 16). Ecco perché la
conseguenza della carità è la gioia.
Ma la perfezione della gioia è la pace, in un duplice senso.
Primo, nella tranquillità rispetto ai turbamenti esterni; infatti
non si può godere perfettamente del bene che si ama se si è
turbati in questa fruizione da qualche altra cosa; mentre d’altra
parte, colui che ha il cuore perfettamente fisso in un unico
oggetto non può essere distolto da nient’altro in quanto tutto il
resto gli è indifferente: "Grande pace per coloro che amano il
tuo nome; non v’è inciampo per essi” fSal 118, 165). Di fatto, le
cose esterne non li distolgono al punto tale da non poter godere
di Dio. Secondo, nella sazietà dell’inquieto desiderio; infatti,
colui al quale non basterebbe l’oggetto della sua gioia non ne
godrebbe perfettamente. Ora, la pace esige proprio queste due
condizioni: niente turbamenti esterni e appagamento del
desiderio in un solo oggetto. Ecco perché, dopo la carità e la
gioia, al terzo posto troviamo la pace» 59.

Tommaso prosegue collegando a questo buon ordinamento


interiore la «pazienza» e la «longanimità» nelle avversità. Per quanto
concerne la rettitudine dei rapporti con gli altri, egli disporrà
similmente la «bontà», la «benignità», la «mansuetudine», la «fede»
(che assumerà la forma della fedeltà nei confronti dell’uomo, e
dell’affidamento, in sottomissione allo Spirito, nei confronti di Dio).
La lista termina con la retta disposizione nei confronti delle cose che
sono al di sotto di sé, ed è così che si hanno la «modestia», la
249
«continenza» e la «castità». Senza stificato, ma questa lettura potrebbe
portare a pensare (contro l’intenzione del suo autore) che Tommaso pensa a una
categoria speciale di cristiani, mentre il suo proposito è rivolto a tutti.
59
I-II, q. 70, a. 3.
che sia necessario seguirlo nei dettagli del procedimento, la lunga
citazione appena fatta è sufficiente a mostrare il posto occupato dai
frutti dello Spirito Santo e dalle beatitudini nella costruzione
dell'organismo spirituale. In realtà, tutto sta bene in piedi, qui come
altrove, e anche ; se san Paolo non ha probabilmente pensato a una
descrizione sistematica, lo sforzo del teologo che cerca di
comprendere come le cose si intrecciano le une alle altre non solo non
ha niente di errato, ma è profondamente illuminante sia sulla finezza
delle analisi tomasiane sia per chiunque voglia individuare nella
lettura delle sue opere gli elementi di una dottrina spirituale.
Eppure, ancor più di tutto ciò, qui è necessario notare come
Tommaso situi di fatto tutta la vita spirituale sotto il segno della
speranza del compimento escatologico 493. Il gioco del «già e non
ancora» riscoperto nel XX secolo leggendo la Bibbia, governa
l’insieme delle opzioni del Maestro d’Aquino. L’abbiamo già visto sia
a proposito della sua concezione della teologia 494, sia a proposito del
modo in cui parla del sacramento dell’eucaristia 495. Altrove
ritroveremo, e con un’insistenza significativa, tutta la vita spirituale
collocata sotto il segno del cammino e delle sue tappe, tra questo
«inizio incompiuto», qual è quello della grazia all’opera in una vita, e
il compimento futuro che sarà il termine di questo sforzo:

493 La cosa è stata ben vista da D. MONGILLO, La béatitude et les


béatitudes, p. 379, che ne parla come del «carattere più notevole dell’analisi tomasiana
delle Beatitudini». Si vedrà anche l’approccio diverso ma perfettamente convergente
dii E.-H. WÉBER, Le bonheur dès à présent, fondement de l’éthique selon Thomas
d’Aquin, RSPT 78 (1994) 389-413, secondo il quale questa anticipazione reali zzata
della beatitudine, mediante la grazia e i doni, costituisce precisamente ciò che
distingue Tommaso dai suoi contemporanei, i quali riservavano la beatitudine nni-
camente per l’escatologia.
494 Cf. il nostro cap. I.
495 Rinviamo qui al nostro Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo,
pp. 159- 160; ma si può anche ricordare l’antifona 0 sacrum convivium nella quale
Tommaso ricorda i tre aspetti del sacramento: «In questo sacro convito in cui
riceviamo Cristo come cibo, si celebra il memoriale della sua passione, l’anima è
ricolmata di grazia, e ci è dato un pegno della gloria futura (futurae gloriae nobis
pignus dalur)v>\ rinviamo soprattutto a III, q. 73, a. 4 e al commento di A.-M.
R.OGUET, in SAINT THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, L’Eucharistie («Revue des
Jeunes»), Paris 1960,1.1, pp. 352ss.
250
«La grazia dello Spirito Santo così come la possediamo nella vita
presente, non è uguale alla gloria perfetta (in actu), ma lo è in
germe (in uirtute): così come il seme dell’albero contiene in
esso l’albero intero. Similmente, per mezzo della grazia abita in
noi lo Spirito Santo, che è la causa efficiente della vita eterna;
perciò l’Apostolo lo chiama “la caparra della nostra eredità” (2
Cor 1, 22)»a.

IL MAESTRO INTERIORE

Tra le qualità attribuite dalla Sacra Scrittura allo Spirito Santo,


vi è il fatto che san Giovanni lo chiama con una certa insistenza «lo
Spirito di verità» (Gv 14, 17; 15, 26), «che porta alla verità tutta
intera» (Gv 16, 13). Attento com’è a quanto vi è di specifico nella
ricerca umana della verità, Tommaso non poteva mancare di
interessarsi ampiamente a questi versetti. Il suo insegnamento è qui
certamente meno psicologico che nei testi appena letti, ma l’intenzione
più dogmatica non ha una sua minore ripercussione spirituale. Perciò
sarà illuminante ritrovare la figura circolare familiare a fra Tommaso
e, per concludere, ritornare così al nostro punto di partenza tramite una
specie di inclusione:
«Egli è “Spirito di verità” in quanto procede dalla Verità e dice
la Verità... E poiché procede dalla Verità, egli conduce anche
alla Verità [cioè a Cristo] che afferma: “Io sono la Via, la
Verità, la Vita” (Gv 14, 6). Infatti, come in noi l’amore della
verità deriva dalla verità concepita e meditata, così in Dio
l’Amore procede dalla Verità concepita che è il Figlio. E così
come procede, egli conduce anche a tale Verità: “Mi
glorificherà, perché prenderà del mio bene” (Gv 16, 14).
Perciò, come afferma Ambrogio, “tutto ciò che è vero, da
chiunque sia proferito, procede dallo Spirito Santo” (omne
uerum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est). “Nessuno può
dire Signore Gesù se non nello Spi- 496 rito Santo” (1 Cor 12, 3);
496 I-n, q. 114, a. 3 ad 3. Questo modo di esprimersi non è isolato,
quando Tommaso si interroga altrove sul legame esistente tra la fine del mondo e il
compimento della beatitudine, egli lo spiega con un incatenamento di perfezioni
successive: «La perfezione prima è causa della perfezione seconda. Ora, per
raggiungere la beatitudine sono richiesti due elementi, la natura e la grazia. La
perfezione stessa della beatitudine si realizzerà alla fine del mondo, ma sarà stata
preceduta, per la natura, dalla prima creazione delle cose, e, per la grazia,
dall’incarnazione di Cristo, poiché “la grazia e la verità sono venute da Gesù Cristo”
(Gv 1,18). Così dunque al settimo giorno si situa il compimento della natura;
251
"Quando verrà il Paráclito che vi invierò, lo Spirito di Verità...”
(Gv 15, 26). Manifestare la Verità conviene perciò aüa
proprietà dello Spirito Santo, poiché è l’Amore che rivela i;
segreti: “Io vi chiamo amici perché vi ho fatto conoscere tutto
ciò che ho appreso dal Padre” (Gv 15, 15)»64.
La citazione, attribuita a sant’Ambrogio - ma che in realtà
appartiene al suo anonimo contemporaneo, soprannominato da Erasmo
l’Ambrosiaster -, è familiare a Tommaso, che la riprende spesso e nei
contesti più vari65. Senza soffermarci a lungo, dato che questa pista ci
porterebbe molto lontano, è interessante notare en passant che non
solo Tommaso riprende la formula dell’Ambrosiaster, ma che
all’occasioné l’amplifìca per sottolineare che non è solo ogni verità
(omne uerum), mài ogni bene (omne bonurrì) che proviene dallo
Spirito Santo6é. Come la

64
65
Super loannem 14,17, lect. 4, n. 1916.
Si contano 15 ricorrenze, la maggior parte nelle Sentenze (5) e nel
Super loannem (4); sotto questa forma Tommaso ha certamente ricevuto
l’espressione da PIETRO LOMBARDO, Collectanea in Epist. Pauli, In 1 Cor 12, 3 (PL
191, col. 1651A), ma la si ritrova già neU’Ambrosiaster, sotto una forma leggermente
diversa: «quic- quid enim verum a quocumque dicitur, a sancto dicitur spiritu»
(Commentarius in Epistulas paulinas, In Ep. ad Cor. I, 12, 3: CSEL, t.
81, 2, Vindobonae 1968, p. 132; ci. PL 17, 1879, col. 258B). Oltre al commento del
testo di Paolo dove si trova l’origine della citazione (In I ad Cor. 12, 3, n. 718), è
sufficiente sapere che essa è soprattutto utilizzata quando bisogna distinguere l’azione
dello Spirito Santo sul piano naturale e sul piano soprannaturale: «“Tutto ciò che è
vero, detto da chicchessia, viene dallo Spirito Santo”, nel senso che è lui che
infonde la luce naturale e che muove l’intelligenza a comprendere e
cogliere la verità» (Sum. Theol. I-II, q. 109, a. 1 ad 1). Da ciò non si dedurrà
nessun argomento per aggiungere che lo Spirito Santo abita necessariamente
mediante la sua grazia in colui che dice la verità, qualsiasi essa sia, come voleva qui
l’obiettore, ma l’universalità della presenza e dell’azione dello Spirito in questo
contesto corrispondono esattamente all’universalità della presenza attiva del Verbo a
tutte le cose. Quali che siano le tenebre di questo mondo in cui il Verbo con la sua
incarnazione ha portato la luce, spiega altrove Tommaso, non si può dire che
«nessuno [spirito] è così tenebroso da non partecipare in nulla alla luce divina. Infatti,
ogni verità conosciuta da chicchessia è dovuta totalmente a questa
“luce che brilla nelle tenebre”-, giacché “ogni verità, chiunque sia che la dica,
viene dallo Spirito Santo”» (Super loannem 1, 5, lect. 3, n. 103).
66
«Omne uerum et omne bonum est a Spiritu sancto»; questo testo non si
trova nelle attuali edizioni stampate, ma probabilmente sarà quello della futura
edizione critica poiché è stato comunicato dalla Commissione Leonina a R. Busa per
all’incarnazione di Cristo, il compimento della grazia; alla fine del mondo il compimento
della gloria»; vedi anche In ad Eph. 1, 14, lect. 5, n. 43, in cui Tommaso sviluppa la
differenza tra lo Spirito Santo come pegno e come caparra della nostra eredità.
252
l’Index thomisticus; lo si troverà sotto il lemma «76773-a spiritus+sanctus»
(Sectio II, voi. 21, p. 157), n. 02272; si ritrova la stessa formula un po’ più avanti (n.
02275): «Omne uerum et omne bonum a quocumque fiat fit a Spiritu sancto». In
entrambi i casi, si tratta del Commento a 1 Cor. 12,3 (RIL = Keporiationes
ineditaeEeoninaé).
prima, questa seconda affermazione è perfettamente conseguente alla
sicurezza che Tommaso manifesta dappertutto circa la bontà innata
della creazione. Ciononostante, qui ci si atterrà piuttosto al contesto
trinitario, così chiaro nel testo giovanneo e che l’autore sottolinea con
evidente compiacenza497. Parlare dello Spirito di Verità non significa
parlare soltanto della testimonianza che egli rende al Figlio di cui
completa l’opera 498, significa soprattutto ribadire come siamo condotti
da lui al Figlio e dal Figlio al Padre giacché le loro missioni temporali
sono tanto inseparabili quanto le loro processioni eterne:
«Come la missione del Figlio ebbe l’effetto di condurre al Padre,
così la missione dello Spirito Santo consiste nel condurre i
credenti al Figlio. Ora, il Figlio, Sapienza increata, è la stessa
Verità: “lo sono la Via, la Verità, la Vita” (Gv 14, 6). Perciò
l’effetto di questa missione consiste nel rendere gli uomini
partecipi della Sapienza divina e conoscitori della Verità. Il
Figlio, in quanto Verbo, ci comunica la dottrina, però è lo
Spirito Santo che ci rende capaci di riceverla.
Così quando Gesù afferma: “Vi insegnerà ogni cosa", si tratta
dunque di questo: Qualunque cosa l’uomo apprenda dal di
fuori, se lo Spirito Santo, dall’interno, non gli dà l’intelligenza,
è fatica perduta: “Se lo Spirito non abita il cuore
dell’ascoltatore, invano parla il dottore”. “È il soffio
dell’Onnipotente che dà l’intelligenza” (Gb 32, 8). E ciò fino al
punto che anche il Figlio, che parla mediante lo strumento della
sua umanità, è impotente se non opera dall’interno mediante lo
Spirito Santo.
Bisogna anche ricordarsi di quanto ha affermato
precedentemente: “Chiunque ha udito il Padre e riceve il suo
insegnamento viene a me” (Gv 6, 45). Egli spiega qui di cosa si
497 Al termine di un lungo passaggio polemico «contro i Greci»,
Tommaso osserva che se l’evangelista afferma proprio: «lo Spirito di Verità che
procede dal Padre», egli non dice tuttavia che non procede dal Padre e dal Figlio,
«perché quando dice lo Spirito di Verità, cioè del Figlio, sottintende che procede dal
Figlio. Infatti sempre il Figlio è unito al Padre e inversamente quando si tratta della
processione dello Spirito Santo».
498 Lo Spirito rende testimonianza al Figlio in tre modi: «istruendo i
discepoli e dando loro fiducia per testimoniare..., comunicando a coloro che credono
in Cristo la sua dottrina..., addolcendo il cuore degli ascoltatori» (Super loannem 15,
26, lect. 7, n. 2066).
253
tratta, perché colui che non è istruito dallo Spirito non impara
niente; il che significa: colui che riceve lo Spirito Santo del
Padre e del Figlio, costui conosce il Padre e il Figlio e accede
ad essi. Lo Spirito ci fa conoscere tutte le cose ispirandoci,
guidandoci interiormente ed elevandoci alle cose spirituali
(Facit
autem nos scire omnia interius inspirando, dirigendo et ad
spiritua-
lia eleuando)»499 500.
Il Maestro d’Aquino commentando san Giovanni non poteva
dire niente di più forte di quanto aveva già affermato altrove sotto
diverse forme ma, riprendendo qui il prediletto movimento circolare,
egli offre una nuova prova di ciò che si può chiamare la presenza
«strutturale» dello Spirito Santo nel mondo così come egli lo vede e,
quindi, all’interno della sua propria costruzione teologica. Lo Spirito
era già colui mediante il quale e nel quale ci sono dati tutti i doni di
Dio, quelli della natura come quelli della grazia. Precisando ora che
soltanto lo Spirito è colui nel quale e per mezzo del quale la Parola del
Figlio può essere recepita e compresa, Tommaso termina di spiegare il
perché è anche colui che, solo, può condurre i credenti alla Verità
tutt’intera:
«Siccome lo Spirito Santo procede dalla Verità, gli compete
insegnare loro la Verità e renderli simili a colui che è il suo
Principio. Cristo dice: ..la Verità tutt’intera", cioè la verità
della fede che insegnerà mediante un’intelligenza superiore già
nella vita presente, e in un modo perfetto nella vita eterna, là
dove “conosceremo come siamo conosciuti” (1 Cor 13, 12),
poiché “la sua unzione ci insegnerà ogni cosa”»10.
499 Super loannem 14, 25, lect. 6, nn. 1958-1959; cf. II-II, q. 177, a.
1, in cui si ritrova al plurale questa stessa citazione di san Gregorio: «Se lo Spirito
Santo non ricolma il cuore degli ascoltatori, è invano che risuona nelle orecchie del
corpo la voce dei dottori (In Evangelia II, hom. 30, n. 3: PL 76, 1222A). Si riconosce
qui un’eco della dottrina del Maestro interiore cara a sant’Agostino (De magistro
11, 38), e che costui ha così spesso ripreso nel Tractatus in loannem (1, 7; 20, 3; 26,
7; 40, 5) o nelle sue omelie, come nel Sermone 153, 1: «Noi parliamo, ma Dio
istruisce; noi parliamo, ma Dio insegna»; ci M.-F. BEKROUAKD, nota 4: Le
Maitre intérieur, in S. AUGUSTIN, Homélies sur l’Évangile de S. ]ean, BA, t. 71,
Paris 1969, pp. 839-840. Eppure non si assimilerà la dottrina di Tommaso su questo
punto a quella di sant’Agostino poiché essa è molto diversa com’è possibile
convincersene leggendo i loro rispettivi De magistro (per Tommaso, cf. De
ueritate, q. 11).
500 Super loannem 16,13, lect. 3, n. 2102.
254
Fonte di ogni verità e dottore che l’insegna, dalla sua forma più
umile alla sua manifestazione più alta; origine prima di ogni bene
nell’ordine della natura come in quello della grazia; primo iniziatore
della nostra vita di figli di Dio, che ci insegna a dire «Padre»; sostegno
costante di tutti i nostri atti che porta al loro perfezionamento; seme
d’eternità che porta in noi il suo frutto di beatitudine eterna, lo Spirito
Santo è per san Tommaso proprio il Dono primo, il Dono per
eccellenza, colui nel quale e per mezzo del quale il Padre ci accorda la
sua benevolenza. Inoltre è anche in lui e mediante lui che siamo
ricondotti al Figlio e tramite questi al Padre501.

501 Certamente non saremo di peso al lettore riproponendogli di


leggere le parole già messe in evidenza in questi capitoli sullo Spirito Santo: «Come
siamo stati creati per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, così pure è tramite essi
che siamo uniti al nostro fine ultimo».
255
PARTE SECONDA

L’UOMO NEL MONDO E DAVANTI A DIO


X
Una certa idea della creazione

Parlare di spiritualità significa certamente parlare di Dio, come


abbiamo fatto fin qui. Ma significa anche parlare dell’uomo, con il
quale Dio ha voluto allacciare una relazione d’amore che giunge al
suo culmine nei santi; anche questo è quanto abbiamo fatto finora. O
meglio, era impossibile non farlo. Tanto è vero che Dio, parlando
all’uomo per mezzo dei profeti, degli apostoli e di Gesù stesso, non
ha potuto che usare parole umane. Tanto è vero, anche, che l’uomo
non potrebbe parlare di Dio in maniera puramente «distaccata», senza
implicare se stesso nel suo discorso. Con il pretesto di classificare i
temi, non era quindi possibile isolare artificialmente i due
interlocutori del dialogo spirituale. Resta tuttavia vero il fatto che non
bisogna nemmeno unirli, e che è possibile, e a volte necessario,
separarli, altrimenti si rischia di confondere l’immagine col modello,
la creatura col suo Creatore.
Uno dei principali contributi di Tommaso d’Aquino al pensiero
cristiano consiste precisamente nell’aver insegnato ai teologi a
distinguere ciò che appartiene all’ordine strutturale della natura delle
cose, da ciò che dipende dalla libera gratuità del dono divino.
Anteriormente a tutto ciò che si può dire sul piano soprannaturale ',
esistono dei dati basilari che non possono essere dimenticati dato che
condizionano il modo in cui può essere recepito e vissuto il dono
della stessa grazia. Secondo un vecchio adagio scolastico, la cui
ripetizione più o meno appropriata non è riuscita a renderlo banale:
«La grazia non distrugge

1
Anche se questa anteriorità non bisogna intenderla sempre in senso
cronologico, occorre però almeno conservarla secondo un ordine di natura. Per fare
un semplice esempio: io, per ricevere il dono della grazia, devo prima esistere come
creatura; supponendo che la grazia sia data contemporaneamente alla natura
(secondo san Tommaso, è questo il caso del primo uomo), rimane tuttavia che la
259
natura costituisce ciò in cui la grazia è ricevuta.
la natura, ma la perfeziona» 2. Nessuna affermazione attribuita al
Maestro d’Aquino è tanto conosciuta quanto questa; infatti presto ci si
renderà conto che essa traduce un’opzione veramente fondamentale. In
nessun luogo Tommaso si raffigura l’uomo o il mondo in maniera
idealista, come se l’uomo non avesse che una vita dello spirito o il
mondo non rappresentasse che una materia senza alcun rapporto con la
creatura razionale. Tommaso li coglie sempre nei loro reciproci legami
così come Dio li ha creati, con una natura che il peccato non ha potuto
distruggere e che la grazia può recuperare senza abolirla 3. In compenso,
la valutazione esatta di questi dati naturali condiziona anche l’idea che
ci si fa di Dio stesso: il nostro modo di concepire la creatura si
ripercuote sulla nostra concezione del Creatore 4. Questo comporta
anche delle conseguenze nel campo della vita spirituale.
Se quanto abbiamo appena affermato è fondato, si sarà meno
sorpresi di apprendere che i due problemi più scottanti e che hanno
provocato più tumulti durante il secondo insegnamento di san Tom-:
maso a Parigi erano precisamente due questioni, se non esclusivamente

2
Sent. Il, d. 9, q. 1, a. 8 arg. 3: Gratia non tollit natura-m sed perfidi-, cf. I, q.
I, a. 8 ad 2; l’assioma, esplicitato maggiormente in una più ampia trattazione, si trova
espresso nel Super Boetium De Trinitate, q. 2, a. 3: «Dona gratiarum hoc modo
nature adduntur, quod eam non tollunt set magis perficiunt» (Leon., t. 50, p. 98).
L’adagio è enunciato anche sotto forma di un’evidenza ontologica: Gratia
praesupponit naturam, e quasi sempre in una particolare applicazione, a proposito
della fede, della vita soprannaturale, della legge, ecc.; cf. per es. De ueritate, q. 14, a.
9 ad 8; q. 27, a. 6 ad 3; I, q. 2, a. 2 ad 1: «sic enim fidespraesupponit cognitionemg
naturalem, sicut gratia naturam et ut perfectio perfettibile»; I-II, q. 99, a. 2 ad 1;
II-
II, q. 10, a. 10; q. 104, a. 6; ecc.; gli studi fondamentali su questo tema sono già di
alcuni anni fa, ma sempre preziosi: J.B. BEUMER, Gratia supponit naturam. '¿ur
Geschichte eines theologischen Prinzips, «Gregorianum» 20 (1939) 381-406, 535-
552; B. STOECKLE, Gratia supponit naturam. Geschichte undAnalyse eines
theologischen Axioms, «Studia Anselmiana 49», Roma 1962.
3
È proprio questo che vuole preservare il carattere «accidentale» della grazia
(si può rileggere a tal proposito quanto abbiamo detto nel cap. 8); a proposito; del fatto
che il peccato non abbia distrutto la natura, Tommaso non è meno fermo! «Il peccato
non può far sì che l’uomo smetta completamente di essere un essere razionale, poiché
in tal caso egli non sarebbe nemmeno capace di peccare. Perciò è impossibile
che questo livello della natura sia abolito», I-II, q. 85, a. 2; rinviamo su questo tema
allo studio preciso di B. QUELQUEJEU, «Naturalia manent integra». Contribution
à l'étude de la portée méthodologìque et dodrinale de l’axiome théolo- gique
«Gratia praesupponit naturam», RSPT 49 (1965) 640-655.
4
SCG II 3: «Error circa creaturas redundat in falsam de Deo sententiam;
260
(l’errore circa le creature si ripercuote in una falsa concezione di Dio)».
filosofiche almeno profondamente radicate in opzioni pre-teologiche.
Queste due materie, sulle quali le sue prese di posizione gli valsero le
più solide inimicizie e addirittura il sospetto di eresia, erano da ima
parte la sua teoria della creazione e dell’eternità del mondo, dall’altra la
sua antropologia, o più semplicemente la sua concezione dell’uomo 502
503
. Dovremo ritornare su quest’ultima questione, ma nella prima
possiamo entrare fin d’ora.
Tanto vivace quanto quello sulla natura dell’uomo - e forse
ancora di più -, il vivo dibattito che divideva gli spiriti all’Università di
Parigi verso il 1270 riguardava la creazione stessa. Si trattava del
celebre problema dell’«eternità del mondo», e molte opere dell’epoca -
tra le quali una di san Tommaso - portano questo titolo é. Esso si
poneva in maniera diversa per i filosofi e per i teologi; per questi
ultimi, la questione era risolta dalla stessa rivelazione: poiché la Genesi
afferma molto chiaramente che il mondo ha avuto un inizio, ne segue
che non è eterno. I primi, al contrario, seguivano Aristotele e non
esitavano a riprendere la sua affermazione secondo la quale il mondo
esiste da tutta l’eternità.
Agitati dalle conseguenze di questa posizione, i teologi
francescani dichiaravano apertamente che essa era impensabile e
affermavano di poter dimostrare con la ragione che il mondo aveva
avuto veramente un inizio. Più sensibile al rigore dell’argomentazione
aristotelica, fra Tommaso insegnava invece che soltanto la fede può
farci sostenere che il mondo ha avuto un inizio e che è impossibile
darne una dimostrazione. Su questo punto, osservava, vale per la
creazione ciò che vale per la Trinità, e bisogna fare attenzione a non
trattare come oggetto di scienza ciò che non può esserlo, col timore di
offrire pretesto alla derisione degli infedeli:
502 Abbiamo ricordato brevemente il contesto delle due questioni e la
relativa bibliografia in Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo , pp, 2Ì0-222; per una
trattazione molto più estesa vedi: E.-H. WÉBER, La controverse de 1270 à l’université de
Paris et son retentissement sur la pensée de S. Thomas d’Aquin («Bibl. thom. 40»), Paris
1970, che ha come sottotitolo: L’homme en discussion à l’université de Paris en 1270; si
ricorda che questo libro ha dato origine a importanti recensioni, cf. soprattutto C.B.
BAZAN, Le dialogue philosophique entre Siger de Brabant et Thomas d'Aquin. À propos
d’un ouvrage récent de E.-H. Wéber OP, RPL 72 (1974) 53-155; W.H, PRINCIPE, in
«Spéculum» 49 (1974) 163-167.
503 De aeternitate mundi, Leon., t. 43, pp. 85-89; questa questione
ha costituito l’oggetto di numerose pubblicazioni recenti (si veda Tommaso
d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 210-214, circa il contesto e la relativa
bibliografia).
261
«Che il mondo abbia avuto un inizio è oggetto di fede; non è
oggetto di dimostrazione o di scienza. Ed è utile fare questa
osservazione, nel timore che, pretendendo di dimostrare le cose
della fede per mezzo di prove poco conclusive, non ci si esponga
alla derisione degli increduli, facendo pensare loro che noi
aderiamo per tali motivi agli insegnamenti della fede»1.

Seppure questa difficile questione non avesse avuto altro


vantaggio che quello di evidenziare le rispettive esigenze della fede e
della ragione, già avrebbe meritato di essere posta. In realtà però, essa
non è che l’aspetto più vistoso di un approccio alla realtà, che segna
profondamente il seguito delle posizioni tomasiane. Il suo modo di
considerare l’universo creato e di comprendere il comportamento
dell’uomo in questo mondo dipende radicalmente dalla sua concezione
della creazione. E possibile rendersene conto sia nel modo in cui egli
riconosce la consistenza e l’autonomia della realtà creata, sia nel modo
in cui apprezza il suo valore. Questa valorizzazione non è il risultato di
una decisione volontaristica - come se il teologo decidesse a cose fatte
che questo mondo creato da Dio non può essere cattivo -, ma una
posizione filosofica di partenza, essa stessa comandata dalla natura
stessa delle cose. Come la sua concezione della virtù suppone una certa
idea dell’uomo, lo vedremo ben presto, così la sua visione dell’uomo
nel mondo si fonda su una metafisica della creazione. Malgrado la
difficoltà dell’impresa, occorre perciò tentare di presentarla
brevemente, considerato che solamente essa può spiegare certe opzioni
spirituali fondamentali. Lo sguardo di Tommaso sul mondo non è
soltanto libero da ogni disprezzo o da condiscendenza, al contrario è
profondamente positivo.

UNA CERTA RELAZIONE

Poiché la nostra conoscenza parte dall’esperienza delle realtà


sensibili, spontaneamente tendiamo a raffigurarci la prima creazione
delle cose operata da Dio sul modello della creazione artistica: una
statua che 504 non aveva altra esistenza se non quella di una pura

504 I, q. 46, a. 2; il tema della derisione degli infedeli è familiare a


Tommaso allorquando egli vuole richiamare i teologi all’umiltà della loro condizione,
cf, SCG I 9; I, q. 32, a. 1; De rationibus fidei 2, Leon., t. 40, p. B 58 (Marietti, n.
956); V. SERVERAI, L’irrisio fidei chez Raymond Lulle et S. Thomas d‘Aquin,
RT 90 (1990) 436-448.
262
possibilità - nel pensiero dell’artista e nel tronco dell’albero da cui è
stata tratta -, esiste ormai sotto una nuova forma mediante l’azione di
colui che l’ha «creata». In realtà questo schema è ingannevole; ciò che
si descrive così è un divenire, un semplice cambiamento. Nella
creazione propriamente detta, non vi è affatto cambiamento perché non
si ha un soggetto capace di cambiare. E sufficiente riflettere un istante
per capirlo: affinché una cosa cambi, occorre innanzitutto che esista.
Ora, prima della creazione non esiste nulla. Letteralmente «nulla» 505.
Tommaso rifiuta perciò molto fermamente questa rappresentazione
immaginativa: «La creazione non è un cambiamento, è la dipendenza
stessa dell’essere creato rispetto al suo principio. Essa appartiene
quindi alla categoria della relazione»506.
Questa definizione della creazione come una «dipendenza
dell’essere creato nei confronti del suo principio» è precisamente ciò
che permette a Tommaso di essere così spigliato nella questione
dell’eternità del mondo: infatti questa dipendenza si verificherebbe
anche se il mondo esistesse da tutta l’eternità; non è affatto necessario
iniziare nel tempo per essere dipendente. Il rapporto del creato con la
sua origine non è un problema di durata. Tuttavia non è questo che ci
deve trattenere qui, ma l’uso della categoria di relazione. Di primo
acchito, niente sembra più appropriato; riflettendo, due grandi difficoltà
si presentano e non è possibile superarle senza andare oltre nell’analisi.
Innanzitutto, parlare di «relazione» significa parlare anche di
«co-relazione». Una relazione suppone due interlocutori trasformati dai
loro mutui rapporti, i quali se non per altro sono uniti da essa l’uno

505 È quanto significa l’espressione: creazione ex nihilo, che bisogna


fare attenzione a non tradurre: creazione a partire «dal nulla», o «da nulla» in
quanto «a partire» reintrodurrebbe insidiosamente Io schema immaginativo del
cambiamento.
506 SCG II 18, n. 952; il tema della creazione è trattato ampiamente in
SCG II 6-38; STh I, qq. 44-49; Depotentia, qq. 3-5. Per maggiori spiegazioni si potrà
fare riferimento a J.-H. NICOLAS, Synthèse dogmatique. Complément, Fribourg-
Paris 1993, pp. 5-99; si può vedere anche lo studio molto tecnico di G. BARZAGHI, La
nozione di creazione in S. Tommaso d’Aquino, «Divus Thomas» (Bologna) 3
(1992) 62-81; E. GILSON, Le Thomisme, Paris 19866, pp. 193-207; conserva il suo
interesse il libro ormai datato di A.D. SERTILLANGES, L’idée de la création et ses
retentissements en philosophie, Paris 1945; così pure il breve, ma suggestivo
articolo di M.- D. CHENU, La condition de créature. Sur trois textes de saint
Thomas, AHDLMA 37 (1970) 9-16. Le attuali ricerche non sono molto preoccupate di
questa questione, cf. J. ARNOULD E AL., Bulletin de théologie. Théologie de la création,
RSPT 78 (1994) 95-124.
263
all’altro in una reciproca dipendenza 507 508. Ora, se questo è il caso della
creatura, non può essere quello di Dio. Dio non può dipendere da niente
e da nessuno, perciò non è possibile parlare nei suoi riguardi di una
relazione «reale». Se conserviamo il termine «relazione», è appunto per
una vera esigenza del pensiero, giacché non sapremmo affatto
concepire una relazione che non sarebbe reciproca; se i teologi però
parlano qui di una relazione reale da parte della creatura, essi non
ammettono che una relazione «di ragione», cioè puramente concettuale,
da parte di Dio. Questo non significa che Dio si disinteressa della sua
creazione - sappiamo al contrario che permanentemente la mande- v ne
nell’essere -, ma che si tratta in questo caso proprio di qualcosa di
completamente diverso dalle nostre relazioni intramondane. Dio non è
sottomesso al cambiamento; niente gli può accadere; egli trascende la
sua creazione u. Egli non è perciò sottomesso alla relazione delle
creature verso di lui, ma la trascende in quanto ne è la causa stessa.
La soluzione richiesta dalla seconda difficoltà posta dall’uso della
categoria di relazione è forse più difficile da cogliere, però si rivelerà
fondamentale per il seguito del nostro proposito. Abbiamo appena
determinato che la creazione intrattiene da parte della creatura una
relazione unilaterale di dipendenza totale nei confronti della sua fonte.
Niente di più vero, ma perché una creatura sia in relazione con Dio
occorre innanzitutto che esista. E evidente: non esiste relazione se non
tra realtà esistenti. Ma se questa relazione è la creazione stessa, allora
abbiamo questa paradossale conseguenza: nell’ordine ontologico -
quindi nell’ordine delle realtà esistenti - la relazione della creazione
viene dopo la creatura.
Ciò sembra difficile, ma anche in questo caso è sufficiente
riflettervi un istante per comprendere ciò che è in questione. Tra Dio
causa del mondo e il mondo che inizia, non esiste assolutamente niente,
507 Questa frase è da intendersi, è chiaro, delle relazioni reali nei loro
due termini, poiché esistono anche relazioni che non implicano necessariamente
cambia-: mento e dipendenza dei due correlativi; questo è il caso della relazione tra il
soggetto conoscente (sciens) e l’oggetto conosciuto (scitum): il fatto di essere conosciuta
non implica in una cosa né cambiamento né dipendenza rispetto al soggetto conoscente.
5081, q. 27, a. 1 ad 3: «Deus [est] extra totum ordinem creaturae»; circa
le difficoltà sollevate a tal proposito in alcuni saggi teologici contemporanei, ricordiamo
le precisazioni già citate di H. SEIDL, De l’immutabilité de Dieu dans l’acte de la créa- tion
et dans la relation avec les hommes, RT 87 (1987) 615-629, il quale si attiene; all’aspetto
filosofico della questione, e di M. GERVAIS, Incarnation et immuabidité: divine ,
RevSR50 (1976) 215-243, più attento ai problemi teologici. I due autori giustamente
precisano che il fatto che la relazione non sia reale da parte di Dio non impedisce che il
suo fondamento lo sia: Dio è realmente Creatore, Signore, ecc.
264
nemmeno l’azione di Dio - poiché non si potrebbe immaginarla come
intermedia tra Dio e il mondo (l’azione di Dio è Dio stesso). Niente
dunque si interpone e la conseguenza deriva necessariamente:
temporalmente, il mondo è primo con la sua qualità di cosa dipendente
e questa qualità, che consiste nell’essere creato, è posteriore alla stessa
realtà creata, riferita da questa qualità al suo creatore. E la semplice
spiegazione della creazione ex nihilo. Se l’azione creatrice non si
esercita su una materia preesistente, non si esercita nemmeno sul niente
509
, ma raggiunge direttamente la stessa realtà che pone nell’essere, ed è
così che tale essere precede - sia per quanto riguarda la realtà, sia per la
comprensione che ne abbiamo (intellectu et natura, si dice in modo più
tecnico) - la relazione che per questa stessa ragione si stabilisce con
Dio. Tommaso ricorda regolarmente questa posizione ogni qualvolta
ritorna sul tema510, ed ha anche avuto l’occasione di difenderla con il
suo confratello e contemporaneo, Pietro di Tarantasia, al quale si
rimproverava di diffondere questo medesimo insegnamento:
«E giusto dire che, secondo la realtà, la creazione non pone
niente nel creato se non la relazione al creatore dal quale riceve
l'essere, e che è un certo accidente. E questa relazione,
considerata dal punto di vista dell’essere che ha nel soggetto, è
un certo accidente posteriore al soggetto. Tuttavia, nella misura
in cui è il termine dell'azione divina creatrice, essa ha un certo
carattere di priorità»511.
Forse si capiranno meglio le cose se ci si ricorda che è possibile
distinguere due aspetti nella nozione di relazione. In quanto è un
accidente, cioè in quanto qualifica un soggetto già esistente e completo
in > se stesso, la relazione è evidentemente posteriore al soggetto. Se
dunque si parla della creazione come di una relazione, non si può fare
509 De potentia, q. 3, a. 3 ad 1: «In creatione, non ens non se habet ut
reci- piens diuinam actionem, sed id quod creatimi est (Nella creazione, il non essere
non si comporta come ricettore dell’azione divina, ma ciò che è creato)».
510 I, q. 45, a. 3 ad 3: «Se si intende la creazione come un cambiamento,
la creatura ne è il termine; ma se la si considera secondo quanto è in realtà, una
relazione, la creatura ne è allora il soggetto e la precede nella realtà, così come un
soggetto precede il suo accidente»; cf. Seni. I, d. 1, a. 2 ad 4, di cui G. Emery mi
assicura che costituisce probabilmente l’origine della tesi di Pietro di Tarantasia (vedi
la nota seguente).
511 Responsio de 108 articulis, art. 95, Leon., t. 42, p. 293: «Verum est
quod creatio secundum rem nichil ponit in creato nisi relationem ad creatorem a quo
habet esse, que est quoddam accidens. Et hec quidem relatio quantum ad iUud esse
quod habet in subiecto, accidens quoddam est posterius subiecto; sed in quantum est
terminus actionis diuine creantis, habet quandam rationem prioritatis».
265
altrimenti che concepirla come posteriore alla realtà creata. Se si
considera però la relazione sotto il suo aspetto formale di relazione,
cioè in quanto è «verso l’altro» {ad aliud), secondo lo stesso rapporto
che esiste tra due soggetti, essa allora non è più «inerente» al soggetto,
è soltanto «aggiunta» ad esso 512. Sotto questo nuovo aspetto, in quanto
risulta dall’azione divina, la relazione di creazione è in qualche modo
anteriore al soggetto creato, come la stessa azione divina che ne è la
causa prossima513.
Se non inutili, queste spiegazioni rischiano di sembrare difficili a
chi non avrebbe mai avuto l’occasione di riflettervi. Che ci si voglia
scusare, se è il caso, ma si badi anche a prestarvi attenzione, poiché
esse sono fondamentali. Queste distinzioni non costituiscono affatto un
gioco della mente, mirano semplicemente a rispettare la complessità
della realtà e a rendere conto del duplice aspetto sotto il quale la si può
considerare. La posteriorità della relazione di creazione rispetto
all’esistenza della realtà di cui sottolinea la dipendenza, evidenzia la
sostanzialità del creato, ossia il fatto che il creato costituisce un «in sé»
con la sua propria autonomia, e vedremo come secondo san Tommaso
il Creatore rispetta la sostanzialità e le leggi della sua creazione.
Secondo l’espressione così profonda del poeta Hölderlin, «Dio ha fatto
l’uomo, come l’oceano i continenti: ritirandosi». Ma, del resto, il fatto
che il reale così collocato nella sua autonomia sia altrettanto costituito
in una relazione di dipendenza totale nei confronti della sua origine,
manifei sta il carattere relazionale del suo essere e del suo agire. Fin
dalla suà prima comparsa, il reale appare «essere verso» l’altro e, nel
caso presente, «dell’Altro». La creatura trova in questa relazione
perfino la realtà e la verità della sua condizione di essere limitato e
dipendente.

512 È la differenza tra inhaerens e assistetti, che permette a Tommaso


di spiegare la distinzione tra l’essere accidentale della relazione (la sua inerenza) e la
nozione o il concetto stesso di relazione (puro rapporto ad aliquid, che non implica
l’inerenza), cf. Depotentia, q. 7, a. 9 ad 7.
513Depotentìa, q. 3, a. 3 ad3.
266
«E Dio VIDE CHE ERA COSA BUONA»

■ Questo richiamo della metafisica della creazione sarebbe


insufficiente se non si aggiungesse subito che nella prospettiva
cristiana, qual è quella di Tommaso e la nostra, il motivo della
creazione non risiede evidentemente nel profitto che Dio potrebbe
ricavarne 514. Soltanto le nostre azioni umane possono essere motivate
dall’interesse, per quanto nobili a volte possano essere; l’unico motivo
dell’azione di Dio non può essere che se stesso. La meraviglia della
creazione consiste precisamente nel fatto che non cercando nient’altro
che la sua bontà, egli la comunica alle sue creature:
«È per loro stesse che Dio vuole tutte le creature e, allo stesso
tempo, vuole che esìstano per se medesimo; le due cose non
hanno niente di contraddittorio. Dio vuole infatti che le creature
esistano in vista della sua propria bontà, ossia che la imitino e
la rappresentino a loro modo. Ciò è quanto esse fanno, poiché è
da essa [questa bontà] che ottengono il loro essere e la
sussistenza nelle loro nature. Questo equivale ad ammettere che
Dio ha fatto tutto per se medesimo (come ben afferma Prv 16, 4:
“Il Signore ha creato tutto per se medesimo”) e che ha fatto le
creature perché esistano fSap 1, 14: “Ha creato tutti gli esseri
perché sussistano”)»515.
Per il solo fatto di essere creato da Dio, il mondo e tutto quanto
esso contiene è una creatura buona, bella e vera. Tommaso, che
apprende questo dalla prima pagina della Bibbia, ne riceve la conferma
dalla dottrina della convertibilità dei trascendentali 516. Secondo questo

514 I, q. 44, a. 4: «Non compete al primo agente agire in vista di


acquisire un qualsiasi fine; esso non può avere altro scopo che quello di comunicare la
sua perfezione, ossia la sua bontà». D’altronde è per questa ragione che «Dio solo è
assolutamente liberale, perché non agisce per il proprio vantaggio, ma soltanto in vista
della sua bontà [da comunicare]» (ibid., ad 1). Di questo tema abbiamo già
ampiamente parlato nel nostro cap. UT: «Dio e il mondo»; per maggiori dettagli si
farà riferimento ad esso.
515 De potentia, q. 5, a. 4.
516 H testo classico è quello del De Meritate, q. 1, a. 1; se ne trova
un’eco in I, q. 16, a. 3: «Come il buono si definisce in rapporto all’appetito, così il vero
in rapporto alla conoscenza. Ora, nella misura in cui ima cosa partecipa dell’essere, in
tale misura è conoscibile... Ne consegue che come il bene è convertibile con l’ente, così
anche il vero. Tuttavia come il bene aggiunge all’essere la ragione formale
dell’attrattiva, così il vero aggiunge all’essere un rapporto all’intelligenza». Questa
267
approccio alla realtà, la creatura non esiste soltanto come un essere
puro e semplice; il grado di essere che le spetta è accompagnato da
una partecipazione corrispondente alla verità, alla bontà e alla bellezza
del suo creatore. È a questa profondità che si radica la visione del
mondo decisamente positiva di fra Tommaso.
Volendoci attenere qui al solo aspetto della bontà innata delle
cose, è ancora una volta il tema della somiglianza dell’effetto alla sua
causa che ritorna in primo piano, anche se esteso al di là di ciò a cui
penseremmo spontaneamente. Ancor prima di arrivare al tema
specificamente teologico dell’uomo come immagine di Dio, è già vero
affermare sul piano naturale che la creatura assomiglia a Dio in un
duplice senso: non solo «essa è buona come Dio è buono», ma
addirittura «essa muove un’altra creatura verso la bontà, come Dio
stesso è causa della bontà negli esseri». E da questo duplice aspetto
che si deduce il duplice effetto del governo di Dio sulla sua creazione:
la conservazione delle cose nel bene e la loro mozione verso il bene.
Questo, per parlare in maniera generale, poiché se si dovessero
considerare gli effetti del governo divino del mondo da un punto di
vista particolare, allora bisognerebbe considerare una moltitudine di
effetti - considerato che Dio conduce ogni creatura alla sua perfezione
secondo il suo modo particolare20.
Senza inoltrarci molto in tutte le questioni che si pongono circa
la dottrina della Provvidenza21, e che di fatto hanno ima considerevole
importanza per la vita spirituale concreta, possiamo soffermarci qui sul

dottrina non cessa di essere studiata, soprattutto da un punto di vista filosofico: S.


BRETON, L’idéede tmnscendental et la genèse des transcendentaux chez saint
Thomas d’Aquin, in Saint Thomas d’Aquin aujourd’hui («Recherches de
Philosophie 6»), Paris 1963, pp. 45-74; J.A. AERTSEN, Die Transzendentalienlehre
bei Thomas von Aquin in ihren historischen Hintergründen und
philosophischen Motiven, MM 19 (1988) 82-102. Per la questione più ampia della
bellezza e della sua appartenenza alle categorie trascendentali, si potrà leggere U.
Eco, Le problème esthétique chez Thomas d'Aquin («Formes sémiotiques»),
Paris 1993 (presentazione e critica di S.-TH. BONINO, RT 95 [1995], 503-505); P. DASSELEER,
Être et beauté selon saint Thomas d’Aquin, in Actualité de la pensée
médiévale, ed. J. FOLLON - J.-Mc EVOY, Louvain-Paris 1994, pp. 268-286.
20
Cf. I,q. 103, a. 4.
21
Oltre alla I, q. 22, si vedrà la questione 5 del De ueritate, e soprattutto l’a.
1 ad 9 (prima serie), dove Tommaso precisa il suo vocabolario: a differenza àéTars
divina die presiede alla produzione delle cose, e della disposino che regola la loro
armonia, la provvidenza le ordina al loro fine.
secondo effetto: Dio accorda alle creature la capacità di essere a loro
268
volta causa di bontà nel mondo. Tommaso ha avuto spesso l’occasione
di ritornare su questa dottrina, ma vorremmo ricordare qui - e chissà,
far conoscere - due passaggi in cui ne parla in modo particolare. Ecco
prima di tutto un bel testo molto poco conosciuto in cui essa è
sviluppata in maniera serena per l’istruzione dei cristiani più semplici
e in cui sono trattate molto ampiamente le conseguenze che se ne
possono ricavare:
«(La considerazione di Dio come creatore) ci porta alla
conoscenza della dignità dell’uomo. Infatti, Dio ha creato tutto
per l’uomo... e, dopo gli angeli, l’uomo è tra tutte le creature
quella che assomiglia maggiormente a Dio: Facciamo l’uomo a
nostra immagine e somiglianza (Gn 1, 26). Ciò non è stato detto
né del cielo né delle stelle, ma proprio dell’uomo. Non del suo
corpo, ma della sua anima incorruttibile, dotata di una volontà
libera, mediante la quale assomiglia a Dio piu di ogni altra
creatura... Più degni di ogni altra creatura, noi non dobbiamo
sminuire in nessun modo tale dignità con il peccato o con il
desiderio disordinato delle realtà corporali che ci sono inferiori
e destinate a servirci. Al contrario, dobbiamo comportarci
secondo il disegno che Dio aveva presente creandoci. Infatti
Dio ha creato l’uomo perché domini su tutti gli esseri che sono
sulla terra e perché si sottometta egli stesso a Dio. Perciò
dobbiamo dominare e sottomettere le creature inferiori a noi e
sottometterci a Dio, obbedirgli e servirlo. E così che
giungeremo a godere di Dio» 517.
Tratto dalla predicazione di Tommaso, questo testo riflette
proprio il tono esortativo che ci si aspetta di trovare in un’omelia.
D’altro canto, a tal titolo esso non è fuori posto qui, e sarebbe errato
trascurare il suo contenuto dottrinale, che di fatto propone i punti
principali di una riflessione sull’uomo in questo mondo. Se molti temi
sono già stati trattati (l’immagine di Dio, per esempio), altri meritano
ancora di essere sviluppati: la libertà dell’uomo in questo mondo, il
modo in cui egli può comportarsi nei confronti della creazione e dei
suoi simili, la maniera in cui può agire come «signore» in questa
creazione che Dio gli ha donato per dominarla e utilizzarla, le diverse
forme che il compimento della sua personalità può assumere.
Ritroveremo tutto ciò nei capitoli seguenti e ci si renderà conto allora
che questa spiritualità non ha niente di disincarnato e che al contrario è
imbevuta di un solido; realismo a immagine dell’antropologia del
517 In Symbolum 1, Opuscula theologica II, n. 886.
269
Maestro Tommaso. Ma c’è un altro luogo privilegiato in cui egli si è
espresso più rigorosamente su quanto consegue dalle sue opzioni
riguardo alla creazione.
In nessun luogo infatti questa dottrina è meglio sviluppata e con
maggior insistenza che nel Terzo Libro della Somma contro i Gentili.
Il dibattito è sollevato a partire dalle posizioni dei teologi musulmani
chiamati mutakalimoun o motecallemin, e del filosofo Avicebron, che
in seguito si è identificato con il pensatore ebreo Ibn Gebirol 518.
Secondo questi autori, «nessuna creatura avrebbe una propria attività
nella produzione degli effetti constatati nella natura: cosicché il fuoco
non riscalderebbe, ma sarebbe Dio a causare il calore là dove è
presente il fuoco, e così di seguito per ogni specie di effetti naturali».
A sostegno di questa strana posizione, essi allegavano un’intera serie
di ragioni che li spingevano ad ammettere l’inattività di ogni corpo,
l’inesistenza di ogni causa inferiore; in modo tale che in definitiva,
Dio solo sarebbe realmente agente in tutte le cause apparenti di questo
mondo519.
Tommaso senza difficoltà formula le immediate obiezioni che il
buonsenso oppone a questa curiosa teoria: «Nell’ipotesi
dell’inefficacia assoluta delle creature, sarebbe Dio che produrrebbe
tutto in maniera immediata e quindi è inutilmente che si servirebbe
delle creature nella produzione dei suoi effetti». Questo non
assomiglia molto all’idea che si ha della sapienza divina, e d’altra
parte noi sappiamo che «se Dio ha comunicato alle creature la sua
somiglianza nell’essere, permettendo ad esse di essere a loro volta,
egli ha comunicato loro anche la sua somiglianza nell’agire, cosicché
le creature possiedono anch’esse un’attività propria». Ma non è tutto, e
fra Tommaso intende ben mostrare come questa dottrina che pretende
di esaltare Dio riservandogli l’efficienza di ogni causalità, sfocia in
effetti nel mancargli di rispetto, facendosi di lui un’idea troppo
piccola:
«La perfezione di un effetto è il segno della perfezione della sua
causa; più potente è la sua forza, più perfetto è il suo effetto.
Ora, Dio è il più perfetto degli agenti. Quindi è necessario che
518 Non rientra nello scopo di questo libro soffermarsi sulle posizioni
di questi autori; a nostra conoscenza, l’esposizione più chiara della discussione di
Tommaso con essi si trova in E. GILSON, Pourquoi saint Thomas a critiqué saint
Angustiti, AHDLMA 1 (1926-1927) 5-127, che tratta innanzitutto dell’errore dei
motecallemin, poi della critica d’Ibn Gebirol, cf. pp. 8-35 (il termine calam
significa parola o discorso, i motecallemin sono i discepoli del calam).
519 Cf. SCG III 69, nn. 2431-2441.
270
egli doni la perfezione agli esseri che ha creato. Così dunque,
sottrarre qualcosa alla perfezione delle creature, significa
togliere qualcosa alla perfezione della “virtù” divina (Detrahere
ergo perfectioni creaturarum est detrahere perfectioni diuinae
uirtutis). Ora, nell’ipotesi dell’inefficacia di ogni creatura la
perfezione del mondo creato verrebbe molto sminuita, poiché
appartiene alla pienezza di perfezione di un essere il poter
comunicare a un altro la sua propria perfezione. Questa
posizione attenta perciò alla virtù divina. [Tommaso sviluppa
anche altri argomenti contro questa teoria, per concludere in
termini simili:] Dio ha comunicato la sua bontà alle creature in
modo tale che ciò che l’una ha ricevuto lo possa trasmettere alle
altre. Negare agli esseri quindi la loro propria azione,
significherebbe attentare alla bontà divina»520.

Questo passaggio è centrale nella discussione, ma non la


conclude. Il seguito continua a sottolineare, ed è ben lungi dall’essere
superfluo, che «se le cose create non avessero azione propria nella
produzione dei loro effetti, ne deriverebbe che la natura di nessuna
realtà creata potrebbe essere conosciuta a partire dal suo effetto. E così
tutta la nostra scienza sperimentale ci sarebbe tolta, visto che essa
procede soprattutto risalendo dagli effetti alla loro causa». E
veramente strano che una simile teoria sia potuta nascere
nell’ambiente musulmano medievale, in cui le scienze risplendevano
di un bagliore allora sconosciuto in Occidente. Questa non è per noi
tuttavia che un’osservazione marginale; si saranno notate soprattutto le
parole sottolineate. A tre riprese, nello spazio di poche righe,
Tommaso ripete che declassare la creatura equivale a fare un torto al
Creatore. Secondo lui non bisogna esaltare Dio a scapito dell’uomo.
All’opposto di una spiritualità secondo cui la creatura non sarebbe che
nulla, e in cui l’uomo dovrebbe annientarsi perché Dio sia glorificato,
Tommaso è convinto che Dio è tanto più grande quanto più lo è
l’uomo.
Ci troviamo qui molto vicini alla prospettiva aperta dal Prologo
della Seconda Parte della Somma: «L’uomo, anch’egli è il principio
dei suoi propri atti, perché possiede il libero arbitrio e il controllo dei
propri atti». Di una sorprendente audacia, questo «anch’egli» non solo
situa pienamente l’uomo dinanzi a Dio come interlocutore, ma lo
colloca anche nel mondo come un agente libero e responsabile a cui la
propria dignità impone un certo comportamento.

520 SCG III 69, mi. 2445-2446.


271
UNA TEOLOGIA DELLE REALTÀ INTERMEDIE

È facilmente comprensibile che tutto questo sia legato


direttamente alla metafisica della creazione che abbiamo appena
ricordato: non solo le nature create hanno la loro «consistenza
ontologica» 521 e il Creatore permette ad esse di agire al loro proprio
livello, ma egli rispetta anche le leggi che ha dato loro: «Autore della
natura, Dio non toglie agli esseri ciò che è proprio alla loro natura» 522
523
. E così che Tommaso giunge ad affermare con tranquilla certezza -
in forte contrasto con alcune speculazioni del secolo seguente che
sembreranno identificare arbitrio e potenza assoluta di Dio (potentia
Dei absoluta)28 - che Dio stesso non può modificare la natura delle
cose: Dio può indubbiamente non creare cerchi, ma se esiste un
cerchio esso sarà necessariamente rotondo 524. Infatti «è più
conveniente affermare che l’impossibile non può essere fatto, piuttosto
che dire che Dio non può farlo», ma è impossibile che un uomo sia un
asino e che abbia quattro piedi525.
Contrariamente a quanto temevano i mutakalìmoun, questo «non
è dovuto al fatto che Dio sarebbe stato incapace di fare tutto da se
stesso, ma è per eccesso di bontà che ha voluto comunicare alle
creature una tale somiglianza con sé, in modo tale che non solo esse
esistono, ma sono anche causa delle altre». Ciò non toglie niente alla
521 Tommaso certamente non direbbe come fa Bonaventura che il
mondo non ha altra realtà se non quella di un’ombra {«...totus mundus est
umbra, via, vestigium... Unde creatura non est nisi sicut quoddam simulacrum
sapientiae Dei et quoddam sculptile», In Hexaemeron XII14, Opera, t. V, 386 b). Il
tema ha dato origine a una discussione istruttiva tra S. VANNI-ROVIGHI [La vision du
monde chez saint Thomas et saint Bonaventure), e J. CHATILLON
(Sacramentalité, beauté et vanité du monde chez saint Bonaventure), in
1274. Année-charnière, pp. 667-685. Anche se quest’ultimo afferma che simili
espressioni non tolgono niente alla «consistenza ontologica» del mondo, tuttavia egli
riconosce che l’accento è messo piuttosto sul valore del segno.
522 SCG II 55, n. 1310: «Deus qui est institutor naturae non subtrahit
rebus id quod est proprium naturis earum».
523 Si possono vedere alcuni esempi in L. BIANCHI - E. RANDI, Vérités
dissonnantes. Aristote à la fin du Moyen Âge («Vestigia 11»), Fribourg-Paris 1993; cf.
A. DE MURALT, La toute-puissance divine, le possible et la non-contradiction. Le principe
de l’intelligibilité chez Occam, KPL 84 (1986) 345-361.
524 SCG II55, n. 1299: «Ciò che conviene a un essere di per sé, si
riscontra in esso per necessità e sempre, in maniera inseparabile. Così la “rotondità”,
per esempio, di per sé appartiene al cerchio, accidentalmente al bronzo. Cosicché è
possibile che il bronzo non sia rotondoj mentre è impossibile che non lo sia il cerchio
(cir- culum autem non esse rotundum est impossibile)».
5251, q.25,a.3.
272
causalità di Dio, giacché senza di essa niente esiterebbe, niente
agirebbe. Ma si può affermare con san Paolo (FU 2, 13) che «Dio solo
opera in noi il volere e l’operare», senza rinunciare tuttavia a un agire
efficace a livello creato. L’errore da non commettere sarebbe quello di
concepire Creatore e creatura come due cause concorrenti collocate
sullo stesso piano, mentre la seconda è subordinata alla prima in modo
tale che ciascuna fa tutto al livello che le compete:
«È chiaro che uno stesso effetto non è attribuito alla sua causa
naturale e a Fio, come se una parte fosse di Dio e l’altra
dell’agente naturale; esso è totalmente dell’uno e dell’altro
(totus ab utroque), ma in modo differente. Un po’ come uno
stesso effetto è attribuito interamente allo strumento e
interamente alla causa principale»31.
Molte discussioni teologiche più tardive sull’azione della grazia
nell’uomo si sarebbero potute evitare se questo grande principio,
illuminante nella sua semplicità, non fosse stato un po’ perso di vista.
Ma per attenerci al nostro diretto proposito, è chiaro che numerose
conseguenze derivano da questo modo di considerare il mondo. Le più
immediate si scoprono indubbiamente nella responsabilità dell’uomo
rispetto alla realtà creata, già nella sua più naturale consistenza. A dire
il vero, il campo di queste considerazioni si potrebbe estendere
all’infinito, in quanto esso corrisponde esattamente al campo aperto da
Tommaso allorquando ricorda con una certa compiacenza la
superiorità dell’uomo sull’animale. Se gli si obietta che l’uomo è
sprovvisto delle protezioni naturali e dei meccanismi istintivi naturali
degli animali, egli risponde che di fatto l’uomo ha molto di più, poiché
«possiede la ragione e le sue mani, grazie alle quali può procurarsi
armi, vestiti e altre cose necessarie alla vita, e ciò secondo infinite
modalità. Sicché la mano è denominata nel IH libro del De anima (432
a 1), “l’organo degli organi”. Del resto questo conveniva tanto più a
una natura dotata di ragione, capace di concetti infiniti e di procurarsi
un illimitato 526 numero di strumenti»527. Perciò è l’intero campo
dell’agire umano che si schiude dinanzi a noi, ma nell’attesa di
evocarne altri aspetti nelle pagine seguenti, qui ci si accontenterà di
osservazioni più rapide su due particolari settori.
Fin dall’inizio di questo secolo - e probabilmente a seguito

526 SCG in 70, nn. 2465-2466.


5271, q. 91, a. 3 ad 2; q. 76, a. 5 ad 4; cf. I-II, q. 95, a. 1.
273
dell’impulso dato da successivi Papi alla riflessione cristiana mediante
la loro attenzione alle questioni politiche, economiche e sociali - si è
vista sorgere una rinnovata lettura dell’opera tomasiana, in vista di
trovarvi se non delle risposte dirette a questi nuovi problemi, almeno i
principi che avrebbero permesso di collocarli nella loro giusta
dimensione e, eventualmente, apportarvi degli elementi di soluzione.
Seppure un po’ lontani - risalenti a prima e dopo la Seconda Guerra
mondiale - e dunque a volte fortemente datati, questi saggi che
cercavano di proporre una teologia del lavoro, della materia, della
città, della guerra, della presenza del cristiano nelle strutture di questo
mondo, ecc., restano significativi della fecondità di tale teologia della
creazione528. La filosofia sociale di Jacques Maritain, con un’opera
così impegnativa come Umanesimo integrale, ne costituisce
certamente il miglior testimone529. Senza mostrare sempre la stessa
originalità, l’attenzione a queste questioni resta ben presente nel
pensiero tomista contemporaneo nel quale questa ricerca resta viva 530,
e produce perfino pregevoli opere531.
Si può pensare anche a questioni sorte più recentemente, come il
rispetto dovuto a questo universo che Dio ha affidato all’uomo al
principio della Genesi (Gn 1, 28). Senza voler fare qui nessuna
apologetica fuori posto, si può dire che la concezione tomasiana della
creazione si rivela assolutamente adatta a pensare teologicamente le
preoccupazioni ecologiche della nostra epoca. Non che si possa
sperare di trovare in Tommaso la risposta a problemi che sono tipici
del nostro tempo; sarebbe completamente anacronistico e vano. Perciò
non si troverà in lui la preoccupazione diretta della terra o degli

528 Volendoci attenere a un solo nome di lingua francese, un’intera


parte dell’opera di pioniere di p. Marie-Dominique Chenu può essere citata qui come
esemplare. Autentico teologo e medievalista, si è preoccupato anche di continuare al
livello più concreto una ricerca ispirata a san Tommaso, a contatto con i problemi
allora più attuali. Tra gli altri titoli, si potrà vedere M.-D. CHENU, ha Parole de Dieu,
II. L’Evangile dans le temps («Cogitano fidei 11»), Paris 1964, che raggmppa degli
scritti che vanno dal 1937 al 1963; dei brevi interventi redatti per tale o talaltro
bollettino, alternati con testi più lunghi, ma raramente molto elaborati; l’interesse di
questo esempio risiede più nelle intuizioni adoperate che nella loro verifica dettagliata
(parzialmente ripreso in ID., Théologie die la matière, «Foi vivante», Paris 1967).
529 Vi ritorneremo nel cap. XiJLl.
530 Come testimoniano i tre volumi del terzo Congresso della Società
Intemazionale S. Tommaso d’Aquino: Etica e società contemporanea, a cura di
A. LOBATO, ST 48-50, Roma 1992.
531 In tal senso si può vedere G. CENACCHI, Il lavoro nel pensiero dt
Tommaso d’Aquino, ST 5, Roma 1977.
274
animali così come la ritroviamo presso alcuni contemporanei 532. Si
ritrova però una coscienza molto chiara del fatto che ogni specie di
creature corrisponde a un’intenzione speciale del Creatore e partecipa
secondo il proprio grado di essere a rappresentare la bontà di Dio.
Cosicché ciò che manca all’una è supplito dall’altra e il tutto
dell’universo rappresenta più perfettamente la perfezione divina 533.
Questo bene qual è l’universo intero, noi abbiamo il dovere di
amarlo in carità, afferma Tommaso, e perfino le sue creature
irrazionali, considerate allora come beni necessari alle creature
razionali534. Certamente non si può essere amici di creature irrazionali,
«ma le si può amare in virtù della carità come beni da volere ad altri,
nella misura in cui vogliamo con amore di carità che esse siano
conservate per la gloria di Dio e l’utilità degli uomini. E in tal senso
Dio stesso le ama con amore di carità» 535. L’affermazione non è isolata
e Tommaso ne spiega evidentemente il perché: «Nel bene
dell’universo (bonum uniuersi) è compresa anche la creatura razionale,
capace di beatitudine, e alla quale tutte la altre creature sono ordinate;
e sotto questo aspetto tocca a Dio e a noi amare con amore di carità e
al massimo il bene dell’universo»536.
Non ci si può stupire del posto centrale della creatura umana in
questa considerazione perché, dopo Dio, è essa che dà senso a tutto il
resto 537. Per quanto desideri valorizzare al massimo i valori di questa
terra, Tommaso non pensa un istante di centrare la sua spiritualità sulla
creazione, ma piuttosto di ben orientarla sul suo Creatore. Ripeterebbe
volentieri con san Paolo: «Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e
Cristo è di Dio» (1 Cor 3, 22).

DISPREZZO DEL MONDO?

532 K. BERNATH, Thomas


È la speranza delusa che Sembra aver motivato le ricerche di
von Aquin und die Erde, e di C. HONEMÖKDER, Thomas von Aquin und die Tiere,
MM 19 (1988) 175-191 e 192-210.
533 Cf. I, q. 47, a. 1; q. 44, a. 4.
534 La cosa è stata studiata da H.J. WERNER, Vom Umgang mit den
Geschöpfen - Welches ist die ethische Einschätzung des Tieres bei Thomas von Aquin?,
MM 19 (1987) 211-232; cf. spec. pp. 226-227.
535II-II, q. 25, a. 3; vedi l’importante parallelo di Seni. IH, d. 28, q. unica, a. 2.
536 De cantate, a. 7, ad 5: «competit Deo et nobis bonum uniuersi
maxime ex caritate diligere».
537 Cf. soprattutto I, q. 65, a. 2; SCG III 71, n. 2474: «Res aliae, et
praecipue inferiores, ad bonum hominis ordinantur sicut ad finem»;
ritorneremo più ampiamente su questo punto nel nostro capitolo XIII.
275
Giunti a questo punto del nostro cammino, è impossibile non
imbattersi in una questione - un’ipoteca che occorre eliminare prima di
proseguire —. A coloro che non fossero familiari con la robusta sanità
intellettuale del Maestro Tommaso, la posizione di costui circa la
bontà degli esseri e dell’universo potrebbe sembrare sorprendente. In
genere si sente parlare della spiritualità medievale come di una
spiritualità imbevuta di giudizi piuttosto negativi sulla realtà creata e,
bisogna ammetterlo, molti autori medievali appartengono a quella che
si è soliti chiamare una spiritualità del contemptus mundi, del
«disprezzo del mondo» 538. E giusto quindi chiedersi se fra Tommaso
non avesse condiviso anch’egli questa mentalità. Se fosse così,
saremmo costretti a rivedere la nostra presentazione delle cose. Non
fosse altro che per eliminare il dubbio, l’interrogativo merita di essere
posto anche se esige una risposta con alcune sfumature.
Le posizioni teologiche ricordate fin qui sono troppo chiare per
dubitare del fatto che rappresentano una scelta cosciente del nostro
autore. Perciò non si può sperare di coglierlo in contraddizione con se
stesso su questo piano. Anzi, un’analisi del suo vocabolario potrebbe
rivelare il persistere in lui di un approccio spontaneo delle cose, che
potrebbe tradire se non un’incoerenza, almeno una «mentalità»,
ricevuta dal suo tempo e dal suo ambiente d’origine o di appartenenza,
leggermente discordante rispetto a questa considerazione
profondamente positiva della realtà. In sé, la cosa non ha niente di
sorprendente; le più grandi menti non sfuggono al loro tempo, e
Tommaso non fa eccezione a questa regola.
Gli strumenti di lavoro attualmente a nostra disposizione
permettono una verifica agevole che si può estendere quasi
istantaneamente all’insieme dell’opera 539. Nel caso presente, essi
538 L’espressione è lungi dall’essere senza ambiguità; senza affrontare
qui tale questione, rinviamo semplicemente a una controversia degli anni Sessanta di
cui si troverà uno stato della questione in L.-J. BATAILLON - J.-P. JOSSUA, Le mépris du
monde. De l’intérêt d’une discussion actuelle, RSPT 51 (1967) 23-38, con ima lista di
numerosi scritti di R. BULTOT SU questo tema, tra cui l’illuminante articolo: Spirituels et
théologiens devant l’homme et devant le monde, RT 64 (1964) 517-548, che mostra bene
quale grave malinteso si produrrebbe nel voler interpretare troppo rapidamente le
divergenze tra «uomini spirituali» e «teologi» come semplici differenze di linguaggio;
molti autori che insistono sul niente della creatura o sul disprezzo del mondo sono
infatti tributari di un’antropologia platonica.
539 Certamente pensiamo al CD ROM dell’Index thomisticus, di
Roberto Busa, ma abbiamo utilizzato anche l’edizione stampata dell’Index, che
permette di delimitare più facilmente del disco ciò che appartiene realmente a
Tommaso.
276
forniscono anche più materia di quanta ne possiamo esaminare; ma pur
senza utilizzarle in maniera completa, le statistiche ci offrono almeno
una giusta idea delle proporzioni. Si vorrà ben perdonarci questo
elenco di dati numerici, ma considerata la posta in gioco vale la pena
di mettere le carte in tavola. Abbiamo potuto contare un totale di 446
ricorrenze del sostantivo contemptus (438) e contemptor (8)
nell’insieme delle opere tomasia- ne. Nella maggior parte dei casi
(420), questi termini sono utilizzati in un senso molto inatteso:
disprezzo di Dio, della sua legge, di Cristo, dei sacramenti, delle cose
spirituali, ecc.540. Essi si possono perciò mettere da parte e constatare
così che non restano che 26 ricorrenze importanti per la nostra ricerca.
Sarebbe ancora troppo lungo volerle analizzare tutte, ma se le
consideriamo secondo un ordine decrescente si ottiene la seguente
lista: «disprezzo» 541 del mondo (6), delle cose temporali (6), o terrene
(5), delle ricchezze (5), dei familiari (2), della gloria mondana (1),
delle cose mondane (1).
Sulle sei ricorrenze di contemptus munii, occorre fare eccezione
di un impiego simbolico: i sandali del nuovo vescovo dati nel giorno
della sua consacrazione significano che egli rinuncia alle cose di
questa terra: le calpesta. Non si dovrà tener conto nemmeno di
un’utilizzazione speciale: in un elenco che passa in rivista tutti i libri
biblici secondo la loro intenzione principale, Tommaso ricorda, al
seguito di san Girolamo, che VEcclesiaste insegna il contemptus
munii. Più attinente al nostro proposito, egli ricorda per tre volte che
l’abito grezzo dei religiosi mendicanti è il segno del loro «disprezzo»
del mondo. Quanto all’ultimo uso del termine, lo si trova nel testo
seguente che rappresenta molto bene i diversi contesti in cui si ritrova
questo genere di espressioni:
«La lettera del Vangelo non contiene se non ciò che riguarda la
grazia dello Spirito Santo, sia per predisporvi, sia per
organizzarne l’uso. Per predisporvi, e farlo prima di tutto dal
punto di vista dell’intelligenza per mezzo della fede data per

540 L’uso del verbo contemnere■ permette delle constatazioni


completamente concordanti. Su un totale di 576 impieghi, 520 si ritrovano nel
biasimevole senso di disprezzare Dio, Cristo, i sacramenti, la legge di Dio, le cose
spirituali, ecc.; il verbo ricorre 56 volte nel senso di disprezzare qualcosa di questo
mondo: beni terreni, corporei, temporali, ricchezze, onori, ecc., ma mai a proposito
del matrimonio.
541 Oppure «disdegno», ma bisogna tener conto del contesto e
ricordare che il senso principale di contemnere è «ritenere trascurabile».
277
grazia dallo Spirito Santo, si trova nel Vangelo ciò che
manifesta la divinità e l’umanità di Cristo. Poi, dal punto di
vista dell’affettività, si trova nel Vangelo ciò che riguarda il
disprezzo del mondo (ea quae pertinent ad contemptum mundi),
che rende l’uomo capace di ricevere la grazia dello Spirito
Santo. “Il mondo”, infatti — intendete "coloro che amano il
mondo” (amatores mundi) -, "non può ricevere lo Spirito
Santo’’ (Gv 14, 17). Circa l’uso della grazia spirituale, che
consiste nella pratica delle virtù, il testo del Nuovo Testamento
invita gli uomini a tale pratica in molte maniere»542.
Questo testo è. tipico sotto un duplice punto di vista. Primo,
spiegando ciò che occorre intendere per «mondo», esso mostra bene
come questo «disprezzo» riguarda soltanto il mondo «malvagio», cioè
quello già rigettato da san Giovanni e san Paolo 543; esso non
comprende dunque i valori del mondo creato da Dio in quanto tali.
Secondo, si può percepire qui il contesto comparativo che è quello
della maggior parte dei casi in cui si tratta di «disprezzare» l’una o
l’altra cosa di questo mondo: considerati l’amore di Dio o la
beatitudine eterna alla quale siamo chiamati, le cose terrene sono
considerate trascurabili. Il riferimento al Vangelo spesso è immediato:
«Se qualcuno mi vuol seguire...», o ancora: «Se qualcuno ama i propri
familiari più di me...». Mai, in questo contesto, si può intendere che le
cose terrene sarebbero cattive in sé. La posizione di Tommaso è
esattamente contraria:
«In sé, le creature non allontanano da Dio; vi conducono... Se
disto- gliessero da Dio, sarebbe colpa di coloro che ne usano in
maniera insensata. Per questo la Sapienza afferma (14, 11): “Le
creature sono divenute laccio ai piedi degli stolti”. Anzi, il fatto
stesso che potrebbero allontanare da Dio prova che esse
provengono da lui, poiché non possono attirare gli uomini se
non a causa del bene che si trova in esse e che ricevono da Dio»
544
.

Ecco perché è del tutto impossibile trovare in questi rari testi


l’espressione di un’attitudine generale di disprezzo o di rifiuto del
mondo e dei suoi beni, che permetterebbe di concludere che Tommaso
542I-II, q. 106, a. 1 adì.
543 Cf. 1 Gv 2, 15: «Non amate il mondo né ciò che è nel mondo. Se
qualcuno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui»; Rm 12, 2: «Non
conformatevi al mondo presente».
5441, q. 65, a. 1 ad 3.
278
vedrebbe in essi qualcosa d’intrinsecamente cattivo 545. Il contrario
sarebbe stato sorprendente, poiché ciò avrebbe significato che egli
rinunciava all’ispirazione aristotelica della sua antropologia per
adottarne un’altra di vena platonica. Questa in coerenza era certamente
poco plausibile, ma era meglio assicurarsene. L’impressione generale
che si ricava da questi passaggi corrisponde piuttosto all’attitudine del
magnanimo o dell’uomo virtuoso secondo Aristotele: spendere
largamente e addirittura «disprezzare» la propria ricchezza dilapidata
per i propri amici, significa manifestare il proprio disdegno dei beni
esteriori e mostrare che egli tiene molto di più ai suoi amici 546. Ciò che
un tale uomo fa per il proprio amico corrisponde precisamente a
quanto Dio stesso attende da colui che si dice suo amico.

VITA RELIGIOSA E ATTIVITÀ SECOLARI

Se l’uso sporadico di contemptus mundi da parte di Tommaso


non attenta quindi affatto alla sua considerazione assolutamente
positiva del nostro mondo 547, gli capita tuttavia di parlarne in maniera
più negativa, e ciò lo si può percepire sia dal suo uso del qualificativo
«secolare» (saecularis), sia dal modo in cui parla delle «attività
secolari» (negotia saecularia) 53. H comportamento però è molto
diverso secondo i due possibili sensi della parola saecularis. Se si
parla della vita religiosa, si sarà obbligati ad affermare un’impossibile
conciliazione; se si considera però la secolarità come uno stato di fatto,
è del tutto possibile apprezzarla più positivamente, addirittura di
cristianizzarla, e ci troviamo allora al punto di partenza di una

545 Lo stesso san Bonaventura protesterebbe qui molto


energicamente: «Chi disprezza il mondo, disprezza Dio: o questo mondo non è creato
da Dio, o allora non bisogna disprezzarlo», continuando un po’ più lontano: «mundus
iste et ea quae sunt in eo, sunt amanda», In Ecclesiasten, Prooemium, q. 1, se. 1 et
2, Opera, t. VI, 6 b.
546 Sententia libri Ethicorum I, 9 (1169 aa. 18 et 26), Leon., t. 47/2,
pp. 532- 533; ed. Marietti nn. 1878 et 1881.
547 Un brevissimo paragone supplementare permette di rendersi
conto che questo vocabolario non è affatto caratteristico di Tommaso. Si sa che
l’Index tho- misticus nei suoi rilievi tiene conto di alcune altre opere non
tomasiane; mentre dal punto di vista statistico questi scritti non rappresentano che
circa un settimo dell’insieme, l’utilizzazione del vocabolario del contemptus in essi è
nettamente più cospicua: contemptus mundi passa così da 6 a 16, e contemnere
da 576 a 1.253.
279
riflessione su un probabile impegno del cristiano in questo mondo 548
549
.
H primo contesto nel quale troviamo saecularis è creato dalle
invettive di san Paolo contro «la sapienza dei principi di questo
mondo» (1 Cor 2, 6). Ora Tommaso non può fare a meno di pensare
alla sapienza trasmessa dai pensatori dell’antichità. Egli sicuramente
distingue questa sapienza filosofica dalla sapienza della fede e da
quella teologica, tuttavia riconosce la sua legittimità e non può
determinarsi a qualificarla «secolare» senza maggiori precauzioni 550.
La virtù intellettuale di sapienza è infatti totalmente polarizzata dalla
ricerca del vero e a tale titolo essa realizza in noi «un certo inizio della
beatitudine, che consiste nella conoscenza della verità» 551. Certo, la
sapienza umana può volgersi contro la sapienza del Vangelo e Paolo le
oppone allora la follia della croce; insieme all’Apostolo, Tommaso
afferma dunque con forza che «la nostra sapienza non consiste nel
riconoscere la natura dei corpi né il corso degli astri, né qualsiasi cosa
di questo genere, ma consiste soltanto in Gesù Cristo» 552. Egli però sa
anche che è una grande e bella cosa e perciò non esita a introdurre
delle distinzioni nel testo di Paolo:
«Gli uomini, per quanto malvagi siano, non sono mai
completamente
privi dei doni di Dio, e non sono i doni di Dio che bisogna
biasimare
in essi, ma ciò che proviene dalla loro malizia. Per questo egli
[san
Paolo, 1 Cor 1, 19] non dice semplicemente: "Io distruggerò la
sapienza”, in quanto ogni sapienza viene dal Signore (cf. Is 29,
14ss.), ma: "Io distruggerò la sapienza dei sapienti" cioè la
sapienza che i sapienti di questo mondo hanno levato contro la

548 Utilizziamo qui i risultati dell’ammirevole indagine di B. MONTAGNES,


Les activités séculières et le mépris du monde chez saint Thomas d’Aquin. Les emplois
du qualificatif «saecularis», RSPT 55 (1971) 231-249.
549 Vedere qui sotto cap. XIII.
550 II tema sarebbe troppo ampio per poterlo sviluppare qui; oltre
l’articolo citato nella nota precedente, si possono leggere i begli scritti di B.
MONTAGNES, L’intention philosophique et la destinée de la personne, RT 69
(1969) 181-191; Les deux fonctions de la sagesse: ordonner et juger, RSPT 53
(1969) 675-686.
5511-II, q. 66, a. 3 adì.
552 Super ad Ephesiosl, 9, n. 25; M.D. JORDAN, The Alleged
Aristotelianism of Thomas Aquinas («The Etienne Gilson Sériés 15»), Toronto
1992, pp. 32-40, ha molto insistito su questo punto.
280
vera sapienza di Dio, e di cui san Giacomo (3, 13) afferma:
“Questa sapienza non viene dall’alto, essa è mondana, carnale,
diabolica"... Perciò, è a causa della loro mancanza di sapienza
che essi hanno ritenuto impossibile che Dio potesse diventare
uomo e passare attraverso la morte secondo la sua natura
umana; è anche a causa della loro mancanza di prudenza che
hanno ritenuto inconveniente che un uomo subisse la croce,
disprezzando l’ignominia (cf.Yh 12, 2)»553.

Se dunque Tommaso condanna con Paolo la sapienza di questo


mondo, ciò accade soltanto nella misura in cui essa si oppone alla fede
cristiana, e così quello che egli prende di mira non è che una mancanza
di sapienza 554. Altrimenti, il giudizio è favorevole, e lo si è ben
sottolineato: «La sapienza filosofica non è disprezzata perché non è
sospetta come sapienza; è condannata soltanto nella sua secolarità.
Ora, essa non è secolare per natura, lo diventa solamente per scelta,
precisamente scegliendo di collocare in essa il senso ultimo
dell’esistenza umana. “Disprezzarla” non significa dichiararla senza
valore ma apprezzarla nel suo giusto valore; essa non è né un valore
illusorio dal quale bisognerebbe allontanarsi, né il valore supremo che
bisognerebbe preferire a tutto il resto. Lungi dal sacrificarla, la si deve
rispettare come uno di quei fini intermedi che l’uomo non può ridurre
a un semplice mezzo e che non deve confondere con il suo fine
ultimo» 555.
Oltre alle ragioni intrinseche che fondano questa valutazione, c’è
anche indubbiamente il fatto che la pratica della sapienza al tempo di
Tommaso restava ancora un compito dei chierici. E un po’ diverso
quando egli parla dei compiti tipicamente secolari: professioni liberali,
commercio, mestiere delle armi, ecc. Non è soltanto la buona divisione
dei compiti nella società che esige che monaci e chierici se ne
astengano. Lo stesso uso legittimo della forza può degenerare in
violenza e il perseguire un guadagno onesto può, anch’esso, sfociare in
una ricerca sfrenata del profitto. Perfino per i laici questi mestieri
restano pericolosi; a maggior ragione lo sono per coloro che per
professione devono mostrarsi pacifici e disinteressati. A partire da
questi due esempi, si sente dunque trapelare in molti testi una sfiducia
generalizzata nei confronti delle attività secolari.
553 Super I ad Cor. 1,19, n. 50.
554 Super I ad Cor. 1, 19, n. 49: «Ciò che di suo è buono non può
sembrare follia a chicchessia, se non per mancanza di sapienza».
555 B. MONTAGNES, Les activités séculières, p. 240.
281
Non si può tuttavia formulare qui un giudizio unilaterale. Come
quella di tutti i pensatori del suo tempo, la riflessione di fra Tommaso
è guidata dal versetto ben noto della seconda lettera a Timoteo (2, 4):
«Chiunque è al servizio di Dio non deve dedicarsi agli affari secolari».
Questo testo, che ha molto influenzato la legislazione canonica
riguardante i chierici, interdicendo loro alcuni mestieri per le ragioni
che abbiamo appena ricordato, ha anche decisamente ispirato la
teologia della vita monastica in cui questa interdizione delle
occupazioni secolari è stata compresa come enunciante
un’incompatibilità tra queste attività e la consacrazione esclusiva a
Dio e come procurante una vera liberazione in vista dell’espansione
della carità.
In questa prospettiva, è incontestabile che Tommaso consideri le
attività secolari come degli impedimenta, degli ostacoli per i religiosi.
I negotia saecularia comprendono allora l’insieme di ciò a cui i
monaci rinunciano in virtù della loro professione: possedere dei beni,
sposarsi, disporre liberamente di sé. Si riconoscono qui i tre consigli
evangelici, messi volentieri in rapporto con i tre desideri denunciati da
san Giovanni (1 Gv 3, 2), e che hanno assunto infine la forma dei tre
voti di religione: colui che li assume è di fatto liberato dall’essenziale
delle attività di questo mondo; colui che non li abbraccia vi si trova al
contrario totalmente implicato556. Eppure Tommaso non condanna mai
queste tre attività principali del mondo come illecite. Anzi, afferma
molto chiaramente che queste realtà dalle quali si astengono i monaci
sono peraltro lecite557; se fossero cattive in sé tutti i cristiani
dovrebbero astenersene. Non solo le si può praticare senza nuocere
alla carità, ma si può vivere la carità senza seguire i consigli 558. Lungi
dal costituire una superiorità, l’obbligarsi ai consigli è perfino
un’ammissione di debolezza559.
Questa considerazione del valore relativo delle attività secolari
ci situa, di fatto, al centro della teologia tomasiana della vita religiosa
65
. Non si tratta qui di analizzarla a fondo, ma si può almeno ricordare
un passaggio dell’insegnamento sulla nuova legge che precisa la
556 Cf. per es, II-II, q. 186, a. 2 ad 3; q. 184, a. 3; q. 188, a. 2 ad 2.
557 II-II, q. 184, a. 3 ad 3: a rebus licitis abstinet', q. 184, a. 5: a rebus
saeculari- bus abstineant quibus licite utipoterant.
558 II-II, q. 184, a. 3: quae tamen cantati non contrariantur, q. 189, a. 1
ad 5: lunga risposta che situa il ruolo strumentale dell’osservanza dei consigli rispetto
all’unico fine che consiste nella perfezione della carità.
559 II-II, q. 186, a. 4 ad 2: i patriarchi, come Abramo, sono giunti alla
perfezione della carità pur essendo sposati e possedendo molti beni, ma questo è il
282
fondamentale differenza tra consigli, lasciati alla scelta di coloro a cui
sono dati, e precetti - essenzialmente, il doppio comandamento
dell’amore —, che s’impongono a tutti come indispensabili per
giungere al fine: la beatitudine eterna. E in funzione di quest’unico
fine che dev’essere valutato tutto:
«L’uomo è situato tra le realtà di questo mondo in cui si svolge
la sua vita e i beni spirituali in cui risiede la beatitudine eterna,
cosicché più pende da un lato più si allontana dall’altro e
viceversa. Addentrarsi totalmente nelle realtà terrene al punto
tale da farne lo scopo della propria esistenza, la ragione e la
regola dei propri atti, significa distogliersi completamente dai
beni spirituali. I comandamenti interdicono un tale disordine.
Tuttavia, per raggiungere questo fine, non è necessario
rinunciare assolutamente al mondo, poiché si può arrivare alla
beatitudine eterna pur usando beni terreni, purché non se ne
faccia lo scopo della propria esistenza. Ma chi rinuncia
completamente ai beni di questo mondo giungerà alla
beatitudine più facilmente. E per questo che sono dati i
consigli» 66.
Siccome tutto dev’essere valutato in funzione del fine,
ritroviamo così il contesto comparativo che già spiegava ciò che
abbiamo visto sul segno della loro virtù eccezionale; essendo più deboli
(infirmiores), noi non dobbiamo sopravvalutare le nostre forze e sperare di poter
coniugare matrimonio, ricchezze e perfezione; vedi anche II-II, q. 188, a. 8 ad 3:
soltanto i perfetti possono obbedire direttamente allo Spirito Santo, coloro che sono
ancora in cammino verso la perfezione traggono grande profitto obbedendo agli altri.
Queste considerazioni si ritrovano frequentemente, soprattutto a proposito della
povertà: cf. q. 184, a. 7 ad 1; q. 185, a. 6 e ad 1; q. 186, a. 3 ad 5: ciò che si richiede a
tutti è di essere interiormente distaccati e liberi nei confronti di quei beni che possono
richiedere molto più di quanto è ad essi dovuto, non di praticare effettivamente
mediante il voto la povertà il celibato o l’obbedienza.
65
Rinviamo qui agli eccellenti studi di M.-V. LEROY, Théologie de la vie
religieuse, RT 92 (1992) 324-343, e di M.-M. LABOURDETTE, L'idéal dominicain, RT 92
(1992) 344-354; si potrà vedere anche A. MOTTE, La définition de la vie religieuse selon
saint Thomas d’Aquin, RT 87 (1987) 442-453.
66
I-II, q. 108, a. 4; si leggerà questo articolo col mirabile commento di J.
TONNEAU, in S. THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, La loi nouvelle («Revue des Jeunes»),
Paris 1981.
contemptus munii. Il bilancio di questa indagine è dunque chiaro: non
si può ignorare la riserva di Tommaso nei confronti delle attività
secolari, tuttavia essa non dev’essere esagerata. Espressa nel quadro di
283
una teologia della vita religiosa, essa non rimette in questione il
giudizio positivo che egli formula altrove sull’universo creato. Mai
lascia intendere che le cose terrene sono di per sé cattive; anzi egli
afferma che non bisogna disprezzare questi beni temporali se possono
aiutare nella ricerca di Dio 560. Ecco perché è così legittimo chiederli
nella preghiera «come sussidi che ci aiutano a tendere verso la
beatitudine, dato che la nostra vita corporea trova in essi il suo
sostegno e la nostra attività virtuosa li usa come strumenti» 561 562. E
evidente però che per esserne totalmente distaccati così come esige il
Signore mediante la beatitudine dei poveri di cuore, non sono
sufficienti né i consigli, né la virtù ma ci vuole un dono particolare
dello Spirito Santo:
«L’uomo è distaccato dai beni temporali per mezzo della virtù in
modo tale che impara ad usarne con moderazione; ma il dono
gli insegna a considerarli assolutamente trascurabili (totaliter
ea contemnat). Perciò si può intendere la prima beatitudine (Mt
5, 3): “Beati ipoveri in spirito”, sia del disprezzo delle
ricchezze, sia del disprezzo degli onori, che si realizza mediante
l’umiltà»*®.
Richiesta dal dubbio sollevato a proposito del «disprezzo del
mondo», la digressione che abbiamo fatto mediante questo spaccato
sulla vita monastica o religiosa non deve sfociare nell’adombrare il
nostro scopo principale. La sua concezione della creazione, che è
contemporaneamente quella di un teologo credente e di un filosofo,
conduce Maestro Tommaso ad ammettere l’autonomia e il valore della
realtà creata. Voluta certamente da Dio per manifestare e comunicare
la sua bontà, ma anche per se stessa in maniera tale da avere la propria
consistenza e le proprie leggi, la creazione non è un puro pretesto, né
un teatro in cui i cristiani non sarebbero altro che delle comparse di
passaggio, ma proprio il luogo in cui la volontà salvifica di Dio ripren

560 Cf. II-II, q. 126, a. 1 ,ad 3: «Bona temporali^ debent contemni,


in quan- tum nos impediunt ab amore et timore Dei... Non autem debent contemni bona
temporalia, inquantum instrumentaliter nos iuuant ad ea quae sunt diurni timoris et
amoris».
561II-II, q. 83, a. 6.
562 ITI, q. 69, a. 3.
284
de e porta al suo compimento la sua volontà creatrice con la
cooperazione reale dell’uomo in un’unica storia di salvezza il cui
carattere salvifico non abolisce la realtà profana 563.
Ancor più che il rispetto dovuto alla creazione inanimata, ciò che
emerge dal valore intrinseco dell’universo creato, è che l’agire umano
può prefiggersi degli obiettivi precisi che, pur non essendo il fine
ultimo, costituiscono tuttavia dei fini intermedi che vale la pena
perseguire in se stessi. Per elencarne l’uno o l’altro secondo l’ordine
delle grandi tendenze naturali che ben presto ritroveremo, eccone una
lista che potrebbe essere facilmente allungata: compiere il bene
ovunque lo si riconosce, servire la vita sotto tutte le forme, fondare
una famiglia, educare dei bambini, cercare la verità, trasmettere il
sapere con l’insegnamento, accrescerlo con la ricerca, lottare per una
migliore ripartizione dei beni della terra, servire il proprio Paese con
l’impegno politico o l’umanità col sostenere la pace tra le nazioni,
senza dimenticare il bene dell’amicizia al livello delle relazioni
interpersonali, ecc.; tutti questi obiettivi rappresentano altrettanti
autentici beni che meritano d’essere ricercati e serviti. Lungi dal
distogliere dal fine ultimo, essi orientano ad esso564.
Il cristiano che s’impegna in tali compiti prosegue la missione di
umanizzazione della terra affidata all’uomo dal suo Creatore (cf. Sap
9, 2-3)565; egli non ha perciò nessun motivo per compierla soltanto a

563 Senza voler dare alla dottrina esposta una conferma esterna di cui
non ha bisogno, siamo stati colpiti dalla pertinenza di alcune linee di Paolo VI: «Il
punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli [Tommaso] diede al
problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito
profetico, è stato quello iella conciliazione tra la secolarità del mondo 'e la radicalità del
Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori,
senza peraltro venir meno alle supreme e inflessibili esigenze dell’ordine
soprannaturale. Tutta la costruzione dottrinale di san Tommaso è infatti fondata su
quell’aureo principio, da lui enunciato fin dalle prime pagine della Summa theologiae,
secondo il quale “la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona”, e la natura è
subordinata alla grazia, la ragione alla fede, l’amore umano alla carità» (Lettera di
Paolo VL per il settimo centenario di san Tommaso d‘Aquino, ed. a cura dell’Ordine dei
Frati Predicatori, Roma 1975, p. 42).
564 Questo è stato ben dimostrato da W.H. PRINCIPE, Aquinas’
Spirituality for Christ’ s Faithful Living in thè World, «Spirituality Today» 44 (1992)
110-131.
565 II modo in cui Tommaso comprende il ruolo di Adamo
all’indomani della Creazione è profondamente suggestivo, cf. I, q. 96, e in, a. 2:
«Nell’uomo si ritrovano in qualche modo tutte le realtà, ed è per questo che al tipo di
dominio che egli esercita su quelle interiori, corrisponde quello che deve esercitare
sulle altre».
283
metà

283
o controvoglia. Anzi, la certezza che ha di operare in vista della città
futura conferisce al suo impegno una qualità che soltanto essa gli può
dare: l’imitazione della liberalità divina, la quale dona in maniera tanto
più efficace in quanto è totalmente disinteressata.

286
XI
Una certa idea dell’uomo

Per introdurre il capitolo precedente, ricordavamo la celebre


massima secondo cui «la grazia non distrugge la natura ma la porta a
perfezione»; ora non significherà cedere ad un immoderato gusto per
la simmetria se iniziamo con un altro passaggio non meno celebre:
«Tutto ciò che si riceve, ciascuno lo riceve alla sua maniera propria»
h Ciò si verifica già a livello materiale: un liquido versato in un vaso
ne assume la forma. A maggior ragione si verifica quando il
«ricevente» è un essere intelligente e libero, dotato di alcune qualità
che gli sono proprie, ma anche di un temperamento particolare e di
precisi limiti, capace dunque di assimilazione personale, di resistenza
o di rifiuto, come di accoglienza e di rinnovamento. Traduciamo
liberamente il nostro assioma: nel campo della spiritualità come
altrove non si possono ignorare le leggi della natura senza essere
destinati all’insuccesso. E qui che dopo la dottrina della creazione
ritroviamo la dottrina dell’uomo, l’antropologia. Anch’essa era
fortemente contestata dagli avversari del Maestro d’Aquino, e ciò
costituiva da parte loro una prova di perspicacia. Tra le altre questioni
di tipo più dogmatico, essa comanda in effetti tutto ciò che si può dire
del radicamento e dello sviluppo delle virtù nell’essere umano, ossia
introduce direttamente alla teologia spirituale alla scuola di san
Tommaso. È necessario perciò fare anche qui una piccola digressione
per rendersi conto più esattamente di ciò che era in questione.

1
«Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (Tutto ciò che è
ricevuto, è ricevuto al modo di colui che riceve)»; la forma impersonale dell’adagio
permette di utilizzarlo in vari contesti, nella maggior parte dei casi si tratta tuttavia
del campo della conoscenza: anche le cose materiali esistono in noi secondo un modo
immateriale, cf. Seni. IH, d. 49 q. 2, a. 1; SCG II 79; I, q. 75, a. 5; etc.

287
L’UOMO IN DISCUSSIONE

La considerazione dell’uomo nella Somma di teologia non si


riduce ad alcune questioni in cui si parla dell’anima umana e della sua
creazione a immagine di Dio alla fine della Prima Parte. Infatti, tale
studio prosegue in tutta la Seconda Parte, dove si trovano le
indispensabili precisazioni sugli atti umani, la libertà, la coscienza, le
passioni, le virtù, la vita sociale e le leggi che la reggono, ecc., senza
omettere il fine della vita umana e i mezzi di grazia che gli permettono
di raggiungerlo. Non sarebbe possibile dimenticare tutto ciò senza
falsificare completamente la prospettiva dell’autore. Ciò che si trova
nella Prima Parte è semplicemente l’inizio di questa considerazione in
cui Tommaso comincia col situare l’uomo nel vasto insieme
dell’universo. Secondo il suo proprio linguaggio, dopo aver parlato di
Dio in se stesso, passa a trattare di Dio nel suo rapporto con la
creazione. Siccome vuole scoprire cosa significa il fatto che Dio sia
principio e fine di tutte le cose, egli ha il dovere di parlare del modo in
cui le creature procedono da Dio: prima di tutto della creazione in se
stessa, come atto di Dio, poi delle varie creature che compongono
l’universo creato. Si distinguono qui successivamente tre grandi
categorie di esseri usciti dalla mano di Dio: gli angeli, creature
puramente spirituali; il mondo, creatura puramente corporea; e infine
l’uomo, creatura contemporaneamente spirituale e corporea.
La semplice formulazione di questa divisione della materia non
dice ancora niente sul suo contenuto, ma permette almeno di capire
subito la situazione esatta dell’uomo in questo universo. Né totalmente
spirituale, né totalmente corporeo, egli è allo stesso tempo l’uno e
l’altro, partecipando con la sua anima allo spirito e alla sua
immaterialità, e con il suo corpo alla materia e alla sua corruttibilità.
Tommaso invita il lettore a meravigliarsi insieme a lui di questa
singolare creatura che gli appare come la cerniera tra due mondi, nello
stesso tempo in cui riassume in essa la totalità dell’universo:
«Ciò permette di considerare l’ammirabile connessione delle
cose. Si riscontra sempre, infatti, che il soggetto più basso del
genere superiore viene a toccare quello supremo del genere
inferiore. Così, per esempio, gli animali meno sviluppati, quali
le ostriche che sono immobili e provviste solo di tatto, stando
fisse alla terra come le piante, superano di poco la vita delle
piante. Cosicché il beato Dionigi affer-
288
ma: "La divina Sapienza unisce le estremità degli esseri inferiori ai
principi di quelli superiori". Perciò si riscontra che il supremo nel
genere dei corpi, ossia il corpo umano dalla complessione equilibrata,
viene a toccare l’infimo nel genere delle sostanze intellettive, come si
può scoprire dal modo di conoscere intellettualmente. Ecco perché si
dice che l’anima intellettiva è come orizzonte e confine (.horizon et
confinium) tra gli esseri corporei e incorporei, in quanto è una
sostanza incorporea, che però è forma del corpo. Tuttavia l’unità
risultante di sostanza intellettiva e di materia corporea non è meno
perfetta di quella esistente tra la forma del fuoco e la sua materia,
anzi è superiore: poiché più una forma supera la materia, più è
perfetta la sua unità con essa»566 567.

Questo testo è importante sotto vari punti di vista. Esso permette


innanzitutto di rendersi conto fino a che punto il suo autore si presenta qui
come l’erede della sapienza degli antichi, poiché fonde nell’armonia della
sua sintesi non solo temi ma addirittura ispirazioni filosofiche differenti. Da
una parte, ritroviamo, almeno come suggestione accentuata, l’antica dottrina
dell’uomo microcosmo che realizza in se stesso l’universo «in miniatura».
Questa formula non ricorre meno di diciassette volte sotto la mano di
Tommaso ed esaminare questo bel tema ci porterebbe molto lontano fi
Dall’altra, troviamo ancora e soprattutto
in questo testo ciò che si è potuto denominare «l’assioma di
continuità», tanto utilizzato nei suoi scritti 4, in cui confluiscono
566 SCG II 68, n. 1453; cf. ÌSoms divins VII 3, Dyonisiaca I, p. 407; cf. SCG
III 61, n. 2362; la formula ‘orizzonte e frontiera’, ripresa molto frequentemente da
Tommaso, viene dal Líber de Causis, prop. 2 (ed. H.-D SAFEREY, Sancti Thomae de Aquino super
librum De causis expositio, Friburgo-Lovanio 1954, p. 10; cf. C. D’ANCONA COSTA, Tommaso
d‘Aquino, Commento al “Libro delle Cause”, Milano 1986, p. 181). G. VERBEKE, «Man as
Frontier According to Aquinas», in G. VERBERE and D. VEEHELST, ed., Aquinas and Prohlems of bis
Time, Leuven-The Hague 1976, pp. 195-223, ha ricordato la storia di questa espressione
d’origine platonica, ma di cui Tommaso ha profondamente trasformato il senso, e che si
rivela fondamentale per la sua concezione della verità e soprattutto dell’etica; F. MARTY, La
perfection de l’hom- me selon S. Thomas d'Aquin, Ses fondements ontologiques et leur
vérification dans l’ordre actuel, Roma 1962, pp. 163-198: «L’homme, horizon entre matière et
esprit».
567 Non potendolo fare qui, ricordiamo come, molto significativamente,
Tommaso si ricorda di esso quando tenta di formulare i motivi dell’incarnazione del Verbo
nella natura umana piuttosto che in ogni altra creatura: «Siccome è dotato di una natura
corporea e di una natura spirituale, l’uomo occupa per così dire i confini dell’una e dell’altra
natura, e così ciò che è compiuto per la salvezza dell’uomo concerne l’intera creazione... Era
conveniente dunque che la causa universale di tutte le cose assumesse nell’unità della persona
[del Verbo] questa creatura in cui essa è in più stretta comunione con tutte le creature» (SCG
IV 55). Rinviamo allo studio molto completo di M.F. MANZANEDO, «El hombre come
“Microco-
289
l’ispirazione platonica di una metafisica dell’uno e l’apporto
aristotelico di una filosofia dell’essere. Quest’ultima viene a
correggere con il suo empirismo il rischio di pseudo-universalità
dell’altra.
Nel pensiero di Tommaso, questa continuità non è soltanto
quella di una contiguità semplicemente materiale; essa è
accompagnata da una partecipazione da parte della realtà inferiore alla
perfezione della realtà superiore. Nel suo livello più elevato,
l’inferiore raggiunge il superiore partecipando alla sua dignità
mediante una somiglianza imperfetta. Questo principio si rivela
decisivo nell’antropologia per escludere ogni dualismo dalla visione
dell’uomo, non introducendo rottura ma continuità tra le attività
biologiche, sensoriali e spirituali della creatura umana, in quanto è la
stessa anima che ne è il loro soggetto. Perciò è qui che l’originalità di
Tommaso rispetto ai suoi contemporanei appare in tutta la sua
grandezza.
Data questa posizione intermedia dell’uomo tra il mondo dei
corpi e quello dello spirito, si comprende facilmente che il problema
che si pone a chiunque riflette sulla realtà umana consiste
precisamente nel comprendere la natura del legame che unisce questi
differenti principi d’essere che sono lo spirito e la materia. Il testo che
abbiamo appena letto lo suppone risolto, in quanto si presenta
effettivamente come la conclusione di una lunga discussione condotta
su vari fronti con diversi interlocutori. Tommaso ha innanzitutto
scartato l’opinione di Platone e di coloro che vi si riferiscono,
secondo cui l’uomo è di fatto l’anima intellettiva 5. L’anima si serve di
un corpo al quale dà il movimento, ma

smos” según santo Tomás», Angelicum 56 (1979) 62-92; E.-H. WÉBER, La person- ne
humaine au XIIIe siècle, «Bibliothèque thomiste 46», Parigi 1991, pp. 61-73, si è
dedicato a evocare l’origine e il percorso del termine; per l’antropologia di Tommaso,
vedere le pp. 146-198.
4
B. MONTAGNES, «L’axiome de continuità chez saint Thomas», RSPT 52 (1968)
201-221, ha potuto reperire 33 passaggi in cui si ritrova la celebre affermazione:
«Semper enim inuenitur infimum supremi generis contingere supremum inferioris
generis (Sempre infatti ciò che vi è di più umile in un genere superiore, “tocca” ciò
che vi è di più elevato nel genere immediatamente inferiore)».
5
Ci si ricorda dell’affermazione lapidaria di sant’Agostino (Tractatus in Ioan- nem
19, n. 15; BA 72, pp. 207-209): «Cos’è l’uomo? Un’anima razionale che ha un corpo»; a dir
vero, questa affermazione rappresenta più una tendenza che una definì- jí'll zione voluta per
se stessa, poiché Agostino afferma anche nello stesso contesto: «Un’anima che ha un corpo
non costituisce con esso due persone, ma un solo uomo». :
290
non la vita, e nel quale non è che un inquilino provvisorio 568. A
questa posizione dualista, che ha lo svantaggio di collegare il corpo
all’anima soltanto in maniera accidentale, Tommaso preferisce la
posizione di Aristotele per il quale l’anima intellettiva non solo è il
motore del corpo, ma anche la sua «forma»; essa gli dà la vita
mediante un’unione molto intima così da non formare con esso che
un solo essere perfettamente uno; tuttavia non costituisce in alcun
modo il tutto dell’uomo569.
In questa prospettiva, «l’uomo non è né il suo corpo né la sua
anima», ma il composto che risulta dall’unione dell’anima e del
corpo, e, «dato che si tratta del corpo animato, non si deve più
parlare di priorità o posterità; c’è assoluta simultaneità poiché
comunque il corpo animato coincide con lo spirito incarnato» 570.
L’anima è indubbiamente la parte più nobile a causa della sua natura
spirituale creata da Dio, ma non è una sostanza completa esistente di
per sé. L’individuo sussistente, la persona umana, è la realtà totale
formata dall’unione dell’anima e del corpo. Non è l’occhio che vede,
ma l’uomo mediante il suo occhio, così pure non è l’anima che sente,
comprende o agisce, ma l’uomo tramite la sua anima. Se il corpo ha
bisogno dell’anima, questa da parte sua ha bisogno del corpo e non è
pensabile se non come «unibile» al corpo 571. Se la sua natura
568 Altrove (Seni. II, d. 1, q. 2, a. 4 ad 3), Tommaso attribuisce a
Platone anche un altro paragone secondo cui l’anima sarebbe nel corpo come il
pilota nella nave, ma se è conosciuta da Aristotele e da Plotino, quest’immagine non
viene da essi attribuita a Platone, cf. A. MANSION, «L’immortalité de l’âme et de
l’intellect d’après Aristote», RPL 51 (1953) 444-472, vedere pp. 456-465.
569 Questo riassunto che semplifica il pensiero di Tommaso suppone
conosciute molte cose che non si possono ricordare qui; per ben comprendere il suo
pensiero occorre seguirlo passo dopo passo sia nella SCG II 56-90, sia nella I, q. 75-
83, con le note di J. WÉBERT, a SAINT THOMAS D’AQUIN, L’âme humaine, «Revue des Jeunes»,
Parigi 1928; sia ancora nell’importante Questione De anima, che è leggermente
anteriore all’esposizione della Somma che essa prepara. Si può fare riferimento
anche allo scritto breve e preciso di L.-B. GEIGER, «Saint Thomas d’Aquin et le
composé humain», in L’âme et le corps, «Recherches et débats 35», Parigi 1961, pp.
201-220; più completo, ma anche più tecnico, J.-H. NICOLAS, Synthèse dogmatique, t. Il,
pp. 303-347; rinviamo anche al libro, semplice e profondo, scritto per un pubblico
più ampio di P.-M. EMONET, L’âme humaine expliquée aux simples, Chambray-lès-
Tours 1994, e a M.-V. LEROY, «Chronique d’anthropologie», RT 75 (1975) 121-142, in
cui si troverà la presentazione accompagnata da illuminanti osservazioni critiche di
un’abbondante letteratura sul soggetto.
570 SCG n 89, n. 1752.
5711, q. 75, a. 7 ad 3: «Il corpo non fa parte dell’essenza dell’anima, ma
l’anima deve alla natura della sua essenza di essere unibile al corpo (sed anima ex
natura suae essentiae habet quod sit corpori unibilis)».
291
spirituale la conserva incorruttibile e quindi immortale, cosicché
dopo la morte può sussistere da sola nello stato di anima separata,
anche in questo caso «essa conserva nel suo essere un’attitudine e
un’inclinazione naturali a essere unita al corpo» 572. E Tommaso lo
afferma con la più grande chiarezza: «né la definizione né il nome di
nessuno le convengono» 573. Altrove, spiegando che l’immortalità
dell’anima non sarebbe sufficiente alla beatitudine in quanto soltanto
la risurrezione del corpo causerà il compimento del desiderio
naturale di salvezza situato nel cuore dell’uomo, egli impiega perfino
questa sorprendente formula: «L’anima non costituisce tutto l’uomo;
la mia anima non forma il mio io»574.
Si comprende facilmente l’importanza di questa scelta. Di
fronte ad ogni concezione «spiritualizzante» dell’essere umano,
tentata di considerare il corpo come quantità trascurabile, il suo
solido realismo fa affermare tranquillamente a Tommaso che l’uomo
è un essere corporeo e che senza il corpo, non si ha più l’uomo.
L’anima non è unita al corpo per spiritualizzarlo, ma proprio perché
l’anima ha bisogno del corpo; infatti senza di esso non potrebbe
dedicarsi nemmeno alla sua operazione più nobile, l’intellezione 575.
Questa maniera di rendersi conto del modo in cui l’anima si
unisce al corpo si oppone anche a due altre posizioni
successivamente scartate come insufficienti per rendere conto della
complessa unità dell’uomo. Come sostenitori della prima, si
incontrano di nuovo diversi rappresentanti di un platonismo
arricchito di molteplici varianti, ma
anche san Bonaventura e i teologi francescani che rifiutano di

5721, q. 76, a. 1 ad 6.
5731, q. 29, a. 1 ad 5: «L’anima è una parte della natura umana; ed è per
questo che, anche nello stato separato, dato che conserva la sua attitudine naturale
all’unione, non la si può chiamare una sostanza individuale, ossia un’ipostasi o
sostanza prima - come nemmeno lo può essere la mano o qualsiasi altra parte
dell’essere umano Ecco perché né la definizione né il nome di persona le
convengono»; la riflessione sulla situazione contraria alla sua natura dell’anima
separata dal suo corpo mediante la morte apporta qui preziosi complementi, cf. I, q.
89, a. 1; A. C. PEGIS, «The Separated Soul and its Nature in St. Thomas», in
Commemorative Studiesl, 131-158.
574 In 1 ad Corinthios 15, 19, lect. 2, n. 924: «Anima autem cum sit pars
cor- poris hominis, non est totus homo, et anima mea non est ego».
575 I, q. 84, a. 4: «Non si può dire che l’anima intellettiva è unita al corpo
a causa di quest’ultimo... È piuttosto il contrario che è vero: il corpo appare soprattutto
necessario all’anima intellettiva per la sua propria operazione, che consiste nel-
Yintelligere».
292
ammettere che l’anima intellettuale sia l’unica forma del corpo. Essi
sono accomunati da un’unanime avversione ad attribuire alla stessa
anima le attività spirituali più elevate e tutto ciò che abbiamo in
comune con gli animali. Secondo loro, bisognava perciò ammettere
tre anime diverse secondo i diversi gradi di vita che si riscontrano
nell’uomo: vegetativo, sensitivo, intellettivo576. Di fronte a costoro,
Tommaso s’impegna risolutamente a dimostrare che è proprio la
stessa anima che esercita la triplice funzione d’animazione, in quanto
ogni grado superiore di una forma sostanziale include e realizza il
grado inferiore. Chi può il più, può anche il meno, diremmo
familiarmente. L’unità del vivente di natura razionale qual è l’uomo
si trova così molto più perfettamente affermata, come è sottolineato
nel testo sopra riportato577 578.
A questa controversia, interna al mondo cristiano, se ne
aggiungeva una seconda, in cui coloro che erano avversari nella
prima si battevano al contrario fianco a fianco, poiché si trattava di
far fronte all’invadente «arabismo» che aveva già conquistato molte
menti tra i filosofi del tempo. Questi ultimi sostenevano che non era
affatto necessario che ciascun individuo umano esercitasse da se
stesso questa nobile funzione dell’intellezione, giacché un solo
principio intellettivo, separato e comune a tutti gli uomini, agiva per
l’insieme dell’umanità. Tesi affascinante, si è potuto affermare, ma
paradossale, e alla quale Tommaso risponde con una domanda molto
semplice: come si potrebbe rendere conto del fatto innegabile che
«quest’uomo particolare pensa (hic homo singularis intelligit)»? «Se
qualcuno pretende che l’anima non è la forma del corpo, dovrà
trovare il mezzo per spiegare come l’azione del pensare appartenga a
quest’uomo individuale. Ciascuno infatti sa per esperienza che è egli
stesso che pensa» 1<s. Noto
sotto il nome di «monopsichismo» (un’unica anima), questo errore

576 Vedere per es. SCG II58; I, q. 76, a. 3-4.


577 Per l’insieme di questi problemi, rinviamo al nostro Tommaso d’Aquino.
L'uomo e il teologo, pp. 214-218: «L’unicità della forma sostanziale».
578 I, q. 76, a. 1; cf. SCG II 59 n. 1362: «E in senso proprio e in tutta verità
che si dice che l’uomo pensa: poiché se possiamo cercare in cosa consiste la natura
dell'intelletto, è proprio grazie al fatto che noi pensiamo»-, cf. De unitate intellectus-,
«E evidente che quest’uomo singolare pensa (hic homo singularis intelligit)-, noi non
cercheremmo mai di sapere cosa è l’intelletto se non pensassimo». Ci troviamo qui
al centro dell’averroismo, così come è stato condannato dal vescovo di Parigi nel
1270: «Questa proposizione è falsa e impropria: l’uomo pensa» (Chartul. I, n. 432,
prop. 2, p. 487).
293
complesso e multiforme è attribuito ad Averroè da Bonaventura e
Tommaso, e da questi duramente combattuto contro alcuni loro
contemporanei579.
Non rientra nel nostro scopo ricordare qui i dettagli di queste
controversie, ma è importante scoprire la loro portata poiché, sotto la
loro apparenza puramente intellettuale, esse implicano delle
ripercussioni pratiche considerevoli. Sotto la rivendicazione di un
unico intelletto separato, Tommaso non ha alcuna difficoltà a
individuare l’elimi- nazione di ogni libertà e di ogni responsabilità
individuali visto che con l’intelligenza è proprio l’appetito
intellettuale, la volontà, che è messa in questione: «Conclusione
inaccettabile, che comporterebbe la rovina di ogni pensiero morale e
di ogni vita sociale» 580. Quanto all’opzione per una molteplicità di
anime all’interno di uno stesso individuo, non solo essa non rende
veramente conto dell’unità dell’essere umano, ma nasconde anche a
volte un celato disprezzo del corpo e, in ogni caso, compromette ima
serena valutazione del valore della creazione nel suo aspetto materiale.
Ora, su tutto ciò fra Tommaso ha un punto di vista nettamente più
positivo; se, come teologo, s’interessa innanzitutto all’anima, egli non
dimentica che essa è la forma di un corpo. Essendo la persona umana
il composto di anima e corpo, non si potrebbe considerare la salvezza
dell’ima senza l’altro581. La sua dottrina delle passioni è il punto in cui
si manifesta più direttamente la ripercussione di questa antropologia
sulla vita spirituale.

579 Vedere Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 218-222: «Il


De untiate intellectus»\ si aggiungerà anche Thomas d’Aquin, L’unité de Tintellect
contre les cwerroistes, suivi des Textes contre Averroès antérieurs à 1270, Testo latino,
trad. francese, introduzione..., a cura di A. DE LIBERA, Parigi 1994.
580 SCG II 60, n. 1374, in fine.
581 Non bisogna quindi comprendere male la dichiarazione
preliminare che apre il trattato dell’anima (I, q. 75, Prol. ): «Dopo lo studio della
creatura corporea, occorre passare allo studio dell’uomo che è composto di una
sostanza spirituale e di una sostanza corporea... Considerare la natura dell’uomo
appartiene al teologo per quanto concerne l’anima, non per quanto riguarda il corpo,
tranne nella relazione che esso intrattiene con l’anima». Non si tratta qui di una
dichiarazione di incompetenza, ma di una delimitazione di campo: in quanto tale, il
corpo dipende dal medico, ma nel suo legame con l’anima esso interessa giustamente il
teologo, e non tarderemo a constatarlo.
294
LE PASSIONI DELL’ANIMA

Se è ben noto il fatto che Tommaso colloca al punto di


partenza della sua considerazione morale il trattato della beatitudine,
e si preoccupa prima di tutto del carattere libero e morale degli atti
umani, è certamente meno noto il fatto che egli continua con lo
studio delle «passioni»; di fatto, si tratta di un passaggio della sua
opera che non ha molto attirato l’attenzione dei moralisti 582.
Conformemente alla concezione profondamente unificata che si è
fatta dell’uomo, Tommaso non si accontenta di considerare le sue
facoltà spirituali, intelligenza e volontà, e i loro atti, conoscenza e
volere, specifici dell’essere umano. Egli studia anche quegli atti che
sono comuni all’uomo e all’animale, data la loro comune natura
corporea, e che nell’uomo sono - o almeno dovrebbero essere -
integrati all’attività della mente. Secondo un parallelo
frequentemente ripreso, come la nostra conoscenza comincia con la
percezione sensibile, così le nostre prime reazioni soggettive
iniziano a livello dell’appetito (o dell’affettività) sensibile, ossia a
livello della tendenza naturale che orienta l’essere vivente verso il
suo bene (o ciò che gli sembra tale). Questa tendenza naturale si
trova anche, certo, a livello intellettivo, ed è ciò che si chiama la
volontà che tende verso il bene secondo la sua ragione universale di
bene; su questo dovremo ritornare 583. A livello dell’affettività
sensibile, al contrario, le reazioni si producono nei confronti dei beni
o dei mali particolari, e sono giustamente queste reazioni che
Tommaso chiama «passioni» perché il soggetto le subisce più che
esserne il maestro; esse appartengono ancora al campo
dell’involontario. Ciò significa affermare che il termine «passione»
non ha per Tommaso la sfumatura peggiorativa che ha per noi; esso
infatti evoca spontaneamente in noi esagerazione e smoderatezza. La
passione indica semplicemente il movimento della sensibilità; essa
582 Si vedrà tuttavia É. GILSON, Le Thomisme, Terza parte, cap. II: «Les pas-
sions», Parigi 19866, pp. 335-352; M.D. JORDAN, «Aquinas’s Construction of a
Moral Account of thè Passions», FZPT 33 (1986) 71-97; S. PiNCKAERS, «Les pas-
sions et la morale», RSPT 74 (1990) 379-391; e soprattutto E. SCHOCKENHOFF,
Bonum hominis. Die anthropologischen und theologischen Grundlagen der
Tugendethik des Thomas von Aquin, «Tübinger theologische Studien 28», Mainz
1987, il cui proposito consiste precisamente nel voler dimostrare il radicamento
della morale di Tommaso nella sua antropologia.
583 La sistemazione delle due tendenze affettive è fatta nella I, q. 80-81; si
vedrà anche De ueritate, q. 25, a. 1.
295
inizia con la più lieve impressione e si verifica in ogni movimento
affettivo, sentimento o emozione584.
Senza soffermarci troppo a descrivere il loro complesso
organismo - di ima finezza psicologica spesso sottolineata - occorre
almeno sapere che Tommaso discerne due grandi divisioni
nell’appetito sensibile. La prima, che chiama il «concupiscibile» (o
«bramosia»), è l’appetito di semplice tendenza che si rivolge verso
tutto ciò che si presenta come sensibilmente buono e si allontana da
tutto ciò che appare sensibilmente cattivo. E in riferimento a questo
oggetto che si osservano tre coppie di passioni contrarie: l’amore e
l’odio, il desiderio e l’avversione, la gioia e la tristezza. In secondo
luogo incontriamo «l’irascibile» (oggi si direbbe «l’aggressività», ma
questo termine non è abbastanza neutro per usarlo qui), che è al
contrario l’appetito di lotta, al quale è riservato il bene o il male
«difficili», «ardui», ed è proprio sotto questo aspetto che si rivolge
verso di essi. Qui non si distinguono più di due coppie di passioni: la
speranza e la disperazione, l’audacia e il timore, e inoltre la collera,
che reagisce al male che non posso evitare, e non ha passione
contraria585.
Ciascuna di queste passioni è suscettibile di suddivisioni e di
considerazioni più ampie, ma è più importante osservare il modo in
cui esse sono integrate alla vita propriamente umana e in seguito alla
vita cristiana. Se, per il loro radicamento, appartengono alla natura
animale dell’uomo, esse tuttavia non si limitano alla pura sensibilità
ed è dunque a giusto titolo che le si chiama passioni «dell’anima».
Lungi dal considerarle alla maniera degli stoici come delle «malattie
dell’anima» (l’espressione è di Cicerone), necessariamente da evitare
come cattive, Tommaso le considera piuttosto come un dato
psicofisiologico che in sé non è né buono né cattivo, ma di cui
possiamo fare buon uso se sappiamo orientarle rettamente:
«Gli stoici, considerando cattive tutte le passioni, erano
costretti ad ammettere che ogni passione diminuisce la bontà

584 Molto minuzioso, il trattato delle passioni si trova nella I-II, qq. 22-
48; si potranno leggere anche le annotazioni alla traduzione francese del buon
conoscitore qual era ALBERT PLÉ, in THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, t. 2, Ed. du Ceri,
Parigi 1984, pp. 169-299; dello stesso autore, Par devoir ou par plañir?, Parigi 1980;
L. MAURO, “Umanità" della passione in S. Tommaso, Firenze 1974; M.F. MÀNZANEDO, Las
pasiones o emociones según santo Tomás, Madrid 1984.
585 Oltre alla spiegazione di base sul concupiscibile e l’irascibile (I, q.
81, a. 2-3), si vedrà qui I-II, q. 23 per la narrazione di partenza sull’insieme delle
passioni, con l’illuminante quadro di A. Plé, op. cit., p. 181.
296
dell’atto umano, poiché il bene, amalgamandosi col male,
s’indebolisce o addirittura scompare completamente. Questo è
vero se le passioni non sono che dei movimenti disordinati
dell’appetito sensitivo, cioè dei disturbi o delle malattie. Ma se
denominiamo “passione” nient’altro che tutti i movimenti
dell’appetito sensibile, allora la perfezione del bene umano
implica che le passioni, anch’esse, siano moderate dalla
ragione» 586.
Questa moderazione occorre ben intenderla, poiché ciò che
significa «regola di ragione» non è evidente a prima vista 587. Nel
contesto in cui Tommaso l’impiega, e avremo altre occasioni per
rendercene conto, la ragione non è quella di un uomo lasciato alle
sole forze della sua umanità. Per il teologo, si tratta sempre di una
ragione illuminata dalla Parola di Dio, informata dalla legge divina,
fortificata dalla grazia, e impegnata ad operare tutte le energie
virtuose di cui dispone. Così intesa, e vedremo ciò più ampiamente a
proposito della coscienza, la ragione è per così dire il «ripetitore» del
disegno divino sull’uomo. L’obbedienza dell’appetito sensibile alla
regola della ragione è allora tutt’altro che la sottomissione all’ideale
ristretto di una misurata mediocrità, suggerito dalla debolezza della
mente umana abbandonata a se stessa. Infatti è l’apertura
dell’immagine alla somiglianza che postula il suo Esemplare divino.
Si comprende meglio allora la convinzione espressa nel testo appena
citato secondo il quale «la perfezione del bene umano» passa
mediante la correzione e l’integrazione delle passioni a livello della
vita della mente, e in seguito egli spiega il perché:
«Poiché il bene dell’uomo si fonda sulla ragione come sulla
sua propria radice, esso sarà tanto più perfetto quanto più si
comunicherà a un maggior numero di cose che competono
all’uomo. Nessuno dubita che, per il bene morale dell’uomo,
bisogna che gli atti esterni delle sue membra siano moderati
secondo la regola della ragione. Perciò, dato che l’appetito
sensibile può obbedire alla ragione 588, conviene alla per-
586 ITI, q. 24, a. 3.
587 Si potrà vedere la chiarificazione tentata da L. SENTIS, «La lumière dont
nous faisons usage. La règle de la raison et la loi divine selon Thomas d’Aquin»
RSPT79 (1995) 49-69.
588 Tommaso rinvia qui a un punto che ha stabilito precedentemente (cf. I
li, q. 17, a. 7) in cui spiega che il potere della ragione sull’appetito sensibile non è di
tipo “dispotico” (onnipotente), ma “politico” (relativo); ritorneremo su questo tema
un po’ più avanti.
297
fezione del bene morale, o umano, che le stesse passioni
dell’anima siano regolate dalla ragione.
Come, dunque, è cosa migliore che l’uomo, oltre a volere il
bene, lo compia anche effettivamente, così la perfezione del
bene morale esige che l’uomo non sia mosso al bene soltanto
dalla sua volontà, ma anche dal suo appetito sensibile, così
come si esprime il salmo (84, 3): “Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente”, il “cuore” essendo qui l’appetito
intellettivo, e la “carne” quello sensibile»21.

Non si può non essere colpiti dall’insistenza con cui viene


sottolineato il fatto che la perfezione morale dell’essere umano passa
attraverso l’integrazione delle passioni alla vita virtuosa. Si tratta
dell’assoluto riconoscimento del fatto che l’essere umano non è
costituito soltanto dall’anima, ma anche dal corpo e quindi dalla
sensibilità. Ritroviamo qui, lo si capisce subito, una ripercussione
della grande opzione antropologica ricordata all’inizio di questo
capitolo. In virtù dell’unità della forma sostanziale del composto
umano (è la stessa anima che è intelligente, volontaria e sensibile), i
movimenti della sensibilità non possono essere estranei alla vita
propriamente umana del soggetto. Essi diventano volontari per
partecipazione e saranno perciò buoni o cattivi a seconda che saranno
sottomessi o meno alle facoltà superiori, intelligenza e volontà. Ma in
nessun modo costituiscono una «quantità trascurabile», e la vita
morale o spirituale non può ignorarli. È l’intero uomo che dev’essere
cristianizzato; è con il tutto di se stesso che l’essere umano va verso
Dio 2S.

NATURA E CULTURA: LE VIRTÙ

La minuziosa analisi di fra Tommaso non rinuncia dunque mai


a considerare l’uomo nella sua totalità, e per questo egli si mostra così
preoccupato del suo radicamento carnale. Creatura di Dio perfino in
questa parte di se stesso che lo rende così vicino all’animale, è fino in
589 590

5891-II, q. 24, a. 3.
590 Si potrà leggere a tal proposito l’affascinante studio di M.-D. CHENU,
«Les passions vertueuses. L’anthropologie de saint Thomas», KPL 72 (1974) 11- 18,
che ha molto ben percepito ed espresso il legame tra l’unità della forma sostanziale e
la vita morale: si tratta di sapere se soltanto l’anima è virtuosa, oppure anche il
corpo, e dunque l’intero uomo nella sua unità.
298
questa parte di se stesso che l’uomo dev’essere evangelicamente
trasformato se un giorno dovrà giungere alla somiglianza divina a cui
è chiamato. Il teologo però resterebbe a metà del suo compito se non
si preoccupasse di spiegare le modalità di questo processo, così da
proporre allo stesso tempo il percorso di questa trasformazione.
Forse è qui che incontreremo una delle parti più originali della
teologia spirituale di fra Tommaso: la sua dottrina sulle virtù 591.
Per esprimere il controllo che la persona umana deve acquisire
sulle sue passioni, Tommaso parla normalmente delYimperium
(precetto, comando) esercitato su di esse dalla ragione e dalla
volontà. È questo un altro termine da ben comprendere poiché,
perfino intesa nel modo in cui l’abbiamo appena definita, la ragione
non esercita sulle potenze sensibili un potere assoluto. Molte reazioni
della sensibilità sfuggono al nostro controllo e il movimento
dell’appetito sensibile può scatenarsi improvvisamente sotto la spinta
di un’immagine o di una sensazione. Anche ciò che, teoricamente,
avrebbe potuto essere controllato se fosse stato previsto, può sfuggire
di fatto al controllo della ragione - ne facciamo spesso l’esperienza -.
Tommaso ricorda qui il detto di Aristotele, suo maestro in questo
campo: «Nei confronti del concupiscibile e dell’irascibile, la ragione
non esercita un potere “dispotico”, come quello del padrone sullo
schiavo, ma un potere “politico”, come quello che si rivolge agli
uomini liberi non sottomessi totalmente al comando»592.
Per tradurre ciò in termini più vicini a quelli della psicologia
moderna, si è proposto di parlare di un «desiderio riflesso» o di una
«intelligenza desiderante», per caratterizzare la duplice impresa
interattiva della ragione e della volontà sulle passioni. L'imperium
che ne deriva non bisogna intenderlo allora come un «comando» nel
senso in
591 Si vedrà un originale intervento sull’importanza di questa dottrina in
Tommaso, e per la stessa vita morale in O.H. PESCH, Tommaso d'Aquino. Limiti e
grandezza della teologia medievale, «Strumenti 54», Ed. Queriniana, Brescia 1994,
cap X: «Tommaso sul sonno e il bagno. L’amore e le virtù»; dello stesso autore, lo
studio di base resta: «Die bleibende Bedeutung der thomanischen Tugendlehre. Eine
theologiegeschichtliche Meditation», FZPT 21 (1974) 359-391 (versione abbreviata
in francese: «La théologie de la vertu et les vertus théologales», Concilium, n.
211,1987,105-126).
5921-II, q. 17, a. 7; cf. ARISTOTELE, I. Politica V, 6 (1254 b 5); lungi dall’igno- rare
che le passioni possono anche resistere e diventare ostacoli, Tommaso al contrario
ritorna spesso su di esse: oltre a I-II, q. 58, a. 2, che è il luogo più sviluppato, si può
vedere I-II, q. 31, a. 5 ad 1; q. 34, a. 1 ad 1; q. 82, a. 4 ad 1, ed il Commento all’Etica
a Nicomaco VII, 14 (1154 b 6-14), Leon., t. 47/2, pp. 437-438.
299
cui lo intenderebbe una morale legalistica implicata dalla nozione del
Dovere; si tratta piuttosto di armonizzare tutte le capacità di cui
dispone l’essere umano. «Esso esercita questa superiorità più come
un maestro d’orchestra che come un poliziotto. Quando san
Tommaso parla dell’influenza della carità sulle altre capacità umane,
parla d’attrazione (De cantate 3, risp. et sol. 18) oppure di chiamata,
di invito, di persuasione. Uinfluenza dell’amore di carità si esercita
come un addestramento dinamico, per far sì che le passioni siano
attirate da sole da un bene che le supera. In ogni modo, è tramite
questa influenza del desiderio-riflesso che le passioni “partecipano
alla ragione” (sol. 2). Perciò, per quanto complesso sia l’uomo, egli è
uno, ed è così che costruisce la sua unità. L’influenza del desiderio-
riflesso non diventa costrizione che allorquando la sua persuasione si
scontra con le passioni pervicaci»593.
Giustamente, questo testo sottolinea il ruolo fondamentale della
carità nell’integrazione delle passioni alla vita morale del cristiano;
inoltre, si sono riconosciuti qui gli stessi termini utilizzati in un
capitolo precedente per parlare della mozione-attrazione dello Spirito
Santo. Questo significa arrivare subito alla radice esplicativa
suprema; ma non sarebbe giusto se nei confronti della ricca
complessità dell’essere umano e di quella dell’elaborazione
tomasiana, si omettesse di precisare che questo controllo supremo
della mente sulle passioni è in realtà il frutto di una lunga
cristianizzazione, essa stessa accompagnata da una paziente
umanizzazione. Per questo non si ha carità senza le altre virtù,
costituendo queste stesse virtù ciò che.Tommaso chiama degli
«abiti».
Si vorrà scusarci se ritorniamo ancora su una piccola
spiegazione tecnica; la sua utilità non tarderà a manifestarsi. Come è
risaputo594, il termine latino habitus è la traduzione del greco exis, e
significa qualcosa che si ha (habere = avere), una qualità del corpo o
dell’anima, una disposizione della natura umana, capace di
svilupparsi mediante l’uso che se ne fa. Nelle nostre lingue moderne
non abbiamo parole per esprimere esattamente questa nozione
fondamentale; è necessario perciò mantenere «abito», anche se si
eviterà di tradurlo con «abitudine», giacché quest’ultimo termine
suggerisce piuttosto il contrario. Mentre l’abitudine è un meccanismo
593 A. PLÉ, nota alla I H, q. 24, THOMAS D’AQUIN, Somme
théologique, Parigi 1984, t. 2, p. 182, n. 3.
594 Cf. 0 nostro capitolo I, p. 22.
300
fermo, incapace di rinnovarsi, l’abito è al
contrario una capacità d’adattamento e di superamento sempre
nuova, che perfeziona la facoltà in cui nasce e le dà una perfetta
libertà di esercizio, fonte di un autentico diletto nell’agire. L’abito è
così il segno e l’espressione del pieno sviluppo della natura in una
certa direzione.
Si parlerà quindi di abito a proposito della maestria di un
artigiano o di un artista, la cui abilità tecnica confonde chi non la
possiede; il termine però conviene anche per designare delle qualità
proprie dell’intelligenza o della volontà. La scienza è così un abito
dell’intelligenza che procede dalla capacità propria dell’uomo di
apprendere e di dominare progressivamente le conoscenze di un dato
campo, sicché si qualificherà sapiente colui che possederà l’abito
corrispondente a tale campo di sapere. Ed egli sarà tanto più sapiente
quanto più perfettamente lo possederà, potendo penetrare così, quasi
giocando, in campi inaccessibili a coloro che non hanno quest’abito.
E proprio questa categoria che Tommaso impiega per spiegare
quel che è una virtù. Non è un peso imposto alla natura per domarla
suo malgrado a forza di ordini e di precetti che essa non potrebbe che
rifiutare, ma un perfezionamento supplementare che va nella linea
del suo vero compimento in quanto, a causa della sua creazione da
parte di Dio, la natura è già necessariamente orientata verso il bene.
Così mediante i suoi abiti virtuosi la persona è meglio ordinata verso
la beatitudine che costituisce il suo fine ultimo. Dedicandosi a
modificare il suo agire, in particolare nel campo istintivo delle
passioni le cui spinte divergenti rischiano di distruggerlo, l’uomo
riprende così in sé l’opera di Dio per condurre a termine
l’umanizzazione più perfetta possibile del suo essere mediante l’uso
della sua libertà. La natura umana non è pienamente se stessa se non
dopo essere stata educata e questo si ottiene precisamente con
l’impiego degli abiti buoni che chiamiamo «virtù»595.

595 Si possono avere anche degli abiti cattivi (vizi, peccati abituali) che, pur
sviluppando nella loro propria linea l’abilità perfettiva implicata nella nozione di
abito, si esercitano in una linea deviata rispetto al fine ultimo e quindi se ne
allontanano. Possiamo lasciare qui da parte l’argomento, ma si gradirà forse
conoscere il modo in cui questo aspetto delle cose è trattato nella Prima Secundae:
dopo le passioni (qq. 22- 48), viene il trattato degli abiti (qq. 49-54), poi quello delle
virtù (qq. 55-70), e infine quello dei peccati (qq. 71-89); sono questi che Tommaso
chiama i principi “interni” dell’agire umano; egli conosce anche dei principi
“esterni” che sono da una parte Dio stesso, che ci aiuta ad agire rettamente
istruendoci mediante la legge (qq. 90-108) e sostenendoci con la grazia (qq. 109-114),
301
Si comprende meglio allora la definizione che Tommaso
riprende volentieri: la virtù è un abito operativo buono, che rende
buono colui che lo possiede e buona l’opera che compie596. Questa
ripetizione insistente dello stesso aggettivo non è semplice
ridondanza: quest’abito orientato verso l’azione (operativo)
dev’essere buono, in quanto esistono abiti cattivi (i vizi); esso deve
permettere di compiere un’opera tanto buona o bella quanto è
possibile nel suo genere, poiché questa agilità superiore è legata alla
nozione stessa di abito; la virtù però possiede in più la singolarità di
rendere buono colui che l’esercita. Quest’ultima caratteristica è
essenziale per distinguere la virtù da ogni altro tipo di abito
operativo. Si capirà meglio stabilendo un parallelo tra l’arte e la virtù
di prudenza; l’una e l’altra sono delle virtù dell’intelletto pratico e
mirano a far esistere qualcosa. L’arte è necessaria all’artigiano per
realizzare ima bella opera secondo i canoni dell’arte, la prudenza è
necessaria all’uomo virtuoso per compiere una buona azione secondo
la norma del Vangelo. Sicché la loro definizione è quasi simile: l’arte
è la retta ragione, la giusta regola delle opere da realizzare (recta
ratio factibi- lium), la prudenza la retta ragione, la giusta regola degli
atti umani da compiere (recta ratio agibilium). Malgrado queste
somiglianze, la differenza è enorme: «L’arte non è necessaria
all’artigiano per “vivere bene”, ma soltanto per forgiare una buona
opera che duri. Mentre la prudenza è necessaria all’uomo non solo
per diventare buono ma anche per continuare a “vivere bene”»597.

LA GIOIA DI ESSERE SALVATO.

Questa distinzione tra «fare bene» (fabbricare) e «agire bene»


(vivere) è fondamentale per distinguere tra abito e virtù. Alla
semplice abilità evocata dalla nozione di abito, quella di virtù
aggiunge il perfezionamento morale ed è per questo che soltanto le
virtù morali meritano questo nome, mentre le virtù intellettive non lo
portano che impropriamente. Non è sufficiente conoscere il bene, ma
occorre compierlo; perciò «la sede della virtù propriamente detta non
può trovarsi che nella volontà o in un’altra potenza che sia mossa

dall’altra il diavolo, che spinge verso il male con la tentazione e di cui ha parlato
altrove molto brevemente (I, q. 114).
596 Cf.I-II, q. 55, a. 3.
597I-II, q. 57, a. 5, adì.
302
dalla volontà»598. Ed è
qui, come si vede, che raggiungiamo il trattato delle passioni, perché
nella misura in cui l’irascibile e il concupiscibile possono essere
volontari per partecipazione, in questa stessa misura potranno essere
la sede di virtù. La temperanza avrà così il compito di disciplinare il
concupiscibile, insegnandogli a resistere a tutto ciò che potrebbe
allontanarlo dal bene mediante l’impulso del piacere facile. La
fortezza avrà al contrario il compito di sostenere l’irascibile e di
aiutarlo ad affrontare l’ostacolo di fronte a tutto ciò che potrebbe
allontanarlo dal bene per timore o debolezza. In entrambi i casi, la
virtù fortifica la persona nel suo legame al bene, mentre il fatto di
cedere all’inclinazione naturale delle sue passioni la condurrebbe alla
dissoluzione.
Si comincia così a vedere come la virtù rende buono colui che
l’esercita. Contribuire a prevenire la disgregazione dell’essere
morale e a unificarlo in profondità fin nelle sue potenze sensibili
rappresenta già ima vittoria. Tuttavia occorre menzionare anche un
altro beneficio che per lo più passa troppo spesso inosservato.
Mentre un agire forzato provoca la tristezza in quanto è il risultato di
una violenza esternamente imposta599 600, l’agire virtuoso è al
contrario fonte di gioia. Questa è la diretta conseguenza della
spigliatezza con cui si utilizza l’abito virtuoso; lungi dal diminuire il
valore dell’atto, il piacere col quale lo si compie ne accresce al
contrario la facilità e il merito: «Più il soggetto opera con piacere,
dato il suo abito virtuoso, più il suo atto sarà piacevole e
meritorio»3S. Come osserva Tommaso con una certa insistenza
commentando Aristotele: «Le azioni compiute virtuosamente sono
naturalmente gradevoli. Bisogna ancora aggiungere che il diletto che
se ne ricava appartiene necessariamente alla virtù ed entra nella sua
definizione. Non si è buoni né virtuosi se non si trova la propria
gioia nel ben agire» 601. Evidentemente siamo molto lontani dal pio
slogan fino a poco tempo fa così diffuso: solo ciò che costa è
meritorio. Da ciò non necessariamente si concluderà che non bisogna
agire per dovere ma soltanto per piacere; è certo però che se si agisce

5981-II, q. 56, a. 3.
599 Cf. Quaestio de uirtutibus, a. 4.
600 Sent. Ili d. 23 q. 1, a. 1 ad 4, Quanto delectabilius operatur propter habi- tum
uirtutis, tanto actus eìus est delectabilior et magis meritorius.
601 Commento all'Etica a Nicomaco I, 13 (1099 a 17), Leon., t. 47/1, p. 47, linee
85-90.
303
con molto amore si troverà la propria gioia. La virtù è incompatibile
con la tristezza 602. Si farà attenzione a non dedurre dalla citazione di
Aristotele che Tommaso non ha altre fonti in questa materia; anzi,
egli ha saputo elaborare un bellissimo commento di un proverbio
citato da san Paolo ai Corinzi (1 Cor 9,7):
«"Dio ama chi dona con gioia”. Eccone il motivo. Colui che
ricompensa, ricompensa ciò che è degno, ossia soltanto gli atti
di virtù. Ora, in un atto virtuoso bisogna considerare due cose:
la specie dell’atto e il modo in cui l’agente lo compie. Ne
deriva che se una di queste due cose non si ritrova in un dato
atto, non si dirà che si tratta realmente (simpliciter) di un atto
virtuoso; così non sarà perfettamente giusto secondo la virtù se
non colui che compie le opere della giustizia con gioia e diletto.
Per gli uomini che vedono soltanto le apparenze, è sufficiente
che l’atto di virtù sia impostato quanto alla sua specie, ma per
Dio che scruta il cuore, ciò non è sufficiente, occorre ancora
che l’atto sia compiuto secondo la giusta maniera, ossia con
gioia e diletto. Perciò Dio approva e ricompensa non “colui
che dà” soltanto, ma colui che dà “con gioia”, non con
tristezza e controvoglia: "Servite il Signore nella gioia” (Sai
99); “Nelle tue offerte mostrati gioioso” (Sir 35, 11); "Che
colui che esercita la misericordia lo faccia con gioia” (Rm 12,
8)»41.
Si può aggiungere qui — ma è lungi dall’essere secondario, e
vedremo ben presto perché - che vi è un uso «intelligente» della virtù
che ne esclude ogni ristrettezza. La virtù non elimina soltanto la
tristezza, ma anche la meschineria. Tra le virtù annesse che fra
Tommaso collega alla virtù di fortezza, si trova ciò che egli chiama
la magnanimità, la grandezza d’animo. Molto poco conosciuta,
poiché non rientra nella catechesi corrente, questa virtù che stabilisce
«la misura della ragione nei grandi onori» riceve nella Somma un
trattamento molto ampio 42 Oltre all’eredità aristotelica (sottomessa
peraltro a seria critica), è la sua estrazione sociale che ha potuto
invitare Tommaso ad approfondire questo tema, non fosse altro che
per proporre ai suoi un codice di comportamento sociale. Per cui non
sarebbe possibile esagerare l’influenza di questo secondo fattore,
poiché non vi è alcun dubbio che Tommaso si fa dell’uomo un’idea a
misura del suo Creatore. Più l’uomo è grande, più lo stezza; così pure

602 Giustamente O.H. PESCH, Tommaso d‘Aquino (qui sopra, nota 29), pp. 235
ss., ha osservato che nessun’altra passione è trattata con tanta ampiezza quanto la tri-
304
Tommaso tratta molto seriamente dell’omonimo peccato: quello che si oppone alla
gioia che viene da Dio è chiamato «accidia», quello che si oppone alla gioia che viene
dal bene del prossimo si chiama «invidia» (cf. II-II, qq. 35-36).
41
In ad 2 Cor. 9,7, lect. 1, n. 332.
42
2-II, qq. 129-133.
è anche Dio. La coscienza della sua piccolezza dinanzi a Dio non
elimina, la coscienza della sua grandezza; per questo l’umiltà
dev’essere accompagnata dalla magnanimità. Per i cristiani, l’umiltà
esercita sì la sua moderazione a tutti i livelli, fino al punto in cui
umiltà e magnanimità confluiscono nella nozione di speranza
teologale (a quale più grande onore si potrebbe aspirare rispetto a
quello di condividere la comunione trinitaria?) 603. Ma resta rilevante
il fatto che la virtù si trovi dalla parte della grandezza e i vizi opposti
si chiamino pusillanimità e meschineria604.

LA VIRTÙ PERFETTA
Con la fortezza e la temperanza abbiamo potuto constatare come
san Tommaso s’impegni a presentare la cristianizzazione dell’uomo
fin nelle sue potenze primordiali dell’affettività. Osservazioni del
genere sarebbero incessantemente riproponibili; non esiste nessun
campo dell’attività umana che non si presti alla comparsa di nuovi
abiti e dunque all’esercizio di virtù. Fortezza e temperanza sono delle
virtù di disciplina personale perché il loro oggetto consiste
nell’assicurare un giusto rapporto della persona alle sue proprie
reazioni affettive, alle sue passioni. Ma non sono che le ultime due
delle virtù dette «cardinali» 605; le prime due virtù che portano questo
nome sono da una parte la prudenza, di cui parleremo ben presto,
dall’altra la giustizia, che ha come preciso oggetto la regolazione
603 Rinviamo qui al capolavoro di R.-A. GAUTHIER, Magnanimité. L’idéal de b
grandeur dans la philosophie pai'enne et dans b théologie chrétienne, «Bibl. (Forniste
27», Paris 1951, pp. 295-371 e soprattutto pp. 443-465.
604 Cf. n-H, q. 133; pusillanimitas porta proprio lo stesso nome sia in
latino che in italiano; seguendo molti altri abbiamo tradotto con «meschineria»
(mesqui- neria in orig.) quella che Tommaso indica come parvificentia [che potremmo
rendere in italiano con «piccineria», n. d. tr. ]. La meschineria si oppone in realtà alla
magnanimità (cf. II-II, qq. 134-135), ma restiamo proprio nella stessa attitudine
d’animo. La vedova del Vangelo (Le 21, 2-4) che offre tutto ciò che possiede agisce
con grandezza; il carattere modesto della sua offerta non muta niente.
605 L’aggettivo «cardinale», come si sa, deriva dal latino cardo (= cardine);
questo significa che l’intera vita morale ruota intorno a queste quattro virtù di base,
che reggono così anche i campi maggiori della vita umana e cristiana.
305
obiettiva delle operazioni della persona non più in rapporto a se
stessa, ma in rapporto a ciò che deve agli altri, sia alle persone sia alla
società. Ne riparleremo nel capitolo seguente dove tratteremo
maggiormente della dimensione sociale dell’essere umano.
Se queste quattro virtù morali con i loro annessi costituiscono
un dato umano universalmente valido (ragion per cui abbiamo
iniziato con esse), tuttavia non sono le uniche che il teologo conosce.
Se l’uomo non avesse altra vocazione che quella di un essere
abbandonato alle sue sole forze naturali, queste indubbiamente
sarebbero state sufficienti ad assicurare la sua realizzazione personale
e comunitaria. La rivelazione cristiana c’insegna però che siamo
chiamati a una beatitudine che supera le capacità dell’uomo e che
Dio vi ha per così dire adattato la natura umana rendendola
«partecipe della natura divina» (cf. 1 Pt 1, 4). Allo stesso tempo egli
ci ha dato nuovi abiti virtuosi proporzionati a questo fine
soprannaturale, affinché fossimo convenientemente equipaggiati per
giungervi. Si tratta dunque delle virtù «teologali», dette così per tre
motivi: primo, perché hanno direttamente Dio (theos) per oggetto;
secondo, perché egli ne è l’unica causa (secondo il termine tecnico,
esse sono «infuse» in noi soltanto da lui); terzo, perché non ne
conosciamo l’esistenza se non mediante la rivelazione divina nella
Sacra Scrittura606.
Tutto il nostro sforzo in questo libro è così chiaramente
collocato sotto il segno della vita teologale che non ci sarebbe
bisogno di soffermarci qui su questo aspetto 607. Si osserverà tuttavia
all’occasione che se il Maestro d’Aquino tratta dettagliatamente delle
virtù teologali soltanto nella Secunda Secundae, il semplice fatto che
ne sottolinei ivi la loro necessità, mostra proprio che la sua
intenzione nella Prima Secundae non è mai stata quella di riprendere
in se stesse le strutture di una morale ereditata dall’antichità pagana,
come a volte gli si rimprovera. Come ovunque d’altronde, tutto ciò
che egli deve ad Aristotele o a vari pensatori, stoici o d’altro genere,
è radicalmente trasformato, per non dire sovvertito dall’interno, per il
semplice fatto dell’identificazione con il Dio di Gesù Cristo del Bene

606 Si è riconosciuta l’argomentazione della I-II, q. 62, a. 1; a questo


punto, l’autore si accontenta di collocare le virtù teologali nel complesso organismo
delle altre virtù; egli vi ritorna in dettaglio nella Secunda Secundae, dove
l’elaborazione della fede, della speranza e della carità occupa le prime 46 questioni,
mentre le virtù cardinali sono riprese in seguito.
607 Vi ritorneremo peraltro nel cap. XIII.
306
che ogni uomo persegue senza nemmeno conoscerlo 608. Per questo il
riferimento a tale fine comanda inevitabilmente non solo la comparsa
di nuove strutture, in questo
caso le virtù teologali, ma anche la trasformazione di strutture esistenti.
Si può notare ciò anche a partire da un altro fatto altrettanto
significativo: dopo avere spiegato con cura la struttura degli abiti e
delle virtù morali, Tommaso non le abbandona a se stesse; nella
convinzione che non vi può essere una perfetta realizzazione umana
senza la grazia, egli vuole che ciascuna virtù sia abbinata a una virtù
morale infusa, il cui ruolo consiste nello sposarne il movimento
dall’interno per condurla alla massima perfezione raggiungibile
quaggiù. Questo non esclude che altri cristiani possano pervenire a un
altissimo valore morale mediante la pratica continua di atti che
sviluppano le attitudini innate di un’umanità creata da Dio per il bene,
ma ciò vuol dire sicuramente che agli occhi di Tommaso - e di ogni
teologo che avrà preso coscienza del carattere radicalmente
sproporzionato dello sforzo dell’uomo al cospetto di Dio - «soltanto le
virtù infuse sono veramente perfette e devono essere chiamate virtù,
poiché ordinano l’uomo al fine assolutamente ultimo»609.

LA VIRTÙ DEL RISCHIO

Per terminare questa descrizione, seppure appena abbozzata,


dell’organismo virtuoso così come lo concepisce san Tommaso, resta
quindi da dire qualcosa a proposito di ciò che, con la sua concezione
degli abiti, costituisce certamente una delle sue tesi più originali. Si
tratta della sua dottrina della prudenza alla quale tra tutte le virtù
accorda un posto del tutto eccezionale. La cosa può sorprendere in
quanto, nella lingua corrente, la prudenza evoca piuttosto un
atteggiamento timoroso e addirittura negativo di fronte all’azione.
Nella prospettiva tomasiana la prudenza è al contrario la virtù della
scelta e della decisione, della responsabilità personale, del rischio
coscientemente assunto. Spetta ad essa concludere il processo
deliberativo osando prescrivere l’agire in una determinata situazione,
ogni volta singolare, e che non si ripeterà mai allo stesso modo.

608 Si vedrà il nostro saggio: «La philosophie morale de saint Thomas


d’Aquin», in M. CANTO-SPERBER, ed., Dictionnaire d’Éthique et de Philosophie morale, Paris
1996 (di prossima pubblicazione).
6091-H, q. 65, a. 2.
307
Perciò Tommaso non ha qui nessun tipo di esitazione:
«La prudenza è la virtù più necessaria alla vita umana. H vivere
bene consiste infatti nell’agire bene. Ora, per agire bene occorre
non solo
fare qualcosa, ma anche farlo come si deve, ossia bisogna agire
secondo una scelta ben ponderata e non soltanto per impulso o
passione. E poiché la scelta riguarda i mezzi indirizzati a un
fine, la, sua rettitudine esige due cose: un giusto fine (debitum
finem) e i mezzi ad esso proporzionati. .. Per quanto riguarda i
mezzi, è necessario esservi diretta- mente predisposti da un
abito della ragione, poiché deliberare e scegliere - operazioni
relative ai mezzi — sono atti della ragione. Perciò è necessario
che vi sia nella ragione una virtù intellettuale che le dia
abbastanza perfezione per ben comportarsi nei riguardi dei
mezzi da utilizzare. Questa virtù è la prudenza. Ecco perché la
prudenza è una virtù necessaria per vivere bene» 610.
Non occorre più spiegare il perché la virtù in generale è
necessaria per «vivere bene», ma bisogna ben comprendere ciò che
apporta qui la prudenza. Innanzitutto è mediante essa che si
attribuisce all’intelligenza tutto il suo posto nell’organismo virtuoso.
L’abbiamo già detto: le virtù sono vissute nell’affettività umana, con
le sue motivazioni, i suoi desideri e le sue avversioni, i suoi piaceri e
le sue tristezze, e perciò la loro sede si trova nella volontà che ha il
privilegio di muovere, di mettere in movimento tutte le altre potenze
dell’anima. Non è possibile però dedurre da ciò l’affermazione di un
volontarismo chiuso all’opposto del pensiero reale di Tommaso, che
al contrario parla incessantemente della retta regolazione che la
ragione deve esercitare sulla vita umana. L’idea del desiderio-riflesso
o dell’intelligenza-deside- rante già incontrata, vuole precisamente
esprimere questa interazione dell’intelligenza e della volontà nella
condotta degli affari umani. Ora, con la prudenza è questo che
ritroviamo con molta chiarezza:
«La virtù morale può ben esistere senza alcune virtù
intellettuali, per esempio la sapienza, la scienza, l’arte, ma non
può esistere senza l’intelligenza 611 né senza la prudenza. Senza
prudenza non si possono veramente avere virtù morali, poiché
610 I-II, q. 57, a. 5; cf. C.-J. PiNTO DE OLIVEIRA, «La prudence, concept-clé de la
morale du P. Labourdette», RT 92 (1992) 267-292.
611 L’intelligenza è qui l’abito della conoscenza del vero per intuizione
diretta, detto anche abito dei primi principi, cf. I-II, q. 57, a. 2.
308
la virtù morale è un abito “elettivo" (electiuus), cioè fatto per
fare buone scelte. Ora, affinché una scelta sia buona occorrono
due cose. Primo, che si abbia nei confronti del fine l’intenzione
richiesta, e questa è l’opera della virtù morale che inclina
l’appetito verso un bene in armonia con la ragione, cioè al fine
richiesto; secondo, che si utilizzino correttamente i mezzi in
vista del fine, e ciò non lo si può fare se non mediante una
ragione che sappia ben consigliare, giudicare e comandare, ciò
che compete alla prudenza e alle virtù annesse. Dunque non
possono esserci virtù morali senza la prudenza,
E quindi neppure senza intelligenza è possibile avere virtù
morali. Infatti è mediante l’intelligenza che sono conosciuti i
principi naturalmente evidenti sia d’ordine speculativo che
d’ordine pratico. Perciò, come in campo speculativo la retta
ragione, che argomenta da quei principi, presuppone
l’intelligenza dei principi naturalmente conosciuti, così la
presuppone la prudenza, che è la retta ragione, la giusta regola
degli atti da compiere (recta ratio agibilium)»612.
E chiaro, l’intelligenza di cui si parla qui è inerente allo spirito
umano; i grandi principi nei quali coglie se stessa sono accessibili a
tutti e non riservati ad un gruppo istruito o raziocinante.
All’obiezione secondo la quale non è necessario essere sapienti per
essere virtuosi e che quindi la virtù morale può esistere senza la virtù
intellettuale, Tommaso replica senza alcuna difficoltà:
«Nei virtuosi non è necessario che l’uso della ragione sia
vigoroso in tutti i campi, ma soltanto in quello della virtù. E ciò
è quanto accade presso tutti coloro che sono virtuosi. Così,
perfino coloro che hanno l’aspetto semplice in quanto sono
sprovvisti dell’astuzia del mondo, possono essere prudenti,
secondo quanto afferma il Vangelo (Mt 10,16): “Siate prudenti
come i serpenti e semplici come le colombe”» 613.
Queste precisazioni sono meno anodine di quanto si potrebbe
credere. Il rinvio a san Matteo situa Tommaso nel campo del
Vangelo, distinguendolo così da quello di Socrate, secondo il quale è
l’intellettuale che costituisce il morale, al punto tale che le nostre
abitudini dipendono dalla nostra scienza614. Ma se non vuole che la

6121-II, q. 58, a. 4.
613551-II, q. 58, a. 4 ad 2.
614 Tommaso evidentemente ci pensa, cf. I-II, q. 58, a. 2 et ad 2, come pure q.
58, a. 4 ad 3.
309
virtù morale s’identifichi con la regola della ragione, Tommaso non
vuole nemmeno che si riduca la virtù ad un’inclinazione al bene
puramente irrazionale; essa si potrebbe rivelare tanto più pericolosa
quanto più sarebbe forte. «Perciò la virtù morale non solo segue “la
retta ragione”, nel senso che
inclina a ciò che è conforme a questa regola, come hanno affermato i
platonici, ma si richiede inoltre che essa sia “accompagnata dalla
ragione”, come vuole Aristotele»615.
Ancora una volta è dunque la forte visione dell’unità
sostanziale dell’uomo che si esprime così: come questi non è
un’intelligenza più o meno accidentalmente unita all’animalità della
sua natura, così, a maggior ragione, non è pura volontà senza
intelligenza né viceversa. Soltanto questa luce permette di
comprendere il posto centrale che Tommaso accorda alla prudenza e
che egli esprime nella tesi fondamentale dell’armonia delle virtù, o,
come afferma nel suo linguaggio, della loro «connessione» sotto
l’egida della prudenza: «Non può esserci nessuna virtù morale senza
la prudenza... Similmente non ci può essere la prudenza senza le
virtù morali». Il motivo è lo stesso offerto precedente- mente: se le
virtù ci orientano rettamente verso il fine, è alla prudenza che spetta
scegliere i giusti mezzi in vista del fine616.
In verità, la tesi in se stessa non è nuova e Tommaso la eredita
da una tradizione patristica che san Gregorio già enunciava: «Le
virtù non possono essere perfette se sono disgiunte: infatti la
prudenza non è autentica se non è giusta, temperante e forte» 617. La
novità risiede qui nell’esigenza e dunque anche nella forza
dell’elaborazione. Abbiamo appena dimostrato che la virtù «rende
buono» colui che la possiede; diremmo che costruisce l’essere
virtuoso. Ma questo non è possibile se non perché è il soggetto stesso
che agisce con le sue virtù, cosicché lungi dall’ignorarsi, esse
interferiscono nelle loro azioni e si aiutano l’una con l’altra, ciascuna
avendo bisogno dell’altra per raggiungere il proprio scopo. Per
riprendere un’immagine già utilizzata, ciascuna virtù può essere
paragonata agli strumenti di un’orchestra la cui armonizzazione è
precisamente l’opera della prudenza. L’unificazione dell’essere sotto
l’impulso di una virtù maggiore risponde infatti a una provocazione
615 I-II, q. 58, a. 4 ad 3.
616561-II, q. 65, a. 1.
617 Moralia in Job XXII1, 2 (CCSL 143 A, pp. 1092-1093; PL 76, 212), citato inl-
II, q. 65, a. 1.
310
nata da un fatto d’esperienza: le passioni sono esse stesse legate tra
di loro, «poiché tutte le passioni derivano da alcune che sono
principali, ossia l’amore e l’odio, e sfociano in altre, cioè il piacere e
la tristezza. Parimenti, tutte le operazioni che sono materia della virtù
morale hanno un legame tra loro e
anche con le passioni. Perciò tutta la materia delle virtù morali ricade
sotto un’unica nozione di prudenza» 618.

PRUDENZA E CARITÀ

Non lo si può non osservare: ancora ima volta è la concezione


di partenza dell’unità sostanziale dell’essere umano che comanda
diretta- mente questa nuova tesi. Tuttavia, dopo quanto abbiamo
appena detto sulle virtù teologali, si intuisce facilmente che la
connessione delle virtù morali operata dalla prudenza non è in realtà
che una tappa intermediaria e che, di fatto, non accade isolatamente.
La tappa definitiva dell’unificazione dell’essere cristiano è realizzata
dalla carità. E ciò a un duplice livello: quello della prudenza e delle
virtù infuse certamente, ma soprattutto quello delle virtù teologali.
Infatti, Tommaso fa giocare alla carità, a un livello superiore, lo
stesso ruolo architettonico che attribuisce, al suo livello, alla
prudenza. Il motivo è sempre lo stesso: soltanto la carità mette
l’uomo all’altezza del suo vero fine. Per questo, senza contestare la
possibile esistenza di virtù umane senza la carità, egli persiste
nell’insegnare che la vera virtù, così come la intende il teologo
cristiano, non può esistere senza di essa poiché le virtù non possono
compiersi senza la prudenza infusa, la quale a sua volta non può
verificarsi senza carità619.
H contrario è altrettanto vero: la carità non può procedere senza
le virtù morali, e per questo le porta con sé: «Con la carità sono
infuse contemporaneamente tutte le virtù morali» 620. Questa nuova
affermazione non è sorprendente se non di primo acchito; essa è
facilmente spiegabile se ci si ricorda che Dio non fa le cose a metà:
con l’amore del fine ultimo, la carità, egli dona simultaneamente la
conoscenza di tale fine, la fede, il suo desiderio, la speranza, e i
mezzi per giungervi, le virtù. La tesi non è quindi gratuita, ma non

618I-n, q. 65, a. 1 ad 3.
619I-H, q. 65, a. 2.
620I-II, q. 65, a. 3.
311
bisogna fraintendere. Essa non vuole dire che le virtù infuse ci
dispensano da ogni sforzo o che esse si praticano senza difficoltà.
Niente di più estraneo al pensiero tomasiano che un quietismo di
bassa lega; il dono della grazia esige
sempre la collaborazione dell’uomo. Si può avere in germe l’abito di
una virtù e non servirsene, o almeno non facilmente. Ma in questa
prospettiva fondamentalmente unificata che presiede alla concezione
dell’uomo secondo Tommaso, ciò significa proprio che con la carità
ci sono dati i mezzi di cui essa ha bisogno e che perdere la carità
significa perdere contemporaneamente tutti questi mezzi.
Non possiamo inoltrarci molto di più nella questione della
connessione delle virtù teologali che Tommaso abbozza in seguito a
quella delle virtù morali; la riprenderemo più ampiamente in un
capitolo seguente. Qui bisogna semplicemente osservare che la
collocazione della carità al vertice dell’organismo virtuoso e la
precisazione che la beatitudine consiste nella comunione con Dio,
trasformano insieme la nozione astratta di fine ultimo di cui egli si
era servito fino a quel momento per comodità di elaborazione
sintetica. Questa nozione riceve ormai il suo contenuto più concreto:
la vita nell’intimità con Dio promessa da tanti testi biblici. Ma dato
che restiamo nel trattato delle virtù, ossia in una prospettiva
d’escatologia in via di realizzazione, occorre nuovamente
sottolineare il fatto che Tommaso ricorda anche che si tratta qui di
una consumazione da realizzarsi ancora. Dal radicamento carnale del
nostro punto di partenza, al momento in cui «gli saremo simili poiché
lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2), il cammino passa
attraverso una lunga conquista, quella della spontaneità dei nostri
abiti virtuosi.

312
XII
Senza amici, chi vorrebbe vivere?

A questa domanda che incontra leggendo Aristotele, Maestro


Tommaso risponde con la stessa convinzione del Filosofo: in
qualsiasi situazione o età, «l’amicizia è quanto vi è di più necessario
per vivere» 621. Ma se per entrambi si tratta di una scelta
fondamentale, la cui importanza appare ancora meglio considerata la
sua estensione, per il cristiano latino riveste una pienezza di senso
che non poteva esserci presso il pensatore greco.
Per Aristotele, il termine pbilia ha una senso molto più ampio di
quanto possa avere per noi quello di «amicizia». Secondo uno dei
migliori interpreti, «questo termine esprime... ogni sentimento
d’affetto o di legame che si prova verso gli altri, sia spontaneo sia
riflesso, dovuto alle circostanze o alla libera scelta: amicizia
propriamente detta, amore, benevolenza, beneficenza, filantropia. Si
tratta insomma di altruismo, di socievolezza. L’amicizia è il legame
sociale per eccellenza, che mantiene l’unità tra i cittadini di una
stessa città, o tra i compagni di un gruppo, o tra i soci di un affare»
622
. Le prospettive così aperte sono quindi molto vaste, in quanto il
termine ingloba sia l’amicizia elettiva tra due persone che l’insieme
della vita sociale e politica623.
Per Tommaso d’Aquino, philia si traduce con amicitia, che noi

621 Si sa che Aristotele ha consacrato all’amicizia due interi libri della sua
Etica a Nicomaco (libri VIH e IX, 1155-1172), che san Tommaso ha interamente
commentato (Leon., t. 47/2, pp. 442-549) e dai quali ha ripreso numerosi elementi
impiegati nelle sue opere; per la citazione vedere libro Vili, 1, pp. 442-444.
622 J. TRICOT, ARISTOTE, Ethique à Nicomaque. Nouvelle traduction, avec
introduction, notes et index («Bibliothèque des textes philosophiques»), Paris 1959, p.
381.
623 Poiché non riparleremo della relazione interpersonale, rinviamo fin
d’ora a due studi in cui è descritta la posizione di Tommaso con equilibrio e
acutezza: W.H. PRINCIPE, Affectivity and the Heart in Thomas Aquinas’ Spirituality, in
Spiritualities of the Heart. Approaches to Personal Wholeness in Christian Tradition,
313
poi traduciamo con «amicizia». Se per lui il termine conserva tutte le
risonanze di cui l’aveva caricato Aristotele, esso ne riveste anche
altre provenienti dalla tradizione latina (Cicerone soprattutto) riletta
dai monaci del XII secolo, san Bernardo per primo 4. Anzi, egli stesso
farà subire al termine un vero cambiamento definendo la carità
un’amicizia tra Dio e l’uomo. È vero però che l’autorità a cui ci si
riferisce in questo caso non è più Aristotele, ma san Giovanni (15,
15): «Non vi chiamo più servi, ma amici». Se il Filosofo continua a
fornire la struttura della definizione, tuttavia i suoi elementi sono
completamente trasformati poiché il bene intorno al quale si
stabilisce questa comunione tra Dio e gli uomini, e tra gli uomini
stessi, è la vita divina comunicata mediante la grazia 5.
Collocare questo capitolo sotto il segno dell’amicizia significa
allora aprire alle nostre considerazioni un campo estremamente vasto
che non potrà essere sfruttato a fondo, ma che occorre almeno
segnalare dato che con la natura sociale dell’uomo tocchiamo un
aspetto fondamentale della vita spirituale alla scuola di san
Tommaso. Costui non pensa mai l’uomo in quei termini
individualistici che sono prevalsi nella nostra civiltà occidentale fin
dal Rinascimento e dalla Riforma. Egli lo considera sempre come un
essere impegnato nella comunità dei salvati, indifferentemente
chiamata ecclesia o populus, comunità dei fedeli di Cristo
(congregano fidelium), comunione dei santi (societas sanctorum) o
Corpo mistico di Cristo - senza mai sradicarlo, certo, dalla grande
famiglia umana di cui è membro per nascita.
Nella prospettiva aperta dal nostro capitolo sui valori della
creazione, ci si atterrà quindi maggiormente all’aspetto sociale
dell’amici-

A. CALLAHAN (ed.), New York/Mahwah 1990, pp. 45-63; Loving Friendship According
to Thomas Aquinas, in The Nature and Pursuit of Love. The Philosophy oflrving Singer,
D. GoiCOECHEA (ed.), Amherst, NY 1995, pp. 128-141.
4
J. MCEVOY, Amitié, attirance et amour chez S. Thomas d’Aquin, RPL 91 (1993)
383-408, fa notare (p. 399) che né il De amicitia di Cicerone, né l’opera di
Aelredo di Rievaulx sono mai citati da Tommaso; è possibile che egli non abbia
nemmeno conosciuto il secondo, a causa del cambiamento d’interesse provocato
dalla massiccia introduzione di Aristotele nel secolo XIII.
5
Vedi II-II, q. 23, a. 1; l’Etica a Nicomaco non è citata meno di cinque
volte in questo articolo; oltre a san Giovanni, Tommaso si richiama a san Paolo
il Cor 1, 9) per riprendere da lui il vocabolario di cui ha bisogno per esprimere la
communi- catio tipica della carità: «E fedele il Dio dal quale siete stati chiamati

314
alla comunione del Figlio suo»; la societas della Volgata traduce, come si sa, la
koinònia di Paolo e di Aristotele.
zia. Il grande principio secondo cui la grazia non distrugge la natura
ma la guarisce e la conduce alla sua piena realizzazione, trova anche
qui la sua applicazione. Se si vuol seguire san Tommaso ed essere
fedeli alla sua concezione dell’uomo nella sua interezza, non è
possibile prescindere dal fatto che la società in cui la persona umana
è chiamata a realizzarsi non è soltanto la Chiesa come luogo di
salvezza, ma sono anche le diverse comunità umane nelle quali essa
è implicata. E non solo la famiglia, di cui si è già molto parlato in
teologia spirituale, ma ancor più la città terrena la cui importanza non
è minore e di cui tuttavia si parla meno, mentre le sue leggi possono
facilitare in misura considerevole la buona vita cristiana o al
contrario ostacolarla in maniera decisiva - non fosse altro che per la
formazione delle mentalità.
Di primo acchito, questa questione potrà sembrare un po’ fuori
luogo nella prospettiva di una teologia spirituale. Eppure non lo è. Se
è vero che il destino dell’uomo può compiersi definitivamente in Dio
solo, è altrettanto vero che tale uomo noti raggiunge il suo fine
ultimo se non in seno ad una comunità (famiglia, società, Chiesa), e
che esiste per lui un modo di comportarsi all’interno di questa
comunità che può rivelarsi più o meno coerente con la sua profonda
natura. Certamente non tutti i cristiani sono chiamati ad impegnarsi
allo stesso modo socialmente o politicamente al servizio dei loro
fratelli, ma nessuno è dispensato dal partecipare alla vita dello Stato -
non fosse altro che mediante l’esercizio del suo diritto di voto 624 -, e
Tommaso a questo proposito ha da dire a ciascuno qualcosa. Come
tanti pensatori successivi a sant’Agostino, egli considera il cristiano
come membro di due città, ma, ancor meglio di molti tra questi, egli
sa rispettare la finalità propria della città terrena e collegarla alla
natura stessa dell’uomo. Ha un modo di distinguere tra temporale e
spirituale che può ancora aiutare ad evitare le possibili interferenze di
cui molti secoli hanno sofferto. Vi è in lui un’etica sociale e politica
strettamente legata alla sua concezione della morale personale -
come dire alla sua spiritualità — che trova la sua espressione perfino
nel modo in cui concepisce il posto del cristiano nella Chiesa e la

624 Si possono citare molti casi che non possono lasciare indifferente alcun
cristiano, nemmeno se vivesse in un monastero; si pensi soltanto alla difesa della
vita e alla lotta contro le legislazioni che favoriscono l’aborto, al rifiuto
dell’esclusione sociale, al contributo per sostenere la pace, ecc.
315
partecipazione di tutti al governo dello Stato. Sono questi i temi che
saranno proposti alla meditazione nelle pagine seguenti.

316
UN ANIMALE «POLITICO»

A colui che si sorprendesse nel vederci addentrare in questi


discorsi, sarà sufficiente ricordare che Tommaso stesso ci mette su
questa via con il suo modo di parlare dell’uomo come essere
«sociale». Nella teologia della vita religiosa si cita spesso un detto
molto caratteristico che forma una vera perorazione per la vita
comunitaria opposta all’eremitismo: giacché non è «né bestia, né
dio», l’uomo deve vivere in compagnia dei suoi simili 625. Come si sa,
è da Aristotele che Tommaso riprende il fatto che l’uomo è un
«essere destinato per natura a vivere in comune» (physei politikon
zóon), ciò che normalmente si traduce, rischiando di sbagliarsi, con
«animale naturalmente politico». Riprendendo l’espressione per
proprio conto, il Maestro d’Aquino sottolinea fortemente, in termini
molto simili a quelli del Filosofo greco, che se così non avvenisse,
un tale uomo o godrebbe di un’umanità superiore a quella dei
comuni mortali così come sono stati certi santi, Giovanni Battista o
Antonio l’eremita, oppure sarebbe un degenerato, meno di un uomo.
Per Aristotele, che cita Omero, un tale uomo non possiede «né clan,
né legge, né focolare», e Tommaso commenta: egli è «“insociale”, in
quanto non unito tramite il legame dell’amicizia; “illegale”, in
quanto non sottomesso al giogo della legge; “scellerato”, in quanto
non controllato dalla regola della ragione»626.
La fedeltà a questa opzione aristotelica non impedisce a
Tommaso di correggerla discretamente e di prendere perfino una
certa distanza nei suoi confronti. Il lettore attento non può non
osservare una certa mobilità di vocabolario: l’autore a volte dice
«animai ciuile»627, a volte «animai politicum» 628, a volte ancora
625 II-II, q. 188, a. 8 ad 5; l’espressione è tratta da ARISTOTELE,
Politica I, 2, 14 (1253 a 29); nello stesso luogo (1253 a 7), Aristotele aggiunge
ancora: «colui che è senza città è, per natura e non per caso, un essere o
degradato o superiore all’uomo»; vedere il commento di TOMMASO: Sententia
libri Politìcorum I, 1/b, Leon., t. 48, p. A 78-79.
626 Sententia libri Politicorum I, 1/b, Leon., t. 48, p. A 78; gli esempi di
Giovanni Battista e di Antonio sono citati anche in II-II, q. 188, a. 8.
627 È il linguaggio quasi esclusivo del commento alla Politica (sei volte
su sette, di cui cinque volte nel cap. 11/b, Leon., t. 48, p. A 78-79); la settima
ricorrenza si trova nel commento all ’Etica I, 9, Leon., t. 47/1, p. 32.
628 Sembra che sia il termine usato da Tommaso spontaneamente
quando non è legato al commento di Aristotele (sette volte su undici), sebbene
lo usi nei suoi commenti all’Etica Vili, 12 (1161 b 17) e IX, 10 (1169 b 18),
Leon., t. 47/2, pp. 488 et 536; infatti la traduzione latina a questo punto dice
317
UN ANIMALE «POLITICO»

«animai politicum et

proprio politicum.
318
sodale» n. Sei primi due termini si spiegano facilmente mediante le
differenti traduzioni che aveva a portata di mano, il terzo, molto
spesso usato da solo 629 630, sembra corrispondere proprio a una scelta
personale e rivela un’altra influenza, diversa da quella di Aristotele.
Sodale traduce infatti koinònikon, termine di cui si servivano gli
stoici per dire che l’uomo non è soltanto cittadino di un’unica città,
ma delYoikoumenè, il mondo allora abitato. Ciò che oggi si potrebbe
tradurre con «cittadino del mondo» 631. In effetti la città, la polis di
Aristotele ha un orizzonte molto più stretto agli occhi di un cristiano
- schiavi e donne ne erano esclusi -. Eppure, senza trasformarli in
cristiani, Tommaso poteva sentirsi più a suo agio con
l’universalismo professato dagli stoici.
Preceduta dalla comunità coniugale - in quanto la prima di tutte
le associazioni è quella dell’uomo e della donna - e da quella
domestica - giacché la famiglia segue immediatamente l’unione
dell’uomo e della donna -, la comunità politica, che rappresenta così
un ulteriore stadio della vita dell’uomo in società, è prima per natura.
Perciò le sono sottomesse le comunità ad essa anteriori senza però
eliminarle perché, sebbene in minor misura, esse sono testimoni di
ciò che ha spinto gli uomini a vivere insieme e che Tommaso, al
seguito di Aristotele, così esprime nel suo linguaggio:
«Vediamo infatti che se alcuni animali hanno la voce o il verso
(uox), soltanto l’uomo ha il linguaggio (locutio) [...]. La parola
umana serve ai esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo, e
quindi anche il giusto e l’ingiusto. Giustizia e ingiustizia
consistono nel fatto che alcuni si adattano o no in materia di
utilità o di nocività. Perciò la parola è propria degli uomini
perché, rispetto agli animali, è loro propria caratteristica
avere la conoscenza del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto, e altre
629 Così in SCG IH 85, n. 2607; I-II, q. 72, a. 4; Expositio libri
Peryermenias 1,2, Leon. t. 1*1, p. 9 (importante nota di R.-A. Gauthier).
630 Lo si incontra circa venti volte, soprattutto in SCG III 117, n. 2897; 128,
n. 3001; 129, n. 3013; ecc.; I, q. 96, a. 4; I-II, q. 95, a. 4; II-II, q. 109, a. 3 ad 1; q.
114, a. 2 ad 1; IH, q. 65, a. 1; ecc.
631 Cf. E. BRÉHIER, Chrysippe et l’ancien stoïcisme, Paris 1951, pp.
259-270: «La société»; ID., «Préface», a Les Stoïciens («La Pléiade»), Paris 1962,
p. XXX: «...gli Stoici sono i primi ad attribuire, tra le inclinazioni naturali, (un
posto) all’altruismo, che nasce nell’inclinazione familiare e . . . si estende
progressivamente fino alla società universale: questo è il cosmopolitismo del saggio
stoico il quale è un cittadino del mondo. Non è in una città chiusa, ma in seno
all’umanità che l’uomo si realizza».
319
realtà di questo genere che possono essere espresse dalla
parola (sermo). Dunque, poiché la parola è stata data all’uomo
dalla natura ed è finalizzata a permettere la “comunicazione”
tra gli uomini circa l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, e
altri valori simili, ne consegue - dato che la natura non fa
niente invano - che è naturale agli uomini “comunicare” tra di
loro su queste realtà. Ora, è precisamente il “comunicare” in
questi valori che costituisce la famiglia e la città; perciò l’uomo
è per natura un essere domestico e politico»632.

«Comunicare» e «comunicazione» si trovano qui tra virgolette


per ricordare che queste parole hanno un tutt’altro senso rispetto al
nostro moderno «comunicare», ridotto quasi a «scambiare» o
«informare». Communicatio, che Tommaso incontrava nel suo testo
latino, traduce in realtà la koinónia di Aristotele che significa
«possesso comune» o «comunità» 633, mentre il koinònos è il membro
che partecipa ai valori e ai beni che riuniscono tale comunità.
Passiamo allora dal semplice scambio in materia di giusto o ingiusto,
che l’uso della parola sembrava suggerire come proprio dell’uomo, a
una convergenza di tutti i membri della città su questi beni che sono
ad essi comuni. In queste condizioni, dire dell’uomo che è un
animale politico, o meglio sociale, non significa indicare in lui la
semplice tendenza bruta di un istinto più o meno gregario, ma
esprimere proprio la capacità di sviluppo virtuoso necessario alla vita
in società. Del resto Tommaso lo spiega poco dopo: «L’uomo è il
migliore degli animali se sviluppa in sé la virtù, verso la quale è
spronato da un’inclinazione di natura, ma se è senza legge e senza
giustizia, allora è il peggiore di tutti gli animali» 634.
Le prospettive che qui si aprono formerebbero certamente
l’oggetto di un grande libro635 636, ma ne sappiamo abbastanza per il
nostro scopo. Secondo fra Tommaso, la dimensione comunitaria o
sociale è un dato inseparabile dall’essere umano ed egli ne riparla
spesso 1S. Non è una

632 Sententia libriPoliticorum I, 1/b, Leon., t. 48, p. A 78-79.


633 Le nozioni di communio e di communicatio hanno costituito l’oggetto di
un accurato studio di B.-D. de LA SOUJEOLE, «Société» et «Communion» chez saint
Thomas d’Aquin, RT 90 (1990) 587-622, vedi pp. 602-617.
634Sententia libriPoliticorum I, 1/b, Leon., t. 48, p. A 79.
635 La semplice traduzione del Commento all’Etica a Nicomaco sarebbe già
molto utile e rivelerebbe molte ricchezze inaspettate.
636 Un solo testo nell’attesa di ritornarvi, SCG III 121, n. 3001: «Tra tutto ciò
di cui l’uomo ha bisogno, ciò che gli è più necessario sono gli altri uomini».
320
semplice questione di comodità materiale; anche le attività più
personali e più elevate necessitano della collaborazione di amici:

«Se si tratta di felicità nella vita presente, bisogna affermare


con il Filosofo che “l’uomo felice ha bisogno ¿’amici”. Non per
la propria utilità, essendo egli già sufficiente a se stesso... ma
per il bene della sua azione, cioè per avere la possibilità di
beneficarli, per trovare la sua gioia nel bene che essi compiono
e una collaborazione nel bene che egli stesso compie. L’uomo
infatti ha bisogno dell’aiuto dei suoi amici per agire
virtuosamente, sia nelle opere della vita attiva che in quelle
della vita contemplativa»637.

Se non nasconde le difficoltà che s’incontrano nel vivere


insieme, Tommaso non esita dunque nemmeno a vantare i benefici
della «comunione politica» 638, giacché essa è il luogo privilegiato in
cui si esercitano le virtù come l’amicizia o la giustizia e quindi un
luogo di crescita umana. Questo primo risultato è già molto
importante ma, forse lo si è percepito, fintantoché si limita agli
orizzonti della città aristotelica, questa concezione dell’amicizia
politica resta a livello umano, puramente naturale. Aristotele afferma
che la ragione ne è la misura, ma non spiega il perché 639. Fedele
commentatore su questo punto, Tommaso non supera qui la lettera,
ma quando si esprime a nome proprio, riprende quanto detto.
Seguendo gli stoici, ripresi soprattutto da sant’Agostino, fa appello al
concetto di legge naturale che gli permetterà di fondare in Dio non
solo l’obbligo morale ma la stessa amicizia politica 640.

LA LEGGE NATURALE E LE SUE GRANDI INCLINAZIONI


E necessario ritornare qui alla Vrima Secundae. In questo lungo
processo di fondazione in cui il Maestro d’Aquino passa in rassegna i
principi dell’agire umano, egli ha prima di tutto menzionato i principi
interiori che al suo seguito abbiamo chiamato «abiti» 641. Ma esistono
altri principi dell’agire umano «esterni» alla persona; Tommaso ne
6371-II, q. 4, a. 8.
638 Sententia libri Politicorum III, 5, Leon., t. 48, p. A 201.
639 Cf. Etica a Nicomaco I, 2,1095 b 6-7.
640 R.-A. GAUTHIER, La morale d‘Aristote, Paris 1958, pp. 130-131, ha
perfettamente delineato questo processo di superamento della morale di Aristotele.
641 Vedere qui sopra cap. XI.
321
cita due: altrove ha parlato di Satana, che incita l’uomo al male per
mezzo della tentazione642; nella Prima Secundae si sofferma molto più
a lungo sul principio esterno che lo fa agire bene: Dio stesso, che
istruisce con la legge e sostiene con la grazia 643. Principio «esterno»
trascendente, Dio è all’origine di quegli abiti virtuosi che chiamiamo
«virtù», le quali perfezionano la creatura dall’interno e le permettono
di agire nel campo della grazia. Dato che ne parliamo ampiamente
altrove, non dobbiamo soffermarci ora sulla grazia; è giunto però il
momento di dire qualcosa sulla legge644, e soprattutto sulla legge
naturale, grande originalità della morale tomasiana, grazie alla quale
comprenderemo meglio l’esigenza di superamento spirituale legata
alla dimensione sociale dell’uomo645 646.
Come il termine stesso di «natura», così l’espressione «legge
naturale» non è ben vista al di fuori del circolo di coloro che sono
familiari alla dottrina del Maestro d’Aquino; perciò bisogna sforzarsi
di ben comprenderla giacché sarebbe un peccato lasciar perdere il suo
apporto 2S. Detto in breve, se la legge eterna si identifica col governo
divino, con la Provvidenza, la legge naturale ne costituisce una
partecipazione nella creatura razionale. Infatti, se la legge naturale si
ritrova in tutti gli esseri, che sono così spronati ad atti e fini che sono
ad essi propri, la creatura razionale, dal canto suo, è chiamata ad
aderire liberamente all’inclinazione verso il suo fine, diventando così
la propria provvidenza per se
stessa e per gli altri.647. Questa conclusione non è stabilita in maniera
642Cf.I, q. 114.
643 II trattato della legge si trova immediatamente dopo quello degli abiti (I-
II, qq. 90-108); quello della grazia viene subito dopo (I-II, qq. 109-114).
644 Si sa che Tommaso definisce la legge in questi termini, I-II, q. 90, a. 4:
«un comando della ragione, ordinato al bene comune, promulgato da chi è incaricato
di una collettività»; senza fare un lungo commento, occorre sottolineare l’ori- ginalità
di questa posizione: nella definizione tomasiana non è principale l’obbligo, ma il
rapporto al bene comune, che costituisce il fine che l’obbligo permette di
raggiungere; perciò, stabilire una legge e promulgarla dipende dall’autorità, giacché
è essa l’incaricata del bene comune.
645 Per forza di cose, non presentiamo qui che un abbozzo molto sommario;
ci sia permesso di consigliare la lettura di G. DE LAGARDE, La naissance de Vesprit
lai'que au déclin du moyen dge, t. Il, Paris 1958, cap. Ili: «La sociologie thomiste», che
ricorda la connessione delle idee con molta più chiarezza e sottolinea che la teoria
della comunità sociale è una delle «riflessioni più profonde e più nuove del tomismo».
646 Non potendo entrare qui nella spiegazione del termine «natura»,
rinviamo al minuzioso studio di M.-J. NICOLAS, L’idée de nature dans la pensée de
saint Thomas d’Aquin, RT 74 (1974) 533-590.
647 I-II, q. 91, a. 2, dove Tommaso cita il Sai 4, 7, per identificare alla
322
puramente deduttiva; essa è direttamente collegata a un celebre
versetto di san Paolo: «Quando i pagani, che non hanno la legge,
compiono naturalmente ciò che ordina la legge, essi pur non avendo
legge sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge
esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della
loro coscienza e dei loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora
li difendono»648. Come la legge nuova del Vangelo, così la legge
naturale è anch’essa una legge «infusa» (lex indita) da Dio nel cuore
dell’uomo. La capacità etica della persona umana è perciò così
percepita come il riflesso in essa della luce divina:
«[Infatti] la legge può trovarsi in un soggetto non solo come
nel suo principio regolatore, ma anche in maniera partecipata,
cioè come in un soggetto regolato da essa. E in quest’ultimo
senso, chiunque è legge a se stesso, in quanto partecipa
dell’ordine stabilito da un dato legislatore. Ecco perché san
Eaolo aggiunge: “Essi mostrano l’opera della legge scritta nei
loro cuori”»’’649.
La portata dell’opzione per la legge naturale va ben al di là del
tipico caso del pagano che è legge a se stesso 650. Legata alla natura
stessa dell’uomo, depositata in lui al momento della sua vocazione,
essa è costante e universale e non scompare perciò nel fedele
cristiano. Secondo le parole stesse di un maestro moralista del nostro
tempo, essa è al contrario presente in tutti, simultaneamente come
appello a un dinamismo iscritto nel cuore dell’essere e come una
promessa di compimento:
«Nel senso in cui lo consideriamo, “naturale” non si riferisce
né al mondo della natura materiale come opposto a quello dello
spirito e della libertà, né alla nozione “storica” di uno stato
umano supposto anteriore alla “cultura”. Parliamo dell 1
legge naturale la luce con cui il Signore ha benedetto la sua creatura; in altri luoghi,
è l’intelletto agente che beneficia di questa esegesi.
648 Rm 2, 14-15; si vedrà a tal proposito B. MoNTAGNES, Autonomie et
dìgnité de l’homme, «Angelicum» 51 (1974) 186-211, che ha studiato in maniera
esemplare il commento di Tommaso a questi versetti e l’utilizzazione che ne fa nella
Somma.
6491-II, q. 90, a. 3 adì.
650 Per non farne che un esempio, si è giustamente ricordato che questa
dottrina ha fornito «il fondamento più sicuro dei diritti dell’uomo, facendoli
derivare non più dall’individuo umano in quanto tale (la persona), ma da una
natura umana comune a tutti gli esseri umani», J.-M. AUBERT, Permanente actualité
de l’anthropo- logìe thomiste, DC 45 (1992) 244-250, cf. p. 247, che ricorda tra l’altro
come il cammino che risale da Grotius a Tommaso passa per Victoria.
323
esigenza di realizzazione propria della natura umana, natura di
un essere personale, libero, che non può diventare ciò che è se
non nel corso di una storia che deve prendere per mano e
guidarla. Né angelo, né bestia, esso è un uomo e deve
diventarlo: questa esigenza, alla quale essendo libero può venir
meno, è quella della sua “natura”. Siccome l’uomo è
complesso, l’esigenza naturale si precisa nei diversi campi del
suo agire, esortandolo ad unificarsi su ciò che in lui vi è di più
umano. E questa esigenza interna che chiamiamo “legge
naturale”»^.
Siamo qui dinanzi a un testo tra i più importanti, che mostra
come questa esigenza interna si diversifichi in ciò che si è soliti
chiamare le grandi inclinazioni naturali. Il modo in cui Tommaso le
stabilisce, ossia mediante un parallelo con la vita intellettuale, è esso
stesso ricco d’insegnamenti: come la nozione di essere costituisce
l’oggetto di una percezione immediata per mezzo dell’intelligenza
orientata verso la pura conoscenza, così il bene è la primissima
nozione percepita dall’intelligenza pratica orientata verso l’azione:
«Ogni agente agisce per un fine, il quale ha per lui sempre
ragione di bene. Perciò il primo principio della ragione pratica
si fonda sulla nozione di bene, essendo il bene ciò che tutti gli
esseri desiderano. Ecco, dunque, il primo precetto della legge:
il bene è da farsi e da ricercarsi, il male è da evitarsi. E su di
esso sono fondati tutti gli altri precetti della legge naturale;
cosicché tutte le altre cose da fare o da evitare appartengono
alla legge di natura, in quanto la ragione pratica le conosce
naturalmente come beni umani.
Ma tutte le cose verso le quali l’uomo ha un’inclinazione
naturale la ragione le apprende come buone, e quindi da farsi,
e le contrarie le apprende come cattive e da evitarsi; perché il
bene si presenta come un fine da raggiungere, il male come
cosa contraria. Perciò l’ordine dei precetti della legge naturale
segue l’ordine delle inclinazioni naturali. Prima di tutto,
troviamo nell’uomo l’inclinazione a ricercare il bene 651
corrispondente alla sua natura, e in questo è simile a tutte le
altre sostanze; cioè nel senso che ogni sostanza tende per
natura alla conservazione del proprio essere. E in forza di
651 M.-M. LABOURDETTE, La morale chrétienne et ses sources, RT 77 (1977)
625-642, cf. p. 631; per ampliare un po’ la documentazione, rinviamo a J. MARITAIN,
La loi naturelle ou loi non écrite. Testo inedito, a cura di G. BRAZZOLA («Prémices 7»),
Fribourg (Svizzera) 1987, con la presentazione di M.-M. LABOURDETTE, Jacques
Maritain nous instruit encore, RT 87 (1987) 655-663.
324
questa inclinazione appartiene alla legge naturale tutto ciò che
giova a conservare la vita umana, e tutto ciò che impedisce il
contrario di tale vita, cioè la morte.
Secondo, troviamo nell’uomo l’inclinazione a ricercare cose
più specifiche, conformi alla natura che ha in comune con gli
altri animali. Così appartiene alla legge naturale ciò che
l’istinto naturale insegna a tutti gli animali, per esempio
l’unione del maschio con la femmina, la cura dei piccoli, ecc.
Terzo, troviamo nell’uomo un’inclinazione verso il bene che è
conforme alla sua natura di essere razionale che è propriamente
umana: così avverte in sé il desiderio naturale di conoscere la
verità su Dio e di vivere in società. Appartengono allora alla
legge naturale tutte le cose riguardanti questa inclinazione:
cioè la fuga dall’ignoranza, il rispetto di coloro con i quali si
deve convivere, ed altre cose del genere»652.

Chi legge questo testo con un minimo di attenzione, resta molto


sorpreso. Infatti, mentre gli autori spirituali invitano così volentieri a
combattere la natura affinché trionfi la grazia, Tommaso al contrario
afferma che tutto ciò che rientra nella linea della natura è in sé una
cosa buona. Creata da Dio, essa è di per sé orientata verso il bene; è il
peccato che va contro la natura 653. Lo stesso atteggiamento era
assunto nel riconoscere il carattere in sé indifferente delle passioni, di
cui abbiamo parlato nel capitolo precedente; dato di base che occorre
cristianizzare e non rigettare, giacché si tratta della materia di cui è
fatta la nostra umanità. Ancora più profondamente, all’origine di
questo atteggiamento incontriamo di nuovo lo stesso sguardo
positivo già scoperto nel modo in cui Tommaso parla della creazione
come opera di Dio. Ma si sarà notato anche com’è il possedere in
comune la natura umana che inclina gli uomini a vivere in società;
sottolineando tre volte che vi è una com-
municatio alla base di ciascuna inclinatici, Tommaso ritrova qui la
koinò- nia postulata da Aristotele all’origine di ogni amicizia sociale.
Meno percettibile a chi non è esperto ma altrettanto importante,
questo testo mostra ancora una volta come Tommaso si consideri
652 I-II, q. 94, a. 2; per completare quanto affermiamo qui, rinviamo a S.
PiNCKAERS, Les sources de la morale chrétienne, pp. 406-462, in cui si troverà un
commento ampio e dettagliato delle cinque maggiori inclinazioni.
653 Un’espressione tra tante altre, I-II, q. 109, a. 2 ad 2: «Peccare non è
nient’altro che venir meno al bene che conviene a un essere secondo la sua natura»;
essendo la natura creata da Dio e verso di lui orientata, si capisce subito che,
conformemente alla definizione di Agostino, così spesso ripresa da Tommaso, il
peccato sia allo stesso tempo un rifiuto di Dio, aversio a Deo.
325
l’erede diretto della sapienza degli antichi. Se in generale deve molto
ad Aristotele, qui egli è particolarmente debitore agli stoici attraverso
Cicerone, e ci si è potuto chiedere giustamente se non è in
quest’ultimo che ha trovato l’idea stessa delle inclinazioni
fondamentali che esprimono in un primo tempo le esigenze della
legge naturale654. Una mente gretta forse vedrebbe in ciò un’intrusione
del paganesimo nella morale cristiana, noi però crediamo che occorra
vedervi piuttosto un rinnovato segno di quella volontà d’accogliere il
tutto dell’uomo e della sua eredità, così tipica della preoccupazione di
Tommaso come teologo. Non è soltanto l’uomo nella sua natura bruta,
se così si può dire, che egli si propone di cristianizzare, ma tutto ciò
che gli è accessibile della sua cultura.
Al livello in cui l’abbiamo appena incontrata, e poiché è parte
integrante di ciò che il Creatore ha dato alla creatura con il suo essere,
la legge, sebbene partecipata nell’uomo, resta divina, ed è anteriore ad
ogni formulazione positiva in leggi umane. Per giungere al livello a
cui la maggior parte delle persone pensa quando si parla di legge, è
necessario quindi che la legge naturale, prima percepita mediante una
specie di connaturalità affettiva al livello delle sue grandi inclinazioni,
sia prolungata in leggi umane positive. Essa però non è sufficiente da
sola a regolare l’organizzazione della vita degli uomini in questo
mondo, poiché se la natura inclina l’uomo a vivere in società o a
praticare la virtù, tuttavia non dice come farlo: molte forme di società
sono possibili e tocca agli uomini trovarle e regolarne il buon
funzionamento; similmente, la percezione dei grandi principi morali è
una cosa, la pratica concreta dell’agire virtuoso è un’altra. Ma questa
relazione alla legge
naturale resta basilare e decisiva. Vi è qui una presa di posizione
assolutamente radicale e, senza averla compresa, non si potrà mai
comprendere l’esatto rapporto che la persona umana può avere con
la legge. Ciò che è buono, retto e giusto, precede la legge. Questo è
giusto non perché è prescritto, ma prescritto perché è giusto. Il
carattere sacro della vita umana è anteriore a ogni interdizione di
654 L’osservazione è di S. PiNCKAERS, Les sources de la morale chrétienne, pp.
411-412; la somiglianza infatti è sorprendente, De officiis, I, 4, 11-14 (ed. M. TESTARD,
Paris 1965, pp. 109-110; cf. M.T. CICERONE, I doveri, Milano 1994, pp. 83-85): «Ogni
specie di essere vivente ha ricevuto dalla natura il compito di vegliare su se stessa,
sulla sua vita, sul suo corpo... Inoltre è comune a tutti gli esseri viventi il desiderio di
unirsi in vista della procreazione... Questa stessa natura, in virtù della ragione,
inclina l’uomo verso l’uomo, in vista di una comunione di linguaggio e di vita...
Principalmente il proprio dell’uomo consiste nel ricercare e studiare la verità...».
326
uccidere. Alcune cose potranno diventare ingiuste perché illegali, e
infatti la vita in società comporterà delle particolarizzazioni dei
grandi principi morali della legge naturale, tuttavia la prescrizione
legale non sarà mai sufficiente a rendere buona o giusta una cosa che
sarebbe ingiusta a questo livello fondamentale655.
Per il nostro presente scopo, bisogna soprattutto sottolineare,
l’abbiamo appena detto, che mediante questo prolungamento della
legge naturale in varie leggi, l’uomo è così chiamato a diventare la
sua propria provvidenza. Secondo un versetto della Sacra Scrittura
prediletto da Tommaso: «“Dio ha lasciato l’uomo in balia del suo
volere” (Sir 15, 14), nella misura in cui l’ha costituito responsabile
dei suoi propri atti» 656. Ciò non concerne la persona soltanto nella
sua individualità, ma anche nella sua qualità di membro, impegnato
in varie comunità. Se l’uomo è chiamato a vivere in società, egli
deve darsi i mezzi per un’appropriata organizzazione, e quindi per
prima viene la legge: «(Se) la legge divina è istituita innanzitutto per
regolare i rapporti degli uomini con Dio (ad ordinandum homines ad
Deum), la legge umana lo è prima di tutto per regolare i rapporti
degli uomini tra di loro (ad ordinandum homines ad inuicem)»657.
Opera della ragione, la legge ha precisamente come scopo
quello di servire il ben vivere in società, ciò che Maestro Tommaso
chiama il
bene comune. È necessario comprendere che le disposizioni della
legge mirano a creare un insieme di condizioni generali tendenti a
facilitare scambi e comunicazioni e infine l’amicizia tra i membri,
cosicché ogni persona giunga alla sua propria realizzazione nel
rispetto degli altri e una reale solidarietà renda possibile il
proseguimento dell’ideale comune. In questa prospettiva, non c’è
opposizione tra bene privato e bene comune perché «il bene comune

655 Tommaso qui è assolutamente formale, I-H, q. 95, a. 2: «Secondo


sant’Agostino, “non sembra che sia una legge quella che non è giusta”. Una legge
non ha valore se non nella misura in cui partecipa alla giustizia. Negli affari umani,
una cosa è detta “giusta” in quanto è retta secondo la regola della ragione. Ora, la
prima regola della ragione è la legge naturale... Ne consegue che ogni legge
formulata dagli uomini non ha valore di legge se non nella misura in cui deriva dalla
legge naturale. Se essa devia in qualche punto dalla legge naturale, non è più una
legge, ma una corruzione della legge».
656 De ueritate, q. 5, a. 5 ad 4; il versetto del Siracide è citato una ventina
di volte, nella maggior parte dei casi nella Somma di teologia-, I, q. 22, a. 2 ad 4; q.
83, a. 1; I-II, q. 2, a. 5; q. 10, a. 4 se.; q. 91, a. 4 arg. 2; II-II, q. 65, a. 3 arg. 2; ecc.
657I-II, q. 99, a. 3.
327
è il fine di ogni persona che vive in una collettività» 658, e dunque:
«Chi cerca il bene comune di una collettività cerca indirettamente
il
proprio bene, per due motivi. Primo, perché il bene proprio
non può sussistere senza il bene comune della famiglia, della
città o del regno... Secondo, perché essendo un uomo parte
della famiglia o dello Stato, nel valutare il proprio bene con
prudenza, deve farlo in base al bene della collettività: infatti la
buona disposizione della parte risulta dal suo rapporto col
tutto» 659.
Ciò che Tommaso afferma qui a proposito della prudenza, lo
ripete spesso altrove. Lungi dall’essere un accessorio perfino
indispensabile per la persona, la società è un’esigenza della sua
natura e per questo il rapporto della persona con la società è un
rapporto della parte con il tutto, di un membro con il corpo: «La
parte [in quanto tale] è qualcosa del tutto. Ora, l’uomo è nella società
come una parte nel tutto; perciò tutto ciò ch’egli è, appartiene alla
società»660. Ecco perché il bene del tutto è superiore; esso è infatti
«più divino di quello di un solo individuo» 661. Certo,

658II-n, q. 58, a. 9 ad 3.
659II-II, q. 47, a. 10 ad 2; è molto sorprendente constatare anche qui ciò che
Tommaso ha ricevuto dallo stoicismo, cf. CiCÉRON, De finibus honorum et malorum III 19
(ed. CH. APPUHN, Paris 1938, p. 235; cf. M.T. CICERONE, Il sommo bene e il sommo male,
Milano 1992, pp. 195-197): «Una benevolenza reciproca tra gli uomini è d’istituzione
naturale; un uomo, in quanto tale, non dev’essere un estraneo per il suo simile... Per
natura noi siamo destinati a formare dei gruppi, delle assemblee, delle città. Gli Stoici
credono che il mondo è retto dalla volontà degli dèi, che esso è in qualche modo il
luogo, la città comune degli uomini e degli dèi, e che ciascuno di noi è una parte di
questo tutto che è il mondo. Da ciò proviene il fatto che è conforme alla natura il porre il
bene comune al di sopra del nostro proprio bene. Come le leggi subordinano la salvezza
degli individui a quella di tutti, così il buon cittadino, il sapiente, colui che obbedisce
alle leggi, che è cosciente dei suoi doveri civili, si preoccupa più del bene comune che
di quello di un altro uomo o del proprio».
660 II-II, q. 64, a. 5; cf. q. 64, a. 2: «ogni singolare persona si comporta nei
confronti della comunità come una parte nei confronti del tutto»; cf. I, q. 61, a. 3; II-
II, q. 26, a. 3; ecc.
661 Sententia libri Ethicorum I, 2 (1094 b 10), Leon,, t. 47/1, p. 9; cf. II-II, q.
99, a. 1 ad 1; ci si potrà riferire qui agli studi fondamentali di I.TH. ESCHMANN, A
Thomistic Glossary on thè Principle of thè Preeminence of a Common Good, MS 5
(1943) 123-165 (dopo un’introduzione storica molto documentata, l’autore ha
riportato un insieme di 204 testi tomasiani che esprimono questa superiorità del
bene comune sul bene privato); Io., «Bonum commune melius est quam bonum
unius». Bine Stadie über den W’ertvorrang des Personalen bei Thomas von Aquin, MS
328
quest’affermazione che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro è
comprensibile fintantoché ci si attiene al solo livello naturale;
quando si tratta però del rapporto della persona con Dio, Tommaso
usa un tutt’altro linguaggio. Tuttavia se ne comprende molto meglio
la portata se ci si ricorda della sua intenzione propria di teologo che
non prescinde mai dal fine ultimo. Perfino i testi più apparentemente
«sociologici» non possono esserne isolati e così Dio appare per ciò
che egli è, ossia il vero bene comune ultimo al quale vengono
subordinati tutti gli altri:
«Il bene particolare è ordinato al bene comune come al suo
fine, poiché l’esistenza della parte è per l’esistenza del tutto.
Cosicché “il bene della collettività è più divino del bene di un
individuo’’. Ora, il sommo bene che è Dio è un bene comune,
poiché da lui dipende il bene di tutti. Infatti, il bene per cui
qualsiasi essere è buono, è un bene particolare di esso e di
quanto da esso dipende. Quindi tutte le cose sono ordinate
come al loro fine a quell’unico bene che è Dio»662.
In seguito dovremo riparlare di questo rapporto della persona
con la collettività, ma bisogna ancora aggiungere qui che se
l’organizzazione della comunità esige un corpo di leggi al servizio
del bene comune, essa necessita anche di un’autorità incaricata di
promuoverla. Questo non è da comprendere come un’infausta
necessità derivante dalla cattiveria de-
gli uomini, ma proprio come un’esigenza legata alla natura dell’uomo
e che sarebbe esistita anche se l’uomo non avesse peccato:
«[Ci sono due modi di “dominare” (dominium), spiega
Tommaso: uno, nei confronti degli schiavi considerati come
beni del padrone; l’altro, nei confronti delle persone libere.] Si
può esercitare il dominio su un altro come persona libera

6 (1944) 62-120 (lo scopo di questo secondo scritto è ben riassunto dal contrasto
espresso nel titolo: questa superiorità del bene comune non attenta al primato della
persona umana). Più accessibile è l’opera di J. MARITAIN, La personne et le bien
commun, Paris 1947; J. MARTINEZ BARRERA, Sur la finalité en politique: la question
du bien commun selon saint Thomas, in Finalité et intentionnalité: Doctrine thomiste
et perspectives modernes. Actes du Colloque de Louvain-la-Neuve et Louvain, 21-23
mai 1990, J. FOLLON - J. MCEVOY (edd.), Louvain-Paris 1992, pp. 148- 161; si potrà
proseguire con il medesimo autore: De l’ordre politique chez saint Thomas d’Aquin,
in Actualité de la pensée médiévale, J. FOLLON - J. MCEVOY (edd.), Louvain-Paris
1994, pp. 247-267.
662SCGnil7.
329
quando si dirige costui verso il proprio bene o verso il bene
comune. E tale dominio di un uomo sull’altro si sarebbe
verificato anche nello stato di innocenza per due motivi. Primo,
perché l’uomo è per natura un animale sociale: sicché gli
uomini nello stato di innocenza avrebbero vissuto in società. Ma
non può esserci vita sociale in una moltitudine senza il comando
di uno, il quale abbia di mira il bene comune; poiché di suo una
pluralità di persone ha di mira una pluralità di scopi, mentre un
individuo mira a un unico scopo. Perciò il Filosofo afferma
all’inizio della Politica: “In ogni pluralità di cose dirette a un
fine, se ne trova sempre una che ha funzione direttiva e
principale”.. .»663.
La necessità di un’autorità incaricata del bene comune è
anch’essa uno dei grandi principi della «sociologia» del Maestro
d’Aquino, ma non è affatto necessario insistervi maggiormente in
quanto in seguito riparleremo del governo dell’uomo mediante
l’uomo. Bisogna invece notare quanta cura Tommaso impiega nel
salvaguardare la libertà delle persone nella società. Se il paragone del
tutto e della parte poteva far temere che questa dimensione venisse
persa di vista, questo semplice richiamo di una evidenza basta a
mostrare che non è così: un uomo libero non è una volgare cosa.
Nella situazione concreta che conosciamo, il cristiano dipende
da due grandi società: la Chiesa, alla quale appartiene in forza del suo
battesimo e la città terrena, di cui è membro per nascita. E ben noto il
fatto che Tommaso d’Aquino non ha scritto nessun libro sulla Chiesa,
né le ha inoltre consacrato qualche trattato speciale della Somma. Di
ciò si è rimasti un po’ sorpresi nel XX secolo. Diversi studi sono stati
consacrati a dimostrare che egli non ha evidentemente ignorato
questa realtà cristiana per eccellenza e che, se la Chiesa non appare in
nessun luogo in maniera speciale, è perché essa in realtà appare
dappertutto nel movimento di ritorno dell’uomo verso Dio 664.
Altrettanto si può dire quasi della comunità politica. Se Tommaso ha
tentato di scrivere un De regno come pure un commento alla Politica

6631, q. 96, a. 4; cf. q. 92, a. 1 ad 2.


664 Grosso modo, è la posizione convincente di Y. CONGAR, L'idée de
l’Église chez S. Thomas d’Aquin, in Esquisses du mystère de l’Église («Unam
Sanctam 8»), Paris 1953, pp. 59-91 (ripresa di un articolo apparso sotto lo stesso
nome in RSPT, 29 [1940] pp. 31-58, e in inglese in The Thomist, 1939, pp. 331-359);
ID., L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Paris 1970, pp. 232-241; Vision de
l’Église chez Thomas d’Aquin, RSPT 62 (1978) 523-542.
330
di Aristotele, è significativo il fatto che li abbia lasciati incompiuti; se
nella Somma vi sono degli elementi di una teoria politica, invano si
cerca in essa un trattato completo su questo tema. Tuttavia, se
vogliamo proseguire nella nostra riflessione sull’uomo come essere
sociale, occorre tentare di raccogliere quanto quest’opera afferma a
tal proposito. L’impresa potrebbe sembrare immane, ma non si tratta
qui di vagliarla in tutta la sua ampiezza; l’importante non sarà tanto
l’essere esaustivi quanto piuttosto scoprire le linee conduttrici del
pensiero del Maestro.

LA CHIESA, POPOLO DI DIO

Oltre ai rimproveri sulla mancanza di un De Ecclesia nella


Somma, si è anche - in maniera più curiosa e più anacronistica, a dire
il vero - accusato il Maestro d’Aquino d’aver sostenuto opinioni
contrarie a quelle espresse da Pio XII nell’enciclica Mystici Corporis
(pubblicata sette secoli più tardi) e di avere una concezione molto
vaga della Chiesa, ridotta da lui alla sua dimensione mistica a
detrimento della sua struttura e della sua organizzazione 665. Nate da
una lettura troppo parziale dei testi, queste discussioni non devono
qui essere prolungate; esse hanno avuto almeno il merito d’invitare a
un approfondimento della questione. Numerosi studi di valore hanno
mostrato da allora qual è la realtà dei fatti - per quanto riguarda
soprattutto il posto del ministero gerarchico e del Papa in modo
particolare, è difficile rimproverare Tommaso di misconoscerli; è
vero piuttosto il contrario 666.
Ricercando le implicazioni spirituali del pensiero tomasiano, è
dunque la terza volta che la nostra riflessione incontra la Chiesa sul
suo cammino: prima a proposito del Cristo, in quanto la Chiesa è un
travaso della sua grazia capitale, poi nel suo legame con lo Spirito
Santo, che costituisce il suo cuore49. Senza alcun dubbio, questa
prospettiva teologale è primaria nel pensiero di Tommaso ed è essa
che viene espressa mediante le denominazioni di Corpo di Cristo,
665 Cf. A. MITTERER, Geheimnisvoller Leih Christi nach St. Thomas von Aquin
und nach Papst Pius XII, Wien 1950; vedi anche le puntualizzazioni di CH. JOURNET,
Recension de Mitterer, in BT 8 (1947-1953) 363-373, e di Y. CONGAR, Sainte Église.
Etudes et approches ecclésiologiques («Unam Sanctam 41»), Paris 1963, pp. 614-615.
666 Per non citare che un solo testo nella linea di quelli che seguono,
ricordiamo soltanto il seguente (SCGIV 76, n. 4103): «E evidente che, sebbene i popoli
si
331
Comunione dei santi e perfino «Chiesa dello Spirito Santo» 50.
L’essere cristiano ci è già apparso cosi come segnato nella sua
interiorità più profonda dalla sua appartenenza alla comunione di
grazia. Tuttavia, nella nuova prospettiva di questo capitolo, resta
ancora da dire molto. Senza spingere il paragone oltre quanto non
meriti, si può certamente affermare che come la città terrena è il
luogo in cui si realizzano le qualità naturali dell’essere umano, così la
Chiesa è anch’essa il luogo in cui l’uomo si vede attrezzato per la sua
vita soprannaturale e in cui si realizza come figlio di Dio. Tommaso
ignora dividano in varie città e regioni, occorre tuttavia che se la Chiesa è una, non
esista che un solo popolo cristiano. Quindi così come per il popolo particolare di una
sola Chiesa occorre un unico vescovo che sia a capo dell’intero popolo cristiano, così
pure è necessario che una sola persona sia a capo di tutta la Chiesa». Dalla lettura di
questo testo non si dedurrà che il Papa è l’unico fautore d’unità nella Chiesa;
Tommaso non ignora il ruolo degli altri vescovi, né quello della Sacra Scrittura e
della Tradizione, e ancora meno quello dell’eucaristia. Oltre allo studio fonda-
mentale di Y. CONGAR, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre Mendiants et
Séculiers dans la deuxième moitié du XIII e siècle et au début du XIV e siècle, AHDL-
MA 28 (1961) 34-151, citiamo soltanto due studi tra i più recenti: S.-TH. BONINO, La
place du pape dans l'Église selon saint Thomas d’Aquin, RT 86 (1986) 392-422; C.
RYAN, The Theology ofPapal Primacy in Thomas Aquinas, in C. RYAN (ed.), The
Religious Roles of thè Papacy: Ideals and Realities, 1150-1300 («Papers in Mediae- val
Studies 8»), Toronto 1989, pp. 193-225.
49
Cf. qui sopra cap. VI: «Ad immagine del Figlio unigenito», e cap. IX: «Il
cuore della Chiesa»; se si dovessero avere dubbi circa il modo in cui Tommaso tiene
uniti l’aspetto mistico e quello sociologico della Chiesa, si vorrà leggere questo testo
in cui egli collega il ruolo del Papa nella Chiesa al mistero della processione trinitaria
dello Spirito Santo: «infatti, Cristo, Figlio di Dio, consacra la sua Chiesa e pone in
essa la sua impronta mediante lo Spirito Santo, [che è] come il suo carattere e il suo
sigillo (...). Parimenti, il Vicario di Cristo, come un servitore fedele, mantiene la
Chiesa sottomessa a Cristo tramite l’esercizio del suo primato e del suo governo»,
Contra errores Graecorum II, 32, Leon., t. 40, p. A 101.
50
In Matthaeum 20, 25, lect. 2, n. 1668; G. SABRA, Thomas Aquinas’ Vision
of thè Church. Fundamentals of an Ecumenical Ecclesiology, Mainz 1987, ha
giustamente sottolineato questa preminenza dell’elemento teologale sull’elemento
giuridico o gerarchico.
così poco questa dimensione delle cose che egli stesso stabilisce il
parallelo nel suo commento alla lettera agli Efesini (2, 19):
«[“Non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei
santi e familiari di Dio’1.] Per comprendere queste parole,
bisogna sapere che il collegio dei fedeli (collegium fidelium) è
chiamato nella Scrittura ora “casa” [o “famiglia”] (domus),
332
come in 1 Tm 3, 13: “Devi sapere come comportarti nella casa
di Dio, che è la Chiesa di Dio”, ora “città” (ciui- tas) come in
Sai 121, 3: “Gerusalemme che è fondata come una città”.
Tra la città, che è un collegio politico (collegium politicum), e
la famiglia, che è un collegio economico, vi è una duplice
differenza. Coloro che appartengono al collegio della casa
(collegio domus) partecipano in comune (communioant) atti
privati; quelli che appartengono al collegio della città (collegio
ciuitatis) partecipano in comune atti pubblici. Inoltre, coloro
che dipendono dal collegio della casa sono governati da uno
solo, il padre di famiglia; quelli che dipendono dal collegio
della città sono governati da un re. Così un padre di famiglia è
nella sua casa come un re nel suo regno667.
Il collegio dei fedeli ha quindi qualcosa della città e qualcosa
della famiglia. Se si considera il capo del collegio (rector
collegii), costui è il Padre, Mt 6, 9: “Padre Nostro che sei nei
cieli”; Ger 3, 19: “Mi chiamerete Padre e mi seguirete
ovunque"; e perciò questo collegio è una famiglia. Se però si
considerano i membri, allora il collegio è ma città, poiché essi
hanno in comune (communkant) degli atti speciali, quelli della
fede, della speranza e della carità. E così che se si presta
attenzione ai fedeli in quanto tali, allora si tratta di un collegio
come quello della città; ma se si considera il capo del collegio,
allora si tratta di un collegio come quello della famiglia»668.
Molto difficile da tradurre in maniera esatta, dato che il termine
collegium non ha un esatto equivalente nella nostra lingua, questo
lungo testo è ciononostante molto chiaro nel suo significato: la
Chiesa non è esattamente assimilabile a nessun’altra società, anche
se si tratta di famiglia o città. Essa ha qualcosa della città, nel senso
che tutti i suoi membri sono uguali nel possesso comune di certi
beni, ma ne differisce nel senso che questi beni, del tutto particolari,
sono le virtù teologali. Inoltre, assomiglia ancora alla città in quanto
non ha che un solo capo, ma in quanto questo capo è Dio Padre, con

667 Quest’affermazione fortemente patriarcale ha di che far reagire un


uomo del nostro tempo; è inutile negare che porta l’impronta del suo tempo - alla
quale Tommaso non sfugge, è chiaro! Si farà attenzione perciò a non fargli dire più
di quanto il preciso paragone ha qui suggerito.
668 Super ad Ephesios 2, 19, n. 124; abbiamo modificato l’inizio del
secondo capoverso: leggiamo est al posto di habet, poiché sarebbe stato necessario
leggere: «La città possiede un collegio politico», cosa che non ha molto senso;
oppure sarebbe stato necessario modificare il senso del termine «collegio» e dire
qualcosa del tipo: «La città possiede un regime politico», ciò che non sembra
permesso dal contesto in cui «collegio» conserva sempre la stessa accezione.
333
il quale i figli possono avere i più intimi rapporti affettivi, questa
società viene trasformata in famiglia 669. Di primo acchito si notano
l’interesse e i limiti di una trasposizione delle categorie sociologiche
alla Chiesa670, ma Tommaso non rinuncia ancora a sfruttarne i
vantaggi, come dimostra questo secondo testo:
«[“Il dilagare del fiume rallegra la città di Dio”, Sai 45, 3.1
Questa città è la Chiesa, Sai 86, 3: “Di te si dicono cose
stupende, città di Dio”. Ci sono tre cose che appartengono alla
definizione di questa città.
La prima è che essa assomiglia a una moltitudine di esseri
liberi. Infatti, se non esiste che una persona o soltanto poche
persone, non c’è città; la stessa cosa vale se si tratta di schiavi.
Ora, è proprio questo che si verifica nella Chiesa, Gal 4, 31:
“Non siamo figli di una schiava, ma di una donna libera”.
La seconda consiste nel fatto che essa possiede la sua
autonomia (sufficientia). Infatti, quando si è in cammino non si
trova tutto ciò che è necessario alla vita degli uomini, sani o
ammalati; ma nella città si deve trovare tutto ciò che è
necessario alla vita. Quest’autonomia si verifica nella Chiesa,
poiché si trova in essa tutto ciò che è necessario alla vita
spirituale, Sai 64, 5: “Siamo sazi dei beni della tua casa”.
La terza è l’unità dei cittadini. E da qui, in realtà, cioè
dall’unità dei cittadini, che la città ricava il suo nome, perché
ciuitas è come Luna contrazione di] “ciuium unitas”. Anche
ciò si ritrova nella Chiesa, Gv 17, 21: “Che essi siano una sola
cosa in noi, come noi siamo una sola cosa". Quindi è questa
città che viene rallegrata dalla grazia dello Spirito Santo che
irrompe in essa [come un fiumeJ»671.
L’interesse principale di tale testo non consiste tanto nel
parallelo «città temporale - città ecclesiale», ormai ben acquisito,
quanto nella valorizzazione del fatto che la Chiesa come la città
politica è formata di persone libere (multitudo liberorum). Per un

669 Vedi anche il commento di Y. CONGAR, «Ecclesia» et «Populus (fidelis)»


dans l’ecclésiologie deS. Thomas, Commemorative Studies I, pp. 159-173.
670 Si rileggerà con profitto la prima parte dello studio di B.-D. DE LA
SoujEOLE, «Société» et «communion» chez saint Thomas d’Aquin, RT 90 (1990), pp.
588-601, dove l’autore sviluppa il parallelo qui ricordato (p. 601): «La società politica
è l’unico gruppo di natura sociale che possa essere detto perfetto. Quindi il suo uso
analogico per la teologia della Chiesa ha il compito di esprimere il tutto della Chiesa.
Come la città non è unicamente un’istituzione ma è anche formata dalla vita virtuosa
dei suoi membri, così la Chiesa come società non esprimerà soltanto la “struttura” ma
anche la “vita” che si trova nel suo grembo».
671 Superpsalmum 45,5, n. 3, ed. Vivès, t. 18, p. 515.
334
lettore di san Paolo (Gal 3, 28) la novità potrebbe sembrare del tutto
relativa, ma come si è giustamente sottolineato:
«Per cogliere la forza di questa affermazione è bene ricordarsi
che nella città medievale esisteva un “popolo dall’alto”, che
era il solo ad esercitare veramente gli atti della cittadinanza, e
un “popolo dal basso", spesso designato dai termini vulgus,
plebs o popularis, populares, che non li esercitava... Nella città
medievale non tutti avevano il pieno esercizio dei diritti di
cittadini. Nella Chiesa, dice san Tommaso, tutti partecipano
alle attività più elevate: “ipse populus Ecclesia dicitur” [“il
popolo stesso è chiamato Chiesa”]» 672.
Perciò, come all’inizio di questo capitolo si è visto Tommaso
estendere la città di Aristotele alle dimensioni del mondo, e adattare
di conseguenza la qualità «politica» dell’uomo a quella di essere
«sociale»; come lo si è visto anche trasformare in maniera decisiva
l’analogia del cittadino mediante il richiamo alla qualità di figli del
Padre celeste, così il ricordare ora che Dio nella sua città non fa
accezione di persone e che tutti sono liberi nei suoi confronti, apporta
un nuovo tocco distintivo a questo ritratto del membro della società
ecclesiale.
Il fatto che non abbia scritto un trattato sistematico De Ecclesia
ha impedito a Tommaso di spingere a fondo l’elaborazione di
categorie necessarie, che però si ritrovano senza difficoltà nella sua
opera ed è un peccato averle valorizzate così poco. Allorquando
giunse il momento per i teologi di scrivere sulla Chiesa (circa
trentanni dopo la morte di Tommaso), molti fattori giocarono nel
senso inverso e una «ecclesiologia di combattimento» (l’espressione
è del padre Congar) insistette allora molto di più sui poteri gerarchici
che sull’uguaglianza dei battezzati nel possesso della loro comune
dignità. Senza misconoscere, pertanto, il ruolo del ministero nella
Chiesa, esistevano in germe nell’ecclesiologia di fra Tommaso molti
elementi che troveranno il loro compimento soltanto nei testi del
Concilio Vaticano II. Del resto biso-
gnerà constatare un fenomeno un po’ analogo nei paragrafi seguenti in
cui parleremo della partecipazione di tutti al governo della città.
Senza poterci soffermare troppo su questo, è utile sapere che,
oltre alla cristologia e alla teologia dello Spirito Santo, la dottrina dei

672 Y. CONGAR, «Ecclesia» et «Populus (fidelis)» dans Vecclésiologie de S. Thomas,


pp. 165-166.
335
sacramenti è un luogo privilegiato per scoprire il legame della Chiesa
con la vita spirituale. Molti testi ripetono infatti che essa è «fondata»,
«costruita», «fabbricata» anche per mezzo della fede e dei sacramenti
della fede673. Si riconosce qui il tema così ricco della nascita della
Chiesa dalla croce: l’acqua e il sangue sgorgati dal costato trafitto di
Gesù sono interpretati dalla Tradizione, sia orientale sia occidentale,
come i simboli del battesimo e dell’eucaristia. Ora, se per Tommaso
come per tutti i teologi il battesimo è ciò che realizza l’appartenenza al
Corpo di Cristo che è la Chiesa, egli insiste molto con sant’Agostino
sul frutto dell’eucaristia, che non costituisce soltanto una grazia
d’intimità con Cristo, ma anche l’unità del corpo ecclesiale 674.
Del resto, la teologia sacramentale sottolinea con forza l’idea di
crescita così operativa nella teologia spirituale 675. Un parallelo
illuminante viene stabilito con la vita corporea: «Questa implica un
duplice perfezionamento: uno riguardante la persona stessa, l’altro la
comunità sociale nella quale essa vive, poiché l’uomo è per natura un
animale sociale» 676. Per questo, oltre al frutto ultimo dell’eucaristia
che consiste
nell’unità del Corpo mistico, il rapporto con l’insieme della comunità
si realizza in due modi. Innanzitutto, mediante l’autorità che governa
la moltitudine con l’esercizio delle funzioni pubbliche; a ciò
corrisponde nella vita spirituale il sacramento dell’orbe perché,

673 Cf. Sent. IV, d. 17, q. 3, a. 1 sol. 5; d. 18, q. 1, a. 1 sol. 1; I, q. 92, a. 3; HI,
q. 64, a. 2 ad 3; ecc.
674 Tra tanti altri testi, citiamo questo che è chiaramente esplicito, HI, q.
80, a. 4: «La realtà (la res) procurata da questo sacramento è duplice: quella che
esso significa e comprende, ossia Cristo stesso; l’altra, significata senza essere
contenuta, che è il corpo mistico di Cristo, la comunione dei santi»-, cf. Ili, q. 60, a. 3
se.; q. 73, a. 6; va ricordato che «significare» in questo contesto ha certamente il
senso sacramentale di «segno efficace»: il sacramento realizza ciò che significa.
Questo tema è stato ben studiato: oltre al commento di A.-M. K.OGUET, in SAINT THOMAS
D’AQUIN, L’eucharistie («Revue des Jeunes»), 2 tt., Paris 1959 e 1967, si veda il recente
studio di M. MORARD, L’eucharistie, clé de voùte de l'organisme sacramen- tel chez saint
Thomas d’Aquin, RT 95 (1995) 217-250.
675 Cf. il nostro capitolo XIV: «Degli itinerari verso Dio».
676 III, q. 65, a. 1; Tommaso sembra essersi particolarmente interessato a
questa analogia, dato che ne ha trattato a varie riprese prima di darle la sua forma
definitiva; in questo senso si può vedere Sent. IV, d. 2, q. 1, a. 2, dove la prospettiva
medicinale di guarigione dal peccato è posta in primo piano; SCG IV 58, dove il
parallelo corporale-spirituale fa la sua comparsa, anche se in modo più breve; De
articulis fidei et ecclesiae sacramentis 2, Leon., t. 42, pp. 252-253, dove siamo ormai
molto vicini alla Somma. E interessante notare come, mentre i teologi del suo tempo
cercano di
336
secondo la lettera agli Ebrei (7, 27), i sacerdoti non offrono il'
sacrificio soltanto per essi, ma per tutto il popolo. Poi, giacché questo
perfezionamento sociale è raggiunto tramite la propagazione naturale
della specie, l’uomo è qui perfezionato mediante il matrimonio sia
nella vita corporea che in quella spirituale; infatti il matrimonio
prima di essere un sacramento è prima di tutto un’istituzione
naturale.
Tommaso scorge anche un’altra relazione tra organismo
sacramentale e corpo ecclesiale: i sacramenti sono il fondamento
della legge nella Chiesa61, ma qui entriamo in un campo molto più
vasto che non rientra nel nostro scopo 62. In compenso, occorre
ancora trarre alarne conseguenze dal radicamento temporale della
comunità ecclesiale, poiché esse implicano delle ripercussioni dirette
per la vita del cristiano in questo mondo.

SPIRITUALE E TEMPORALE

Molti studi sono stati dedicati alla questione della Chiesa e


dello Stato in san Tommaso 63 ; il nostro scopo è molto meno
ambizioso. Per giustificare il numero dei sette sacramenti stabilendo la loro
corrispondenza con i sette peccati capitali (Alberto Magno), oppure con le tre virtù
teologali completate dalle quattro cardinali (Bonaventura), Tommaso sembra il solo
a sviluppare questo parallelo tra vita corporale e vita spirituale, al tempo stesso più
naturale e più fecondo. Virtù o vizi, buone opere o peccati, le espressioni della vita
spirituale non appaiono più quasi artificialmente incollate sulla vita del cristiano, ma
proprio come le manifestazioni di un organismo vivente che può certamente essere
affetto da malattie e ritrovare la salute o perfino morire, ma la cui crescita è la legge
normale e che può anche affermarsi e consolidarsi mediante un regolare esercizio.
61
Sent. IV, d. 7, q. 1, a. 1, qla. 1 ad 1: «fundamentum cuiuslibet legis in
sacramentis consistit».
62
Si può rinviare a M. USEROS CARRETERO, «Statata Ecclesiae» y «Sacramenta
Ecclesiae» en la Eclesiologia de Santo Tomás («Analecta Gregoriana 119»), Roma
1962; si troveranno vari articoli sui rapporti del diritto e della comunione nei due
numeri speciali delle Riviste: «Tour ime théologie du Droit canonique», RSPT 57,
1973/2; «La Loi dans l’Eglise», Communio, Parigi 1978/3.
63
Cf. per es. Y. CONGAR, Orientations de Bonaventure et surtout de
Thomas d’Aquin dans leur visión de TÉglise et celle de l’État, in 1274-Anné chamière,
pp.
collegarlo alla ricerca di un capitolo precedente, riprenderemo
brevemente l’esame del termine saecularis di cui avevamo iniziato a
valutare le implicazioni. Se il suo primo senso ha permesso di
337
precisare un po’ meglio l’attitudine religiosa di Tommaso nei
confronti dei beni di questo mondo, ce n’è un secondo che di per sé
non comporta più alcun giudizio. Il termine allora è utilizzato per
descrivere un dato di fatto, per esprimere la divisione dei campi e delle
differenti competenze tra ciò che dipende dalla città terrena
(saeculum) e ciò che appartiene al Regno di Dio sotto la sua forma
terrena, la Chiesa. Allora si distingue e a volte si oppone il temporale
allo spirituale nella loro generalità 64, o più precisamente il civile
all’ecclesiale 65. L’uso è corrente e lo si può illustrare con molti testi,
così come quando Tommaso distingue il tipo d’unità propria a
ciascuna società e il modo in cui ciascuna può essere messa in pericolo
dalle divisioni interne:
«La secessione differisce dallo scisma in due punti. Prima di
tutto, lo scisma si oppone all’unità spirituale del popolo, ossia
all’unità ecclesiastica, mentre la secessione si oppone all’unità
temporale o secolare del popolo, ossia a quella della città o del
regno. [Il secondo punto è che lo scisma resta al piano
spirituale, mentre la sedizione civile comporta una preparazione
alla lotta corporea]» 66.
La stessa distinzione si ritrova quando si tratta di precisare che
ciascuna di queste due città è retta da un potere che le è proprio: da
una parte quello dei principi, dall’altra quello dei prelati a cui tocca
ordinare la vita sociale della massa, mediante leggi appropriate, al
bene comune perseguito in ciascun caso:
«Come spetta ai principi secolari promulgare leggi che
determinino il diritto naturale per quanto riguarda il bene
comune nel campo tempo-
691-708; vi è anche il tema contiguo posto dall’impiego - relativamente poco
frequente, sedici volte - di christianitas, cf. A. MELLONI, Christianitas negli scritti di
Tommaso d’Aquino, «Cristianesimo nella storia» 6 (1985) 45-69; contrariamente a
quanto ci si aspetterebbe, christianitas non ha che raramente il senso sociologico di
«cristianità», ma designa piuttosto la qualità propria dell’essere cristiano.
64
Così nella II-II, q. 63, a. 2: dispensario spiritualìum è ben distinto da
dispensario temporalium.
65
Come quando si distinguono gli uffici «secolari» dagli uffici «ecclesiastici»
(I-II, q. 13, a. 4 arg. 3), oppure i giudici «secolari» dai giudici «ecclesiastici» (II-II, q.
33, a. 7 ad 5).
66
II-II, q, 42, a. 1 ad 2.
rale, così spetta ai prelati ecclesiastici prescrivere con decreti
ciò che riguarda il bene comune dei fedeli nel campo
338
spirituale» 677.
Il parallelo è quindi altrettanto chiaro quanto la distinzione e la
consistenza dei due livelli, ma Tommaso non considera questa
differenza come assolutamente neutra; infatti riconosce tra i due
campi un’ineguaglianza che sottomette il temporale allo spirituale:
«Il potere spirituale si distingue dal potere temporale. Ora, a
volte i prelati investiti del potere spirituale si occupano di
affari che dipendono dal potere secolare. Da dove proviene
loro questo diritto? [A questa obiezione, Tommaso risponde
così:] Il potere secolare è sottomesso al potere spirituale come
il corpo all’anima. Perciò il prelato spirituale può intervenire
in affari temporali, senza usurpazione, nell’ambito in cui il
potere secolare gli è sottomesso, o dove il potere, secolare si
rimette al suo giudizio»678.
Sullo sfondo di questi testi, s’intravede facilmente la situazione
di mescolanza qual era quella della Chiesa medievale, e ci si ricorda
indubbiamente del fatto che Tommaso ha conosciuto egli stesso nella
sua giovinezza dei casi di intreccio tra il temporale e lo spirituale che
hanno implicato da parte sua delle ferme prese di posizione 679.
Questa è forse la ragione per cui, pur sottolineando la superiorità del
campo spirituale su quello temporale, egli ne sottolinea con la stessa
forza le rispettive competenze:
«La potestà spirituale e quella secolare derivano l’una e l’altra
dalla potestà divina; perciò la potestà secolare non è
subordinata a quella spirituale se non nella misura in cui essa
le è stata sottomessa da Dio, cioè circa quelle cose che
riguardano la salvezza delle anime; in questo campo è meglio
obbedire alla potestà spirituale che a quella secolare. Ma per
quanto riguarda il bene politico (bonum ciuile), è meglio
obbedire alla potestà secolare che a quella spirituale, secondo
quanto è affermato in Mt 22, 21: “Date a Cesare quel che è di
Cesare”»680.
Questo testo prosegue ricordando il caso unico del potere
pontificio, dato che il Papa era allora anche sovrano temporale. Ma
questa
677II-II, q. 147, a. 3.
67808 II-II, q. 60, a. 6 arg. 3 e ad 3.
679 Cf. il nostro Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 28-30.
680 Seni. II, d. 44, expositio textus, ad 4.
339
non è che l’eccezione che conferma la regola: nonostante le possibili
interferenze, il temporale conserva la sua autonomia e la sua
consistenza, e la riconosciuta superiorità dello spirituale sul temporale
non può servire da pretesto per sfuggire alle leggi legittime dei
principi temporali. Ciò resta vero anche se questi principi non sono
cristiani, perché «se la distinzione tra fedeli e infedeli dipende dal
diritto divino che proviene dalla grazia, essa non distrugge il diritto
umano che proviene dalla ragione naturale. Perciò... essa non
sopprime né la sovranità né l’autorità degli infedeli sui fedeli» 681 682. Si
tratta di un punto sul quale Tommaso è stato spinto a riflettere dai
frequenti ammonimenti di san Paolo riguardanti la sottomissione alle
autorità o ai padroni da parte degli schiavi (cf. Co/3, 22; Ef 6, 5; Tt 2,
9; 1 Pt 2, 18):
«Perché ritorna così spesso su questo punto? Non è senza
motivo. Infatti, era nata presso gli ebrei un’eresia secondo la
quale i servitori di Dio non potevano essere i servitori degli
uomini, ed essa si era diffusa nel popolo cristiano dove alcuni
dicevano che, divenuti figli di Dio per mezzo di Cristo, non
potevano essere servitori degli uomini. Cristo però non è venuto
a distruggere con la fede l’ordine della giustizia; anzi, è
mediante la fede in Cristo che la giustizia viene salvaguardata. E
la giustizia vuole che gli uni siano sottomessi agli altri, ma
questa schiavitù riguarda il corpo. Ora, per mezzo di Cristo noi
siamo liberati quanto all’anima, ma non quanto alla schiavitù e
alla corruzione del corpo; nei secoli futuri saremo liberati dalla
corruzione e dalla schiavitù corporea»12.
Questo passaggio del commento alla lettera a 'Pilo ha il suo
esatto parallelo in un articolo della Somma che vale la pena leggere qui
per capire fino a che punto si tratta di ima dottrina costante e meditata:
«La fede in Cristo è principio e causa di giustizia, secondo
quanto è affermato in Rm 3, 22: “La giustizia di Dio si ottiene
mediante la fede in Cristo”. Questa fede non sopprime quindi
l’ordine fondato sulla giustizia (ordo iustitiae), al contrario lo
consolida. Ora, l’ordine fondato sulla giustizia esige che gli
inferiori obbediscano ai loro superiori; sefos-
681 n-n, q. 10, a. 10; cf. Pad 3: «L’autorità di Cesare preesisteva alla
distinzione tra fedeli e infedeli»; per uno studio più completo, vedi S.R. CASTAÑO,
Legitima potestad de los infieles y autonomia de lo politico. Exegesis tomista, ST 60
(1995) 266-284.
682 In ad Titum 1, 9, n. 64.
340
se altrimenti, sarebbe la rovina di ogni società umana. La fede
in Cristo non dispensa perciò dall’obbedire ai principi
secolari»1?’.

Non è questo il luogo adatto per proseguire ulteriormente nello


studio di tale questione considerata in se stessa. Si terrà presente
semplicemente il fatto che, contrariamente a ciò che è ancora il caso
presso i maggiori suoi contemporanei74, Tommaso ha ima visione
nettamente dualista dei rapporti della Chiesa e della società civile,
posizione questa che egli non cambierà mai 75. Non sarebbe stato
figlio del suo tempo se non avesse ammesso l’unione di fatto dei due
poteri nel potere pontificio, come pure la subordinazione dei fini
della società civile al fine ultimo della Chiesa. Ma è molto
apprezzabile anche il fatto che egli esalti la distinzione di principio
dei due campi e delle loro competenze proprie, come il principio
della loro reciproca subordinazione nei rispettivi campi. Molto
cammino restava da compiere prima di giungere alla dottrina dei
rapporti tra Chiesa e Mondo contemporaneo 76, o a quella sulla

73
II-II, q. 104, a. 6; si noterà l’ad 3 in cui Tordo iustitiae appare come il
fondamento stesso di tale obbedienza al principe; se costui si trovasse in rottura
rispetto a quest’ordine, i suoi sudditi sarebbero liberati dal loro dovere
d’obbedienza nei suoi confronti; si veda anche l’articolo precedente, q. 104, a. 5:
l’uomo deve un’obbedienza assoluta soltanto a Dio.
74
Soprattutto in Bonaventura e Alberto Magno, che restano tributari
dell’equivalenza ecclesia-christianitas, ricevuta dall’Alto Medioevo, con i
permanenti rischi contrari di ierocratismo o cesaropapismo che l’accompagnano; cf.
a tal proposito i testi citati da I.TH. ESCHMANN, St. Thomas Aquinas on thè Two
Powers, MS 20 (1958) 177-205, spec. 192-193.
75
Piuttosto che Eschmann, citato nella nota precedente, si veda qui lo studio
di L.E. BOYLE, The De Regno and thè Two Powers, in ID., Pastoral Care, Clerical
Education ad Canon Law, 1200-1400, London 1981, e L.P. FITZGERALD, St. Thomas
Aquinas and thè Two Powers, «Angelicum» 56 (1979) 555-556. In senso opposto alla
posizione qui adottata, cf. W.J. HANKEY, «Dionysius dixit, lex divinatis est ultima per
media reducere». Aquinas, Hierocracy and thè «Augustinisme politique», in Tommaso
dAquino. Proposte nuove di lettura, a cura di I. TOLOMIO (= Medioevo 18, 1992),
Padova 1992, pp. 119-150; nonostante la ricchezza della documentazione
bibliografica di questo studio, molti testi citati qui sopra sembrano essere sfuggiti
all’autore.
76
Cf. per es. Gaudium et spes n. 36, 2: «Se per autonomia delle realtà
terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri,
che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di
un’esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma
anche è conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di
creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro
341
leggi proprie e il loro ordine».
libertà religiosa 683, quali saranno quelle del Concilio Vaticano II, ma
non vi è alcun dubbio che occorra vedere nella metafisica della
creazione tomasiana l’origine, contemporaneamente lontana.e molto
prossima, di una veduta così chiara di queste realtà complesse.

LA MIGLIORE FORMA DI GOVERNO?

L’affermazione dell’autonomia del politico nei confronti del


religioso non dice ancora niente circa la questione notevolmente
differente della migliore forma di governo che conviene adottare in una
società. A dire il vero, Tommaso non si è mai soffermato a lungo su
questo tema, ma si nota subito che le due questioni non sono senza
legami. Non solo perché si tratta da entrambe le parti del bene comune
della moltitudine, ma anche perché i dati di base che orientano le scelte
in fondo sono gli stessi nei due casi. Come l’esigenza del rispetto
reciproco delle diverse competenze della Chiesa e dello Stato, così è
iscritto nell’autonomia dell’essere umano l’appello a un’etica di
responsabilità personale nel governo della città terrena.
Bisogna sapere tuttavia che noi affrontiamo una delle questioni
più discusse dell’esegesi tomasiana. Come in tanti altri campi, e forse
ancor di più, molti interpreti hanno voluto ritrovare presso il Maestro la
teoria che essi stessi difendevano. Così, al tempo dell’«Action
française», un’intera schiera di teologi influenti aveva tentato di
trascinare il suo pensiero politico dalla parte di una monarchia assoluta,
mentre altri lo collocavano piuttosto nella linea di una corrente
democratica e altri ancora vedevano in esso una teoria del governo

683 Ricercando le fonti di questa dottrina, un osservatore esperto come il p.


Congar aveva già notato che la principale si trova in sant’Alberto Magno e san
Tommaso i quali «avevano mostrata e fondata una consistenza della natura
indipendentemente dalla sua condizione di giustizia soprannaturale o di peccato, e di
conseguenza, una validità dell’ordine naturale indipendente dalla fede e dalla carità.
Non è in fondo questa linea di pensiero che segue la nostra Dichiarazione \Dignitatis
humanae personne, sulla libertà religiosa] quando fonda il diritto, non soltanto
civile e relativo, ma naturale e assoluto, della persona umana a non essere costretta in
materia di coscienza e soprattutto in materia religiosa? C’è stato dunque, non un
passaggio da un ordine oggettivo a quello soggettivo, ma una nuova formulazione di un
aspetto dell’ordine oggettivo: una prima volta ad opera di Tommaso e Alberto, una
seconda volta ad opera del Concilio Vaticano II», Y. CONGAR, Avertissement, in J. HAMER
- Y. CONGAR (edd.), La liberté religieuse («Unam Sanctam 60»), Paris 1967, p. 12; ne
riparleremo nel cap. XIII sulla coscienza secondo Tommaso d’Aquino.
342
«misto» 684. La soggettività degli interpreti non era pertanto l’unica ad
essere in causa, dato che le divergenze d’interpretazione non sono
limitate al territorio francese; gli autori inglesi sostengono anch’essi a
volte posizioni differenti 685.
Bisogna ammettere che è molto difficile armonizzare le
affermazioni del Maestro a seconda che commenti Aristotele 686 o che
rediga il piccolo libro «Sul regno» - scritto d’occasione destinato a un
sovrano regnante e rimasto incompiuto 687 -, oppure che si esprima
esplicitamente nella sintesi personale della Somma di teologia. Il punto
di vista è già diverso in ciascuno di questi tre casi, ma le cose sono state
ulteriormente complicate dal fatto che il De regno è stato completato da
Tolomeo di Lucca, mentre il commento alla Politica è stato continuato
da Pietro d’Auvergne, e che nei due casi i due commenti sono stati
completati in un senso molto diverso da quello del Tommaso della
Somma. Il De regno ha subito una disavventura supplementare, poiché
è stato plagiato da parte di Egidio di Roma nel suo proprio trattato De
regimine principum, spingendolo anch’egli dalla parte di un potere
monarchico dispotico, e deturpando così la teoria del potere politico
giudiziosamente temperato quale sembra essere proprio il pensiero
personale di Tommaso688.

684 Si leggerà con profitto l'illuminante studio di R. IMBACH, Démocratie ou


monarchie? La discussion sur le meilleur régime politique chez quelques interprètes français
de Thomas d’Aquin (1893-1928), in Saint Thomas au XXe siècle, ed. S.TH. BONINO, Paris
1994, pp. 335-350, dove si troverà un richiamo esatto di queste controversie e la
letteratura più antica che non dobbiamo riprendere qui.
685 Si potrà convincersene leggendo J.M. BLYTHE, The Mixed Constitution
; and thè Distinction Between Regai and Politicai Power in thè Work of Thomas Aquinas,
«Journal of thè History of Ideas» 47 (1986) 547-565, il quale propone all’inizio del suo
studio un’utile rievocazione delle opinioni avverse.
686 Sententia libri Politicorum, Leon., t. 48 A; l’opera è rimasta incompiuta e
si ferma al libro ITI 6 (Bekker, 1280 a 7); vedi il nostro Tommaso d’Aquino. L’uomo e il
teologo, pp. 264-265; tranne la Leonina, tutte le edizioni del commento di Tommaso
sono molto lacunose, e il testo più o meno ampliato che propongono non è quello di
Tommaso ma di Pietro d’Auvergne, che l’ha completato e del quale riflette le opinioni.
687 De regno ad regem Cypri, Leon., t. 42; l’opera è nota anche sotto il nome ;
di De Regimine principum; la sua parte autentica si ferma al centro del cap. II, 8; vedi il
nostro Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 195-197. La Lettera alla Contessa
delle Fiandre (o: alla Duchessa di Trabante; cf. Leon., t. 42, pp. 360-378) appartiene
anch’essa a questo tipo di letteratura (cf. Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp.
246-249).
688 Si è fatto osservare che le posizioni apparentemente divergenti di
Tommaso si concilierebbero molto bene tra di esse se si vagliasse con attenzione se
quando egli parla, parla in assoluto (un solo sovrano virtuoso sarebbe la cosa migliore,
ma invero considera ciò un’eccezione), oppure nell’ordine della realtà concreta (il
343
A noi sembra che molti problemi potrebbero essere risolti se si
accettasse di formularli in un modo nuovo, più attento al progetto
globale, che al tenore dottrinale immediato di alcune proposizioni degli
scritti avversi. Infatti è importante distinguere il De regno e la Politica
dal vero disegno dell’Aquinate; non si può accordare lo stesso peso a
questi tentativi incompleti e all’insegnamento della Somma. L’analisi
attenta del De regno in modo particolare, le cui caratteristiche hanno da
così tanto tempo inquietato i commentatori, permette di rendersene
conto. Se le circostanze hanno spinto Tommaso ad iniziare queste due
opere e se le ha così rapidamente abbandonate, in fondo è perché il loro
genere non corrispondeva a quella che era la sua vera intenzione. Lungi
dal voler scrivere un trattato di filosofia politica, egli ha soprattutto la
preoccupazione di una visione teologica della vita cristiana considerata
finanche nei suoi aspetti politici 689. Perciò, almeno nel presente caso, è
soltanto nella Somma di teologia che troviamo il suo vero pensiero, non
sotto' forma di un trattato di teologia politica indipendente, ma
disseminato qua e là in frammenti secondo l’esigenza del progetto
d’insieme690.
In ogni caso, e per essere metodici, ci si atterrà qui ai testi della
Somma, scritto di sintesi e frutto più maturo del genio di fra Tommaso.
Non è un caso se i passaggi principali che leggeremo provengono quasi
tutti dai trattati sulla legge, antica e nuova. Il loro autore si manifesta in
essi «un tenace difensore della legge», considerata la garanzia di una
società giusta 85. Non si tratta tanto di sapere se il migliore governo sarà
meglio assicurato da uno solo, da alcuni o da tutti, quanto di sapere se i
sostenitori del potere governeranno in accordo con la legge, essendo
questa stessa l’espressione della volontà dell’intero popolo:

governo misto è allora preferibile), cf. A. RIKLIN, Die beste politische Ordnung nach
Thomas von Aquirt, St. Gallen 1991, pp. 31-34 (non abbiamo potuto consultare la
ripresa di questo lavoro sotto uno stesso titolo in Politik und christliche Verantioortung,
Festschrift für F.-M. Schmòlz, ed. G. PUTZ - H. DACHS E AL., Innsbruck-Wien 1992, 67-
90); tuttavia ci si può chiedere se questo tipo di lettura è sufficiente; la proposta di M.
Jordan (qui sotto) sembra indicare una soluzione migliore.
689 Si può trasporre alla teologia ciò che altrove è detto della filosofia morale,
Sententia libri Ethicorum, Introduction, Leon., t. 47/1, p. 4: «Si può dividere la filosofia
morale in tre parti. La prima, che è detta “monastica”, considera le azioni dell’uomo
prese individualmente in quanto ordinate al fine. La seconda, detta “economica”,
considera le azioni del gruppo domestico; la terza si occupa della massa civile ed è
detta “politica”».
690 Riassumiamo qui l’essenziale della proposta che ci sembra veramente
nuova e pertinente di M.D. JORDAN, De Regno and thè Piace of Politicai Thinking in
Thomas Aquinas, «Medioevo» 18 (1992) 131-168; il tentativo dij.l. SARAÑYANA,
344
«Propriamente parlando, la legge mira innanzitutto e
principalmente all’ordine in vista del bene comune. Stabilire
quest’ordine in vista del bene comune spetta al popolo intero
(totius multitudinis) o a colui che lo rappresenta (gerentis uicem
totius multitudinis). Perciò il potere di legiferare appartiene sia
all’intero popolo sia al personaggio ufficiale che ne ha la cura
(quae totius multitudinis curam habet). Questo perché, qui come
in tutti gli altri campi, orientare al fine spetta a colui che è
incaricato di questo fine come di qualcosa di proprio»8é.
Così secondo questo testo, non solo il potere legislativo
appartiene alla moltitudine, ma bisogna capire anche che il sovrano
stesso non ha il potere di formulare leggi se non per delega, e
Tommaso lo afferma molto esplicitamente 87. In queste condizioni, non
ci si sorprenderà nell’apprendere che ai suoi occhi la migliore forma di
governo sia quella che egli chiama «mista», giacché è il risultato di un
equilibrio tra le diverse forme di potere descritte da Aristotele.
Essendovi implicati tutti i cittadini, essa è normalmente la più adatta ad
assicurare il buon ordine di questo cammino dell’intero popolo verso il
fine:

En busca de la ciencia politica tomasiana. Sobre el libro IV «De regimine prin- cipum»,
ST 60 (1995) 256-265, che vorrebbe vedere nel supplemento aggiunto da Tolomeo
un’eco delle «conversazioni da tavola» di Tommaso stesso, ci sembra molto meno
probabile.
85
J.M. BLYTHE, The mixed Constitution, p. 556: «Thomas is an unswerving
champion of thè law».
86
1-II, q. 90, a. 3.
87
1-II, q. 97, a. 3 ad 3: «Se si tratta di una società capace di darsi delle leggi,
bisogna contare più sul consenso unanime del popolo per fare osservare una
disposizione resa manifesta dalla consuetudine, che suXIautorità del capo che non ha
il potere di fare delle leggi se non a titolo di rappresentante della collettività. Perciò,
sebbene gli individui non possano istituire leggi, tuttavia l’intero popolo ha questo
potere».
«Due cose si devono tenere presenti circa il buon ordinamento del
governo di una città o di una nazione. La prima è che tutti
partecipino in qualche modo al governo; così infatti, stando al
secondo libro della Politica, si conserva la pace nel popolo e tutti
si sentono impegnati ad amare e difendere codesto ordinamento.
La seconda riguarda la forma di regime o dell’organizzazione dei
poteri; si sa che esistono varie forme di governo, distinte da
Aristotele nel terzo libro della Politica, ma le principali sono la
monarchia, in cui si ha il dominio di uno solo esercitato
onestamente, e l’aristocrazia, ossia il governo dei migliori, in cui
345
si ha l’onesto governo di pochi: Perciò il miglior ordinamento di
governo per una città o un regno è quello alla cui guida è posto, a
causa della sua virtù, un unico capo che ha autorità su tutti,
mentre sotto la sua autorità si trova un certo numero di
subalterni, qualificati per la loro virtù; e tuttavia il potere così
definito appartiene a tutti perché tutti hanno sia la possibilità di
essere eletti, sia quella di essere elettori. E questa è la migliore
forma di governo perché in essa sono debitamente integrate
(politia bene commixta) la monarchia, in quanto c’è la presidenza
di uno solo; l’aristocrazia, in quanto c’è la molteplicità di uomini
eminenti in virtù; infine la democrazia o potere popolare, in
quanto semplici cittadini possono essere scelti come capi e al
popolo spetta la loro elezione» 691.
La volontà d’equilibrio è evidente, ma non è l’unica a giustificare
la preferenza per il regime misto. Come ci si può rendere conto
proseguendo la lettura, Tommaso trae dalla Sacra Scrittura la
convinzione che è proprio questo regime misto che Dio aveva voluto
per il suo Popolo:
«Infatti\ Mosè e i suoi successori governavano il popolo come
capi unici e universali, ciò che è caratteristico della monarchia.
Ma i settanta- due anziani erano eletti a causa del loro merito (cf.
Dt 1, 15)... Ecco l’elemento dell’aristocrazia. Quanto alla
democrazia, essa si concretizzava nel fatto che i capi erano tratti
dall’insieme del popolo (cf. Es 18, 21)... e che il popolo stesso li
designava (cf. Dt 1, 13). Quindi è chiaro che, essendo istituita
dalla legge [divina], questa organizzazione dei poteri era la
migliore» 692.
L’autorità dei Padri della Chiesa viene in aiuto a questo argomento
scritturistico con ima definizione della legge estratta da Isidoro di
Siviglia: «C’è infine un regime misto (commixtum), composto dai
precedenti, e questo è il migliore (optimum); qui si chiama legge “ciò
che gli antichi, d’accordo con il popolo, hanno sanzionato”, come
afferma sant’Isidoro»693.
In tal modo la preoccupazione dell’efficacia di un tale governo
ottenuto con la concentrazione del potere in un piccolo numero non
esclude l’insistenza sulla partecipazione di tutti al governo mediante la
via dell’elezione e dell’eleggibilità di tutti. Domenicano, fra Tommaso

6911-II, q. 105, a. 1; le traduzioni correnti di questo testo a volte sono inesatte.


692I-II, q. 105, a. 1.
6931-II, q. 95, a. 4 ad 3.
346
appartiene a un Ordine religioso in cui tutte le cariche sono elettive;
egli sa molto bene che il senso di responsabilità personale è stimolato
dall’impegno effettivo nella scelta dei responsabili del governo.
Secondo il vecchio adagio, ben noto negli ambienti religiosi del suo
tempo: «Ciò che riguarda tutti dev’essere discusso da tutti» 694. Checché
ne sia dei passaggi delle altre opere che fanno difficoltà ai loro
interpreti, è chiaro che testi come questi sono perlomeno portatori di
«potenti elementi democratici» 695. Jacques Maritain già tempo fa
aveva opportunamente ricordato la loro vera portata rispetto a certi
travestimenti696. Il pensiero di Tommaso è qui quello di un riscopritore
del pensiero politico greco e la sua sintesi appare come una
combinazione originale tra il pensiero antico, la patristica e il pensiero
medievale, mentre il suo modo di leggere la storia d’Israele come
quella di un popolo dal governo misto, anche se è un po’ forzato, è
anch’esso profondamente nuovo 697.
Questi testi possono certamente essere letti e compresi in maniera
leggermente diversa secondo la sensibilità propria del lettore, o forse
secondo la sua nazionalità o la sua appartenenza sociale. Ma si tratta di
tutt’altro rispetto alle divergenze d’interpretazione ricordate all’inizio di
questo paragrafo; non tutte sono buone. La chiara scelta di Tommaso per
il regime «misto» corrisponde al suo modo di considerare l’uomo come
un essere sociale che non può disinteressarsi del corpo al quale
appartiene e di cui al contrario deve essere un membro attivo e
impegnato. Quando quest’uomo è un cristiano, la sua stessa fede gli
impedisce di attenersi a un approccio individualista, troppo «privato»,
694 Cf. Y.M.-J. CONGAR, «Quod omnes tangit, ab omnibus trattari et
approbari debet», «Revue historique de Droit français», 4a serie, 1958, pp. 210-259;
questo studio già datato non ha affatto perduto il suo valore. A. RIKLIN, op. cit., sottolinea
giustamente che la monarchia medievale che conosceva Tommaso era molto spesso
elettiva (sebbene l’elezione non riguardava che i grandi del reame) e di fatto sovente
strettamente limitata.
695 L’espressione è di R. IMBACH, Démocratie ou monarchie?, p. 350.
696 Ricordiamo semplicemente i libri più celebri, che vanno d’altronde
oltre una semplice esegesi dei testi tomasiani: Du régime temporel et de la liberté, Paris
1933; Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté,
Paris 1936; Les droits de l’homme et la loi naturelle, New York 1942; Christianisme et
démocratie, New York 1943; questi titoli sono ripresi in J. e R. MARITAIN, Oeuvres
complètes, tt. V-VII, Fribourg-Parigi 1984-1988.
697 Cf. A. RIKLIN, Die beste, pp. 31-34; J.M. BLYTHE, The Mixed Constitution,
p. 564; si vedrà anche A. HARDING, Aquinas and thè Legislatore, in Théologie et Droit dans
la science politique de l’Etat moderne. Actes de la Table ronde organisée par l’Ecole
française de Rome avec le concours du CNRS, Roma, 12-14 novembre 1987
(«Collection de l’École française de Rome 147»), Roma 1991, pp. 51-61; M.
347
della sua relazione con l’altro. Una «spiritualità» alla scuola di fra
Tommaso implica necessariamente la sua ripercussione in campo
pubblico.
Come concludere quest’ampio capitolo - in cui alcuni sviluppi
sono potuti sembrare molto lontani da ciò che s’intende ordinariamente
per «teologia spirituale» -? Lo si sarà capito, la nostra intenzione era
duplice: si trattava innanzitutto di proseguire la riflessione iniziata nel
capitolo precedente circa la concezione dell’uomo. Che la si chiami
Chiesa o società terrena, la comunità è l’organismo spirituale nel quale
l’uomo di Tommaso è profondamente inserito, al quale egli appartiene
interamente anche se non secondo tutto se stesso, che ha su di lui dei
diritti e di cui deve preferire il bene al suo proprio bene, al di fuori del
quale non può vivere. Questa riflessione non è del tutto completa, e nel
capitolo seguente dovremo ritornare sul modo in cui la persona umana
trascende la comunità terrena, Chiesa o Stato che sia. Il carattere sociale
dell’uomo però, resterà una realtà acquisita: la comunità non è per lui un
semplice beneficio esterno, un aiuto per vivere meglio; essa è
inseparabilmente legata alla sua natura.
In realtà - e questo è indubbiamente il principale dato acquisito - è
chiaro ormai che l’approccio tomasiano all’uomo non ha niente
dell’intimismo individualista che molto spesso caratterizzerà la
spiritualità dei secoli successivi. Se è vero che Tommaso non ha scritto
trattati sulla Chiesa - proprio perché ha scritto una Somma di teologia -,
non per questo la sua spiritualità è meno ecclesiale, in quanto essa non è
quella di un individuo prima isolato, che solo in seguito deciderebbe

ViLLEY, La théologie de Thomas d’Aquin et la formation de l’État moderne, in ihid., pp.


31-49, forse non presenta lo stesso interesse.
con una scelta volontaria di associarsi ad altri - per facilitarsi la vita, per
esempio -, ma quella di una persona legata per natura, fin dalla sua
nascita, a una comunità al di fuori della quale non può umanamente
realizzarsi, e legata per grazia, fin dalla sua rinascita come figlio
adottivo di Dio, al Corpo di Cristo di cui è membro, in una stretta
interdipendenza che trova la sua migliore espressione nella Comunione
dei santi. E soltanto allora, quando tutti si ritrovano intorno allo stesso
Bene comune supremo, che l’amicizia, già possibile e reale ai vari livelli
che abbiamo ricordato in questo capitolo, può assumere la sua

348
dimensione finale 698.
Il fatto che l’amicizia così intesa appaia allora per ciò che essa è,
e cioè un valore escatologico che non sarà pienamente vissuto se non in
patria, non toglie niente alla sua realtà già attuale. Non toglie nulla
nemmeno alla necessità di incarnarla ogni giorno di più tra gli uomini,
poiché, se la carità è un’amicizia, essa vuol far nascere quest’amore
anche là dove esso non è. Ma, ora lo si dovrebbe capire meglio, per
arrivare fino all’estremo di questa esigenza, non è sufficiente applicare
ciò alle relazioni tra persona e persona; si tratta di un compito ecclesiale.
Costruire una società più umana non è il compito di cristiani isolati, è
l’opera dell’intero Corpo di Cristo. Così dunque, quando la Chiesa
interviene per il diritto alla vita, per la giustizia sociale o per la pace nel
mondo, essa testimonia sia la sua fedeltà all’uomo nella sua dimensione
comunitaria, sia la sua fedeltà al messaggio di Cristo, giacché il Vangelo
ha proprio delle ripercussioni politiche e sociali.
In secondo luogo, si trattava di proseguire la riflessione abbozzata
in un capitolo precedente sulle implicazioni dei valori della creazione, in
nome del grande principio secondo cui la grazia non distrugge la natura
ma la perfeziona. Lo scopo non consisteva tanto nello sviluppare tutte le
implicazioni di questo assioma - in realtà soggiacente a molti altri
passaggi di questo libro - quanto nel verificarne la presenza operativa in
tutto il campo dell’agire umano. Secondo Tommaso, la natura non è una
realtà statica ma dinamica; non è dunque completamente se
stessa se non educata. L’uomo naturale non è l’uomo allo stato bruto o
selvaggio, ma l’uomo che si realizza nella linea delle grandi
inclinazioni della sua natura alla ricerca del vero e del bene sotto tutte
le sue forme. E a questo titolo che Tommaso riprende numerosi
elementi della sapienza degli antichi greci o latini, e soprattutto della
loro filosofia morale, personale o politica. La loro assunzione in una
prospettiva cristiana non si realizza senza modificarli profondamente,
ma il patrimonio è nonostante ciò ben acquisito.
La dottrina dell’uomo come essere eminentemente politico e
sociale non costituisce la parte meno preziosa di questa eredità.
Congiunta alle influenze cristiane, anch’esse reperibili, impedirà a

698 Si sarà compreso da quanto precede che risulterebbe difficile per noi
aderire all’opinione di O.H. PESCH, Christian Existence Acccording to Thomas Aquinas,
Toronto 1989, pp. 20-25, secondo il quale il senso profondo della relazione
interpersonale tra Dio e l’uomo avrebbe spinto Tommaso a un certo individualismo
religioso; si potranno leggere alcune informazioni supplementari in J.-P. TOKRELL,
Dimensión ecclésiale de l’expérience chrétienne, FZPT 28 (1981) 3-25.
349
Tommaso di cedere sia alle facilità semplificative di uno spiritualismo
ad oltranza, che non vedrebbe nel mondo se non materia da
disprezzare, sia alla tentazione di ridurre la vita cristiana alla sola
relazione della creatura col suo Creatore. Fondante sotto tutti i punti di
vista, questa prima relazione non impedisce all’essere umano di essere
collocato in un mondo che può richiedere da lui il servizio degli altri
nella collettività. Per scelta personale, Tommaso aveva scelto di
ritirarsi dal secolo, non per questo però l’ignorava. Non è affatto
necessario essere teologo per capire che un cristiano laico può trovare
nei testi che abbiamo appena letto il fondamento e la legittimità di un
impegno attivo nel mondo del suo tempo. Senza pretendere di trovare
in essi tutti gli elementi di una spiritualità dell’impegno temporale, si
può certamente affermare che ne forniscono almeno le basi 96.

■ 96 La cosa è stata molto ben affermata da W.H. PRINCIPE, "Western Medieval


Spirituality, in The New Dictionary of Catholic Spirituality, M. DAWNEY
(ed.), Col- legeville (Minnesota) 1993, 1027-1039, cf. p. 1031: «Mentre
Bonaventura riprendeva l’interiorità agostiniana in modo magistrale, l’Aquinate
poneva le fonda- menta di un’autentica spiritualità laica, riattualizzando il tema
d’Ireneo secondo cui Dio è glorificato al massimo allorquando ciascuna creatura e
tutte insieme raggiungono i fini per i quali egli le ha create».

XIII
Ciò che vi è di più nobile al mondo

Tale quale l’abbiamo scoperto fin qui, l’uomo secondo Tommaso


d’Aquino appare così profondamente radicato nella sua consistenza
350
carnale e simultaneamente nella comunità di cui è membro, da esserne
inseparabile. In quanto essere animale, non gli è possibile giungere alla
propria perfezione senza che la sua stessa «opacità» corporea non si
abbandoni totalmente alla potenza liberatrice della grazia; come animale
politico poi, non vi è per lui una realizzazione possibile al di fuori dei
vari ambienti sociali ai quali appartiene. Lungi dall’essere considerata
come un handicap, questa duplice relazione costituisce al contrario la
struttura di base ricevuta da Dio al principio della creazione. H peccato
l’ha sfigurata, ma non l’ha distrutta, ed è essa che occorre cristianizzare.
Questo radicamento non rappresenta tuttavia che il punto di
partenza. Fra Tommaso non ignora che se con tutta una parte di se
stesso l’uomo è in continuità con il regno animale, con tutta un’altra
parte - e non esita a dire la migliore - egli è in continuità con l’universo
degli spiriti. Parimenti il nostro autore sa molto bene che, se l’uomo è
come una parte nel tutto sociale al quale è subordinato secondo un certo
rapporto, egli lo trascende tuttavia per tutto un altro aspetto di se stesso.
L’inesauribile Prologo della Prima Secundae è probabilmente il
testo che riassume nella maniera più precisa questa grandezza
dell’uomo: a immagine di Dio, la persona umana dotata del libero
arbitrio e del controllo del suo agire, è chiamata a raggiungere il suo
Esemplare nella condivisione della sua beatitudine. Perciò è questa
duplice pista che ci si propone di esplorare in questo capitolo, dopo aver
però ricordato alcuni testi significativi sull’idea che Tommaso si fa della
persona. E indubbiamente il termine «persona» che evoca meglio il
registro proprio in cui si esprime il mondo dell’anima e delle sue
operazioni spirituali.

351
Ciò CHE VI È DI PIÙ NOBILE IN TUTTO L’UNIVERSO

La definizione classica di «persona» ricevuta da Boezio apporta


già un contributo decisivo in quanto, distinguendosi da ogni altro
individuo di natura corporea, la persona umana ha come caratteristica
il fatto di essere «una sostanza individuale di natura razionale» b Se
il sobrio rigore di questa definizione rischia di mascherarne il fascino
per coloro che hanno poca familiarità con i concetti filosofici,
Tommaso è tuttavia formale: «La persona indica ciò che di più
perfetto esiste in tutta la natura, la sussistenza in una natura
razionale»2. Di fatto, la rivelazione conferma questa dignità, poiché
uno dei motivi dell’incarnazione consiste precisamente nel rivelare
questa grandezza: «se Dio si è fatto uomo è stato per istruirci sulla
dignità della natura umana»3. Tommaso predilige questo tema fra
tutti gli altri e vi insiste in ogni occasione 4. Ma è interessante il fatto
che prima che per l’uso cristologico il concetto di persona sia stato
elaborato in funzione del dogma trinitario 5; esso viene così ad
assumere un’ampiezza analogica insospettata giacché lo si può
applicare alle stesse «Persone» divine:

1
Cf. BOEZIO, De duabus naturis, cap. 3, PL 64,1343; Tommaso rinvia molto
spesso a questa definizione, soprattutto nei trattati della Trinità e dell’Incarnazione,
cf. per esempio I, q. 29, a. 3 e III, q. 2, a. 2; cf. M. NÉDONCELLE, Les variations de
Boèce sur la personne, RevSR 29 (1955 ) 201-138; M. ELSÄSSER, Das Person-
Verständnis des Boethius, Münster 1973.
2
1, q. 29, a. 3; cf. l’ad 2: «Sussistere in una natura razionale è molto nobile»;
vedi alcuni testi e la riflessione che essi richiedono in S. PiNCKAERS, La dignité de
l’homme selon S. Thomas d’Aquin, in A. HOLDEREGGER - R. IMBACH - R. SUAREZ DE MIGUEL
(edd.), De Dignitate hominis. Mélanges offerts à Carlos-Josaphat Tinto de
Oliveira, Fribourg (Svizzera) 1987, pp. 89-106.
3
III, q. 1, a. 2; vedi anche III, q. 3, a. 8, dove Tommaso spiega che se era
preferibile che fosse il Verbo a incarnarsi, piuttosto che il Padre o lo Spirito Santo,
ciò era dovuto certamente al fatto che il Verbo è causa esemplare della creazione,
ma era dovuto anche «al compimento della perfezione deU’uomo {ad consumma-
tam hominis perfectionem, conueniens fuit ut ipsum Verbum Dei humanae
naturae personaliter uniretur)».
4
Compendium theologiae I, 201: «Era necessario per il genere umano che
Dio si facesse uomo per mostrare la dignità della natura umana»-, cf. anche SCG IV
54, n. 3924: «Questa dignità dell’uomo chiamato a conoscere la beatitudine, Dio l’ha
manifestata nella maniera più adatta, assumendo egli stesso senza intermediari la
natura umana».
5
In questo senso si potranno vedere alcune indicazioni in H. SEIDL, The
Concepì of Person in St. Thomas Aquinas: A Contribution to Recent
Discussion, «The Thomist» 51 (1987) 435 -460, la cui analisi tiene conto anche
352
della tradizione tomistica.

353
«La persona evoca ciò che esiste di più perfetto in tutta la
natura, ossia ciò che sussiste in una natura razionale. Ora,
tutto ciò che dice “perfezione” deve essere attribuito a Dio
perché la sua essenza contiene in sé ogni perfezione. Perciò
conviene attribuire a Dio il nome di “Persona”. Certo, non
allo stesso modo in cui lo si attribuisce alle creature, ma in una
maniera più eccellente, così come accade ogni qualvolta
attribuiamo a Dio altri nomi che noi accordiamo alle creature»
699 700
.
La persona umana si trova così collocata in un registro di
perfezione in cui, mutatis mutandis, il Creatore ha comunicato alla
sua creatura alcune delle sue prerogative. In pratica, l’eccellenza
metafisica della sostanza si coniuga qui con il senso cristiano dello
spirito, e la definizione filosofica riceve in campo cristiano un
significato insospettabile per la pura ragione, poiché ciò significa che
è tramite la sua anima, intelligente e libera a immagine di Dio, che
l’uomo è costituito come persona.
Queste affermazioni così nette pongono indubbiamente degli
interrogativi al lettore che si ricorda ancora dell’esempio della parte e
del tutto, ripetuto così spesso per caratterizzare il posto dell’uomo
nella società. Di fatto, la nozione del rapporto dell’uomo con la
comunità sociale riceve qui un complemento decisivo e una
correzione indispensabile. A dire il vero, Tommaso non perde ciò mai
di vista e lo esprime in vari modi. Sicché la subordinazione della
parte al tutto non avviene in maniera univoca:
«Se un tutto non è fine ultimo, ma a sua volta è ordinato a un
ulteriore fine, l’ultimo fine di una delle sue parti non può
essere il medesimo tutto, bensì qualche altra cosa. Ora, il
complesso delle creature, che sta all’uomo come il tutto alla
parte, non è fine ultimo, ma è ordinato a Dio come a suo ultimo
fine. Dunque non il bene dell’universo, ma Dio stesso è
Vultimo fine dell’uomo»1.
Questo orientamento ultimo costituisce evidentemente la
ragione per la quale la creatura razionale non è una semplice unità
6991, q. 29, a. 3; cf. anche De potentia q. 9, a. 3: «La natura implicata nel
significato del nome di persona è la più degna di tutte le nature, perché è la natura
intellettuale in tutta la sua ampiezza (secundum genus suum). Parimenti, il modo di
esistere che evoca la persona è il più degno di tutti in quanto evoca il modo di esistere
di per sé. E poiché tutto ciò che vi è di più nobile nelle creature dev’essere attribuito
a Dio, il termine “persona” può essere attribuito a Dio in modo “conveniente”, così
come altri nomi che sono detti propriamente di Dio».
354 70011-II, q. 2, a. 8 ad 2.
anonima
persa in una massa indifferenziata, ma forma l’oggetto di
un’attenzione particolare nella maniera in cui Dio governa
l’universo. Tommaso lo spiega con molta chiarezza in ciò che
rappresenta senza dubbio il suo studio più completo e più bello sulla
Provvidenza 701:
«E evidente che la divina Provvidenza si estende a tutti gli
esseri. Tuttavia è necessario notare che, rispetto a tutte le altre
creature, esiste un regime provvidenziale particolare per le
creature intellettive e razionali. Infatti esse superano le altre
creature, sia per la perfezione della loro natura, sia per la
nobiltà del loro fine.
Per la perfezione della loro natura, perché soltanto la creatura
razionale ha il dominio dei propri atti, determinandosi da sola
alla sua operazione; invece le altre creature più che muoversi
sono mosse a operare... Per la nobiltà del loro fine, perché
soltanto la creatura intellettiva raggiunge con la sua
operazione il fine ultimo dell’universo, cioè Dio, conoscendolo
e amandolo; invece le altre creature non possono raggiungerlo
se non mediante una certa partecipazione alla sua
somiglianza»702.
La cosa è ulteriormente sottolineata dal fatto che non sono
soltanto le creature intellettive nella loro generalità ad essere oggetto
di questa particolare Provvidenza, ma ciascuna delle loro singolari
realizzazioni; ogni persona ne costituisce l’oggetto:
«Solo la creatura razionale è guidata da Dio nella sua attività,
non per il solo bene della specie, ma anche per quello degli
individui... La creatura razionale è soggetta alla divina
Provvidenza in quanto è governata e curata per se stessa e non
solo in vista della specie»703.
701 Certamente si tratta di SCG HI 64-163; ma si vedrà anche la
riflessione intrapresa nel commento al libro di Giobbe, su cui si potrà leggere D.
CHARDON- NENS, L’homme sous le regard de la Providence. Providence de Dieu et
condition humaine selon YExposition littérale sur le Livre de Job de Thomas d’Aquin
(«Bi- bliothèque thomiste 30»), Paris 1997.
702 SCG IH 111, n. 2855.
703 SCG IH, 113; le ragioni erano state illustrate nel capitolo
precedente, HI 112, nn. 2859-2860: «Tra gli elementi dell’universo, i più nobili sono
le creature intellettuali [Tommaso pensa qui anche agli angeli, ma ben presto
continua sull’unico registro della creatura razionale]; giacché sono esse che si
avvicinano maggiormente alla somiglianza divina. Le nature intellettuali hanno una
maggiore affinità al tutto rispetto a tutte le altre nature. Infatti ogni sostanza
intellettuale è in qualche modo ogni cosa, dato che la sua intelligenza abbraccia 355
tutto
Ciò si ritrova chiaramente allorquando si tratta di spiegare la
subordinazione ordinata secondo la quale si gerarchizzano tutte le
creature; ancora una volta la creatura razionale riceve una posizione del
tutto particolare:
«...Le creature meno nobili esistono in vista delle più nobili, così
come le creature inferiori all’uomo sono fatte per l’uomo. Inoltre
le singole creature servono alla perfezione dell’universo, il quale,
nel suo complesso e nelle singole parti, è ordinato a Dio, come al
suo fine, poiché risplende in esse una certa immagine della bontà
divina, per la gloria di Dio. Ciò non impedisce, oltre a quanto
abbiamo detto, che le creature razionali abbiano Dio come loro
fine in una maniera speciale perché possono raggiungerlo con la
propria operazione, cioè conoscendolo e amandolo» n.
Tommaso situa quindi la differenza tra l’uomo e il resto
dell’universo sul piano delle opzioni più operative della sua sintesi, la
somiglianza dell’effetto alla sua causa in primo luogo, ma soprattutto
l’immagine di Dio. Soltanto la creatura intellettiva ha questa capacità
di poter conoscere e amare Dio, e quindi di accoglierlo in maniera
cosciente:
«L’universo, per estensione e universalità, è un bene più perfetto
della creatura intellettiva. Ma in intensità e in profondità la
somiglianza con la perfezione divina è più marcata nella creatura
intellettiva, che è capace di possedere il sommo Bene (capax
summi boni)»704 705.
Se dunque la grande legge secondo la quale il bene del tutto è
superiore a quello di uno solo resta valida, essa non è vera se non nella
misura in cui resta nell’ordine di cose paragonabili:
«Il bene dell’universo è più grande del bene particolare di un
individuo se l’uno e l’altro sono dello stesso genere; ma il bene di
un individuo nell’ordine della grazia è superiore al bene naturale
di tutto l’universo» 706.

l’essere, mentre ogni altra sostanza non possiede dell’essere che una partecipazione
limitata. Perciò è “conveniente” che essa sia retta da Dio a beneficio delle sostanze
intellettuali».
7041, q. 65, a. 2.
7051, q. 93, a. 2.
706 I-II, q. 113, a. 9 ad 2; cf. II-II, q. 152, a. 4 ad 3: «Il bene comune è
preferibile al bene privato se è dello stesso genere; ma può accadere che il bene privato
356
sia migliore secondo il suo genere».
Con la grazia, partecipazione alla natura divina, entriamo in tut-
t’altro ordine, la cui grandezza è caratterizzata da Tommaso con una
frase giustamente celebre:
«La giustificazione dell’empio, che ha per termine il bene eterno
della nostra partecipazione divina, è un’opera più grande della
creazione del cielo e della terra, la quale ha come termine un
bene mutevole»707.
Il contesto richiamava in questo caso la giustificazione
dell’empio, ; ma in realtà la verità di questa frase si verifica ogni
qualvolta un uomo perviene alla grazia per la prima volta. Se
l’opposizione tra peccato e vita divina partecipata accentua
ulteriormente lo iato, l’accesso alla vita divina resta ugualmente
invalicabile alle sole forze create, perfino senza il peccato. Non è
dunque un semplice antropocentrismo un po’ ingenuo - l’uomo visto al
centro dell’universo come una volta la terra era vista al centro del
cosmo - che comanda questa concezione della dignità della persona
umana, ma proprio il fatto della sua partecipazione alla vita divina.
Tommaso non poteva affermare qui niente di più forte, ed è ancora
questo che gli permette d’esprimere esattamente il rapporto della
persona con la comunità:
«L’uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto il
suo essere e tutti i suoi beni... Ma tutto ciò che è, tutto ciò che
ha e tutto ciò che può, l’uomo deve riferirlo a Dio... »708.
La dignità della persona umana si realizza perciò secondo una
duplice direzione: in rapporto all’universo naturale, che essa trascende
sia nel suo aspetto materiale che nella sua organizzazione sociale; in
rapporto a Dio, dal quale riceve tutto ciò che è e tutto ciò che ha, e che
l’invita a condividere la sua propria vita. Al seguito di Maestro
Tommaso, tenteremo di coglierne l’espressione privilegiata in due
realizzazioni maggiori: l’una nel campo morale, in cui l’uomo si
comporta co

707 I-II, q. 113, a. 9; non si può fare a meno qui di pensare a PASCAL,
Pensées, ed. J. CHEVALIER, n. 930, «Plèiade», Paris 1954, p. 1342: «Dall’insieme di tutti
i corpi non si riuscirebbe a ricavare un piccolo pensiero: ciò è impossibile e appartiene
ad un altro ordine. Dall’insieme dei corpi e degli spiriti non si riuscirebbe a ricavare
un movimento di vera carità: ciò è impossibile, appartiene a un altro ordine, quello
soprannaturale».
708 I-II, q. 21, a. 4 ad 3. 357
me un soggetto libero e responsabile secondo la sua coscienza;
l’altra nel campo propriamente teologale, in cui questa dignità
suprema si trova consacrata dall’invito alla comunione che Dio gli
rivolge. Mediante questa comunione già iniziata in questo mondo, la
persona umana si trova perciò collocata in una situazione
d’escatologia in corso di realizzazione.

SEGUIRE LA PROPRIA COSCIENZA

Usata frequentemente nel nostro tempo, questa espressione


dovrebbe di primo acchito facilitare l’accesso di uno spirito
contemporaneo alla dottrina di Tommaso d’Aquino. Questi non ha
parole abbastanza forti per affermare e ribadire che bisogna sempre
seguire la propria coscienza - perfino quando sbaglia! - E necessario
però osservare le cose più da vicino. Oltre al fatto che per lui la parola
non ha lo stesso significato che ha per noi, essa è utilizzata in un
contesto profondamente diverso. Per noi la coscienza ha una risonanza
eminentemente soggettiva. Considerata come l’istanza ultima di fronte
alla quale siamo responsabili, essa è a volte concepita in maniera
semplicistica, al punto tale da essere un po’ ingenuamente identificata
con ciò che pensiamo spontaneamente o con le reazioni del nostro
ambiente d’origine. Agire secondo la propria coscienza
significherebbe allora in realtà comportarsi secondo il conformismo
generale.
Per Tommaso le cose sono meno semplici ed egli ha un’idea
molto alta della grandezza dell’uomo e della sua coscienza. Essa
costituisce certamente un’istanza contro la quale non è possibile
andare, ma non è l’istanza ultima. La nostra dignità di persona umana
non consiste in un’ombrosa rivendicazione d’autonomia assoluta
rispetto a Dio, ma nell’accettazione della nostra dipendenza nei suoi
confronti. Se vogliamo comprendere qui l’insegnamento del Maestro
d’Aquino, bisogna ritornare un po’ indietro. Senza voler fare
un’esposizione completa e ancor meno entrare nei dibattiti
contemporanei, occorre almeno ricordare il più esattamente possibile
di che cosa si tratta, e tentare di farne emergere l’interesse per la
teologia spirituale709.

7091 principali luoghi in cui si troverà la dottrina della coscienza, coniugata a quella
358 della sinderesi, sono i seguenti: Seni. II, d. 24, q. 2, aa. 3-4; d. 39, q. 3, aa. 2-
È necessario innanzitutto ricordarsi di ciò che è stato detto nel
capitolo precedente sulla legge naturale, partecipazione nella creatura
razionale della legge eterna, della Provvidenza divina. Tale partecipazione
si realizza mediante un abito proprio che Tommaso chiama, in; maniera a
noi poco familiare, la «sinderesi». Questo termine, ricevuto da san
Girolamo - che lo definisce «scintilla della coscienza», e di cui afferma
che non si spense nemmeno nel cuore di Caino dopo il suo crimine -, è là
semplice trascrizione probabilmente erronea di un termine greco 17. Se la
designazione si chiarisce in parte grazie alla storia della parola, la
funzione è ancora più importante in quanto è dalla sinderesi che dipende
l’intera vita morale della persona:
i
«Negli atti umani, perché possano avere la rettitudine, è
necessario che vi sia un principio permanente che abbia una
rettitudine immutabile, alla:, luce del quale tutte le opere umane
vengano esaminate, cosicché quel principio permanente resista a
ogni male e dia l’assenso a ogni bene. Questa è la sinderesi, il cui
compito è distogliere dal male e inclinare al bene: e quindi
concediamo che in essa non vi può essere peccato»18.

3; De ueritate, qq. 16-17; I, q. 79, aa. 12-13; I-II, q. 19, aa. 5-6 (coscienza erronea); ci
sono anche il Quodlibet III, q. 12, aa. 1-2 [26-27] (coscienza erronea), e i commenti
scritturistici che citiamo qui di seguito. Per chi volesse proseguire la ricerca, segnaliamo,
tra i numerosi studi, S. PlNCKAERS, Notes et appendices, in S. THOMAS; D’AQUIN, Somme
théologique. Les actes humains, t. II («Revue des Jeunes»), Paris 1966; L. ELDERS, La
doctrine de la conscience de saint Thomas d’Aquin, RT 83 (1983) 533-557, ripreso
in ID., Autour de saint Thomas d'Aquin, t. Il, Paris 1987,; pp. 63-94; T.G. BELMANS, Le
paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, RT 90 (1990) 570-
586 (non senza alcuni eccessi di linguaggio); G. BORGO- NOVO, Sinderesi e coscienza nel
pensiero di san Tommaso d’Aquino, 2 tt., Diss., Fribourg (Svizzera) 1994; più
accessibile: S. PlNCKAERS, La conception chrétienne de la conscience morale, NV
66 (1991) 688-699; ID., La conscience et l’erreur, «Communio» 18 (1993) 23-35.
17
Impiegato per la prima volta da san Girolamo, il termine synderesis è forse
una deformazione di syneidesis, «coscienza»; Tommaso conosce questa origine,: ma
ciononostante distingue «sinderesi» e «coscienza»; per ulteriori dettagli si; possono vedere
alcune pagine di TH. DEMAN, S. Thomas d’Aquin, Somme théologique. La Prudence
(«Revue des Jeunes»), Paris 1949, pp. 430-437; si può proseguire la ricerca con O. LOTTIN,
Syndérèse et conscience au XIIe et XIIIe siècles, in ID., Psychologie et Morale au
XIIe et XIIIe siècles, t. II, Louvain-Gembloux 1948, pp. 103-350; si vedrà anche A.
SOLIGNAC, art. Syndérèse, DS 14 (1990) 1407- 1412, il quale, oltre l’origine del termine,
ricorda la sua utilizzazione nella storia della mistica.
18
De ueritate, q. 16, a. 2.

359
Parallelo dYÌ’intellectus, Yhabitus che coglie intuitivamente i primi
principi della vita intellettiva («l’essere è, il non essere non è»), la sin- ;
deresi costituisce l’habitus che coglie e formula i due grandi principi :
della vita morale che recano in se stessi la loro evidenza: bisogna
compiere il bene e fuggire il male 710. E in questa linea, come abbiamo già
visto, che si collocano le cinque grandi inclinazioni derivanti dalla leg- ;
ge naturale: al bene, alla conservazione nell’essere, all’unione sessuale e :
all’educazione dei figli, alla conoscenza della verità, alla vita sociale 711.
Tuttavia, per quanto importante sia, la comprensione delle intuizioni
primordiali della vita morale e sociale è insufficiente in se stessa. Alcuni
principi del diritto naturale non saranno accessibili se non dopo
un’elaborazione che necessita a volte di una lunga educazione, sia per gli
individui che per l’umanità intera. Per una conoscenza morale che si
voglia direttrice dell’agire, questa conoscenza spontanea dei principi
ultimi richiede inoltre dei prolungamenti e degli adattamenti alle
situazioni concrete. E necessario che la ragione pratica confronti questi
primi dati con tutto ciò ch’essa viene peraltro a conoscere dei dati naturali
ed evangelici che dirigono il campo dell’agire umano e cristiano. Occorre
anche che essa tenga conto della persona impegnata in questa azione
particolare per determinare il modo in cui i principi generali si applicano
qui ed ora712.
È qui che interviene la coscienza morale. Per quanto sorprendente
ciò possa apparire, la coscienza non è ima facoltà né un abito, ma un atto
della ragione pratica713. Si può indubbiamente accettare l’uso corrente che
parla di questo atto a partire dall’abito che permette di porlo, e a questo
punto la sinderesi sarebbe essa stessa questa coscienza «abituale», ma
propriamente parlando la coscienza è un’altra cosa. È l’atto con il quale la
ragione pratica raggruppa tutti i dati a sua disposizione (quelli della
sinderesi, della conoscenza morale, dell’esperienza, delle convinzioni e
delle varie opinioni, ecc.), in vista di arrivare al termine della sua
deliberazione con un giudizio pratico e normativo714. Pratico - in quanto

710 Cf. I, q. 79, a. 12 e I-II, q. 91, a. 3.


711 Si può leggere qui il testo di I-II, q. 94, a. 2.
712 Cf. M.-M. LABOURDETTE, Connaissance pratique et savoir moral, RT 48
(1948) 142-179.
713 Cf. De Meritate, q. 17; I, q. 79, a. 13.
714 Cf. I, q. 79, a. 13: «Si dice che la coscienza attesta, obbliga, incita, e
360 accusa, rimprovera e riprende. Ora, tutto questo procede dall’applicazione di
perfino
mira ad orientare l’azione - tale giudizio resta tuttavia nell’ordine
della
conoscenza, e quindi è suscettibile di essere vero o falso 24. Perciò si
pone nel suo caso la temibile questione della coscienza che sbaglia, o
come si suol dire più brevemente, della coscienza erronea. Tommaso
insegna che la coscienza obbliga perfino quando sbaglia, ma non
senza addurne la ragione fondamentale:
«L’obbligo della coscienza finanche erronea è quello stesso
della legge di Dio (idem est ligamen conscientiae edam
erroneae et legis Dei). La coscienza infatti non comanda di fare
questo o di evitare quello, ve non perché crede che ciò
corrisponde o meno alla legge di Dio. La legge appunto non si
applica ai nostri atti se non tramite la mediazione della nostra
coscienza»25.
Si riconosce in quest’ultima frase il riassunto conciso di ciò che
abbiamo appena letto: i grandi principi morali non trovano la loro
traduzione concreta nell’agire morale se non mediante il giudizio di
coscienza emesso dalla ragione: «La coscienza è in qualche modo la
prescrizione (dictamen) della ragione» 26. Non bisogna però sbagliarsi:
se le cose stanno così è perché questo giudizio, essendo esso stesso in
continuità con la sinderesi, è ritenuto conforme alla legge naturale, che
è espressione nei cuori della legge stessa di Dio. Si capisce allora
perché andare contro la propria coscienza significherebbe peccare;
sarebbe agire contro ciò che si pensa essere la legge stessa di Dio:

una certa conoscenza o sapere a ciò che facciamo»; Super ad Rom. 2, 15, lect. 3, n. 219:
«La “testimonianza della coscienza” [di cui parla san Paolo] non è nient’altro che
l’applicazione del sapere [morale] di cui si dispone alla valutazione di un dato atto,
sapere se esso è buono o cattivo». Seguendo Aristotele (Etica a Nicomaco VII, 5), e in
maniera significativa ma forse ingannevole, in quanto ciò sembra introdurre qui un
rigore che non c’è, Tommaso paragona il processo che conduce dai primi principi
morali verso l’azione concreta a quello di un sillogismo mediante il quale si passa
dalle premesse alla conclusione, cf. I-II, q. 13, a. 1 ad 2; q. 76, a. 1; ecc.
24
Non essendo il giudizio di coscienza terminale, alla ragione pratica resta
ancora il compito di «fare la verità dell’azione», ossia di applicare le sue conoscenze
alla direzione immediata dell’agire. Questo molo spetta alla prudenza, «retta ragione
degli atti da compiere» (recta ratio agibilium), ed è essa allora che prende il cambio;
dato però che ne abbiamo già parlato (cap. XI), non dobbiamo più soffermarci.
25
Super ad Rom. 14, 14, lect. 2, n. 1120; tutto questo passaggio (nn. 1119- 1122)
costituisce uno dei luoghi importanti della dottrina della coscienza; vedere anche un
po’ più avanti: lect. 3, nn. 1138-1140.
261-11, q. 19, a. 5.
361
«Sapere che una cosa bisogna farla in coscienza, significa
reputare che si agirebbe contro Dio se non la si facesse. Ora,
agire contro Dio significa peccare» 21. [Tommaso è qui del tutto
formale:] «Se un uomo credesse che la ragione umana gli detta
una cosa contraria alla legge di Dio, non dovrebbe seguirla. In
questo caso d’altronde, la ragione non sarebbe completamente
nell’errore. Quando invece la ragione sbaglia e presenta una
cosa come un ordine di Dio, disprezzare il dettato della ragione
significherebbe disprezzare l’ordine di Dio stesso»715 716.

COSCIENZA E VERITÀ

Queste formule assolute che identificano la voce della


coscienza con la voce stessa di Dio non sono comprensibili se non
alla luce del loro contesto. Non solo esse suppongono la conformità
volontariamente cercata della ragione con la legge naturale e in più
con Dio stesso, ma oltre a questa dipendenza fondante, esse
suppongono un adeguamento virtuoso nei rapporti con gli altri
uomini. Tommaso collega esplicitamente queste due attitudini nel
suo commento alla prima lettera a Timoteo (1,5): «Il fine del precetto
è la carità che procede da un cuore puro, da una buona coscienza e da
una fede sincera».
«Come la carità è il fine del precetto?... [Bisogna sapere che
tutti i comandamenti sono ordinati a promuovere gli atti delle
virtù e che le virtù stesse sono intrecciate tra di esse in un
organismo al cui vertice si trova la carità.] Le virtù teologali
hanno per oggetto il fine ultimo. Le altre hanno per oggetto ciò
che permette di raggiungere questo fine. Così tutte le [altre]
virtù si riferiscono alle virtù teologali come al loro fine. Tra le
virtù teologali, quella che si avvicina di più al fine ultimo ha
valore di fine per le altre: la fede lo indica, la speranza tende
verso di esso, la carità unisce ad esso. Tutte quindi sono
ordinate alla carità, ed è così che la carità costituisce il fine di
[tutti] i comanda- menti [...]. Le altre virtù correggono la
persona rispetto al prossimo, e da ciò deriva il fatto che egli
(l’Apostolo) ha una buona coscienza, poiché non fa a nessuno
ciò che non vorrebbe che gli si facesse... Dunque ciò che è
contro il prossimo è anche contro la coscienza. Perciò parla di
una buona coscienza . Chi non ha una buona coscienza non può
amare Dio sinceramente, giacché chi non ha una buona
715 Super ad Gal. 5, 3, lect. 1, n. 282.
362716I-II, q. 19, a. 5 ad 2.
coscienza teme il castigo. Ora, non vi è timore nell’amore, il
timore allontana Dio più che unirci a lui. E così che i
comandamenti modificando la coscienza dispongono alla
carità»717.
Prezioso per il seguito del nostro proposito, questo testo dà della
coscienza un’idea molto diversa dalla debole concezione appena
evocata. Se si affermasse che soltanto la coscienza dei santi è
infallibile, non si tradirebbe certamente il pensiero di Tommaso; egli
dice infatti: «La testimonianza infallibile dei santi è la loro coscienza...
Ma dato che a volte succede che la coscienza si sbaglia, (Paolo)
aggiunge: “nello Spirito Santo”»718. La certezza della coscienza è
accompagnata quindi dalla chiara percezione della possibilità del suo
errore. Se la sinderesi è infallibile, ciò non è vero per la coscienza,
giacché questa non dipende soltanto dalla legge naturale attraverso la
sinderesi; essa è alla mercé di molte altre informazioni, tra le quali i
pregiudizi e le idee ricevute, come pure l’intervento di una volontà
educata male, che possono falsificare irrimediabilmente il suo
giudizio. Perciò, quando si tratta della coscienza che si sbaglia,
Tommaso procede in due tempi: occorre sempre seguire la propria
coscienza - l’affermazione di base non cambia -, ma questo non è
sufficiente a compiere una buona azione, poiché ciò che è male resta
male:
«[La bontà o la malizia di un’azione non deriva soltanto dagli
oggetti esterni; un oggetto buono o in sé indifferente può
diventare cattivo per il soggetto a seconda dell’intenzione con la
quale egli lo compie.] Dal momento in cui la ragione presenta
717 Super I ad Tim. 1, 5, lect. 1, nn. 13-16; a proposito della fede e
della sua relazione alla coscienza, Tommaso offre ancora utili indicazioni
commentando san Paolo: «Tutto ciò che non procede da una convinzione di fede è
peccato», Rm 14, 23 ; nella sua interpretazione, egli compone due sensi della parola
fides in cui vede tanto la virtù teologale di fede quanto la coscienza stessa, l’unica
differenza consistendo nel passaggio da una convinzione universale (la fede) ad
un’azione particolare compiuta alla sua luce (cf. In ad Rom. 14, 23, lect. 3, n. 1140).
Qui egli è l’erede di due esegesi ricevute dalla tradizione teologica anteriore: quella
dei Padri che l’intendevano della fede e quella degli scolastici a partire dal XII secolo
che vi leggevano la coscienza morale; cf. R. ARAUD, «Quidquid non est ex fide
peccatum est». Quelques interprétations patristiques, in L’Homme devant
Dieu. Mélanges offerts au Pére Henri de Lubac («Théologie 56»), t. I, Paris 1963, pp.
127-145; A.C. DE VEER, Rm 14, 23b dans l’oeuvre de saint Augustin (Omne quod
non est ex fide peccatum est), «Recherches augustiniennes» 8 (1972) 149-185.
718 Super ad Rom. 9, 1, lect. 1, n. 736; cf. Super ad Hebraeos
13,18, lect. 3, n. 763: «La bontà della coscienza deriva soltanto da Dio, perciò (Paolo)
rattribuisce alla fiducia che egli ha in lui». 363
un oggetto come cattivo, la volontà che si muove verso di esso
diventa essa stessa cattiva... poiché essa vi si dirige come verso
un male, divenendo essa stessa cattiva in quanto vuole il male».
[Anche se ciò che è voluto non è in sé un male, esso lo diventa
per accidente nei confronti della persona a causa del giudizio
erroneo della ragione. Per farsi ben comprendere e allo stesso
tempo svelare la gravità paradossale di un tale caso, Tommaso
propone un esempio estremo:] Credere in Cristo è una cosa
essenzialmente buona e perfino necessaria alla salvezza, ma la
volontà non può tendere a questo che in base alla presentazione
della ragione. Se dunque la ragione lo presentasse come un
male [per un non cristiano, per esempio], la volontà non
potrebbe volerlo che come un male... Ogni volere discorde dalla
ragione, sia retta che erronea, è sempre peccaminoso» 719.
La forza imperativa del giudizio di coscienza non viene quindi
affatto attenuata nonostante il suo errore, e il motivo è evidente: «Se è
vero che quando la ragione si sbaglia il suo giudizio non deriva da
Dio, tuttavia essa lo propone come vero, e quindi come proveniente da
Dio fonte di ogni verità» 720. Allora inevitabilmente si pone la
questione: poiché alla coscienza non si può disobbedire, bisogna
credere che si agisce sempre bene obbedendole? Si sarebbe
spontaneamente portati a pensarlo: ho fatto bene perché ho agito
secondo la mia coscienza. Tommaso non afferma esattamente questo.
Egli rigetta il fatto che l’errore della coscienza sia sufficiente a
trasformare in atto moralmente buono un atto di per sé moralmente
cattivo; perciò pone la questione in un altro modo:
«Come la questione precedente si identificava col chiedersi se
la coscienza erronea obblighi, così la questione seguente
equivale a chiedersi se la coscienza erronea scusi [dal male].
Tale questione dipende da ciò che è stato detto altrove
sull’ignoranza [e del suo effetto sul carattere volontario di un
atto],.. Succede che l’ignoranza a volte produca l’involontario e
a volte non lo produca. E giacché il bene e il male morale
dipendono dal carattere volontario dell’atto... è chiaro che
l’ignoranza che rende un atto involontario priva quest’ultimo
del suo valore morale, ma la stessa cosa non vale per quella che
non rende l’atto involontario... E’ignoranza voluta, che sia
diretta o indiretta, non rende l’atto involontario. Io chia-
mo ignoranza direttamente volontaria quella sulla quale opera
l’atto di\ volontà [Non voglio sapere se questo atto è buono o
cattivo], e ignoranza involontaria quella dovuta a negligenza: se
719I-II, q. 19, a. 5.
364720I-II, q. 19, a. 5 ad 3.
non si vuol apprendere ciò che si è tenuti a sapere...
Se dunque la ragione o la coscienza è erronea, per un errore
direttamente o indirettamente volontario, a riguardo di cose che
si è tenuti a sapere, tale errore non scusa dal peccato la volontà
che segue la ragione o la coscienza erronea. Se invece l’errore
che produce involontarietà proviene dall’ignoranza di una
circostanza qualsiasi, senza che vi sia stata negligenza, tale
errore scusa dal male»721.
Il carattere tecnico di questo ragionamento gli dà una perfetta
trasparenza. Conformemente alla sua costante dottrina, Tommaso u-
puta che solo gli atti liberi sono atti morali, e solo gli atti volontari
sono liberi. Se il carattere volontario dell’atto viene diminuito, con
esso viene diminuita anche la sua moralità. Se dunque la coscienza
obbliga perfino quando si sbaglia, non se ne può concludere tuttavia
che si compie una buona azione seguendola. Sarebbe errato non
seguirla, ma non è sufficiente obbedirle per agire bene. La coscienza
erronea scusa tutt’al più dalla colpevolezza soggettiva, nella misura in
cui essa proviene da un’ignoranza invincibile. Se l’errore avesse
all’origine qualcosa di volontario, il soggetto sarebbe moralmente
responsabile di un atto cattivo. L’ignoranza per negligenza è qui del
tutto fondamentale: come iti un ragionamento una proposizione falsa
al punto di partenza implica una conclusione falsa, così nel campo
dell’agire morale una colpa iniziale ne implica inevitabilmente altre se
non viene ritrattata, e di negligenza in negligenza si può giungere in
totale apparente buona fede a «formarsi la coscienza», come a volte si
dice ironicamente, fino al punto che essa non sa più distinguere il bene
dal male 722. Tommaso ha trovato nella Sacra Scrittura un termine per
esprimere ciò, e insieme con l’apostolo Paolo parla di una coscienza
«corrotta» (cauteriata):
«L’escara (cauterium) è una corruzione all’interno della carne
provocata dal fuoco [interno], dalla quale esce continuamente
pus. Allo stesso modo, il fuoco della volontà perversa, la collera,
l’odio, la concupiscenza, procurano come un’ulcera alla
coscienza, da cui fuoriesce la falsa dottrina dei demoni, Tt 1, 15:
"La loro mente e la loro coscienza sono contaminate”» 723.
7211-II, q. 19, a. 6.
722 Tommaso suggerisce che il conformismo sociale può giocare qui un ruolo
non trascurabile; Super II ad Cor. 1, 12, lect. 4, n. 31: san Paolo dice giustamente
«la testimonianza della nostra coscienza», non quella degli altri, «poiché quando si
tratta di sé occorre sempre preferire la testimonianza della propria coscienza a quella
della coscienza altrui».
723 Super 1 ad Tim. 4, 2, lect. 1, n. 140. 365
Si potrebbe parlare anche di una coscienza «anestetizzata» o
«addormentata»; Tommaso conosce anche questo, ed evocando il
processo tramite il quale ciò può accadere, sottolinea anche il modo in
cui la coscienza richiama all’ordine: «Gli uomini si allontanano
facilmente da ciò che li molesta; per questo il rimorso della coscienza
agisce come un ago, il quale tormenta colui che ha cattiva coscienza,
cosicché egli si allontana dal peccato mediante la retta fede e la buona
coscienza»724.
Laddove noi porremmo oggi il problema della coscienza in
termini di «sincerità», Tommaso resta quindi fedele al suo stile e
mette innanzi la ricerca della verità e il grande amore che deve
muovere verso di essa colui che vuole agire rettamente. Quando le
cose vanno così, la persona che agisce secondo la propria coscienza
nella preoccupazione di non cedere che alla verità, conserva la sua
intenzione retta, e in questa attenzione stessa alla verità si mantiene
giustamente orientata verso il bene, perfino quando si sbaglia, e
Tommaso lo concede 725. Ma egli sottolinea anche che l’atto
esteriormente compiuto non è buono. Il male resta male, e non è
sufficiente sbagliarsi per fare il bene. Perciò pur non essendo
responsabile dinanzi alla propria coscienza, la persona resta
responsabile della propria coscienza.
La ragione profonda di questa attitudine esigente risiede nel fatto
che la coscienza non è l’istanza ultima. Al massimo, una simile
posizione condurrebbe all’individualismo più assoluto, negando ogni
obbligo nei confronti di Dio o dei propri simili. Per Tommaso che non
concepisce la persona se non nella sua relazione a Dio e alla comunità
umana, la coscienza non è che un’intermediaria della legge eterna;
essa non crea l’obbligo, ma lo trasmette. Siccome poi è anche frutto di
educazione, modellata da molte altre influenze che possono alterare il
suo

724 Super 1 ad Tim. 1, 19, lect. 4, n. 51.


725 La cosa è stata molto ben detta da S. PlNCKAERS, Les actes humains, t.
Il, p. 201: «L’ignoranza rompe il legame tra l’atto esterno che è effettivamente cattivo
e la volontà che lo compie, in modo tale che questa possa rimanere buona malgrado
366
tale atto; infatti essa non l’avrebbe voluto se ne avesse conosciuto la malizia».
giudizio, è importante assicurarsi della sua rettitudine prima di credersi
legati ad essa. Soprattutto non bisogna eliminare il dubbio o
l’inquietudine con una preferenza inconfessata per una comoda
ignoranza, ma bisogna cercare di superarli con ima ricerca sempre più
esigente della verità726.
Questa concezione della coscienza rappresenta quindi un
formidabile appello alTulteriorità, e permette di vedere concretamente
ciò che rappresenta per l’uomo l’essere «affidato alle mani del suo
consiglio». Diventato per se stesso la sua propria provvidenza, egli ne
ha la grandezza e ne assume anche la responsabilità. Nessun essere
nella natura gli è a tal proposito paragonabile, ed è comprensibile
perché pensatori non cristiani abbiano potuto vedere in ciò la suprema
dignità della persona umana. Per fra Tommaso questo non rappresenta
tuttavia che uno degli aspetti di questa dignità; senza opporvisi, un
secondo aspetto la completa su un altro piano, quello delle virtù
teologali: la persona umana è chiamata a stabilire con Dio una nuova
relazione che, senza sottrarla al tempo, la fa entrare per così dire
nell’eternità: cominciata quaggiù, la comunione con Dio non si
completerà che nell’a faccia a faccia della patria.

LA VITA ETERNA GIÀ INIZIATA


Si conosce indubbiamente, almeno di nome, il Compendium theo-
logiae, che si dovrebbe tradurre con Riassunto della fede cristiana, ma
che è più esatto tradurre con Elementi di teologia, poiché nonostante
tutto si tratta di un riassunto un po’ scolare. Infatti, per rispondere a un
desiderio del suo segretario e amico Reginaldo, fra Tommaso ha
compiuto lo sforzo di raccogliere in questo libro l’essenziale del
contenuto della fede e di esprimerlo brevemente in maniera
relativamente semplice. Ispirata all ’Enchiridion di sant’Agostino
quanto al suo piano, l’opera si sviluppa secondo l’ordine delle tre virtù
teologali: la fede è trattata seguendo l’ordine degli articoli del Credo, la
speranza in relazione alle domande del Pater, mentre la carità avrebbe
probabilmente assunto come quadro l’enunciato del Decalogo. La
726 Lasciamo da parte qui la questione dell’eventuale perplessità della
coscienza che è spesso presentata come un conflitto di doveri, mentre è sufficiente
abbandonare il peccato perché la perplessità sia superata, cf. I-II, q. 19, a. 6 ad 3;
Super ad Rom. 14, 14, lect. 2, n. 1120; Super ad Galatas 5, 3, lect. 1, n. 282; R.
Perplexus supposito quodam. Notizen zu einem vergessenen
SCHENK,
Schlùsselbegriff thomasischer Gewissenslehre, RTAM 57 (1990) 62-95.
367
morte ha impedito all’autore di proseguire la sua opera fino alla fine,
ma la prima parte è completa e la seconda ben avviata727.
Il piano dell’opera non è tanto importante in se stesso, quanto
piuttosto la conclusione che possiamo derivare da esso, e cioè la
certezza che l’essenziale della vita cristiana può essere organizzato ed
espresso attorno alle virtù teologali. Assolutamente coerente con la
sua definizione della persona come il solo essere dell’universo in
relazione immediata con Dio, Tommaso situa al centro dell’esperienza
cristiana le virtù teologali, dette così in quanto hanno Dio per oggetto,
per causa e per fine728. La vita divina partecipata per grazia, di cui esse
sono l’attualizza- zione, forma la realizzazione anticipata nel tempo
della comunione con Dio-Trinità che troverà il suo pieno compimento
nella patria. Se esiste un gioco di priorità reciproca delle virtù tra di
loro, l’ordine abituale secondo cui vengono citate ha anch’esso un suo
significato; non è soltanto la tradizione che lo raccomanda, ma la retta
ragione:
«L’amore infatti non potrebbe essere retto se prima non si
stabilisse il giusto fine della speranza, e questo non è possibile se
manca la conoscenza della verità. Tu devi avere innanzitutto la
fede per conoscere la verità, poi la speranza per orientare il tuo
desiderio verso il vero fine, infine la carità mediante la quale il
tuo amore sarà completamente modificato» 729. [In modo più
lapidario, ma altrettanto suggestivo, Tommaso precisa altrove:]
«La fede mostra il fine, la speranza fa tendere verso di esso, la
carità realizza l’unione con esso» 730.
Senza riprendere qui l’intero discorso teologico sulla fede 731, il
727 Vedi alcuni dati complementari nel nostro Tommaso d‘'Aquino.
L’uomo e il teologo, pp. 189-192; il testo critico si trova nell’edizione Leonina, t. 42.
728 Si noterà l’affinità di struttura tra queste due frasi dell’inizio del
trattato della fede, II-II, q. 2, a. 3: «Soltanto la natura razionale creata gode di un
orientamento immediato a Dio (sola autem natura rationalis creata habet
immediatum ordìnem ad Deum)», e II-II, q. 4, a. 7: «le virtù teologali il cui
oggetto è il fine ultimo devono essere superiori alle altre virtù (necesse est uirtutes
theologicas, quarum obiectum est ultimus finis, esse priores ceteris
uirtutibus)».
729 Compendium I, 1, Leon. t. 42, p. 83.
730 Super 1 Tim. 1, 5, n. 13 (questo testo è stato citato in maniera più
ampia qui sopra a proposito del legame della coscienza alle virtù teologali); la priorità
della fede nell’ordine della conoscenza è trattata più diffusamente in II-II, q. 4, a. 7 :
«Occorre che il fine ultimo sia nell’intelletto prima di essere nella volontà, poiché la
volontà non potrebbe spingersi verso una realtà che non fosse prima compresa
dall’intelletto»; cf. I-II, q. 62, a. 4.
731 Si troverà lo studio principale di Tommaso su questo tema in II-II, qq.
368
modo in cui Tommaso la presenta all’inizio di questo Compendio di
teologia è prezioso per noi giacché ci situa subito nell’esatta prospettiva
di tutto ciò che vogliamo dire in questo capitolo:
«La fede è un certo assaggio (praelibatio quaedam) di quella
conoscenza che costituirà la nostra felicità nella vita eterna.
Perciò l’Apostolo (Eb 11, 1) afferma che essa è “la sostanza delle
realtà che speriamo”, come se facesse sussistere in noi in modo
abbozzato le realtà che speriamo, ossia la beatitudine futura. Il
Signore ha insegnato che questa conoscenza beatificante consiste
in due cose: la divinità della Trinità e l’umanità di Cristo,
allorquando si rivolgeva al Padre dicendo fGv 17, 3): “Questa è la
vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio [e colui che hai
mandato, Gesù Cristo]”. Quindi è intorno a queste due realtà, la
divinità della Trinità e l’umanità di Cristo, che porta tutta la
conoscenza della fede. Ciò non ha niente di sorprendente in quanto
l’umanità di Cristo è la via mediante la quale si giunge alla
divinità. Occorre perciò mentre si è in cammino conoscere la
strada per giungere alla meta, e quando si è in patria l’azione di
grazie a Dio non sarebbe sufficiente se gli uomini non
conoscessero le vie tramite le quali sono salvati» 732.
In questa breve formulazione del contenuto della fede, si saranno
indubbiamente riconosciute molte cose già incontrate, e soprattutto i
primi due credibilia intorno ai quali si organizza l’intero contenuto della
teologia733. Tuttavia, qui non è tanto al contenuto della fede quanto alla
sua definizione che bisogna prestare attenzione, poiché essa ancora una
volta evidenzia con incomparabile forza il movimento da cui è animata,
il suo dinamismo o il suo slancio. Si sarà anche notato in questo
testo il versetto della lettera agli Ebrei; Tommaso ama farvi riferimento e
altrove ne elenca i vantaggi: «Se si vuole esprimere ciò con una
definizione, si può dire che “la fede è un abito della mente (habitus mentis)
che inizia in noi la vita eterna, facendo aderire il nostro intelletto alle realtà

1- 16, in cui secondo l’uso non tratta soltanto della virtù di fede in se stessa, ma anche dei
doni dello Spirito Santo che gli sono collegati e dei peccati che gli sono opposti; si
potranno vedere le note e i commenti di R. BERNARD, S. Thomas d’Aquin, Somme
théologique. La Foi («Revue de Jeunes»), 2 tt., Paris 1940-1942; M.-M. Labourdette, La vie
théologale selon saint Thomas: L’objet de la foi, RT 58 (1958) 597-622; La vie théologale
selon saint Thomas: L’affection dans la foi, RT 60 (1960) 364-380; H. DONNEAUD, La
surnaturalité du motif de la foi théologale chez le Père Labourdette, RT 92 (1992) 197-238.
732 Compendium I, 2.
733 Cf. II-II, q. 1, aa. 6-7; q. 2, a. 5; vedi qui sopra il nostro cap. I, il
paragrafo «Una certa impronta della scienza divina».
369
invisibili”»734.
Già acquisita nel De ueritate, la stessa definizione era stata allora
ampiamente spiegata: se la fede realizza nel soggetto credente questa
anticipazione della vita eterna, ciò avviene a causa di una certa
somiglianza del fine desiderato. Niente potrebbe essere desiderato, infatti,
se non vi fosse nella persona una certa proporzione nei confronti di questo
fine, poiché è a partire da essa che sorge il desiderio stesso del fine.
Affinché possiamo tendere alla vita eterna, occorre quindi che vi sia in noi
un qualche abbozzo di questo fine, almeno mediante la conoscenza che ne
acquisiamo, ed è questo che realizza la fede: «Nella misura in cui forma in
noi un certo inizio della vita eterna, nella quale speriamo in base alla
promessa divina, la fede è detta la “sostanza dei beni che attendiamo”» 735.
Ma realizzando l’anticipazione del fine ultimo, essa ravviva con ciò stesso
il suo desiderio, giacché «ogni inizio aspira al suo compimento». Se questo
è vero già sul piano naturale, a maggior ragione lo è su quello delle realtà
divine, in cui l’inizio non può che aspirare al compimento del fine ultimo
736
. Tommaso lo riafferma commentando l’incontro di Gesù con la
Samaritana (Gv 4, 14), il dinamismo di una vita vissuta nella fede è quello
di ogni desiderio: il possesso iniziale accende il desiderio del possesso
totale:
«[Come può dire Gesù: “Colui che berrà di quest’acqua non avrà
più sete”, mentre la Sapienza afferma fSir 24, 21): “Quelli che mi
bevono avranno ancora sete”?] Le due affermazioni sono entrambe
vere, perché chi beve dell’acqua data da Cristo ha ancora sete, e non
ha più sete». [In un primo senso ciò si può spiegare paragonando
acqua naturale e acqua spirituale. Colui che beve acqua naturale,
avrà ancora sete, perché quest’acqua non è eterna e quindi anche il
suo effetto ha un termine:] «L'acqua spirituale però ha una fonte
eterna, cioè lo Spirito Santo che è la fonte di vita sempre
zampillante; perciò chi beve di essa non avrà mai sete, come non
avrebbe mai sete chi avesse nelle sue viscere una fonte di acqua viva.
Ma c'è un altro motivo che si ricava dalla differenza tra realtà
temporale e realtà spirituale. L’una e l’altra provocano la sete, ma
in maniera ben diversa. Una cosa temporale ottenuta dopo che la si
è desiderata non attenua tuttavia il desiderio; c'è sempre il desiderio

734n-II, q. 4, a. 1.
735 De ueritate, q. 14, a. 2; si noterà in questo articolo l’insistente ripetizione della
parola inchoatio: la fede non è che un «inizio», ma lo è veramente; si potrà continuare con
D. BOURGEOIS, «Inchoatio vitae etemae». La dimension eschatologi- que de la vertu
théologale de foi chez saint Thomas d'Aquin, «Sapienza» 27 (1974) 272-314.
736Cf.I-II, q. 1, a. 6.
370
di un’altra cosa. Al contrario, la realtà spirituale spegne il desiderio
di un’altra cosa e approfondisce il desiderio di questa stessa. Il
motivo è semplice: fino a che non si possiede una cosa di questo
mondo, la si stima esauriente e di gran valore. Una volta posseduta,
però, non appare più- così preziosa e si rivela insufficiente ad
appagare il desiderio, il quale viene riacceso da un’altra cosa
ancora. Invece la realtà spirituale non la si conosce se non quando
la si possiede, Ap 2, 17: “Nessuno la conosce, se non chi la riceve”.
Perciò non averla significa non desiderarla, ma averla e conoscerla
rallegra il cuore e provoca il desiderio, non certo il desiderio di
un’altra cosa, ma il desiderio che stimola il suo possesso imperfetto
- dato che imperfetto è colui che lo riceve — in vista di un possesso
perfetto.
È di questa sete che parla il salmo (41, 2): “L’anima mia ha sete di
Dio, del Dio vivente”. Però questa sete non può essere del tutto
appagata in questo mondo, perché in questa vita non possiamo mai
percepire perfettamente i beni spirituali. Perciò chi berrà di
quest’acqua avrà ancora sete di possederla nella sua perfezione,
però non ne avrà sete in eterno, come se l’acqua stessa potesse
esaurirsi, poiché come dice il Salmista (35, 9): “Essi s inebriano
dell’abbondanza della tua casa”. Nella vita della gloria, in cui i
beati bevono perfettamente l’acqua della divina grazia, essi non
avranno mai più sete, Mt 5, 6: “Beati coloro che hanno fame e sete
della giustizia”, s’intende in questo mondo, “perché saranno
saziati”, nella vita eterna» 49.

Se si conoscesse un po’ meglio la biografia e la personalità di fra


Tommaso, questo testo offrirebbe forse l’occasione di constatare una certa
corrispondenza con la vita spirituale personale del suo autore. Ma senza
cadere nell’errore di ima ricostruzione psicologica di cui non possediamo
affatto i mezzi per il controllo, questo passaggio è molto chiaro per il
nostro scopo: lungi dall’essere interpretato come un invito a un godimento
tranquillo, il possesso anticipato dei beni della patria

^ Super loannem 4,13-14, lect. 2, n. 586.


provoca in colui che ne è il beneficiario un vuoto che potrà colmare
soltanto il possesso pieno e definitivo: «La conoscenza della fede non ne
placa il desiderio; piuttosto lo riaccende»737.

737 SCG III 40, n. 2178.


371
COME UN’ÀNCORA FISSATA «AL PIÙ ALTO»

Se Tommaso ripete con insistenza degna di attenzione che questa


prima anticipazione della vita eterna riguarda proprio la fede 738, deve
rimanere chiaro che la fede non è sola nella ricerca; essa è strettamente
unita alla speranza e alla carità. E, per stare all’ordine, il ruolo della
speranza è ricordato con forza nel Compendio di teologia-,
«Poiché l’essere umano ha il desiderio naturale di sapere, tale
desiderio può placarsi nella conoscenza di ogni verità fino a quando
si tratta di una conoscenza qualsiasi; una volta conosciuta [la verità
cercata], il desiderio si calma. Ma quando si tratta della conoscenza
della fede, il desiderio è senza fine, perché la fede è una conoscenza
imperfetta: ciò che si crede è ciò che non si vede. Perciò l'Apostolo
(Eb 11, 1) dice che essa è “l’indizio delle cose che non si vedono”.
La presenza della fede lascia dunque nell’anima ancora una
tendenza ad un’altra cosa, ossia a vedere perfettamente la verità che
si crede e ad appropriarsi di ciò che può introdurre a questa verità.
E poiché tra gli insegnamenti della fede noi affermiamo di credere
che Dio dirige le cose umane con la sua provvidenza, per questa
ragione sorge nel cuore del credente uno slancio di speranza, per
ottenere con l’aiuto della fede quei beni che desidera naturalmente e
che essa gli fa conoscere. Perciò, dopo la fede, la speranza è
necessaria per la perfezione della fede cristiana»739 740.
Non si può non essere colpiti in questo testo, ancor più che in molti
altri, dall’insistenza con la quale l’autore presenta la nozione di desiderio:
«la speranza presuppone il desiderio (spes desiderium prae- supponit)»^.
Ci si sbaglierebbe se si considerasse questo termine in un senso troppo
strettamente psicologico, dato che esso ha una portata nettamente più
metafisica. Secondo Tommaso, nessuna creatura nell’universo è ciò che
deve essere fin dall’inizio; essa giunge alla sua perfezione soltanto al
termine di un’evoluzione e «desidera» questa realizzazione di tutto il suo
essere. Assolutamente fondamentale e costitutiva, quest’aspirazione al
compimento porta il nome di «appetito naturale»; quando però si tratta
dell’uomo si parla più volentieri di un «desiderio naturale» o di un

738 De uentate, q. 14, a. 2 ad 4: «La prima realizzazione delle cose che


speriamo non avviene in noi per mezzo della carità, ma per mézzo della fede»; cf. II-II, q. 4,
a. 1: «La prima realizzazione delle cose che speriamo avviene in noi mediante la fede,
poiché essa contiene in germe tutte le realtà da sperare».
739 Compendium theol. II, 1; cf. II, 3: «ad salutem nostram post fidem
etiam spes requiritur».
74055 Compendium theol. II, 7.
372
«desiderio di natura». In un primo tempo vago e indeterminato, questo
appetito di felicità più o meno anonimo, diverrà, sotto la luce e la mozione
della grazia, un vero desiderio della beatitudine, identificato infine
all’unico Dio vivo e vero741.
Nell’apprendimento della vita spirituale alla scuola di Tommaso
d’Aquino, lo vedremo meglio ben presto, la ricerca della beatitudine gioca
un ruolo decisivo. Noi intanto ne sappiamo abbastanza per capire che ciò
che prima non è che un’incontenibile tendenza di natura, e che a poco a
poco prende nell’uomo l’aspetto di speranza, è ripreso dalla virtù teologale
di speranza e portato al suo compimento742. Come ogni virtù teologale, la
speranza ha Dio come oggetto e come causa: da Dio non si può attendere
qualcosa che sia al di sotto di Dio medesimo 743. Ma nel suo sforzo di
paragonare il contributo proprio delle tre virtù teologali, Tommaso
introduce qui ima sfumatura particolare - a poco a poco acquisita nella sua
evoluzione intellettuale - per precisare esattamente la funzione della
speranza: mentre la carità fa aderire a Dio a causa di se stesso, unendo lo
spirito dell’uomo a Dio in un sentimento d’amore, e la fede fa sì che
l’uomo aderisca a Dio in quanto è fonte della conoscenza della verità, «la
speranza ci fa aderire a Dio come principio in noi del bene perfetto, in
quanto con essa ci fondiamo sull’aiuto divino per ottenere la
beatitudine»744.
741 Solo un profondo malinteso, basato su una documentazione tra le più
ridotte, ha potuto far sospettare che Tommaso «liquidi» l’escatologia biblica a favore di un
semplice desiderio trascendentale, cf. J. MOLTMANN, Christliche Hoffnung: Messianisch oder
tranzendent? Ein theologisches Gespräch mit foachim von Fiore und Thomas von Aquin,
MThZ 33 (1982) 241-260; cf. E. SCHOCKENHOFF, Bonum hominis, p. 420.
742 Si è osservato che se Tommaso è il primo ad avere sviluppato uno
studio audace della passione-speranza, è proprio a causa della necessità del suo studio
della virtù di speranza {Sent. HE, d. 26, q. 1), cf. S. PlNCKAERS, La nature vertueuse de
l’espérance, RT 58 (1958) 405-442; 623-642; la cosa è stata sottolineata da E.
SCHOCKENHOFF, Bonum hominis, p. 174, il quale propone anche un eccellente studio
della passione e della virtù di speranza, considerata per Tommaso l’attitudine tipica
dell’attesa escatologica (pp. 418-475). In francese si potrà vedere: CH.-A. BERNARD, Théologie
de T espérance selon saint Thomas d'Aquin («Bibliothèque thomiste 34»), Paris 1961, di cui
si apprezzerà la preoccupazione di mostrare le implicazioni spirituali; J.-G. BOUGEROL,
La théologie de F espérance au XIIe et XIIIe siècles, Paris 1985: per Tommaso, vedi t. I, pp.
277-289. E noto che Tommaso collega alla speranza il dono del timore, a tal proposito si
potrà quindi leggere: L. SOMME, L’amour parfait chasse-t-il toute crainte? Le rôle joué par
Texpression «Timor filialis» dans l’oeuvre de saint Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et
amoris, pp. 303-320.
743II-II, q. 17, a. 2.
744 II-II, q. 17, a. 6; De spe, a. 4: «L’oggetto formale della speranza, in
quanto essa è una virtù teologale, è il soccorso divino...»; per continuare ad usare questo
linguaggio, precisiamo che l’oggetto «materiale» è la beatitudine stessa, essendo i due
373
L’accento viene posto dunque sull’aiuto divino e ciò è comprensibile
dal momento in cui si riflette sulle condizioni della speranza 745. Questa
suppone il desiderio, perché è chiaro che non si spera ciò che non si
desidera; lo si teme oppure lo si disprezza, ma non lo si spera. Tuttavia
questo non è sufficiente perché vi sia speranza: se si desidera un oggetto
difficile da raggiungere, non si ha speranza; la nozione di speranza
aggiunge a quella di desiderio il fatto che si reputa possibile raggiungere il
bene desiderato. Inoltre occorre anche che questo bene sia un bene
superiore, difficile (arduum) da raggiungere746; se si tratta di qualcosa di
troppo facile o irrisorio, piuttosto lo si disdegna, o, se si può auspicare di
averlo sottomano, esso non costituisce un oggetto di speranza per il futuro.
Ciononostante, il bene sperato può rivelarsi così difficile da ottenere da
non poterlo raggiungere con le proprie forze; allora risulta necessario
ricorrere a un altro per ottenerlo: se si tratta di un uomo, gli si pone la
domanda (petitio), se si tratta invece di Dio gli si rivolge la preghiera
ioratio)747:
«Sicché\ la virtù di speranza in realtà non consiste nella speranza
che si ha da se stessi, né in quella data da un altro uomo, ma
soltanto in quella che si ha da Dio... Perciò le realtà che il Signore
c’insegna a chiedere nella sua preghiera [il Padre NostroJ si
rivelano come desiderabili e possibili; così ardue tuttavia che non si
possono raggiungere con le sole forze umane, ma necessitano
dell’aiuto divino»61.
Non è soltanto la sua analisi che spinge Tommaso a constatare che la
speranza aggiunge al semplice desiderio la salda fiducia nel compimento,
in quanto essa si fonda sull’aiuto divino che non potrebbe mancare. Egli
incontra la stessa idea nell’immagine utilizzata dalla lettera agli Ebrei (6,
18-19) che invita i fedeli ad «afferrarsi saldamente alla speranza che è

«oggetti» ordinati l’uno all’altro come la causa efficiente lo è alla causa finale.
745 La Questione disputata De spe, a. 1, riassume con una concisione
esemplare le quattro qualità dell’oggetto sperato: «Occorre innanzitutto che sia un bene, in
tal modo la speranza si distingue dal timore. Poi, è necessario che sia un bene futuro’, così si
distingue dalla gioia o diletto. In terzo luogo, deve essere un bene arduo-, con ciò essa si
distingue dal [semplice] desiderio. Infine, deve trattarsi di un bene possibile; ciò che la
distingue dalla disperazione».
746 Come ha ben dimostrato R.-A. GAUTHIER, Magnanimité, pp. 322-327,
«difficile» non è l’esatto sinonimo di «arduo», che aggiunge alla difficoltà l’idea di qualcosa
di grande (magnum), d’alto (altum), d’eminente (excellens).
747 Come si potrà percepire più volte nelle pagine seguenti, allorquando
Tommaso parla della preghiera, generalmente pensa alla preghiera di domanda (oratio),
situandola però in un insieme che comprende tutte le attitudini religiose della persona
dinanzi a Dio (azione di grazie, devozione, adorazione, in breve tutti
374
posta davanti a loro, nella quale si ha un’àncora per la nostra anima, sicura
e salda, la quale penetra fino all’interno del velo»;
«... Se l’uomo deve legarsi alla speranza come la nave all’àncora,
c’è tuttavia una differenza tra l’àncora e la speranza: l’àncora è
fissata in basso; la speranza invece è fissata nel più alto, cioè in
Dio. Non esiste niente quaggiù 'che sia abbastanza solido da far sì
che l’anima vi si possa fissare e riposare. [L’al di là del velo in cui
l’àncora della speranza è fissata, è la gloria futura.] È là che il
nostro capo... ha fissato la nostra speranza, così come si dice nella
colletta della vigilia e del giorno dell’Ascensione» 62.
Pur non essendo rara, l’allusione alla liturgia merita di essere
rilevata; essa costituisce uno dei segni del clima di preghiera nel quale
Tommaso pratica la sua ricerca e il suo insegnamento. Egli non esita
nemmeno, quando il testo gliene offre l’occasione, a stabilire un legame tra
spiegazione teologica e vita cristiana; questa caratteristica è già stata
spesso incontrata, ma resta preziosa per noi:
«[Secondo san Paolo (Rm 5, 3-5): “Noi ci vantiamo nella speranza
della gloria di Dio. ..Eia speranza non delude affatto, perché
l’amore

gli atti della virtù di religione, cf. II-II, qq. 82ss.). Ma qui non bisogna porre nessuna
opposizione tra petitio e oratio\ Tommaso distingue semplicemente tra la simplex petitio che
s’indirizza all’uomo, e la petitio decentium a Deo che è Yoratio; nei due casi vi è petitio, ma
una è semplice, l’altra riguarda ciò che si può sperare di ottenere da Dio.
61
Compendium theol. II, 7.
62
Super ad Hebraeos 6,18, lect. 4, n. 325.

375
!

di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato”:] Questa gloria, che si rivelerà nel futuro, è
iniziata già fin d’ora in noi tramite la speranza. [Paolo ne mostra il
vigore quando sottolinea che essa nasce dalla tribolazione:] Infatti
chi spera ardentemente qualcosa, sopporta volentieri per essa delle
prove, anche difficili e dolorose. L’ammalato che desidera
ardentemente la salute beve volentieri la medicina amara per essere
guarito. Il segno dell’ardore della nostra speranza nel nome di
Cristo risiede nel fatto che non solo ci vantiamo nella speranza della
gloria futura, ma anche "nelle^ tribolazioni” mediante le quali
giungiamo alla gloria, At 14, 21: “È necessario per noi attraversare
molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (...). È ben noto
infatti che sopportiamo facilmente le difficoltà per ciò che amiamo.
Se dunque qualcuno sopporta con pazienza le avversità di questo
mondo in vista di ottenere i beni eterni, con ciò stesso egli prova che
ama molto di più i beni eterni che quelli di questo mondo» 748.

L’INTERPRETE DEL DESIDERIO

Non è indifferente constatare che questo genere di annotazioni si


ritrova più spesso nei commenti alla Sacra Scrittura che nella Somma.
Nell’idea di Tommaso, la Somma è un manuale destinato a contenere lo
stretto necessario; sebbene anch’essi possano essere molto concisi, i suoi
corsi sulla Bibbia sono generalmente testimoni di una prospettiva un po’
più ampia. C’è tuttavia un manuale, a metà strada, sembra, tra queste due
preoccupazioni, ed è il Compendio di teologia. In rapporto alla Somma,
dove l’elaborazione della speranza è centrata più direttamente sulla
struttura della virtù, roriginalità del Compendio consiste nell’innestare
sullo studio della virtù un piccolo trattato della preghiera 749. La Somma non
ignora naturalmente questo aspetto; la sua preoccupazione di concisione ci
offre una formula molto importante: la preghiera è «l’interprete della
speranza (spei interpretatiua)» 750, o ancora «l’interprete del desiderio
(desiderii interpres)» 751. Senza contenere la stessa formula, il Compendio

748 Super ad Rom. 5,2-5, lect. 1, n. 385-386 e 388.


749 Non potendo sfruttare qui questo suggerimento, rinviamo a S.
PlNCKAERS, La Prière chrétienne, Fribourg 1989.
750 II-II, q. 17, a. 2 arg. 2: «Petitio est spei interpretatiua»; q. 17, a. 4 ad 3:
«Petitio est interpretatiua spei»', l’espressione non si trova nel Compendium, ma ne riassume
perfettamente il senso.
751II-II, q. 83, a. 1 ad 1 (lo si sa, la q. 83 è il luogo in cui Tommaso tratta della
preghiera di domanda nel quadro della virtù di religione con tutta l’ampiezza desiderata; con
17 artt., è la più lunga questione della Somma)-, questa espressione si ritrova altrove: In orationem
376
!

va nello stesso senso e sviluppa la sua esposizione in relazione alle varie


domande del Pater. Ciò che potrebbe sembrare non essere altro che
semplice procedimento letterario, appare invece profondamente inserito
nella visione tomasiana delle cose. Infatti, molto significativamente,
Tommaso considera la preghiera come appartenente al grande disegno
provvidenziale che governa il mondo:
«Seppure [Dio] con la sua disposizione provvidenziale veglia
sull’intera creazione, egli ha una particolare cura per le creature
ragionevoli, rivestite della dignità di essere create a sua immagine,
le quali possono giungere fino a lui mediante la conoscenza e
l’amore, controllando i loro atti, avendo la libera scelta del bene o
del male. [La loro fiducia in Dio non si limiterà perciò a sperare da
lui la loro conservazione nell’essere, ma si estenderà a sperare il
suo aiuto per scegliere il bene ed evitare il male, ciò che viene loro
accordato sotto la forma della grazia.] Rigenerati dal battesimo, gli
uomini hanno una speranza più alta, quefla di ottenere da Dio
l’eredità eterna752... Mediante lo Spirito d’adozione che abbiamo
ricevuto possiamo dire “Abbà, Padre” (Rm 8, 15), e per mostrarci
che bisognava pregare in questa speranza il Signore ha iniziato la
sua preghiera con il termine “Padre”. Questo semplice termine
prepara il cuore dell’uomo a pregare con sincerità per ottenere ciò
che spera, poiché i figli devono comportarsi come imitatori dei loro
genitori. Chi dunque confessa Dio come suo Padre deve sforzarsi di
vivere imitandolo, evitando tutto ciò che rende dissimili da Dio e
praticando tutto ciò che ci rende simili a lui» 6S.
E sorprendente ritrovare in questo testo molti temi già ampiamente
incontrati durante il nostro percorso. Non solo quello della dignità della
persona, il cui destino supera infinitamente quello di ogni altra creatura,
non realizzabile se non liberamente, dato che essa ha il controllo dei propri
dominicam, Prol., n. 1022; Super I ad Tim. 2, 1, lect. 1, n. 58; rinviamo anche al bel libro di L. MAIDL,
Desiderii Interpres. Genese und Grundstruktur der Gebetstheologie des Thomas von Aquin
(«Veröffentlichungen des Grabmann-Institutes 38»), Paderborn 1994; vedi pp. 193-204, per il
legame tra preghiera e speranza.
752 Osserviamo questa menzione dell’eredità eterna; se Tommaso ammette
che si può chiedere a Dio tutto ciò che è lecito desiderare per una buona vita sulla terra,
tuttavia è profondamente convinto che la beatitudine è il primo e principale oggetto di ogni
preghiera. Così quando si chiede, II-II, q. 83, a. 4: «Si deve pregare soltanto Dio?», egli
risponde senza esitare: «Tutte le nostre preghiere devono essere finalizzate ad ottenere la
grazia e la gloria, che soltanto Dio può darci». Questo legame della preghiera con la
beatitudine a volte assume espressioni sconcertanti per noi; quando Tommaso si chiede se
conviene agli animali pregare, risponde negativamente, «in quanto essi non partecipano
alla vita eterna, che costituisce la richiesta principale della preghiera», Seni. IV, d. 15, q. 4,
a. 6, qla. 3.
377
!

atti; ma riemerge anche la sua qualità d’immagine di Dio - elemento non


meno importante, perché questo spiega quello Il fatto che Tommaso
collochi questa capacità all’origine di ogni agire morale - poiché si tratta di
scegliere tra il bene e il male - mostra abbastanza bene l’importanza che
egli le accorda. In questo testo vi è però anche il richiamo all’imitazione di
Dio «come figli prediletti», proposta come mezzo per perfezionare in noi
la somiglianza 753 754. Che tutto questo sia qui raggruppato sotto il segno
della speranza mostra proprio a che punto Tommaso veda in essa la virtù
delYhomo uiator, dell’uomo in cammino verso la beatitudine 755. Nel suo
prolungamento, la preghiera è vista anch’essa come un’attitudine tipica
dell’uomo in questo mondo, essere libero ma limitato e quindi dipendente:
«Dato che l’ordine della Provvidenza divina attribuisce ad ogni
essere un modo per giungere al proprio fine conforme alla sua
natura, l’uomo ha anch’egli ricevuto una modalità propria per
ottenere da Dio ciò che spera, conformemente al corso abituale della
condizione umana. Infatti è proprio della condizione umana
domandare per ottenere da un altro, e soprattutto da un superiore,
ciò che si spera da lui. È per questo che la preghiera è stata
prescrìtta agli uomini da Dio: per ricevere da lui quanto essi
sperano. [Non certo per far conoscere a Dio i nostri bisogni, ma
molto di più per prenderne noi coscienza. La preghiera cristiana ha
tuttavia una particolarità:] Quando si tratta della preghiera a un
uomo, dobbiamo avere con lui una certa familiarità per essere
autorizzati a rivolgerci a lui. La preghiera rivolta a Dio invece ci fa
penetrare nella sua intimità; quando l’adoriamo in spirito e verità, il
nostro spirito s’innalza fino a lui ed entra con lui in un colloquio
d’amore spirituale. Pregando in tal modo, questa affettuosa intimità
prepara una via per ricominciare a pregare con maggiore fiducia. È
così che afferma il Salmista (16, 6): “Ti ho invocato”, pregando con
fiducia, “e tu mi hai esaudito, o Dio”; come se entrato con la prima
preghiera nell’intimità divina, egli potesse continuare con maggiore
fiducia. È per questa ragione che l’assiduità della preghiera e la
frequenza delle richieste non sono importune, ma gradite a Dio (Le
18, 1): “Bisogna sempre pregare, senza stancarsi”. Il Signore stesso
ci invita a ciò (Mt 7, 7): “Chiedete e vi sarà dato, cercate e
troverete, bussate e vi sarà aperto”. Nella preghiera rivolta agli
uomini invece, l’insistenza della richiesta si trasforma in molestia» 11.

753 Compendium theol. II, 4.


754 La citazione di Ef 5, 1-2 è, d’altro canto, ripresa all’inizio del capitolo
seguente: Compendium theol. II, 5, righe 3-4.
755 Cf. CH.-A. BERNARD, Théologie de l’espérance, p. 151; la speranza come
virtù teologale non si può trovare nei beati, cf. I-II, q. 67, a. 4; II-II, q. 18, a. 2; De spe, a. 4.
378
!

L’affettuosa familiarità che presiede alla preghiera è precisamente


l’effetto tipico della virtù di speranza. La speranza, infatti, non potrebbe
venir meno se non nel caso in cui colui che si prega fosse impotente ad
accordarci ciò che chiediamo; ora, nel caso di Dio, questa potenza è
indubbia poiché egli ha fatto il cielo e la terra e governa sovranamente
tutte le cose756 757. In realtà, allora gli si potrebbe chiedere tutto, ma di fatto
è la carità che regola l’ordine della nostra speranza e delle nostre richieste.
La prima di queste consisterà perciò nel fatto che Dio sia amato al di sopra
di ogni cosa, e ciò è quanto viene espresso nella prima domanda del Pater
«Sia santificato il tuo nome» 758. La seconda, però, corrispondente alla
seconda domanda, ci interessa qui maggiormente: dopo la gloria resa a
Dio, «ciò che l’uomo desidera e cerca, è di partecipare egli stesso alla
gloria divina (particeps diuinae gloriae)» 759.

756 Compendium theol. II, 2; si sarà notato in questo testo il tema della
fami- liaritas: l’uomo che prega diventa un familiare di Dio; qui siamo molto lontano dal
Dio dei metafisici, ma tanto vicino a Colui che ci invita a condividere la sua amicizia
mediante la virtù teologale di carità.
757 Tommaso insiste specialmente sulla fiducia generata dalla speranza nei
capitoli 4 e 6 del Compendium.
758 Cf. Compendium theol. II, 8: affinché Dio sia amato e santificato è
necessario che sia innanzitutto conosciuto, e Tommaso sviluppa qui un intero piccolo
trattato della conoscenza di Dio, passando dalla conoscenza naturale alla rivelazione
dell’Antico, e poi del Nuovo Testamento, andando così dal principo al termine {ut id quod
inchoatum est ad consummationem perueniat)\ ciononostante, tra gli indizi che manifestano
la santità di Dio, «quello più evidente è la santità degli uomini santificati per mezzo
dell’inabitazione divina».
759 Compendium theol. Il, 9; questo lunghissimo capitolo (più di 500 righe, 6
grandi pagine dell’edizione leonina), forma in realtà un autentico piccolo trattato della
beatitudine.
379
!

Tommaso qui reintroduce dunque ciò che oggi chiameremmo la


dimensione escatologica della speranza. Senza che vi sia in lui questa
espressione, troviamo tuttavia la realtà. Noi indubbiamente già
possediamo in anticipo la gloria, giacché la grazia non è nient’altro che
questo; tuttavia non la possediamo ancora nella sua totalità, la viviamo
sotto il regime della speranza. In una maniera profondamente biblica, è
in relazione allo Spirito Santo che troviamo la spiegazione più chiara:
«Noi siamo in Cristo in un duplice modo: mediante la grazia e me- ■
diante la gloria. Mediante la grazia, perché siamo unti dalla grazia
dello Spirito Santo e uniti a Cristo diventando sue membra...
L’unione mediante la gloria, non la possediamo ancora nella sua
realtà (in re), ma la possediamo tramite una speranza certa, poiché
abbiamo la salda speranza della vita eterna. In questa speranza,
abbiamo una duplice certezza di giungere a tale unione: una, in
quanto ne abbiamo un segno; l’altra, perché ne abbiamo un pegno.
Il segno è evidente, dato che si tratta di quello della fede [il
battesimo che ci configura a Cristo],.. Essere configurato a Cristo è
un segno speciale sicuro della vita eterna. Quanto al pegno, è il
maggiore, in quanto si tratta dello Spirito Santo; perciò Paolo
afferma: “Ha messo nei nostri cuori la caparra dello Spirito".
Questo, è certo, nessuno può ottenerlo con le sue proprie forze.
Riguardo però ad un pegno (o caparra) bisogna considerare due
cose: la prima, è che esso rappresenti una speranza di ottenere la
realtà di cui è un anticipo; la seconda, che valga almeno quanto la
realtà, se non di più della realtà stessa. Queste due caratteristiche si
ritrovano nello Spirito Santo. Se in effetti consideriamo lo Spirito
Santo nella sua realtà (substantiam Spiritus Sancii), è evidente che
vale quanto la vita eterna, che non è altro che Dio stesso in quanto
coincide con le tre Persone. Se però consideriamo il modo in cui lo
possediamo, allora il pegno produce la speranza e non il possesso
della vita eterna, perché in questa vita non lo possediamo in maniera
perfetta. E cosi non saremo perfettamente beati se non quando lo
possederemo perfettamente nella patria, Ef 1, 13: “Siete stati segnati
dal sigillo dello Spirito [della Promessa che costituisce la caparra
della nostra eredità]”» 760.
Segnata allora dall’attesa del compimento futuro in un possesso iniziale, la
speranza - e non soltanto essa, ma la vita cristiana tut-

760 Saperli ad Cor. 1, 21-22, lect. 5, n, 44-46; la stessa applicazione della


dottrina della caparra allo Spirito Santo è ripresa in Super II ad Cor. 5, 5, lect. 2, n. 161, e
nell’Expositio in Symbolum, a. 8, n. 969.
380
!

t’intera761 - è quindi collocata sotto il segno escatologico del già e del


non ancora nel suo fulcro stesso, caratterizzato dalla condivisione
della beatitudine divina. Non abbiamo qui che l’imbarazzo della
scelta, giacché Tommaso ha molto spesso parlato della beatitudine,
che ha al centro la visione di Dio, come fine ultimo della vita
cristiana. Tuttavia, prima di ritornarvi a proposito della carità, poiché
ci impegniamo qui a far conoscere il Compendio di teologia, noi
troviamo in esso un lungo capitolo in cui Tommaso precisa
metodicamente e con moderata passione, in cosa consista la
beatitudine finale che sola può placare il desiderio dell’uomo
soprannaturalizzato dalla grazia. Insaziabile per definizione e sempre
in cerca di qualche altra cosa, si capisce infine che egli ha raggiunto il
suo scopo dal fatto che non cerca più, che è infine appagato. Soltanto
la visione di Dio può dare quella pienezza di gioia perpetua che
nascerà dalla condivisione da parte dei santi della gioia che Dio ha in
se stesso:
«ha pienezza della gioia dipende non solo dalla realtà della quale si
gode, ma anche dalla disposizione di colui che la prova. Quando
costui t, ha presente dinanzi a sé la causa della sua gioia, egli si
porta verso di essa con tutto il suo amore. Ora, mediante la visione
dell’essenza divina l’anima percepisce la presenza di Dio in questo
modo. Questa stessa «a* visione infiamma totalmente la sua
affettività nell’amore divino. Se infatti, secondo Dionigi, un essere è
amabile secondo la sua bellezza e la sua bontà, è impossibile che
Dio - il quale forma l’essenza stessa della bellezza e della bontà -
sia visto senza essere amato. Perciò la visione perfetta è
accompagnata da un amore perfetto... La gioia che si prova alla
presenza [di un essere amato] è tanto più grande quanto più esso è
amato. Ne consegue allora che tale gioia sarà perfetta non solo a
causa della realtà di cui si godrà, ma anche di colui che la proverà,
e questa gioia è la gioia perfetta dell’umana beatitudine, ciò che
fa affermare a sant’Agostino che la beatitudine è la “gioia [nataJ
761 Qui occorrerebbe un lungo capitolo per raccogliere rinsieme
degli elementi che permetterebbero di tracciare le grandi linee dell’escatologia
tomasiana; prescindendo dai punti polemici mutili, si troveranno alcuni elementi a
tal riguardo in P. KONZLE, Thomas von Aquin und die moderne Eschatologie, FZPT 8
(1961) 109-120; a proposito di varie opere, vedi le riflessioni di M.-M.
LABOURDETTE, Espérance et histoire, RT 72 (1972) 455-474, soprattutto le
pagine finali riguardanti la speranza. Più ampiamente, verrà ripreso soprattutto da
M. SECKLER, Le salut et l’histoire, La pensée de saint Thomas d’Aquin sur la théologie de
l’histoire («Cogitano fidei 21»), Paris 1967.
381
!

dalla
verità (gaudium de ueritate)"»762.
Per descrivere questa comunione con Dio, vero oggetto della
nostra speranza, Tommaso, normalmente così sobrio, diventa qui
lirico e moltiplica i superlativi: Dio è «il bene di ogni bene» (bonum
omnis bont)\ presso di lui si ottiene «il riposo totale e la perfetta
sicurezza» (piena quies et securitas), «una pace assoluta» (omnímoda
pax), «la calma di una pace perfetta» (perfecta pacis tranquillitas),
ecc. Da ciò si dedurrà soprattutto che «l’inquietudine del desiderio
terminerà a causa della colmante presenza del bene supremo e
dell’assenza di ogni male».
Se si fosse tentati di leggere questa descrizione da un punto di
vista troppo intimista, Tommaso ci rinvierebbe a quanto egli ha detto
in alcune pagine precedenti, a proposito del primo termine della
preghiera del Signore: noi diciamo «Padre nostro» e non «Padre
mio» proprio per esprimere il carattere comunitario della nostra
vocazione cristiana763. «L’amore di Dio [per noi] non è “privato” ma
“comune” e si rivolge a tutti»; così pure, «noi non preghiamo
“individualmente” (.singulariter) ma con uno stesso cuore [ex
unanimi consensu)». E d’altronde, «sebbene la nostra speranza si
fondi principalmente sull’aiuto divino, noi siamo aiutati anche dai
nostri fratelli nell’ottenere più facilmente ciò che chiediamo». A
sostegno di questo carattere comunitario della preghiera cristiana
Tommaso moltiplica le citazioni di autorità patristiche e
scritturistiche per osservare in conclusione: «poiché la nostra
speranza si rivolge a Dio mediante Cristo... il Figlio unigenito per
mezzo del quale diventiamo figli adottivi», non possiamo rivendicare
questa paternità di Dio soltanto per noi; ciò significherebbe usurpare
un titolo che non ci appartiene esclusivamente. D’altro canto, non è
soltanto nella preghiera che appare questo senso della comunità;
nella stessa beatitudine vi sarà posto per la gioia della comunione
amicale764. Qui però, anche se resta da dire poco, sfioriamo già la
terza virtù teologale.

762 Compendium theol. Il, 9, righe 385-409; il rinvio al testo delle


Confessioni X, 23, 33 indica ancora una volta un’ispirazione agostiniana persistente.
763 Compendium theol. II, 5, da dove provengono le citazioni che seguono.
764Cf.I-H, q. 4, a. 8.
382
BISOGNEREBBE CHE L’UOMO FOSSE DIO

Come già si sa, il Compendio di teologia non contiene la


prevista terza parte in cui si sarebbe trattato della carità. Certo, lo si
può rimpiangere, in quanto essa non sarebbe stata inferiore alle
prime due parti, ma quando si tratta della carità non abbiamo che
l’imbarazzo della scelta, poiché Tommaso ne parla in molti luoghi 765.
Sul suo esempio, anche noi l’abbiamo fatto766, e ne riparleremo con
maggiore insistenza nel capitolo seguente. Per attenerci alla
prospettiva del seguente capitolo, ci si proporrà soltanto di mettere
meglio in risalto la profonda unità della vita teologale e la sua
accentuata dimensione escatologica. Maestro Tommaso, che non
perde mai di vista questi due aspetti, li introduce simultaneamente
fin da quando inizia a parlare della connessione delle virtù:
«La carità non dice soltanto amore di Dio, ma anche una
qualche amicizia con lui; amicizia che aggiunge all’amore un
riamarsi scambievole, con una comunione reciproca, come è
spiegato nel Libro Vili dell'Etica a Nicomaco. E che tali siano
le proprietà della carità è evidente da quanto è scritto nella
prima lettera di Giovanni (4, 16): "Chi sta nella carità sta in
Dio, e Dio è in lui”, e nella prima lettera ai Corinzi (1, 9):
“Fedele è Dio, per opera del quale siete stati chiamati alla
comunione con il Figlio suo”. Ora, questa comunione
dell’uomo con Dio, che consiste in un certo scambio familiare,
è mediante la

765 Oltre il trattato della carità (H-II, qq. 23-46), ci sono soprattutto i
passaggi paralleli del Commento alle Sentenze (dd. 27-32) e della Questione
disputata De cantate. Ricordiamo i tre volumi sempre utili della «Revue des
Jeunes»: S. THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, La Charité, tt. 1 e 2, Notes et
appendices par H.-D. NOBLE, Paris 19502, e 1967; t. 3, par H.-D. GAEDEIL, Paris 1957; per
chi ha la possibilità di accedervi, raccomandiamo il corso ciclostilato di M.-M.
LABOURDETTE, La Charité, Toulouse 1959-1960. La storia teologica del trattato nel XX
secolo è stata segnata da lunghe discussioni nelle quali non è necessario addentrarsi
qui; per non moltiplicare i riferimenti a studi a volte antichi o poco accessibili,
rinviamo semplicemente a T.-M. HAMONIC, Dieu peut-il être légitimement convoité?
Quelques aspects de la théologie thomiste de l’amour selon le P. Labourdette, RT 92
(1992) 239-264, in cui si troverà soprattutto un utile stato della questione, con in
appendice un bel testo del p. Labourdette: «Faire sa joie de la joie de Dieu».
766 Per la carità - amicizia con Dio, consigliamo la rilettura dei capitoli
della SCG IV 20-22, abbondantemente tradotti qui sopra nel nostro capitolo VII; in
particolar modo si vedano i paragrafi: «La vita nello Spirito» e «Vieni verso il
Padre».
383
grazia che inizia qui nella vita presente, ma è mediante la
gloria che avrà compimento nel futuro. Questa duplice realtà
noi ora la possediamo in forza della fede e della speranza.
Perciò, come non è possibile avere amicizia con qualcuno, se
non si crede e non si spera di poter avere con lui una certa
comunione di vita o scambio familiare, così nessuno può avere
con Dio questa amicizia che è la carità senza avere la fede per
credere a questa comunione e scambio dell’uomo con Dio, e
senza avere la speranza di poter appartenere egli stesso a tale
comunione. Ecco allora che la carità non può affatto esistere
senza la fede e la speranza»767.

Non è assolutamente possibile mettere in risalto con maggior


vigore l’unità della vita teologale e non è più necessario insistervi,
ma si può ancora approfondire questa definizione della carità come
amicizia. Essa è ben comprensibile quando si tratta dell’amore
reciproco tra persone umane, poiché in questo caso si possono
verificare le condizioni dell’amicizia che Tommaso elenca seguendo
Aristotele. Occorre che si tratti di un amore di benevolenza tra due
persone che si vogliono reciprocamente bene768. Tuttavia non basta
l’amore di benevolenza perché vi sia amicizia, occorre che si
aggiunga la reciprocità (mutua amatio): «poiché l’amico ama nel suo
amico qualcuno che a sua volta lo ama» 769. Affinché questo sia
possibile occorre che vi sia tra di loro una certa communicatio, un
certo tipo di «comunione», ciò che Aristotele intendeva con il
termine koinònia, che suppone la condivisione di uno stesso bene
comune tra amici e che si esprime mediante un’attività comune, un
«vivere insieme» (conuiuere)770.
Quest’ultima condizione è tanto fondamentale quanto la
reciprocità. Essa esclude che vi possa essere amicizia vera tra
persone che non potrebbero «comunicare», congiungersi su dei
valori, dei beni in egual
767 I-II, q. 65, a. 5; conformemente al senso del greco koinònia, tradotto
societas dalla Volgata, noi abbiamo tradotto qui societas con «comunione».
768 I, q. 20, a. 1 ad 3: «L’atto d’amare ha sempre due oggetti: il bene
che qualcuno vuole a qualcuno, e la persona a cui si vuole tale bene; amare
qualcuno consiste proprio in questo: volergli del bene».
769II-II, q. 23, a. 1: «quia amicus est amico amicus».
770 Cf. II-II, q. 23, a. 1, soprattutto; ricordiamo lo studio di J. MCEVOY, Ami-
tié, attirance et amour chez S. Thomas d’Aquin, KPL 91 (1993) 383-408, che
sottolinea l’originalità della concezione tomasiana dell’amicizia; si può vedere anche
M.F. MANZANEDO, La amistad según santo Tomás, «Angelicum» 71 (1994) 371-
426, piuttosto filosofico e un po’ scolare, ma molto completo (bibliografia).
384
misura cari a tutti, e condividerli in una corrispondente vita comune
(una conuersatio). L’estraneo alla casa o alla città non può partecipare
all’amicizia propriamente familiare o politica, mentre la condivisione:
di un altro bene comune potrebbe associarlo ad un altro tipo di
amicizia. Si pensi soltanto a san Paolo quando parla di ciò che accade
nella Chiesa - Corpo di Cristo {Ef 2, 19): «Voi non siete più stranieri
né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» 771. Ciò è
quanto pensava anche Aristotele quando affermava: «Se un amico è
troppo lontano dall’altro amico, come per esempio Dio è lontano
dall’uomo, nessuna amicizia è più possibile» 772. Ma si tratta
esattamente anche della difficoltà che solleva una delle obiezioni alla
definizione della carità come amicizia:
«“Niente è più tipico degli amici che il vivere insieme”, dice il
Filosofo. Ora, la carità si rivolge a Dio e agli angeli, “con i
quali l’uomo non ha conuersatio" (Dn 2, 11). Dunque la carità
non è un’amicizia» 773.
Tommaso avrebbe potuto replicare ad hominem, come fa Cristo
in san Giovanni: «Io ho detto: “Voi siete dèi”» 774, poiché in realtà ciò
è quanto realizza la grazia dello Spirito Santo: rendendoci figli
adottivi, essa ci pone per così dire su un piano d’uguaglianza con Dio,
rendendo possibile così la reciprocità. Ciononostante, egli preferisce
spiegare in maniera più specifica ciò che fonda qui la communicatio-,
«Nell’uomo vi sono due specie di vita: la prima è esterna,
secondo la nostra natura sensibile e corporea; secondo questa
vita, non vi è possibilità di “comunione” (communicatio) o di
“vita comune” (conuersa-
tio) tra l’uomo e Dio o gli angeli. L’altra è la vita spirituale,
quella dell’anima, e secondo questa vita, la "vita comune” con
771 Si può anche pensare alla prima lettera di Giovanni (1 Gv 1, 3-4): «Ciò
che abbiamo visto e inteso, ve lo annunciamo, affinché anche voi siate in comunione
con noi. Quanto alla nostra comunione, essa è con il Padre e con il suo Figlio Gesù
Cristo»; come si sa, «comunione» traduce qui koinónia, come anche più avanti (1,7),
dove la condivisione del messaggio evangelico realizza la koinónia fraterna; vedi
anche Al 2, 42 e 4, 32.
772 Etica a Nicomaco VIU, 9, 1159 a 4; Tommaso ha perfettamente colto il
senso: «Se gli amici sono troppo lontani, come gli uomini lo sono per esempio da Dio,
l’amicizia di cui noi parliamo non sarà più possibile. [Augurare al proprio amico un
bene troppo grande, diventare re, per esempio, significa perderlo]», Sen- tentia
libriEthicorum VHI, lect. 7, Leon., t. 47/2, p. 465.
773Et-II, q. 23, a. 1, arg. 1.
774 Gv 10,34-35, con citazione di Sai 81, 6.
385
Dio o gli angeli ci è possibile. Certo, in maniera imperfetta in
questa vita: “la nostra conuersatio si trova nei cieli” (T'il 3,
20); ma tale conuersatio troverà la sua perfezione nella patria,
quando “i servitori di Dio vedranno il suo volto” (Àp 23, 3).
Allora la carità che quaggiù è imperfetta, nella patria sarà
perfetta» 90.
Che la comunione si realizzi secondo la nostra anima e le
nostre potenze spirituali non ha evidentemente niente di
sorprendente, in quanto soltanto esse rendono possibile la vita di
conoscenza e d’amore indispensabile allo scambio amicale 91.
Bisogna sottolineare piuttosto la solidità apportata alla definizione
della carità-amicizia dalla comunicazione tra Dio e l’uomo fondata
sul possesso comune di certi beni; e ancor di più è importante
mettere in risalto l’esatto bene che è all’origine di questa amicizia:
«La carità non è un amore qualsiasi di Dio, ma l’amore secondo il
quale Dio è amato come oggetto di beatitudine, e al quale ci
indirizzano la fede e la speranza» 92. Non si tratta quindi direttamente
della grazia, come si sarebbe potuto pensare; se Tommaso qui avesse
pensato alla grazia avrebbe parlato di una comunicazione della
«natura» divina, così come fa normalmente. Oltre al possesso
entitati- vo comune della grazia, egli vuole dunque significare
qualcosa in più, che appartiene all’ordine dell’operazione,
dell’attività, della vita; questa comunicazione è precisamente la
beatitudine stessa:
«Dato che esiste una certa “comunicazione” dell’uomo con
Dio, in quanto egli ci comunica la sua beatitudine, occorre che
una certa amicìzia sia fondata su tale “comunicazione”. E di
questa “comunicazione” che si parla in 1 Cor 1, 9: “Fedele è
Dio, mediante il quale siete stati chiamati alla ‘comunione’ con
il suo Figlio”. La carità è l’amore fondato su questa
comunicazione; è chiaro allora che la carità costituisce una
certa amicizia dell’uomo con Dio» 93.

90
, II-II, q. 23, a. 1 ad 1.
91
1, q. 20, a. 2 ad 3: «Non può esserci amicizia che nei confronti di creature
razionali, capaci di redamatio e di communicatio nelle attività vitali, e capaci di
provare il bene e il male, la disgrazia e la fortuna, e nei confronti delle quali si può
provare propriamente della benevolenza. Le creature irrazionah in nessun modo
possono giungere all’amore di Dio e alla comunione della vita intellettuale e beata di
cui Dio vive».
92
I II, q. 65, a. 5 ad 1.

386
93
n-II, q. 23, a. 1.
Detto altrimenti, Dio non ci vuole soltanto felici, ma cj vuole
felici della felicità di cui egli stesso è felice, della sua beatitudine. La
carità ci associa quindi al bene già posseduto in comune dalle tre
Persone della Trinità, alla loro stessa vita, alla loro felicità, e ci rende
partecipi del loro eterno condividere.
«[Oltre all’amore col quale Dio ama tutta la creazione] vi è
anche l’amore vero e propriamente detto, simile all’amicizia,
per mezzo del quale Dio non ama la creatura soltanto come Un
artigiano può amare la sua opera, ma proprio con una certa
comunione di amicizia, così come l’amico ama il suo amico,
nella misura in cui egli lo introduce nella gioia della sua
comunione, in modo tale che la loro gloria e la loro beatitudine
siano precisamente quelle mediante le quali Dio stesso è felice.
E di questo amore che egli ama i santi...» 775.
Come la fede e la speranza, ma con una sua modalità propria, la
carità realizza in noi allo stato iniziale, «in speranza», in modo
escatologico, la vita eterna alla quale siamo chiamati. Come la fede e
la speranza, essa appartiene dunque alla dimensione del «già» e «non
ancora», ma meglio di esse - sebbene non senza di esse — unisce la
persona all’oggetto del proprio amore, l’amante all’Amato, l’amato
all’Amante, poiché è tipico della natura dell’amore incitare all’unione
776
. Anticipazione precaria, fragile e minacciata, come tutto ciò che
appartiene alla temporaneità - «Portiamo questo tesoro in vasi
d’argilla», 2 Cor 4, 7 -, ma possesso stabile e certo, poiché il bene che
qui assicura la comunione amicale non è altro che il Bene di ogni
bene, che si identifica all’Amico stesso, e con l’Amico l’eternità è
entrata nelle nostre vite.

775 Seni. Il, d. 26, q. 1, a. 1 ad 2.


776 Qui occorrerebbe introdurre l’intera questione degli effetti dell’amore
(I-Il, q. 28); non potendo, rinviamo ancora una volta ai capitoli della SCG IV 20-22,
che parlano così bene dell’amicizia con Dio realizzata per mezzo dello Spirito Santo.
387
XIV
Itinerari verso Dio

I maestri spirituali propongono di solito un itinerario dell’anima


verso Dio. Se non lo fanno sempre esplicitamente, è almeno la loro
persona e il loro genere di vita che i discepoli assumono come
particolare modello di santità. Non è raro tuttavia che la proposta di
questo itinera- ; rio sia assolutamente esplicita e si rediga
espressamente un «Itinerario dell’anima verso Dio» come è il caso di
san Bonaventura, un «Cammino di perfezione» come quello di santa
Teresa d’Avila o una «Salita del Monte Carmelo» come quella di san
Giovanni della Croce. Non sarebbe difficile moltiplicare gli esempi fi
La questione che si pone a noi consiste piuttosto nel sapere se si trova
qualcosa di analogo in san Tommaso.
La risposta affermativa non pone alcun dubbio e già la si
conosce. L’insieme della Seconda e della Terza Parte della Somma ci
si presenta come la descrizione del «movimento della creatura
razionale verso Dio» al seguito di Cristo, il quale nella sua umanità è
per noi «la via che conduce verso Dio» 777 778. E sorprendente che
un’affermazione così chiara non sia meglio conosciuta né meglio
valorizzata dai discepoli del Maestro. Certamente ci sono molte
ragioni che spiegano ciò. La principale potrebbe consistere nel fatto
che ci si è interessati più agli aspetti filosofici del suo pensiero che
non alla sua ispirazione propriamente teologica. Si potrebbe anche
obiettare che il «cammino» proposto da Tommaso presenta molte
deviazioni (sebbene non lo si possa accusare di marinare la scuola!).
Il fatto tuttavia esiste ed è massiccio. Il cammino è quello del ritorno
verso Dio di tutta la creazione e l’uomo è invitato a percorrerlo
secondo le sue proprie modalità, ossia liberamente, al seguito del suo
Salvatore.
Questo primo dato, assolutamente fondamentale, resterebbe
777 Cf. E. BERTEAUD, Guides spirituels, DS 6 (1967) 1154-1169.
7781, q. 2, Prol.
388
troppo generale per rispondere alle esigenze che a buon diritto ci si
atten-
derebbe da un itinerario, se non vi fosse anche un certo numero di
piste che fra Tommaso, senza insistervi, ma con sufficiente chiarezza,
propone qua e là. Si resterà certamente sorpresi nel vedere con quale
pertinenza e fermezza esse si ritrovano in vari campi. Il suo moi lo di
considerare l’uomo come un essere di desiderio, che resta irrealizzato
finché non ha raggiunto l’oggetto del suo amore; la sua concezione
della beatitudine, al di là di tutto ciò che può essere ambito e che
bisogna imparare a discernere da tutto ciò che essa non è; la sua stessa
idea della creatura nuova, la cui crescita è paragonabile a quella di un
organismo corporeo, chiamata a svilupparsi superando al seguito di
Cristo i gradi che conducono alla carità perfetta. Tutto questo
converge verso il comandamento nuovo e lo riporta instancabilmente
al centro dello sforzo spirituale con un vigore impressionante.

L’UOMO E IL SUO DESIDERIO

Non si deve far altro che riprendere qui l’impeto di tanti testi già
incontrati nei quali abbiamo visto in funzione il movimento circolare
impresso da Dio all’opera uscita dalle sue mani. La costanza con la
quale Tommaso ritorna su tale movimento sottolinea il fatto che egli
ha ben percepito questo dinamismo e vuole rispettarlo ad ogni costo.
Ne ritroviamo una formulazione teologica definitiva quando egli
s’interroga sul perché soltanto Dio può produrre la grazia:
«Poiché il principio e il fine dell’universo sono identici, il fine
[perseguito mediante il dono] della grazia stessa deve essere
proporzionata, alla sua causa agente. Perciò, come l’azione
primordiale per mezzo delf la quale le creature sono poste
nell’essere, ossia la creazione, è propridi soltanto di Dio, che è
primo principio e fine ultimo delle creature, così il dono della
grazia, tramite il quale l’anima è immediatamente unita al fine
ultimo, viene soltanto da Dio»}.
Collocato dopo tutti quelli che abbiamo letto, questo testo non
rivela niente di nuovo, a dire il vero, ma conferma che l’itinerario
proposto da Tommaso, e che noi cerchiamo di scoprire al suo seguito,
è| un cammino di grazia in cui l’uomo avrà certo il suo progresso da

389
ef- 779
ffettuare, ma in cui Dio conserva l’iniziativa. Altri passaggi che non
sono meno chiari propongono diverse varianti all’interno di questo
iti- f herario ma, cosa molto importante, queste particolarizzazioni
non scal- ! iiscono affatto la prospettiva fondamentale.
La teologia dell’immagine di Dio valorizza incontestabilmente
que- f sta dinamica, poiché se l’immagine è capace di giungere alla
somiglianza i questo avviene perché, fin dalla sua creazione, Dio ha
creato la sua creatura per sé, e l’ha costituita in maniera tale che essa
non troverà il suo proprio compimento se non nella misura in cui gli
sarà più profonda- | mente somigliante:
«Per il fatto stesso che tendono alla loro perfezione, gli esseri
cercano il loro bene, poiché ogni essere è buono nella misura
della propria perfezione. Per il fatto stesso che cercano il loro
bene, essi tendono alla divina somiglianza.- ogni essere
assomiglia a Dio nella misura della propria bontà. Ma questo
o quel bene particolare è desiderabile nella misura in cui
assomiglia alla bontà prima; perciò un essere tende al proprio
bene a causa della somiglianza con Dio, non già viceversa. E
evidente allora che tutti gli esseri cercano come loro fine
ultimo una somiglianza con Dio»780.
Dio ha immesso quindi nel più profondo di ogni essere il
desiderio di raggiungerlo. Tommaso ne è talmente convinto che
giunge perfino a dire che «l’ultima e perfetta beatitudine dell’uomo
non può consistere che nella visione divina, (perché) l’uomo non può
essere perfettamente felice fin quando gli resta qualcosa da desiderare
e da cercare». La sua intelligenza non raggiunge la propria perfezione
se non conoscendo l’essenza della prima causa in quanto là si trova il
suo oggetto. Soltanto così egli otterrà la sua unione a Dio in cui si
trova la sua vera felicità. Fintantoché non vi giunge, «resta nell’uomo
a causa della sua natura (naturaliter) un desiderio insoddisfatto», «un
desiderio naturale di conoscere questa causa. Egli perciò non è
perfettamente felice» 781. Come aveva già detto giustamente a

779 De ueritate, q. 27, a. 3 infine.


780 SCG III 24, n. 2051.
781 I-II, q. 3, a. 8: «Ultima et perfecta beatitudo non potest esse nisi
in uisione diuinae essentiae (...). Homo non est perfecte beatus quandiu restat sibi
aliquid desi- derandum et quaerendum (...). Ad perfectam beatitudinem requiritur
quod intellects pertingat ad ipsam essentiam primae causae. Et sic perfectionem
suam habebit per unionem ad Deum sicut ad obiectum in quo solo beatitudo hominis
390
proposito della beatitudine: «Se
l’intelletto razionale non riuscisse a raggiungere la prima causa delle
cose, un desiderio di natura resterebbe vano» é.
Dopo le considerazioni di ordine mistico, alle quali si
prestavano i testi sull’esperienza amorosa di Dio 782 783, questi spiccano
a causa del loro tono più «oggettivo» e perfino «razionalista». In
realtà, questi due approcci si sostengono reciprocamente e i primi non
ricevono tutto il loro valore di coronamento dell’avventura umana se
non alla luce dei secondi, che sottolineano il carattere irreprimibile
del desiderio che essi esprimono. Tocchiamo qui una delle linee
conduttrici del pensiero del Maestro d’Aquino e potremmo citare una
decina di testi che vanno nello stesso senso:
«È impossibile che un desiderio naturale sia vano; il che
avverrebbe qualora non fosse possibile raggiungere
l’intellezione dell’essenza divina. che per natura tutte le menti
desiderano; perciò, è necessario affermare la possibilità di
vedere intellettualmente l’essenza di Dio, sia dai parte delle
sostanze separate, sia da parte delle nostre anime» 784. fön po’
più avanti, egli è altrettanto chiaro:] «Abbiamo provato
precedentemente che ogni intelligenza desidera naturalmente la
visione della sostanza divina. Ora, un desiderio naturale non
può essere vano. Ogni intelligenza creata può allora
raggiungere la visione di Dio, malgrado l’inferiorità della
propria natura»785.
Non è possibile comprendere pienamente il rigore di questo
ragionamento se non si accorda al termine «naturale» tutta la forza
che esso poteva avere per san Tommaso. Come è stato ben detto:
«Niente di naturale può essere vano: tutto ciò che è naturale è fatto
per raggiungere il suo fine. Questi sono, nel loro ordine, dei principi
primi. Si avrebbe dunque uno scandalo intellettuale, se il desiderio
naturale di conoscere l’essenza della causa divina potesse rimanere
inappagato. La natura non realizza simultaneamente delle cose

consistit».
782I, q. 12, a. 1.
783 Cf. qui sopra cap. IV: «Immagine e beatitudine».
784 SCG HI 51, n. 2284; cf. ibid., 50.
785 HI SCG 57, n. 2334: «...omnis intellectus naturaliter desiderat diuinae
substantiae uisionem. Naturale autem desiderium non potest esse inane. Quilibet
intellectus creatus potest peruenire ad diuinae substantiae uisionem, non impediente
inferioritate naturae».
391
contraddittorie»786.
Questi testi del Maestro, ai quali se ne potrebbero aggiungere
molti altri 787, hanno creato qualche difficoltà ai loro commentatori
dell’età classica del tomismo. In essa infatti è nata la famosa
questione del «desiderio naturale di vedere Dio», altrimenti detto -
con una formula breve che ne fa ben sentire la scorrettezza - «il
desiderio naturale del soprannaturale». Non significava questo
affermare che il soprannaturale - cioè la grazia - era dovuto alla
natura, dato che Dio non avrebbe potuto aver messo nell’uomo un
desiderio che sarebbe rimasto vano? Il Gaetano ha creduto di risolvere
il problema dicendo che questo desiderio di vedere Dio non è
naturale se non all’uomo soprannatu- ralizzato-, esso allora, di fatto è
soprannaturale788.
Questo significa enunciare una verità lapalissiana, seppure non
infondata; questo desiderio soprannaturale esiste certamente visto che
è incluso nelle virtù teologali, e specialmente nella speranza, qui però
è in causa un’altra cosa. Per questo Silvestro di Ferrara, altro grande
commentatore, contesta questa interpretazione del Gaetano,
adoperandosi a qualificare questo desiderio in maniera tale (elicito,
libero, condizionale, inefficace) che esso non ha più la necessità che
san Tommaso attribuisce a un desiderio di natura, venendo così a
perdere tutta la forza della sua argomentazione. Questo desiderio così
caratterizzato non è altro che il segno che probabilmente esiste
nell’uomo una capacità obbedienziale, cioè una pura non ripugnanza
a un’elevazione soprannaturale 789.
786 A. GAKDEIL, La structure de l’âme et l’expérience mystique, t. I, Paris 19273,
p. 281.
787 Si può vedere a tal proposito lo studio decisivo di J. LAPORTA, La
Destinée de la nature humaine selon saint Thomas d’Aquin («Etudes de
philosophie médiévale 55»), Paris 1965, con la recensione di M.-M. LABOURDETTE, RT
66 (1966) 283-289, che è d’accordo con lui. Qui sopra ci rifacciamo
all’interpretazione del p. Labourdette così come la si trova nel suo Cours de
théologie morale I, 2. La fin dernière de la vie humaine (La Béatitude),
nuova edizione completamente rivista, Toulouse 1990, dal quale riprendiamo a volte
i termini stessi. Vedi anche S. PlNCKAERS, Le désir naturel de voir Dieu, «Nova et
Vetera» 51 (1976) 256-273, il quale sottolinea che «l’argomento del desiderio
naturale di vedere Dio, con il ruolo che esso gioca nella questione della felicità
dell’uomo, è... una trovata del genio di S. Tommaso» (p. 260).
788 In Iam q. 12, 1, n. V-X, Leon., t. 4, Roma 1888, 115-116.
789 In SCG 51, Leon., t. 14, Roma 1926, pp. 141-143; si troverà in A.
GAR- DEIL, La structure de l’âme et l’expérience mystique, t. I, pp. 268-307, il
riassunto chiaro e vigoroso delle posizioni dei commentatori tomisti, rifacendosi lo
stesso autore a quello di Silvestro di Ferrara.
392
Noi non dovremo inoltrarci ulteriormente in questa discussione
che occupò le menti per vari secoli 790. Ciò che essa testimonia
soprattutto - e che è rimasto inavvertito per i suoi stessi protagonisti -
è il totale cambiamento di prospettiva intervenuto tra il XIII secolo e
l’epoca inaugurata dal Rinascimento e dalla Riforma, in cui il
termine «natura» è stato assunto in un senso molto diverso da quello
che gli accordava san Tommaso 791.In questi tempi più recenti esso
non significava altro che la natura «pura», come si diceva, ossia
quella di un uomo lasciato alla sua sola definizione di animale
razionale, senza il minimo dono soprannaturale, senza la minima
vocazione a condividere la condizione divina o a vedere Dio. Questa
natura non poteva avere evidentemente nessuna aspirazione a
condividere quella vita divina per la quale non era stata fatta; essa
perciò si trovava nei suoi confronti in uno stato di semplice non
ripugnanza, come il marmo che può certamente diventare statua sotto
la mano di Michelangelo, ma che non richiede né auspica ciò, e non
ne ha alcun «desiderio».
La natura umana di san Tommaso è tutt’altro. Essa ha il
desiderio naturale, cioè innató, quindi necessario, di conoscere in se
stessa la fonte di tutto ciò che è. Questo desiderio di natura forma una
sola cosa con l’essere stesso dell’uomo, ed è tale che il suo intelletto
non può fermarsi prima di essere ricolmato dalla conoscenza in se
stesso dell’Essere che è l’origine del suo essere e di ogni essere, così
come nemmeno il suo amore può essere completo prima di
raggiungere il Bene che è all’origine di tutti i beni 792. Non si tratta

790 Essa ha conosciuto la sua più recente evoluzione nella polemica


sollevata dalle pubblicazioni di H. DE LUBAC, Surnaturel: Études historiques
(«Théologie 8»), Paris 1946; Augustinisme et théologie moderne («Théologie
63») e Le mystère du surnaturel («Théologie 64»), Paris 1965; cf. la nostra
recensione: RT 66 (1966) 93-107, e le riflessioni posteriori dell’autore in Mémoire
sur l’occasion de mes écrits, Namur 1989.
791 Circa il Gaetano, si vedrà lo studio di O. BOULNOIS, Puissance neutre et
puissance obédientielle. De l‘homme à Dieu selon Duns Scoi et Cajétan , in B. PlN-
Kationalisme analogique et humanisme théologique. La culture de
CHARD - S. RICCI,
Thomas deVio «Il Gaetano», Napoli 1993, pp. 31-69.
792 Sovente, Tommaso ragiona in termini d’intelligenza e di conoscenza,
poiché considera la facoltà d’apprendimento del bene che costituirà la beatitudine;
ci si guarderà dal concludere che esclude l’amore. Abbondano i testi che affermano il
contrario, come per esempio in Compendium theol. I, 109: «La realizzazione
dell’uomo risiede nell’ottenimento del fine ultimo, felicità o beatitudine perfetta che
consiste nella visione di Dio... E la visione di Dio è accompagnata dal riposo
dell’intelligenza e della volontà. Dell’intelligenza perché, quando essa giunge alla
393
ancora del desiderio della visio-
ne divina in quanto tale, ma esso è di tal natura che si estende a tutto
ciò che può appagarlo e resta insoddisfatto fintantoché non l’ha
raggiunto. Perciò, lungi dall’essere una non ripugnanza al
soprannaturale, la sua natura aspira inconsciamente ad esso. Sicché, il
giorno in cui per rivelazione gli sarà noto sotto il suo vero nome il
proprio Bene, questo desiderio di natura necessario sarà accompagnato
da un desiderio libero sostenuto dalla grazia che gli permetterà infine
di raggiungere il suo termine17.

CAPACE DI DIO

Se la natura umana secondo san Tommaso è fatta così, ciò è


dovuto evidentemente al fatto che essa è creata a immagine di Dio. È
qui che si trova il fondamento e la spiegazione di questo desiderio e i
testi lo ripetono spesso. Dovendo stabilire se la visione beatifica
apparteneva a Cristo su questa terra, Tommaso inizia col ricordare ciò
che vale per ogni uomo:

«L’uomo è in potenza alla scienza dei beati che consiste nella


visione di Dio ed è destinato ad essa come al suo fine; infatti
egli è una creatura razionale capace di questa conoscenza
beata, fatta com’è a immagine di Dio». [E se si obietta che
l’uomo non è fatto per la visione beatifica in quanto questa è al
di sopra della natura, la risposta è molto chiara:] «Sotto un
certo aspetto, la visione beatifica

causa prima in cui tutte le cose possono essere conosciute, la ricerca dell’intelligenza si
ferma. Della volontà perché, quando essa è giunta al fine ultimo in cui si trova la
pienezza di ogni bontà, non resta nient’altro da desiderare... Perciò è chiaro che il
compimento ultimo dell’uomo si trova nel riposo e nella quiete perfetta
dell’intelligenza e della volontà»; per il ruolo dell’intelligenza e della volontà nella
beatitudine, si veda soprattutto: SCG IH 26; I-II, q. 3, a. 4. Se ci si vuole rendere conto
della differenza tra questa concezione della beatitudine e quella che sostenevano le
correnti filosofiche condannate a Parigi nel 1277, sarà molto interessante leggere A.
DE LIBERA, Averroìsme éthique et philosophie mystique. De la félicité
intellectuelle à la vie bienheureuse, in L. BIANCHI (ed.), Filosofia e Teologia
nel Trecento. Studi in ricordo di Eugenio Randi, Louvain-la-Neuve 1994, pp. 33-56.
17
Tommaso parla di questo desiderio cosciente nella I-II, q. 5, a. 8 dove
distingue tra la beatitudine considerata sotto la sua ragione comune di bene (Et sic
necesse est quod omnis homo beatitudinem uelit ), e la beatitudine considerata
come conosciuta: Et sic non omnes cognoscunt beatitudinem, quia nesciunt

394
cui rei commu- nis ratio beatitudinis conueniat.
è al di sopra della natura dell’anima razionale perché questa non
può giungervi con le proprie forze. Tuttavia sotto un altro
aspettò è conforme alla sua natura, in quanto precisamente per
la sua natura ne è capace, essendo stata fatta a immagine di
Dio»793 794.
Così Tommaso non afferma che ogni uomo ha naturalmente
l’esplicito desiderio della visione beatifica, ma afferma proprio che la
sua vera felicità non si trova che in esso, come pure afferma che
l’uomo è naturalmente capace di ricevere il dono divino della grazia
in quanto è fatto a immagine dell’Autore della grazia, e che tramite
questa potrà dunque appagare il desiderio naturale che gli è proprio.
Tra i testi che sostengono la sua riflessione, Tommaso riprende qui un
passaggio dì sant’Agostino al quale accorda ima forza accresciuta
dalla menzione stessa del carattere «naturale» di questa possibilità:
«L’anima è naturalmente capace della grazia; come sostiene
sant’Agostino: per il fatto stesso che è ad immagine di Dio, essa è
capace di Dio per grazia»19. Queste espressioni sono lungi dall’essere
rare795, e non sono riservate al teologo e alla sua riflessione. Quando,
nella sua predicazione, vuole parlare della vita eterna, Tommaso
ritrova spontaneamente questo linguaggio:
«[La vita eterna consiste] nel perfetto appagamento del
desiderio dell’uomo. Ciascun beato infatti possederà in cielo
quel bene che si trova al di là di ciò che avrà desiderato e
sperato quaggiù. Il motivo è che nessuno può in questa vita
793 III, q. 9, a. 2 ad 3: «Visio seu scientia beata est quodammodo supra
natu- ram animae rationalis, inquantum scilicet propria uirtute ad eam peruenire
non potest. Alio modo uero est secundum naturam ipsius, inquantum
scilicet secundum naturam suam est capax eius, prout scilicet est ad
imaginem Dei facto».
794 «Naturaliter anima est gratiae capax: “eo enim quod facta est ad
imaginem Dei, capax est Dei per gratiam”, ut Augustinus dicit», I-II, q. 113, a.
10, con citazione del De Trin. XIV, 8, 11: BA 16, p. 374; NBA 4, p. 609, il cui
andamento è tuttavia un po’ diverso: «Eo quippe ipso imago ejus est, quo ejus capax
est, ejusque particeps esse potest; quod tamen magnum bonum, nisi per hoc quod
imago ejus; est, esse non potest» («Infatti, ciò che fa che sia immagine, è il fatto che
essa è capace di Dio, può partecipare di Dio. Un così grande bene non è possibile se
non in quanto essa è immagine di Dio»).
795 Oltre il passaggio succitato, capax Dei ricorre una decina di volte,
soprattutto in III, q. 4, a. 1 ad 2; De ueritate, q. 22, a. 2 ad 5; ma ci sono molte altre
espressioni equivalenti: capax summi boni (I, q. 93, a. 2 ad 3), capax perfecti
boni,: capax uisionis diuinae essentiae (I-II, q. 5, a. 1), capax uitae aeternae
(11-11, q. 25, a. 3 ad 2), ecc.
395
soddisfare pienamente il suo desiderio e che
nessuna cosa creata può appagare il desiderio dell’uomo.
Soltanto Dio può soddisfarlo completamente e addirittura
superarlo infinitamente. Per questo l’uomo non trova il suo
riposo che in Dio, come afferma sant’Agostino: Tu ci hai fatti
per te Signore e il nostro cuore resta inquieto fino a quando
non riposa in te 21. E poiché i santi nella patria possederanno
Dio perfettamente, è chiaro che il loro desiderio sarà appagato
e perfino superato dalla loro gloria»796 797.

Non ci si meraviglierà di ritrovare qui Agostino; Tommaso è


molto più vicino a lui che agli scolastici dell’età barocca e alla loro
natura ; <<pura>>. Il suo desiderio naturale esprime a modo suo la
pagina immortale con la quale si aprono le Confessioni. Ricordare
ciò non significa ■ annettere il dottore d’Ippona alla gloria del
Maestro d’Aquino, si tratta piuttosto di riconoscere un’eredità e
contribuire così alla comprensione esatta di quanto egli ha voluto
dire. Ciò che egli, al seguito di Aristotele, riassume sobriamente sotto
forma di desiderio di conoscere, spinto al massimo delle sue
possibilità, esprime infatti l’insaziabile ricerca del bene, del vero, del
bello, che si trova nel cuore di tutti gli esseri umani.

Ciò CHE NON FA LA FELICITÀ

Se Tommaso è capace di accostare in un riassunto


impressionante l’immagine (Gn 1, 26) e la beatitudine (1 Gv 3, 2),
non dimentica tuttavia la condizione storica dell’essere umano. Con
la sua solita concisione, egli ha già ricordato che «l’uomo per natura
non è ordinato come l’angelo a raggiungere subito la perfezione. Per
questo deve percorrere una via piu lunga di quella dell’angelo per
meritare la beatitudine» 798. Data questa evidenza, l’idea della via da
percorrere gli è tanto connaturale quanto quella del movimento
circolare. All’interno di questo schema, l’itinerario spirituale si
colloca evidentemente sul cammino del ritorno, il reditus, ma esso
non ne costituisce che una precisazione esi- gita dalla natura stessa
dell ’homo uiator. E una di queste evidenze che governa la Seconda
Parte della Somma. Se essa inizia con una ricerca sul fine ultimo, è

796 Confessiones 1 , 1 , 1 : BA 13, p. 273; NBA 1, p. 7.


797 Explanatio in Symholum 12, n. 1012.
798 I, q. 62, a. 5 ad 1.
396
perché l’uomo, il cui destino deve compiersi nel tempo, non può
mettersi in cammino se non sa verso quale meta deve dirigere i suoi
passi. Tommaso procede quindi in un’analisi della causalità finale
applicata all’intera vita umana e giunge alla conclusione che il fine
assolutamente ultimo dell’uomo consiste nel raggiungere Dio come
oggetto di conoscenza e d’amore. La beatitudine così intesa è molto
di più della felicità più o meno vaga o intensa che tutti sogniamo. Se
l’essere umano è mosso da essa al punto tale che il desiderio che ne
ha s’identifica con un autentico tropismo, è chiaro allora che non si
tratta di un’impresa tra le altre, ma dell’unica cosa che alla fin fine
conta e che è assolutamente importante non tralasciare.
Da qui deriva la necessità, per il teologo che tenta di renderne
conto, di circoscrivere tale bene con la maggiore esattezza possibile.
Con il suo solito rigore - che è lo stesso di numerosi altri
contemporanei, dato che si tratta del metodo scolastico che si impone a
tutti -, Tommaso pone dunque tutte le questioni possibili in questo
campo. ;; Ma, seguendo un metodo a lui familiare, procede secondo un
processo ascendente negativo799: per sapere in cosa consiste questa vera
felicità occorre innanzitutto sapere cosa essa non è, e quindi scartare
successivamente tutto ciò che non dà felicità. Non tutto è altrettanto
nuovo in questa presentazione in cui si ritrovano molti luoghi cornimi
della morale antica800, tuttavia il loro raggruppamento sotto questa
forma e soprattutto il movimento e il termine del processo illuminano il
tutto dandogli un’ineguagliabile forza. Dopo il primo tentativo delle
Sentenze, in cui era ancora legato ai vincoli del commento, Tommaso
ne offre due versioni: una più esplicita nella Somma contro i Gentili,
l’altra più concisa nella Somma di teologia. L’ordine della seconda
sembra più rigoroso, ma il senso del procedimento è esattamente lo
stesso: in entrambi i casi, si tratta di un cammino alla ricerca
dell’essenziale801.
799 Si riconosce in esso lo sviluppo stesso della sua ricerca su Dio: di
negazione in negazione, eliminando progressivamente tutto ciò che essa non è, si
giunge ad una conoscenza appropriata della sostanza divina quando questa è
conosciuta come distinta da tutto ciò che non è essa; non è poco conoscere di Dio ciò
che egli non è.
800 Cominciando da ARISTOTELE, Etica a Nicomaco I, 2-3; ma c’è
anche tutto ciò che Tommaso deve alla sua lettura di sant’Agostino, cf. M.-A.
VANNIER, DU bonheur à la béatitude d’après S. Augustin et S. Thomas, «La
Vie spirituelle» 698 (1992) 45-58.
801 SCG III 27-36; stesso procedimento negativo in Compendium
theol. Il, 9 e in I-II, q. 2, aa. 1-7; analisi e bel commento a cura di S. PlNCKAERS, La
voie spirituelle du bonheur selon saint Thomas, in Ordo sapientiae et
397
Prima di tutto, non sono i beni esterni che formano la felicità.
Non sono le ricchezze: naturali o artificiali, esse sono destinate a
servire l’uomo e non il contrario; non possono perciò costituire il suo
fine; assoggettarsi ad esse vuol dire capovolgere l’ordine normale
delle cose, alienarsi. Non sono nemmeno gli onori-, infatti l’onore è il
segno e la testimonianza di un’eccellenza che si trova già nella
persona onorata; esso non la crea, ma la suppone; da questo punto di
vista, è la beatitudine che forma l’eccellenza suprema, ma non l’onore
che le viene attribuito. Né costituiscono la suprema felicità la gloria o
la fama. Il riconoscimento dei nostri meriti da parte degli altri non
aggiunge niente al nostro valore; non così avviene circa la conoscenza
che ne ha Dio, poiché è essa che forma la causa della nostra autentica
beatitudine. Del resto la gloria ricevuta dagli uomini spesso è fallace...
Infine, la felicità non può risiedere nel potere: più che un fine il
potere è in realtà un principio d’azione e inoltre accade che se ne
faccia un cattivo uso; allora diventa infelicità, non felicità.
Se si riassume, si è quindi obbligati a constatare che la
beatitudine non può consistere nei beni esterni fin qui esaminati:
primo, perché essi possono convenire ai cattivi come ai buoni;
secondo, non bastano mai, occorre aggiungere ancora la salute, la
sapienza, ecc.; terzo, possono essere nocivi e allora formano
l’infelicità di colui che li possiede; quarto, dipendono da cause esterne
e spesso dal caso, mentre il fine suppone che l’uomo si diriga verso la
beatitudine mediante principi che gli sono interni dato che egli è
naturalmente orientato verso di essa. Perciò da tutto ciò deriva che la
beatitudine non può risiedere in questo tipo di bene.
Forse allora la beatitudine si trova nei beni interni? Tommaso
riprende lo stesso tipo di dialettica negativa per eliminare
inesorabilmente tutte le false parvenze. La felicità non può consistere
nei beni del corpo; questi servono a mantenere la vita, la salute, ma
non costituiscono un bene in sé. La vita stessa non è creata per essere
conservata, mantenuta (ciò che sarebbe un ideale assai scadente), ma
per essere impiegata nel raggiungimento del vero fine che cerchiamo.
Non può consistere nemmeno nelle voluttà corporali, nel piacere
come si suol

re suggerisce inoltre che si può leggere il commento delle beatitudini anche come
qualcosa che propone un itinerario, cf. Super Mattò. 5 , 1-9, nn. 396-443; si ricorda

amoris, 267-284; l’auto-


398
che dal n. 444 al n. 582, le edizioni correnti trasmettono un testo apocrifo, cf. J.-P.
ToRKELL, Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 378-379.
dire: primo, perché esso è legato alla percezione sensibile e deriva
dai beni che gli sono inferiori, poi perché il piacere fa seguito al
possesso del bene di cui si gode e dunque non costituisce tale bene.
Dopo questa prima eliminazione, bisogna ancora considerare i
beni dell’anima. Nel senso in cui il termine «bene» è stato preso fin
qui, ossia come «la realtà stessa che desideriamo come fine ultimo»,
la risposta non può che essere negativa: «è impossibile che il fine
ultimo dell’uomo sia l’anima stessa o qualcosa dell’anima». Il
motivo è facile da comprendere: l’anima è una realtà in potenza; in
potenza al sapere o alla virtù, essa esige di passare all’atto per avere
la sua perfezione; ora, ciò che è in potenza non può avere carattere di
fine ultimo; perciò è impossibile che l’anima sia il fine ultimo di se
stessa. Nemmeno però è possibile che sia qualche altro bene
dell’anima in quanto la beatitudine deve essere tale da avere un
carattere assolutamente perfetto e appagante per essere capace di
placare il desiderio di natura a cui fa fronte. In questo caso nessun
bene partecipato inerente alla natura dell’anima potrebbe essere
identificato con la beatitudine.
La parola «fine» implica tuttavia un altro senso: invece di
designare il bene perseguito, può indicare l’ottenimento di questo
bene, il suo possesso o il suo uso da parte dell’anima, e, in questo
senso, la beatitudine è proprio qualcosa dell’anima. Tommaso
riassume: «La realtà stessa che è desiderata come fine costituisce
l’oggetto della beatitudine, ed è quella che rende beati. Invece il
conseguimento di essa è la beatitudine stessa. Dunque si deve
concludere che la beatitudine è un qualcosa dell’anima, mentre
l’oggetto che costituisce la beatitudine è qualcosa al di fuori di
essa»802. Al termine di questo percorso resta da compiere un ultimo
passo, da tirare una conclusione:
«[È necessario che la beatitudine sia] un bene perfetto, capace
di placare totalmente il desiderio, altrimenti se lasciasse
ancora qualche cosa da desiderare, non sarebbe l’ultimo fine.
Ora, l’oggetto della volontà, facoltà dell’appetito umano, è il
bene universale, come quello dell’intelletto è il vero nella sua

8021-II, q. 2, a. 7; la stessa conclusione è ripresa nell’ad 3: «La beatitudine


stessa, essendo la perfezione dell’anima, è un bene inerente all’anima. L’oggetto
invece che costituisce la beatitudine, e che rende beati, si trova al di fuori
dell’anima».
399
universalità. E evidente quindi che niente può appagare la
volontà umana, al di fuori del bene preso in tutta la sua
universalità. Esso però non si trova in un bene creato, ma
soltanto in Dio... Perciò Dio soltanto può appagare la volontà
dell’uomo, secondo quanto dice il Salmista (102, 5): E lui che
sazia di beni la tua brama. Dunque in Dio soltanto consiste la
beatitudine dell’uomo» 803.

Non si può non osservare alla fine di questa dialettica negativa


il ritorno del desiderio. E esso che ci vieta di leggere questi testi in
modo troppo distaccato. Il desiderio naturale forma appunto la molla
segreta che sostiene tutto il cammino dell’uomo in cerca di felicità.
Nonostante l’apparenza negativa di tutto ciò che elimina, è proprio
grazie a questo che Tommaso propone qui un itinerario orientato
positivamente. Un itinerario che non contrasta la natura ma al
contrario cerca la sua realizzazione. Con una laconicità degna dei
Padri del deserto, egli spinge il proprio discepolo sulla via maestra
che conduce al suo unico bene.

LA VIA MAESTRA

Tutto l’agire dell’uomo (e non soltanto i suoi atti religiosi) è


dunque sottomesso all’attrazione della beatitudine. Ma tra il suo
desiderio e la beatitudine effettivamente raggiunta, si colloca il lungo
cammino che conduce verso di essa. Con un’ampiezza rara e una
finezza d’analisi che offre al lettore delle prospettive inattese e a
volte delle sorprese, Tommaso studia con cura il meccanismo
dell’atto libero che permette la scelta prò o contro il fine ultimo, le
virtù che l’aiutano nel suo cammino, i vizi che vi si oppongono.
Come già si sa, questo è l’oggetto della Seconda Parte della Somma,
nelle sue due suddivisioni. Il nostro scopo non consiste nel ricordare
tutto ciò: l’abbiamo già visto qua e là secondo le esigenze dèi nostro
studio804.
Per attenerci all’essenziale, passeremo subito alle virtù
teologali, dette così perché Dio ne è la causa formale e l’oggetto
essenziale805. Esse conducono dunque direttamente al fine: mediante

8031-II, q. 2, a. 8.
804 Sarà utile riferirsi a S.T. PINCKAERS, Les sources de la morale
chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Fribourg-Paris 19933.
805 ÏÏ-II, q. 4, a. 7: uirtutes theologicae quarum obiectum est
400
la fede, è «la
vita eterna che comincia in noi» 806; con la speranza, abbiamo l’audacia
di non sperare altro da Dio che Dio stesso 807. Quanto alla carità, «essa
raggiunge Dio come è in se stesso in modo tale che è in lui che essa si
fissa senza aspettarsi nient’altro»808, ed è tramite essa che si giunge alla
perfezione809. Ciascuna di esse è analizzata con la stessa cura, ma qui ci
atterremo alla carità perché quando si tratta del cammino concreto che
conduce alla beatitudine, Tommaso non ne conosce altri aH’infuori di
quello proposto da Gesù: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente... e il prossimo tuo
come te stesso»810. Normalmente vi aggiunge le vigorose affermazioni
di san Paolo: «Se non ho la carità, non sono niente», «La carità è il
vincolo della perfezione»811.
Non ci si può sorprendere allora del fatto che la carità svolge un
ruolo assolutamente unico nella teologia e nella visione spirituale del
Maestro d’Aquino. Questo appare già nella sua definizione della carità
come amicizia812. Certo, egli non è stato l’inventore dell’applicazione
delle categorie affettive alle relazioni tra l’uomo e Dio, ma sembra
proprio essere stato il primo a trasporre in questo registro la nozione
d’amicizia, della koinònia così come la si trovava nell’Etica a
Nicomaco, aprendo così la via a feconde prospettive 813. Tuttavia, ciò
che non è meno importante e che qui ci interessa direttamente è il modo
in cui egli ne parla come di una virtù dell’uomo in cammino.

ultimus finis-, ci si ricordi che abbiamo parlato più diffusamente della fede e della
speranza nel capitolo precedente.
806 II-II, q. 4, a. 1: «fides est habitus mentis qua inchoatur uita eterna
in nobis»\ cf. De ueritate, q. 14, a. 2, e qui sopra, cap. I: «Una scienza pia».
807 Cf. II-II, q. 17, a. 2.
808 II-II, q. 23, a. 6.
809 II-II, q. 184, a. 1: «Si dice che una cosa è perfetta allorquando
raggiunge il suo proprio fine, che è la sua ultima perfezione. Ora, è la carità che ci
unisce a Dio, fine ultimo dello spirito umano, giacché “colui che dimora nella
carità, dimora in Dio e Dio in lui”. La perfezione della vita cristiana consiste
specialmente nella carità».
810 Mt 22, 34-40, con il commento di Tommaso.
811 1 Cor 13, 2 e Col3, 14, che bisogna leggere nel contesto del
Deperfectione spiritualis vitae 2, Leon., t. 41, p. B 69, che ben presto ritroveremo.
812 II-II, q. 23, a. 1; cf. qui sopra, cap. XIII, pp. 40ss.
813 Cf. L.-B. GILLON, art. Charité, Dominicains, DS 2 (1953 ) 580-584. Se qui ci
si serve di Aristotele, tuttavia non si sottolinea abbastanza che l’autorità esplicitamente
invocata da Tommaso al principio del suo studio non è altro che Gv 15, 14-15: «Non vi
chiamo più servi..., vi chiamo amici», cf. II-II, q. 23, a. 6 se.; In loannem, ibid., lect. 3,
nn. 2010ss.
401
Beatitudine allo stato iniziale, la carità a causa della sua stessa natura
non può restare in riposo fintantoché non giunge alla sua meta, ed è per
questo che normalmente è in perenne crescita:
«La carità dei viatori può aumentare. Infatti noi riamo considerati
"viatori” (uiatores) per il fatto che tendiamo verso Dio, fine ultimo
della nostra beatitudine. Ora, in questa nostra via tanto più
avanziamo, quanto più ci avviciniamo a Dio, al quale ci si avvicina
non con i passi del corpo, ma con gli affetti dell’anima. Ma è la
carità stessa a compiere questo avvicinamento, perché con essa
Vanima si unisce a Dio. Perciò la carità dei viatori ha per sua
natura di poter aumentare: poiché se non potesse aumentare,
questo cammino progressivo che caratterizza la nostra vita non
esisterebbe più. Ecco perché l’Apostolo dà alla carità il nome di
via, là dove dice: “vi mostrerò una via ancora più eccellente”»814.
Presentata qui come una possibilità legata alla natura stessa
dell’uomo, la crescita della carità appare anche come un’esigenza legata
al soggetto che la esercita. Questo testo riflette una profonda coscienza
del carattere progressivo della natura umana; impegnato nel tempo,
l’uomo ha una storia fin nel suo organismo virtuoso, e il seguito ne rende
conto grazie a un paragone ripreso sovente: La crescita spirituale della
carità è simile in un certo modo alla crescita corporea. L’analogia non
ha niente di meccanico e non bisogna intendere questa crescita come un
fatto puramente quantitativo; come però vi sono nella natura dei tempi di
latenza e altri di fecondità o di sviluppo,
«così la carità non cresce in maniera attuale con qualsiasi atto, ma
qualsiasi atto di carità predispone all’aumento di essa, in quanto
l’uomo da un atto di carità viene reso più pronto ad agire
nuovamente in tal senso. E col crescere di questa attitudine,
prorompe finalmente in un atto più fervente di carità, col quale si
sforza di assicurarne lo sviluppo; e allora la carità cresce in
maniera attuale» 815.
Virtù di un essere in movimento, tendente verso la propria
perfezione, la carità non cresce matematicamente. La sua crescita
consiste molto di più in un radicamento della virtù nel soggetto che la
possiede, in una dolcezza, una prontezza e un fervore crescenti
dell’amore di Dio

814n-n, q. 24, a. 4.
815II-n, q. 24, a. 6.
402
e del prossimo, in «una maggiore somiglianza allo Spirito Santo di cui essa
è una similitudine partecipata» 816. Ma ci si sarà forse insospettiti
dell’affermazione del Maestro secondo la quale la carità non aumenta con
ciascuno dei suoi atti817. Tuttavia essa è comprensibile facilmente se ci si
ricorda della sua dottrina sulla crescita degli abiti 818. Come abbiamo già
detto, l’abito è una qualificazione delle nostre potenze operative, una
specie di abilità acquisita che rende capaci di agire con agilità e rapidità
nel campo che esso qualifica 819. Nella vita spirituale, se le virtù sono degh
abiti non acquisiti ma infusi, ossia dati da Dio, il loro stesso esercizio resta
a nostra disposizione. Io non ho la carità se non perché Dio me l’ha donata,
però dipende dalla mia libertà fame un buon uso o meno, e addirittura
eventualmente perderla. Ora, nel campo naturale, se l’abito si perfeziona
normalmente con l’uso che se ne fa, succede anche che esso non sia
utilizzato al massimo della sua capacità e che resti poco impiegato.
L’abilità degenera allora in abitudine ripetitiva e, invece dell’artista in
potenza qual era, l’artigiano resta un buon dilettante. Soltanto un lavoro
creativo in cerca di perfezione e di nuovi modi di espressione potrebbe
innalzarlo a un livello superiore.
Analogicamente - dato che ciò resta nelle mani di Dio —, succede un
po’ la stessa cosa con la carità. Io posso, senza per questo perderla,
compiere soltanto degli atti tiepidi, lasciandola così sottoccupata. Non si
tratta certamente di peccati, giacché l’atto di una virtù non può essere
peccaminoso ma, secondo il linguaggio usuale, si tratta almeno di
imperfezioni820. Io posso anche compiere degli atti ferventi e sforzarmi di
essere attento alle esigenze dell’amore di Dio e del prossimo; in questo
caso però non faccio niente di straordinario - nel senso del Discorso della
Montagna —: non faccio altro che conservarla «in buono stato di
funzionamento», dato che è il suo stato normale. Occorre di più per farla
816II-II, q. 24, a. 5 ad 3.
817 In realtà, i commenti di questo articolo sono stati numerosi. Colui che
ne avesse la possibilità, potrà leggere le illuminanti spiegazioni di M.-M. LABOURDET- TE,
Cours de théologie morale. La Charité (II-II, 23-46), Toulouse 1959-1960, pp. 63-89,
commento alla q. 24. Non potendo fare ciò, vedere l’art. Accroissement des vertus, DS 1
(1937) 137-166, diviso in due parti che presentano successivamente la posizione di san
Tommaso (TH. DEMAN, OP) e quella di Suàrez (F. DE LANVEK- SIN, SI).
818 Cf. I-n, q. 52.
819 Cf. qui sopra, cap. XI, pp. 300-302.
820 Cf. E. HUGUENY, art. Imperfection, DTC 7 (1923) 1286-1298; A. SoLI-
GNAC - B. ZOMPARELLI, art. Imperfection et imperfection morale, DS 7 (1971) 1620- 1630; si
noterà tuttavia che, partendo da un altro contesto, questi autori qualificano come peccati
veniali gli atti «meno ferventi»; nella prospettiva in cui ci si situa qui, ciò sarebbe
certamente eccessivo.
403
crescere: bisogna compiere degli atti più ferventi. Allora interviene Dio
che è l’unico a poter dare alla carità quella crescita di cui si parla nel
nostro articolo. A partire da questo momento tutto si rischiara e
contemporaneamente si comprende il formidabile appello alla santità che
nasconde la banale apparenza della sua formulazione.
Che sia proprio questo ciò a cui pensa san Tommaso, lo si potrà
constatare facilmente proseguendo la lettura. Un po’ come se mettesse in
guardia contro la tentazione di credersi subito arrivati al termine del
cammino, egli aggiunge una considerazione decisiva:
«Non si può assegnare un limite all’aumento della carità nello stato
di viatori. Infatti la carità non ha un limite di aumento nella natura
della propria specie, essendo essa una partecipazione dell’infinita
carità, che è lo Spirito Santo. Né può avere limiti se la si considera
nella sua causa efficiente, anch’essa infinita, poiché si tratta di Dio
stesso. Infine, non si può fissare da parte del soggetto un limite a
tale crescita, perché col crescere della carità cresce sempre più
l’attitudine a un ulteriore aumento. Perciò rimane che all’aumento
della carità non si può fissare nessun limite nella vita presente» 821.
Qui, ancora, l’aspetto formale dello sviluppo permette di capire
facilmente l’ampiezza del campo aperto al progresso della vita spirituale.
Eppure, come se temesse di non aver insistito abbastanza, Tommaso
riprende la questione sotto un’altra forma: è possibile avere in questa vita
una carità perfetta?
«La perfezione della carità si può intendere in due modi: primo,
rispetto all’oggetto da amare; secondo, in rapporto al soggetto che
ama. Rispetto all’oggetto la carità è perfetta allorché si ama quanto
esso è amabile. Ora, Dio è amabile quanto è buono. Ma la sua bontà
è infinita. Dunque è infinitamente amabile. Però nessuna creatura
può amarlo infinitamente giacché ogni facoltà creata è finita. E
quindi sotto questo aspetto la carità di nessuna creatura può essere
perfetta; ma lo è solo la carità con la quale Dio ama se stesso.
Si dice invece che la carità è perfetta in rapporto al soggetto che
ama, quando uno ama con tutte le sue possibilità. E questo può
avvenire in tre maniere. Primo, in maniera che tutto il cuore di un
uomo si porti attualmente e sempre verso Dio. E questa è la
perfezione della carità nella patria celeste: perfezione che non si può
raggiungere in questo mondo, in cui è impossibile, per l’instabilità
della vita umana, che uno pensi a Dio, e che a lui si volga con
l’amore sempre in maniera attuale. Secondo, in maniera che uno
821II-II, q. 24, a. 7.
404
metta tutto il suo impegno nell’attendere a Dio e alle cose divine,
trascurando tutto il resto, ad eccezione di quanto richiede la
necessità della vita. E questa è la perfezione della carità che è
possibile nella vita presente: però non è comune a tutti quelli che
hanno la carità. Terzo, in maniera che uno “abitualmente’’ tenga
tutto il suo cuore in Dio, cioè in modo da non pensare e da non
volere niente che sia contrario all’amore di Dio. E questa perfezione
è comune a tutti coloro che hanno la carità» 822.

SENZA LA CARITÀ SONO UN NIENTE

Si è riconosciuto nella seconda categoria citata sopra («liberarsi per


Dio trascurando tutto il resto») una descrizione sommaria dello stato
religioso sul quale non ci dobbiamo soffermare. Tuttavia si può notare che
la perfezione della carità non si limita a questo. La proposta di non volere e
di non pensare niente che sia contrario all’amore di Dio resta valida per
tutti. Il contrario sarebbe stupefacente, ma non bisogna sminuire in niente
questo programma che non è meno esigente di quello del Discorso della
Montagna: «Il grado più basso dell’amore divino consiste nel non amare
niente più di Dio o contro Dio o quanto Dio. Chi non raggiunge questo
grado di perfezione non osserva affatto il precetto» 823. Ne va dell’essenza
della perfezione, cioè della santità 824. La crescita della carità è al centro
della vita cristiana. Essa non si può fermare prima di aver raggiunto la sua
meta, poiché il suo termine è Dio, e non si può mai amare troppo Dio:
«quindi deve sempre ingrandirsi (semper habet quo crescat)» 825. Il non
voler progredire, le risulterebbe fatale.
Tommaso in nessun luogo si è espresso meglio su questo tema che
nella sua piccola opera La perfezione della vita spirituale. Questa è il
frutto della sua controversia con i preti secolari ed è noto che l’autore non
ha peli sulla lingua; né tantomeno pesa le sue parole, dando così una forza
poco comune alla sua definizione dell’essenza della vita spirituale:
«[Come prima, al punto di partenza si trova un paragone tra vita
corporea e vita spirituale. La perfezione di un animale suppone che
esso abbia raggiunto il suo pieno sviluppo e che sia capace di
822II-II, q. 24, a. 8; con qualche differenza, si può vedere anche II-II, q. 184, a. 2, e
De perfezione spiritualis uitae 6, citato qui di seguito, p. 30.
823 II-II, q. 184, a. 3 ad 2.
824 La cosa è stata ben vista da A. HUERGA, La perfección del homo spiritualis,
ST 42 (1991)242-249.
825 II-II, q. 24, a. 8 ad 3.
405
compiere le operazioni che gli spettano. Il resto sarà piuttosto
secondario.] Così nella vita spirituale l’uomo non è assolutamente
perfetto, se non mediante ciò che costituisce propriamente la vita
spirituale... Ora la vita spirituale consiste essenzialmente nella carità,
senza la quale l’uomo si considera come un nulla nell’ordine
spirituale (quam qui non habet nihil esse spiritualiter reputatur).
Infatti san Paolo dice: E quando avessi la profezia e intendessi tutti i
misteri e tutto lo scibile: e quando avessi tutta la fede in modo da
trasportare le montagne, e non avessi la carità sono un niente fi Cor
13, 2). E san Giovanni asserisce che...: Chi non ama è nella morte fi
Gv 3, 13). Dunque assolutamente parlando è perfetto nella vita
spirituale chi è perfetto nella carità... Ciò si può evidentemente
dimostrare con le parole della Sacra Scrittura. San Paolo infatti,
scrivendo ai Colossesi, attribuisce la perfezione principalmente alla
carità...: E sopra tutte queste cose conservate la carità, la quale è
vincolo di perfezione fCol 3, 14). [Si può parlare di perfezione a
proposito di tante altre cose, della scienza, per esempio, ma]
qualunque sia la perfezione della scienza posseduta da qualcuno,
senza la carità egli sarà reputato un niente (sine caritate nihil esse
iudicetur)»826.
Un testo della stessa epoca (Pasqua 1270) si esprime esattamente
negli stessi termini, anche se alcune nuove precisazioni mostrano appunto
ciò che è in questione:
«È a partire dalla carità che bisogna considerare la perfezione della
vita spirituale; chi non la possiede è un niente spiritualmente [segue
il rinvio obbligato a 1 Cor 13, 2 e Col 3, 14]. Ora, l’amore ha una
forza trasformante mediante la quale l’amante è in qualche modo
trasferito nell’amato. Ciò è quanto spiega Dionigi (De divinis
nominibus 4): "L’amore divino provoca un’uscita da sé (extasim);
non abbandona l’amante a se stesso, ma (lo offre) ali amato".
D’altro canto poiché totalità e perfezione s’identificano (cf.
Aristotele, Fisica III 207 a 13-14), avrà la carità perfetta colui che,
per mezzo dell’amore, sarà interamente trasformato in Dio,
sacrificando così tutte le cose e se stesso per Dio... Chi ha l’anima
così interiormente innamorata, al punto da disprezzare a causa di
Dio se stesso e tutto ciò che possiede, secondo quanto afferma
l’Apostolo (Fil 3, 7: “Tutti questi vantaggi... li considero come
spazzatura, al fine di guadagnare Cristo"), costui è perfetto, sia che
si tratti di un religioso oppure di un secolare, chierico o laico, o
perfino sposato. Abramo infatti era sposato e ricco, e tuttavia è a lui
che il Signore si rivolge (Gn 17, 7): “Cammina dinanzi a me e sii
perfetto’’»^2.
826 Deperfectione spiritualis uitae 2, Leon., t. 41, p. B 69.
406
Come si vede, nonostante il contesto della lotta a favore dello stato
religioso - dello stato di perfezione, come si diceva all’epoca di Tommaso
-, non è tuttavia di esso che si tratta. Ciò che viene descritto qui, è l’ideale
cristiano puro e semplice. Esso non consiste nei voti - nemmeno in quello
di povertà, preciserà Tommaso rivolgendosi ai francescani -, ma
nell’osservanza profonda e fervente, senza compromessi, del duplice
comandamento dell’amore. Qui come altrove, la Sacra Scrittura resta la
fonte principale ed è essa che rende conto della giustezza dell’intuizione
come pure del vigore dell’espressione.
Bisognava cogliere le cose nella freschezza del loro sorgere per
capire a che punto l’ispirazione è qui puramente evangelica, ma è bene
anche percepire come l’analisi teologica non resti al di qua di questa mira.
Oltre all’insistenza sul fatto che la carità realizza l’unione immediata con
Dio, Tommaso esprime il ruolo assolutamente centrale che essa svolge
nella vita cristiana ripetendo che la carità è <da madre di tutte le virtù» 827
828
. Contrariamente a quanto suggeriva il proverbio opposto: «L’ozio è il
padre di tutti i vizi», qui non si tratta affatto della sapienza raccolta da
generazioni di moralisti, ma proprio di una posizione teologica specifica:
la carità è la «forma» delle virtù. Se, nell’ordine logico della loro
comparsa, fede e speranza precedono la carità (sebbene in realtà esse siano
date simultaneamente da Dio), «nell’ordine della perfezione, la carità
precede la fede e la speranza, dato che la fede così come la speranza, è
formata dalla carità e acquisisce così la sua perfezione di virtù. La carità è
quindi la madre di tutte le virtù e la loro radice, in quanto è la forma di
tutte»829.
Nell’ordine morale infatti, è il fine che svolge il ruolo decisivo; ora
la carità è precisamente la virtù che unisce direttamente al fine ultimo, e
per questo le spetta di ordinare tutte le virtù al fine ultimo 830. Per esprimere
ciò in termini meno tecnici, questo non vuol dire soltanto che la carità è il
vertice dell’organismo virtuoso, come una sovrana che governasse senza
regnare. Più radicalmente, questo vuol dire che senza la carità non si ha
un’autentica virtù. Questa non è una tesi a priori creata dai bisogni della
causa; è evidente invece come ciò traduca direttamente l’espressione:
827 Quodlibet III, q. 6, a. 3 [17]; si ritrova l’esempio di Abramo nel De perfec- tione
spiritualis uitae 8, Leon., t. 41, p. B 73.
828II-II, q. 186, a. 7 a d ì .
8291-H, q. 62, a. 4; cf. II-II, q. 23, a. 8 ad 3: «La carità è detta il fine di tutte le virtù
perché ordina tutte le altre virtù al suo proprio line. E poiché la madre è quella che
concepisce a partire da un altro, la carità è detta madre delle virtù, perché in virtù
dell’appetito del fine ultimo essa genera gli atti delle altre virtù governandole».
830 II-II, q. 23, a. 8.
407
«senza la carità sono un niente» di san Paolo. Inoltre bisogna anche sapere
che ciò è legato alla posizione tomasia- na centrale della connessione delle
virtù. I moralisti dell’antichità avevano già scoperto da molto tempo il
ruolo architettonico della prudenza nell’organismo delle virtù morali,
sicché senza di essa non si ha una vera virtù. Riprendendo per conto suo
questa posizione, Tommaso l’aveva portata al suo compimento cristiano
sottolineando che non si ha una vera virtù se non nella misura in cui il
movimento virtuoso è ripreso e perfezionato dalla grazia. A ciascuna virtù
naturale corrisponde perciò una virtù infusa che la conduce al suo
compimento; tuttavia come è evidente che non c’è grazia senza carità, così
è chiaro che perdere la carità significa perdere anche tutte le altre virtù 831.
Senza addentrarci nei dettagli di questa posizione, per la quale non
possiamo che rinviare a uno studio più completo832, è necessario tuttavia
precisare che ciò non significa che è impossibile porre un atto buono senza
la carità; questo rigorismo è completamente estraneo al Maestro d’Aquino,
ma significa certamente che tale atto non sarà veramente virtuoso (cioè
non condurrà al fine ultimo) se non è animato dalla carità, consciamente o
inconsciamente. Di primo acchito ostica, e in quanto tale non accettata da
tutti i teologi, questa tesi traduce semplicemente in tutta la sua esigenza e
la sua grandezza evangelica la sovranità del comandamento dell’amore.

I GRADI DELLA CARITÀ

Se si segue Tommaso nella sua analisi della carità, si scopre subito


che le sue affermazioni più importanti confluiscono sempre in applicazioni
concrete che invitano il suo discepolo alla riflessione e
all’approfondimento. Ciò è quanto accade col tema assolutamente classico
dei gradi della carità in cui si ritrova l’analogia già incontrata dello
sviluppo naturale:
«L’aumento spirituale della carità da un certo punto di vista si può
paragonare alla crescita materiale di un uomo. Ora, sebbene questa
si possa sezionare in molte parti, ha tuttavia determinate sezioni in
base ai deter-: minati atti e compiti che l’uomo raggiunge nel suo
sviluppo: si ha, cioè, l’età infantile, prima che raggiunga l’uso della
ragione; si distingue poi un secondo stato quando comincia a
parlare e a usare la ragione; e finalmente si ha un terzo stato, che è
831 Cf. I-II, q. 65, soprattutto l’a. 3; si può rileggere quanto abbiamo detto
nel cap. XL «La virtù del rischio» e «Prudenza e carità».
832 Per esempio M.-M. LABOURDETTE, Cours de théologie morale (cit. sopra,
nota 42), 49-63.
408
quello della pubertà, quando incomincia a poter generare; e di qui
fino a che raggiunge la perfezione.
Allo stesso modo si distinguono pure diversi gradi nella carità, in
base ai vari compiti che l’uomo è portato ad affrontare con
l’aumento di essa. Infatti da principio l’uomo ha il compito
principale di allontanarsi dal peccato e di resistere alle sue
concupiscenze, che muovono in senso contrario alla carità. E questo
appartiene ai debuttanti, nei quali la carità va nutrita e sostenuta
perché non perisca. - Segue poi, come secondo compito, lo sforzo di
procedere o avanzare nel bene. E questo compito appartiene ai
profìcienti, che tendono principalmente a irrobustire e ad accrescere
in se stessi la carità. - Il terzo finalmente consiste soprattutto nel
tendere all’adesione e alla fruizione di Dio. E questo appartiene ai
perfetti, i quali “desiderano andarsene ed essere con Cristo” (Til 1,
23). Del resto anche nel moto fisico vediamo che la prima cosa è
l’abbandono del termine di partenza; la seconda è l’avvicinamento
al termine d’arrivo; e la terza è la quiete nel termine raggiunto» 833.
Tommaso sa bene che nella vita le cose non sempre sono così
semplici come in questo schema tripartito. Perciò ammette senza difficoltà
che si possono considerare molti altri gradi; ma a ben vedere, egli dice, si
ricade sempre su uno schema di questo genere. È necessario pertanto ben
intendere il senso di queste distinzioni; non si tratta di separazioni. I
debuttanti non sono soltanto preoccupati di resistere al peccato: anch’essi
progrediscono, e tanto più quanto più si sentono sicuri. Pari- menti, non
bisogna credere che i perfetti non debbano più progredire, sebbene questo
non costituisca la loro principale preoccupazione; ciò che li sostiene è la
costante volontà di unirsi a Dio il più intimamente possibile. Al contrario,
pur avendo questa preoccupazione d’unione con Dio, le prime due
categorie sono alle prese con altre occupazioni più immediate 834.
A dire il vero, questa tipologia della vita spirituale non è
un’originalità tomasiana 835. Dato che il tema dei gradi della carità era già
proposto dal Maestro delle Sentenze con un testo di sant’Agostino, tutti i
833II-II, q. 24, a. 9.
834 Ibid., risposte agli argomenti.
835 Per i suoi antecedenti patristici, si può vedere P. POURRAT, art.
Commençants, DS 2 (1953) 1143-1156; A.SOLIGNAC, Voies (purgative, illuminative, unitive),
DS 16 (1994) 1200-1215; Pourrai osserva che la dottrina dei tre gradi della carità è a volte
accompagnata da quella delle tre vie (purgativa, illuminativa, unitiva), come in san
Bonaventura che sembra essere il primo ad accostarle (De triplici via, Opera omnia, t. 8, 1-
17; cf. J.-G. BOUGEROL, Introduction à saint Bonaventure, Paris 1988, 242-248);
Tommaso, che conosce bene il vocabolario delle tre vie in quanto le trovava nella Gerarchia
celeste VII (cf. per es. Sent. Il, d. 9, q. un., a. 2) e che conosceva anche l’opera di
Bonaventura (che risale al 1259-60), non fa quest’accostamento.
409
commentatori dovevano parlarne e Tommaso non fece eccezione 836 837. In
seguito, questo modo di considerare le cose è diventato una vera banalità
nei libri di spiritualità é2. Tuttavia non è meno certo che Tommaso riprende
apertamente questa dottrina e la fa sua. Senza alcuna costrizione scolastica,
egli l’aveva già utilizzata in un testo della sua giovinezza e ne aveva fatto
l’oggetto di una bella meditazione spirituale. Con un istinto teologico
molto deciso, colui che all’epoca non era che l’assistente di sant’Alberto,
collocava già l’intero progresso della vita spirituale sotto il segno dello
Spirito Santo:
«Lo Spirito è dato ai debuttanti all’origine della giustificazione...,
nel bagno del rinnovamento..., nel privilegio dell’adozione... (Esso
viene dato anche) ai proficicnti per plasmare la loro intelligenza...,
per fortificare la loro volontà..., per sostenere il loro agire... (È dato
inoltre) ai perfetti: come privilegio della libertà..., come vincolo
dell’unità..., come pegno dell’eredità... » 838.
Un po’ più tardi, quando dovrà difendere l’ideale religioso
domenicano dagli attacchi dei maestri secolari dell’Università di Parigi,
egli s’impegna ancora più profondamente e lascia trasparire
contemporaneamente la passione che lo anima per il modo di vita che ha
scelto e l’alta stima che ha per la vita cristiana. Invece di parlare dei gradi
della carità secondo una via ascendente, li presenterà al contrario secondo
una via discendente. La carità non trova la sua realizzazione perfetta se
non in Dio stesso: egli soltanto può amare se stesso così come merita di
essere amato. H secondo grado si avvera nei beati già giunti in patria, in
quanto aderiscono a Dio con tutto il loro essere. Né l’una né l’altra di
queste due prime realizzazioni ci è possibile; ma vi è anche la carità degli
uomini ancora in cammino:
«Noi amiamo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la
mente e con tutte le forze, se niente manca alla divina carità
mediante la quale riferiamo tutto a Dio attualmente o abitualmente
(actu uel habitu). È questa perfezione che ci è comandata.
836 Sent. Ili, d. 29, a. 8 qla. 1; cf. S. AUGUSTIN, Commentaire de la
première épître de saint ]ean, trattato V 4, SC 75, p. 255: la carità non raggiunge la sua
perfezione fin dalla nascita, «essa nasce per diventare perfetta: una volta nata, si nutre;
nutrita, si fortifica; fortificata, diventa perfetta».
837 Uno dei migliori - sebbene risenta molto dell’influsso dell’epoca - resta
quello di R. GARRIGOU-LAGRANGE, Traité de théologie ascétique et mystique. Les trois âges
de la vie intérieure prélude de celle du ciel, 3 tt., Paris 1938, che è totalmente fondato su
questa struttura ternaria.
838 Super lsaiam 44, 3: Leon., t. 28, p. 188; cf. J.-P. TORRELL - D. BOUTHIL- LIER,
Quand saint Thomas méditait sur le prophète Isai'e, RT 90 (1990), 35-37.
410
In primo luogo l’uomo deve riferire tutto a Dio come al proprio fine,
secondo le parole dell’Apostolo: Sia che mangiate sia che beviate,
sia che facciate qualunque altra cosa, fate tutto a gloria di Dio fi
Cor 10, 31). E questo si fa quando si consacra la vita al servizio di
Dio e per conseguenza tutto ciò che si fa è virtualmente rivolto a
DioK o escludendo cose tali che allontanino da Dio, come sono i
peccati. E così che l’uomo ama Dio con tutto il cuore.
In secondo luogo l’uomo deve sottomettere a Dio il proprio intelletto
credendo le cose divinamente rivelate secondo la parola
dell’Apostolo: facendo schiava ogni intelligenza all’obbedienza di
Cristo (2 Cor 10, 5). E così si ama Dio con tutta la mente.
In terzo luogo l’uomo deve amare in Dio tutto ciò che ama e deve
ordinare ogni suo affetto all’amore di Dio. Quindi dice l’Apostolo:
Se siamo fuori di noi, (lo siamo) per Iddio, se siamo di mente sana,
(lo sia-
mo) per voi; poiché la carità di Cristo ci spinge (2 Cor 5, 13-14). E
così si ama Dìo con tutta l’anima.
In quarto luogo bisogna che tutte le nostre cose esteriori, parole e
azioni siano fondate nella carità, secondo la parola dell’Apostolo:
Tutte le cose vostre siano fatte nella carità (1 Cor 16, 14). E così
si ama Dio con tutte le forze.
Questo è il terzo modo del perfetto amore di Dio, a cui tutti siamo
obbligati per necessità del precetto [nuovo]»839.
Leggendo questo passaggio, si penserebbe spontaneamente che il
suo autore descriva ciò che si attende dai religiosi. In realtà Tommaso
sa molto bene che <de persone che abbracciano lo stato di perfezione
non professano di essere perfette ma appunto di tendere alla
perfezione» 840. Perciò egli parlerà dello stato di perfezione al tempo
opportuno, ma qui si rivolge a tutti i cristiani in nome stesso del
Vangelo. Diversa secondo gli stati di vita, l’esigenza spirituale è uguale
per gli uni e per gli altri841. L’apice del suo discorso è che la perfezione
della carità non è qualcosa di facoltativo - di consiglio, come si diceva
—, ma è una prescrizione imperativa - di precetto:

839 De perfectione uitae spiritualis 6, Leon., t. 41, p. B 71; cf. Seni. Ili,
d. 27, q. 3, a. 4; II-II, q. 44, a. 6.
840IM, q. 184, a. 5 ad 2; c£, a. 4: «Niente impedisce che ci siano dei perfetti i
quali non sono in stato di perfezione, e che nello stato di perfezione ci siano alcuni che
non sono perfetti»; la questione 184 è interamente consacrata a questo tema.
841 Tommaso riprende questa dottrina nella II-II, q. 184, a. 3 e in numerosi altri
luoghi.
61
II-II, q. 184, a. 3; cf. l’ad 2: Perfectio iìuinae dilectionis uniuersaliter
cadit sub praecepto.
411
«Di per sé ed essenzialmente, la perfezione della vita cristiana
consiste nella carità: in maniera principale nell’amore di Dio, e
in maniera secondaria nell’amore del prossimo... Ora, l’amore di
Dio e del prossimo non sono comandati secondo una certa
misura, così da lasciare il di più come consiglio; e ciò risulta
dalla stessa formulazione del precetto che mira alla perfezione:
‘Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore”. .. oppure “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”’. Ciascuno ama se stesso in grado
massimo. E questo perché “il fine del precetto è la carità” (1 Tm
1, 5). E la misura non si applica al fine, bensì ai mezzi. Il medico,
per esempio, non misura la guarigione da raggiungere, ma la
medicina e la dieta da usarsi per la guarigione. E chiaro quindi
che la perfezione consiste essenzialmente nei precetti»61.

412
L’INNO ALLA CARITÀ

413
Usato abitualmente per indicare il capitolo tredicesimo della
prima lettera ai Corinzi, a noi sembra che questo titolo si imponga qui
come introduzione alla lunga citazione che seguirà. Leggendola,
ancora una volta si constaterà il modo in cui il predicatore prolunga il
teologo, senza rinnegare niente delle sue intenzioni, ma conferendo
loro un calore di cui a volte gli scritti eruditi sono sprovvisti:
«E chiaro che non tutti possono dedicarsi agli studi [lunghi e
severi]; per questo Cristo ci ha dato una legge che per la sua
brevità è accessibile a tutti e nessuno ha il diritto d’ignorare:
tale legge è la legge dell’amore divino, questa “parola breve
che il Signore proclama all’universo’’842.
Una simile legge, ammettiamolo, deve essere la regola di tutti
gli atti umani. L’opera d’arte obbedisce a dei canoni.
Similmente l’atto umano, giusto e virtuoso quando segue le
norme della carità, perde la sua rettitudine e la sua perfezione
se si discosta dalle suddette norme. Ecco allora il principio di
ogni bene: la legge dell’amore. Inoltre essa comporta molti altri
vantaggi.
E innanzitutto fonte di vita spirituale. È naturale ed evidente che
il cuore amante è abitato da ciò che ama. Chi ama Dio, lo
possiede in sé. “Chi dimora nella carità dimora in Dio, e Dio in
lui” (Gv 4, 16). E la natura dell’amore è tale da assimilare
colui che ama all'oggetto di tale amore. Sicché se amiamo
realtà vili e caduche finiamo col divenire noi stessi meschini e
insicuri, amando Dio invece siamo divinizzati poiché: “Chi
s’unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui” (1 Cor 6,
17). Sant’Agostino afferma: “Dio è la vita dell’anima, come
questa lo è del corpo che anima”... Senza la carità l’anima non
compie più nulla: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,
14). Voi potreste possedere anche tutti i doni dello Spirito
Santo, ma senza la carità sareste morti. Dono delle lingue o
della scienza, della fede o della profezia; tutti i doni che vorrete
non faranno affatto di voi dei viventi se non amate. Un cadavere
rimane tale anche se lo si riveste d’oro e di pietre preziose.
La carità rende possibile l’osservanza dei precetti divini:
“L’amore di Dio non è mai ozioso, dice san Gregorio; se è vero
amore, esso agisce e compie grandi cose. Se non agisce, allora
non è la carità”. Il segno manifesto della carità è la
sollecitudine che poniamo nel compiere i precetti divini. Chi
ama, vediamo che compie cose grandi e difficili per la persona
amata. Il nostro Signore ci dice: “Se qualcuno mi ama, osserva
la mia parola” (Gv 14, 23). E si badi: osservare il
842 Rm 9, 28 secondo la Volgata; cf. J.-P. ToRSELL, La pratique, p. 235.
414
comandamento
dell’amore, significa compiere tutta la legge. Se si tratta dei
precetti positivi, la carità dà al loro compimento quella
pienezza che non è altro se non l’amore con il quale si
obbedisce loro. Se si tratta di proibizioni, è ancora la carità
che obbedisce poiché "essa non fa niente di sconveniente’’ (1
Cor 13, 4).
La carità è anche una protezione di fronte alle avversità. Chi la
possiede non resterà danneggiato. “Ogni cosa concorre, dice
san Paolo, al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 29). Le
cose difficili e avverse appaiono quasi soavi a colui che ama.
Questa è l’esperienza dell’amore.
La carità infine conduce alla felicità. La beatitudine eterna è
promessa soltanto agli amici di Dio. Senza la carità tutto il
resto rimane insufficiente. ..E se tra i beati vi è qualche
differenza, essa non dipende che dal loro grado d’amore e non
dalle altre virtù. Molti condussero una vita di maggior
astinenza rispetto agli apostoli, eppure questi sorpassano
chiunque altro nella beatitudine a causa dell’ardore della loro
carità...
La carità ci ottiene la remissione dei peccati. Lo sappiamo tutti
che se uno ha offeso una persona ma poi comincia a volerle
bene di cuore, certamente sarà perdonato... E l'esempio più
lampante lo vediamo nel caso della Maddalena. Di lei disse il
Signore: "1 suoi tanti peccati sono stati rimessi”. E perché?
"Perché ha molto amato” (Le 7, 47). Ma forse si dirà: se la
carità è sufficiente, a che serve la penitenza? Sappiate che
nessuno ama davvero, se davvero non si pente...
La carità poi illumina il nostro cuore. “Siamo avvolti dalle
tenebre” dice Giobbe (37, 19), assai spesso non sapendo che
fare, che desiderare: la carità ci insegna quanto è veramente
necessario in ordine alla salvezza. “L’unzione dello Spirito
v’insegnerà tutto” (1 Gv 2, 27). Questo perché là dovè la carità
c’è anche lo Spirito Santo che conosce tutto e ci conduce sulla
retta via... La carità infonde in noi la gioia perfetta... e la pace
perfetta...
È essa infine che forma la grandezza dell’uomo... La carità
rende l’uomo, da servo che era, amico. Così non solo siamo
liberi, ma diventiamo figli, portando questo nome ed essendolo
in realtà. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo
figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio,
coeredi di Cristo” (Rm 8, 17)...
Tutti i doni traggono origine dal Padre della luce, ma nessuno
supera la carità. Si possono avere gli altri doni senza la grazia
e senza lo Spinto Santo, ma con la carità si ha necessariamente
415
lo Spirito Santo: “L’amore di Dio è stato diffuso nei nostri
cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5)» 843.
Un testo del genere incita al commento, ma è preferibile
lasciarlo alla meditazione silenziosa del lettore. L’abisso dell’amore
di Dio non è per l’intelligenza umana meno imperscrutabile del suo
mistero. Senza pretendere di aggiungere ciò che non lo può essere,
sarà forse lecito osservare come queste omelie sul comandamento
dell’amore - giacché si tratta proprio di una predicazione - lascino
risplendere alla luce del sole l’evangelismo del loro autore.
Giustificato a vario titolo, questo termine non ricorre qui per caso.
Abbiamo parlato altrove del «doppio evangelismo» che ispira la sua
concezione della vita religiosa, ma forse non abbiamo sottolineato
abbastanza fino a che punto egli è qui solidale con la sua famiglia
religiosa e col suo fondatore fra Domenico, uin euangelicus844. Non è
possibile dimenticarlo, domenicani o francescani, f frati mendicanti
hanno profondamente modificato l’approccio alla vita: religiosa nel
XIII secolo, e fra Tommaso è stato partecipe di questo845.
Egli però vi contribuisce a modo suo, con il suo proprio
carisma, in modo tale che anche la sua pratica della teologia porti il
segno di quest’impegno personale. Già molto tempo fa, e con lo
stesso fervore di domenicano e di storico dell’Ordine dei Predicatori,
il p. Chenu aveva ricordato il radicamento evangelico della teologia
dei Mendicanti846. Non si trattava soltanto di valorizzare l’accordo tra
teoria e pratica {nerbo et exemplo) che caratterizzava i nuovi maestri,
ma proprio di sottolineare il profondo rinnovamento che l’ispirazione
biblica tradizionale subiva con essi. Erede della tradizione di Saint-
Jacques dove, una trentina d’anni prima, sotto la direzione di Ugo di
San Caro, revisione della Bibbia ed elaborazione di concordanze
erano andate di pari passo, Tommaso ne rappresenta il frutto più
843 De decem praeceptis II-IV; cf. l’ed. francese di J.-P. TOKRELL, RSPT 69
(1985), 26-30, in cui si troverà l’indicazione delle fonti e dei luoghi paralleli.
844 Cf. M.-H. VICAIRE, Histoire de saint Dominique, 1. Un homme
évangélique, Paris 1982, pp. 10 e 218, il quale propone corne traduzione di uir
euangelicus-, <d’ uomo che si sforza di imitare gli Apostoli».
845 Cf. Tommaso d'Aquino. L’uomo e il teologo, cap. V: «L’avvocato
difensore della vita religiosa mendicante»; vedere pp. 111-112 per il «duplice
evangelismo».
846 Cf. Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Paris 19542, pp. 38-
43: «L’évangélisme»; cf. anche: Evangélisme et théologie au XIIIe siècle, in Mélanges
offerts au R. P. Ferdinand Cavaliere, Toulouse 1948, pp. 339-346; Le réveil évangélique,
in La théologie au douzième siècle («Etudes de philosophie médiévale 45»), Paris 1957,
pp. 252-273.
416
maturo847.
Già varie volte - per non dire sempre - abbiamo incontrato que-
sta vena biblica in vari campi della sua teologia. Nel suo approccio
spirituale, questo si traduce in riferimento diretto al Vangelo che egli
insegna e medita 848. Egli non pensa perciò nemmeno a proporre un
altro metodo diverso da quello del Vangelo. Né conosce altro
cammino se non quello in cui si entra per la porta stretta; si accontenta
di ripetere: «Tutta la legge si fonda sulla carità (Tota lex pendei a
cantate)» 849. A maggior ragione egli non pensa di offrire descrizioni
degli stati dell’anima in cammino, come se ne vedranno ben presto
fiorire - sebbene le sottili analisi psicologiche non gli siano estranee -,
ma colui che lo frequenta come discepolo si vede costantemente
rinviato alle parole e all’esempio dell’unico Maestro. In ciò,
Tommaso è anch’egli uir euan- gelicus850.

IL MODELLO DI TUTTE LE PERFEZIONI

Lo scopo di questo capitolo ci ha spinti a mettere in luce, con


tutta la forza con la quale san Tommaso lo fa, il carattere essenziale
della carità nella vita cristiana. E con essa che si vede al meglio come
la vita eterna è già iniziata e come nello stesso tempo essa è un
cammino che ha delle tappe, il quale però non tollera che si torni
indietro o che si facciano della pause volontarie senza rinnegarsi,
poiché l’aspirazione al suo compimento appartiene alla sua stessa
natura.
Realizzato qui in maniera eminente, questo processo
contraddistingue tutta la vita cristiana e tutti i campi. In modo
particolare, ciò si può riscontrare nel campo della vita sacramentale
847 Vedi in proposito dò che ne pensa B. SMALLEY, The Gospels in the
Schools c. 1100-c. 1280, London and Ronceverte 1985, pp. 257-279.
848 Cf. La pratique, pp. 231-233.
849 De decem preceptis XI, ed. J.-P. ToKRELL, RSPT 69 (1985 ) 227.
850 L’umiltà di Tommaso gli avrebbe fatto rifiutare questo titolo
precedente- mente accordato a san Domenico, ma quest’accostamento ci permetterà
di introdurre un’osservazione supplementare. Si è spesso notato, e anche
recentemente, che se ci sono molti tratti domenicani di spiritualità, tuttavia
propriamente parlando non esiste una «scuola domenicana di spiritualità» (cf. S.
TuGWELL, Editorial, in Mémoire dominicaine n. 2, Printemps 1993: Courants
dominicains de spiritualità, 9-12). È in questo senso che esiste una teologia spirituale in
san Tommaso, ma non esiste una «spiritualità tomistica (o tomasiana)» in senso
stretto.
417
dove, fedele alla sua analogia della crescita corporea, Tommaso
giustifica il numero dei sette sacramenti mettendo ciascuno di essi in
relazione con le grandi tappe dello sviluppo spirituale e con i
principali bisogni dell’organismo
della grazia, secondo che si tratti di guarire o di fortificare 851 Divenuta
familiare al teologo attuale, questa intuizione sembra proprio essere
stata a suo tempo una creazione personale del frate domenicano.
Feconda al massimo, essa manifesta ancora una volta la sua
attenzione a considerare l’essere cristiano come una realtà in divenire.
Ma non è questo il luogo per soffermarvisi; sarà molto più
illuminante ritrovare queste stesse idee a proposito della sequela di
Cristo.
Se è vero che Cristo è il modello primario di tutte le virtù 852, è
possibile aspettarsi allora che egli ci sia presentato come modello
della perfezione della carità, la quale le contiene tutte. Meglio ancora,
è nella carità di Cristo che si fonda la necessità di seguirlo e di
imitarlo. Quando s’imbatte nell’affermazione del Signore (Gv 15,
13): «Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando», Tommaso
commenta: «Sopra il Signore ci ha esortato alla carità fraterna
mediante il suo esempio; qui egli, con il beneficio loro accordato,
mostra ai discepoli perché i suoi amici sono tenuti ad agire imitando
Cristo: è perché il Cristo li ha assunti nel suo amore»853.
Imitazione e sequela di Cristo nel loro legame alla perfezione
evocano sorprendenti formulazioni. E il caso della chiamata dei primi
apostoli sulla riva del lago, i quali hanno abbandonato tutto per
SLVUI- re Cristo:

«Non è gran cosa rinunciare a tutto [molti filosofi non si sono


affatto preoccupati delle ricchezze, osserva Tommaso altrove].
La perfezione consiste piuttosto nel seguire Cristo, e ciò si
realizza per mezzo della; carità: “Se donassi tutti i miei beni ai
poveri... Se non avessi la carità, tutto questo non mi servirebbe
a niente” (1 Cor 13, 3). La perfezione essenzialmente non
consiste in cose esterne: povertà, verginità e così di: seguito;
queste non sono che dei mezzi per la carità. Perciò
l’Evangelista aggiunge: e lo seguirono» 854 855.
851 m, q. 65, a. 1.
852 Vedere nel cap. V, il paragrafo: «Vi ho dato l’esempio».
853In loannem 15,13, lect. 3, n. 2010.
8541« Matthaeum 4, 22, lect. 2, n. 373. 4
855 In Matthaeum 19, 21, n. 1593; il commento diventa qui più deuagliaio, ma non meno
418
«Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che hai, dallo ai
poveri é? avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi»81. L’invito
rivolto da Ge-

diretto: «Se la perfezione non consiste nella rinuncia alle ricchezze;;


419
sù al giovane ricco (Mi 19, 21) costituisce evidentemente l’occasione f
favorevole per riparlare del tema. Tommaso riprende perciò questo ;
versetto nel suo piccolo libro La perfezione della vita spirituale-, il
contesto, sia sociale che scritturistico, richiedeva obbligatoriamente un
pa- ragonc tra perfezione e abbandono delle ricchezze, e si coglie nei
testi ¡la polemica fraterna con i francescani circa l’importanza del voto
di povertà per la vita religiosa. Noi qui possiamo fame astrazione e
ritenere ciò che ci interessa:
«La perfezione consiste nella sequela di Cristo, mentre
l’abbandono delle ricchezze non ne è che la via. Perciò non è
sufficiente, dice san Girolamo, rinunciare ai propri beni; occorre
anche aggiungere ciò che ha fatto san Pietro: e noi ti abbiamo
seguito. [Ritroviamo qui l’esempio di Abramo che possedeva
molti beni, ma al quale il Signore chiede semplicemente:]
“Cammina dinanzi a me e sii perfetto”, mostrando così che la
sua perfezione consisteva precisamente nel camminare in
presenza del Signore e amarlo perfettamente fino alla rinuncia di
se stesso e dei suoi; cosa che egli ha mostrato in modo eminente
mediante il sacrificio del suo figlio» 82.
L’accento dunque è fortemente messo sulla sequela di Cristo.
Questa ispira a Tommaso delle formule lapidarie. Sempre a proposito
del «Vieni e seguimi», egli sottolinea vigorosamente: «Seguimi. Ecco
il vertice della perfezione (finis perfectionis). Sono coloro che seguono
Lio con tutto il loro cuore ad essere perfetti. Seguimi, ossia imita la
vita di Cristo»83. Questo stesso passaggio continua con
un’applicazione valida soltanto per i Frati predicatori 84, e sulla quale
non dobbiamo sof-

in cosa consiste? Bisogna rispondere: nella perfezione della carità (Col 3, 14):
“Prima di tutto abbiate la carità, che è il vincolo di perfezione”. Così l’amore di Dio è
la perfezione, la rinuncia alle ricchezze è la via della perfezione... Sarà perfetto nella
carità colui che ama Dio fino alla rinuncia di sé e dei suoi (usque ad contemptum
sui et suorum)».
82
Leperfectione spiritualis uitae 8, Leon., t. 41, p. B 73; il capitolo si
condude con la stessa affermazione: «Haec est ergo prima uia perueniendi ad
perfectionem ut ' aliquis studio sequendi Christum, dimissis diuitiis paupertatem
sequetur».
83
In Matthaeum 19, 21, n. 1598.
84
H testo continua con queste parole: lmitatio enim est in sollicitudine
prae- dicandi, docendi, curam habendi. Si tratta di uno di quegli esempi in cui si
vede come fra Tommaso s’immerge personalmente in questo dibattito e non perde mai

420
di vista il suo proprio modo di seguire Cristo; cf. J.-P. TORRELL, Le semeur est sorti
pour semer. L’image du Christ prêcheur chez frère Thomas d’Aquin, «La Vie
spiri- fermarci; le formule hanno un valore abbastanza universale
per potersi applicare a tutti i discepoli di Cristo. Quando s’imbatte
nelle parole di Gesù circa il servitore «fedele e saggio» al quale il
padrone come ricompensa «affiderà l’amministrazione di tutti i
suoi beni», Tommaso le concepisce come un’allusione alla
beatitudine che si può interpretare in vari modi:
«La terza interpretazione si riferisce all’unione a Cristo. In
questo mondo non si giunge alla perfezione se non seguendo le
orme di Cristo, parimenti nell’altro la beatitudine eterna non si
otterrà se non mediante l’unione a Cristo. Essi saranno stabiliti
come amministratori di tutti i suoi beni in quanto la loro volontà
è conforme alla volontà divina»85.
È molto significativo ritrovare qui, strettamente unite, sequela di
Cristo su questa terra e unione a Cristo nella beatitudine. Cristo resta
simultaneamente il cammino e la meta, e Tommaso lo ripete ogni volta
che il contesto lo permette, come nel caso del detto di Gesù in san
Giovanni (10, 27-28): «Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le
conosco, ed esse mi seguono; io do loro la vita eterna»:
«In questa frase bisogna considerare quattro cose che sono in
reciproca corrispondenza: due da parte nostra, ossia due nostri
atteggiamenti verso Cristo; e due da parte di Cristo nei nostri
riguardi.
La prima cosa, che dipende da noi, è l’obbedienza a Cristo... La
seconda, che dipende da Cristo, è la scelta che egli compie nei
nostri confronti e il suo amore per noi... La terza, che dipende di
nuovo da noi, è l’imitazione di Cristo... La quarta, corrispettiva
da parte di Cristo, è la ricompensa: "Io do loro la vita eterna”. Il
che equivale a dire: essi qui mi seguono camminando sulla via
della mansuetudine e dell’innocenza; e io dopo farò in modo che
essi mi seguano entrando nella gioia della vita eterna» 86.

tuelle», nov.-déc. 1993, 657-670. Ciò è stato anche osservato da L.B. PORTER, Stimma
Lontra Gentiles III, Chapters 131-135: A Rare Glimpse Into thè Heart as meli
as thè Mzndof Aquinas, «The Thomist» 58 (1994) 245-264.
85
In Matthaeum 24, 47, lect. 4, n. 2003; la prima interpretazione intende le
parole del vangelo della beatitudine, la quale consiste nel godimento di Dio stesso in
quanto egli è al di sopra di tutti i beni; la seconda intende queste parole della
ricompensa riservata ai buoni pastori della Chiesa.
86
1« Ioannem 10, 27-28, lect. 5, n. 1444-1449.

421
XV
Conclusione:
idee guida e fonti

Se lo scopo di questo libro non fosse stato altro che quello di


offrire un inventario completo di tutto ciò che ci si può aspettare di
trovare nell’opera di san Tommaso circa la spiritualità, i suoi lettori
avrebbero certamente il diritto di osservare che in esso mancano molte
cose. Senza tentare di enumerarle - e ancor meno di indovinarle, poiché
ciascuno è unico nel sapere ciò che cerca in un simile campo, il quale
riguarda la parte più intima della coscienza personale -, vorrei
semplicemente ricordare che non era questo il mio scopo. Perciò, se ho
lasciato da parte alarne cose, non l’ho fatto perché le ho dimenticate o
sottovalutate, ma perché sarebbe stato inutile ripetere molti temi già
trattati da altri. Si trattava piuttosto di attirare l’attenzione sulla
spiritualità implicita di alcune grandi opzioni del Maestro d’Aquino. A
giusto titolo lo si celebra come un eminente filosofo, ciò che egli
certamente è h Si è appena iniziato a riscoprire che la maggior parte
della sua opera è quella di un teologo. A questo titolo, Tommaso è
innanzitutto preoccupato della fede e delle sue ripercussioni sul
comportamento cristiano in questo mondo. Se la sua opera è sovente
considerata come troppo intellettuale per interessare il cristiano medio,
ciò avviene a causa di una misconoscenza drammatica e di
un’incapacità nel saper leggere tale opera con la stessa attitudine
religiosa profonda qual era quella del suo autore. Quando Tommaso
ragiona sulla fede, per

1
Sarà piacevole leggere qui il giudizio di un esperto circa uno degli «opuscoli»
filosofici di Tommaso, qualificato come «gioiello dell’argomentazione filosofica»:
«Esegesi del De anima, critica dell’averroismo, teoria generale dell’anima e del
pensiero, piccola storia del peripatetismo, il De untiate intellectus contra auer-
roistas costituisce una delle opere maggiori della storia del pensiero», THOMAS ID’AQUIN,
L’untié de l’intellect contre les Averroistes suivi des Textes contre Aver- roès
antérieurs à 1270. Testo latino, traduzione francese, introduzione, bibliografia,
cronologia, note e indici, a cura di A. DE LIBERA, Paris 1994, p. 73.
422
tentare di capire ciò in cui egli crede, non ne fa un semplice affare di
rigore logico; al contrario, egli impegna tutta la sua persona e invita il
proprio discepolo a fare altrettanto. Chi vorrà leggere o addirittura
rileggere l’una o l’altra delle pagine così belle tradotte qui, non nvra più
alcun dubbio su questo carattere spirituale della sua teologia. Era
necessario mostrare ciò almeno per alcuni temi, ma resta tanto da fare
per manifestarlo anche su altri punti. Se questo tentativo potesse
suscitarne altri, il suo scopo sarebbe raggiunto e perfino superato.
Se si tenta ora di fare uno sforzo di sintesi, due punti principali
devono attirare l’attenzione. Innanzitutto si tratta di individuare il più
fedelmente possibile le caratteristiche maggiori di questa teologia
spirituale del Maestro d’Aquino. Senza ripetere troppo ciò che è stato
già detto, occorre piuttosto riassumere e mettere in evidenza alcune
COLISI. guenze che ne derivano. Poi bisognerà ricordare le fonti di questa
spiritualità, ossia ricollocare l’autore nel suo ambiente originario,
ricordare il suolo fecondo in cui immerge le sue radici. Come diceva
tempo fa il p. Congar, san Tommaso non è Melchisedek! Se egli ha una
propria fisionomia, ha anche una genealogia, ed è illuminante ricordare
alcune delle sue ascendenze.

IDEE GUIDA

Una spiritualità trinitaria


Se tentiamo di riprendere le linee di forza che la nostra lettura ha
permesso di individuare, è evidentemente questo che occorre mettere in
primo piano. Presa com’è nel movimento di «uscita» dalla Trinità e di
«ritorno» verso di essa, su iniziativa del Padre e grazie all’opera
congiunta del Figlio e dello Spirito, la vita cristiana secondo Tommaso
è una realtà decisamente teologale, trinitaria. Essa ha il suo culmine
nella venuta e presenza in noi delle Persone divine, conosciute e amate
in un’esperienza intima e diretta, in cui l’anima diventa di giorno in
giorno più conforme al suo modello divino, fino al giorno in cui,
totalmente trasformata dalla grazia, avendo acquisito finalmente la
somiglianza perfetta, entrerà in maniera definitiva nello stesso
movimento delle condivisioni intratrinitarie.
In tutto ciò la persona del Padre è onorata in modo particolare in
quanto essa è la fonte dalla quale tutto parte e il vertice al quale tutto
; ritorna. Essa però offre alla contemplazione un abisso insondabile che

423
f quaggiù non possiamo che pregustare nell’attesa della visione beatifica.
ì~r Lungi dal pensare di potersi impadronire bene del mistero di Dio me- ;
I diante i suoi concetti e i suoi ragionamenti, Tommaso .non smette di -,
essere cosciente del fatto che il mistero sfugge ad ogni presa e invita il
proprio discepolo a prostrarsi con lui nell’adorazione dell’Ineffabile.
Lungi pertanto dal concepire il mistero del Totalmente Altro come il sacro
temibile e lontano della storia delle religioni, egli lo identifica con colui
che è vicinissimo, col Padre del nostro Fratello e Signore Gesù che ci
genera alla sua vita a immagine del suo Figlio prediletto.
In quest’approccio della realtà cristiana, anche la Persona del
Figlio è valorizzata in maniera assolutamente specifica. Come Verbo,
egli presiede alla prima creazione delle cose; come Verbo incarnato,
guida l’umanità nel suo ritorno verso Dio. Secondo il linguaggio qui
proposto, egli è contemporaneamente colui a partire dal quale siamo
creati e ricreati (esemplarismo ontologico), ma anche l’incarnaziorie
perfetta di tutte le virtù e quindi, di conseguenza, il modello offerto a
tutti coloro che si dicono appartenenti a lui, i quali devono seguirlo
liberamente e imitarlo (esemplarismo morale). Mentre tutto nell’idea
aristotelica di scienza che diceva di seguire, spingeva Tommaso a
trascurare questo fatto singolare e contingente, ribelle alle
universalizza- zioni, egli si rifiuta di disfarsene e preferisce sovvertire
l’eredità del Filosofo greco attribuendo a Cristo il ruolo unico e
insostituibile che gli accorda il Vangelo. La sua costruzione non è
meno rigorosa, ma è dominata da un’altra coerenza, quella della storia
della salvezza, di cui sa bene che le «convenienze» in essa riscontrate
non hanno niente di una necessità logica.
Quanto allo Spirito Santo, implicato allo stesso titolo del Figlio
nella creazione primordiale, egli è colui che, mediante la sua azione
universale e costante - «la grazia dello Spirito Santo» -, rende
possibile il ritorno verso il Padre permettendo d’impegnarsi al seguito
di Cristo. Soltanto per suo tramite inizia il nostro cammino di ritorno
verso il seno del Padre ed è ancora grazie a lui che tale cammino può
giungere al suo termine, poiché è esclusivamente con la grazia dello
Spirito d’adozione che siamo resi conformi all’immagine dell’unico
Figlio per natura. In nome dell’amore che presiede all’azione della
Trinità nel mondo, Tommaso non esita ad attribuire allo Spirito Santo
per appropriazione la guida suprema della storia della salvezza, come
pure gli riconosce il primo ruolo sia nella direzione della vita
personale del cri-
stiano che in quella della vita ecclesiale. Lo Spirito appare così come
424
la cerniera, se così si può dire, tra l’iniziativa divina e la libertà
umana, nell’ineffabile comunione d’amicizia che Dio stesso ha voluto
instaurare con la sua immagine.
Questa opzione trinitaria ha trovato la sua trascrizione nella
costruzione della sintesi della Somma - non è più il caso qui di
ritornarvi, ma non è inutile ripeterlo -, è essa che permette di superare
le alternative semplicistiche a volte proposte: la teologia di Tommaso
non è né teocentrica né cristocentrica a discapito dell’una o dell’altra
Persona divina. Parimenti, la sua spiritualità non è unicamente filiale,
né tantomeno semplicemente eristica o pneumatica, ma appunto
teologale, tri- nitaria: in essa ogni Persona è ugualmente presente e
operante, e la relazione con l’indivisibile Unitrinità è veramente
determinante. JU

Una spiritualità della deificazione


Il termine forse sorprenderà nel contesto di una spiritualità
occidentale che si reputa estranea a questo modo di presentare la vita
cristiana; eppure non vi è alcun dubbio, Tommaso assume pienamente, 1
qui come altrove, l’eredità patristica: «Il Figlio di Dio si è fatto uomo per
rendere gli uomini dèi e figli di Dio»856. ‘Egli conosce il vocabolario della
deificatio e della deiformitas, e se lo adopera soprattutto nei suoi
commenti allo Pseudo-Dionigi, non rinuncia a servirsene in maniera
indipendente. Più importante delle parole, la realtà della divinizzazione è
la stessa della grazia, una struttura deiforme che assimila e rende conformi
a Dio. Per oltre la metà delle sue ricorrenze, il vocabolario àeSi’imitalio e
della conformitas - che naturalmente si crederebbe riservato alla «sequela
di Cristo» - è impiegato a proposito di Dio stesso. Questa è una semplice
conseguenza dell’opzione preferenzialmente trinitaria, ma Tommaso non
manca di evidenziarla. Ne deriva perciò che - contrariamente
all’impressione che possono dare molti manuali di spiritualità -, egli non
mette tanto l’accento sullo sforzo morale dell’uomo - come se bisognasse
conquistare la santità a forza di braccia - quanto piuttosto sull’opera della
grazia in noi, mediante la quale il Padre ci configura «all’immagine del
Figlio suo prediletto».

856 Compendium theol. I, 214, Leon., t. 42, p. 168 (ed. Marietti, n.


429): la grazia: rifluisce da Dio sugli uomini, ita quod Filius Dei factus homo ut
homines faceret deos et filios Dei-, cf. qui sopra il nostro cap. 6, paragrafo:
«Soltanto Dio deifica».
425
Una spiritualità «oggettiva»

Dato il primato assoluto di Dio, fonte prima e fine ultimo,


l’attitudine fondamentale della persona umana che gli è dinanzi
consiste nel fissare lo sguardo su di lui. Unica beatitudine
dell’umanità, Dio non forma l’oggetto di nessuna attività transitoria,
di nessun «fare», egli non può essere che «contemplato». Inserendo
tutta la sua considerazione dell’agire cristiano tra due considerazioni
della beatitudine 857, Tommaso sottolinea fortemente che la
contemplazione è prima e ultima nelle attività concrete dell’uomo, in
cerca della propria felicità suprema 858. Tutta la persona e la sua
attività sono così focalizzate da questo «oggetto» supremo, alpha e
omega di ogni essere e di ogni agire. Essa allora 'è normalmente spinta
a liberarsi da se stessa e dai suoi problemi soggettivi, ma questa non è
che una conseguenza. Primordiale è l’attaccamento a Dio e non il
distacco dal mondo. A volte lo si è dimenticato: «Il disgusto del
mondo non equivale al gusto di Dio»859.
Contrariamente a quanto faranno gli autori spirituali dell’età
moderna, Tommaso non si sofferma sulla descrizione degli stati
dell’anima e delle tappe del suo cammino alla ricerca di Dio, né sui
metodi di preghiera o sulla mortificazione dei sensi, ecc. Senza
ignorare tutto questo, egli ne parla in un modo molto più allusivo,
lasciando al
proprio discepolo la cura degli adattamenti auspicabili. Tommaso
insiste molto di più sulla necessità di praticare innanzitutto il bene;
così facendo, ci si libererà dal male. Nella sua dottrina spirituale, la
nozione di virtù - praticata nella gioia, questo è l’essenziale - e

857 Pensiamo certamente alle cinque questioni che aprono la Prima


Secundae, anche se la considerazione non si ferma alle questioni riguardanti la vita
contemplativa che concludono la Secunda Secundae-, occorre andare oltre, fino al
punto in cui Tommaso non è potuto giungere nella propria redazione della Somma,
ossia al ritorno di Cristo, che introduce infine la nuova creazione nella visione di Dio
a faccia a faccia.
858 Per la nozione di contemplazione ci si può riferire al pregevole studio
di I.
BIFFI, «Contemplano» e «vita contemplativa» nella Summa theologiae di san
Tommaso, in ID., Teologia, Storia e Contemplazione in Tommaso d'Aquino, pp. 1-85;
per una «pratica» della vita contemplativa ispirata a san Tommaso, vedi il bel libro di
J.-H. NICOLAS, Contemplation et vie contemplative en christianisme, Fribourg- Paris
1980.
859 TH. DEMAN, Pour.une vie spirituelle «objective», «La Vie
spirituelle» 71 (1944) 100-122, ci p. 101.
426
soprattutto quella di carità prevalgono su quella di peccato. Ne
consegue una libertà suprema nei confronti di tutto ciò che non è
essenziale: «E chiaro che non tutti possono dedicarsi agli studi
[lunghi e severi]; per questo Cristo ci ha dato una legge che per la sua
brevità è accessibile a tutti e nessuno ha il diritto d’ignorare: tale
legge è la legge dell’amore divino, questa “parola breve” che il
Signore proclama all’universo»860.

Una spiritualità «realistica»


Questa parola significa innanzitutto che l’uomo spirituale non è
un’anima disincarnata, né un’anima rivestita di un corpo, ma appunto
una persona formata essa stessa dalla stretta unione dei suoi due
elementi, anima e corpo. Tommaso ci propone «una certa idea
dell’uomo» dalla quale fa derivare un certo modo di considerare la
vita interiore e la pratica delle virtù. Non una «liberazione» dal
corpo, né dalle potenze «inferiori», ma un cambiamento progressivo,
una cristianizzazione di tutto l’essere ricondotto nel suo retto
orientamento nei confronti di Dio.
All’opposto di un soprannaturalismo precoce che tenderebbe a
ignorare il livello proprio della natura, la parola «realistica» vuole
evocare anche la teologia tomasiana della creazione e la sua
fondamentale bontà innata, l’autonomia del temporale e la validità
dei fini intermedi le cui specifiche esigenze non sono né soppresse né
occultate dal dono della grazia. Tutto ciò costituisce la base
indispensabile di una spiritualità per i fedeli laici che, qualunque sia
il loro compito nel mondo, possono essere così sostenuti e confermati
nel loro orientamento ultimo verso Dio, senza essere spinti a
praticare un ambiguo «disprezzo del mondo» che li renderebbe
monaci da strapazzo. Se per vocazione personale Tommaso ha lui
stesso praticato una spiritualità di religioso, la sua opera pone le
solide fondamenta di una teologia delle realtà terrene, nel rispetto dei
valori umani che non dovrebbero mancare in nessuna spiritualità
autentica.
Una spiritualità della realizzazione umana
Alcuni forse parlerebbero qui di una «morale della felicità» 861,

860 Si rileggerà il testo completo qui sopra, cap XIV: «L’inno alla carità».
861 Cf. S. PlNCKAERS, Les sources de la morale chrétienne, pp.
427
ma non si tratta che di una differenza d’accento. Tommaso certamente
non ignora il posto che occupa il male e la sofferenza nella vita
dell’uomo (la sua lunga meditazione sul libro di Giobbe ne è la
testimonianza 862), ma, sebbene ne parli bene, non si può riassumere la
sua spiritualità in un elogio della croce. Né tantomeno egli elogia
l’epicureismo, ma invita piuttosto a «diventare ciò che si è». Certo,
egli intende a modo suo la massima del saggio antico, ma non la
rinnega. La concezione toma- siana dell’uomo e della sua libertà
implica che costui non trova se stesso se non trovando Dio. Figlio di
Dio, chiamato a servirlo nella gioia e nell’amore, destinato ad essere
erede del Regno, l’uomo non ha nessun motivo per comportarsi come
uno schiavo che ha timore. Il ripetuto appello all’esperienza
dell’amicizia evidenzia il posto che Tommaso riconosce ai valori
umani per esprimere il mistero delle nostre relazioni con Dio. Anche
se è necessario che questi valori siano purificati e resi alla loro
integrità, la vita secondo lo Spirito per Tommaso non si situa soltanto
sul registro della rinuncia e dell’obbligo, ma appunto su quello del
compimento per mezzo dell’amore.

Una spiritualità comunionale


Questa qualificazione s’impone per due motivi. Primo, perché
l’uomo è per natura un animale «sociale» che non può realizzarsi se
non nella relazione con i suoi simili. Secondo, perché la sua
partecipazione a varie comunità, civili o religiose, deve trovare la
propria traduzione a livello spirituale. Qui come altrove, il dato
naturale trova il proprio progresso e il proprio compimento a livello
della grazia. Ora noi non riceviamo la grazia se non mediante e nella
Chiesa - Corpo di Cristo. Il cristiano di Tommaso è innanzitutto un
membro del Corpo ecclesiale; tramite i sacramenti, e in particolar
modo il battesimo e l’eucaristia, egli riceve dal proprio Capo, Cristo,
470-473, «Eudé- monisme et spontanéité spirituelle»: «...rinclinazione naturale al
bene... è nello stesso tempo inclinazione alla felicità, se è vero che l’autentica felicità
risiede nella realizzazione dell’amore per il vero bene e nella gioia che procura
(...). ...la prima grande questione della vita morale (è) quella della felicità» (p. 471).
862 Cf. D. CHAKDONNENS, L’homme sous le regard de la Providence.
Providen- ce de Dieu et condition humaine sélon YExposition littérale sur le
Livre de Job de Thomas d’Aquin («Bibliothèque thomiste 50»), Paris 1997; vedi
anche L.A. PEROTTO, La mistica del dolore nel Commento di S. Tommaso al
Libro di Giobbe, ST 60 (1995) 191-203, il cui titolo ci sembra tuttavia un po’ troppo
forte.
428
tutta la sua vita e, nello Spirito Santo, Cuore della Chiesa, egli è
strettamente unito e collegato, nella Comunione dei santi, a tutte le
altre membra del Corpo. Questa dimensione- comunitaria non è una
semplice implicazione della definizione della Chiesa come Corpo (o
come con gregario oppure populus); anteriore a ogni riflessione
teologica, la sua valorizzazione nella spiritualità, nella preghiera o
nella liturgia, non fa che manifestare la natura stessa delle cose. La
vita interiore non è un semplice affare privato, individualistico; essa
non ritira né separa la persona dal Tutto di cui è parte. Anzi, le ispira
spontaneamente un’attitudine di comunione, quella di un membro, non
di un pezzo.

FONTI

Spiegando tempo fa le ragioni del suo attaccamento a san


Tommaso in un piccolo libro che gli ha procurato varie difficoltà, il p.
Che- nu aveva scritto alcune frasi lapidarie:
«Noi siamo tomisti. Per ragione. Diremmo addirittura per natura,
nati in san Tommaso per vocazione domenicana. Questo perché in
fin dei conti i sistemi teologici non sono che l’espressione delle
spiritualità. [Evocando allora il legame che egli pensava di poter
stabilire tra l’agostinismo bonaventuriano e san Francesco, o tra il
molinismo e sant’Ignazio, pro4j seguiva:] Una teologia degna di
questo nome, è una spiritualità che I trovato degli strumenti
razionali adeguati alla propria esperienza religiosa. Non è per un
caso della storia se san Tommaso è entrato nell’Ordine di san
Domenico; e non è per una grazia incoerente che l’Ordine di san
Domenico ha ricevuto san Tommaso d‘Aquino»^.
Occorrerebbe un grosso volume per verificare nei minimi
particolari questa tesi - dato che di tesi si tratta, e la sua semplicità non
deve 863
velare né la sua profondità né alcuni dei suoi aspetti problematici Se
indubbiamente è vero che la teologia di Tommaso ha qualcosa a che
vedere con la sua appartenenza all’Ordine domenicano, tuttavia non è
lecito intendere ciò in maniera troppo esclusiva, rischiando di identificare
così «tomismo» e «domenicanità» - ciò che molti discepoli sia di san
863 M.-D. CHENU, Une école de théologie: Le Saulchoir, con gli studi di
G.J Alberigo, E. Fouilloux, J. Ladrière e J.-P. Jossua («Théologies»), Paris 1985, ppi 148-
149 (la prima apparizione del libro ha avuto luogo nel 1937).
429
Domenico che di san Tommaso non sono evidentemente disposti a fare
Questo significherebbe tenere in poco conto tutto ciò che Tommaso deve
ad altre fonti e che supera la semplice specificità domenicana per
estendersi largamente all’esperienza umana ed ecclesiale. Se certamente
bisogna tener conto dell’eredità domenicana, tuttavia tra le fonti della
spiritualità tomasiana se ne possono reperire anche molte altre.

La sapienza antica
Sebbene il loro impatto sulla spiritualità sia relativamente indiretto,
sarebbe impossibile misconoscere tutto ciò che san Tommaso deve ai
moralisti pagani dell’antichità nella propria valorizzazione della virtù
umana e del mondo creato. Non è più il caso di analizzare i dettagli di
questi vari prestiti, alcuni dei quali sono stati citati in questo libro; eppure,
se oggi si tende piuttosto a non esagerare ulteriormente l’apporto di
Aristotele - che tuttavia resta reale, in modo particolare con l’Etica a
Nicomaco -, si scopre ogni giorno di più ciò che egli deve allo stoicismo
attraverso sant’Agostino e Cicerone 864 865. Mediante questa «ricezione» del
pensiero filosofico e morale degli antichi, in realtà c’è in Tommaso la
volontà d’accogliere il tutto dell’uomo e della sua eredità. Per lui l’uomo
non consiste nella natura bruta quanto piuttosto nel suo stato di cultura.
Questo è un modo tra gli altri per onorare la verità ovunque si trovi e,
infine, per rendere omaggio a Dio stesso nel quale essa trova la propria
origine. Come il bene, che non sarebbe possibile compiere senza
l’influenza, almeno segreta, della grazia, così ogni verità, detta da
chicchessia, viene dallo Spirito Santo n. Tuttavia è certo che le fonti
propriamente cristiane esercitano un’influenza molto più intensa.
La Sacra Scrittura
Di primo acchito, la vena paolina è quella che colpisce di più.
Quando si tratta di evidenziare il carattere cristoconformante della grazia
oppure l’imitazione di Cristo, Tommaso trova in Paolo un materiale
immediatamente utilizzabile, che il più delle volte si è accontentato di
organizzare in forma teologica. Se si dovesse pensare che questo primato
non sia dovuto che ad un effetto di prospettiva - dato che il corpo paolino,
integralmente commentato, occupa un posto importante nelle opere di

864 Vedi in proposito G. VERBEKE, S. Thomas et le stoïcisme, MM 1 (1962) 48-


68; The Presence of Stoicism in Medieval Thought, Washington 1983.
865 Cf. sopra, cap. IX, n. 65.
430
Tommaso -, resterebbe comunque da spiegare il perché di questa
predilezione. Bisogna vedere qui allora almeno un’affinità tra i due autori.
Nonostante ciò resta vero che il commento su san Giovanni è anch’esso
molto presente e abbiamo visto che per l’imitazione di Cristo così come
per l’opera dello Spirito Santo, il quarto Vangelo costituisce ima fonte
privilegiata. Né si può dimenticare l’Antico Testamento, del quale le
Collationes su Isaia o la predicazione denotano una conoscenza
impressionante.
Prima di tutte le altre fonti, filosofiche o teologiche, la Parola di Dio
resta per Tommaso la Parola di vita in cui egli trova la sua prima
ispirazione e la sua norma: «Tutta la teologia di san Tommaso è un
commento della Bibbia; egli non propone nessuna conclusione senza
giustificarla con qualche parola della Sacra Scrittura, che è la Parola di
Dio» 866. Eccessivo se lo si estrapola dal suo contesto, questo giudizio
enuncia una profonda verità; lo stesso Tommaso si esprime in maniera
altrettanto categorica: «Quando si tratta delle cose divine, non se ne può
parlare alla leggera in termini diversi da quelli impiegati dalla Sacra
Scrittura» 867. Non ci si deve perciò meravigliare del fatto che la fermezza
di questa posizione, la quale si è tradotta in metodo teologico con una
decisa opzione per il senso letterale 868, abbia trovato il suo posto nella
teologia spirituale. Tommaso non avrebbe parlato, come ha fatto,
dell’opera di Cristo o dello Spirito, se non avesse a lungo studiato e
meditato il capitolo 8 della lettera ai Romani oppure il discorso dopo la
Cena nel quarto Vangelo.

La liturgia
La menzione di questa fonte forse sorprenderà i frequentatori
abituali di fra Tommaso, che si ricordano della confessione fatta una volta
866 É. GILSON, Les tribulations de Sophie, Paris 1967, p. 47.
867 Contra errores graecorum I, 1, Leon., t. 40, p. A 72: «De diuinis non
de facili debet homo aliter loqui quam sacra Scriptum loquatur»; cf. STh I, q. 36, a. 2 ad
1: «Non si deve insegnare a riguardo di Dio ciò che non si trova nella Sacrai Scrittura, o
espressamente con le parole o per il senso». Lungi dall’essere isolate, queste formule
esprimono una convinzione maggiore spesso incontrata, cf. B. DECKER, Schriftprinzip und
Ergänzungstradition in der Theologie des hl. Thomas von Aquin, in Schrift und
Tradition, herausgegeben von der deutschen Arbeitsgemeinschaft für Mariologie, Essen
1962, pp. 191-221 (cf. la nostra presentazione: RT 64,1964, pp. 114-118).
868 Cf. M. AlLLET, Lire la Libie avec S. Thomas. Le passage de la
littera à la res dans la Somme théologique, «Studia Friburgensia» N.S. 80, Fribourg
(Svizzera) 1993.
431
da quest’ultimo di non aver partecipato all’Ufficio di un Giovedì santo per
rispondere subito ad una consultazione del Maestro dell’Ordine 869. Da ciò
si è concluso che per lui il lavoro era più importante della preghiera 870.
Ora, questo significa dimenticare che, nonostante la sua dispensa di
Maestro in teologia che lo liberava da alcuni obblighi, l’Ufficio divino
restava la sua occupazione quotidiana, e che si possono cogliere molte
coincidenze tra la sua teologia e la celebrazione dell’anno liturgico 871. Egli
ha condotto la sua vita di teologo in un’esperienza vissuta della liturgia e
se ne trova l’eco, nella sua predicazione e altrove, sotto la formula dicitur
o cantatur, per mezzo della quale egli introduce nel suo discorso ciò che si
canta nella liturgia (la formula ricorre trentatré volte). Al di là delle parole,
uno dei più begli esempi di questa corrispondenza tra liturgia e teologia si
trova a proposito dell’efficienza attuale dei misteri della vita di Cristo,
dove la spiegazione che egli propone si congiunge strettamente all’«oggi»
della celebrazione liturgica872. Se ci si ricorda della sua infanzia
benedettina, anch’egli avrebbe potuto dire a buon diritto: «Devo alla
liturgia, alla celebrazione dei misteri cristiani, la metà di ciò che ho
percepito in teologia»873.

I Padri e specialmente sant’Agostino


Il metodo scolastico delle «autorità» obbligava ogni autore
medievale a suffragare la più piccola affermazione ricorrendo alle
testimonianze del passato che l’avevano sostenuta. Il procedimento è
rapidamente degenerato e, quando non si riusciva a far dire a questi
testimoni ciò che in realtà non dicevano, esso è diventato a volte un
meccani-: smo formale senza anima. Tuttavia non è possibile dimenticare
869 Responsio de 43 articulis, Prol., Leon., t. 42, p. 327; Tommaso
aveva ricevuto questa lettera alla vigilia «durante la celebrazione della messa». Alcune
pratiche per noi sorprendenti lo erano indubbiamente meno all’epoca; nel secolo
precedente, Pietro il Venerabile parla anch’egli di una lettera di uno dei suoi religiosi che
ha letto durante l’Ufficio.
870 Tanto più che c’è un altro passaggio in cui Tommaso dice di
compensare con lo studio il fatto di non poter assistere all’Ufficio, De substantiis
separatis, Prol., Leon., t. 40, p. D 41; ma non si può fare altro che speculare sulle ragioni
di questo fatto, cf. Tommaso d‘Aquino. L'uomo e il teologo, pp. 249-251.
871 A tal proposito sarà utile leggere L.G. WALSH, Liturgy in thè
Theology of St. Thomas, «The Thomist» 38 (1974) 557-583.
872 Cf. sopra, cap. VI, p. 163.
873 Y. CONGAR, Une vie pour la vérité. Jean Puyo interroge le Père Congar,
Paris 1975, p. 30; cf. ID., La Tradition et les traditions, t. 2. Essai théologique, Paris 1963, pp.
183-191.
432
che questo ricorso ai Padri costituisce una parte integrante di quanto vi è
di meglio nel metodo teologico. La maggior parte delle volte, almeno in
Tommaso, si può vedere in esso un segno di attitudine ecclesiale: il
teologo non pensa isolatamente e non cerca l’originalità ad ogni costo, egli
vuol essere piuttosto l’eco di una tradizione. Questo è quanto testimonia la
composizione della Catena aurea e si è spesso notata l’influenza decisiva
che quest’opera avrebbe avuto nel seguito del lavoro di Tommaso 874.
Meno originale forse di quanto non lo si volesse un tempo, egli appare in
questo modo meglio inserito nella grande Tradizione della Chiesa.
Molti lavori di dettaglio restano ancora da fare per valutare più
esattamente tutto ciò che Tommaso deve ai suoi predecessori, greci e
latini, ma non si potrà percorrere questo libro senza osservare
l’onnipresenza di sant’Agostino. Tommaso si è discostato da lui su alcuni
punti decisivi, ma l’influenza di Agostino sul commento di san Giovanni è
patente. Parimenti, la colorazione agostiniana della dottrina del Corpo di
Cristo è incontestabile: Tommaso legge san Paolo con l’aiuto di Agostino.
Questi non sono gli unici luoghi in cui si può constatare tale influenza. Le
circa duemila citazioni di Agostino che si possono individuare nella
Somma di teologia evidentemente non sono tutte «decorative», esse
testimoniano piuttosto un «dialogo ininterrotto» con lui 875. Questo in parte
relativizza le contrapposizioni fino a poco tempo fa ancora
sistematicamente praticate tra i due autori e in parte forse spiega anche
l’evoluzione della spiritualità personale di Tommaso stesso 876.

Il eredità domenicana
La scelta di Tommaso a favore dell’Ordine domenicano invece di
quello benedettino - e forse di altri ancora - lo ha spinto a identificare la
sua causa personale con quella della sua famiglia religiosa con una voga
inaspettata da parte sua. Ciò lo si scopre con assoluta evidenza nel suo
atteggiamento e nei suoi scritti sulla vita mendicante, considerando il
modo in cui parla della povertà, dello studio, dell’insegnamento e della
missione di predicazione universale877. Prescindendo dal clima di rivalità e
874 Cf. L.-J. BATAILLON, Saint Thomas et les Pères: de la Catena à la Tertia
Pars, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 15-36; G. EMERY, Le photinisme et ses précurseurs chez
saint Thomas, RT 95 (1995) 371-398.
875 Questa felice espressione è di L. Elders.
876 Cf. Tommaso d'Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 275-278.
877 Si può rileggere qui il nostro Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo,
cap. V: «L’avvocato difensore della vita religiosa mendicante»; si veda anche il cap. XIV,
433
addirittura d’ostilità tra secolari e regolari che regnava allora, nessun
maestro secolare di quell’epoca avrebbe potuto scrivere quelle pagine, è
nemmeno un maestro francescano878.
Questa presenza domenicana la si coglie benissimo seguendo le
tappe della vita e della formazione intellettuale e religiosa del giovane
Tommaso. Se non si può tacere sul tempo trascorso a Montecassino e a
Napoli, tanto più non si potrebbero mai sopravvalutare i lunghi anni di
formazione in compagnia di sant’Alberto. E seguendo costui che egli si è
impegnato in teologia nella duplice via simultanea del rispetto della
sapienza antica (Aristotele) e della riverenza nei confronti del mistero
trascendente di Dio (Dionigi), come pure è anche al Maestro di Colonia
che egli deve, tra l’altro, alcune intuizioni maggiori della sua teologia
trinitaria della creazione.
A volte non si può che intuire ciò che Tommaso ha ricevuto
dall’ambiente di Saint-Jacques, e resta tanto da fare per precisarlo ulte-?
riormente. Oltre al fervore religioso di una fondazione ancora giovane,?
quali ricchezze umane e quali risorse di biblioteca egli non ha trovato in
questo luogo privilegiato, fin dall’origine legato all’Università! Tutto ciò
che c’era di più vivente nella cristianità di quell’epoca trovava ini esso, se
non sempre l’origine, almeno la sua più immediata ripercussione. E
indubbio che l’accoglienza di tutte le novità intellettuali, greche, arabe ed
ebraiche, così intimamente mescolate, abbia contribuito a svegliare e
mantenere viva in Tommaso la curiosità intellettuale, l’apertura della
mente, l’attitudine di accoglienza positiva di tutto ciò che esiste di valido
nella cultura umana. Tuttavia il segno più evidente dell’ambiente
intellettuale e spirituale di Saint-Jacques potrebbe ben consistere
nell’attenzione accordata alla Sacra Scrittura che in lui è così
sorprendente. Senza vedere in ciò un’esclusività domenicana, si può
certamente riconoscere però l’eredità dei grandi lavori di Ugo di San; Caro
e della sua «équipe».
Si ringrazia Tommaso, e giustamente, per la grande chiarezza del
suo insegnamento dogmatico, identificando volentieri la missione
domenicana con la difesa della fede. È indubbio che san Domenico ne sia
stato qui l’ispiratore879. Checché ne sia delle deformazioni posteriori, ciò

pp. 412-413.
878 Lo si capirà facilmente se si pensa soltanto alla diversa concezione della
povertà nei due Ordini.
879 Per non appesantire questa conclusione moltiplicando i riferimenti ad
una realtà d’altro canto supposta conosciuta, rinviamo una volta per tutte all’opera
434
che è principale nell’uno e nell’altro è l’attaccamento alla verità - si è
notato abbastanza che ueritas è la prima parola della Somma contro i
Gentili come pure della Somma di teologia? -. Per l’uno come per l’altro,
l’atteggiamento principale consiste dunque nella contemplazione della
verità - i racconti dei testimoni sono inequivocabili - ma la volontà di
comunicarla ne è inseparabile. Infatti Tommaso e Domenico - seguendo il
Cristo di san Giovanni - sanno che soltanto la verità salva e rende liberi e
che in essa si trova la realizzazione, la salvezza e la felicità dell’uomo.
Con la sua teologia e la sua spiritualità della vita apostolica, Tommaso
raggiunge perciò Domenico in una comune passione per la salvezza altrui.
Annunciare a colui che ne fosse privo ciò che si è percepito della verità
evangelica, significa venire in aiuto alla sua più grande miseria e
partecipare all’atto supremo della misericordia divina.
Più raramente osservato, forse, c’è un altro aspetto che sarebbe
impossibile dimenticare e che si scopre sempre di più: l’apporto più
innovativo della Somma risiede non nella sua parte dogmatica ma in quella
morale, la Secunda Pars. Ora, ciò trova esattamente la sua origine nella
così feconda epoca di Orvieto, durante la quale Tommaso era incaricato
della formazione dei fratres communes in vista della predicazione e della
confessione. Allora certamente egli aveva potuto constatare i limiti della
formazione domenicana corrente, ma è proprio la fedeltà a questo compito
ricevuto dall’Ordine che lo ha spinto a sviluppare il suo proprio genio 880.
Se passiamo a delle opzioni più immediatamente spirituali, le
influenze sono forse meno dirette, tuttavia però reperibili. San Domenico
non ha lasciato altro ai Frati predicatori che il suo proprio esempio di
povertà, di preghiera per i peccatori, di mortificazione volontaria, di studio
costante, di predicazione instancabile e la sua preoccupazione per una
formazione intellettuale adatta per i frati. La sua influenza è stata decisiva
e ha trovato la sua forma istituzionale nelle Costituzioni dell’Ordine,
tuttavia egli non ha lasciato un metodo spirituale come altri fondatori.
Perciò è ammesso che, sebbene vi siano «correnti domenicane» di
spiritualità, non si può dire propriamente parlando che esista una «scuola
domenicana» di spiritualità 881. Indubbiamente si può vedere una traccia di
quest’attitudine nel fatto che nemmeno in Tommaso troviamo un metodo
spirituale. Sebbene spesso si trovino in lui delle allusioni e delle forti
fondamentale di M.-H. VlCAlRE, Histoire de saint Dominique, 1. Un Homme évangélique\ 2.
Au coeur de l’Église, 2 tt., Paris 1982; più breve, ma molto suggestivo: G. BEDOUELLE,
Dominique ou la gràce de la parole, Paris 1982.
880 Cf. Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 141-143.
881 Cf. sopra, cap. XIV, nota 76.
435
motivazioni spirituali, e che si possa individuarle, come abbiamo tentato
di fare, non vi è tuttavia una spiritualità tomistica data in anticipo.
E direttamente in relazione al fondatore dei Predicatori, si può anche
osservare che san Domenico si è energicamente rifiutato di essere
chiamato «abate» dai suoi, volendo esprimere così che egli non si
considerava chiamato a comandare la loro coscienza, ma voleva essere
semplicemente tra loro il priore, «fra» Domenico 882. L’insistenza di
Tommaso sulla virtù di prudenza e sulla coscienza come regola del-;
l’agire personale ha sì una giustificazione teologica, ma può anche esse-;
re letta come traduzione di quest’appello alla responsabilità personale: che
Domenico rivolgeva così ai suoi. In una teologia spirituale alla; scuola di
san Tommaso, la persona trova in se Stessa la norma del prò-; prio agire;
abitata dallo Spirito, essa è la sua propria legge. Certo, può : consigliarsi e
informarsi, ma è lei che decide. Se dunque nella spiritualità tomistica vi è
posto per il consiglio di un maestro spirituale, tuttavia non si troverà in
essa niente di paragonabile al ruolo di un direttore di coscienza che può
avere un posto determinante in altre spiritualità 883. In ciò forse non si ha la
minor eco dell’eredità domenicana di Tommaso d’Aquino.
All’inizio di questo libro avevamo lasciato sospesa la questione di:
sapere se vi fosse una spiritualità propria di san Tommaso. Senza far parte
di quegli incondizionati stigmatizzati da Umberto Eco 884, crediamo che si
possa rispondere affermativamente. D’altro canto ora ciascuno può
giudicare da solo. Senza pretendere di aver ripreso qui tutto ciò che
meritava di esserlo, si è tuttavia proposta una buona quantità di elementi
che permetteranno a ciascuno di valutare più esattamente la collocazione
di Tommaso come autore spirituale con una propria fisionomia.
Questo non significa che egli è innovativo su ogni punto. Dopo aver
ricordato, come abbiamo appena fatto, la grandezza del suo debito,
sarebbe rendergli davvero un cattivo servizio il pretendere che egli abbia
inventato tutto. Al contrario, bisogna riconoscere che vi è in lui, come in

882 Eppure già il suo primo successore gli accorda il titolo di «padre», cf.
Libellas, n. 109, in M.-H. VICAIRE, Saint Dominique et ses frères. Evangile ou
GIORDANO DI SASSONIA,
Croisade?, Paris 1967, p. 132.
883 Cf. il nostro art. in DS, col. 769; ancora una volta sono felice di
sottolineare qui il mio accordo con il penetrante saggio di W.H. PRINCIPE, Thomas Aquinas’
Spirituality, in cui si osserva (pp. 24-25) che il self-counseling è l’implicazione diretta della
dottrina di Tommaso sulla prudenza.
884 Ci si ricorderà della sua valutazione non priva di ogni verità:
«Tommaso d’Aquino ha la sfortuna di essere letto più da “fans” che da storici», U. Eco,
Le problème esthétique chez Thomas d’Aquin, p. 9.
436
molti autori dell’epoca - Alberto o Bonaventura, per non citare che i più
grandi dei suoi contemporanei -, un fondo di pensiero cristiano
praticamente invariabile. Soltanto la misconoscenza di un enorme numero
di scritti di quell’epoca ha potuto far sì che un tempo si formulassero dei
giudizi la cui parzialità, per non dire erroneità, oggi ci sorprende.
Tommaso ci appare al contrario molto meglio collocato e non è meno
grande per il fatto che lo vediamo più da vicino.
Perciò non bisogna cercare la sua specificità in tale o tal altra
caratteristica più o meno artificialmente isolata, ma appunto nella totalità
di un pensiero che mantiene uniti in un equilibrio che raramente viene a
mancare, vari aspetti facilmente sacrificabili l’uno all’altro 885. Basta
pensare al modo in cui egli sostiene contemporaneamente l’aspirazione
dell’uomo a vedere Dio - alla quale tiene al di sopra di ogni cosa, dato che
non può concepire un’altra felicità ultima per l’umanità - e l’apofatismo
della tradizione cristiana orientale che gli insegna il senso del mistero
sempre più grande, e nel quale l’uomo si perderà molto più di quanto non
lo comprenderà. Si pensi inoltre soltanto al modo in cui egli sottolinea con
Agostino la necessità della grazia affinché sia realizzabile una piena
riuscita umana e, allo stesso tempo, alla robusta salute intellettuale che
ispira il suo apprezzamento della bontà innata della creazione. Poiché i
frati predicatori fin dall’inizio hanno dovuto lottare contro l’idea catara di
un mondo cattivo, non bisogna vedere qui una nuova traccia della sua
appartenenza domenicana?
Se, tra le tante altre cose che avrebbero potuto trovare un posto in
questo libro, abbiamo limitato il nostro sforzo alla presentazione dei due
soggetti principali, Dio e l’uomo, è certamente per mettere in evidenza il
carattere dialogico dell’avventura spirituale, in cui oggi prosegue, in
quest’epoca della salvezza qual è la nostra, l’Alleanza stabilita un tempo
da Dio con il suo Popolo. Come pure, così facendo, abbiamo voluto
sottolineare la profonda unità che presiede alla visione to- masiana delle
cose. Inaccessibile nella sua trascendenza, Dio-Trinità non smette di
essere presente in questo mondo uscito dalla sua volontà creatrice, e le tre
Persone sono tanto inseparabili nella loro opera nella storia, quanto lo
885 Alcuni lettori ricorderanno forse quanto abbiamo detto
precedentemente ispirandoci ad un suggerimento di S. Pinckaers ( Les sources de la morale,
pp. 121- 123): «1) Se si usa il metodo del residuo - eliminando successivamente tutto ciò che
si trova altrove in una maniera o nell’altra - conservando soltanto l’infimo nucleo che ha
resistito a tale decapaggio, certamente non si troverà niente di originale in Tommaso. 2) Se
si usa il metodo degli insiemi, si osserverà invece che egli propone una dottrina che onora
simultaneamente e in un equilibrio dinamico la quasi totalità dei dati evangelici. Questo
forse è più raro», DS 15, col. 772.
437
sono nell’unità della loro vita intima dall’eternità. E neppure l’umanità che
si trova al loro cospetto forma una collezione più o meno disparata di
individui isolati in un mondo in cui si trove

438
rebbero per caso. Essa è vista con lo sguardo stesso di Dio, unita a
quella creazione che ha la missione di umanizzare, essendone parte in
causa alla radice; finalizzata, perfino senza saperlo, dalla ricerca della
beatitudine; profondamente unificata, almeno in germe, nella Chiesa -
Corpo di Cristo, primizia dell’unione definitiva nella patria.
Simultaneamente; persona e comunione, l’«umanità» di Tommaso è fatta
proprio a immagine della comunione trinitaria e questo caratterizza in
maniera indelebile il suo approccio alla spiritualità.
Sigle e abbreviazioni
Sono elencate qui sotto le sigle correntemente usate nelle note e
nella bibliografia. I titoli dei libri o articoli citati in modo abbreviato
hanno la loro segnalazione completa nella bibliografia.

AFP Archivum fratrum praedicatorum, Roma.


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ALMA Archivum Latinitatis medii aevi, Bruxelles.
BA Bibliothèque augustinienne (Œuvres de saint Augustin),
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CCSL Corpus Christianorum - Series Latina, Turnhout.
DC La Documentation Catholique, Parigi.
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INDICI
Indice dei temi e dei termini principali

467
468
Abito: 22-23 ; 300-301; a. entriamo in comunione, in
operativo, 301-302; a. creato di koinonia con Dio, 381-383; è la
carità, 207. beatitudine in germe, 399; ha
Amicizia: la sua dimensione vari gradi, 406-409; fa parte
sociale, 313-315; l’uomo non della sua natura crescere
può essere felice senza amici incessantemente, 406-409;
318-319; la carità è una. 380- madre e «forma» di tutte le
384. virtù, 404-406; niente può
Anima della Chiesa: 215-221. dispensarne e senza di essa il
Appropriazione trinitaria: cristiano è un niente, 402-403;
definizione, 182-185; permette 410-412.
di attribuire allo Spirito Santo Chiesa: Corpo di Cristo, 169-173;
tutto ciò che dipende partecipa alla triplice qualità
dall’economia della salvezza, messianica del suo Capo, 173-
186-198. 175; comunione dei santi, 221-
227; Lo Spirito Santo è la sua
Beatitudine: comanda la teologia «anima», 217-221; è il suo
morale, 96-100; il Verbo si è cuore, 221-222; congregatio
incarnato per aprirci la strada fidelium, 226; risponde alla
della b., 126-131; è la natura sociale dell’uomo, 329-
comunione con Dio, già 335; è contemporaneamente
cominciata in questa vita, «città» e «collegio»,
compiuta nella gloria, 377-379; «famiglia», «popolo», 331-
ciò che è, ciò che non è, 393- 334; il suo rapporto ai
397; fa entrare in gioco tanto sacramenti,
l’amore quanto l’intelligenza, 334- 335; la sua relazione allo
390-391; soltanto essa può Stato,
appagare il nostro desiderio, 335- 340.
391-393; 396-397; vedere Comunione, comunicazione: 316-
«Fede», «Speranza», 319; 381-384.
«Escatologia». Connessione delle virtù nella
Beatitudini: si distinguono dai prudenza e nella carità: 308-
frutti dello Spirito Santo come 312.
opere più perfette, 247-250; Coscienza: definizione, 357-358;
sono un anticipo della c. e sinderesi, 356-359; il suo
beatitudine della patria, 250- obbligo è quello della legge di
251. Dio, 358-359; c. erronea, 360-
Bene comune: al di sopra del b. 364.
particolare nell’ordine naturale, Creazione: c. e Trinità, 71-76;
325- 328; ma il b. di grazia di assomiglia al suo Creatore, 77-
uno solo prevale sul b. naturale 81; la sua presenza in Dio, 81-
di tutto l’universo, 353-354; 82; è avvenuta nel tempo, 262;
persona e b. c., 351-355. relazione di dipendenza
dell’essere creato nei confronti
Carità: è un’amicizia con Dio, del Creatore, 262-266; Dio crea
380-384; per mezzo di essa per pura bontà, la sua c. è essa
469
stessa buona, 267-269. Tetra- gramma, 58-62;
Credibilia'. 23-24. inconoscibilità di D. e visione
Cristo: la sua collocazione nel dell’essenza divina, 37- 41; 62-
piano della Somma, 70-71; 65; D. è principio e fine di tutte
119-124; DODI; nostro le cose, 67-71; la sua presenza
cammino verso Dio, 119-120; nel mondo, 82-87; il suo amore
140-145; l’Immagine perfetta per il mondo, 90-91; 93-95;
di Dio, 102; l’Esemplare di non è implicato nelle nostre
tutta la creazione, 122; 134- sofferenze, 93.
136; nostro modello, 132-141; Divinizzazione: 147-149; 420-
modello di tutte le perfezioni, 421.
413-416; la sua presenza e il Doni dello Spirito Santo: si
suo agire salvifico nella fede e distinguono dalle virtù, 236-
nei sacramenti ci rende 237; dati con la carità, 233-243;
conformi a lui nei suoi diversi necessari alla salvezza, 243-
«misteri», 162-168; principio 244; dati per aiutare le virtù,
di ogni grazia così come Dio è 243-244.
principio di tutto l’essere, 169-
171; vedere anche Ecologia: 274-276.
«Imitazione» e «Sequela» diC. Escatologia: le virtù teologali
Cristologia e teologia morale: fanno assaggiare la felicità
120-124. della patria: 364-373; vedere
Cuore della Chiesa: 221-222. anche «Fede», «Speranza,
«Carità», «Beatitudi- ne/i».
Deificazione: vedere Esempio: la sua forza prevale su
«Divinizzazione». quella delle parole, 132-133;
Desiderio: fede e speranza 136-137.
ravvivano nell’uomo il d. della Esemplarismo, morale e
patria celeste, 367-370; la ontologico: 135; 146-147; 419.
preghiera è il suo interprete, Esperienza: implica un contatto
373-376; d. naturale di vedere diretto, affettivo e non solo
Dio, 386-391; non sarà intellettuale, 113-115;
appagato che nella beatitudine, conoscenza sperimentale di
391-393. Dio, 111-116; è una
Dio: la sua esistenza, 35-37; non conoscenza da cui sgorga
si può conoscere «ciò che egli l’amore, 115-116.
è», 37-41; ma se ne può avere Evangelismo di fra Tommaso e
una conoscenza analogica della sua dottrina: 412-413.
mediante la causalità, Exitus-reditus-, schema circolare e
l’eminenza e la negazione, 51- piano della Somma, 68-71; la
54; la via negativa come creazione nel prolungamento
esercizio di spoliazione, 42-45; delle processioni trinitarie, 71-
apofatismo e conoscenza di D., 75; l’immagine di Dio è il
47-49; i nomi di D. lo luogo a cui si allaccia il
significano senza rinchiuderlo movimento di uscita- ritorno,
in una definizione, 54-57; il 104-105.
470
Fede: virtù teologale, 13-15; 23- nell’anima in atto d’amore e di
25; assaggio della beatitudine conoscenza di Dio,
futura, 366-369; quasi abito dei 104- 109; la sua suprema
primi principi della teologia, somiglianza si raggiunge nella
22-23. patria, 116- 118.
Fine ultimo dell’agire umano: Inabitazione della Trinità
vedere «Beatitudine». nell’anima: 109-111.
Frutti dello Spirito Santo: sono le Incarnazione del Verbo: il suo
buone azioni che l’uomo motivo e la sua convenienza,
compie sotto la mozione dello 86-89; 124- 131.
S., 245-247. Inclinazioni della legge naturale:
322- 325.
Gioia: accompagna la virtù, 303- Istinto dello Spirito Santo: 238-
305. 240.
Grazia: soltanto Dio può darla
poiché essa ci rende Koinonia: vedere «Comunione,
«deiformi», 147- 149; comunicazione».
l’umanità di Cristo ne è lo Legge: nuova, 229-231; 1. e
«strumento», essa lascia in noi libertà, 232-234; 1. naturale,
la sua impronta e ci rende 319-323; per mezzo della 1.
conformi anche a Cristo, 149- l’uomo diventa la sua propria
152; la g. di Cristo si comunica provvidenza, 325-327;
al suo Corpo, la Chiesa, 170- necessaria ad ogni comunità,
173; che diventa così un Corpo 325- 328.
sacerdotale, regale e profetico,
173-175; g. dello Spirito Santo: Magnanimità: 304.
non si identifica con la terza «Misteri» della vita di Cristo: 153-
Persona della Trinità, è un dono 155; esercitano un’azione
creato, 205-210; in rapporto efficace nel dono della grazia,
alla natura dell’uomo essa è un 155-157; in modo che la loro
«accidente», 208-209; non influenza salvifica ci raggiunge
distrugge la natura, ma la realmente oggi, 157- 162.
conduce alla sua perfezione, Mondo: creato da Dio, esso è una
287-288. cosa buona, 267-276; non vi
sono tracce di «disprezzo» per
Imitazione di Cristo: 136-145; la creazione nell’opera
413- 416; e di Dio, 131-135; tomasiana, 276-279; il m. e i
167-168. suoi valori meritano rispetto e
Immagine di Dio: il ruolo di impegno, 273-276; 285-286;
questo tema nella costruzione messa in guardia contro le
della Somma, 97-100; 121-123; attività secolari che rischiano di
deve tendere alla somiglianza, sostituirsi all’unico fine
100-103; l’uomo ad immagine ultimo,, 279-284; vedere anche
della Trinità, «Creazione».
103- 107; i suoi tre gradi, 104- Mutakalimoun o motecallemin:
106; si riscontra meglio 270.
471
Passioni: definizione, 295-296; S., 119-124; 130-131.
sono materia soggetta a Speranza: virtù teologale, 369-
modifiche da parte delle virtù, 373; la preghiera è l’interprete
296-300. del suo desiderio, 373-376; la
Persona umana: ciò che c’è di più sua dimensione escatologica,
nobile nel mondo, 350-352; e 377-381.
bene comune, 352-354. Spirito Santo: onnipresenza
Preghiera: 373-377. nell’opera di Tommaso, 177-
Presenza (di Dio nella sua 181; compreso nella sua
creatura): p. d’immensità, 84- predicazione, 198-200;
86; p. di grazia, 86; 109-111; p. processione per modo di
mediante l’unione ipostatica, Amore sussistente, 210-215 ;
86-89. processione eterna e missione
Principi della teologia: 16-17. temporale, 201- 204; conduce i
Processione: p. intradivina e credenti al Figlio e mediante lui
creazione, 71-76; 201-204; p. al Padre, 252-255; per
dello Spirito come Amore del appropriazione gli sono
Padre e del Figlio, 210-215. attribuiti creazione e governo
Prudenza (virtù del rischio): 307- dell’universo, 92-93; 186-188;
311; p. e virtù morali, 308-311; sempre collegato a Cristo, 171-
p. e carità, 311-312. 173; 234-235; ci rende figli
Pusillanimità: 305. adottivi, 193-194; ci rende
Sacra doctrina-, i suoi due sensi, conformi a Cristo e a Dio, 168;
10; i suoi tre principali 192-194; ci rende amici di Dio,
elementi: «speculativo», e così la Trinità abita in noi e
«storico-positivo», «mistico», noi in Dio, 189-191; è colui per
10-12; quasi impressici diuinae mezzo del quale Dio rivela il
scientiae, 25-26. suo segreto, 191-192; colui che
Sacramenti: è mediante essi che anima i predicatori, 191; tutti i
giunge a noi l’azione salvifica doni spirituali provengono da
dei «misteri» della vita di lui, 191-193;
Cristo, 162- 163; il loro ruolo compresa la remissione dei
nella costruzione della Chiesa, pecca- ri. 194; ci fa vivere in
334-335. un'intima amicizia con Dio e
Sapienza umana e sapienza accorda là nostra volontà alla
evangelica: 280-282. sua in una perivi ia libertà, 194-
Scienza (nozione aristotelica): 198; è il vincolo d’amore che
verità- principio e verità- custodisce nell’unità: la
conclusione, 16. comunione ecclesiale, 215-221;
Sequela di Cristo: 136-145; 413- è la sua «anima», 217-221; è il
416; vedere anche «Cristo» e suo «cuore», 220-222; è il
«Imitazione». fautore principale della legge
Sinderesi: 356-358. nuova, 229-232; è lo S. di
Somma di teologia-, lo schema libertà, 229-232; e di verità, dal
circolare della S., 66-71; il quale proviene tuttodì vero e
posto di Cristo nel piano della tutto il bene, 251-253; vedere
472
anche «Doni», «Frutti», ridurre quella di Dio, 271;
«Beatitudini». collabora all’opera di Dio come
Spirituale e temporale: distinzione un agente libero e responsabile,
delle competenze tra Chiesa e 272-273; confine tra materia e
società civile, 335-340; lo spirito, l’u. è un microcosmo,
spirituale ha delle ripercussioni 288-291; non è né il suo corpo
nel campo temporale, 340-348. né la sua anima, ma il
Spiritualità: tre sensi, 28-30; composto dei due, 291-293; è il
sapere speculativamente pratico vero soggetto del suo atto
e pratica- mente pratico, 30-31; d’intellezione, 293- 294;
dimensione trinitaria, 418-420; animale «politico» o «sociale»,
oggettiva e realista, 421-422; 316-319; è per natura «capace
umana ed ecclesiale, 423-424; di Dio», 391-393; l’u. spirituale
deve molto alla liturgia, a san ha le qualità stesse dello
Paolo, a san Giovanni e ia Spirito, 228- 229; 233; vedere
sant’Agostino, 425-429; come anche «Passioni», «Persona».
pure all’eredità domenicana,
429-432. Al Vestigia: vedere «Trinità».
Subalternazione (della teologia): Virtù: definizione, 298-302; abiti
15- 18. operativi buoni, 302-303; v.
Supposizione impossibile: 92. infuse, 305-307; v. teologali,
305-306; 364- 384;
Teologia: t. e fede, 12-15; t., connessione nella prudenza e
principi, 16-17; t. e preghiera, nella carità, 308-312; sono
26-28; t., sape-: re accompagnate dalla gioia, 303-
contemplativo, 26-28; t., sapere 304.
pratico, 21-22; t., scienza Visione beata: 37-41; 62-64; 391-
«subaltèrna», 15-18; t., 393.
«soggetto» e oggetto, 18-20; t. Vita religiosa: 282-283; 408-409.
e visione di Dio, 15-18.
Trinità: T. e creazione, 71-76;
motivo della sua rivelazione,
76-77; vestigia della T., 78-81;
le tre Persone sono all’opera
nel governo dèi mondo, 90-93;
processione dell’À- more in
seno alla comunione trinitaria.
201-204.
Tristezza: 302-305.
Uomo (vedere anche «Immagine
di Dio»); riceve la propria
dignità dal suo Creatore che gli
ha permesso di esserne causa a
sua volta, 268- 272; attentare
alla dignità dell’u. significa
473
Indice dei nomi

474
475
Aelredo di Rievaulx: 314 Aertsen Bernardi K.: 275
J.A.: 70, 268 Agostino (s.): 11, Berrouard M.-F.: 144, 254
12, 13, 14, 18, 38, 39, 53, 74, 78,Berteaud E.: 385
79, 80, 81, 82, 88, 94, 101, 105, BetzJ.: 10
108, 109, 115, 124, 125, 129, 132, Beumer J.B.: 260
133, 140, 142, 144, 145, 150, 171, Bianchi L.: 272,391
182, 184, 185, 186, 187, 205, 210, Bianco M.G.: 210, 225
213, 215, 218, 230, 231, 238, 239, Biffi 1:9, 68,114,154,231,421
240, 245, 247, 254, 290, 315, 319, Blythe J.M.: 341,343,345
323, 325, 334, 364, 379, 392, 393, Boezio: 350
394, 407, 410, 425, 428, 429, 433 Bonaventura (s.): 19, 39, 41, 67,
Aillet M.: 427 Alberigo G.: 424 68, 71, 185, 246, 272, 279, 293 ,
Alberto Magno (s.): 40, 41, 48, 294, 335,339, 348,385,407,432
51, 67, Bonino S.-Th.: 268,330,341
68,71,335,339,340,407,429,432 Borgonovo G.: 356 Borresen
Alessandro d’Afrodisia: 126 K.E.: 104 Bouessé H.: 87, 158,
AlfaroJ.: 173 159, 161 Bougerol J.-G.: 370,407
Ambrogio (s.): 247,251,252 BouiUard H.: 180,239
Anseimo (s.): 12,13, 14, Boulnois O.: 390
82,124,125, 212,182,185 Antonio Bourassa F.: 215
Eremita: 316 Appuhn Ch.: 326 Bourgeois D.: 367
Araud R.: 360 Bouthillier D.: 6, 90, 140,181,
Aristotele: 10, 17, 50, 101, 126,
127, 128, 133, 155, 163, 190, 192, 408
197, 225, 230, 234, 237, 239, 245, Boyle L.E.: 339
261, 279, 291, 299, 303, 304, 306, Bracken J.: 125
310, 313, 314, 316, 317, 318, 319, Brady L: 205
324, 329, 333, 341, 343, 344, 358, Brazzola G.: 322
381, 382,393,394,398, Bréhier É.: 317
404,425,429 ArnouÌd J.: 263 Breton S.: 268
Atanasio (s.): 150 Aubert J.-M.: Bühler P.: 96, 99,104
321 Busa R: 138,252,277
Averroè: 84,126, 294 Avicebron Buytaert E.M.: 47, 149
(Ibn Gebirol): 270 Avicenna: 85 Buzy D.: 248
BaiUeux É.: 77,168,170,193 Callahan A.: 314 Calvis Ramirez
Barzaghi G.: 263 A.: 178 Canto-Sperber M.: 306
Bataillon L.-J.: 199, 200,276, 428 Capelle
Caquot
C.: 104 Capreolo: 11
A.: 58 Casel O.: 159s.
Bazan C.B.: 261 Cassiodoro: 138 Castaño S.R.:
Bedouelle G.: 430 338 Cenacchi G.: 274 Cesare
Bekker: 341 C.G.: 338 Cessano R.: 125
Belmans T.G.: 356 Chardon L.: 5, 118, 140, 168, 169
Benedetto (s.): 30 Chardonnens D.: 8, 159,352, 423
Bermudez C.: 194 Chatillon J.: 272
Bernard Ch.-A.: 245, 370, 375 Chenu M.-D.: 6, 16, 26,39, 263,
Bernard R.: 246, 248,366 274, 298,412,424 Chevalier J.:
Bernardo (s.): 314 354
476
Cicerone M.T.: 296, 314, 324, 339 Florand F.: 5
326, 425 Follon J.: 268,327
Cirillo di Gerusalemme (s.): 150 Fouilloux E.: 424
Clemente Alessandrino: 210, 225 Francesco ¿’Assisi (s.): 30,
Coggi R: 32 Cointet P. de: 144 424 Fries H.: 10 Froidure
Colombo G.: 131 Combles A.: M.: 179
113
Congar Y.: 5, 10, 20, 24, 29, 128, Gaetano (il): 11, 158, 186, 245,
171, 173, 177, 216, 217, 218, 389, 390
221, 225, 330, 332, 333, 335, Gaillard J.:
340, 345, 418,428 157,159
Conus H.-T.: 149 Gandillac M. de:
Corbin M.: 87, 126 48 Gardeil A.:
Couesnongle V. de: 245
155 Cunningham Gardeil H.-D.: 16, 99, 101, 380,
F.L.B.: 109 388, 389
Garrigou-LagrangeR.: 407
Dabin P.: 173 Dachs H.: 342 Gauthier R.-A.: 305,317, 319, 371
D’Ancona Costa C.: 49,289 Geffré C.: 54 Geffre Cl.-J.: 159
Dasseleer P.: 268 Dawney M.: Geiger L.B.: 78, 100,291
348 Decker B.; 426 DedekJ.F.: Geiselmann J.R.: 150 Gervais M.:
113 Deman Th.: 356, 400, 421 93,264 GerwingM.: 154 Gillon
Dionigi Areopagita (Pseudo-): 39, L.-B.: 120,398 Gilson É.: 31, 36,
40, 42, 47, 48, 49, 50, 52, 68, 74, 44, 47, 50, 69, 83,
88, 101, 108, 114, 127, 148, 169, 263,270,295,426 Gioacchino da
288, 378,403,420,429 Dockx S.: Fiore: 235 Giordano di Sassonia:
217,221 Domenico (s.): 137, 237, 431 Giovanni Crisostomo (s.): 81,
412, 413, 424, 425, 430, 432 141, 142,176,247
Dondaine H.-F.: 39, 40, 41, 76,
77, 118,182,185,186,212 Giovanni Damasceno (s.): 39, 40,
Donneaud H.: 366 D’Onofrio G.: 47, 56,
10,16 Downey M.: 28 Dumont C.: 97,99,148,149,150,169,171
20 Dupuy M.: 28 Giovanni della Croce (s.): 30, 80,
385 Giovanni di S. Tommaso:
Eco U.: 268, 432 Egidio di Roma: 11,241 Girolamo (s.):
341 Elders L.: 181,231,356, 429 58,277,356,415 Goicoechea D.:
Elisondo Aragon F.: 113 Emery 314 Grabmann M.: 221 Gregorio
G.: 51, 68, 71, 74, 96, 148 Magno (s.): 37, 38, 63, 244,
187,214,265,428 Emonet P.-M.: 254,310,410
291 Erasmo Ambrosiaster: 252 Gregorio Nazianzeno (s.): 148
Eschmann I.Th.: 327,339 Étienne Grillmeier A.: 153 Grotius: 321
J.: 231 Eunomio: 39 Ewbank Guerrico di San Quintino: 40
M.B.: 50 Guglielmo d’Auvergne: 38 Guyot
B.-G.: 40
Ferraro G.: 181 Filone: 58
Filthaut Th.: 160 Fitzgerald L.P.: Hamer J.: 340
477
Hamonic T.-M.: 380 Hankey Lohaus G.: 154
W.J.: 339 Harding A.: 345 Longpré E.: 246
Hedwig K.: 231 HennW: 24 Heris Lottin O.: 236,356
Ch.-V.: 91 Holderegger A.: 350 Lubac H. de: 360, 390
Hölderlin: 266 Holtz F.: 159 Luyten N.A.: 96
Hubert M.: 67 Huerga A.: 402
Hugueny E.: 400 Madec G.: 145 Maidl L.: 374
Humbrecht T.-D.: 44, 48, 50, 54, Maimonide: 50,58 Mansion A.:
57, 59 291 Manzanedo M.F.: 289, 296,
Hünemörder C.: 275 381 Marc P.: 50, 137
Maritain J.: 30, 31, 36, 37, 94,
Ignazio di Loyola (s.): 30,424 221, 274,322,327,345 Maritain
Ilario (s.): 74, 81 R.: 345 Martinez Barrera J.: 327
Imbach R.: 77,341,345,350
Indicopleustes C.: 107 Marty F.: 289 Maurer A.: 58
Ippolito di Roma (s.): 222 Mauro L.: 296
Ireneo (s.): 348 McEvoyJ.: 268,314,327, 381
Isidoro di Siviglia (s.): 344s. Melloni A.: 336 Mennessier A.-L:
5 Merle H.: 78
Jordan M.D.: 280, 295, 342 Merriell D.-J.: 99,101,106,108,
Jossua J.-P.: 276, 424 Journet Ch.: 109 Mersch E.: 227 Meyendorff
158, 159, 161, 208, 221, J.: 208 Mitterer A.: 329
224,225,329 Moltmann J.: 94,370 Mongillo D.:
99,246,250 Montagnes B.: 80,
Käppeli Th.: 226 Kilwardby R.: 182,233, 280,281, 290,321
21 Kovach F J.: 78 Kühn U.: Morard M.: 334 Motte A.: 283
179,231 KünzleP.:378 Muñoz Cuenca J.M.: 241 Murait
La Soujeole B.-D. de: 215, A. de: 272
318,332 Labourdette M.-M.: 31, Narcisse G,: 87
241, 283, 308, 322, 357, 366, 378, Nautin P.: 222
380, 389, 400,405 Ladrière J.: 424 Nazareno
80
dell’Addolorata:
Nédoncelle M.: 350
Lafont G.: 36, 98,105,109,118 Neels M.G.: 159 Nestorio:
Lafontaine R.: 131,154,159
Lagarde G. de: 320 Lanversin F. 150
de: 400 Laporta J.: 389 Latour J.- Nicolas J.-H.: 37, 82, 84, 94, 110,
160,182,263,291,421 Nicolas M.-
J.: 158 J.: 158, 241,320 Noble H.-D.: 380
Laugier de Beaurecueil S. de: 101
Lavalette H. de: 182 Omero: 316
Leclercq J.: 29 O’Neill C.E.: 96
Lecuyer J.: 158, 159 Origene: 81, 92
Leone Magno: 125 Owens J.: 48
Leroy M.-V.: 283,291
Libera A. de: 294,391,417 Paolo VI: 285
Livingstone E. A.: 105 Parel A.: 101
Lobasto A.: 274 Pascal B.:
478
116,354 60, 92 Seckler M.: 68, 239,378
Patfoort A.: 112, 113, 116, 125, Seidl H.: 93, 250,264 Sentis L.:
179, 186,198 PedriniA.: 181 Pegis 297 Sertillanges A.D.: 263
A.C.: 49, 292 Pelagio o Pseudo- Serverai V.: 262 Sieben H.J.: 163
Girolamo: 29 PelikanJ.: 101 Perez Silesius A.: 81 Silvestro di
Robles H.R.G.: 112 Perotto L.A.: Ferrara: 389 Smalley B.: 412
423 Pesch O.H.: 299, 303,347 Smith J.C: 143
Philippe M.-D.: 93,141 Philips Socrate: 309
G.: 177 Phillis A. Bird: 104 Pietro Solignac A.: 28,29,
d’Auvergne: 341 Pietro di 99,101,105,356, 400, 407
Tarantasia: 265 Pietro il Somme L.: 155,194,370 Stoeckle
Venerabile (s.): 427 Pietro B.: 260 Suarez de Miguel R.: 350
Lombardo: 18, 115, 120, 121, Suarez F.: 158, 400
138, 154,205,207,208,209,252
PinchardB.: 390 Teresa d’Avila (s.): 30,385
Pinckaers S.: 27, 99, 179, 231, Testard L. 324 Tillard J.-M.R.:
238, 245, 295, 323, 324, 350, 356, 225 Tolomeo di Lucca: 341, 343
363, Tolomio L: 339
370,373,389,394,397,423,433 Tonneau J.: 179, 180, 230, 231,
Pinto de Oliveira C.-J.: 104, 308 235, 283
Pio XII: 216, 329 Platone: 225, Torrell J.-P.: 5, 6, 9, 10, 16, 27,
291 Plé A.: 296,300 Plotino: 291 29, 49, 85, 90, 116, 164, 165,
Porter L.B.: 416 181, 191, 197, 347, 395, 408,
Potvin Th.R.: 88, 172 Pourrat P.: 410, 411, 413, 415
407 Prades J.: 86, 110 Tricot J.: 313 Tromp S.: 216
Principe W.H.: 28, 105 , 261, 285, Trottmann C.: 40 Tschipke T.:
313,348,432 Putz G.: 342 PuyoJ.: 159 Tshibangu T.: 16 Tugwell S.:
428 40,413
Quelquejeu B.: 260 Ugo di San Caro: 40, 412,430
Randi E,: 272,391 Re G.: 168 Ugo di San Vittore: 19,39
Reginaldo da Piperno: 145
Reginaldo: 364 Ricci S.: 390 Vaisecchi A.: 131,137 Vanni-
Riklin A.: 342, 345 Rimoldi A.: Rovighi S.: 272 Vannier M.-A.:
131 Rodriguez P.: 225 Roguet A.- 211,394 Vauthier E.: 216,217,218
M.: 151, 250,334 Roques R.: 125 Veer A.C. de: 360 Verbeke G.:
Rublëv A.: 107 Ruether R.R.: 104 289, 425 Verhelst D.: 289
Ruppert G.: 154 Ryan C.: 330 Vicaire M.-H.: 137, 237, 412,
430, 431
Sabra G.: 330 Saffrey H.-D.: Victoria: 321 Villey M.: 346
49,289 Saranyana J.I.: 342 Virgilio: 240 Vivès: 113,173,332
Scheffczyk L.: 153 Schenk R.: Viviano B.T.: 235
138, 364 Schillebeeckx E.: 13,
20,239 Schmitt F.S.: 13, 82,212 Walgrave J.H.: 239
Schmölz: 342 Schockenhoff E.:
295, 370 Scoto Eriugena G.: 39,
479
Walsh L.G.: 427
Wéber E.-H.: 48, 60,250, 261,
290 Wébert J.: 291 Wenin Chr.:
70 Werner H.J.: 275
Wohlmann A.: 58
Zedda S.: 181
Zomparelli B.:
400 Zum Brunn
É.: 56
Indice generale

5
PREMESSA ..................................................................................
9
I. TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ .................................. 9
Sacra doctrina....................................................■................ 12
Una scuola di vita teologale ....................................... 15
Teologia e visione di Dio ............................................ 18
Il soggetto della teologia.............................................. 22
Come un’impronta della scienza divina....................... 26
Una scienza «pia»........................................................ 28
Tre sensi della parola «spiritualità».............................

PARTE PRIMA
UNA SPIRITUALITÀ TRINITARIA

II. L’ALDILÀ DI TUTTO .............................................. 35


Conoscenza e non conoscenza di Dio ......................... 37
La via negativa ............................................................ 42
Dio conosciuto come sconosciuto................................ 45
Una triplice via verso Dio............................................ 51
«Colui che è» .............................................................. 54
Il Nome al di sopra di ogni nome ............................... 58
Dio nessuno l’ha mai visto .......................................... 62
66
III. DIO E IL MONDO.................................................... 66
L’Alfa e l’Omega.........................................................
Trinità e creazione............................................................ pag. 71
L’Artista divino................................................................... » 77
Presenza della Trinità nel mondo........................................ » 81
Dio che ama il mondo ....................................................... » 89
IV. IMMAGINE E BEATITUDINE........................................ » 96
Il principio e il fine............................................................. » 96
L’immagine della Trinità............................................. . >> 100
Immagine e inabitazione..................................................... » 107
L’esperienza di Dio............................................................. » 111
L’immagine in gloria.......................................................... » 116
V. LA VIA, LA VERITÀ, LA VITA.............................. » 119
La via che conduce verso Dio ............................................ » 120
Una nuova via..................................................................... » 124
Imitare Dio imitando Cristo................................................ » 131
Vi ho dato l’esempio........................................................... » 136
La patria e la via.................................................................. » 141
VI. AD IMMAGINE DEL FIGLIO PRIMOGENITO ... » 146
Solo Dio deifica.................................................................. » 147
L’agente e lo strumento...................................................... » 149
I misteri della vita di Cristo ............................................... » 153
Memoria o presenza? ......................................................... » 157
Come una stella invisibile................................................... » 160
La conformità a Cristo ....................................................... » 163
«Il Primogenito di ogni creatura» ...................................... » 168
Un corpo sacerdotale, regale e profetico............................ » 173
VII. PARLARE DELLO SPIRITO SANTO................... » 177
Lo Spirito Santo nelle opere di Tommaso d’Aquino ... » 177
Nomi comuni e nomi propri: l’appropriazione trinitaria » 182
Lo Spirito creatore.............................................................. » 186
La vita nello Spirito ........................................................... » 188
Vieni verso il Padre............................................................. » 194
Predicare lo Spirito Santo................................................... » 198
Vili. IL CUORE DELLA CHIESA.................................... » 201
Amati dell’amore con il quale Dio stesso si ama........ » 201
La grazia dello Spirito Santo ....................................... pag, 205
480
Il Vincolo dell’amore ........................................................ » 2 10
Il legame della carità.......................................................... » 215
Il Cuore della Chiesa ......................................................... » 221
IX. IL MAESTRO INTERIORE............................................ » 228
Dov’è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà....................... » 229
L’istinto dello Spirito Santo .............................................. » 235
Necessità dei doni dello Spirito Santo............................... » 240
I frutti dello Spirito.......................................................... » 245
II Maestro interiore.......................................................... » 251

PARTE SECONDA
L’UOMO NEL MONDO E DAVANTI A DIO

X. UNA CERTA IDEA DELLA CREAZIONE.................... » 259


Una certa relazione............................................................. » 262
«E Dio vide che era cosa buona»....................................... » 267
Una teologia delle realtà intermedie ................................. » 272
Disprezzo del mondo? ....................................................... » 276
Vita religiosa e attività secolari......................................... » 279
XI. UNA CERTA IDEA DELL’UOMO ............................... » 287
L’uomo in discussione....................................................... » 288
Le passioni dell’anima ...................................................... » 295
Natura e cultura: le virtù ................................................... » 298
La gioia di essere salvato .................................................. » 302
La virtù perfetta ................................................................ » 305
La virtù del rischio ............................................................ » 307
Prudenza e carità ............................................................... » 311
XII. SENZA AMICI, CHI VORREBBE VIVERE? ............. » 313
Un animale «politico»........................................................ » 316
La legge naturale e le sue grandi inclinazioni ................... » 319
La Chiesa, Popolo di Dio................................................... » 329
Spirituale e temporale...................................................... pag. 335
La migliore forma di governo?........................................... » 340
481
XIH. CIÒ CHE VI È DI PIÙ NOBILE AL MONDO . . . . » 349
Ciò che vi è di più nobile in tutto l’universo...................... » 350
Seguire la propria coscienza............................................... » 355
Coscienza e verità............................................................... » 359
La vita eterna già iniziata ................................................... » 364
Come un’àncora fissata «al più alto»................................. » 369
L’interprete del desiderio.................................................... » 373
Bisognerebbe che l’uomo fosse Dio................................... » 380
XIV. ITINERARI VERSO DIO............................................... » 385
L’uomo e il suo desiderio .................................................. » 386
Capace di Dio..................................................................... » 391
Ciò che non fa la felicità..................................................... » 393
La via maestra..................................................................... » 397
Senza la carità sono un niente ............................................ » 402
I gradi della carità........................................................... » 406
L’inno alla carità................................................................. » 410
II modello di tutte le perfezioni........................................ » 413
XV. CONCLUSIONE: IDEE GUIDA E FONTI................... » 417
Idee guida................................................'.................... » 418
Una spiritualità trinitaria ................................................ » 418
Una spiritualità della deificazione................................... » 420
Una spiritualità «oggettiva» ........................................... » 421
Una spiritualità «realistica» ........................................... » 422
Una spiritualità della realizzazione umana..................... » 423
Una spiritualità comunionale .......................................... » 423
Fonti ................................................................................... » 424
La sapienza antica............................................................ » 425
La Sacra Scrittura............................................................ » 426
La liturgia . ...................................................................... » 427:
I Padri e specialmente sant’Agostino............................... » 428
L’eredità domenicana....................................................... » 429
Sigle e abbreviazioni ................................................................. » 435
Bibliografìa................................................................................ » 437
INDICI
Indice dei temi e dei termini principali............................... pag. 467

482
Indice dei nomi .................................................................. » 472

483
TOMMASO D’AQUINO
maestro spirituale J.-P.
Torrell

Tommaso d’Aquino è
indubbiamente conosciuto come
filosofo. Spesso si dimentica che egli
è anche e soprattutto mistico e
teologo, tanto più spirituale quanto
più rigorosamente dottrinale. E, in
un certo senso, proprio la chiarezza
delle sue prese di posizione
intellettuali, filosofiche e teologiche
che si riflette e confluisce in un
atteggiamento religioso capace di
rivelare l’appassionato mistico
dell’assoluto. Il “pre-giudizio”
intellettuale che contraddistingue
l’opinione comune su Tommaso è
dovuto, in realtà, alla non
conoscenza e, talvolta, all’incapacità
di saper leggere la sua opera con la
sua stessa attitudine religiosa. Forte
della sua profonda conoscenza del
pensiero e dell’opera dell’Aquinate,
J.-P. Torrell si propone di ampliare
tali giudizi, offrendo una lettura
assolutamente originale e
innovativa. Non limitandosi ai testi
classici delle opere sistematiche,
dopo aver delineato il campo
specifico della teologia spirituale
secondo Tommaso, l’autore fa
emergere i contenuti di tale
spiritualità nei nuclei principali in
cui si sviluppa la riflessione
teologica del maestro d’Aquino: dal
rapporto dell’uomo con Dio-Tri-
nità nella Chiesa al radicamento
dell’uomo nella storia della salvez-
za. A servizio di tutto ciò è
un’analisi diretta, attenta e puntuale
degli scritti di Tommaso, anche dei
meno conosciuti e considerati, come
i commenti scritturistici.
Con la dichiarata rinuncia alle
sottigliezze tecniche in favore di un
maggior rigore scientifico, e con il
rifiuto di ogni forma di apologia, si
porta l’attenzione su una spiritualità
ricca di contenuti cristiani: un
«giardino segreto» nel pensiero di
Tommaso d’Aquino che merita di
essere esplorato.

Jean-Vierre Torteli, o.p., è professore


ordinario presso la facoltà di Teologia
dell’Università di Friburgo (Svizzera).
E uno dei maggiori esperti, in campo
internazionale, di Tommaso d’Aquino,
sul quale ha pubblicato numerosi testi.
Si segnala in particolare Tommaso
d’Aquino. Iduomo e il teologo, Casale
Monferrato 1994.

Città Nuova ISBN 88-

ii
311-311-3334-9

9 788831 1 133340
f 31,00 i.i.

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