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Tommaso Torrell Spiritual
Tommaso Torrell Spiritual
Tommaso d’Aquino è
indubbiamente conosciuto come
filosofo. Spesso si dimentica che egli
è anche e soprattutto mistico e
teologo, tanto più spirituale quanto
più rigorosamente dottrinale. E, in
un certo senso, proprio la chiarezza
delle sue prese di posizione
intellettuali, filosofiche e teologiche
che si riflette e confluisce in un
atteggiamento religioso capace di
rivelare l’appassionato mistico
dell’assoluto. Il “pre-giudizio”
intellettuale che contraddistingue
l’opinione comune su Tommaso è
dovuto, in realtà, alla non
conoscenza e, talvolta, all’incapacità
di saper leggere la sua opera con la
sua stessa attitudine religiosa. Forte
della sua profonda conoscenza del
pensiero e dell’opera dell’Aquinate,
J.-P. Torrell si propone di ampliare
tali giudizi, offrendo una lettura
assolutamente originale e
innovativa. Non limitandosi ai testi
classici delle opere sistematiche,
dopo aver delineato il campo
specifico della teologia spirituale
secondo Tommaso, l’autore fa
emergere i contenuti di tale
spiritualità nei nuclei principali in
cui si sviluppa la riflessione
teologica del maestro d’Aquino: dal
rapporto dell’uomo con Dio-Tri-
nità nella Chiesa al radicamento
dell’uomo nella storia della salvezza.
A servizio di tutto ciò è un’analisi
diretta, attenta e puntuale degli
scritti di Tommaso, anche dei meno
conosciuti e considerati, come i
commenti scritturistici.
Con la dichiarata rinuncia alle
sottigliezze tecniche in favore di un
maggior rigore scientifico, e con il
rifiuto di ogni forma di apologia, si
porta l’attenzione su una spiritualità
ricca di contenuti cristiani: un
«giardino segreto» nel pensiero di
Tommaso d’Aquino che merita di
essere esplorato.
Città Nuova
ISBN 88-311-311-3334-9
Í 31,00 Li.
COLLANA DI TEOLOGIA
34
Jean-Pierre Torrell
TOMMASO D’AQUINO
maestro spirituale
JEAN-PIEKRE TOKRELL
TOMMASO
D’AQUINO
maestro spirituale
O
Città Nuova
Titolo originale:
Saint Thomas à’Aquin - maître spirituel
Editions Universitaires Fribourg Suisse,
1996
© 1996, Jean-Pierre Torrell
Traduzione dal francese di
Giovanni Matera
in collaborazione con
Adriano Oliva
7
opera del tutto solitaria. È una gioia per me menzionare qui Denise
Bouthillier, Denis Chardonnens e ancor più Gilles Emery, i quali mi
hanno accompagnato con la loro presenza amicale durante questa
redazione e la cui rilettura attenta ed esigente mi ha fornito tanti
preziosi suggerimenti. Gliene sono cordialmente grato.
8
I
Teologia e spiritualità
SACRA DOCTRINA
12
tardi, sant’Agostino parla già di questa sdentiti, «che genera, nutre,
difende e fortifica la fede sovranamente salutare» 8. Nella preghiera
finale della sua grande opera sulla Trinità, quando rende conto a Dio di
ciò che ha voluto fare, egli spiega con garbo: «Dirigendo i miei sforzi
secondo questa regola di fede, nella misura in cui ho potuto farlo io Ti
ho cercato; io ho desiderato vedere con l’intelligenza dò che conoscevo
per fede» 9. Stupisce che anche sant’Anseimo - inventore della formula
fides quaerens intellectum - esprima il suo progetto teologico in una
preghiera: «Io desidero comprendere almeno un po’ la Tua verità, la
Tua verità che il mio cuore crede e ama», e aggiunge questo, che è
molto significativo: «Io non cerco di comprendere per credere, ma io
credo per comprendere (credo ut intelligam)»10.
All’origine di quest’ultima espressione si trova un versetto della
Scrittura letto nella versione dei Settanta: «Se voi non credete, non
comprenderete» 11. Agostino stesso ha ripreso varie volte questo
versetto, ma non ha temuto di formularne l’aspetto complementare:
«Bisogna comprendere per credere, ma occorre anche credere per
comprendere» 12. In Anseimo, come in Agostino, al punto di partenza
vi sono la fede e la sua oscurità, l’intelligenza e il suo desiderio di
sapere, assieme alla certezza che l’una incitando l’altra saranno
beneficiarie entrambe del successo della loro comune impresa. Questo
convincimento è rimasto per secoli un bene comune della teologia; i
teologi contemporanei - come d’altronde quelli del passato - possono
divergere su molti punti, ma se vogliono restare teologi non possono
essere in disaccordo su questo legame della teologia con la fede 13.
13
intrattiene nei confronti della fede una relazione di origine e di costante
dipendenza senza la quale non esisterebbe. Essa non trova lì soltanto il
suo punto di partenza ma la sua ragione d’essere. Senza la fede, non
soltanto la teologia non avrebbe alcuna giustificazione, ma non
avrebbe nemmeno il suo oggetto: la cosa è facile da capirsi poiché solo
la fede permette al teologo di entrare in possesso di questo. Un
parallelo con la filosofia può essere qui illuminante. Se non vi fosse in
noi nessuna possibilità di cogliere il reale, i nostri ragionamenti non
sarebbero che puro artificio. Per quanto fossero logicamente connessi,
essi non esprimerebbero in alcun modo la realtà. La fede costituisce in
noi questa aggiunta di capacità di cui ha bisogno l’intelligenza umana
per essere «all’altezza» del reale divino. Essa ci permette di
raggiungerlo poiché «l’atto del credente non termina alle formule [del
Credo] ma alla stessa realtà [divina]» 15. Senza la fede noi non
saremmo in possesso che di formule vacue e le nostre più belle
costruzioni non sarebbero che botti vuote. Viceversa, con essa si può
veramente iniziare ad essere teologi. A riguardo, Tommaso ha una
straordinaria espressione concernente il suo santo patrono: dal
momento in cui cade in ginocchio ai piedi del Risorto che gli mostra le
sue piaghe, l’apostolo Tommaso, l’incredulo, diventa subito un buon
teologo16.
La fede non aderisce al suo oggetto in modo statico. Animata da
un ardente desiderio proveniente dall’amore per la verità divina, il
quale la penetra da parte a parte fin dai suoi primi balbettìi, la fede è
più e meglio che una semplice accettazione nell’obbedienza della
rivelazione. Essa è animata da un «certo desiderio del bene promesso»
17
, che spinge il credente a dare il suo assenso, malgrado il possibile
timore che l’oscurità da cui resta avvolta la verità divina potrebbe
lasciargli. Questo desiderio, che spinge verso il Bene ancora
imperfettamente conosciuto e che sboccia infine nella carità
pienamente teologale, costituisce il vero motore della ricerca teologica.
San Tommaso lo riassume in un testo giustamente celebre: «Spinto da
un’ardente volontà di credere, l’uomo ama la verità che crede, la
26I, q. 1, a. 7.
18
Noi incontriamo delle difficoltà nel capire perché questo punto
sia così importante, dato che i linguaggi filosofici di oggi impiegano
piuttosto la parola «oggetto» là dove Tommaso parla di «soggetto».
Anche se ci addentriamo in una spiegazione un po’ difficile, non
possiamo qui accontentarci di questa equivalenza approssimativa se
non vogliamo cadere in una confusione del tutto dannosa. Per capirlo
basta precisare quel che significa la nozione di soggetto nella
prospettiva aristotelica di Tommaso e ricordare a cosa conduce il suo
oblio. Il «soggetto» è la realtà extramentale che la scienza cerca di
conoscere; tutto sommato essa non ha altri scopi che quello di
conoscere il suo soggetto. Ma questa realtà esterna non sarà conosciuta
se non nella misura in cui il conoscente potrà appropriarsene
interiormente e farla esistere nella sua intelligenza. Ciò è reso possibile
tramite le idee, che formiamo a partire dalla realtà e che chiamiamo
«concetti». Essi costituiscono tante prese di intelligenza sulla realtà
esterna e sono essi che formano «l’oggetto» della scienza. Tommaso
definisce così l’oggetto della scienza come insieme delle conclusioni
che giunge a stabilire circa il suo soggetto. Molto semplice da cogliere,
questa prima distinzione tra soggetto e oggetto non è meno
fondamentale. Essa ha il merito di ricordare che la prima realtà
conosciuta, l’oggetto, non costituisce il soggetto e dunque non può
essere il fine perseguito dal sapere; in rapporto a questo fine non ha
che un valore strumentale. L’oggetto non esprime nemmeno il tutto del
soggetto e, di fatto, bisogna moltiplicare i concetti e rapportarli tra di
loro con un giudizio di esistenza affinché l’intelligenza sia in grado di
esprimere qualcosa del soggetto. E infine, il conoscente deve spesso
constatare una perpetua inadeguatezza tra l’oggetto conosciuto e la
realtà da conoscere.
Quando si tratta del sapere di cui Dio è il soggetto, le cose sono
ancora più chiare. Un vero teologo non può mai dimenticare che il
soggetto del suo sapere, il fine che persegue, è la conoscenza del Dio
vivente della storia della salvezza. Ed è qui che si può, senza giocare
troppo sul senso della parola «soggetto», ritrovare l’accezione del
linguaggio contemporaneo. Parlare di Dio come «soggetto», vuol dire
anche che egli non si riduce ad un «oggetto» - nemmeno all’oggetto
mentale puro che il teologo può conoscere. Un soggetto è una persona
che si conosce e che si ama (dato che si è fatta conoscere e amare), che
si invoca e che si incontra nella preghiera. La teologia conoscerà una
svolta drammatica il giorno in cui, ingannati dalla definizione della
scienza come «abito delle conclusioni» e dimentichi della distinzione
19
tra soggetto e oggetto e della sua reale portata, i teologi a partire dal
XVI secolo giungeranno ad assegnare come fine al loro sapere non più
la conoscenza del suo soggetto, ma quella del suo oggetto: dedurre il
maggior numero possibile di conclusioni dalle verità contenute nel
deposito della rivelazione. Questo errore è stato denunciato molto
spesso e non è qui il nostro scopo 27; ci basta comprendere che la
posizione di Tommaso è completamente diversa. Certo, egli definisce
la teologia come scienza delle conclusioni (per opposizione ai principi
di cui essa non può avere scienza, ma soltanto fede) 28, ma non è questo
il fine che le attribuisce; esso consiste senza alcun dubbio nella
conoscenza del suo soggetto 29.
È innanzitutto questo dunque che san Tommaso vuole dire
quando asserisce che Dio stesso è soggetto della teologia. Ma ciò
significa anche che bisogna risalire fino a lui per trovare la chiave che
spiega tutte le altre prospettive troppo spesso unicamente descrittive.
Come la creazione, la redenzione non può essere spiegata al livello
dell’opera compiuta; bisogna ricorrere al soggetto che ne ha avuto
l’iniziativa, Dio stesso nel suo amore misericordioso. Ancor meno la
Chiesa può spiegarsi da se stessa; occorre «risalire» a Colui che ne è il
Capo, il Cristo, ed egli stesso, quanto alla sua umanità, non è che
l’inviato del Padre e della Trinità. In tutto ciò di cui si occupa, il
teologo è rinviato incessantemente alla primitiva origine che è l’Amore
nella sua fonte trinitaria. Concretamente, e Tommaso impara la
lezione, questo vuol dire che in teologia tutto, assolutamente tutto,
deve essere considerato in rapporto a Dio: è da lui che provengono
tutte le cose, è verso di lui che si dirigono tutte le creature. Puramente
teorica di primo acchito, questa presa di posizione costituisce quindi
una radicale esigenza di ricentrare non soltanto tutto il sapere teologico
ma l’intero sforzo dell’uomo, provocato così a rimettere Dio al centro
di tutto ciò che può fare, dire e pensare. Mai nessun mistico ha detto né
potrà dire qualcosa di più forte. Poiché è fin troppo chiaro che se la
teologia è così teologalmente centrata, la spiritualità che ne fluisce lo
sarà altrettanto.
27 Si potrà vedere qui M.-J. CONGAR, Théologie, DTC 15 (1946) 398 e
418- 419; E. SCHILLEBEECKX, Approches théologiques, I. Révélation et théologie,
Bruxelles-Paris 1965, pp. 114-118; C. DUMONT, La réflexion sur la méthode
théologique, NRT 83 (1961) 1034-1050 e 84 (1962) 17-35; cf. pp. 1037-1038.
28 Si può vedere per esempio Sent. I, Prol., a. 3, sol. 2 ad 2: «In hac
doctrina non acquiritur habitus fidei qui est quasi habitus principiorum; sed
acquiritur habitus eorum quae ex eis deducuntur».
29Sent. I, Prol., a. 4: «Subiecti cognitio principaliter intenditur in scientia».
20
In secondo luogo, ma non accessoriamente, questa tesi centrale
spiega anche alcune qualità della stessa teologia. Così, il fatto che la
teologia sia contemplativa è una conseguenza di questa prima tesi su
Dio soggetto della teologia. Tommaso ci ritorna quando si chiede se la
teologia sia una scienza «pratica». Formulata in questo modo, la
questione potrebbe far sorridere, ma si tratta in effetti di sapere se la
teologia può estendersi fino a trattare delle regole dell’agire umano. La
risposta non ammette dubbi: se, come abbiamo detto, la teologia è
effettivamente una partecipazione al sapere che Dio ha di se stesso,
allora sarà certamente una scienza pratica, poiché:
«è con il medesimo sapere che Dio conosce se stesso e realizza
tutto ciò che fa [ma la teologia, aggiunge Tommaso] è tuttavia
più speculativa (= contemplativa) che pratica, perché si occupa
più delle realtà divine che degli atti umani. Essa non tratta degli
atti umani se non nella misura in cui è tramite essi che l’uomo si
orienta verso la perfetta conoscenza di Dio in cui consiste la
beatitudine» 30.
Questa è una risposta che colloca Tommaso a parte nella serie
dei teorici della scienza teologica: fino a lui se ne parlava certo come
di un sapere anche contemplativo, ma in primo luogo essenzialmente
ordinato alla realizzazione perfetta della carità. «Questo sapere è
ordinato all’agire», diceva il suo contemporaneo Roberto Kilwardby.
Tommaso, per primo, e già dal suo commento alle Sentenze, lo vede al
contrario orientato verso la contemplazione, poiché se è polarizzato da
Dio, come abbiamo appena visto, questo orientamento prevale su tutti
gli altri e non si tratta evidentemente di una realtà che l’azione umana
potrebbe porre in essere. Dio non è una costruzione delJ.’uomo, che di
lui non può disporre; egli, da noi, non può che essere conosciuto e
amato. E di questo che Tommaso vuol tener conto quando afferma che
la teologia deve essere principalmente speculativa.
Questa risposta contiene un altro elemento capitale per il seguito
che ci proponiamo. Essa permette di constatare che Tommaso non
conosce la distinzione a noi familiare tra teologia morale e teologia
dogmatica - come ignora anche la grande ripartizione del lavoro
teologico in teologia positiva e teologia speculativa. È la medesima e
unica sacra doctrina che ingloba tutto questo, come essa ricopre
ugualmente, l’abbiamo veduto, i concetti più tardivi di «spiritualità» o
«teologia spirituale». Se senza esitazione bisogna riconoscere i
301, q. 1, a. 4.
21
benefici procurati dalla crescente specializzazione dei differenti campi
del sapere teologico, è anche permesso auspicare che coloro che lo
praticano abbiano una coscienza sempre più profonda della sua unità
fontale. Per Tommaso la cosa andava da sé ed è proprio questo ciò che
riscopriremo presto nella sua grande sintesi del sapere teologico.
38I, q. 19, a. 5: «Vult ergo [Deus] hoc esse propter hoc, sed non propter hoc uult
hoc».
39 De ueritate, q. 11, a.l arg. 11: «Scientia nihil aliud est quam descriptio rerum
in anima, cum scientia esse dicatur assimilatio scientis ad scitum».
40 SCG 156 (n. 470): «Habitus [scientiae]... est ordinata aggregatio ipsarum
specierum existentium in intellectu non secundum completimi actum, sed medio
modo inter potentiam et actum».
411, q. 1, a. 3 ad 2: «uelut quaedam impressio diuinae scientiae».
42 D’altronde è a proposito della fede che Tommaso impiega
un’espressione molto simile, Super Boetium De Triti., q. 3, a. 1 ad 4: «Lumen... fidei...
est quasi quedam sigillatici primae ueritatis in mente...»-, sigillatici è anche usato come
equivalente di impressio nel campo del sapere naturale, cf. De uer., q. 2, a. 1 arg. 6 e ad
6 con rinvio ad Algazel.
25
Il legame della teologia con la fede, emerso ad ogni stadio della
nostra ricerca, ci permette di valorizzare due delle qualità
indispensabili della teologia. Innanzitutto, e proprio a motivo del suo
essere animata dalla fede, la teologia è una scienza «pia» e richiede
una fede «viva», cioè penetrata («informata», come dice san
Tommaso) dalla carità, per corrispondere pienamente alla sua
definizione. Se può accadere che la teologia sia praticata con una fede
morta o del tutto insufficiente, ciò non toghe che questa sia una
situazione anormale. Lo studio teologico richiede la medesima fede
esigita dalla vita cristiana o dalla preghiera; e anche se si tratta di
attività differenti, è un’unica fede quella che si esprime. «Preghiera
contemplativa o speculazione teologica costituiranno varietà
specificamente differenti nel loro gioco psicologico; ma nella struttura
teologale esse possiedono medesimo oggetto, medesimo principio,
medesimo fine»43. E per questo che nel suo Pro- logo alle Sentenze,
Tommaso diceva che, in colui che la pratica, la teologia assume una modalità
orante (modus oratiuus) 4 4 . Per lui non c’è alcun dubbio: la preghiera rientra
nell’esercizio della teologia.
D’altra parte, e sempre in dipendenza della fede che è la sua anima e il
suo motore, la teologia possiede una incontestabile dimensione escatologica.
Ed è qui che assieme alla fede e alla carità troviamo la speranza, terza virtù
teologale. La teologia, secondo Tommaso, realizza una certa anticipazione di
quella conoscenza che avrà il suo compimento nella visione beatifica. Egli lo
dice con tutta chiarezza: «il fine ultimo di questa doctrina è la contemplazione
della verità prima, in patria» 45. E questo che si intende quando si parla della
teologia come di un sapere «speculativo»; nel linguaggio di san Tommaso
questa parola, oggi così svalutata, non significa niente altro che
«contemplativo» 46, e quindi che chi pratica la teologia deve essere come essa
completamente rivolto verso l’oggetto del suo sapere, che è anche il fine
ultimo della sua vita di cristiano.
E chiaro che questa qualità non appartiene alla teologia se non per il
fatto che appartiene prima alla fede che la anima, poiché è la fede che
procura questo «assaggio» (praelibatio quaedam) dei beni divini di cui
43M.-D. CHENU, La foi dans l’intelligence, Paris 1964, p. 134.
44Sent. I, Prol., a. 5 sol.
45 Sent. I, Prol, a. 3 sol. 1 et ad 1: «Sed quia scientia omnis principaliter
pensanda est ex fine, finis autem huius doctrinae est contemplatio primae ueritatis in
patria, ideo principaliter speculatiua est»; si troveranno più dettagli in J.-P. TOR- RELL,
Théologie et sainteté, RT 71 (1971) 205-221, cf. 205-212.
46 Cf. S. PlNCKAERS, Recherche de la signification véritable du terme «spécula- tif»,
NRT 81 (1959) 673-695.
26
godremo nella visione beatifica47, ma Tommaso la applica precisamente alla
scienza delle cose divine: «Per mezzo di essa noi possiamo godere di una
qualche partecipazione e assimilazione alla conoscenza divina anche mentre
ci troviamo ancora in cammino, nella misura in cui tramite la fede infusa
aderiamo alla verità prima per se stessa»48.
Se la teologia è proprio questa realtà che abbiamo appena descritto - e
almeno nel caso di Tommaso non c’è dubbio che sia così -, si capisce che egli
non abbia avuto alcuna necessità di elaborare una spiritualità accanto alla
sua teologia. È la sua teologia stessa che è una teologia spirituale, e si
dovrebbe poter sempre riconoscere un teologo tomista dal tono spirituale, che
avrà saputo dare anche alle elaborazioni più tecniche. Se questa articolazione
a volte necessita di essere messa in evidenza, magari per quei lettori meno
preparati a scoprirla, essa è tuttavia, almeno in germe, sempre presente. Però
la parola «spiritualità» ha preso ai nostri giorni alcune connotazioni più
precise ed è importante esserne coscienti per evitare di utilizzarla a vanvera.
51
La prima menzione di spiritualitas si trova nella lettera 7 dello PsEUDO-
GlROLAMO (in realtà, di Pelagio): «Age ut in spiritualitate proficias. Cave ne quod
accepisti bonum, incautus et negligens custos amittas» (PL 30, 114D-115A). Il secondo
uso si legge un secolo più tardi nella lettera 14 di sant’Avito indirizzata a suo fratello:
«Minus enim procul dubio salva observatione apparet affectus, sed ostendistis quanta
spiritualitate vos exercere delectet quod praeterisse sic doluit» (MGH, Auctores
antiquissimi VI/2, ed. R. Peiper, Berlin 1883, p. 47). Per maggiori dettagli, si può
vedere J. LECLERCQ, Spiritualitas, «Studi medievali», Serie terza 3 (1962) 279-296,
spec. pp. 280-282; A. SoLIGNAC, L’apparition du mot spiritualitas au moyen âge,
ALMA 44-45 (1985) 185-206, spec. pp. 186-189.
52
III, q. 34, a. 1 ad 1; In Iam ad Cor. 15, lect. VII, ed. Marietti nn. 994, 991 e
1004; cf. J.-P. TORRELL, Spiritualitas, pp. 582-583.
53
In Ioh. 3, lect. 1, ed. Marietti, n. 456: «In viro spirituali sunt proprietates
Spiritus Sancti... Eius indicium sumis per vocem verborum,suorum, quam dum audis,
54 A chi volesse andare oltre nella riflessione su ciò che riunisce e distingue
contemporaneamente teologia morale e teologia spirituale, non sapremmo
raccomandare uno studio più illuminante di quello di M.-M. LABOURDETTE, Qu’est-ce que la
théologie spirituelle?, RT 92 (1992) 355-372; teologo moralista senza pari, molto attento
all’esperienza dei santi e dei mistici, il P. Labourdette situa la sua riflessione nel
prolungamento di quella di J. Maritain.
30
astratta e la sua trasparenza impersonale, è, cristallizzata sotto i nostri
occhi, la vita interiore stessa di Tommaso d’Aquino»55.
Questa asserzione potrà forse stupire, e ci impegniamo a
giustificarla, ma non consente molti dubbi: la dottrina spirituale di
Tommaso è una dimensione implicita, necessaria alla sua teologia. In
questo senso possiamo dire che egli non è soltanto un pensatore o una
guida intellettuale, ma piuttosto un maestro di vita. Nell’uno e
nell’altro caso, egli non ha niente dell’ideologo che impone il suo
sistema, ma, come un vero maestro, insegna al suo discepolo come
pensare e come vivere autonomamente 56. Per dirla altrimenti, la sua
dottrina e la sua vita sono cariche di valori che possono facilmente
ispirare una maniera particolare di comportarsi da uomo e da cristiano,
e questa possiamo propriamente chiamarla «spiritualità».
31
PARTE PRIMA
14
Si può vedere a proposito H.-F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est,
RTAM 22 (1955) 72-78, che cita alcuni testi di san Bonaventura, tra cui il seguente
che individua nella conoscenza del quid est di Dio come «un genere diversamente
realizzato presso tutti gli uomini»: «Il quid est di Dio può essere conosciuto
pienamente e perfettamente in modo esaustivo; in questo modo Dio solo può
conoscersi. Esso può anche essere conosciuto in maniera chiara e netta dai beati; o
ancora può essere conosciuto in maniera parziale e oscura in quanto Dio è il sovrano
e primo Principio di tutto il creato; in questa maniera, per quanto dipende da lui, è
conoscibile da tutti», De mysterio Trinitatis, q. 1, a. 1 ad 13 (Opera omnia, t. 5, p. 51 b;
tr. it. V/l, p. 249).
15
Questo movimento di penetrazione in Occidente della «luce venuta da
Oriente» è stato molto ben descritto da M.-D. CHENU, ha théologie au douzième siede,
«Etudes de philosophie médiévale 45», Paris 1957, pp. 274-322: cap. 12: «L’entrée de
la théologie grecque», e 13: «Orientale lumen».
16
«Se non si vede sempre che la sola immagine, allora non si vede mai la
verità. Poiché l’immagine non è la verità, anche se vi si riferisce. Che essi ci liberino
dunque da queste fantasie tramite le quali si sforzano di offuscare la luce delle nostre
intelligenze e che non interpongano più tra Dio e noi gli idoli delle loro invenzioni.
Per noi, niente ci può saziare se non Lui e non possiamo fermarci che a Lui» (PL 175,
955A); Tommaso tratta il problema in I, q. 12, a. 2: «Dire che Dio è veduto mediante
qualche immagine, equivale a dire che l’essenza di Dio non è veduta affatto» (dicere
Deum per similitudìnem uideri, est dicere diuinam essentiam non uiderì). Si vedrà a tal
proposito il nostro studio La vision de Dieu per essentiam selon saint Thomas
70 Sembra sia il caso, tra altri, di Ugo di San Caro, uno dei primi maestri
domenicani di Parigi (1230-1235), cf, H.-F. DONDAINE, Hugues de Saint-Cher et la
condamnation de 1241, ESPT 33 (1949) 170-174, e del suo confratello Guerrico di San
Quintino (1233-1242), predecessore immediato di Alberto, cf. H.-F. DONDAI- NE - B.-
G. GUYOT, Guerric de Saint-Quentin et la condamnation de 1241, RSPT 44 (1960) 225-
242; C. TROTTMANN, Psychosomatique de la vision béatifique selon Guerric de Saint-
Quentin, RSPT 78 (1994) 203-226.
71Questa storia è stata descritta in modo magistrale da H.-F. DONDAINE,
L’objet et le «medium» de la vision béatifique chez les théologiens du XIII e siècle,
RTAM 19 (1952) 60-130. Si può vedere anche S. TUGWELL, Albert & Thomas Selected
Writings, New York-Mahwah 1988, pp. 39-95, e il riassunto dello stesso autore: La
crisi della teologia negativa nel sec. XIII, «Studi» n.s. 1 (1994) 241-242. 41
anche "ciò che è”»72.
Come è stato bene scritto, «questa trascrizione in categorie
aristoteliche del sicuti est (così come è) e del uidere per spedetn
(vedere tramite una forma) della Scrittura diverrà classica presso i
discepoli di san Tommaso; ma nel 1257 essa comportava per il
giovane maestro una decisione rilevante, la cui importanza non appare
se non dal confronto con i suoi massimi contemporanei» 73. Meno
aristotelico, Bonaventura non vedeva inconvenienti nell’affermare che
una certa visione del «quid est» sarebbe possibile su questa terra;
Alberto, da parte sua, pensava di poter concedere una certa
conoscenza confusa dell’essenza o dell’essere di Dio «così come esso
è» {ut est) senza che ciò costituisse allo stesso tempo una conoscenza
del suo «quid est» 74. Cosa a cui Tommaso facilmente replicava nel
testo del De Meritate appena citato: conoscere l’essenza di una cosa
significa conoscere il suo «quid est».
Il dilemma consisteva dunque nelTaccogliere in pieno
l’orientamento della tradizione latina ribadito dalla condanna del 1241
e ammettere una certa conoscenza dell’essenza divina, senza cadere
nell’ingenua illusione di una conoscenza esaustiva; e nel contempo si
trattava di ricevere l’eredità della tradizione greca portatrice di una
così profonda attitudine religiosa di rispetto del mistero e della sua
trascendenza, senza rinunciare alla speranza nutrita dalla Scrittura di
una visione davvero faccia a faccia. Da una parte è il rischio di una
pretesa blasfematoria di sottomettere il segreto di Dio alle prese
dell’uomo; dall’altra, quello di cedere allo gnosticismo di fronte a una
impersonale trascendenza irraggiungibile e di eliminare dall’esistenza
cristiana lo stimolo dell’Incontro finale, in cui la speranza troverà il
compimento del suo desiderio infinito.
72 De ueritate, q. 8, a. 1 ad 8.
73H.-F. DONDAINE, Cognoscere de Deo quid est, p. 72,
74Cf. H.-F. Dondaine, ibid., pp. 72-75; ecco uno dei passaggi di Alberto al quale
poteva pensare Tommaso: «Bisogna distinguere tra vedere Dio “così come è” {ut est) e
vedere il quid est di Dio, così come si distingue tra vedere una cosa “così com’essa è”
{ut est) e vedere il quid est di questa cosa. Vedere una cosa “così com’essa è”, significa
vedere l’essere o l’essenza di questa cosa, vederne il quid est di questa cosa significa
vederne la sua propria definizione includente tutti i suoi dati (Rem enim videre, ut est,
est enim ridere esse rei sive essentiam rei; videre autem, quid est res, est videre
propriam diffinitionem includentem omnes terminos rei; De resurrectione, Iract. 4, q.
1, a. 9, ed. Col., t. 26, 1958, p. 328 b).
42
LA VIA NEGATIVA
43
Per giungere a una conoscenza di Dio che tenga conto
simultaneamente delle esigenze di queste due ispirazioni divergenti,
Tommaso impiega un metodo che certamente richiede tutte le risorse
della ragione, ma che consiste piuttosto nel negare che nell’affermare,
nello scartare successivamente «tutto ciò che non è Dio» più che
pretendere di precisare ciò che egli è. Si tratta dunque dell’impiego
della «via di separazione» {via remotionis) ereditata dallo Pseudo-
Dionigi e di cui si trova un bell’esempio in ciò che costituisce, per
così dire, la prefazione della Somma contro i Gentili. In questa prima
grande opera della maturità, Tommaso non era ancora dominato dalla
preoccupazione di brevità, forse eccessiva, che caratterizza la Somma
di teologia; vi si trovano perciò spesso delle spiegazioni più ampie
che aiutano il lettore a comprendere più facilmente. Nelle due opere,
una volta data per acquisita'; l’esistenza di Dio («esiste un primo
essere al quale diamo il nome di: 'Dio»), rimane da interrogarsi su ciò
che egli è in se stesso:
«Nel considerare la realtà divina si deve ricorrere soprattutto
alla via della negazione. La sostanza divina infatti sorpassa con
la sua immensità tutte le forme che la nostra intelligenza può
raggiungere, e quindi non siamo in grado di apprenderla in
modo tale da conoscere “ciò che essa è" (quid est). Ne avremo
pertanto una certa conoscenza sapendo “ciò che essa non è”
(quid non est). E tanto più ci avvicineremo a tale conoscenza,
quanto più numerose saranno le cose che col nostro intelletto
potremo escludere da Dio»75.
Il paragone è un po’ grossolano, ma si può provvisoriamente
azzardare l’immagine: Tommaso utilizza un’idea tanto semplice
quanto quella che si trova alla base di alcuni giochi di società in cui si
tratta di indovinare quale è la persona o la cosa alla quale pensa il
partner. La cosa più semplice è procedere per eliminazioni
successive: si tratta di una cosa o di un essere vivente? Di un animale
o di una persona? Di uri uomo o di una donna?... Di eliminazione in
eliminazione si arriva a poter azzardare un nome. Le cose sono
tuttavia meno semplici quando si tratta di Dio:
75 SCG114.
44
«Infatti noi conosciamo tanto più perfettamente una realtà
quanto più ne scorgiamo le differenze che la distinguono dalle
altre: poiché ogni cosa possiede un essere proprio che la
distingue da tutte le altre. Cosicché noi cominciamo col situare
nel genere le cose di cui conosciamo le definizioni, e questo ce
ne dà una certa conoscenza comune; si aggiungono in seguito
le differenze che distinguono le cose le une dalle altre: così si
raggiunge una conoscenza completa della cosa».
Per chi non fosse familiarizzato con questo modo di ragionare,
sarà sufficiente un esempio per capirlo. In questa prospettiva, le cose
si definiscono innanzitutto tramite i loro aspetti più generali (il
genere) ai quali si aggiungono delle note caratteristiche (la
differenza specifica). Così, quando si tratta dell’essere umano
definito come «animale razionale», «animale» lo situa nel genere
degli esseri animati, distinguendolo dai vegetali o dai minerali,
mentre «razionale» indica la differenza specifica che caratterizza
l’uomo fra tutti gli animali. Con questo non si vuol dire di sapere
tutto dell’uomo né soprattutto di ogni uomo. Questa conoscenza
dell’universale «uomo» non è che una conoscenza astratta che
prende in considerazione proprio gli aspetti più generali, ma che
lascia sfuggire la conoscenza del singolare (quella di Pietro o di
Paolo, che appartiene a tutt’altro tipo di approccio). Ora, nemmeno
questa conoscenza, per quanto povera sia, è possibile quando si
tratta di Dio:
«Ma nello studio della sostanza divina, poiché non possiamo
cogliere “ciò che è" (quid) e prenderlo come genere, e dato che
non possiamo nemmeno desumere la sua distinzione con le
altre cose tramite le differenze positive, siamo obbligati a
desumerla dalle differenze negative».
Noi possediamo una differenza positiva quando «razionale» si
aggiunge ad «animale» per definire l’uomo; ma poiché questo non
può valere per Dio, in tal caso bisognerà dire piuttosto: non cosa,
non animale, non razionale... Ne seguirà dunque una procedura
analoga:
«Come nel campo delle differenze positive una differenza ne
implica un’altra e aiuta ad avvicinarsi maggiormente alla
definizione della cosa sottolineando ciò che la distingue da
molte altre, così una differenza negativa ne implica un’altra ed
evidenzia la distinzione da molte altre. Se affermiamo per
45
esempio che Dio non è un accidente, lo distinguiamo in tal
modo da tutti gli accidenti. Se poi aggiungiamo che non è un
corpo, lo distinguiamo ancora da un certo numero di sostanze;
e così, progressivamente, grazie a codeste negazioni, arriviamo
a distinguerlo da tutto ciò che non è lui. Si avrà allora una
considerazione appropriata della sostanza divina quando Dio
sarà conosciuto come distinto da tutto. Ma non sarà una
conoscenza perfetta, poiché si ignorerà “ciò che è in se stesso»
(quid in se sit)».
49
La più evidente di queste modificazioni è stata notata da molto
tempo e a giusto titolo. Contrariamente a ciò che trovava nelle traduzioni
a sua disposizione, Tommaso non riprende Dionigi, che dice che Dio
resta totalmente sconosciuto («omnino» ignotum), ma si limita a dire che
noi lo raggiungiamo come sconosciuto («tanquam» ignotum\ o ancora
«quasi» ignotum)86 87 88. D’altronde, mentre Dionigi situava Dio al di là
dell’essere e concludeva alla sua inconoscibilità assoluta, Tommaso situa
Dio al di sopra di «questo essere quale si trova nelle creature» 89,
indicando così che non vi è un concetto d’essere che sarebbe comune a
Dio e alle creature. Ma ciò non significa che il nome «Colui che è» non
si applichi a Dio in nessun modo 90 91. Tommaso non vede Dio soltanto
come la causa dell’essere; egli è molto di più. Se la via della causalità gli
permette di esprimere riguardo a Dio qualcosa d’indispensabile, egli
vuole andare ancora più avanti.
Ci si rende conto molto bene di ciò osservando il modo in cui egli
riprende, prolunga e insieme modifica la triplice via che gli proponeva
l’Areopagita per accedere a Dio 3S. La semplice modificazione
dell’ordine stesso delle tre vie mostra bene che egli non condivide
l’apofatismo assoluto di Dionigi, e che la negazione non sopprime i
diritti dell’affermazione 92. Come osserva Tommaso stesso a proposito di
Maimonide, non è sufficiente dire che Dio è vivente perché non ha
l’essere alla maniera di un corpo inanimato. Parimenti si potrebbe dire
benissimo che Dio è un leone, poiché non ha l’essere alla maniera di un
uccello:
«Il senso della negazione è esso stesso fondato su una certa
affermazione. .. Così se l’intelletto umano non potesse conoscere
niente di Dio affermativamente, non potrebbe nemmeno negare
86 Cf. la nota di P. MARC SU SCG III 39 n. 2270 e T.-D. HUMBRECHT, RT
871994, p. 91, n. 92.
88Cf. il testo delle Sentenze I, d. 8, q. 2, a. 2 ad 4, citato qui sopra all’inizio
89della nostra serie.
90 Si vedrà a tal proposito É. GlLSON, he Thomisme, p. 165, secondo il quale il
modo in cui Tommaso modifica l’ordine del metodo proposto da Dionigi capovolge tutta
la dottrina di quest’ultimo; è vero che Tommaso sovverte compieta- mente tutta la
dottrina di Dionigi, ma le cose non sono così semplici: se Tommaso non ritiene utile di
attenersi una volta per sempre allo stesso modo di proporre le tre vie, non è né
inavvertitamente né arbitrariamente, ma proprio secondo i contesti, come l’ha ben
dimostrato M.B. Ewbank (cf. nota seguente).
91 M.B. EWBANK, Diverse Orderings ofDionysiuss Triplex Via by St.
Thomas Aquinas, MS 52 (1990) 82-109.
92 Lo studio di T.-D. Humbrecht è in questo caso prezioso, visto che esso
mostra bene come la teologia negativa non si ha senza una teologia positiva preliminare.
50
niente di lui. Poiché se niente di ciò che afferma di Dio si
verificasse affermativamente, non avrebbe allora nessuna
conoscenza in proposito. È per questo che al seguito di Dionigi,
occórre dire che questi nomi [di perfezione] esprimono
[realmente] la sostanza divina, seppure in modo incompleto e
imperfetto» 93.
1011, q. 13, a. 1 et ad 1.
55
cui il nome li esprime, ma in un modo più eccellente» 102. La
distinzione tra realtà significata e modo propriamente divino di
realizzarla rivela qui la sua utilità. Se Tommaso non vuole a nessun costo
rinchiudere Dio in un concetto, egli pretende però dirne qualcosa.
Due nomi privilegiati si offrono qui alla nostra considerazione.
Consacrato dall’uso, il nome stesso «Dio» non è privo di vantaggi. Se
viene applicato ad altri all’infuori di Dio, ciò non può verificarsi che in
apparenza, «secondo l’opinione», poiché la natura divina non è
comunicabile a vari individui come lo è la natura umana. Non
diversamente da un altro nome, questo non ci permette di conoscere la
natura divina, ma corona molto bene la dialettica ascendente di
eminenza, di causalità e di negazione, poiché «esso è destinato
precisamente a designare un essere che è al di sopra di tutto, che è il
principio di tutto e separato da tutto. Ciò che precisamente tutti
intendono significare quando dicono “Dio”»103.
Il secondo nome che conviene massimamente a Dio è quello con
cui egli stesso si è rivelato a Mosè (Es 3, 14): «Colui che è». Tommaso
ha già avuto varie volte l’occasione di commentarlo 104, ma quando lo
ritrova nella Somma egli enumera tre ragioni che gli sembrano
giustificare questa eminenza. In primo luogo «a causa del suo significato,
visto che non designa una forma particolare di esistenza, ma l’essere
stesso». Poiché - è solo il caso di Dio - il suo essere è identico alla sua
essenza, nessun altro nome potrebbe denominarlo in modo più
appropriato, giacché ogni essere è denominato dalla sua forma. In
secondo luogo è a causa della sua universalità che questo nome conviene
a Dio, dato che ciò che è determinato e limitato non potrebbe
convenirgli, mentre tutto ciò che è assoluto e generale si applica molto
meglio a lui. E per questo che san Giovanni Damasceno reputa «Colui
che è» come il
nome principale di Dio, perché esso comprende tutte le cose in se
stesso come un oceano di sostanza infinita e senza limiti. Mentre ogni
1021, q. 13, a. 3 ad 2.
1031, q. 13, a. 8 ad 2; è sorprendente ritrovare qui la conclusione che conclude
l’enunciato di ciascuna delle cinque vie della I, q. 2, a. 3.
104 E. ZüM BBUNN, La «métaphysique de l'Exode» selon Thomas d’Aquin, in Dieu
et l’être. Exégèse d’Exode 3, 14 et de Coran 20, 11-24, Paris 1978, pp. 245- 269, ha
enumerato una ventina di testi nei quali Tommaso commenta questo versetto: nelle sue
prime opere, egli ripete la formula Colui che è; ma a partire dalla Summa theologiae
sembra preferire la formula completa Ego sum qui sum. Apparentemente senza una
esclusività, poiché se si trova precisamente questa formula in I, q. 2, a. 3 se., è invece
Colui che è che ritroviamo in I, q. 13, a. 11.
56
altro ! nome determina un certo modo della sostanza della cosa, questo
nome «Colui che è» non determina nessun modo di essere particolare;
esso si comporta in maniera indeterminata nei confronti di tutti. Infine,
a causa di ciò che esso include nel suo significato (consignificario):
questo nome significa l’essere al presente, ciò che conviene
sovranamente a Dio, il cui essere non conosce né passato né avvenire.
A leggere questo testo, Tommaso sembra definitivo: nessun altro
dome potrebbe essere più conveniente per designare Dio. Tuttavia, le
póse sono più sfumate e una risposta complementare mette in
competizione, per così dire, i due nomi principali che abbiamo appena
esaminato:
«Il nome "Colui che è” designa Dio con più proprietà di quanto
lo faccia lo stesso nome “Dio”, se ci si riferisce all’origine del
nome (id a quo imponitur), cioè l'essere, e al suo modo di
significare e di “consignificare”. Tuttavia, se si considera ciò
che esso intende significare (id ad quod imponitur nomen) il
nome ’Dio” è più adatto poiché è utilizzato per significare la
natura divina».
Il nome «Dio» non dice niente indubbiamente dell’essenza
divina, ma ha il vantaggio di designarla come se si applicasse a un
individuo singolare un nome universale in un modo che gli sarebbe
proprio: per esempio, «uomo» applicato a Pietro. Al contrario, il nome
«Colui che è», che designa Dio tramite una perfezione che si ritrova in
tutti gli esistenti, non presenta gli stessi vantaggi d’incomunicabilità. Se
il teologo non rinuncia per questo al vocabolario dell’essere è perché,
sottomettendosi alla rivelazione del «Colui che è», ha ricevuto
conferma della validità di esso: «Di (conseguenza, abbiamo due nomi:
“Dio”, che esprime bène la natura (divina ma in maniera puramente
indicativa, ed “essere”, che esprime Bène la perfezione sovreminente di
Dio, ma a partire dalle creature. È per questo che “Dio” afferma il
modo di significare senza raggiungere il modo di essere, e “Colui che
è” enuncia il modo di essere senza signifi- carlo. Nessuno dei due
rinchiude l’essenza divina ed è per questo che in \ùltima analisi il
“Colui che è” tomasiano designa Dio come ineffabile»^. 105
57
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI NOME
1061, q. 13, a. 11 ad 1.
107 Per lo stato della questione si vedrà A. CAQUOT, Les énigmes d’un
hémistiche biblique, e A. CAZELLES, Pour une exégèse de Ex. 3,14, in Dieu et l’être, pp.
17- 26 e 27-44.
108 Cf. A. MAURER, St. Thomas on the Sacred Name
«Tetragrammaton», MS 34 (1972) 274-286; ripreso senza cambiamenti nella raccolta
dello stesso autore: Being and Knowing. Studies in Thomas Aquinas and Later
Medievals Philosophers, Toronto 1990, pp. 59-70. Maurer sottolinea che questa
distinzione tra «Colui che è» e il Tetragramma era già stata operata ben prima di
Maimonide, da san Girolamo e anche da Filone.
109 Cf. A. WOHLMANN, Thomas d’Aquin et Maimonide. Un dialogue
exemplaire, Paris 1988, soprattutto pp. 105-164.
58
forse il caso
59
IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI NOME
del Tetragramma presso gli ebrei» 5S. Il «forse» potrebbe tradurre una
certa perplessità circa il vero significato di questo nome, ma è più
importante osservare che se egli lo cita già nella Somma contro i
Gentili110 111, è soltanto nella Somma di teologia che ne fa questo uso
topico. Il cambiamento è capitale, poiché Tommaso non si situa più
solamente nella prospettiva dell’origine del nome, ma piuttosto in
quella della realtà che il nome è destinato a significare. Il nome
rivelato al credente è preferito al nome definito dal filosofo. Davvero
singolare, esso è di certo il nome al di sopra di ogni nome e non
designa che Dio.
Giunto a questo punto della ricerca, sembrerebbe che l’uomo in
cerca dell’intelligibilità di Dio non possa andare oltre. Ciò sarebbe
vero se Tommaso ragionasse come un semplice filosofo, ma non è mai
stato il caso in questo contesto. Nel momento stesso in cui sembrava ;
utilizzare soltanto le risorse della sua ragione naturale, egli in qualità
di teologo aveva già esplicitamente posto dei cardini e faceva appello
alla conoscenza nettamente più elevata ottenuta per mezzo della
grazia:
«Malgrado la rivelazione della grazia, resta vero che fino a
quando siamo in questa vita noi non conosciamo l’essenza di
Dio {il suo quid est) e che gli siamo uniti come ad uno
sconosciuto; tuttavia, lo conosciamo in modo più completo
perché ci è accessibile per mezzo di effetti più numerosi e più
eccellenti e perché la rivelazione divina ci permette di
attribuirgli delle qualità alle quali la ragione naturale non può
giungere, come il fatto che Dio sia uno e trino» 112.
Tommaso non si addentra immediatamente in questa pista, ma vi
ritornerà alcune pagine più avanti quando riprenderà la questione dei
nomi divini in pieno trattato della Trinità, dove si interroga sui nomi
personali attribuiti in proprio ad ogni persona divina: il Padre, che non
ha altri nomi propri; il Figlio, che ha anche come nomi propri quello di
Verbo e di Immagine; lo Spirito Santo, a cui convengono anche
personalmente i nomi di Dono e di Amore 113. Questo nuovo modo di
trattare le cose non toglie nulla all’impossibilità in questa vita di
conoscere il «quid est» di Dio o alla struttura di una conoscenza di Dio
1101, q. 13, a. 9.
111 Come lo ha segnalato T.-D. Humbrecht, cf. SCG IV 7, n. 3408.
112601, q. 12, a. 13 a d ì .
113 Cf. I, qq. 33-38.
60
ottenuta a
61
partire dagli effetti, ma permette di vedere che Tommaso non
perde di vista le nuove prospettive offerte alla ragione a partire dalla
rivelazione.
Già la rivelazione del «Colui che è» autorizzava la teologia a
prendere il suo posto e a penetrare nel mistero di Dio al di là di quella
sua unità, che la ragione filosofica avvertiva di non avere il diritto di
oltrepassare. Con una chiarezza d’intuizione che fa onore alla loro
grande conoscenza della Bibbia, i teologi medievali non temettero di
ampliare il «Colui che è» dell’Esodo e di vedere in esso un abbozzo
della rivelazione del mistero della Trinità. Essi si sentivano autorizzati
a fare ciò da tutta una tradizione che ha trovato la sua espressione
nèll’arte e nella liturgia, e di cui la Glossa si faceva l’eco: «Questo
vero essere è quello del Dio vivente, della Trinità: solo esso è, in
verità, il Padre con il Figlio e lo Spirito Santo. Per questo si dice: Dio
vive, poiché Tessenza divina vive di una vita che la morte non affetta»
62
. Mettendo in relazione il testo dell ’Esodo con tutti i passaggi del
Nuovo Testamento in cui Gesù parla di se stesso affermando la sua
esistenza nei termini assoluti di «Io sono», molti autori, sia francescani
che domenicani, potevano offrire un’esegesi cristologica del nome
rivelato a Mosè.
Tommaso non è dunque un isolato quando si incammina al loro
seguito nella stessa direzione, ricordando con la Glossa che il nome
divino si appropria alla persona del Figlio, «non affatto in virtù del suo
significato proprio, ma a causa del contesto: cioè nella misura in cui la
parola rivolta da Dio a Mosè prefigurava la liberazione del genere
umano compiuta più tardi dal Figlio» 114 115. I dossier riuniti nella
Catena aurea mostrano a che punto egli condivida il sentimento
generale dei Padri per i quali le teofanie dell’Antico Testamento erano
annunci velati del Verbo, prefigurazioni delPincainazione 116. Ma tra i
teologi della sua epoca egli, meglio di altri, salvaguarda la portata
della sua teologia negativa117. Senza riprendere qui tutti i testi, ci
limiteremo alla
114 Si vedrà qui l’importante studio di E.-H. WÉBER,
h’herméneutique christo- logique d’Exode 3,14 chez quelques maîtres parisiens du XIIIe
siècle, in Celui qui est, Paris 1986, pp. 47-101, dal quale prendiamo in prestito questa
citazione della Glossa (cf. p. 54).
115 I, q. 39, a. 8.
116 Cf. E.-H. WÉBER, ibid., p. 92.
117 Secondo la felice espressione di E.-H. Wéber: «Albert et Thomas
sont les protagonistes très peu suivis de la doctrine apophatique héritée de Denys
expliqué par Jean Scot Erigène» {ibid., p. 88).
lettura del più esplicito per comprendere fino a che punto la
rivelazione sconvolga l’approccio puramente razionale:
«Riguardo a ciò che si deve credere di lui, Cristo insegna tre
cose: innanzitutto, la maestà della sua divinità; poi, la sua
origine a partire dal Padre; infine, la sua unione indissolubile
con il Padre.
Insegna la maestà della sua divinità dicendo: Io sono; cioè, lo
ho in me la natura di Dio, e sono il medesimo che ha parlato a
Mosè dicendo: Io sono colui che sono.
Ma poiché l’essere sussistente appartiene all’intera Trinità, per
non escludere la distinzione delle persone, subito dopo insegna
agli ebrei a credere nella sua origine dal Padre, affermando: E
non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre
così io parlo. Avendo fin dall’inizio realizzato delle opere ed
insegnato, Gesù mostra la sua origine dal Padre, sia in ciò che
egli fa: E non faccio nulla da me stesso..., sia in ciò che insegna:
ma come mi ha insegnato il Padre, cioè mi ha comunicato la
scienza generandomi nella conoscenza. Dato che la natura della
verità è semplice, per il Figlio conoscere significa essere.
Quindi, come il Padre generandolo ha dato al Figlio il fatto di
essere, così gli ha dato anche il conoscere: La mia dottrina non
è mia.
E perché non si pensi che egli è stato inviato dal Padre come
distaccandosi da lui, in terzo luogo insegna a credere la sua
indissolubile unione con tl Padre, dicendo: E colui che mi ha
inviato, cioè il Padre, è con me; da una parte, per unità
d’essenza: Io sono nel Padre e il Padre è in me; d’altra parte,
per unione d’amore: il Padre ama il Figlio e gli manifesta tutto
quello che fa. Cosicché il Padre ha mandato il Figlio senza che
questi si distaccasse da sé: e non mi ha lasciato solo, poiché il
suo amore mi circonda. Sebbene però essi siano inseparabili,
l’uno è inviato (missus) e l’altro invia, poiché l’incarnazione è
una missione, ed appartiene soltanto al Figlio e non al Padre»
118 119
.
Il seguito del testo merita di essere conosciuto, ma ci porterebbe
troppo lontano. È necessario almeno prevenire lo stupore, che si
rischia di provare altrove, di non trovare qui lo Spirito Santo.
Tommaso si preoccupa di avvertire il suo lettore: «Se lo Spirito Santo
non è citato qui, occorre sapere che ovunque si tratti del Padre e del
Figlio, e soprattutto quando si tratta della maestà divina, lo Spirito
118 In Ioannem 8, 28, lect. 3, n. 1192.
119 Inloannem 17, 3, lect. 1, n. 2187.
Santo è sottinteso (letteralmente: è “co-inteso”), poiché esso è il
legame che unisce il Padre ed il Figlio» 67. Non è affatto necessario
insistere affinché si
percepisca l’ampiezza del nuovo campo che si apre alla
riflessione, ma il clima di ricerca non cambia. Tommaso non ritira
niente di ciò che ha detto circa rinconoscibilità dell’essenza divina.
Egli sa che la rivelazione della semplicità divina fatta a Mosè, nella
teofania del Roveto ardente, si sviluppa al tempo opportuno in
rivelazione dell’unità trinitaria, ed egli accoglie nell’umiltà della sua
fede cristiana la rivelazione di questo al di là assoluto a cui la sua
ragione non poteva pretendere di arrivare. Gesù è venuto a dare alla
questione di Dio una risposta che l’uomo non poteva nemmeno
immaginare.
65
Dio e il mondo
In linea retta con una concezione della teologia che situa Dio al
centro del suo progetto, un certo numero di opzioni si impongono. La
più immediata concerne l’organizzazione stessa della materia teologica:
la sintesi del sapere su Dio deve essere presentata obbligatoriamente in
modo da far risaltare il primato sovrano che tocca all’unico soggetto di
questo sapere. La soluzione si trova nel piano della Somma di teologìa.
Lo svolgimento pedagogico della questione non deve indurre in
errore:'* è in questa maniera che veniamo introdotti nell’insieme della
dottrina di fra Tommaso e soprattutto nella sua dottrina della creazione,
dell’uomo come immagine di Dio, della presenza di Dio nel mondo e
dell mondo in Dio. Grandi questioni teologiche che formano altrettanto
temi portanti della spiritualità di ogni tempo.
L’ALFA E L’OMEGA
132 SCG IV 21, n. 3576; questo aspetto delle cose è sempre più riconosciuto, cf.
Tommaso d‘Aquino. L'uomo e il teologo, pp. 178-181; J. AERTSEN, The Circuldi tion-
Motive and Man in the Thougth of Thomas Aquinas, vaUbomme et son ; : ! S au Moyen Age,
CHR. WENIN ed., Louvain-la-Neuve 1986, t. 1, pp. 432-439; Naturi^ and Creature, Thomas
Aquinas’s Way of Thougth, «STGMA 21», Leiden 1988.
impedito a Tommaso di completare la sua opera, ma è proprio qui che
voleva condurre il suo lettore; il Prologo della Terza Parte è molto chiaro a
questo proposito:
TRINITÀ E CREAZIONE
«l' i A. 1° Ciò è stato magistralmente messo in luce da G. EMERY, Creatrix Trinitas. fLS^Trinité
créatrice dans les commentaires aux Sentences de Thomas d’Aquin et de sespn'cursetrrs Albert
le Grand et Bonaventure, Diss., Fribourg 1994.
seguito. Il fenomeno è noto: la prima volta che un autore percepisce
un’idea importante, egli cerca di esplorarla a fondo e di mostrarne tutti gli
aspetti. In seguito, si accontenta di ricordarla succintamente e di supporre
71
conosciuta dal suo lettore la prima spiegazione che ne ha dato. Così accade
per le relazioni della creazione con la Trinità: nelle Sentenze pur
esprimendosi in maniera molto condensata, troviamo tuttavia una dottrina
più ampiamente sviluppata rispetto alla Somma:
«Nell’uscita delle creature dal primo Principio si osserva una specie
di movimento circolare (quaedam circulatio uel regiratio) per il
fatto che tutte le cose ritornano, come al loro fine, verso ciò da cui
sono uscite come dal loro Principio. Ed è per questo che è
necessario che il loro ritorno verso il fine si compia mediante le
stesse cause per cui si ha la loro uscita dal Principio. Ora, come si è
già detto, poiché la processione delle persone è la ragione
esplicativa [ratio; questo termine molto ricco ha simultaneamente
vari significati: causa, modello, ragione, motivo, ecc.J della
produzione delle creature operata dal primo Principio, questa stessa
processione è dunque anche la ratio del loro ritorno al loro fine» u.
Un po’ enigmatico nella sua concisione, questo testo si spiega
facilmente se ci si riferisce al passaggio al quale rinvia l’autore 133 134.
Alcune pagine prima egli ha spiegato che la processione delle creature,
altrimenti detta creazione, non si spiega bene da parte del suo autore se
non tenendo conto di due punti di vista: da una parte, quello della natura
divina, la cui pienezza e perfezione spiegano la perfezione delle creature -
dato che essa ne è contemporaneamente la causa realizzatrice e il modello
e dall’altra parte, quello della volontà, che fa sì che tutto ciò sia donato
liberamente, per amore, e non per una specie di necessità naturale. Ora,
siccome noi riteniamo mediante la nostra fede che in Dio vi è una
processione delle persone all’interno dell’unità dell’essenza divina, ne
concludiamo che questa processione intratrini- taria, che è perfetta, deve
anche essere la causa e la ragione esplicativa della processione delle stesse
creature.
Dal punto di vista della natura, è chiaro che la perfezione delle
creature non rappresenta se non molto imperfettamente la perfezione della
natura divina; ma noi la riferiamo tuttavia, come a suo principio
esplicativo, al Figlio, che contiene tutta la perfezione della natura divina
poiché è la perfetta immagine del Padre. E così che la processione del
Figlio è il modello, l’esemplare e la ragione della processione delle
creature nell’ordine naturale, dove esse imitano e riproducono qualco- sa
della natura divina.
In base al secondo punto di vista, secondo cui la processione delle f
creature risulta dalla volontà divina, occorre riferirsi a un principio che :
Ma esplicativo di tutti i doni elargiti da tale volontà. Il principio primo in
133 Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2.
134 Tommaso rinvia qui al testo assolutamente decisivo di Sent. I, d. 10, q.
1, a. 1;72
la sua densità sfida la traduzione, ma è esso che noi parafrasiamo qui sopra.
quest’ordine non può essere che l’amore, poiché non è che in sua virtù f
che tutte le cose sono liberamente accordate dalla volontà divina, dunque
esso ne è anche la ragione esplicativa. È per questo che, in quanto risulta
dalla liberalità divina, la processione delle creature è ricondotta alla
persona dello Spirito Santo, che procede per modo di amore.
Tale dottrina, già presente in molti altri testi di questo stesso libro
delle Sentenze 13, è anche quella della Somma che la riprende con molta più
chiarezza:
«A DÌO appartiene l’atto creativo in forza del suo essere: e questo non
è che la di lui essenza, comune alle tre Persone. E così il creare non
è proprietà di una sola Persona, ma opera comune di tutta la
Trinità. Tuttavia le Persone divine hanno un influsso causale sulla
creazione in base alla natura delle rispettive processioni... Dio è
causa delle cose per mezzo del suo intelletto e della sua volontà,
come Tartigiano nei confronti dei suoi manufatti. Ora, l’artigiano si
pone all’opera servendosi di un verbo [parola intima o idea]
concepito dall’intelligenza, e spinto da un amore [o inclinazione]
della sua volontà verso qualche oggetto. Allo stesso modo anche Dio
Padre ha prodotto le creature per mezzo del suo Verbo, che è il
Figliuolo; e per mezzo del suo Amore, che è lo Spirito Santo. E sotto
questo aspetto le processioni delle Persone sono causa della
produzione delle creature, in quanto esse includono attributi
essenziali, quali la scienza e la volontà»135 136.
Dopo aver chiarito ciò che riguarda direttamente la produzione delle
creature, possiamo ritornare al brano delle Sentenze che stiamo
commentando e che continua trattando del ritorno delle creature verso
Dio, parimenti messo da Tommaso in relazione con la processione del
Figlio e dello Spirito:
«Infatti come siamo stati creati per mezzo del Figlio e dello
Spirito Santo, così mediante essi siamo uniti al nostro fine
ultimo. Questo già pensava sant’Agostino quando evocava il
Principio al quale ritorniamo, cioè il Padre, il Modello che
seguiamo, cioè il Figlio, e la Grazia che ci riconcilia, cioè lo
Spirito Santo. Come pure sant’Ilario, che parla dell’unico
senza-principio e principio di tutto, al quale riferiamo iurte le
cose mediante il Figlio»137.
135 Si può vedere per esempio Seni. I, d. 14, q. 1, a. 1, che tratta anche delle
piocessioni intratrinitarie e dei loro rapporti con la creazione; vedere anche Seni. I, d. 27,
q. 2, a.3 ad 6: «...non tantum essentia [diurna] habet ordinem ad creaturam, fei etiam
processio personalis, quae est ratio processionis creaturarum».
1361, q. 45, a. 6.
137 Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2; la citazione di sant’Agostino è presa dal De nera reli
gione c. 55, n. 113 (BA 8, pp. 188-191; NBA 6/1, p. 157); quella di santuario dal De Synodis
59, XXVI (PL 10, 521); a tal proposito si leggerà volentieri il magnifico stu dio di G.
EMERY, Le Pére et l’oeuvre trinìtaire de création selon le Commentaire des t Sentences 73 de
Questo testo ha su molti altri il vantaggio di prolungare la dottri- - na
della processione delle creature con una dottrina delle «missioni» :| divine.
Si parla di missione, è chiaro, per esprimere l’invio (in latino: missio) del
Figlio da parte del Padre, o dello Spirito da parte del Padre e del Figlio,
mediante il dono della grazia accordato alle creature razionali. Ne
parleremo più ampiamente nel capitolo seguente; per il momento è
sufficiente sapere che è l’operazione dello Spirito in mezzo alle creature
che permette il ritorno dell’opera all’Artefice. Incontriamo qui per la prima
volta, ma la ritroveremo spesso, una opzione tomasiana fondamentale che
traduce esattamente la sua visione del mondo: malgrado la differenza di
livello tra il dono dell’essere e quello della grazia, Tommaso non vede
nessuna rottura in due parti: è lo stes- .? so Dio che prende l’iniziativa di
questi due tipi di doni nell’unità del i suo piano di salvezza per il mondo:
f
«Mi'sono due modi di considerare la processione delle persone nelle
creature. In primo luogo in quanto essa è la ragione dell’uscire dai
Principio, ed è questa la processione dei doni naturali nei quali
sussi stiamo; in tal modo Dionigi può affermare nei Nomi divini che
la sa, ; gezza e la bontà divine procedono nelle creature... ».
I «doni naturali» corrispondono a ciò che chiamavamo poco fa il '1
livello della natura; si tratta del fatto di esistere, che l’uomo condivide
L’ARTISTA DIVINO
142 H.-F. DONDAINE, ihid; per uno studio più completo, si vedrà E.
BAILLEUX, La création, œuvre de la Trinité, selon saint Thomas, RT 62
(1962) 27-50.
143 Cf. R. IMBACH, Dieu comme artiste. Méditation historique sur les
liens de rioS: conceptions de Dieu et du Beau, «Les Echos de Saint-Maurice», n.s. 15
(1985) 5-19. 77
vuole che l’effetto riceva una forma determinata. Infatti, è
perché osserva un modello che l’artigiano produce nella materia
una forma determinata, sia questo modello a lui esterno, oppure
interiormente concepito dalla sua intelligenza. Ora, è chiaro che
le cose prodotte dalla natura ricevono una forma determinata.
Questa determinazione delle forme deve essere riportata come al
suo primo principio, alla saggezza divina che ha elaborato
l’ordine dell’universo, il quale consiste nella disposizione
differenziata delle cose. E per questo bisogna dire che la
saggezza divina contiene le nozioni di tutte le cose, che
precedente- mente abbiamo chiamato "idee”, cioè forme
esemplari esistenti neU l’intelligenza divina 144. E sebbene
queste siano molteplici secondo la loro relazione alle realtà, non
sono realmente distinte dall’essenza divina, poiché la
somiglianza di questa può essere partecipata in modo diverso
dai diversi esseri. Così dunque Dio è egli stesso il primo modello
di tutto» 145.
144 Si può vedere a tal proposito l’importante studio di L.B. GEIGER, Les
idées divines dans l’oeuvre de S. Thomas, in Commemorative Studies I, pp. 175-209.
145 I, q. 44, a. 3; queste idee sono familiari a Tommaso, cf. De uer., q. 2, a. 5
e il commento di S.-TH. BONINO, La question 2 des «Quaestiones disputatae De ventate»
de Thomas d’Aquin, diss. Fribourg, t. 2, note 37-42, pp. 447-451; F.J. KOVA- CH, Divine
Art in Saint Thomas Aquinas, in Arts libéraux et Philosophie au Moyen Age. Actes du
quatrième Congrès international de philosophie médiévale (Montréal 27 août - 2 sept.
1967), Montréal-Paris 1969, pp. 663-671; più ampiamente H. MERLE, Ars, BPM 28 (1986)
78
95-133.
Ritroveremo l’immagine nel capitolo seguente, ma la dottrina del
vestigio è già molto ricca. Si parla di vestigio o di traccia quando
ll’effetto rappresenta la causalità dell’agente che l’ha prodotto, ma non
fla sua forma; così il fumo o la cenere evocano, il fuoco ma non lo
riproducono: «La traccia mostra proprio che qualcuno è passato in quel
posto, ma non ci dice chi». Eppure ciò è già qualcosa ed è sufficiente a
Tommaso per affermare che
«in tutte le creature vi è una rappresentazione della Trinità per
modo di vestigio, nel senso che si trova in ciascuna di esse
qualcosa che bisogna necessariamente riferire alle persone
divine come a loro causa... Infatti, in quanto è una sostanza, la
creatura rappresenta la sua causa e il suo principio e così
manifesta il Padre, Principio senza principio. In quanto ha una
data forma e specie essa rappresenta il Verbo, poiché la forma
dell’opera deriva dall’artefice che l’ha concepita. Infine, in
quanto è ordinata ad altre realtà la creatura rappresenta lo
Spirito Santo che è amore: infatti, l’orientamento di una cosa a
un’altra è l’effetto di una volontà creatrice»2*’.
Per fondare questi esempi di cui trova l’ispirazione in
sant’Agosti- no Tommaso si riferisce alla celebre triade del libro della
Sapienza (11, 21) secondo la quale Dio ha disposto tutto con misura,
calcolo e peso; «la misura riferendosi alla sostanza di una cosa
limitata ai suoi propri eiematti, il calcolo alla specie e il peso
all’ordine». Secondo lui, si potrebbero facilmente ricondurre a questa
triade molte spiegazioni proposte dai vari autori, ma si guarda dallo
spingere troppo lo spirito di sistema al punto di ritrovare la triade
dappertutto. E sufficiente che l’uno o l’altro di questi elementi sia
presente affinché, essendo sempre la Trinità creduta per fede, sia
possibile procedere a questo tipo di appropriazioni.
San Tommaso ha spesso dato delle spiegazioni su questa distinzione
fondamentale tra immagine e vestigio147 148 149; senza soffermarci ora su
146 Se non bisogna disistimare il metodo filosofico che ci fa risalire
dall’effetto alla causa, è anche importante non sopravvalutarlo in questo contesto delle
orme trinitarie nella creazione: soltanto la rivelazione della Trinità ci permette di
coglierle come tali. Ci si ricordi degli avvisi severi contro la pretesa di «provare» la
Trinità delle Persone con la ragione naturale, cf. I, q. 32, a. 1.
147 I, q. 45, a. 7; cf. SCG III 26 n. 3633, dove Tommaso sottolinea che in
simili casi si parla di vestigio e non di immagine perché la somiglianza negli esseri
irrazionali non è che remota e oscura (propter remotam repraesentationem et obscu- fàm
in irrationabilibus rebus).
148 Si può rinviare qui al De Trinitate VI 10, 11-12 (BA 15, pp. 496-501;
NBA 4, pp. 284-287) e, più ampiamente, ai libri X-XI; vedere la nota complementare
45: «L’homme à l’image», pp. 589-591.
149 Cf. soprattutto Seni. I, d. 3, q. 2, a. 2; Depot, q. 9, a. 9; e in modo79
di essa, occorre sottolineare en passant l’interesse spirituale di questa
dottrina, Che Dio sia in tal modo riconoscibile mediante la sua traccia
nella creazione, costituisce evidentemente il punto di partenza per
dimostrare l’esistenza di Dio 28, ma è anche lecito adottare
«riconoscere» nel senso di «confessare», e allora è aperta la via alla
lode e all’ammirazione. Come il Salmista, Tommaso sa bene che «i
cieli narrano la gloria di Dio» e non è né il primo né il solo. E
soprattutto con sant’Agostino, al quale rinvia, egli ritiene che «le
creature sono come delle parole che esprimono l’unico Verbo divino»
29
. Senza avere il brio di Agostino né il lirismo di san Giovanni della
Croce, che pure si serve di questa vena 30, egli condivide la stessa
convinzione e la esprime con la sobrietà del suo proprio carisma: «Il
mondo intero così non è nient’altro che una vasta rappresentazione
della Sapienza divina concepita nel pensiero del Padre» 31. La
preoccupazione, legittima e necessa- che comporta la nozione di vestigio,
rinviamo allo studio di B. MoNTAGNES, La Parole de Dieu dans la création, RT 54 (1954)
213-241; osserviamo tuttavia che il testo di partenza non appartiene alle prediche
autentiche di Tommaso.
28
Cf. I, q. 2, a. 3; Super lob 11, linn. 112-114, Leon. t. 26, p. 76: «le vestigia
sono come dei segni di Dio nelle creature, a partire dai quali Dio può essere conosciuto
in qualche modo»; si noterà che si tratta di un processo «ascendente», contrariamente
a quello «discendente» della Summa nella parte che commentiamo.
29
Sent. I, d. 27, q. 2, a. 2, qc. 2 ad 3: «La creazione propriamente parlando
non può essere detta “verbo”, essa è piuttosto la “voce del verbo” ( uox nerbi)-, come
infatti la voce manifesta il pensiero (uerbum), così la creazione manifesta l’arte divina.
Per questo i Padri affermano che con il solo suo Verbo Dio ha detto tutta la creazione.
Le creature sono dunque come delle parole che esprimono l’unico Verbo divino (Vnde
creaturae sunt quasi uoces exprimentes unum Verbum diuinum). Ecco perché
sant’Agostino poteva dire: Omnia clamant, Deus fecit. Ma ciò non poteva dirlo che per
metafora»; ci si ricorda del passaggio indimenticabile delle Confessioni X 6, 9 (BA 14,
p. 154-159; NBA L P- 307): alla domanda di colui che cerca Dio, la bellezza delle
creature risponde: «E lui che ci ha creato».
30
Senza volerne fare un tomista come a volte si è tentato di fare, non è vietato
osservare che è questa ispirazione che si nota facilmente nel Cantico spirituale, V
strofa: «Mille grazie versando, / Passò per queste selve agile e snello; / Mentre le andò
mirando, / Solo col suo bel volto / Fe’ ch’ogni bel rimase in esse accolto». H commento
del mistico si avvicina sorprendentemente alle espressioni dei teologi: «Dio creò tutte le
cose con grande agevolezza e rapidità, ed in esse lasciò un certo vestigio del suo essere,
non solo traendole dal nulla all’esistenza, ma anche dotandole di innumerevoli grazie
e virtù [...] Le creature sono come un’orma del passo di Dioj nella quale si scorge la sua
grandezza, potenza e sapienza, e altri suoi attributi», cf. SAN GIOVANNI DELLA
CROCE, Cantico spirituale, a cura del p. Nazareno dell’Addolorata, Torino 1947, pp.
74-75.
31
In loannem 1,10, lect. 5, n. 136.
ria, di ben precisare lo statuto esatto di questa conoscenza di Dio a
partire dalla creazione ha fatto sì che a volte i suoi discepoli mettessero
in secondo piano il sentimento di ammirazione estasiata che coglie il
80
particolare I, q. 93, a. 6, che ritroveremo ben presto; per l’elaborazione riflessiva di ciò
credente alla vista di tutti questi segni della Trinità; niente tuttavia
impedisce di leggere il Maestro anche in questo modo150.
a. 2 ad 9: esse est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium
perfectionum). Etienne Gilson si è molto impegnato per rimettere in primo piano
questo insegnamento, cf. in modo particolare Le Thomisme, Paris 19866, inizio del
cap. Ili, pp. 99-112.
156 Poiché egli arriva fino al punto di concedere che Dio si trova
anche nei demoni, almeno in quanto essi sono delle realtà esistenti (a. 2 ad 4). A
maggior [ragione egli sarà nei peccatori di cui l’atto stesso di peccare non ha altra
realtà fisica se non quella che gli presta Dio ad ogni istante.
1571, q. 8, a. 1 ad 2.
1581, q. 8, a. 2 ad 3.
1591, q. 8, a. 3 ad 3: «Magis res sunt in Deo quam Deus in rebus».
1601, q. 3, a. 8.
161 Cf. J.-H. NICOLAS, Transcendance et immanence de Dieu, ST 10
(1981) 337-349.
162 Seni. I, d. 37, q. 1, a. 2. 83
spirituali capaci di ricevere la grazia e dunque di accedere a Dio in un
modo personale; quanto al terzo, esso si realizza soltanto in Cristo,
che l’unione ipostatica situa al vertice della creazione:
«La prima [presenza] si realizza per semplice similitudine, cioè
nella misura in cui si trova nella creatura una somiglianza
della divina bontà [questo corrisponde a ciò che abbiamo
caratterizzato qui sopra come "vestigio”], senza che essa
raggiunga Dio considerato nella sua sostanza. Questo modo di
congiunzione [tra Dio e la sua creatura] lo si incontra in tutte
le creature nelle quali Dio si trova per la sua essenza, la sua
presenza e la sua potenza».
I teologi parlano in questo caso di una «presenza di immensità».
Tommaso spiega ciò molto chiaramente nella Somma 163, ma ha pure
un testo ancora più esplicito, che risale alla fine della sua carriera:
«Si dice comunemente che Dio è in ogni realtà per la sua
essenza, presenza e potenza. Per comprendere ciò, bisogna
sapere che qualcuno è detto essere per la sua potenza in tutti
coloro che gli sono sottomessi, così come il re è detto essere in
tutto il regno che gli è sottomesso, senza tuttavia esservfcon la
sua presenza né con la sua essenza. Per la sua presenza,
qualcuno è detto essere in tutte le realtà che sono al suo
cospetto, così come il re è detto essere presente nel suo
palazzo. Invece qualcuno è detto essere per la sua essenza nelle
realtà in cui è la sua sostanza, così come il re è [nella sua
propria individualità] in un solo determinato luogo.
Noi affermiamo che Dio è dappertutto nel mondo per la sua
potenza, poiché tutte le cose sono sottomesse al suo potere - Se
salgo in cielo, là tu sei (...), se prendo le ali dell’aurora per
abitare alPestremità del mare, anche là mi guida la tua mano e
mi afferra la tua destra (Sai 138, 8) Dio è anche dappertutto
per la sua presenza, poiché tutto ciò che è nel mondo è nudo e
scoperto agli occhi suoi (Eb 4, 13). Infine Dio è dappertutto
per la sua essenza, poiché la sua essenza costituisce ciò che vi
è di più intimo in tutte le realtà... Ora, Dio crea e conserva
tutte le cose seconda l’atto d’essere di ogni realtà. E dato che
l’atto d’essere forma ciò che vi è di più intimo in ogni realtà, è
chiaro che Dio è in tutte le realtà per la sua essenza, mediante
la quale le crea» 46.
alla potenza divina, pretendevano che essa non si occupa di queste umili realtà
materiali (cf. I, q. 22, a. 2); essenza rettifica la posizione di Avicenna che, pur
ammettendo la divina provvidenza su tutte le cose, negava che la creazione sia sta- ta
effettuata senza intermediari (cf. I, q. 45, a. 5).
46
In loannem 1, lect. 5, n. 134.
47
Sai 139, 24; si può ampliare con T.-P, TORRELL, Dieu qui es-tu?, Paris 1974,
pp. 170-175.
stessa Verità prima, e con la carità alla sovrana Bontà. Tale è
dunque il secondo modo, secondo il quale Dio è specialmente
nei santi mediante la grazia».
Con questa scarna formula Tommaso evoca qui la dottrina
dell’inabitazione divina che, pur dando origine a eruditi commenti,
conserva in lui una semplicità tutta giovannea: «Se uno mi ama..., noi
verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il
contesto qui è molto chiaro: non si tratta dei santi canonizzati ma
proprio di tutti i cristiani che vivono secondo le virtù teologali.
Questa precisazione è sufficiente per mettere in risalto
l’incommensurabile differenza tra la presenza di immensità del Dio
creatore in tutte le cose, anche materiali, e la presenza che egli
riserva a coloro che lo amano perché per primo li ha amati: «al di
fuori della grazia, non esiste una perfezione aggiunta alla sostanza
che introduca Dio in un essere a titolo di oggetto conosciuto e amato.
Solo la grazia fonda un modo particolare di essere di Dio nelle
cose» 164.
Circa il terzo tipo di presenza di Dio nel mondo, Tommaso lo
menziona qui molto brevemente: «Eppure c’è un altro modo
1641, q. 8, a. 3 ad 4; per maggiori dettagli su questo passaggio, cf. lo studio
esaustivo di J. PRADES, «Deus specialiter est in sanctis per gratiam». El
misterìo de la inhabitación de la Trinidad en los escritos de santo Tomàs
(«Analecta gregoriana 261»), Roma 1993. 85
singolare di esistenza di Dio nell’uomo: mediante l’unione». Così
com’è, questa semplice parola ha qualcosa di enigmatico, Tommaso
però l’ha spiega
ta nel testo delle Sentenze che ci serve da canovaccio:
«La creatura raggiunge Dio stesso non solo mediante la sua
operazione, ma anche nel suo proprio essere. Quest’ultimo
bisogna intenderlo non dell’atto che costituisce l’essenza
divina - poiché la creatura non può mutarsi nella natura divina
- ma dell’atto che costituisce l’ipostasi o la persona alla cui
unione la creatura è elevata. È l’ultimo modo [di presenza],
quello secondo il quale Dio è in Cristo tramite l’unione
[ipostatica]».
Con una formula più semplice possiamo dire che è la venuta
del Verbo nella carne che realizza questo terzo modo di presenza
nella sua creazione. Noi incontriamo qui la questione, celebre tra i
teologi, sul
motivo dell’incarnazione: Perché Dio si è fatto uomo?... Partendo dal
principio che questo genere di questioni può avere una risposta
soltanto dalla Scrittura, Tommaso vi risponde dicendo che Dio
probabilmen- f te non si sarebbe incarnato se l’uomo non avesse
peccato, ma ammette che esiste a riguardo una diversità di opinioni
possibili:
«Alcuni dicono che anche se l’uomo non avesse peccato, il
Figlio di Dio si sarebbe incarnato; altri affermano il contrario.
Quest’ultima opinione sembra preferibile. Infatti, le cose che
dipendono dalla sola volontà di Dio e sulle quali le creature
non hanno nessun diritto, non possono esserci note se non nella
misura in cui Dio vuole manifestarcele e ce le trasmette
mediante la Sacra Scrittura. Ora, il motivo che la Sacra
Scrittura dà dappertutto dell’incarnazione, è il peccato del
primo uomo. Sembra dunque più probabile (conuenientius) che
questo mistero sia stato voluto da Dio come rimedio al peccato,
sicché senza il peccato non ci sarebbe stata l’incarnazione.
Tuttavia bisogna ammettere che la potenza di Dio non si limita
a questo e che, anche senza il peccato, Dio avrebbe potuto
incarnarsi»165.
,dans le pian de Dieu, Chambéry-Leysse 1951. Cf. anche lo splendido articolo, che non
si può non seguire in tutti i suoi dettagli, di M. CoRBIN, La Parole devenue chair.
Lecture de la première question de la Tertia Pars de la Somme théologique de Thomas
d’Aquin, RSPT 67 (1978) 5-40, ripreso in L’inouì de Dieu. Six études chri- stologiques,
Paris 1980, pp. 109-158 (a p. 112, l’autore impiega un «no» che non si trova nel testo
del commento a Timoteo; dunque bisogna leggere piuttosto: «questa questione non è
di una grande importanza»).
166 Per il significato dell’argomento di convenienza, rinviamo
all’illuminante studio preliminare di G. NARCISSE, Les enjeux épistémologiques de
l’argument de Èprivènance selon saint Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris,
pp. 143-167.
167 III, q. 1, a. 1.
168 Sebbene tratti della questione senza uno speciale rapporto al nostro u-
m.i, si può rinviare qui allo studio più ampio di TH.R. POTVIN, The Theology of thè
l'r; macy of Christ According to St. Thomas Aquinas and its Scriptural Toundations,
«Studia Friburgensia» n.s. 50, Fribourg (Svizzera) 1973. 87
della grazia che proviene dalla pura liberalità divina. Ed è per questo
che non è possibile concepirli in un modo rigorosamente simmetrico
169
. L’ordine discen-
dente dei doni naturali non tollera nessun intermediario tra l’azione di
Dio e la sua creatura quando si tratta di comunicare l’essere; invece ' i
l’ordine ascendente, che è quello del ritorno della creatura verso Dio, non
solo accetta alcune mediazioni ma le esige necessariamente, come nel caso
dell’umanità di Cristo e del dono della grazia dello Spirito Santo. Cristo si
trova infatti all’esatta congiunzione dei due ordini di mediazione,
discendente e ascendente, e perciò - Tommaso lo spiega commentando un
versetto un po’ ermetico del Siracide (1,7) che parla dei «fiumi che
ritornano alla loro fonte» - la circolarità trova in lui la sua realizzazione
più perfetta e la sua più bella espressione:
«E il mistero dell’incarnazione che è significato da questo
ritorno dei fiumi verso la loro fonte... Questi fiumi sono in effetti i
beni naturali di cui Dio ha colmato le creature: l’essere, la vita,
l’intelligenza... e la fonte dalla quale essi provengono è Dio...
Mentre poi si trovano dispersi in tutta la creazione, questi beni si
trovano riuniti nell’uomo perché costui è come l’orizzonte, il limite
in cui si congiungono la natura corporale e quella spirituale;
trovandosi come al centro, egli è « partecipe sia dei beni spirituali
che di quelli temporali... Per questo quando la natura umana fu
unita, a Dio tramite il mistero dell’incarna- R zione, tutti i fiumi dei
beni naturali ritornarono alla loro fonte»54.
st’ortline che appartiene l’assunzione della natura umana da parte del Verbo di Dio
che è il termine di questa assunzione, e che è in tal modo unito alla carne mediante
l’anima».
54
Seni. Ili, Prole, decisamente nello stesso senso, SCG IV 55, n. 3937: «Dato che
l’uomo è in un certo senso il compimento delle creature, poiché le presuppone tutte
nell’ordine naturale della sua generazione, era del tutto giusto che fosse imito al
primo principio affinché la perfezione dell’universo fosse completata mediante una
specie di cerchio».
89
Si può partire qui da una semplice constatazione. Tommaso è,
come si sa, un frequentatore abituale della Bibbia, specialmente della
letteratura sapienziale170. Ora, tra le numerose citazioni del libro della
Sapienza che ritornano spesso sotto la sua penna, questa è una delle
più frequenti: «Tu ami tutti gli esseri e nulla disprezzi di quanto hai
creato; poiché se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creato.
Come potrebbe sussistere una cosa se tu non l’avessi voluta? Come
conserverebbe l’esistenza se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?»
171
. Tommaso ama dunque citare queste parole e quando si chiede:
Dio ama tutte le cose?, senza esitare risponde:
«Dio ama tutto ciò che esiste. Infatti, tutto ciò che esiste è buono per
| il solo fatto che esiste, poiché l’essere è in se stesso un bene così
come % | ogni perfezione che esso può avere. Dato che la volontà di
Dio è la causa di ogni cosa, ogni cosa allora non ha essere né
perfezione se non nel- \ la misura in cui è voluta da Dio. Dio dunque
vuole bene ad ogni esistente e, poiché amare qualcuno non è
nient’altro che volergli bene, è evidente che Dio ama tutto ciò che è.
fi
Ma questo amore non è come il nostro... L’amore, mediante il quale
f| voghiamo del bene a qualcuno, non è la causa della sua bontà; è
al con- | trario la sua bontà che, vera o supposta, provoca l’amore
con il quale f \ vogliamo conservargli il bene che possiede e perfino
aumentarlo, facen- J dori impegnare in questo. L’amore di Dio
invece è la causa che infon- [ de e crea la bontà negli esseri»172. '
Non è possibile esprimere più semplicemente e più vigorosamente la
differenza tra l’amore di Dio e il nostro. Ciò che l’amore più lolle 1
si rivela impotente a realizzare per l’essere più amato, Dio lo fa per eia- \
scuno di noi. Come un sole farebbe sbocciare il fiore anche senza seme t e
senza acqua, l’amore di Dio fa sorgere l’essere dal niente, lo serba »
nell’esistenza e lo ricolma della sua bontà in ogni istante. Sicché la
creazione non è un atto senza continuazione. Dio non si disinteressa di
questo mondo che ha fatto. Tanto la fede quanto la ragione ci obbliga-
170 Cf. J.-P. TORKELL - D. BOUTHILLIER, Quand saint Thomas méditait sur le
prophète Isaïe, RT 90 (1990) 5-47, cf. p. 9.
171Sap 11, 25-26 Volg., cit. in I, q. 20, a. 2 se.; del versetto 25 si possono
contare un totale di 18 ricorrenze e 4 del versetto 26, ripartite in una decina di opere,
tra cui le due Somme sono nettamente maggioritarie (10 ricorrenze).
1721, q. 20, a. 2: «Sed amor Dei estperfundens et creans bonitatem in rebus».
no ad ammettere che le creature sono conservate nell’essere da Dio:
I«Eessere delle creature dipende a tal punto da Dio che esse non
potrebbero sussistere e sarebbero ridotte al niente se, mediante
l’operazione Ideila potenza divina, non fossero mantenute
nell’essere»58. Ciò si spiega facilmente se ci si ricorda che Dio non è
soltanto causa del divenire di fógni essere ma, nel modo più diretto e
intimo, ¿.éA essere stesso59. La conclusione s’impone da sola, senza
però alcun bisogno di immaginare un nuovo intervento divino: «La
conservazione delle cose operata da ©io non suppone una nuova
azione da parte sua, ma soltanto che con- tinui a donare l’essere» 60.
Senza insistervi molto, dato che la cosa ora dovrebbe essere
evidente, bisogna tuttavia dire che ritroviamo all’opera in questo
contesto del governo divino - o della Provvidenza: i termini sono
quasi sinonimi - le tre Persone così come le abbiamo scoperte nella
prima creazione delle cose. Quando Tommaso trova in san Giovanni
(5, 17) la parola di Cristo: «Il Padre mio è all’opera fino ad oggi e
anch’io opero», commenta senza timore:
«Perciò come il Padre mio, pur avendo istituito in principio
l’universo, opera tuttora, mantenendolo e conservandolo con
un’unica operazione, così anch’io opero/ poiché sono il Verbo
del Padre, per il quale egli opera ogni cosa... Perciò come
intervenne nella prima istituzione delle cose mediante il Verbo,
così opera nella loro conservazione... Anch’io opero, perché
sono il Verbo del Padre per mezzo del quale tutte le cose sono
prodotte e conservate nell’essere» 61. [Tommaso sembra che
non perda nessuna occasione per sottolineare la costanza di
questa azione del Verbo. Così quando spiega le parole di Gesù:
«io lascio il mondo e vado al Padre», crede utile precisare che
si tratta solo di una 173
partenza fisica e non di un abbandono del mondo]. «Lo lascia
non già sottraendogli la provvidenza del suo governo, poiché
egli governa: sempre il mondo insieme col Padre, e rimane
17381, q. 104, a. 1.
59
Tommaso riprende qui il suo paragone preferito (ibid.): «La situazione di
ogni creatura al cospetto di Dio è come quella dell’atmosfera nei confronti del sole
che la illumina... Dio solo è essere per essenza, poiché la sua essenza è la sua esi-
stenza; ogni creatura invece è essere per partecipazione in quanto non appartiene
alla sua essenza resistere».
60
Se si vuole, si potrà parlare qui di creazione continuata, ma a condizione di
ben capire che è soltanto in rapporto a noi che ciò accade nel tempo. Dal punto di
vista di Dio, «questa azione (si compie) al di fuori del movimento e del tempo», I, q.
104, a. 1 ad 4; si possono vedere a tal proposito le note di CH.-V. HERIS, in SAINT
THOMAS D’AQUIN, Le gouvernement divin («JRevue des Jeunes»), Paris 1959, 1.1,
pp. 253ss.
61
In Ioannem 5, 17, lect. 2, n. 740. 91
sempre con i suoi mediante il conferimento della sua grazia»
174
.
La stessa cosa vale per lo Spirito Santo. Quando Tommaso
parla del modo in cui «le persone divine, a causa della loro stessa
processione, hanno una causalità riguardante la creazione delle cose»
e di ciò; che appartiene a ciascuna di esse per appropriazione, precisa
in questo modo il ruolo dello Spirito Santo: «governare come
Signore e vivificare ciò che è creato dal Padre e dal Figlio». Se
questo ruolo gli spetta, «è perché gli si attribuisce la bontà, a cui
appartiene il condurre, governandole, le cose verso i loro propri fini,
e il vivificare: infatti la vita consiste in un certo movimento interiore;
ora, il primo movente degli esseri è il fine e la sua bontà» 175. Questo
insegnamento fa eco esattamente ad un grande testo della Somma
contro i Gentili al quale occorrerà riferirsi quando parleremo dello
Spirito Santo:
«Giacché il governo del mondo è simile ad un certo moto
mediante il quale Dio regge e guida tutte le cose verso i loro
propri fini, e se è vero che l’impulso e la mozione spettano allo
Spirito Santo in quanto è amore, è giusto allora attribuire allo
Spirito Santo il governo dell’universo e la sua propagazione»
176
.
Tale dottrina della creazione e della presenza permanente del
Verbo «che sostiene l’universo con la potenza della sua parola» 177
induce Tommaso ad esaminare en passant una di quelle supposizioni
impossibili che gli storici molto frequentemente ritrovano presso i
mistici: «Se Dio ritirasse la sua potenza un solo istante dalle realtà
create, queste sarebbero tutte ridotte al niente e cesserebbero di
esistere». Egli attribuisce ad Origene (ma si dovrebbe trattare
piuttosto di Giovanni Scoto Eriugena) un paragone suggestivo: se si
smette di parlare, non si ha più voce; come pure: se Dio smettesse di
pronunciare il suo Verbo,
l’effetto del Verbo terminerebbe immediatamente e non si avrebbe
più l’universo creato é6.
Tommaso non si lascia intimidire da questa supposizione, ma la
considera più un dettaglio. Bisogna ammettere che Dio potrebbe
ridurre al nulla gli esseri che ha fatto, poiché egli non ha creato per
't|66In loannem 1, lect. 5, n. 135; Commentaire sur S. Jean, trad. frane, di ML- D.
Philippe, pp. 168-169; Depot. q. 4, a. 2 ad 8 et 14.
% 67 Ci. I, q. 104, a. 3.
V 68 Cf. I, q. 104, a. 4 ad 1.
i 691, q. 13, a. 7; cf. su questo tema H. SFIDI,, De l’immutabilité de Dieu dans l’acte de
la création et dans la relation avec les hommes, RT 87 (1987) 615-629; più accessibile
forse, ma meno illuminante, M. GEBVAIS, Incarnation et immuabilité divine,
RevSR50 (1976) 215-243, mostra in modo convincente l’inanità delle criti- che
rivolte a san Tommaso da alcuni teologi contemporanei.
logi), ci si fabbricherebbe un idolo supplementare, niente di più178.
178 Si vedrà qui J.-H. NICOLAS, Aimante et bienheureuse
Trinité, RT 78 (1978) 271-292, che offre una buona messa a punto del libro di J.
MOLTMANN, Le Dieu crucifié. La croix du Christ, fondement et critique de la
théologie chrétienne, Paris 1974, e che cita numerosi autori. Si notera che J.
MARITAIN, Réflexions sur le savoir théologique, RT 69 (1969) 5-27, che ha
tentato di parlare della compassione di Dio, evita questo difetto psicologizzante: «...il
concetto e la parola di dolore non possono essere impiegati nei confronti di Dio 93se
Questo dio non sarebbe Dio.
Lungi dall’essere estraneo alla sua creazione, il Dio di
Tommaso è personalmente presente ad ogni essere più intimamente
di quanto lo sia questo essere a se stesso. Più di una volta il lettore
esperto non può fare a meno di pensare a sant’Agostino al quale
Tommaso deve tanto: «E tu eri più dentro in me della mia parte più
interna e più alto della mia parte più alta» 179. Tommaso non ha certo
il genio letterario di Agostino, eppure non dice altro, e la lettura delle
sue pagine sulla presenza attiva di Dio nella sua creazione è proprio
fatta per provocare l’adorazione ammirativa che deriva dal provato
sentimento di questa presenza.
Questo sentimento non può che ampliarsi quando ci si rende
conto a che punto il Dio di Tommaso non abbia niente in comune
con il principio impersonale del deismo che non si occupa del
mondo. Si tratta proprio del Dio-Trinità della Bibbia attivamente
implicato nella sua creazione. Non solo egli ne è l’origine assoluta e
il costante sostegno, ma l’ama con l’amore con cui ama se stesso:
«Il Padre non ama soltanto il Figlio mediante lo Spirito Santo,
ma anche se stesso e noi; poiché... amare, in senso nozionale,
non evoca solamente la produzione di una Persona divina,
evoca anche la Persona prodotta per modo di amore, e l’amore
dice rapporto alla cosa amata. Per questo come il Padre
esprime se stesso e ogni creatura tramite il Verbo che genera,
dato che il Verbo generato da solo è sufficiente a rappresentare
il Padre e ogni creatura; così pure, il Padre ama se stesso e
ogni creatura mediante lo Spirito Santo, visto che lo Spirito
Santo procede come amore da questa bontà originaria a causa
della quale il Padre ama se stesso così come ogni creatura. In
questo modo si evoca anche come in secondo piano, nel Verbo
e nell’Amore procedente, un rapporto alla creatura, poiché la
verità e la bontà divine sono principio della conoscenza e
dell’amore che Dio ha per le creature»180.
Non ci si sorprenderà di ritrovare un insegnamento simile a
IV
Immagine e beatitudine
IL PRINCIPIO E IL FINE
184I, q. 1, a. 1. 97
zione dell’autore. L’uomo di cui ci parla non è considerato in modo «
statico, alla stregua di una natura morta, se così ci si può esprimere, ma
come un essere in divenire:
Più noto del precedente, questo secondo testo offre una chiave di J
lettura alla quale bisognerà ricorrere spesso. Ma la lettura simultanea di
queste due dichiarazioni di intenzione permette già un’importante \
osservazione. Passando da una parte all’altra della Somma, il teologo 1 non
abbandona Dio a favore dell’uomo. Il soggetto della sacra doctrina j resta
sempre Dio, ma non lo si considera più direttamente in se stesso, I né
come il principio assoluto dell’uomo e dell’universo, ma come il suo j
completamento, come il fine anch’esso assoluto, ultimo, che attira a sé
tutte le cose mediante l’irradiamento della sua suprema bontà e suscita &
come risposta e in modo speciale l’agire libero della creatura razionale. *
Tutta la vita spirituale trova qui la sua origine ed è nel campo di altra- f
zione così creato che essa deve svilupparsi.
Nelle prime righe tuttavia, non è ancora questa idea di finalità ad
essere proposta, ma quella dell’esemplarità. Se l’essere umano ha Dio per
fine, è perché esso è stato fatto da lui «a sua immagine e somiglianza» (Gn
1, 26), onde deriva un’irresistibile attrazione iscritta nella sua stessa natura
ad essergli simile, così come l’immagine assomiglia al a modello a partire
dal quale viene formata. La persona umana raggiun- j gerà il suo
compimento sforzandosi di imitarlo sempre più. Per questo, | Tommaso,
quando parla della creazione dell’uomo e della sua mirimi * nella Prima
Parte (q. 93), accorda molto spazio al tema dell’immagine . di Dio ed è
ancora questo che spontaneamente ritorna quando tratta ! dell’agire
dell’uomo. È in questo modo che il tema dell’immagine di I Dio connette
in modo organico la Prima e la Secunda Pars5. |
j
4
1-II, q. 1, Prol.
5
Questo ci sembra sottolineato a giusto titolo da G. LAFONT, Structures-
méthodes dans la Somme théologique de saint Thomas d’Aquin, Paris 1961, pp. 265 98
99
Questi due dati congiunti permettono dunque a Tommaso di passare
da Dio all’uomo (dalla teologia dogmatica alla teologia morale, come si
diceva) e di unire in una stessa teologia la primaria preoccupazione
contemplativa alla preoccupazione di condurre la vita cristiana secondo
la verità evangelica. Situando l’intera sua considerazione del- l’agire
umano sotto il duplice segno congiunto dell’immagine da restaurare e del
fine da raggiungere (l’immagine essendo restaurata quando il fine è
raggiunto), Tommaso propone al suo discepolo un programma di vita
posto sotto il segno del compimento di sé, poiché la creatura si scopre
essa stessa in ricerca del suo fine. Morale della beatitudine, dunque, ma
di una beatitudine che non si ottiene se non me- mante l’imitazione
dell’Esemplare a partire dal quale siamo fatti. Questo ci rimanda sia a san
Paolo: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi» (E/ 5, 1),
che al Discorso della Montagna: «Siate voi dunque perfetti come è
perfetto il Padre vostro celeste» (Mi 5, 48).
Non è un caso se da professore di Sacra Scrittura qual era,
Tommaso accorda al tema dell’immagine di Dio un’importanza così
considerevole. Insieme a lui anche noi siamo invitati ad attingere così
alla fonte sempre zampillante della Parola di Dio. Un teologo che si
preoccupi di spiritualità non può dimenticare questo continuo riferimento
alla Bibbia. Per fortuna è passato il tempo in cui i discorsi sugli incipienti
e i proficienti, o sulle età della vita interiore, credevano di potersi
sviluppare fondandosi unicamente su considerazioni di psicologia
religiosa. Ma non è inutile sottolineare che si tratta anche di uno dei temi
maggiori della patristica e il patrocinio di san Giovanni Damasceno ce lo
conferma 6. Esso gioca infatti il ruolo di crocevia per l’intera patristica
orientale, sicché tramite esso Tommaso si trova collegato a tutta questa
tradizione, ad ascoltare la quale egli è stato attento forse 298* sebbene egli
abbia forse anche esagerato la presenza materiale del tema deD-immagine nel seguito
della Secunda e della Tertia Pars, secondo vari autori: H.-D. Gardeil, A. Solignac e D.-
J. Merriell (vedere le note seguenti). La portata strutturante del tema per la costruzione
della Summa è al contrario sostenuta da S. PINÌKAERS, Le thème de l’image de
Dieu en l’homme et l’anthropologie, in P. BUH- LER:(ed.), Humain à l’ìmage de
Dieu, pp. 147-163.
6
Raramente si rileva che questo testo del Damasceno è già citato nel contesto
dello studio dell’immagine di Dio (I, q. 93, a. 5 arg. 2); vedere anche D. MON- Gll.LO,
La concezione dell’uomo nel Prologo della l-II, in De homine: Studia hodier-
nae anthropologiae. Acta VII Congressus thomistici intemationalis, t. 2, Roma
1972, pp. 227-231.
più di ogni altro teologo della sua generazione (la Catena aurea ne è
eloquente testimonianza). In questa linea patristica non è certamente abusivo
parlare di una morale della divinizzazione. Troppo poco conosciuto, questo
aspetto è tuttavia ben reale.
100
L’IMMAGINE DELLA TRINITÀ
Il lettore della Somma non può non osservare il fatto che l’autore ha
diviso in due sezioni distinte quanto aveva da dire sull’uomo: mentre le
Questioni 75-89 trattano della natura dell’uomo, le Questioni 90- 102
parlano della sua creazione {de produzione prima hominis). Se è un filosofo
un po’ frettoloso, tale lettore limiterà il suo studio alla prima parte e lascerà
la seconda al teologo. Questo sarebbe un errore fatale che gli impedirebbe di
capire lo scopo del suo autore, in quanto costui afferma che è proprio nella
sua qualità di teologo che intende considerare la natura dell’uomo 185 186.
Lasciando lo studio del corpo al medico, egli parlerà soprattutto dell’anima e
della relazione che essa ha con il suo corpo. Nello stesso tempo annuncia
con fermezza che il suo studio sull’uomo non sarà completo prima di aver
parlato dell’immagine di Dio, giacché questo è il fine che Dio si propone
creando l’uomo '. Come egregiamente si è espresso un filosofo, Tommaso
ha compreso il tema dell’immagine «come causa finale della produzione
dell’uomo. L’essere umano è stato creato o prodotto per essere a immagine
di Dio, Se le parole fine o termine hanno un senso, bisogna affermare che
l’essere umano è, è stato creato, e dunque voluto e concepito dal suo
Creatore, non per essere una sostanza pensante o un animale razionale, ma
per essere a sua immagine» 187. Detto altrimenti, nella sua esegesi di
Gn 1, 26 il Maestro d’Aquino vede all’opera e in modo simultaneo
l’efficienza e la finalità: Dio, mentre crea l’uomo, è mosso
dall’intenzione di comunicargli la sua somiglianza.
San Tommaso ha più volte parlato dell’immagine di Dio nei luoghi
più decisivi dei suoi scritti teologici 10, ma sembra proprio che, pur
conservando ima base comune delle sue prime ricerche, egli abbia
costantemente progredito nel suo approfondimento, grazie alla
rinnovata attenzione con la quale ha riletto l’opera di sant’Agostino xl.
Anche se non sarà trattato ex professo che verso la fine della Prima
Parte, il tema lo si trova fin dalle pagine iniziali della Somma12, ed è
ragione e dell’intelligenza. Dunque è per l’intelletto e la ragione che sono incorporee che
l’uomo è ad immagine di Dio».
13
I, q. 4, a. 3; molto riservato qui, Tommaso sembra soprattutto preoccupato di
scartare l’ingenuo errore secondo cui, per il fatto che la creatura assomiglia ai suo
Creatore, si dovrebbe concludere al contrario: «in un certo senso, la creatura è simile a
Dio, ma Dio non assomiglia alla creatura» (ad 4). Dal momento che Dio è al di fuori di
ogni genere, la sua efficienza si esercita senza che vi sia comunicazione di genere o di
specie; le creature non sono simili a lui se non seguendo una certa analogia, dato che
esse sono degli esseri riducibili al principio universale di ogni essere: illa quae sunt a
Deo assimilantur ei in quantum sunt enfia ut primo et uniuefp sali principio
totius esse.
14
E molto apprezzabile il fatto che dire «immagine di Dio» per Tommaso
significa dire allo stesso tempo «immagine della Trinità»; se non ignora la somiglianza
rispetto alla natura divina (cf. per es. I, q. 93, a. 5), non è questa che generalmente egli
mette in primo piano.
15
1, q. 35, a. 2 ad 3; nella sua semplicità, questa spiegazione sottolinea senza
commenti l’abisso ontologico che separa il creato dall’increato; è di questo che si vuol
rendere conto parlando di una somiglianza analogica e non di una identità. Tommaso
ritornerà su questa costruzione «ad immagine» per escludere la possibp lità che l’uomo
sia detto «ad immagine dell’Immagine», cioè del Figlio soltanto; egli ci tiene molto al
fatto che sia veramente ad immagine della Trinità; per questo bisogna vedere nellW
imaginem l’idea della causalità esemplare: immagine essendo intesa per «modello» (I,
q. 93, a. 5 ad 4).
Supponendo che occorra cercare delle ragioni che spieghino
perché Tommaso attribuisce una tale importanza alla nozione
dell’immagine - essendo sufficiente di per sé il fatto che sia un dato
rivelato -, la SK: sfumatura qui introdotta è particolarmente illuminante.
L’idea di una realtà che non è data allo stato perfetto, ma considerata
come chiamata a progredire, corrisponde molto profondamente alla sua
concezione della natura, la quale comporta certamente un dato di base
stabile, ma genninalmente ricco di un compimento futuro. L’uomo non è
pienamente se stesso se non nello stadio di cultura; così anche
l’immagine di Dio che è in lui non sarà pienamente se stessa se non nello
stadio per- ISfetto della sua attività di natura spirituale.
Naturalmente, ritroviamo l’immagine nello sviluppo della Somma
quando Tommaso si interroga sulla somiglianza della creazione al suo
Creatore, sulla traccia che l’Artista divino ha lasciato nella sua opera; è |f
in questa occasione che ha precisato la sua dottrina sulle vestigia della
Trinità 188. Ciononostante, è ora che si fa un passo decisivo. Se è vero “'
che l’uomo partecipa, nella sua condizione corporea, insieme all’intera
creazione, a questa somiglianza per modo di vestigio, in più gli tocca il
fatto di essere un’immagine propriamente detta della Trinità, essendo
1891, q. 93, a. 6; altri luoghi sono anche molto espliciti, così I, q. 45, a. 7: «Le
processioni delle Persone divine si presentano quali atti dell’intelligenza e della
volontà..infatti il Figlio procede come Verbo dell’intelligenza e lo Spirito Santo come
amore della volontà. Perciò, nelle creature razionali, in cui si trovano intelligenza e
volontà, in quanto si riscontra un verbo concepito e un amore che procedi, si trova
anche una rappresentazione della Trinità a modo di immagine».
104
Poiché il corpo non ha altra somiglianza se non quella del vestigio,
è al livello dell’anima spirituale quindi che si trova l’immagine lgv Infatti
essa è come Dio stesso capace di conoscenza e d’amore. Si ritrova qui un
dato di base presente in ogni essere umano in virtù della sua creazione e
che fonda l’analogia di proporzionalità propria che Tommaso sviluppa
nel testo appena citato. Tuttavia non si tratta che di un punto di partenza;
Tommaso infatti non smette di tentare di superare il carattere statico di
questo dato bruto e mettere in risalto il carattere progressivo e dinamico
dell’immagine. Questa è anche una realtà in divenire, presente nella
natura umana come un appello. Perciò, per suggerire tale carattere
evolutivo dell’immagine, oltre all’analogia di proporzionalità che si
fonda su un dato ontologico indistruttibile, Tommaso impiega una
gradazione di conformità ascendente che apre il cammino a una crescita
indefinita:
«L’immagine di Dio nell’uomo si può considerare sotto tre aspetti.
Primo, in quanto l’uomo ha un’attitudine naturale a conoscere e ad
amare Dio, attitudine che risiede nella natura stessa dell’anima
spirituale che è comune a tutti gli uomini. Secondo, in quanto
l’uomo■< conosce e ama Dio in maniera attuale o abituale;
sebbene in modo 190
19
1, q. 93, a. 4; si noterà l’insistenza sui verbi «conoscere» e «amare» Dio in aito;
è soltanto in questo caso che si verifica rimmagine nel suo più alto livello; eredità
agostiniana per eccellenza di cui Tommaso è molto cosciente (cf. De uer. q. 10, a. 3); lo
si è ben dimostrato, Agostino non usa forme sostantive memoria, intel- legentia,
dilectio, se non quando si tratta di un grado inferiore dell’immagine {memoria sui
[hominis])-, quando si tratta dell’attività che ha Dio per oggetto, egli nsà sempre delle
forme verbali: meminit, intellegit, diligit, cf. l’illuminante nota di w'.l 1.
PRINCIPE, The Dynamism of Augustine’s Terms for Describing thè Highest
Tiinitarian Image in thè Human Person (Studia Patristica 18, 3), E.A.
LlVlNGSTONE (ed.), Oxford - New York 1982, 1291-1299.
20
A. SoLlGNAC, Image et ressemblance, col. 1448, che cita alcuni testi illumi-
n.inti e sottolinea bene come «i tre momenti dell’immagine corrispondono anche ai tre
lumi dello spirito»: lumen naturale, gratiae, gloriae.
21
G. LAFONT, Structures et méthodes, pp. 271, ne trova un primo esempio in De
poi. 9, 9 che parte dal vestigio del Creatore riconoscibile dal ternario «sostanza- forriia-
ordine», per elevarsi, a partire di là, all’immagine specifica che è la creatura spirituale
in esercizio di conoscenza e d’amore di sé, e sfociare infine alla creatura graziata, resa
conforme a Dio dalla sua conoscenza e dal suo amore di Dio. Altrove (IH, q. 23, a. 3;
Sent. Ili, d. 10, q. 2, a. 2 q.la 1), Tommaso propone lo stesso tipo di gradazione, ma in
termini di filiazione adottiva (poiché il Verbo è simultaneamente Immagine e Figlio,
l’accostamento non è arbitrario); noi abbiamo allora 1 assimilazione esterna di ogni
essere creato a Dio (che non è ancora veramente filiazione), 1 assimilazione specifica
della creatura spirituale che è una specie di filiazione al livello della natura, e infine
l’assimilazione unitiva mediante la grazia e la carità. Non è che in quest’ultimo caso che
si parlerà in modo appropriato di filiazione adottiva, dato che essa dà diritto all’eredità
dei figli di Dio: la beatitudine. Quanto al terzo modo di presentare questa gradazione, è
quello che impiega i
rèsse per la teologia spirituale: «Vi sono due modi di essere conformati
[all’immagine dell’uomo celeste, Cristo, cf. 1 Cor 15, 49], l’uno nella vita
105
della grazia e l’altro in quella della gloria, la prima essendo una via verso
la seconda (uia ad aliam), poiché senza la vita della grazia non si giunge a
quella della gloria»22. Come ben dice un commentatore recente, l’uomo-:
immagine non riflette Dio-Trinità come uno specchio, ma come un attore
che imita il modello rappresentato, entrando sempre più profondamente
nella vita del suo personaggio23.
gradi di conoscenza e di amore in se stessi e che troviamo nel testo della Summaì
analizzato qui sopra.
22
In I ad Cor. 15, 49, lect. 7, n. 998. Altrove, ma sempre in riferimento«
all’immagine di Dio - riprendendo il detto di san Paolo: «[riflettendo] come in uno
specchio la gloria del Signore, noi siamo trasformati in questa stessa immagine semg pre
più gloriosa» -, Tommaso esplicita ciò come un progresso nell’ordine della conoscenza (e
dell’amore): «Riflettendo (speculantes) non è inteso qui di speculai (osservatorio) ma
di speculum (specchio). Questo vuol dire che noi conosciamo Dio stesso nella sua gloria
mediante lo specchio della ragione nella quale è impressa una,; certa immagine di lui. Ed è
lui che noi riflettiamo quando, dalla considerazione di noi stessi, ci eleviamo ad una certa
conoscenza di Dio che ci trasfigura. Infatti, come ogni conoscenza si fa per assimilazione
del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto, così occorre che coloro che vedono Dio
siano in un certo modo trasformati in Dio. Se essi lo vedono perfettamente, sono
perfettamente trasfigurati, così come i beati nella patria mediante l’unione di fruizione...
Se non lo vedono che imperfettamente, la loro trasfigurazione è imperfetta, così come
accade quaggiù mediante la fede... (S. Paolo) distingue tre gradi della conoscenza nei
discepoli di Cristo. Il primo ci fa passare dalla chiarezza della conoscenza naturale a
quella della conoscenza della fede. H secondo ci conduce dalla chiarezza della conoscenza
dell’Antica Alleanza alla chiarezza della conoscenza della grazia della Nuova Alleanza. Il
terzo ci ele\ a dalla chiarezza della conoscenza naturale e dell’Antica e della Nuova
Alleanza alla chiarezza della visione eterna», In II ad Cor. 3,18, lect. 3, nn. 114-115.
23
D.-J. MERREELL, TO thè Image, p. 245: «Through Thomas’ study of Augu-
stine’s De Trinitate he carne to realize than man reflects thè divine Trinil\ not merely as
a mirror reflects a thing set to some distance from it, but as an actor whn imitates thè
character he plays by entering into his character’s life». E neci '.'..ilio precisare che la
parola «specchio» in questo contesto non è intesa completamente nello stesso senso in cui
si trova nella metafora dello specchio in san Paolo nel testo della nota precedente? Quanto
alla parola «attore», non ha qui niente « di sgradevole, dato che si tratta di una imitazione
interna e che san Tommaso mette sulla via dell’accostamento quando spiega il modo in cui
si può dire che la grazia è essa stessa immagine di Dio, Sent. Il, d. 26, q. 1, a. 2 ad 5:
«Immagine e somiglianza di Dio si dicono dell’anima e della grazia diversamente: l’anima
è detta immagine in quanto imita Dio, la grazia è detta immagine come essendo ciò
mediante cui l’anima imita Dio». Si pensi anche a san Paolo che ben presto ritroveremo:
«Imitare Dio come dei figli prediletti»,
Tutto questo è vero, ma per essere pienamente fedeli all’intuizione
centrale di fra Tommaso è necessario dire ancora di più. Se la dottrina
dell’immagine ha una tale importanza, è perché essa permette di
comprendere come si realizza nella creatura l’articolazione dell’exitus e
del reditus. Infatti, se la prima, l’immagine di creazione, è il termine
deU’«uscita», la seconda, l’immagine di ri-creazione o secondo la
106
grazia, costituisce quella da cui comincia il «ritorno», avviando il
movimento che troverà il suo compimento nella patria con la terza,
l’immagine di gloria, infine perfettamente somigliante. Soltanto cosi noi
ridiamo allo slancio interno dell’immagine tutta la sua forza,
ricollocandolo nel dinamismo più ampio del movimento circolare
infinito che riconduce verso Dio l’intera creazione.
L’intera creazione - e in modo particolare le persone umane che
entrano coscientemente in questo processo - si trova così coinvolta e
trascinata nel movimento delle relazioni trinitarie. Come si può vedere
sull’icona della Trinità di Andre) Rublév (sotto la forma del rettangolo
in basso all’altare che simboleggia l’universo creato 191), la creazione
non si trova al di fuori, ma proprio al centro della comunione trinitaria. Il
genio del pittore lambisce senza saperlo l’intuizione del teologo e rende
visibile qualcosa di questa circulatio che parte dal Padre mediante il
Figlio e ritorna verso di lui mediante e nello Spirito, trascinando
l’universo nel suo amore.
IMMAGINE E INABITAZIONE
1921, q. 93, a. 7.
193 Cf. per es. I, q. 20, a. 2 ad 1; I-II, q. 28, a. 3; II-II, q. 175, a. 2; ecc.
194 La cosa è stata notata anche da D.-J. MEKRIELL, TO the Image of the
Trinity, p. 231, che ha inoltre appurato come la parola non deriva da sant’AgOMino Egli
stesso traduce molto giustamente prorumpere con to burst forth into love.
che si parla di una missione dello Spirito Santo. Il Figlio, lui, è il
Verbo - e non un verbo qualsiasi, ma Quello che spira l’Amore: “il
Verbo che cerchiamo di fare intendere, dice Agostino, è una
conoscenza piena d’amore” (De Trin. IX 10, 15). Non si ha dunque
missione del Figlio per un perfezionamento qualsiasi dell’intelletto,
ma solo quando l’intelletto è istruito in modo tale che giunge a
prorompere in affezione d’amore (quo prorumpat in affectum
amoris), secondo quanto è scritto in san Giovanni (6, 45):
“Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me” o nel
Salmo (38, 4): “Un fuoco divampò nelle mie considerazioni”. Per
questo sant’Agostino impiega dei termini significativi: “Il Figlio è
inviato quando è conosciuto e percepito” (tbid. IV 20, 28); la parola
percezione significa infatti una certa cognizione sperimentale. In ciò
consiste propriamente la “sapienza” o “scientia sapida”, secondo il
detto deU’Ecclesiaste (6, 23): “La sapienza della dottrina giustifica
il suo nome”»2%.
L’ESPERIENZA DI DIO
L’IMMAGINE IN GLORIA
2151, q. 43, a. 3 ad 1.
216 A. PATFOORT, Missions divines et expérience, p. 552.
217Sent. I, d. 15, q. 4, a. 2 arg. 4 et ad 4.
218 Cf. J.-P. TOKRELL, La pratique pastorale, p. 242.
115
bene, se l’anima diventa simile al suo modello divino nell’attività pervasa |
di grazia della sua conoscenza e del suo amore di Dio, è mediante questa
stessa attività che Egli viene ad abitare in essa e che questa, a un grado
inimmaginabile, fa l’esperienza della sua prossimità e della sua dolcezza.
Per quanto sia cosciente della necessità della saggezza teologica, che
sola permette di esprimersi correttamente, Tommaso senza rinunciarvi
impiega dunque il vocabolario dell’esperienza, che gli sembra il solo
appropriato a suggerire qualcosa di questa totalità appagante in cui
l’affettività
si unisce necessariamente all’intelligenza, poiché Dio non è conosciuto
soltanto come vero, ma anche come bene.
Il termine del processo sarà raggiunto solamente allorquando
all’immagine per conformità di grazia sarà seguita l’immagine per
conformità di gloria. Tommaso considera ciò come esigito dalla
definizione stessa deU’immagine:
«L'immagine implica una somiglianza che giunga in qualche
modo a rappresentare i tratti specifici [del modello]. Occorre
perciò che l'immagine della Trinità nell’anima sia riscontrata
sotto un aspetto che rappresenti le Persone divine con una
rappresentazione specifica, nella misura in cui ciò è possibile
alla creatura. Ora, come già abbiamo visto, le Persone divine
si distinguono: secondo la processione del Verbo a partire da
colui che lo proferisce, e quella dell’Amore a partire da
entrambi. L’altra parte, il Verbo di Dio nasce da Dio secondo
la conoscenza che Dio ha di se stesso e l’Amore procede da
Dio secondo l’amore che Dio ha per se stesso. Ora, è chiaro
che la diversità degli oggetti comporta una diversità specifica
nel verbo e nell’amore; infatti il verbo [concetto] che il cuore
dell’uomo concepisce di una pietra o di un cavallo non sono
della stessa specie, né lo sono i rispettivi amori. Quindi
l’immagine divina nell’uomo si riscontra in rapporto al verbo
che è concepito a partire dalla conoscenza di Dio e all’amore
che ne deriva. E così l’immagine di Dio è presente nell’anima
in quanto questa si porta o è capace di portarsi verso Dio». [E
se si obietta che non importa quale tipo di conoscenza di
oggetti temporali possa dare luogo a questa attività di
conoscenza e d’amore, Tommaso risponde:] «Per verificare la
nozione di immagine, non bisogna osservare che vi sia soltanto
processione di una cosa a partire da un’altra, ma è necessario
vedere ancora ciò che procede e da chi procede; occorre
trovare cioè un verbo [o concetto] di Dio procedente da una
conoscenza di Dio»219.
2191, q. 93, a. 8 et ad 1.
116
In questa prospettiva, è evidente allora che l’uomo esercita la
sua attività di conoscenza e d’amore di Dio al massimo grado a cui
può giungere. Eppure, ancor di più, la condizione posta da san
Tommaso circa l’origine di questa processione conosce qui una
realizzazione inaspettata. Poiché nella beatitudine la conoscenza di
Dio avverrà senza mediazione di qualsiasi similitudine creata, noi
siamo spinti a dire che in quel momento Dio stesso sarà
immediatamente al principio e al termine di tale atto di conoscenza e
d’amore beatificante. Riprendendo
117
qui una felice espressione: «la congiunzione attuale tra Dio e l’anima-
immagine non conosce intermediari. E Dio stesso che procede da Dio
attraverso i nostri atti umani»220.
Se ci è permesso concludere questo capitolo con una specie di
omaggio, ameremmo riportare qui alcune righe di un autore che ha
reso immensi servigi alla causa tomasiana. Di una densità e di una
precisione degne del Maestro, esse riuniscono con garbo l’essenziale
di ciò che abbiamo cercato di dire:
«Il ritorno della creatura razionale si compie nell’unione di
conoscenza e d’amore a Dio nostro Oggetto; è in essa che
termina tutto il ciclo delle processioni temporali; essa è il fine di
tutta la storia del Mondo: manifestare alle creature razionali la
gloria intima delle Persone divine. Questa unione dell’anima a
Dio-Trinità è inaugurata, almeno sul piano degli abiti, fin dalla
prima infusione della grazia, con la dote di virtù e di doni che
abilitano l’anima agli atti proporzionati a questo oggetto
divino; tale unione si attualizza gradualmente in atti imperfetti
di percezione di Dio nella vita del cristiano quaggiù: essa si
espande infine in visione consumata nella visione beatifica, che
è un atto perfetto e immutabile. Lungo tutto questo progresso,
Dio nelle sue tre Persone si dona, si rende presente all’anima,
con una presenza reale e sostanziale che si chiama Abitazione:
presenza di un Oggetto da cogliere sperimentalmente... la cui
percezione e fruizione definitive non si avverano pienamente che
nella visione beatifica; ma le cui percezioni progressive
abbozzate quaggiù rispondono ad altrettante missioni del Figlio
e dello Spirito Santo»221.
1
1, q. 2, Prol.
stesse parole di Gesù che troviamo nel quarto Vangelo (Gv 14, 6):
119
«Io sono la via, la verità, la vita». Ancora una volta, il maestro
domenicano si mostra attento all’ascolto della Sacra Scrittura che
inserisce nel suo testo senza soluzione di continuità, combinando in
una sola frase l’aspetto «negativo» dell’opera di Cristo, la liberazione
dal peccato, col suo aspetto «positivo», il ritorno verso il Padre, la
via che Cristo incarna nella sua persona: «Nessuno va al Padre se non
mediante me». Si comprende meglio ora come egli possa parlare di
compimento dell’impresa teologica: tutta la Somma tende verso
Cristo.
Tuttavia, questa singolare collocazione di Cristo alla fine
dell’opera ha costituito per i teologi un punto interrogativo e continua
ad essere tale fintantoché non se ne vedono le ragioni profonde. E
necessario dunque dissipare il malinteso già incontrato e tentare di
capire perché egli ha scelto di parlarne soltanto nella Terza Parte.
Allo stesso tempo di ordine teologico e pedagogico, queste ragioni si
percepiscono meglio esaminando il modo in cui si articolano morale
e cristologia nella visione d’insieme. Potremo allora passare al
seguito del nostro proposito, dato che è chiaro che se la
considerazione di Cristo è necessaria affinché il proposito teologico
sia portato a termine, a maggior ragione la vita cristiana, che vuole
ispirarsene, ne risulterà illuminata in maniera definitiva. Fra
Tommaso ne parla in bei testi che non lasciano alcun dubbio sul
posto da lui occupato nella vita cristiana e nella sua propria vita.
per mano l’uomo per condurlo sul cammino di Dio. È proprio questa
la «via nuova e vivente» di cui parla la lettera agli Ebrei (10,20):
«(L’Apostolo) mostra come abbiamo fiducia di avvicinarci,
perché Cristo con il suo sangue ha inaugurato (initiauit), cioè
cominciato (inchoauit), per noi una via nuova.... Questa è
quindi la via che conduce al cielo. Essa è nuova, perchè prima
di Cristo, nessuno l’aveva trovata: “Nessu-
no sale al cielo, se non colui che discende dal cielo” (Gv 3,
13). Perciò colui che\ vuole salire deve attaccarsi a lui come un
membro alla sua testa... E vivente, cioè dura sempre, dato che
in essa si manifesta la fecondità (uirtus) della deità che vive
sempre. Quale sia questa via, l’Apostolo lo precisa quando
continua: “attraverso il velo, cioè la sua carne”. Come il gran
sacerdote entrava nel Santo dei santi oltre il velo, così se noi
vogliamo entrare nel santuario della gloria, dobbiamo passare
per la carne di Cristo, che fu il velo della sua divinità. “Tu sei
veramente un Dio nascosto!” (Is 45, 15). Non è sufficiente
credere in Dio se non sì crede nell’incarnazione»21.
Senza averla mai veramente abbandonata, visto che affiora in
numerosi testi sopra riportati, la tematica esplicita del cammino
rivela ancora una volta la sua importanza. Come il desiderio della
beatitudine, essa attraversa da parte a parte l’opera di Tommaso.
Meglio ancora, ritroviamo in questo contesto il movimento circolare
di cui abbiamo già visto la fecondità. Questo testo è già stato citato
in parte, ma non bisogna temere la ripetizione, poiché mette in luce il
carattere centrale dell’intuizione:
«(Con l’incarnazione) l’uomo riceve un esempio eccellente di
questa felice unione mediante la quale l’intelletto creato sarà
unito con la sua intelligenza all’intelletto increato. Dal
momento in cui Dio si è unito all’uomo assumendo la sua
natura, non è più ormai incredibile che l’intelletto creato possa
essere unito a Dio vedendo la sua essenza. È così che termina
in qualche modo l’insieme dell’opera di Dio, allorquando
l’uomo, creato per ultimo, ritorna al suo princìpio con una
specie di cerchio, ricongiungendosi al principio stesso delle
cose tramite l’opera dell’incarnazione» 247 248.
251 Si troverà l’insieme dei testi classificati secondo le opere nello studio
di A. VAISECCHI. L’imitazione di Cristo in san Tommaso d‘Aquino, in
Miscellanea Carlo Figini, G. COLOMBO - A. RIMORDI - A. VALSECCHI (eddj,
Venegono Inferiore 1964
132
In maniera più breve ma altrettanto chiara, ritroviamo lo stesso
percorso nella Somma di teologia. In questa però si riscontra anche un
accento un po’ nuovo, dato che l’autore vi combina l’imitazione del T
Padre con quella di Gesù Cristo:
«[Come già sappiamo, si possono citare varie ragioni
dell’incarnazio- ne] dal punto di vista del nostro progresso nel
bene... La quarta consiste nel fatto che essa ci offre un modello per la
pratica della virtù. Per ;| questo, come dice sant’Agostino: “Occorreva
imitare non l’uomo che
pp. 175-203; l’autore si sorprende giustamente che si sia potuto lasciar credere che
san Tommaso non conosceva il tema dell’imitazione di Cristo.
32
SCGIV 54, n. 3928.
potevamo vedere, ma era necessario imitare Dio che non
potevamo vedere”. Quindi è per offrire all’uomo un esempio
che si potesse vedere e imitare, che Dio si è fatto uomo»252.
Questi due testi rappresentano quindi una spiegazione del
primo modo in cui Tommaso fonda il valore esemplare dell’umanità
di Cristo. Tuttavia, il secondo testo ci orienta già verso un altro modo
di stabilirla, certamente più profondo, perché ci rinvia direttamente
alla dottrina della Trinità e dei suoi rapporti con il mondo. Per evitare
di comprenderlo a metà e per ben inserirlo nel modo di procedere
d’insieme, occorre riunirlo a un passaggio-chiave della Prima
Secundae, in cui si vede meglio che, se Tommaso non perde di vista
il Padre come ultimo fmodello di perfezione, egli si mostra anche
attento ad indicare i mezzi per giungervi, ancor prima di parlare più
esplicitamente del ruolo svolto da Cristo. Questo passaggio è molto
caratteristico, perché in esso Tautore allega l’autorità della Sacra
Scrittura a quella dei suoi autori di riferimento: Agostino e anche
Aristotele. Vale la pena osservare ciò in quanto è caratteristico sia di
un metodo che vuole beneficiare della sapienza degli Antichi sia di
una volontà di combinare inseparabilmente la ricerca dell’uomo alla
premura di Dio nei suoi confronti:
«Come afferma sant’Agostino, “è necessario che l’anima segua
un modello affinché la virtù possa formarsi in essa; questo
modello è Dio; se
252 III, q. 1, a. 2, con citazione del Sermone 311, 2: PL 39, 1024; il
tema ritorna più implicitamente nel Compendium theologiae I, 201: Leon., t. 42,
158.
133
10 seguiamo, vivremo bene”. Quindi è evidente che il modello
della virtù umana preesiste in Dio, come in lui preesistono
anche le ragioni di tutte le cose (...). Compete all’uomo
avvicinarsi a Dio per quanto è possibile, come dice anche il
Filosofo e come ci è raccomandato nella Sacra Scrittura in vari
modi: Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto (Mt
5, 48)»253.
11 riferimento ultimo al Padre è messo innanzi con forza; è
indubbio che resta in primo piano 254. Ma occorre osservare anche
quanto
tratta senz’altro di una virtù che non conviene a Dio, ma nella sua umanità il
Verbo poteva assumerla]. Sebbene gli uomini avrebbero potuto essere formati
all’umiltà
137
logia con un significativo richiamo all’esperienza comune 39.
Indubbiamente si tratta qui di una acquisizione comune della
sapienza umana, ma sarebbe forse avventurarsi troppo il pensare
all’eredità domenicana del nostro Dottore, dato che si dice di san
Domenico che predicava tanto con l’esempio che con la parola
(nerbo et exemplo)40.
L’esemplarità di Cristo e del suo agire per l’intera vita cristiana si
ritrova in numerose opere, in modo particolare negli opuscoli scritti in
difesa della vita religiosa. Di questo però ne tratteremo in un altro
contesto, quando parleremo della sequela di Cristo nella vita religiosa.
Si ¡“3 potranno così spigolare nella Seconda Parte della Somma un
insieme di testi che mostrano bene come Tommaso non la perde mai di
vista. Ma poiché questo lavoro è stato già fatto41, e bene, sarà più
fecondo seguire lo svolgimento della Terza Parte per reperirvi alcune
delle menzioni ripetute sulle virtù illustrate da Cristo e proposte
all’imitazione dei suoi, fi Così, nel prolungamento delle ragioni
dell’incarnazione, Tommaso spie ga che era conveniente che Cristo
assumesse un corpo passibile, «per darci un esempio di pazienza,
sopportando con coraggio le sofferenze e i limiti umani» 42. Al
contrario, egli non volle assumere il peccato, poiché li in questo non
avrebbe potuto dare né esempio di umanità - visto che il peccato non
appartiene alla definizione della natura umana -, né esempio di virtù,
dato che il peccato le è contrario43. In compenso, se ha
IÈ: dall’insegnamento divino..., i fatti provocano all’azione più delle parole {ad agenti
dum magis prouocant facta quam uerba), e questo tanto più efficacemente in
quanto Itila reputazione di virtù di colui che agisce risulta così meglio affermata. Così,
pur trovando presso gli altri uomini numerosi esempi di umiltà, era convenientissimo p,
essere sollecitati dall’esempio dfell’Uomo-Dio, di cui si sa che non ha potuto sbagliarsi e
la cui umiltà è tanto più mirabile, quanto la sua maestà era più sublime»; y®cf. le note
di P. Marc (ed. Marietti della SCG) su questo passaggio, che indicano gli antecedenti
classici e patristici.
39
I-II, q. 34, a. 1: «Nel campo delle azioni e delle passioni umane, in cui
IJl’esperienza della maggior parte conta molto, magis mouent exempla quam
uerba».
40
Cf. M.-H. VlCAntE, Histoire de saint Dominique, t. I, Paris 1982, p.
279 1 [tradotto in italiano].
41
Cf. A. VALSECCHI, L’imitazione di Cristo, pp. 194-198; lo stesso autore
ha 1 [ricollocato l’insegnamento di Tommaso nel più ampio contesto della tradizione |
Iscritturistica e patristica in un illuminante articolo: Gesù Cristo nostra legge, «La
Scuola Cattolica» 88 (1960) 81-110; 161-190, in cui mostra anche che molte di queste
idee, appartenenti al patrimonio comune del pensiero cristiano, si ritrovano pure in
altri autori e particolarmente in san Bonaventura.
42
III, q. 14, a. 1: «propter exemplum patientiae quod nobis exhibet
138
passio- 1 nes et defectus humanos fortiter tolerando».
43
III, q. 15, a. 1.
voluto pregare, lo ha fatto proprio per esortarci alla preghiera
fiduciosa e continua 258; se ha accettato di sottomettersi alla
circoncisione e agli altri precetti della legge, lo ha fatto per darci un
esempio vivente di umiltà e di obbedienza 259 ; come pure, il suo
battesimo ci incita con l’esempio a ricevere a nostra volta il
battesimo260.
Ogni evento della vita di Gesù (digiuno, tentazioni, vita tra la
folla) dà luogo a simili osservazioni; cosicché Tommaso può
riassumere: «Per il modo in cui ha vissuto (conuersatio), il Signore
ha dato a tutti l’esempio della perfezione in tutto ciò che di per sé
appartiene alla salvezza»261. Meglio ancora, egli usa questa formula
sorprendente: «L’agire di Cristo fu nostro insegnamento (Christi
actio fuit nostra instruc- tio)» 262. Sotto una forma leggermente
diversa secondo i contesti, questo assioma, che Tommaso riceve da
Cassiodoro tramite Pietro Lombardo, ricorre diciassette volte nella
sua opera 263. Anche se si preoccupa di sottolineare che non accade
esattamente la stessa cosa nel caso di Cri-; sto e nel nostro, e che è
necessario leggere questa asserzione alla luce della vera fede per ben
comprenderla, egli non ne contesta mai la verità fondamentale, e tale
frequenza è molto significativa della sua; volontà di considerare
seriamente l’agire concreto di Cristo tanto quanto il suo
insegnamento.
Questo valore esemplare dell’agire di Cristo culmina, è
evidente, negli ultimi giorni della sua vita terrena. Alla domanda se
c’era un mezzo più appropriato della passione per liberare il genere
umano, Tommaso risponde secondo il suo uso con tutta una serie di
258III, q. 21, a. 3.
259 III, q. 37, a. 4.
260III, q. 39, a. 2 ad 1; c£, a. 1 et, a. 3 ad3: Christusproponebatur hominibus in
exemplum omnium.
261 III, q. 40, a. 2 adì.
262 III, q. 40, a.l ad 3.
263 Si vedrà a tal proposito lo studio preciso e suggestivo di R. SCHENK,
«Omnis Christi actio nostra est instructio». The Deeds and Sayings of
Jesus as Reve- lation in thè View of Thomas Aquinas, in La doctrine de la
révélation divine, ST 37. 1990, pp. 103-131. L’uso della formula è più frequente
nelle Sentenze che nella. Somma (unica occorrenza quella citata qui sopra), ma si
ritrova in vari altri luoghi (cf. Schenk, p. Ili, n. 51). Nel sermone Puer lesus (Busa,
t. 6, p. 33a) si trova una formula equivalente: Cuneta quae Lominus fecit uel in
carne passus est, documenta et exempla sunt salutaria.
139
convenienze. In primo luogo, e questa priorità è significativa, la
passione mostra all’uomo «quanto Dio l’ami, sollecitandolo a
riamarlo: e in ciò consiste la
perfezione della salvezza». Ma, in secondo luogo, Cristo ci ha dato
con la sua passione «un esempio di obbedienza, di umiltà, di
costanza, di giustizia e di altre virtù in essa manifestate, che pure
sono indispensabili per la salvezza dell’uomo. Perciò san Pietro
scriveva (1 Pt 2, 21): Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un
esempio, perché seguissimo le sue orme»264.
Queste brevi annotazioni della Somma sono indubbiamente
sufficienti ad assicurarci che l’esemplarismo cristico è
incessantemente presente nella riflessione di Maestro Tommaso,
tuttavia non lasciano trasparire abbastanza l’emozione che può
animarlo quando ne parla nei suoi corsi o nella sua predicazione.
Sarà piacevole quindi leggere l’una o l’altra di queste pagine; al
commento della lavanda dei piedi che sottolineava l’umiltà di Cristo,
aggiungeremo il seguente passaggio che parla dell’amore che
ispirava la sua obbedienza:
«L’osservanza dei comandamenti è un effetto della divina
carità. Non solo di quella mediante cui noi amiamo, ma anche
di quella con la quale (Gesù) ci ha amato. Per il fatto stesso
che ci ama, egli ci incita e ci aiuta ad osservare i suoi
comandamenti, il che non può avvenire se non per grazia. In
questo consiste il suo amore: non siamo noi che abbiamo
amato Dio, è lui che ci ha amati per primo (1 Gv 4, 10).
A ciò egli aggiunge l’esempio dicendo: Come io stesso ho
osservato i comandamenti del Padre mio. Infatti, come l'amore
con cui il Padre lo ama è il modello dell’amore con cui ci ama,
così ha voluto che la sua obbedienza fosse il modello della
nostra. Cristo mostra così che egli dimora nell’amore del
Padre perché osserva i suoi comandamenti in tutte le cose.
Infatti è giunto fino alla morte (Pii 2, 8): Egli si è fatto
obbediente fino alla morte, e alla morte di croce; si è astenuto
dal peccato fi Pt 2, 22): Non ha commesso peccato, e non si è
trovato inganno sulla sua bocca. Occorre comprendere questo
di Cristo secondo la sua umanità (Gv 8, 29): Non mi lascia mai
solo, poiché faccio sempre ciò che gli piace. Per questo può
dire: Io resto nel suo amore perché non vi è niente in me
(sempre secondo la sua umanità) che sia contrario al suo
LA PATRIA E LA VIA
w
Ibid.n. 1367.
60
Cf. Omelìe sul Vangelo di San Giovanni, 45, 6 e 15:, NBA 24/1, pp. 899 e
913-915; BA 73 B, Paris 1989, pp. 55 e 83-85.
61
Ibid., n. 1368.
infatti quanto ci si aspettava dal Maestro che commentava la Bibbia:
doveva mettere in evidenza anche il senso spirituale della Sacra
Scrittura 273. Si comprende così quanto sia spiacevole l’ignoranza
ancora così diffusa di questa parte dell’opera di Tommaso. Se si vuole
avere qualche opportunità di scoprirlo come maestro di vita cristiana,
occorre imparare a frequentarlo anche in questi testi. Ciò sarà meglio
percepito leggendo il seguito:
«Se Cristo è la porta, ne deriva che per entrare nell’ovile egli
passa per se stesso. Certamente, ma è la caratteristica di
Cristo. Nessuno infatti può passare per la porta che conduce
alla beatitudine se non mediante la verità, perché la beatitudine
non è nient’'altro che la gioia della verità (gaudium de
ueritate). Ora, Cristo, nella sua divinità, s identifica alla verità;
perciò, nella sua umanità, entra per se stesso, cioè tramite la
verità che egli è in qualità di Dio. Noi, invece, non siamo la
verità, siamo soltanto dei figli della luce mediante la nostra
partecipazione alla luce vera e increata. Ver questo è
necessario che passiamo tramite la verità che è Cristo» 274.
Dello stesso stile, ma ancora più ampia, la spiegazione della
dichiarazione di Gesù: «Io sono la Via, la Verità e la Vita. Nessuno va
al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 6), offre a fra Tommaso
l’occasione di una pagina molto sorprendente:
«Cristo aveva già insegnato ai suoi molte cose circa il Padre e
il Figlio, ma essi ignoravano che è al Padre che Cristo andava
e che il Figlio era la via mediante la quale sarebbe andato.
Infatti è difficile andare al Padre. Niente di sorprendente se lo
147
questo libro, è nel suo stesso rigore che la teologia del Maestro
d’Aquino è generatrice di vita spirituale. Perciò non ci si lascerà
scoraggiare allorquando la incontreremo per la prima volta mediante
espressioni quali: agente o strumento, causa efficiente o dispositiva.
Necessarie per esprimere esattamente ciò che è in causa, esse
introducono ad un pensiero teologico ricco e profondo che sarebbe
un peccato ignorare.
La riflessione di questo capitolo sarà guidata da un versetto di
san Paolo già incontrato, ma di cui non abbiamo ancora sfruttato le
potenzialità: «Quelli che egli (il Padre) da sempre ha conosciuto li ha
anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo,
perché egli sia il primogenito tra molti fratelli» b E ciò che i teologi
esprimono in un linguaggio più tecnico quando dicono che la grazia è
una realtà «cristoconformante». Il termine parla da sé e la dottrina è
tanto semplice quanto bella. Essa mette in opera due grandi dati: Dio
solo è la fonte della grazia; questa però ci giunge tramite la
mediazione di Cristo e porta la sua impronta.
Il principio di base risiede dunque nel fatto che solo Dio può
dare la grazia. Il motivo è evidente. Se, in base alla descrizione che
ne dà la seconda lettera di Pietro (1, 4), la grazia è una
«partecipazione alla natura divina», è chiaro che Dio solo può
comunicarla. Fra Tommaso lo spiega con più precisione ma non dice
niente di più:
«Il dono della grazia sorpassa le capacità di ogni natura creata
dato che non è nient''altro che una certa partecipazione alla
natura divina che trascende ogni creatura. Perciò è impossibile
che una creatura qualsiasi possa causare la grazia. È dunque
necessario che Dio solo deifichi (deificet), condividendo con
noi (consortium) la natura divina sotto la forma di una certa
partecipazione per modo di assimilazione...» 277 278.
Oltre alla conclusione principale sulla quale non è il caso
5
L’Index thomisticus permette di contare 34 ricorrenze di deifico, di cui
10 si trovano nel commento ai Nomi divini di Dionigi, nel senso di partecipa-
zione/unione a Dio, e altri 17 in un contesto cristologico: Cristo è l’uomo deificato
per eccellenza. Il vocabolario della deiformitas si ritrova 51 volte con un maggior
numero d’impiego (28) per gli angeli ed ha una forte connotazione intellettuale di cui
deifico sembra sprovvisto.
4
Cf. Tommaso d’Aquino, L’uomo e il teologo, pp. 161-165; nuovi
lavori mostrano ogni giorno in che misura generalmente insospettata Tommaso sa
mettersi all’ascolto dei Padri, tanto per la sua documentazione quanto per il suo
metodo, cf. G. EMERY, Le photinisme et ses précurseurs chez saint
Thomas, Cérinthe, les Ebionites, Paul de Samosate et Photin, RT 95 (1995)
371-398.
5
Compendium theol. I 202 (Leon., t. 42, p. 138); il contesto è quello degli
errori concernenti l’unione ipostatica, e Tommaso ripete che Cristo non era un
homo per gratiam deificatus, né per gratiam adoptionis deificatus.
6
In Ioannem 13,32, n. 1830.
149
7
I, q. 12, a. 6; In de diuinis nominibus I, 2, n. 70; cf. anche la deiformità
dei corpi gloriosi: In ad 1 Thessal. 4,16, n. 103.
8
Seni. II, d. 26, q. 1, a. 4 ad 3: «La grazia conferisce all’anima una
perfezione in un certo esseré divino, non solo nell’ordine dell’agire, ma anche in
quanto coloro che hanno la grazia sono costituiti deiformi, ed è per questo
che, come dei figli, essi sono graditi a Dio»; Seni. IH, d. 27, q. 2, a. 1 ad 9: «Nella
misura in cui gli uomini sono resi deiformi mediante la carità, sono al di sopra
della condizione umana e la loro conuersatio si trova nei cieli. Essi si incontrano
con Dio e con gli angeli nella misura in cui assomigliano loro, secondo quanto ha
detto il Signore (Mi 5,48): Siate perfetti come il Padre vostro celeste è
perfetto».
la sapienza279, ma in realtà i cristiani sono deiformi fin dal loro
battesimo perché lo Spirito Santo ne è l’agente principale 280 281. Questi
dati, che strettamente riguardano soltanto le due parole prese in
esame, devono essere completati da tutto ciò che Tommaso afferma
della grazia creata come partecipazione alla natura divina. Per lui si
tratta di una cosa così grande che considera il dono della grazia come
una specie di nuova creazione che sorpassa l’antica n, dato che la
grazia è un bene migliore di quello dell’intero universo 282; essa supera
anche la nobiltà dell’anima di Cristo 283, perché ciò che Dio è per
sostanza, si realizza a modo di accidente nell’anima che partecipa alla
divina bontà284.
L’AGENTE E LO STRUMENTO
Scelte tra tante altre, le citazioni che precedono non esigono per
il momento di essere moltiplicate, perché avremo molte altre
occasioni di ritornare sulla grazia all’opera nella nostra vita; ci è
sufficiente l’aver ricordato che essa costituisce per Tommaso il
principio della nostra divinizzazione285 286. Ora occorre aggiungere che
tale divinizzazione è realizzata tramite la mediazione di Cristo poiché,
secondo la parola tecnica sempre usata nell’opera tomasiana, egli ne è
152
quanto questo strumento non è soltanto congiunto ma è anche animato
e Ubero. Ma prima di precisare ulteriormente l’analogia,
un’applicazione privilegiata permetterà di collocarla al suo giusto
posto nel processo della produzione della grazia. Tommaso si chiede
se i sacramenti della legge nuova ricavino la loro efficacia dalla
passione di Cristo:
«Il sacramento opera, per causare la grazia, come uno
strumento... Ma vi sono due tipi di strumenti: l’uno separato,
come il bastone; l’altro congiunto, come la mano. È tramite lo
strumento congiunto che quello separato è messo in movimento,
così come il bastone è mosso dalla mano. Ora, la causa
efficiente principale della grazia è Dio stesso, per il quale
l’umanità di Cristo è uno strumento congiunto e il sacramento
uno strumento separato. Per questo è necessario che l’efficacia
(uirtus) salvifica della divinità di Cristo passi nei sacramenti
mediante la sua umanità (...). E chiaro quindi che i sacramenti
della Chiesa ricavano la loro efficacia specifica dalla passione
di Cristo, ed è la ricezione dei sacramenti che ci mette in
comunicazione con la virtù salutare della passione di Cristo.
L’acqua e il sangue sgorgati dal costato di Cristo appeso m
croce indicano questa verità; l’acqua annunciava il battesimo e
il sangue l’eucaristia, poiché sono i sacramenti più
importanti»287.
La semplice lettura permette di percepire quale apertura questo
testo prepari alla Chiesa; per Tommaso l’esistenza cristiana non può
essere che un’esistenza ecclesiale, bisognerà ricordarsene. Ma ciò che
qui ci interessa direttamente è l’esatta gerarchia secondo la quale si
organizzano le cause operanti nella produzione della grazia: tra Dio, la
fonte prima, e i sacramenti, ultimi tramiti per mezzo dei quali essa ci
raggiunge, vi è Cristo, punto di passaggio obbligato. È qui che la
nozione di strumentalità svela una nuova potenzialità. Secondo la
costante dottrina del Maestro d’Aquino, lo strumento «modifica»
l’azione della causa principale:
«Lo strumento ha una duplice azione: un’azione strumentale
287 HI, q. 62, a. 5; il trattato dei sacramenti è il luogo adatto per questo
genere di precisazioni, cf. Ili, q. 64, aa. 3 et 4; ma Tommaso l’annunciava già nella
sua questione sulla causa della grazia, cf. I-E, q. 112, a. 1 ad 2; per avere più dettagli
si possono vedere per esempio le spiegazioni di A.-M. ROGUET, in S. THOMAS
D’AQUIN, Somme Théologique, Les sacrements, ed. de la «Revue des Jeunes», Paris
19512.
secondo la quale opera non per virtù propria, ma per virtù
dell’agente principale, e anche un’azione propria che gli
compete in virtù della sua propria forma. Così, per l’acutezza
del taglio, compete alla scure incidere, ma
come strumento utilizzato da un artigiano le compete fare un
mobile. Tuttavia, la scure non esercita la sua azione strumentale
se non esercitando la sua propria azione: è tagliando che fa il
mobile»288.
L’esempio rudimentale ricavato dal mondo della sua esperienza
quotidiana gli permette di enunciare una dottrina tanto semplice
quanto fondamentale per il seguito del nostro proposito. Possiamo
non servirci di uno strumento, ma se ce ne serviamo, esso lascerà la
sua impronta sull’effetto prodotto. E vero che lo strumento non fa
niente da se stesso, però fa qualcosa, e il risultato finale reca la sua
impronta. Si pensi soltanto all’universo della musica: il violino non è
che uno strumento nelle mani del violinista, ma a seconda che si tratti
di uno Stradivari o di uh pessimo violino il suono ottenuto cambia
completamente. Pur rivestendo una forma eminente e del tutto
singolare, questa dottrina generale si applica anche all’umanità di
Cristo e al suo agire:
[Poiché ciascuna delle due nature di Cristo ha la sua propria
operazione% spiega san Tommaso, l’agire dell’umanità non è
soppresso dalla sua unione alla natura divina nella persona dèi
VerboJ, «tuttavia la naturai divina si serve dell’operazione
della natura umana così come l’agente principale impiega
l’operazione del suo strumento». «L’azione dello strumento
come strumento non è differente dall’azione dell’agente
principale, però questo non gli impedisce di avere la sua
propria azione. Per- tanto, in Cristo, l’operazione della natura
umana, in quanto è lo mento della divinità, non differisce
dall’operazione divina: la nostra salvezza è opera unica
dell’umanità e della divinità di Cristo. Ma la naturà umana di
Cristo, in quanto tale, ha un’operazione diversa da quella della
natura divina» 289.
Per tradurre in termini che ben presto si chiariranno, e di cui
bisognerà verificare il campo di applicazione, diremo che, senza
288 DI, q. 62, a. 1 ad 2; la stessa dottrina la si ritrova in I, q. 45, a. ^ in
maniera ancora più esplicita in SCGIV 41, nn. 3798-3800.
289 HI, q. 19, a. 1 et ad 2; il testo di questa questione è troppo lungo per
esse re citato integralmente, ma costituisce il luogo decisivo sul soggetto. Tommaso
non ha sempre tenuto l’applicazione della strumentalità nella linea della causalità
efficiente (cf. sopra, n. 16); in Sentenze ni, d. 18, a. 6, qc. 1 sol. 1, egli ne parla
ancora nella linea della causalità meritoria; tranne una sola eccezione (in, q. 1, a. 2
ad 2), legata al contesto anselmiano della soddisfazione, quel linguaggio non sarà più
ripreso nella Summa.
152
I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO
perdere la sua qualità divina, la grazia avrà quindi anche un carattere
cristico.
153
I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO
156
efficienza, così come è stato già mostrato per la risurrezione» 299.
Per il solo fatto che qui sono menzionati soltanto i grandi
momenti del mistero pasquale, sarebbe errato concludere che
Tommaso limita ad essi questa dottrina; in effetti la estende a tutto
ciò che Cristo ha fatto e patito:
«Vi è una duplice efficienza: principale e strumentale.
L’efficiente principale della salvezza degli uomini è Dio; ma
dato che l’umanità di Cristo è lo strumento della sua divinità...
ne segue che tutte le azioni e passioni di Cristo agiscono
strumentalmente, in virtù della divinità, per la salvezza degli
uomini E a questo titolo che la passione di Cristo causa in
modo efficiente la salvezza degli uomini»’’300.
MEMORIA O PRESENZA?
158
risuscitante (homo resurgens) Cristo è la causa prossima e per così
dire univoca della nostra risurrezione»302. La si ritrova nel commento
alla lettera ai Romani o al libro di Giobbe, in cui Tommaso parla
sempre della risurrezione in divenire 303, e, naturalmente, nella Somma
dove, accanto al passaggio citato qui sopra, si trova il seguente:
«L’efficienza della risurrezione di Cristo giunge alle anime [si
tratta qui della risurrezione spirituale, cioè del ritorno alla vita
di grazia dell’anima che il peccato aveva per così dire uccisa]
non per virtù propria dello stesso corpo risuscitante, ma per
virtù della divinità alla quale è personalmente unito» 304.
Questi testi non lasciano affatto dubbi sulla vera posizione
toma- siana e, sebbene con notevoli sfumature, numerosi autori
convergono su questo 305. Ma è possibile che i misteri della vita di
Cristo, essendo degli atti storicamente passati, possano continuare ad
agire attualmente? A meno che non si consideri - come aveva tempo
fa proposto Odo
Casel306 - una specie di perennità storica dei misteri che resterebbero
presenti nella liturgia della Chiesa, sembra proprio che si sia
obbligati ad ammettere che è la stessa umanità gloriosa di Cristo che
agisce, e si ritornerebbe allora alla spiegazione dei misteri
memorizzati.
302 Sent. IV, d. 43, q. 1, a. 2 sol. 1; cf. ad 3: mediante Christo homine
résurgente,
303 In ad Romanos 6, 10-11, n. 490: «uita quam Christus resurgens
acquisiuit»; n. 491: «ut (fidelis) conformetur uitae Christi resurgentis»-, Super Iob 19,
25, Leon., Ifti 26, p. 116, linee 268-270: «Vita Christi resurgentis ad omnes homines
diffunde- tur in resurrectione communi»; per il commento di Tommaso a questo
versetto, si vedrà D. CHARDONNENS, Lespérance de la résurrection selon Thomas
d’Aquin, commentateur du Livre de Job, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 65-83.
304III, q. 56, a. 2 ad 2.
305 Oltre Journet e Gaillard citati sopra, si può ricordare H. BOUESSÉ, La
%causalité efficiente instrumentale de l’humanité du Christ et des sacrements chrétiens,
RT 39 (1934) 370-393; La causalité efficiente et la causalité méritoire de l’humanité du
Christ, RT 43 (1938) 265-298; T. TscHIPKE, Die Menschheit Christi lais Heilsorgen der
Gottheit unter besonderer Berücksichtigung der Lehre des hl. iThomas von Aquin,
Freiburg i.Br. 1940; F. HOLTZ, La valeur sotériologique de la résurrection du Christ
selon saint Thomas, ETL 29 (1953 ) 609-645; CL.-J. GEFFKE, recensione critica di J.
Lécuyer - F. Holtz, cit. sopra, in BT 9 (1954-56) nn. 1569- 1571, pp. 812-817 (a nostro
avviso, è lo studio che rende meglio il pensiero di san Tommaso). Più recentemente, cf.
M.G. NEELS, La résurrection de Jésus sacrement de salut. La causalité salvifique de la
résurrection du Christ dans la sotériologie de St. Thomas, Diss. PUG, Roma 1973; R.
LAFONTAINE, La résurrection (tesi originale), pp. 267-278.
306 Cf. O. CASEL, Le mystère du culte dans le christianisme, Paris 1956;
Faites ceci en mémoire de moi, Paris 1962; cf. TH. FILTHAUT, La Théologie des
Mystères: Exposé de la controverse, Paris-Toumai 1954.
159
A ciò è facile replicare con san Tommaso che non è l’azione
passata in se stessa che dura sempre. In quanto tale, essa ha cessato
di esistere. È il suo influsso strumentale che continua ad essere
efficace sottò la mozione divina. L’efficienza attuale dei misteri
passati della vita di Cristo deriva loro dalla potenza divina che
raggiunge tutti i tempi e i luoghi; e questo contatto «virtuale», cioè
secondo la uirtus, l’efficacia, è sufficiente a rendere conto di questa
efficienza307.
307 Ecco il testo latino del passaggio citato sopra, III, q. 56, a. 1 et ad 3:
«Vir- tus diurna praesentialiter attingit omnia loca et tempora. Et talis contactus
uirtualis sufficit ad rationem efficientiae».
308 Questa risposta è stata sottoposta a una severa critica da parte di J.-H.
NICOLAS, Réactualisation des mystères rédempteurs dans et par les
sacrements, RT 58 (1958) 20-54, senza sospettare, sembra, che è la posizione stessa
di san Tommàs so che citiamo nei testi qui di seguito.
160
risurrezione sarà prodotta dalla risurrezione di Cristo secondo
quanto la disposizione divina ha previsto che accadesse in quel
determinato tempo»309.
La stessa dottrina si ritrova nel testo seguente, tanto più
interessante in quanto Tommaso dialoga lì con un interlocutore che gli
obietta, giustamente, l’impossibilità di un effetto differito nel tempo:
«La causa comune della nostra risurrezione è la risurrezione di
Cristo. Se tu dici: “essa è già accaduta. Perché dunque il suo
effetto non si è verificato?”, io rispondo che essa è la causa
della nostra risurrezione in quanto opera secondo la virtù
divina. Ora, Dio agisce secondo la disposizione della sua divina
sapienza. Quindi la nostra risurrezione si produrrà secondo
quanto ha previsto il disegno divino»310.
Se è possibile concretizzare un po’ una realtà essenzialmente
spirituale e che sfugge dunque risolutamente ad ogni
materializzazione, si può illustrare ciò con un esempio tempo fa
proposto da Charles Journet J perfezionato da Humbert Bouessé: «Per
questo passato dall’influenza attuale, accade un po’ - visto che non
esistono immagini adeguate - come per la luce di una stella
attualmente esistente ma invisibile [si tratta evidentemente
dell’umanità gloriosa di Cristo] che mi raggiungerebbe oggi tramite i
raggi di rifrazione di un pianeta che, esso, non esisterebbe più [gli atti
della sua vita terrestre]»311.
Comunque si voglia giudicare l’adeguatezza del paragone e le
divergenze di spiegazione tra specialisti, l’aspetto tecnico non deve
velare la profonda semplicità della dottrina e delle implicanze
spirituali, che le danno una seduzione incontestabile. Senza nulla
togliere al carattere fondamentalmente trinitario dell’ispirazione
tomasiana, essa mette in evidenza con incomparabile forza la presenza
di Cristo salvatore al centro della vita cristiana. Non è soltanto Dio-
Trinità che è presente a ciascun uomo in stato di grazia in un modo
costante e universa le, ma è anche Cristo nella sua umanità; e non solo
di una presenza di ricordo o di una presenza intenzionale mediante la
conoscenza e l’amore, ma proprio di una presenza efficace di grazia. Il
Cristo storico oggi glorificato ci raggiunge con ogni atto della sua vita
309 In I ad Cor. 15, 12, lect. 2, n. 915.
310 In I ad Thess. 4, lect. 2, n. 98; stessa risposta, III, q. 56, a. 1 ad 1: «Non
Òportet quod statini sequatur effectus, sed secundum dispositionem Verbi Dei»; era
già la spiegazione di Seni. TV, d. 43, q. 1, a. 2 ad 1 et ad 2.
311 H. BOUESSÉ, De la causalità de l’humanité du Christ, in Problèmes actuels de
christologie, p. 175.
161
terrena, che t così portatore di una vita e di un’energia divinizzatrici 312.
Riguardo al modo concreto in cui gli atti compiuti dal Salvatore;:
c ciò che ha patito nella sua carne, possono raggiungerci ancora oggi, è
sufficiente rispondere con Tommaso che ciò avviene: «spiritualmente
mediante la fede e corporalmente mediante i sacramenti, dato che
l’umanità di Cristo è contemporaneamente spirito e corpo, affinché
potessimo ricevere in noi [che siamo spirito e corpo] l’effetto della
santificazione che proviene da Cristo» 313. Per Tommaso, come per san
Paolo, la ; *,i a/u del battesimo ci fa partecipare misticamente alla
morte e alla risurrezione di Cristo. Lo stesso vale per l’eucaristia e gli
altri sacramenti314.
Ci si chiederà forse cosa accada con i misteri della vita nascosta
che non sono esplicitamente ripresi nei sacramenti e che nondimeno
hanno anche questa efficienza salutare. Anche se non è sacramentale
che in senso largo,, si può certamente pensare alla loro
commemorazione liturgica, visto che costituisce uno dei luoghi
privilegiati in cui si esprime e si nutre la fede. E sufficiente aver
partecipato alla celebrazio- f ne dell’Ufficio di Pasqua o di Natale in una
comunità monastica o in una comunità fervente per capire che si è in
presenza di un’attualizza- zione del mistero celebrato il cui effetto è
interiorizzato dalla preghiera. 'La teologia del memoriale, a volte
ristretta all’eucaristia, permette in- fdubbiamente questa estensione: oggi
Cristo è nato... oggi è risuscita- : to... oggi sale al cielo. Ciò che
eminentemente è vero della preghiera pubblica, lo è anche della
preghiera personale; basta pensare qui alla meditazione delle scene della
LA CONFORMITÀ A CRISTO
166
il fatto stesso che illumina i santi con la luce della sua sapienza
e della sua grazia, li rende a lui conformi. Per questo è detto nel
salmo (109, 4): “Dal seno dell’aurora ti ho generato prima
della luce nello splendore dei santi”, cioè irradiando lo
splendore dei santi (...).
Circa la conseguenza di questa predestinazione, Paolo
aggiunge: “Perché egli sia il primogenito tra molti fratelli".
Infatti, come Dio ha voluto comunicare la sua natura ad altri
facendoli partecipare alla somiglianza della sua bontà, in modo
tale che egli fosse non solo buono ma anche autore di bontà,
così il Figlio di Dio ha voluto comunicare la conformità della
sua filiazione, in modo tale che non fosse soltanto Figlio ma
anche il Primogenito dei figli. È così che colui che è unico a
causa della sua generazione eterna, secondo Giovanni (1, 18),
“il Figlio unico che è nel seno del Padre”, diventa, con la
comunicazione della grazia, “il Primogenito tra molti fratelli” :
“Colui che è il Primogenito dei morti, il Principe dei re della
terra” (Àp 1, 3).
Noi siamo così i fratelli di Cristo, sia per il fatto che ci ha
comunicato la somiglianza della sua filiazione, come è stato
detto qui, sia per il fatto che ha assunto la somiglianza della
nostra natura, secondo la lettera agli Ebrei (2, 17): “Egli ha
dovuto rendersi in tutto simile ai suoi fratelli”» 324.
sacerdoti... Saul ha ricevuto da Samuele l’unzione dei re... Eliseo ha ricevuto funzione
dei profeti... Poiché Cristo fu vero sacerdote... e re e profeta, a giusto titolo è quindi
chiamato Cristo [cioè Unto] a causa delle tre funzioni che ha esercitato... Dato che
Cristo fu re, sacerdote e profeta, giustamente è quindi chiamato loro figlio [di
Abramo e di Davide]»; In ad Romanos 1,1, lect.l, n. 20: «Cristo vuol dire Unto... Con
ciò viene manifestata la dignità di Cristo quanto alla santità, perché i sacerdoti erano
unti... quanto alla potenza, perché anche i re erano unti... e quanto alla conoscenza,
perché pure i profeti erano unti».
83
III, q. 22, a. 1 ad 3: qui si trova «legislatore» laddove ci si aspetterebbe
«profeta», ma il contesto generale indica abbastanza che non è il caso di forzare la
differenza; cf. q. 31, a. 2: «Cristo doveva essere re, profeta e sacerdote»; Super Isaiam
61, 1 (Leon., t. 28, p. 240, linee 65ss.); In Matthaeum 28, 19, nn. 2462-2464.
20). Ma che rapporto c’è tra Cristo unto e i cristiani unti come
lui? Eccolo: lui ha l’unzione a titolo principale e primo, noi e
gli altri l’abbiamo ricevuta da lui... Quindi gli altri sono
chiamati santi, però lui è il Santo dei santi. E la fonte di ogni
santità»345.
Se, preoccupati di essere brevi, a volte abbiamo omesso le
citazioni scritturistiche fatte dall’autore, ne abbiamo lasciate tuttavia
345 In ad Hebraeos 1, 9, lect. 4, nn. 64-66.
174
un numero sufficiente perché si possa cogliere l’ispirazione
profondamente biblica di questa dottrina. E indubbiamente una delle
ragioni per cui essa si trova così spontaneamente in accordo alla
dottrina del Concilio Vaticano II, il quale ha fatto della trilogia
messianica la spina dorsale della Costituzione dogmatica Eumen
gentium. Certamente non è in san Tommaso che il Concilio ha trovato
la sua ispirazione, ma non è senza interesse sottolineare per inciso che
ciò che all’epoca del Concilio è apparso come una vera novità era in
realtà ben ancorato in una Tradizione di cui è anch’egli un testimone.
Forse non è necessario concludere questo capitolo con una
conclusione a modo, che ne riprenda tutti gli apporti. E chiaro ormai
che l’umanità di Cristo gioca nella sintesi di Tommaso d’Aquino un
ruolo strutturale, e che esso si ripercuote nell’esperienza vissuta del
cristiano, cominciando proprio dalla sua. Egli considera se stesso
come appartenente al «noi» dei cristiani che così spesso ritorna nei
suoi testi, alcuni dei quali lasciano addirittura percepire qualcosa del
suo atteggiamento nei confronti dell’umanità di Cristo Gesù e della
sua fiducia illimitata nella sua intercessione:
«(L’Apostolo mostra che Cristo non può né accusare né
condannare coloro per i quali ha versato il suo sangue [cf. Rm
8, 31-39]) al contrario, egli accorda ai santi grandi benefici
secondo la sua umanità e secondo la sua divinità. Secondo la
sua umanità, Paolo cita quattro benefici: 1. La sua morte per la
nostra salvezza... 2. La sua risurrezione, mediante la quale ci dà
la vita: vita spirituale su questa terra, vita corporale nel mondo
futuro... Egli sottolinea anche la risurrezione (“Cristo Gesù, che
è morto, anzi, che dico? Che è risuscitato"), giacché all’epoca
attuale è piuttosto della potenza della risurrezione che
dobbiamo far memoria che non della debolezza della passione.
3. La sua propria esaltazione tramite il Padre, quando afferma
“che sta alla destra di Dio”, cioè in una situazione di
uguaglianza con Dio Padrèi secondo la natura divina, e in
possesso dei migliori beni secondo lai natura umana. E questo
torna a nostra propria gloria perché, come dice l’Apostolo (Ef
2, 6): “Egli ci ha risuscitati e fatti sedere nei cieli, in Cristo
Gesù". Poiché siamo sue membra, noi dimoriamo con lui nello:
stesso Dio Padre... 4. La sua intercessione per noi, quando dice:
“egli intercede per noi” come se fosse nostro avvocato.
“Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo” (l Gv 2,
1). All’avvocato compete non accusare o condannare, ma al
contrario respingere l’accusa ed impedire la condanna. Egli
intercede per noi in un duplice modo. Prima di tutto, pregando
per noi... e la sua preghiera per noi consiste nella sua volontà di
175
salvarci: “Voglio che là dove io sono, anch’essi siano con me”
(Gv 17, 24). L’altro modo d’intercedere per noi consiste nel
presentare al cospetto del Padre l’umanità che ha assunto per
noi e i misteri che ha celebrato in essa: “Egli stesso è entrato in
cielo per apparire ora al cospetto di Dio in nostro favore’’» 346.
VII
Parlare dello Spirito Santo
14
Super loannem 14, lect. 4 et 6, nn. 1907-1920 e 1952-1960; cap. 15, lect. 5,
nn. 2058-2067; cap. 16, lect. 2-4, nn. 2082-2115.
15
In adRomanos 8, lect. 1-7, nn. 595-731.
16
In 1 ad Cor. 12, lect. 1-2, nn. 709-730.
17
In ad Galatas 5, lect. 6-7, nn. 327-341.
18
Segnaliamo tuttavia un buon commento degli articoli del Credo sullo
Spirito Santo e la Chiesa (Expositio in Symbolum nn. 958-998), e la collatio 19 del
Super Isaiam con il nostro commento: J.-P. TORKELL - D. BOUTHTLLIER, Quand saint Thomas
méditait sur leprophète Isaie, RT 90 (1990) 5-47, cf. pp. 35-37.
19
Oltre ad opere già citate che seguiranno, ecco l’indicazione di alcuni lavori
supplementari: G. FERRARO, LO Spirito Santo nel commento di San Tommaso ai capitoli
XIV-XVI del quarto Vangelo, in Tommaso d’Aquino nel suo Settimo Centenario. Atti del
Congresso intemazionale, t. IV, Napoli 1977, pp. 79-91; ID., Il tema dello Spirito Santo
nel Commento di San Tommaso d‘Aquino all'Epistola agli Ebrei (Annotazioni di dottrina e
di esegesi tomista), ST 13 (1981) 172-188; ID., Aspetti di pneu- matologia nell’esegesi di
S. Tommaso dAquino dell'Epistola ai Romani, «Euntes Docete» 36 (1983) 51-78; ID., La
pneumatologia di San Tommaso d’Aquino nel suo commento al quarto Vangelo,
«Angelicum», 66 (1989) 193-263; ID., Interpretazione dei testi pneumatologici biblici nel
trattato trinitario della «Summa theologiae» di san Tommaso d‘Aquino (I, qq. 27-43), ST
359 Super Ioannem 3, lect. 1 e 2, soprattutto nn. 449-456.
360 Super Ioannem 7, lect. 5, nn. 1091-1096.
180
45 (1992) 53-65; L. ELDERS, Le Saint-Esprit et la Lex Nova dans les commentaires bibliques
de S. Thomas d’Aquin, in Credo in Spiri- tum Sanctum. Atti del Congresso teologico
internazionale di Pneumatologia, Città del Vaticano 1983, t. Il, 1195-1205; S. ZEDDA,
Cristo e lo Spirito Santo nell’adozione a figli secondo il commento di S. Tommaso alla
lettera ai Romani, in Tommaso d’Aquino nel suo settimo centenario, t. IV, pp. 105-112.
Per ricerche più approfondite vedi A, PEDRINI, Bibliografia tomistica sulla
pneumatologia («Studi tomistici 54»), Roma 1994, che elenca i titoli dal 1870 al 1993.
181
NOMI COMUNI E NOMI PROPRI: L’APPROPRIAZIONE TRINITARIA
361 Questo tema capitale e bello è anche molto ampio; per quanto qui non
potremo dire, rinviamo a H. DE LAVALETTE, La notion d’appropriamoti dans la théo- logie
trinitaire de S. Thomas d’Aquin, Roma 1959, e a H.-F. DONDAINE, La Trinité, t. II, pp.
409-423, al quale questo richiamo deve molto; cf. anche J.-H. NICOLAS, Les
profondeurs de la gràce, Paris, pp. 110-126; B. MONTAGNES, La Parole de Dica dans la
création, RT 54 (1954) 213-241, per l’appropriazione vedi pp. 222-230; i principali
testi di Tommaso sono i seguenti: I, q. 39, aa. 7-8; q. 45, aa. 6-7, con i loro paralleli.
182
Secondo la sua stessa definizione, il procedimento
dell’appropriazione consiste nel «portare un nome comune a
svolgere la funzione di nome proprio» (trahere commune ad
proprium). Si può prendere come esempio la pratica ben nota al
mondo latino antico in cui la parola «città» (urbs), pur applicata a
molti agglomerati, si applicava per eccellenza alla capitale
dell’impero: Roma era b Città (Urbs) per appropriazione. Qualcosa
di simile accade quando si attribuisce ad una delle Persone della
Trinità una qualità, in realtà comune alle tre Persone dato che essa
appartiene alla stessa essenza divina (perciò si parla di attributi
essenziali, mentre si parla di proprietà per le Persone). E ciò che
succede quando si usa «Sapienza» per parlare del Figlio, o «Bontà»
per parlare dello Spirito Santo. Basta prestarvi attenzione per
rendersi conto che il procedimento è uno dei più ricorrenti, ma
bisogna comprenderlo bene:
«Per chiarire questo mistero della fede, “conveniva”
appropriare alle Persone gli attributi essenziali. Infatti, se,
come si è detto, è impossibile provare b Trinità con una
dimostrazione propriamente detta, “conviene“ tuttavia
illuminare il mistero mediante cose più alla portata della
nostra ragione. Ora, gli attributi essenziali per la nostra
ragione sono più accessibili delle proprietà delle Persone.
Perché, partendo dalle, creature, cause della nostra
conoscenza, possiamo giungere a conoscere con certezza gli
attributi essenziali di Dio, ma non le sue proprietà personali.
Perciò, come ricorriamo alle analogie delle vestigia e
dell’immagine, ritrovate nelle creature, per esporre la dottrina
intorno alle persone divine, così ricorriamo anche agli attributi
essenziali. Questa manifestazione delle Persone per mezzo
degli attributi essenziali, è ciò che si suol chiamare
“appropriazione”»362.
Questo breve testo meriterebbe di apparire in un’antologia. In
esso si possono cogliere con molta chiarezza vari punti decisivi del
metodo tomasiano: il carattere progressivo del modo di procedere
(dal più noto al meno noto); il senso del mistero (impossibilità di
dimostrare la Trinità) e, ciononostante, il desiderio di penetrarlo
nella misura del possibile con ragioni di «convenienza» («conviene»
chiarire il ¡mistero). L’appropriazione dipende infatti proprio da
questa maniera di procedere per convenienza, tipica della teologia,
3621, q. 39, a. 7.
183
che non può pretendere nessuna conclusione necessaria, ma che
offre, malgrado ciò, qualche lume in un campo in cui, senza di essa,
regnerebbe un’oscurità ancora maggiore.
In verità, la maniera di procedere non è soltanto teologica.
Agostino, e Tommaso al suo seguito, l’avevano già potuta riscontrare
nel Nuovo Testamento. Il nome di Dio qui è correntemente riservato
al Padre, quello di Signore al Figlio, quello di Spirito alla terza
Persona (cf. Ef 2, 18). Altrove san Paolo attribuisce i carismi allo
Spirito, i ministeri al Signore, le «operazioni» a Dio (2 Cor 12, 4-6).
Questo modo di parlare continua nel Credo: qui la creazione è
attribuita al Padre, la salvezza degli uomini al Figlio, la
santificazione e la vivificazione allo Spirito. In ogni caso, si tratta sia
di nomi «essenziali» che convengono! alle tre Persone
simultaneamente, sia di operazioni che hanno la Trinità per unico
autore comune. Legato alla rivelazione dell’economia della salvezza,
ratificato dall’espressione dogmatica della fede, anche questo
linguaggio deve avere perciò la sua legittimità in teologia. L’unico
problema risiede nel suo fondamento e nei limiti del suo impiego.
H testo suddetto enunciava ciò che si potrebbe chiamare il suo
fondamento «soggettivo»: l’appropriazione trinitaria trova una prima
giustificazione nel profitto che ne ricava il teologo, ossia una certa
intelligenza del mistero 363. Legittimo, il procedimento potrebbe
aprire la porta a molte appropriazioni fantasiose che non avrebbero
nessun valore se non quello di una suggestione per chi le formula. E
importante perciò verificare ciò che lo giustifica da parte
dell’oggetto. Ora, a tal proposito il Maestro d’Aquino è molto chiaro:
«L’unico e principale fondamento dell’appropriazione è la
somiglianza con la Proprietà»364:
363 Evidentemente ciò è lungi dall’essere trascurabile; nel testo parallelo
delle Sentenze (I, d. 31, q. 1, a. 2), Tommaso parla della «utilità» che ricaviamo da
questo processo: sebbene mediante gli attributi essenziali non possiamo giungere
suffi-: cientemente alle proprietà delle Persone, vediamo tuttavia in questi attributi:
appropriati qualche somiglianza delle Persone, e questo dà una certa, seppure
imperfetta, «manifestazione» della fede; così come a partire dalle immagini e dati
vestigi della Trinità che incontriamo nella creazione, si può proporre un certo
approccio (uia persuasiua) alle Persone.
364 Seni. I, d. 31, q. 2, a. 1 ad 1; anche nella I, q. 39, a. 7 è la somiglianza
che viene in primo luogo: la Sapienza attribuita al Verbo a causa della sua
processione per modo d’intelletto; in secondo luogo, Tommaso cita anche la
dissomiglianza: la Potenza attribuita al Padre in contrapposizione alla debolezza dei
padri umani nella loro vecchiaia; qui però si ricade di nuovo in una visione più
soggettiva delle); cose e non sembra che Tommaso abbia seguito tale pista.
184
«Sebbene gli attributi essenziali siano comuni ai Tre, un
attributo, considerato nella sua ragione formale, ha maggiore
somiglianza con la Proprietà di tale Persona che con quella di
un’altra; esso allora può benissimo (conuenienter) essere
appropriato a questa Persona. Per e- sempio, la potenza evoca
un principio: essa è allora appropriata al Padre, che è il
Principio senza Principio; la sapienza si appropria al Piglio, il
quale procede come Verbo; la bontà allo Spirito Santo che
procede come Amore che ha il Bene per oggetto. Così dunque,
da parte dell’oggetto, è la somiglianza dell’attributo
appropriato con la proprietà della Persona che fonda la
convenienza dell’appropriazione, convenienza che sussiste
indipendentemente da noi>>24.
2
^Sent. I, d. 31, q. 1, a. 2.
185
25
H.-F. DONDAINE, La Trinità, t. n, p. 418, nota; il corsivo è nostro; Dondaine
osserva anche che Tommaso va qui molto più lontano di Bonaventura, per il quale
sono realmente fondate solo le appropriazioni che connotano l’ordine di origine.
osserva Dondaine, se ciò appare un po’ ridotto dinanzi alla ragione,
non è questo il segno che essa ha raggiunto i suoi limiti 26? Alle prese
con il Mistero, Tommaso si confronta con esso e non rinuncia a
tentare di coglierlo e di esprimerlo; per quanto modesti siano stati i
suoi risultati, l’appropriazione resta fondata e, nel suo sforzo di dire
l’indicibile, il teologo può accordarle una portata limitata sì, ma
reale27.
Lo SPIRITO CREATORE
26
Cf. ibid,, pp. 418-420; Dondaine riporta qui una confessione molto
importante del Gaetano: «In questa materia, ci mancano le parole stesse: per cui ci è
necessario ben concepire e insinuare le proprietà delle Persone a partire dalle
appropriazioni» (In Iam, q. 36, a. 4, n. 8).
27
Tommaso non perde mai di vista il fatto che l’appropriazione non
comporta alcuna esclusività; tra tanti altri, ecco un testo che conferma molto
chiaramente l’osservazione del P. Dondaine sulla suddivisione delle appropriazioni
tra quelle che dipendono dalla volontà e quelle che dipendono dall’intelletto: «È
vero che tutti i doni, in quanto doni, sono appropriati allo Spirito Santo perché
costui, in quanto Amore, ha il carattere di primo Dono. Ciononostante alcuni doni,
considerati secondo il loro tenore proprio e specifico, sono attribuiti per appropriazione
al Figlio: si tratta precisamente di tutti quelli che hanno a che fare con l’intelletto. E
secondo questi doni si parla di una missione del Figlio. Sant’Agostino afferma anche
che il Figlio è «invisibilmente inviato a ciascuno, allorquando lo si conosce e
percepisce» (De Trinitate IV 20)», I, q. 43, a. 5 ad 1; cf. De ueritate q. 7, a. 3 ad 3.
28
Ci riferiamo a SCG IV 20-22, di cui un eminente esegeta ha potuto
affermare che si tratta di una «spiegazione risoluta e fervente di questo “dovere” di
appropriazione nel campo della causalità divina» (A. PATFOORT, Morale et pneu-
matologie, in Les clés, p. 95, n. 16, dove si troverà anche un abbozzo molto riuscito
186
della teoria dell’appropriazione); in un altro articolo, Missions divines et expérience
des Personnes divines selon S. Thomas, «Angelicum» 63 (1986), p. 557, n. 30, lo stesso
autore ha giustamente sottolineato che non bisogna sorprendersi di non trovare in
essa alcuni punti della teologia trinitaria, anche se ne restano abbastanza: per
illustrare il nostro proposito.
In un primo capitolo, il Maestro d’Aquino si impegna a cogliere
gli effetti che la Sacra Scrittura attribuisce allo Spirito Santo rispetto
all’intera creazione. Il primo effetto è evidentemente la creazione
stessa e sappiamo già perché:
«L’amore con cui Dio ama la sua propria bontà è la causa
della creazione delle cose... Ora, lo Spirito Santo procede come
l’amore col quale Dio ama se stessoDunque lo Spirito Santo è
il principio della creazione delle cose. E quanto viene detto nel
salmo (103, 30): “Manda il tuo Spirito e gli esseri saranno
creati”»365.
In secondo luogo, è necessario attribuire allo Spirito Santo il
movimento degli esseri; la spiegazione di questa appropriazione
dev’essere cercata ancora nel suo modo di processione:
«Lo Spirito Santo procede come amore, e l’amore è dotato di
un certo impulso e movimento. Bisogna quindi attribuire
propriamente allo Spirito Santo il movimento che Dio
comunica alle cose. [È quanto esprime Gn 1, 2 in cui si vede lo
Spirito “planare” sulle acque]. Secondo sant’Agostino, per
“acque” qui si deve intendere la materia prima sulla quale si
dice che lo Spirito del Signore si librava, non come soggetto al
moto, ma come principio del movimento» 366.
E ancora a causa di questa qualità fondamentale dello Spirito
Santo che Tommaso attribuisce a quest’ultimo il governo
dell’universo:
«[Infatti,] il governo delle cose da parte di Dio bisogna
concepirlo come un certo impulso con cui egli dirige e mette in
movimento tutti gli esseri verso il loro fine. Quindi, se l’impulso
e la mozione, a causa dell’amore, spettano allo Spirito Santo,
365 Cap. 20, n. 3570; senza andare oltre, si può già constatare ciò che
dicevamo poco fa del carattere non esclusivo delle appropriazioni, dato che non
mancano luoghi in cui Tommaso attribuisce la creazione al Padre; cf. G. EMERY, Le
Pére et l’oeuvre trinitaire de la création selon le Commentane des Sentences de S.
Thomas d’Aquin, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 85-117, cf. pp. 105ss.
366Ibid., 3571.
187
conviene (convenienter) attribuirgli il governo e lo sviluppo
degli esseri. Di qui le parole di Giobbe (33, 4): “È lo Spirito
che mi ha fatto”, e quelle del salmo (142, 10): “II tuo Spirito
buono mi conduce per la retta via”. E poiché governare i
sudditi è l’atto proprio di un signore, conviene (convenienter)
giustamente attribuire la Signoria della creazione allo Spirito.
“Lo Spirito è
Signore” dice l’Apostolo (2 Cor 3, 17); e nel Simbolo della
fede è detto: "Lo Spirito Santo è Signore”»01.
Si sarà notato in questi testi l’uso regolare dell’avverbio
convenien- ter. Questo corrisponde esattamente a quanto permette di
dire il procedimento dell’appropriazione. Creare gli esseri, dare loro
la possibilità di muoversi, dirigerli verso il loro fine sono unicamente
e semplicemente delle prerogative divine; Tommaso non lo mette in
dubbio ma, cercando la forza segreta (egli parla volentieri
dell’origine nascosta dello Spirito) che può spiegare tutto ciò, non ne
trova una migliore dell’Amore, cui si identifica lo Spirito Santo. E
ancora a quest’ultimo che fa riferimento quando a partire dal
movimento risale alla vita ch’esso manifesta:
«È soprattutto il movimento che esprime la vita... Se dunque, a
causa dell’amore, l’impulso e il movimento appartengono allo
Spirito Santo, conviene attribuirgli la vita. “E lo Spirito che dà
la vita”, dice san Giovanni (6, 64); ed Ezechiele afferma (37,
6): “Vi darò lo Spirito e vivrete". Idei Credo confessiamo lo
Spirito “che dà la vita”. Ciò concorda d’altra parte col nome
stesso di Spirito (Spiritus = soffio): è il soffio vitale diffuso dal
principio in tutte le membra che assicura la vita fisica degli
esseri viventi»32.
188
modo di presenza, che è secondo la grazia:
«Poiché lo Spirito Santo procede come amore, amore col quale
Elio ama se stesso..., e dato che amando Dio noi siamo
assimilati a questo 367
amore, diciamo che lo Spirito Santo ci è dato da Dio. Per
questo l’Apostolo afferma: “L’amore di Dio è stato effuso nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato’’
(Rm 5, J>)»368.
Ancora una volta non possiamo esimerci dall’osservare la
costanza con cui Tommaso ritorna al suo punto di partenza: è la
processione dello Spirito come Amore che fonda obiettivamente le
appropriazioni che si appresta a sviluppare369. Egli ricorda
innanzitutto che l’azione divina non si limita a creare ciò che chiama
all’esistenza; essa è anche ciò che conserva tutte le cose nell’essere.
Questo suppone certamente il fatto che Dio è presente dappertutto
così come l’agente è presente al suo effetto:
«È necessario che dovunque cè un effetto di Dio, là ci sia pure
Dio che
10 causa. Perciò siccome la carità con la quale amiamo Dio è
in noi per opera dello Spirito Santo, bisogna che anche lo
Spirito Santo sia presente in noi, finché in noi rimane la carità.
Di qui le parole dell’Apostolo (1 Cor 3, 16): “Non sapete che
siete tempio di Dio, e che lo Spirito Santo abita in voi?’’.
[Questa prima constatazione implica un corollario immediato:]
Quindi siccome è per opera dello Spirito Santo che diventiamo
amici di Dio e che l’essere amato, proprio in quanto tale, è
367 Ibid.
,3572-3573.
i2
Ibid., n. 3574.
368 SCGIV 21, n. 3575.
369 Ma qui Tommaso avverte il bisogno di precisare ulteriormente,
«poiché è necessario sapere che tutto ciò che in noi viene da Dio, è riferito a lui come
alla sua causa efficiente ed esemplare». Che Dio è causa efficiente va da sé, poiché
niente di ciò che esiste arriva all’essere se non mediante la sua potenza; causa
esemplare, è altrettanto chiaro, perché ogni perfezione riflette una certa
imitazione della sua essenza. Questo vale però in egual misura per le tre Persone;
quindi sarà per appropriazione che il «verbo» di sapienza tramite il quale
conosciamo Dio sarà attribuito al Figlio, dato che costui ne è rappresentativo in
modo speciale. «Ugualmente, l’amore col quale amiamo Dio è specialmente
rappresentativo dello Spirito Santo. Per questo diciamo che la carità
risiede in noi specialmente mediante lo Spirito Santo, sebbene sia un effetto
[comune] al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo» (n. 3576).
189
presente in colui che l’ama, è necessario che anche il Padre e
il Figlio abitino in noi per opera dello Spirito Santo. Questo è
quanto afferma il Signore in san Giovanni (14, 23): “Verremo
a lui e faremo dimora presso di lui”; o anche (1 Gv 3, 16):
“Sappiamo che egli rimane in noi grazie allo Spirito che ci ha
dato”»370.
11 primo effetto della presenza in noi del dono di Dio che è la
carità consiste quindi nella presenza del Donatore stesso, lo Spirito
Santo, e, con lui, dell’intera Trinità che viene ad abitare nell’anima
del; giusto. Ovunque si interroghi la dottrina della grazia o dello
Spirito Santo, è sorprendente vedere come con Tommaso giungiamo
subito: alla verità, simultaneamente elementare e sublime, che i
mistici di tutti i tempi hanno collocato al vertice della loro
esperienza. Tommaso però non si ferma qui e sottolinea con vigore la
verità complementare:
«È chiaro che Dio ama soprattutto coloro che egli ha costituito
suoi amici per mezzo dello Spirito Santo, poiché solo un così
grande amore poteva conferire un tale bene... Ora, dato che
ogni essere amato abita: in colui che lo ama, è perciò
necessario che per opera dello Spirito: Santo non solo Dio abiti
in noi, ma che anche noi abitiamo in Dio. Di qui le parole di
san Giovanni (1 Gv 4, 16): “Chi rimane nell’amore rimane in
Dio e Dio in lui”, e "da questo conosciamo che siamo in lui e
che egli è in noi, perché ci ha resi partecipi del suo Spirito”»
Sarà necessario ricordarsi di questo testo quando tra poco
parleremo della comunione dei santi e della «circuminsessione
affettiva» che riunisce tra di loro tutte le membra della Chiesa.
Questa parola erudita, con la quale la teologia designa la reciproca
presenza delle tre Persone nell’indicibile unità della Trinità, può
essere utilizzata per esprimere anche come la comunione ecclesiale
realizza, al suo livello creato, qualcosa dell’ineffabile scambio
intratrinitario. In realtà è la definizione stessa dell’amicizia, che
Tommaso riprende da Aristotele mettendola al servizio della sua
concezione, che gli permette di pensare questo mistero. Qui è lo
stesso registro della carità-amicizia che viene utilizzato fino in fondo
per tentare di far capire meglio tutto ciò che implica questo modo di
vedere le cose:
Klbid., n. 3577.
ne in mente all’uomo, ciò che Dio ha preparato per coloro che
lo amano, Dio lo ha rivelato per mezzo dello Spirito Santo”. E
siccome è in base a ciò che conosce che l’uomo può parlare,
conviene dunque attribuire allo Spirito Santo [il fatto che]
l’uomo possa parlare dei misteri divini... Di qui Vaffermazione
del Simbolo a proposito dello Spirito Santo: “Ha parlato per
mezzo dei profeti”»37.
191
«La vita attiva che deriva dalla pienezza della contemplazione,
come accade per l’insegnamento e la predicazione [...] è
preferibile alla sola contemplazione. Come è maggior cosa
illuminare che brillare soltanto, così è preferibile trasmettere
agli altri ciò che si è contemplato piuttosto che contemplare
soltanto»39.
”Ibid., n.3578.
38
Cf. II-II, qq. 171-174 (soprattutto q. 171, aa.1-2 e q. 173, a. 2), con gli
studi di J.-P. TOREELL, Le traité de la prophétie de S. Thomas d’Aquin et la
théologie de la révélation, in ST 37 (1990) 171-195, ripreso in Recherches sur
la théorie de la prophétie au Moyen Age, pp. 205-229, e, meno tecnico:
Révélation et expérience (bis), FZPT 27 (1980) 383-400, ripreso in ibid., 101-
118.
39
II-II, q. 188, a. 6; la citazione precedente è tratta dal sermone Exiit qui
seminai, di cui si troverà un commento in J.-P. TOKRELL, Le semeur' est sorti
pour semer. L’image du Christ prêcheur chez frère Thomas d’Aquin, «La
Vie spirituelle», nov.-dic. 1993, pp. 657-670.
Non potremmo soffermarci su questi testi senza allontanarci
troppo dal Contra Gentìles, ma era importante vedere come, qua e là,
ritroviamo un costante movimento la cui origine si situa in un’intima
comunione di vita con lo Spirito Santo. Se ora ritorniamo alla nostra
lettura, è necessario riprendere il modo in cui Tommaso sviluppa il
suo appello all’esperienza dell’amicizia: gli risulta impossibile
restare al piano delle confidenze, delle “buone parole”, se così ci si
può esprimere:
«È proprio dell’amicizia, però, non solo rivelare agli amici i
propri segreti a causa dell’unità d’affetto (propter unitatem
affectus); questa unità richiede che si comunichi all’amico
anche ciò che si possiede. Poiché un amico è per un uomo “un
altro se stesso”, è necessario provvedere all’amico come a se
stesso dandogli tutto ciò che si possiede. Da qui questa
definizione dell’amicizia: “Volere e realizzare il bene
dell’amico”. Così come è scritto in 1 Gv 3, 17: “Se qualcuno
possiede beni di questo mondo e, vedendo il suo fratello nella
necessità, chiudesse le sue viscere alla compassione, come
potrebbe l’amore di Dio restare in lui?”. Ora, questo avviene
soprattutto in Dio, per il quale volere significa agire; ecco
perché conviene affermare che tutti i doni di Dio ci sono
concessi per opera dello Spirito Santo» 371.
Qui si colgono di sfuggita delle espressioni proprie della
371Ibid., n. 3579.
192
dottrina di Aristotele 372, che fra Tommaso adotta così volentieri
quando parla dell’amore di Dio per noi e che ritroveremo nella sua
dottrina della comunione dei santi. Ora, quando considera i beni
propri di Dio che costui deve comunicarci a causa della sua amicizia
con noi, Tommaso cita prima di tutto, senza esitare, «la beatitudine
della fruizione divina, propria di Dio per la sua stessa natura»:
«Affinché l’uomo raggiunga la beatitudine è necessario prima
di tutto che acquisti la somiglianza con Dio mediante alcune
qualità spirituali, che in seguito operi in conformità con esse, e
finalmente conseguirà la suddetta beatitudine. Ora, i doni
spirituali a noi sono dati per opera dello Spirito Santo; quindi
noi acquistiamo la somiglianza con Dio e siamo resi capaci di
compiere il bene per opera dello Spirito Santo, e per opera sua
ci viene aperta la via verso la beatitudine. L’Apostolo evoca
questa triplice tappa (2 Cor 1, 21-22): ‘Dio ci ha unti, ci ha
segnati col suo sigillo, e ha infuso nei nostri cuori il pegno
dello Spirito Santo”; e ancora (Ef 1, 13): “Siete stati segnati
col sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è
pegno della nostra eredità". Il sigillo (signatio) sembra riferirsi
all’impressione della somiglianza; l’unzione (unctio)
all’abilitazione con cui l’uomo viene disposto alle azioni
perfette; il pegno (pignus) alla speranza che ci orienta
all’eredità celeste, la perfetta beatitudine»4'2.
«Siccome per opera dello Spirito Santo siamo fatti amici di Dio,
è dunque normale che sia per opera sua che Dio ci rimette i
peccati.
Perciò il Signore ha detto ai suoi discepoli: "Ricevete lo Spirito
Santola chi rimetterete i peccati, saranno rimessi”. E in san
Matteo (12, S b. u perdono dei peccati è negato a coloro che
bestemmiano contro lo Stmi- to Santo poiché non hanno in sé
colui dal quale Vuomo può ottenerejla remissione dei peccati.
Ed ecco perché si dice che dallo Spirito Santo noi siamo
rinnovati, purificati e lavati.. ,»45.
373lbid., n. 3580.
374 Ihid., n. 3581.
375 EH, q. 23, a. 2 ad 3; su questo testo si possono vedere alcune pagine
di E. BAILLEUX, Le cycle des missions trinitaires d’après saint Thomas, RT 63 (1963) 166-
192, cf. pp. 186-192. Questo tema dell’adozione, evocato qui en passant, occupa
194
riguardanti il ruolo che la Sacra Scrittura attribuisce allo Spirito Santo
nell’azione ricreatrice di Dio nei nostri confronti. Ci resta da vedere
ora con lui come lo Spirito Santo ci coinvolga nel nostro ritorno verso
Dio.
379Ibid., n. 3587.
380Ibid., n. 3588.
197
stessa insistenza la si ritrova nella sua predicazione 381. Nessun
dubbio che in un’epoca in cui la servitù costituiva una realtà sociale
ancora diffusa, fra Tommaso abbia visto in essa, come san Paolo,
un’analogia privilegiata per evocare qualcosa della grandezza dei
fedeli di Cristo, liberi della libertà gloriosa dei figli di Dio.
«Di per sé, la volontà è orientata verso ciò che è veramente
bene. Se ci si allontana per passione, cattiva disposizione o
abitudine da quello che è il bene reale, rispetto all’ordine
naturale della volontà, si agisce in maniera servile se si è spinti
da un agente esterno. Se invece si considera l’atto della
volontà, della volontà in quanto inclinata ad un bene
apparente, è liberamente che l’uomo agisce seguendo una
passione o abitudine cattiva; mentre agirebbe servilmente se,
nella stessa disposizione della volontà, si astenesse dal fare ciò
che vuole per timore di una legge che lo vieta. Lo Spirito Santo,
lui, inclina per amore la nostra volontà verso il vero bene al
quale essa è naturalmente orientata; così ci libera sia dalla
schiavitù che ci fa agire - succubi della passione e delle
conseguenze del peccato - contro l’orientamento della nostra
volontà, sia dalla schiavitù che ci fa agire secondo la legge,
contro il movimento della nostra volontà, non già come amici,
ma come schiavi. “Dov’è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà”
(2 Cor 3, 17); "Se siete guidati dallo Spirito Santo non siete
sotto la legge” (Gal 5, 18). Per questo si dice che lo Spirito
Santo dà la morte alle opere della carne: con il suo amore lo
Spirito Santo ci orienta verso il vero bene dal quale ci
allontanano le passioni della carne, secondo quanto è detto in
Rm 8, 13: “Se con lo Spirito mortificherete le opere della carne,
avrete la vita”»53.
Vili
Il Cuore della Chiesa
386 II nostro scopo qui non è analizzare l’arte oratoria di san Tommaso;
tuttavia, non dispiacerà conoscere il seguente parere di un esperto: «Le omelie
autentici che di san Tommaso sono di un valore molto differente; alcune non superano
i| livello medio, peraltro onesto, della predicazione dell’epoca; altre sono di alta
qualità e, senza collocare il loro autore al livello dei grandi predicatori del secolo, gli
assicurano presso costoro un posto del tutto onorevole e non sono indegni del suo
genio» (L.-J. BATAILLON, Un sermon de saint Thomas sur la parabole du jestin, RSPT58
[1974], pp. 451-456, cf. p. 451).
201
Tommaso. Si scopre allora che è nella «definizione» dello Spirito
Santo come Amore e nel suo specifico posto in seno alla comunione
trinitaria che si trova la spiegazione del ruolo che esso ricopre
nell’intera creazione e nel ritorno di questa «come Chiesa» verso la
Fonte divina dalla quale è sgorgata.
è
Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2.
7
Seni. Ili, d. 13, q. 2, a. 2, qla 2 ad 1: «Unus numero omnes replet»; è difficile
non pensare all’antifona liturgica del giorno di Pentecoste: Spiritus Domìni: repleuìt
orbem terrarum (Sap 1, 7), che Tommaso cita volentieri: Sent. II, Prol.\ SCGIV17.
205
Quando san Tommaso afferma che siamo amati con l’amore di
cui Dio ama se stesso, in realtà egli si fa eco di una tradizione
teologica che parte da sant’Agostino 392. Ma il Maestro delle
Sentenze vi aveva aggiunto un’interpretazione personale dalla quale
si dissociarono i teologi del XTH secolo, Tommaso compreso. Vale
la pena tentare di vedere dove si situava il dibattito, giacché ci
troviamo dinanzi a qualcosa che è lungi dall’essere una semplice
discussione di scuola. Pietro Lombardo insegnava che, essendo lo
Spirito Santo l’amore del Padre e del Figlio, «è tramite questo amore
che essi si amano tra di loro e amano noi». Tommaso non ha
difficoltà ad accettare questo insegnamento e vi si atterrà lungo tutta
la sua vita, ma ha delle difficoltà ad ammettere quanto segue: «ed è
ancora egli (lo Spirito Santo) ad essere l’amore effuso nei nostri
cuori per amare Dio e il prossimo» 393. Secondo Pietro Lombardo la
carità è dunque una realtà increata, la stessa persona dello Spirito
Santo presente in noi, che muove il nostro libero arbitrio ad amare e
ad agire rettamente.
Di primo acchito, la tesi è grandiosa: cosa c’è di più semplice e
di più bello di quest’azione diretta e multiforme dello Spirito Santo
nel cuore dei credenti? Eppure Tommaso non è soddisfatto di questa
posizione e si impegna a distinguere tra la carità nella sua origine,
che è lo Spirito Santo, Dono assolutamente primo e increato, e la
carità in noi, dono che riceviamo dallo Spirito e che è una realtà
creata394 395. La stessa cosa egli la dirà subito per la grazia e, ogni
volta che incontrerà la questione, situerà ormai la grazia prima della
392 Cf. De Trinitate Vili 7,10 e XV 19, 37.
393 PIETRO LOMBARDO, Seni. I, d. 17, c. 6 (ed. I. BRADY, 1.1, p. 148): «.. .Spiri-
tus Sanctus caritas est Patris et Filii, qua se invicem diligimi et nos, et ipse idem
est caritas quae diffunditur in cordibus nostris ad diligendum Deum et
proximum»; la stessa tesi è ripresa in Seni, n, d. 27, c. 5 (ibid., p. 484): caritas
est Spiritus Sanctus.
394wSent. I, d. 17, q. 1, a. 1.
395 Cf. per es. Sent. IL, d. 26, q. 1, a. 1; De uer. q. 27, aa. 1-2 (grazia e
carità); I- II, q. 110, a. 1 (grazia); H-II, q. 23, a. 2 (carità); è a partire da lDe
ueritate che Tommaso, padrone dell’ordine della sua esposizione (ciò che non si
verificava nelle Sentenze), parla della grazia prima di parlare della carità; questo
è comprensibile, giacché la grazia qualifica l’anima nella sua essenza, facendone un
principio radicale di azione nel campo soprannaturale - così come accade per la
nostra natura nel campo naturale 0habitus entitativo nel suo linguaggio) -,
mentre la carità qualifica la volontà, potenza dell’anima - (habitus operativo, nel
linguaggio scolastico).
206
LA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO
207
208 li
Ma come stabilisce Tommaso il carattere creato della grazia?
Nel modo più semplice che ci sia, facendo un parallelo tra la
conoscenza che Dio ha degli esseri e l’amore che ha per essi da una
parte, e la conoscenza e l’amore che ne abbiamo noi dall’altra. Nel
nostro caso sono cose già esistenti quelle che noi conosciamo e che
sono all’origine del nostro sapere; nel caso di Dio avviene il
contrario: egli non conosce le cose perché esistono, ma esse esistono
perché le conosce; la scienza di Dio è realizzatrice, pone le cose
nell’esistenza. Se ora consideriamo non più la conoscenza ma
l’amore, occorre fare un ragionamento simile: il nostro amore per un
essere è causato dalla sua bontà (reale o supposta! Noi tuttavia non
amiamo se non ciò che ci sembra amabile). Per Dio, accade ancora il
contrario: è il suo amore che crea la bontà degli esseri e delle cose.
Così, quando si dice che Dio ama un essere si vuol dire che egli causa
in colui che ama un effetto derivante dallo stesso amore divino.
Se adesso parliamo del dono della grazia, dobbiamo certo dire
che Dio è all’opera e, più precisamente, lo Spirito Santo, realtà
increata. Quando però ima persona riceve un dono di grazia che non
aveva precedentemente, ciò non vuol dire che questo accade con un
cambiamento dello stesso Spirito Santo; è piuttosto la persona stessa
che cambia sotto l’effetto di questa azione dello Spirito. Quando
dunque si dice che lo Spirito Santo è dato a qualcuno, questo significa
che questa creatura ha ricevuto un dono d’amore di Dio che prima
non possedeva. Anche a rischio di ridurlo a nulla, questo dono deve
essere una realtà creata, gratuitamente donata da Dio.
Il carattere necessariamente creato di questo dono sarà più
comprensibile se ci si ricorda del detto di san Giovanni, che è
sottinteso al ragionamento: «Dio ci ha amato per primo» 396. L’amore
di Dio per noi non è perciò il risultato della nostra propria amabilità.
Tommaso aggiùnge semplicemente: Dio, che ci ha amato per primo,
ci dà anche di che amarlo. Ci troviamo qui al centro della tesi e del
problema da
396 Cf. 1 Gv 4,10 e 19; Tommaso volentieri si rifa a questi versetti; per es. in \
Super Ioannem 14, 15, lect. 4, n. 1909: «Nessuno può amare Dio se non ha lo Spiri- :j to
Santo: poiché noi non possiamo mai prevenire la grazia di Dio, ma essa ci previene.
“Egli per primo ci ha amato”. Gli Apostoli hanno perciò ricevuto dapprima lo Spirito
Santo per amare Dio e obbedire ai suoi comandi. Ma perché lo ricevessero con
maggiore pienezza, era necessario che usassero bene nell’amore e nell’obbedienza
questo primo dono ricevuto da lui».
209
risolvere. Infatti occorre che la creatura sia proporzionata al fine a cui
Dio la chiama. Questo fine, come sappiamo, consiste nella
beatitudine, nel godere di Dio in una perfetta comunione di
conoscenza e d’amore. Per definizione, questa beatitudine è
completamente sproporzionata alle forze dell’uomo; essa è
connaturale soltanto a Dio. E necessario quindi che Dio doni
all’uomo qualcosa con cui possa non solo agire in vista di questo fine
e avere il suo desiderio orientato verso di esso, ma anche qualcosa
con cui la stessa natura dell’uomo sia elevata all’altezza di questo
fine397.
A una creatura così soprelevata alla vita stessa di Dio, la
beatitudine diverrà per così dire connaturale. La grazia è data proprio
per questo: mettere la creatura all’altezza del suo fine soprannaturale,
farne ima creatura soprannaturalizzata che potrà essere principio
d’azione in questo nuovo campo. A questa natura ormai
«divinizzata» Dio concede anche il dono della carità e delle altre
virtù teologali che permettono all’uomo, mediante la sua intelligenza
e la sua volontà così sopran- naturalizzate, di agire effettivamente in
quest’ordine al quale gli sarebbe impossibile accedere senza questo
dono primordiale. Tuttavia da quanto detto non si concluderà che
Tommaso rinuncia alla parte di verità contenuta nella tesi del
Lombardo, anzi!
«E necessario che ci sia in noi un habitus di carità che sia il
principio formale dell’atto di carità. Ciononostante, non si
esclude che lo Spirito Santo, che^è la Carità increata, sia
presente nell’uomo che possiede la carità. È lui che sprona
l’anima all’atto di carità, così come Dio incita tutte le cose al
loro agire, a cui sono tuttavia inclinate in virtù della loro
propria forma. Di qui il fatto che “egli dispone tutto con
dolcezza’’ (suauiter, Sap 8, 1) giacché dà a tutte le cose le
forme e le virtù che le orientano verso ciò che le muove, in
maniera tale che vi tendono non per forza, ma
spontaneamente»398.
Bisognerà ricordarsi di questo testo quando nel capitolo
seguente ritroveremo la questione dei rapporti tra legge e libertà. Per
Tommaso non vi è qui nessun problema perché l’uomo
abitato dallo Spirito Santo non può che amare liberamente 27, a. 2;
cf.
397 Tommaso ne dà una spiegazione molto chiara
in De uer., q. I-II, q. 110, a. 3.
398 De cantate, q. un., a. 1.
210
ciò che intende come volontà di
211
Dio. Ma prima di ritornarvi occorre ancora considerare un altro
aspetto della discussione sollevata dalla tesi di Pietro Lombardo.
Lungi dall’essere una curiosità di storia intellettuale, essa è al
contrario sempre viva nella teologia ortodossa399.
In questo stesso contesto, Tommaso sottolinea infatti un altro
punto a volte mal compreso: rispetto alla natura dell’uomo, la grazia
qualifica l’anima come una qualità accidentale 400. Di primo acchito
questa tesi non può non sorprendere, tuttavia non è meno
fondamentale. Essa non vuol dire che è accidentale per l’uomo avere
la grazia - nell’economia della salvezza non è possibile realizzare
niente senza di essa - ma semplicemente che la grazia non fa parte
della definizione dell’umanità. Se fosse altrimenti, perdendo la grazia
cesseremmo di essere uomini. O ancora, chi non possedesse la grazia
non sarebbe:; veramente un essere umano. Se si fosse tentati di
pensare diversamente dicendo che Dio giusto non può non dare la
grazia, basterebbe ricordarsi che, a queste condizioni, è Dio stesso
che sarebbe obbligato ad agire così e, quindi, la grazia stessa non
sarebbe più gratuita.
Questo modo di parlare della grazia come accidente permette
una prima importante precisazione. Infatti, l’accidente propriamente
parlando non è creato, in quanto non ha l’essere per se stesso, ma lo
riceve dalla realtà ch’esso qualifica. Esistono delle mura o degli
uomini bianchi, ma la bianchezza in sé non esiste. Perciò non è
questa che si affaccia all’esistenza, ma è una sostanza qualificata
dall’accidente della bianchezza che comincia ad esistere secondo
questa nuova determinazione. La stessa osservazione vale per la
grazia: al di fuori della sua fonte, Dio, essa non esiste allo stato
separato. Ciò che esiste sono delle persone che hanno ricevuto questo
dono che chiamiamo «grazia» e che vivono ormai secondo questa
nuova qualità. Perciò parlare della grazia come realtà creata significa
utilizzare una scorciatoia che potrebbe ingannare. Tommaso, che non
esita a utilizzarla, lo fa solo dopo aver ricordato il modo in cui
l’accidente esiste nel suo soggetto, ed è così che aggiunge una
precisazione fondamentale che allaccia diretta- mente
aH’insegnamento di san Paolo:
IL VINCOLO DELL’AMORE
37
Come si vedrà, il parallelo tra comunione trinitaria e comunione ecclesiale
è particolarmente illuminante, ma bisogna fare attenzione a non spingerlo troppo
lontano. Nella comunione trinitaria, lo Spirito Santo non è il principio dell’amore o
dell’unione; egli è colui che procede come Amore o come Vincolo (si ricordi «l’albero
fiorito di fiori» evocato da Tommaso: non sono i fiori il principio della fioritura, ma
l’albero). Nella comunione ecclesiale invece, come diremo più avanti, lo Spirito Santo
è proprio il principio (causa esemplare ed efficiente) dell’amore- carità che anima il
Corpo di Cristo e lo aggrega in unità.
38
Tra numerosi studi, si può trovare una panoramica generale in Y. CON- GAB,
L’idée de l’Église chez saint Thomas d’Aquin, in ID., Esquisses du mystère de TÉglise,
nuova ed. («Unam sanctam 8»), Paris 1953, pp. 59-91; cf. anche «Ecclesia» et «populus
(fidelis)» dans l'ecclésiologie de saint Thomas, in Commemorative : Studies I, Toronto
1974, pp. 159-174, ripreso in ID., Thomas d’Aquin. Sa vision del la théologie et de l’Église,
London 1984, oppure in ID., Églìse et Papauté. Regardsì historiques («Cogitatio fidei
184»), Paris 1994.
39
III, q. 8, a. 5; cf., a. 1; questa dottrina è stata accettata nell’insegnamento
della Chiesa, come per es. da Pio XII che nella Mystici Corporis (ed. S. Tromp, §
78) afferma non senza una certa forza: «Tutti i doni, tutte le virtù, tutti i carismi che
si trovano eminentemente, abbondantemente ed efficacemente nel capo, sono effusi
in tutti i membri della Chiesa...»; e, più di recente, il Vaticano II, in Lumen
gentium I, 7: «In questo corpo, la vita di Cristo si effonde in tutti i credenti...».
40
De ueritate, q. 29, a. 4: «Est etiam in Ecclesia continuitas quaedam
ratione Spiritus sancti, qui unus et idem numero totam Ecclesiam replet et unit»;
cf. Expo- sitio in Symbolum, a. 9, n. 971: «La Chiesa cattolica è un solo corpo che
possiede differenti membra; l’anima che vivifica questo corpo è lo Spirito Santo»;
questo modo di esprimersi ricorre una quindicina di volte (cf. Vauthier, qui sotto),
ma pei lo più molto brevemente. Si trova un’eccezione nel seguente testo del Super
Ioan- nem 1, 16, lect. 10, n. 202: «In questo senso, la pienezza di Cristo è lo Spirito
Santo che da lui procede ed è a lui consustanziale nella natura, nella potenza e nella
«Nel corpo naturale, le facoltà diffuse in tutte le membra
differiscono numericamente secondo la loro essenza, però si
riuniscono nella loro radice che è numericamente una [cioè
l’anima, come forma del vivente, la cui sede è sia il cuore sia la
testa, secondo l’antropologia fisica di Tommaso], e, in più, esse
hanno un’unica forma ultima [cioè di nuovo l’anima, ma in
quanto è il principio trascendente che permette al corpo così
informato di essere una persona umana]. Similmente, tutte le
membra del Corpo mistico hanno come perfezione ultima (prò
ultimo complemento) lo Spìrito Santo che è numericamente uno
in tutti [egli assume così nel corpo ecclesiale il ruolo
dell’anima], E la stessa carità, effusa in esse mediante lo
Spirito Santo, sebbene sia differente secondo l’essenza nella
diversità dette persone, tuttavia si unifica tramite la sua radice
220
numericamente una, poiché la radice propria di un’operazione
è l’oggetto stesso dal qualè riceve la sua determinazione. Ed è
per questo che, in quanto tutti credono e amano un solo e
identico oggetto, la fede e la carità di tutti sono unificate in
un’unica e medesima radice, non solo netta loro radice prima
che è lo Spirito Santo, ma anche nella loro radice prossima che
è il loro proprio oggetto»41.
maestà. Infatti, sebbene i doni abituali che si trovano in noi siano diversi da quelli
che si trovano nell’anima di Cristo, tuttavia è l’unico e medesimo Spirito che è in
lui e che riempie tutti i santificati. Lo conferma san Paolo quando scrive: “Ora tutti
questi doni li produce l’unico e medesimo Spirito” [ 1 Cor 12,11]; nonché il profeta
Gioele: “Io riverserò il mio Spirito su ogni carne” [Gl 3, 1; At 2, 17]. Cosicché, a
detta dell’Apostolo: “Se uno non ha lo Spirito di Cristo, costui non gli appartiene”
[Rm 8, 9]. Infatti l’unità dello Spirito Santo crea l’unità della Chiesa».
41
Sent. Ili, d. 13, q. 2, a. 2, qla. 2 ad 1.
42
Cf. E. VAUTHIER, Le Saint-Esprit principe d’unité de l’Église d’après S.
Thomas d’Aquin. Corps mystique et inhabitàtion du Saint-Esprit, MSR 5 (1948) 175-
196; 6 (1949) 57-80, con la discussione di Y. CONGAR, Sainte Église. Études et
approches ecclésiologiques («Unam sanctam 41»), Paris 1963, pp. 647-649. Cf. anche
S. DoCKX, Esprit Saint, âme de l’Église, in Ecclesia a Spirita Sancto edocta, pp. 65-80.
*
221
gostino420, questo testo aggiunge tuttavia un insegnamento un po’
circostanziato allorquando parla di un altro principio di unità: le membra
della Chiesa sono riunite mediante la fede e la carità o, più precisamente,
per il fatto che credono e amano un’unica e medesima realtà. Tom- : maso
esprime ciò in termini più tecnici affermando che è l’oggetto che dà all’atto
la sua specificazione. Semplice traduzione di un fatto d’esperienza
facilmente constatabile sul piano naturale: varie persone differenti si
trovano riunite per il semplice fatto di volere insieme ima stessa cosa;
quest’ultima svolge allora per tale gruppo il ruolo di un fine comune, di un
principio unificatore. Qual è dunque questo fine ! conosciuto e amato che
svolge il ruolo di principio unificante per il corpo ecclesiale? Anche se
Tommaso qui non lo precisa e sembra lasciar intendere che sarebbe lo
Spirito Santo affermando che questi è contemporaneamente «radice prima»
(l’anima) e «radice prossima» (l’oggetto conosciuto e amato),
evidentemente non può che essere Dio stesso, la Trinità 421. E questa che
sarà la beatitudine perfetta dell’intera
Chiesa così come lo è dell’anima di ciascun eletto e lo è già allo stato
iniziale nell’anima di ciascun giusto fin da questa vita, giacché,
laddove si trovano fede e carità, là si trova anche il fine che esse ci
permettono di raggiungere: Dio stesso.
Il beneficio di questa precisazione aggiunta alla dottrina
comune consiste precisamente nel permetterci di ben comprenderla.
Certamente si è subito colpiti dalla bellezza di questa affermazione,
ma se ci si interroga con più precisione su Cosa si vuol dire parlando
dello Spirito Santo come anima della Chiesa, questo modo di parlare
dice troppo o troppo poco. Dice troppo, in quanto anima e corpo,
nella realtà naturale che conosciamo, si compenetrano così
strettamente da risultare impossibile separarli; è questo che si vuole
esprimere quando si dice che l’anima «informa» il corpo, le dà «la
420 Si rileggerà volentieri questo bel testo: «Il nostro spirito,
mediante il quale, l’uomo vive, si chiama anima... E voi vedete cosa fa l’anima nel
corpo. Essa vivifica tutte le membra; guarda attraverso gli occhi, ascolta con le
orecchie... È presente allo stesso tempo in tutte le membra per farle vivere; a tutte dà
la vita e a ciascuna il proprio ruolo. Non è l’occhio che ascolta, né l’orecchio che vede,
né l’orecchio o l’occhio che parlano. E tuttavia essi vivono: l’orecchio vive, la lingua
vive; le funzioni sono diverse, ma la vita è comune. Così accade per la Chiesa di Dio.
Con alcuni santi essa compie dei miracoli, con altri insegna la verità, con altri
conserva la verginità... gli uni questo, gli altri quello. Ciascuno compie la legge che gli
è propria e tutti vivo? no in egual modo. Ciò che l’anima è per il corpo umano, lo
Spirito Santo lo è per il cori po di Cristo, la Chiesa. Lo Spirito Santo compie in tutta la
Chiesa ciò che l’anima compie in tutte le membra di un unico corpo» (Omelia 267, n. 4:
PL 38,1231).
421 II P. Congar a tal proposito ha ragione nel suo confronto con lo
studio di Vauthier.
222
vita, il movimento e l’essere». È proprio impossibile però affermare
questo dello Spirito Santo: come infatti lo Spirito increato potrebbe
comporsi con le persone create quali sono le membra della Chiesa?
Vi è qui un’impossibilità metafisica.
L’esempio a noi più vicino e allo stesso tempo il più forte che
potremmo utilizzare, il caso dell’incarnazione, non ha implicato
nessuna composizione tra il Verbo e la sua umanità. Ricordiamoci del
Concilio di Calcedonia: l’unione è avvenuta «senza confusione né
mescolanza». Se fosse stato diversamente, l’unione avrebbe prodotto
un ibrido, né Dio né uomo. E tuttavia si può dire del Verbo incarnato
che la sua umanità gli è unita in persona (unione secondo l’ipostasi,
per dirlo tecnicamente). Questo non lo si può affermare dello Spirito
Santo giacché se fosse così sarebbe l’intera umanità ecclesiale che gli
sarebbe unita. Assurdità nella quale il Concilio Laterano IV vedeva
non tanto «un’eresia» quanto «un’inanità» che poteva nascere solo
nella mente di un insensato. Occorre allora svuotare questa
espressione di «anima della Chiesa» da ogni significato reale e non
vedervi se non una metafora? In tal caso ciò significherebbe dire
troppo poco.
San Tommaso introduce in questo contesto la fede e la carità,
permettendoci così di comprendere come lo Spirito Santo può essere
detto «in un certo senso» l’anima della Chiesa, senza lasciarci
trascinare in nessuna assurdità, ma senza rinunciare nemmeno a
riconoscergli la sua verità. La grazia, nell’anima, così come la fede e
la carità, nelle facoltà dell’intelligenza e della volontà, sono
indiscutibilmente doni dello Spirito Santo. Essi ci sono dati per
elevarci alla vita divina che siamo chiamati a condividere quando si
tratta della grazia e per permetterci di agire a questo livello come figli
e figlie di Dio quando si
223
tratta della fede e della carità. Per comprendere nella misura del
possibile ciò che accade quando Dio è così conosciuto e amato, ci si
può servire dell’analogia della conoscenza e dell’amore nel nostro
mondo quotidiano. Anche se presente accanto a me, la persona che
amo non è fisicamente presente nel mio spirito; essa è presente
soltanto mediante la visione che ne ho e la rappresentazione che me
ne faccio, grazie alle quali interiorizzo questa presenza nel mio cuore
in modo tale che potrò conservare questa presenza interiore come
ricordo quando la presenza fisica avrà fine. Presenza «intenzionale»
di conoscenza e d’amore 422, dicono gli specialisti, ma tuttavia
presenza ben reale: l’amato abita spiritualmente nell’amante come
l’amante nell’amato.
Liberata da tutti i limiti legati alla nostra condizione carnale,
questa rappresentazione puramente umana ci offre proprio l’analogia
di cui abbiamo bisogno. Dio, come abbiamo già visto, è presente a noi
stessi più intimamente di qualsiasi altro oggetto di conoscenza e
d’amore umani, come abbiamo detto; ma quando si tratta della
presenza di grazia è proprio di una presenza di questo tipo che si
tratta. Tramite la sua grazia noi abbiamo di lui una nuova presenza
giacché egli è ormai presente a noi come una persona
soprannaturalmente conosciuta e amata. Ritroveremo per un’altra via
quanto abbiamo scoperto qui sopra parlando della presenza di Dio alla
sua creatura. Oltre alla presenza d’immensità comune a tutte le cose,
«c’è questo modo speciale che è proprio della creatura
razionale: in questa si dice che Dio esiste come il conosciuto
nel conoscente e l’amato nell’amante. E poiché conoscendolo e
amandolo la creatura razionale giunge con la sua operazione
fino a Dio stesso, si dice che, mediante questo modo speciale,
non solo Dio è nella creatura razionale, ma anche che egli
abita in essa come nel suo tempio»423.
Abbiamo qui l’esatta verità dell’espressione «anima della
Chiesa» applicata allo Spirito Santo. Per evitare l’assurdità segnalata
poco fa, è stato dunque necessario distinguere tra lo Spirito Santo e i
suoi doni. Lo Spirito Santo non può esercitare direttamente il ruolo
dell’anima, ma lo esercita indirettamente tramite i suoi doni. Per dire
le cose un
IX
Il Maestro interiore
mediante i predicatori... che è udita perfino dagli infedeli e dai peccatori; la terza è la
sua origine sconosciuta: sebbene senti la sua voce, “tu non sai da dove viene”, in
quanto viene dal Padre e dal Figlio... che abitano una “luce inaccessibile”; la quarta è
il suo termine finale, anch’esso sconosciuto, “tu non sai dove va”, che allora bisogna
intendere: poiché conduce a un fine che ci sfugge, ossia la beatitudine eterna...».
3
Ibid., n. 456.
4
Così nel Super Ioannem 15, 26, lect. 5, n. 2058: «Qui sono evocati quattro
due: sensi:] la voce mediante la quale parla interiormente nel cuore dell’uomo e che
odono soltanto i giusti e i santi..., e quella con la quale parla nelle Scritture o
232
punti riguardanti lo Spirito Santo: la sua libertà, la sua dolcezza, la sua processione, la
sua azione...».
come se dicesse: Poiché lo Spirito è Signore, egli può darci la
libertà di utilizzare la Sacra Scrittura dell’Antico Testamento
liberamente e senza velo 445. Cosa che non possono fare coloro
che non hanno lo Spirito Santo.
In un secondo senso, si può intendere “Signore” di Cristo
stesso; allora si può leggere così: il Signore, cioè Cristo, è
spirituale, cioè spirito di potenza (spiritus potestatis), e perciò
“laddove è lo Spirito del Signore”, ivi è la legge di Cristo
intesa nello Spirito (spiritualiter intellecta), non solo scritta ma
infusa nei cuori mediante la fede, ivi è quindi anche la libertà,
senza nessun ostacolo proveniente dal velo» 446 447.
Lo Spirito Santo è dunque libertà e il suo primo dono è la
libertà nell’anima del credente. Coloro che abitualmente frequentano
san Tommaso non possono non pensare qui al suo insegnamento sulla
legge nuova, troppo centrale per non ricomparire spesso. Coloro però
che conoscono meno la Somma rischiano di lasciarlo passare
inosservato poiché, come spesso accade nella teologia scolastica, la
questione che l’introduce sembra banale: «La legge nuova è una
legge scritta?». In realtà, si tratta di esprimere la novità del Vangelo
rispetto alla Legge antica:
«Secondo quanto afferma Aristotele nel IX libro dell’Etica,
“ogni realtà si definisce con quanto di più importante c’è in
essa”. Ora, ciò che c’è di più importante nella legge nuova, ciò
in cui risiede tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santo
data mediante la fede in Cri-: sto. La legge nuova consiste
quindi principalmente nella stessa grazia dello Spirito Santo
accordata ai fedeli di Cristo... Questo spinge sant’Agostino ad
affermare nella sua opera Sullo spirito e la lettera...
. (XXI 36): "Cosa sono dunque queste leggi divine scritte da Dio
stesso nei cuori se non la presenza stessa dello Spirito
Santo?”... Bisogna concluderne che principalmente la legge
nuova è una legge interiore, secondariamente però è ima legge
445 II velo evidentemente è quello di cui parla 2 Cor 3, 12-18, quello che
portava Mosè e che, secondo san Paolo, si trovava ancora sui cuori degli ebrei,
impedendo loro di riconoscere Gesù come il Messia, mentre dal cuore dei cristiani
era caduto il giorno della loro conversione.
446 In II ad Cor. 3, 17, lect. 3, n. Ili; si sa che gli odierni esegeti applicano
a Cristo l’espressione di san Paolo, e preferirebbero dunque la seconda interpreta?
zìone alla prima, ma il passaggio resta controverso e si vede come Tommaso ne era
già cosciente.
447 I-II, q. 106, a. 1; rinviamo all’eccellente commento di J. TONNEAU: S.
Thomas d’Aquin, La loi nouvelle, I-II, Questions 106-108, trad. francese, note e
appen-; dici («Revue des Jeunes»), Paris 1981.
233
scritta»1.
Giustamente celebre, questo articolo è stato spesso commentato,
e bene 448; se non è nuovo in egual misura in tutti i suoi punti
(Tommaso non nasconde ciò che deve ad Agostino), l’importante
non consiste in questo, ma proprio nell’affermazione forte, e fondata
sulla Scrittura e sulla Tradizione, della centralità dello Spirito Santo e
della sua grazia. Ne consegue che tutto il resto è radicalmente
relativizzato in quanto subordinato al rango di semplice valore
strumentale rispetto all’unica grandezza che abbia valore di fine.
Questo non significa però professare un qualche rifiuto
anarchico di ogni legge, perché il testo aggiunge subito che ci sono
elementi secondi al servizio di quest’unica legge del Vangelo 449.
Infatti è ammirevole il fatto che, come sant’Agostino, Tommaso si
preoccupa di una cattiva comprensione di questa dottrina, che
porterebbe a passare facilmente dalla libertà alla licenziosità: non si
tratta tanto di mettere in guardia, quanto di precisare la ragione per
cui lo Spirito Santo è la fonte della libertà cristiana:
«Occorre sapere che fondandosi su queste parole: "Dov'è lo
Spirito del Signore, ivi è la libertà", così come sulle parole
seguenti: “Per il giusto non c’è legge” (1 Tm 1, 9), alcuni
hanno insegnato falsamente che gli uomini spirituali non sono
sottomessi ai precetti della legge divina. Il che è falso, poiché i
comandamenti di Dio sono la regola dell’agire umano...
Quanto è affermato del “giusto per il quale non c’è legge", deve
intendersi così: non è per i giusti, i quali sono mossi
dall’interno verso le cose che prescrive la legge di Dio, che la
legge è stata promulgata, mài per gli ingiusti, senza per questo
che i giusti non vi siano tenuti. Similmente, “Dov’è lo Spirito
448 Oltre a J. Tonneau, vedi soprattutto S. PlNCKAERS, La loi de
l’Évangile ou Loi nouvelle selon saint Thomas, in Loi et Évangile, Genève
1981, pp. 57-80; Les sources de la morale chrétienne, cap. VII, pp. 180-200;
vedi anche J. ETIENNE, Loi et gràce. Le concepì de loi nouvelle dans la Somme
théologique de S. Thomas i’Aquin, RTL 16 (1985) 5-22 (presentazione
sommaria), e l’insieme degli studi raccolti in L. ELDERS - K. HEDWIG, Lex et Lihertas.
Freedom and Law according to St. Thomas Aquinas («Studi Tomistici 30»),
Roma 1987. Per l’apporto di sant’Agostino, cf. I. BIFFI, Teologia, Storia e
Contemplazione in Tommaso d'Aquino, pp. 177- 213, cap. 4: «La legge nuova.
Agostino e Tommaso»,
449 U. KUHN, Via caritatis. Theologie des Gesetzes bei Thomas
von Aquin, Gòt- tingen 1965, p. 201, fa notare giustamente: «La legge nuova, nella
misura in cui è una legge scritta è, come ogni legge scritta, destinata a curare e a
guarire un oscuramento reale o almeno possibile della lex indita. Qui Tommaso
vede chiaramente la realtà: fino a che l’uomo vive in questo mondo, perpetuamente
incalzato dal peccato, questa informazione è necessaria malgrado la legge dello
Spirito, per mettere l’uomo in qualche modo sul retto cammino e mantenervelo».
234
del Signore ivi è la libertà” deve intendersi così: è libero colui
che dispone di se stesso (liber est qui est causa sui), mentre il
servo (seruus) dipende dal suo signore. Perciò colui che ; agisce
da se stesso agisce liberamente, colui però che agisce sotto l’im-
pulso di un altro non agisce liberamente. E così che colui che
evita il male non perché è male, ma a causa del comandamento
di Dio, costui non è libero; colui però che evita il male perché è
male, costui è Ubero. Ora, questo è quanto realizza lo Spirito
Santo, che perfeziona interiormente lo spirito dell’uomo
mediante un habitus buono, in modo tale che egli faccia con
amore ciò che prescrive la legge divina. Questi è detto quindi
libero, non perché si sottomette alla legge divina, ma perché è
spinto dal suo habitus buono a fare proprio quanto ordina la
legge divina»450 451.
236
liberamente» 453. Se viviamo dello Spirito, in tutte le cose saremo
guidati da lui. D’altronde vi è qui un’equivalenza significativa: «Se
qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene», dice san
Paolo {Rm 8, 9); e Tommaso continua: «Quindi coloro che sono
guidati dallo Spirito appartengono a Cristo»454.
Mettendo così in evidenza il legame reciproco dello Spirito e di
Cristo, Tommaso non fa che obbedire al linguaggio del Nuovo
Testamento ed è felice di ritrovarlo esplicitamente in san Paolo: «La
legge dello Spirito di vita in Cristo Gesù mi ha liberato dal peccato e
dalla morte» (Rm 8, 2):
«In un primo senso, questa legge è lo Spirito Santo stesso.
Cosicché per "'legge dello Spirito”, bisogna intendere: la legge
che è lo Spirito. Infatti il proprio della legge consiste
nell’incitare l’uomo a fare il bene. Secondo Aristotele...
l’intenzione del legislatore consiste nel formare dei buoni
cittadini; ora, la legge umana non può fare questo se non
facendo conoscere il bene che bisogna compiere. Lo Spirito
Santo, lui, che abita nell’anima, non solo insegna ciò che
bisogna fare illuminando l’intelligenza, ma inclina anche
l’affettività ad agire rettamente. “Il Raraclito, lo Spirito Santo
che il Padre invierà in mio nome, è lui che vi insegnerà tutto -
ecco il primo aspetto - e vi suggerirà - ecco il secondo - tutto
ciò che gli dirò per voi”.
In un secondo senso, “la legge dello Spirito” può intendersi
dell’effetto proprio dello Spirito Santo, cioè della fede che
opera mediante la carità. Anch’essa insegna interiormente ciò
che bisogna fare, secondo quanto afferma san Giovanni (1 Gv
1, 27): “La sua unzione vi insegnerà tutto”; come pure inclina
l’affettività ad agire, secondo quanto afferma san Paolo (2 Cor
5, 14): “la carità di Cristo ci spinge”. Questa legge è dunque
chiamata legge nuova sia perché si identifica allo Spirito Santo,
sia perché lo Spirito stesso la opera in noi [...]. E se l’Apostolo
aggiunge “in Cristo Gesù”, è perché questo Spirito non è dato
che a coloro che sono in Cristo Gesù. Come il soffio vitale
naturale non giunge al membro che non è legato alla testa, così
lo Spirito Santo non giunge al membro che non è legato al
capo: Cristo»455.
Non è affatto necessario insistere per riconoscere in un testo
come questo - ma l’esperienza si può rifare a volontà con molti altri
testi - il legame reciproco delle due missioni temporali delle Persone
453 In ad Gal. 4, 24, lect. 8, n. 260: lex nona generai affectum amoris qui perti-
net ad libertatem, nam qui amat ex se mouetur.
454 In ad Gal. 5, 24-25, lect. 7, n. 338, ma vedere anche i numeri 336-340.
455 In ad Rom. 8, 2, lect. 1, nn. 602-603 e 605.
237
divine del Figlio e dello Spirito. La storia della salvezza di cui
Tommaso raccoglie preziosamente le indicazioni nei suoi commenti
scritturi- stici, riflette la reciproca interiorità della comunione
trinitaria456. Senza attardarci a dimostrare ciò che non ha bisogno di
esserlo, sarà meglio seguire Tommaso nelle sue spiegazioni sul modo
in cui lo Spirito opera in noi. Infatti nella Somma egli ha formulato la
teoria di quanto abbiamo potuto leggere nelle sue lezioni sulla Sacra
Scrittura.
egli riconosce che Dio previene con la sua grazia ogni movimento dell’uomo verso il
bene (vedi per es. SCG IH 149). Come ha ben mostrato H. BOUILI.ARD, Conversion et
grace chez S. Thomas d’Aquin. Étude historique («Théologie 1»), Paris 1944,
pp. 92-122, è la lettura più completa degli ultimi scritti di sant’Agostino sulla grazia,
il De predestinatione sanctorum e il De dono perseuerantiae, che fino ad
allora egli non avrebbe conosciuto se non attraverso florilegi, che lo ha reso attento
all’errore semi- pelagiano (che egli continua a chiamare «pelagiano»),
29
Cf. M. SECKLER, Instinkt und Glauhenswille nach Thomas von Aquin , Mainz
1961 (con l’importante discussione di E. SCHUXEBEECKX, L’instinct de la foi selon S.
Thomas d’Aquin, RSPT 48 [1964] 377-408, vedip. 382); J.H. WALGRAVE, Instinctus
Spiritus Sancii. Een proeve tot Thomas-interpretatie, ETL 45 (1969) 417- 431
(riassunto in francese).
30
Gv 6, 44; per ben comprendere il testo che segue occorre ricordarsi che le
parole «attira», «attrazione», che per noi suppongono un certo consenso della
persona attirata, nel latino di Tommaso si leggono tractus, tractio e implicano
molto più nettamente una «trazione» contro la volontà della persona così «tirata».
Padre coloro che sono colpiti dalla sua maestà; essi però sono
attirati anche dal Figlio a causa di una mirabile benevolenza e
per l’amore della verità, che non è nient’altro che lui. Se, come
afferma sant’Agostino, “ciascuno è attirato dal proprio
242
piacere” tanto più l’uomo sarà
atti
rato verso Cristo se trova la sua gioia nella verità, nella
beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in quanto Cristo è
tutto questo. Se dunque dobbiamo essere attratti da lui,
lasciamoci attrarre dalla gioia che procura la verità...
Ma poiché il potere di attirare non l’ha soltanto la rivelazione
esterna e l’oggetto [al quale si crede], ma anche l’istinto
interiore che spinge e muove a credere, il Padre attira molti
verso il Figlio mediante l’istinto di quell’operazione divina che
muove interiormente il cuore dell’uomo a credere: “E Dio
stesso che opera in noi il volere e l’operare” (Fil 2, 13); “Io li
attiravo con legami di bontà, con vincoli d’amore” (Os 11, 4);
“Il cuore del re è nelle mani di Dio: lo inclina a tutto ciò che
vuole (Prv 21 I)"»468 469.
471 Circa il posto dell’affettività nel movimento della fede, si leggerà con
profitto Io studio di M.-M. LABOURDETTE, La vie théologale selon saint Thomas. L’af-
fection dans la fai, RT 60 (1960) 364-380, che ricorda tra l’altro il bel testo del De
Meritate, q. 14, a. 2 ad 10: «Quanto al suo line, [la fede] trova il suo compimento
nell’affettività, perché è in forza della carità che diventa meritoria del fine. Anche
l’inizio della fede si trova nell’affettività nella misura in cui la volontà determina
Fintelligenza ad assentire agli oggetti della fede».
472 Oltre a Seni. HI, d. 34, q. 1, a. 2, vedi I-II, q. 68, a. 4, e a diversi luoghi
della Secunda Secúndate in cui Tommaso ha trattato di ciascun dono dopo una
determinata virtù: intelligenza e scienza in relazione alla fede (qq. 8-9); il timore, che
corrisponde alla speranza (q. 19), la sapienza alla carità (q. 45), il consiglio alla
pmdenza (q. 52), la pietà alla giustizia (q. 121), il dono di fortezza all’omonima virtù
(q. 139).
473 Rinviamo qui allo studio illuminante di M.-M. LABOURDETTE, Saint
Thomas et la théologìe thomiste, nell’alt. Dons du Saint-Esprit, DS 3 (1957),
coll. 1610- 1635; cf. M.-J. NICOLAS, Les dons du Saint-Esprit, RT 92 (1992) 141-152;
vedi anche J. M. MUÑOZ CUENCA, Doctrina de santo Tomás sobre los dones del
Espíritu Santo en la Suma teológica, «Ephemerides carmeliticae» 25 (1974) 157-
243. Senza averlo utilizzato qui per un’evidente ragione di metodo - lasciare la parola
a san Tommaso -, sarà lecito rinviare al classico e bel libro di GIOVANNI DI SAN TOMMASO, I
Doni dello Spirito Santo, che dipende largamente dal Maestro, perfino nei suoi
commenti scritturistici.
244
5), come pure è mediante la virtù di prudenza che la nostra
ragione è perfezionata. Ne consegue che, come le virtù morali
sono tra loro connesse nella prudenza, così i doni dello Spirito
Santo sono tra loro connessi nella carità. Quindi, chi ha la
carità possiede tutti i doni dello Spirito Santo; senza di essa
però non se ne può avere nessuno»474.
Incomprensibile di primo acchito a colui che nella sua
mediocrità s’immaginasse che è possibile essere buono senza essere
giusto o casto, questa posizione traduce in realtà sul suo piano la
grande tesi della connessione delle virtù che reggono la vita cristiana
secondo il Maestro d’Aquino. Bisogna qui osservare a qual punto
questa posizione sia lontana da ogni spirito d’élite. La vita sotto il
regime dei doni non è una riserva di caccia riservata a pochi. Niente
potrebbe essere più lontano dal pensiero di Tommaso, dato che egli
afferma con la più grande chiarezza che i doni sono necessari alla
salvezza. L’affermazione sembrerebbe troppo forte nella sua
generalità, se Tommaso non l’avesse prima giustificata. I doni sono
tanto necessari alla salvezza quanto la carità e le altre virtù teologali,
senza le quali è impossibile giungere alla comunione con Dio, e per
questo sono dati con esse. Tuttavia resta illuminante seguire il suo
ragionamento che mostra una profonda conoscenza delle leggi della
vita secondo lo Spirito. L’idea generale resta la stessa: se la ragione è
sufficiente quando si tratta di raggiungere un fine puramente umano,
essa resta radicalmente insufficiente quando si tratta di un fine
soprannaturale; perciò Dio ci dà la grazia e le virtù. Ma le stesse virtù
restano a nostra disposizione e non possiamo che fame un uso timido,
poco generoso, timoroso e senza slancio; è proprio qui che lo Spirito
Santo entra in gioco:
«Nell’ordine delfine soprannaturale, la ragione non ci muove
che nella misura in cui essa è trasformata, un po’ e
imperfettamente, dalle virtù teologalila sua mozione non è
sufficiente se l’istinto e la mozione dello Spirito Santo non
intervengono dall’alto; secondo quanto afferma san Paolo:
“Coloro che sono guidati dallo Spirito di
475I-II, q. 68, a. 2.
476SuperIoannem 14,17, lect. 4, n. 1915; cf. soprattutto I-II, q. Ili, aa. 1 e 4-5.
477 In I ad Cor. 12, 7, lect. 2, n. 725.
478 E la formula del Super Isaiam 11, Leon., t. 28, p. 79, linea 127; essa
raggiunge quella della III, q. 7, a. 5 ad 1: «Le virtù perfezionano le potenze dell’anima a
seconda che sono condotte dalla ragione; per quanto perfette siano, tuttavia esse
hanno ancora bisogno di essere aiutate dai doni che perfezionano le potenze
dell’anima in quanto sono mosse dallo Spirito Santo».
246
I FRUTTI DELLO SPIRITO
«La ragione umana non è in grado, né di conoscere, né di compiere
tutte le cose, sia che la si consideri nella perfezione del suo sviluppo
naturale, sia che la si consideri nella perfezione che le danno le virtù
teologali. Quindi essa non può su tutti i punti respingere la stoltezza
né gli altri mali dello stesso genere [di cui parlava san Gregorio
nell’obiezione]. Ma Dio, alla cui scienza e al cui potere tutto è
sottomesso, con il suo intervento ci protegge da ogni stoltezza,
ignoranza, pigrizia spirituale, durezza di cuore e altre cose simili.
Perciò si dice che i doni, i quali ci fanno seguire docilmente l’istinto
dello Spirito Santo, sono accordati contro questi tipi di difetti» 479.
Non si può che ammirare la profondità di queste osservazioni. Ciò
che i doni dello Spirito Santo permettono di superare non sono degli atti
manifestamente contrari alla grazia; questo è dato per scontato presso
chiunque vive sotto il regime della legge nuova. Non sono nemmeno le
virtù teologali che restano superiori ai doni giacché esse ne sono la radice,
ma è la loro modalità umana di realizzazione, ciò che chiamiamo
imperfezioni e che costituiscono altrettanti limiti e ostacoli alla gloriosa
libertà di movimento dei figli di Dio. Cosicché l’essere che sarà più docile
all’azione dello Spirito sarà anche il più libero. In lui, tutto il suo agire
dipende dalla grazia, ma la grazia stessa non solo rispetta, ma fonda il
carattere libero del suo movimento480.
479I-II, q. 68, a. 2 ad 3.
480 I-II, q. Ili, a. 2 ad 2: «Dio non ci giustifica senza la nostra collaborazione,
perché allorquando siamo giustificati aderiamo col nostro libero arbitrio alla giustizia
di Dio. Ciononostante, questa adesione non è la causa della grazia, ne è l’effetto. Tutto
dipende quindi dalla grazia (Unde tota operatio pertinet ad gra- tiam )». Questa è per
così dire la teoria generale; quando si tratta specialmente dell’azione dei doni, Tommaso si
esprime così a proposito del dono di consiglio (TL-II, q. 52, a. 1 ad 3): «I figli di Dio sono
mossi dallo Spirito Santo secondo la loro propria maniera, cioè nel rispetto del loro libero
arbitrio (secundum modum eorum, saluato scilicet libero arbitrio)».
247
248
I FRUTTI DELLO SPIRITO
Dopo aver parlato dei doni, san Tommaso aggiunge ancora altre
due questioni, a dire il vero molto sorprendenti per chi non si
aspetterebbe da lui che una semplice descrizione di strutture mentali,
ma che non dovrebbero più sorprenderci, poiché sappiamo che egli è
un lettore assiduo della Sacra Scrittura. Pienamente cosciente del fatto
che «il Discorso della Montagna contiene il programma completo
della vita cristiana» 44, egli si interroga dunque su ciò che sono le
beatitudini di cui parla il Signore nei Vangeli (Mt 5, 3-12; Le 6, 20-
26), e su quelli che san Paolo chiama «i frutti dello Spirito» {Gal 5,
22-23) 45. L’accostamento non è arbitrario poiché vi è più di un punto
in comune tra frutti e beatitudini, e il legame con lo Spirito Santo è
evidente a partire dal momento in cui ci si rende conto che tutto questo
si radica in lui come nella sua sorgente. Troppo poco lette, in quanto si
tenderebbe a considerarle secondarie nel movimento d’insieme della
Somma 46, queste due questioni sono al contrario apprezzate dai
migliori
44
I-II, q. 108, a. 3: «Sermo quem Dominus in Monte proposuit, totam
informationem christianae uitae continet»; nella sua Lettera-Dedica a Urbano IV
che accompagnava la Catena aurea su san Matteo, Tommaso aveva dichiarato
verosimilmente: «Nel Vangelo ci è dato l’essenziale della fede cattolica {forma fidei
catholicae) e la regola dell’intera vita cristiana (totius uitae regala
christianae)». E evidente qui l’ispirazione agostiniana, cf. S. PINCKAERS, Le
commentane du sermon sur la montagne par S. Augustin et la morale de S.
Thomas, in La Teologia morale nella storia e nella problematica attuale.
Miscellanea L.-B. Gillon, Roma 1982, pp. 105-126.
45
I-n, qq. 69-70; vedi anche il più ampio passaggio parallelo del Commento
ai Galati5, 22-23, lezione 6, nn. 327-334. In Seni. Ili, d. 34, q. 1, a. 6, e al seguito di
sant’Agostino, Tommaso aveva aggiunto in questo contesto una considerazione sulle
sette domande del Pater. Vedi anche il Super Matthaeum 5, nn. 396-443, e, oltre
l’articolo citato nella nota precedente, il commento di S. PINCKAERS, La voie spiri-
tuelle du bonheur selon saint Thomas, in Orcio sapientiae et amoris, pp.
267-284, soprattutto le pp. 276ss., in cui l’autore parla del «sorprendente dialogo
instaurato da san Tommaso tra la filosofia d’Aristotele e la teologia che trova la sua
fonte nella fede in Cristo crocifisso» (p. 284); dello stesso autore, vedi anche Les
sources de la morale chrétienne, pp. 154-177. Su questo tema, cf. A. GARDF.IL, art.
Fruits du Saint- Esprit, DTC 6 (1920), coll. 944-949; CH.-A. BERNARD, art. Fruits du
Saint-Esprit, DS 5 (1964), coll. 1569-1575.
46
Queste due questioni, osserverà il Gaetano, «richiedono una lettura
frequente e una meditazione costante, ma non hanno bisogno di commenti (lectione
frequenti, meditationeque iugi egent, non expositione)», Comm. in loco.
249
teologi moralisti attuali481 482. Costoro vedono in esse «un programma
di vita e di progresso spirituale», e se ne ispirano per «tracciare un
intero ritratto dell’uomo spirituale» 4S.
La lista delle beatitudini non ha affatto bisogno di essere qui
ricordata, ma forse sarà utile ricordare quella dei dodici frutti dello
Spirito così come Tommaso la trovava nel latino della Volgata: carità,
gioia, pace, pazienza, benignità, bontà, longanimità, mansuetudine,
fede, modestia, continenza, castità 483. Per capire di che cosa si tratta,
bisogna sapere che, rispetto alle virtù e ai doni, beatitudini e frutti non
rappresentano nuove categorie di abiti, ma semplicemente gli atti che
ne derivano:
«Il termine “frutto” è stato trasposto da cose materiali a quelle
spirituali. Ora, nelle cose materiali, si dice “ frutto” ciò che la
pianta produce giunta che sia alla sua perfezione, ed in se stesso
ha una certa dolcezza. E codesto frutto si può riferire a due
cose: all’albero che lo produce e all’uomo che dall’albero lo
raccoglie. Secondo questo esempio, quando si tratta di realtà
spirituali, noi possiamo considerare il termine “frutto” in una
duplice accezione: in un primo senso, si parlerà del frutto
dell’uomo per designare ciò che è da lui prodotto; in un secondo
senso, il frutto dell’uomo sarà ciò che è da lui colto»484.
Questa semplice sistemazione del vocabolario permette così una
prima chiarificazione. Se si pensa a ciò che è prodotto dall’uomo, è
evidente che sono gli atti umani che si chiamano «frutti». Se lo sono
secondo la capacità della ragione, essi sono allora frutti della ragione;
se però sono prodotti secondo una virtù più alta, quella dello Spirito
Santo all’opera nelle virtù e nei doni, «allora si dice che
IL MAESTRO INTERIORE
64
65
Super loannem 14,17, lect. 4, n. 1916.
Si contano 15 ricorrenze, la maggior parte nelle Sentenze (5) e nel
Super loannem (4); sotto questa forma Tommaso ha certamente ricevuto
l’espressione da PIETRO LOMBARDO, Collectanea in Epist. Pauli, In 1 Cor 12, 3 (PL
191, col. 1651A), ma la si ritrova già neU’Ambrosiaster, sotto una forma leggermente
diversa: «quic- quid enim verum a quocumque dicitur, a sancto dicitur spiritu»
(Commentarius in Epistulas paulinas, In Ep. ad Cor. I, 12, 3: CSEL, t.
81, 2, Vindobonae 1968, p. 132; ci. PL 17, 1879, col. 258B). Oltre al commento del
testo di Paolo dove si trova l’origine della citazione (In I ad Cor. 12, 3, n. 718), è
sufficiente sapere che essa è soprattutto utilizzata quando bisogna distinguere l’azione
dello Spirito Santo sul piano naturale e sul piano soprannaturale: «“Tutto ciò che è
vero, detto da chicchessia, viene dallo Spirito Santo”, nel senso che è lui che
infonde la luce naturale e che muove l’intelligenza a comprendere e
cogliere la verità» (Sum. Theol. I-II, q. 109, a. 1 ad 1). Da ciò non si dedurrà
nessun argomento per aggiungere che lo Spirito Santo abita necessariamente
mediante la sua grazia in colui che dice la verità, qualsiasi essa sia, come voleva qui
l’obiettore, ma l’universalità della presenza e dell’azione dello Spirito in questo
contesto corrispondono esattamente all’universalità della presenza attiva del Verbo a
tutte le cose. Quali che siano le tenebre di questo mondo in cui il Verbo con la sua
incarnazione ha portato la luce, spiega altrove Tommaso, non si può dire che
«nessuno [spirito] è così tenebroso da non partecipare in nulla alla luce divina. Infatti,
ogni verità conosciuta da chicchessia è dovuta totalmente a questa
“luce che brilla nelle tenebre”-, giacché “ogni verità, chiunque sia che la dica,
viene dallo Spirito Santo”» (Super loannem 1, 5, lect. 3, n. 103).
66
«Omne uerum et omne bonum est a Spiritu sancto»; questo testo non si
trova nelle attuali edizioni stampate, ma probabilmente sarà quello della futura
edizione critica poiché è stato comunicato dalla Commissione Leonina a R. Busa per
all’incarnazione di Cristo, il compimento della grazia; alla fine del mondo il compimento
della gloria»; vedi anche In ad Eph. 1, 14, lect. 5, n. 43, in cui Tommaso sviluppa la
differenza tra lo Spirito Santo come pegno e come caparra della nostra eredità.
252
l’Index thomisticus; lo si troverà sotto il lemma «76773-a spiritus+sanctus»
(Sectio II, voi. 21, p. 157), n. 02272; si ritrova la stessa formula un po’ più avanti (n.
02275): «Omne uerum et omne bonum a quocumque fiat fit a Spiritu sancto». In
entrambi i casi, si tratta del Commento a 1 Cor. 12,3 (RIL = Keporiationes
ineditaeEeoninaé).
prima, questa seconda affermazione è perfettamente conseguente alla
sicurezza che Tommaso manifesta dappertutto circa la bontà innata
della creazione. Ciononostante, qui ci si atterrà piuttosto al contesto
trinitario, così chiaro nel testo giovanneo e che l’autore sottolinea con
evidente compiacenza497. Parlare dello Spirito di Verità non significa
parlare soltanto della testimonianza che egli rende al Figlio di cui
completa l’opera 498, significa soprattutto ribadire come siamo condotti
da lui al Figlio e dal Figlio al Padre giacché le loro missioni temporali
sono tanto inseparabili quanto le loro processioni eterne:
«Come la missione del Figlio ebbe l’effetto di condurre al Padre,
così la missione dello Spirito Santo consiste nel condurre i
credenti al Figlio. Ora, il Figlio, Sapienza increata, è la stessa
Verità: “lo sono la Via, la Verità, la Vita” (Gv 14, 6). Perciò
l’effetto di questa missione consiste nel rendere gli uomini
partecipi della Sapienza divina e conoscitori della Verità. Il
Figlio, in quanto Verbo, ci comunica la dottrina, però è lo
Spirito Santo che ci rende capaci di riceverla.
Così quando Gesù afferma: “Vi insegnerà ogni cosa", si tratta
dunque di questo: Qualunque cosa l’uomo apprenda dal di
fuori, se lo Spirito Santo, dall’interno, non gli dà l’intelligenza,
è fatica perduta: “Se lo Spirito non abita il cuore
dell’ascoltatore, invano parla il dottore”. “È il soffio
dell’Onnipotente che dà l’intelligenza” (Gb 32, 8). E ciò fino al
punto che anche il Figlio, che parla mediante lo strumento della
sua umanità, è impotente se non opera dall’interno mediante lo
Spirito Santo.
Bisogna anche ricordarsi di quanto ha affermato
precedentemente: “Chiunque ha udito il Padre e riceve il suo
insegnamento viene a me” (Gv 6, 45). Egli spiega qui di cosa si
497 Al termine di un lungo passaggio polemico «contro i Greci»,
Tommaso osserva che se l’evangelista afferma proprio: «lo Spirito di Verità che
procede dal Padre», egli non dice tuttavia che non procede dal Padre e dal Figlio,
«perché quando dice lo Spirito di Verità, cioè del Figlio, sottintende che procede dal
Figlio. Infatti sempre il Figlio è unito al Padre e inversamente quando si tratta della
processione dello Spirito Santo».
498 Lo Spirito rende testimonianza al Figlio in tre modi: «istruendo i
discepoli e dando loro fiducia per testimoniare..., comunicando a coloro che credono
in Cristo la sua dottrina..., addolcendo il cuore degli ascoltatori» (Super loannem 15,
26, lect. 7, n. 2066).
253
tratta, perché colui che non è istruito dallo Spirito non impara
niente; il che significa: colui che riceve lo Spirito Santo del
Padre e del Figlio, costui conosce il Padre e il Figlio e accede
ad essi. Lo Spirito ci fa conoscere tutte le cose ispirandoci,
guidandoci interiormente ed elevandoci alle cose spirituali
(Facit
autem nos scire omnia interius inspirando, dirigendo et ad
spiritua-
lia eleuando)»499 500.
Il Maestro d’Aquino commentando san Giovanni non poteva
dire niente di più forte di quanto aveva già affermato altrove sotto
diverse forme ma, riprendendo qui il prediletto movimento circolare,
egli offre una nuova prova di ciò che si può chiamare la presenza
«strutturale» dello Spirito Santo nel mondo così come egli lo vede e,
quindi, all’interno della sua propria costruzione teologica. Lo Spirito
era già colui mediante il quale e nel quale ci sono dati tutti i doni di
Dio, quelli della natura come quelli della grazia. Precisando ora che
soltanto lo Spirito è colui nel quale e per mezzo del quale la Parola del
Figlio può essere recepita e compresa, Tommaso termina di spiegare il
perché è anche colui che, solo, può condurre i credenti alla Verità
tutt’intera:
«Siccome lo Spirito Santo procede dalla Verità, gli compete
insegnare loro la Verità e renderli simili a colui che è il suo
Principio. Cristo dice: ..la Verità tutt’intera", cioè la verità
della fede che insegnerà mediante un’intelligenza superiore già
nella vita presente, e in un modo perfetto nella vita eterna, là
dove “conosceremo come siamo conosciuti” (1 Cor 13, 12),
poiché “la sua unzione ci insegnerà ogni cosa”»10.
499 Super loannem 14, 25, lect. 6, nn. 1958-1959; cf. II-II, q. 177, a.
1, in cui si ritrova al plurale questa stessa citazione di san Gregorio: «Se lo Spirito
Santo non ricolma il cuore degli ascoltatori, è invano che risuona nelle orecchie del
corpo la voce dei dottori (In Evangelia II, hom. 30, n. 3: PL 76, 1222A). Si riconosce
qui un’eco della dottrina del Maestro interiore cara a sant’Agostino (De magistro
11, 38), e che costui ha così spesso ripreso nel Tractatus in loannem (1, 7; 20, 3; 26,
7; 40, 5) o nelle sue omelie, come nel Sermone 153, 1: «Noi parliamo, ma Dio
istruisce; noi parliamo, ma Dio insegna»; ci M.-F. BEKROUAKD, nota 4: Le
Maitre intérieur, in S. AUGUSTIN, Homélies sur l’Évangile de S. ]ean, BA, t. 71,
Paris 1969, pp. 839-840. Eppure non si assimilerà la dottrina di Tommaso su questo
punto a quella di sant’Agostino poiché essa è molto diversa com’è possibile
convincersene leggendo i loro rispettivi De magistro (per Tommaso, cf. De
ueritate, q. 11).
500 Super loannem 16,13, lect. 3, n. 2102.
254
Fonte di ogni verità e dottore che l’insegna, dalla sua forma più
umile alla sua manifestazione più alta; origine prima di ogni bene
nell’ordine della natura come in quello della grazia; primo iniziatore
della nostra vita di figli di Dio, che ci insegna a dire «Padre»; sostegno
costante di tutti i nostri atti che porta al loro perfezionamento; seme
d’eternità che porta in noi il suo frutto di beatitudine eterna, lo Spirito
Santo è per san Tommaso proprio il Dono primo, il Dono per
eccellenza, colui nel quale e per mezzo del quale il Padre ci accorda la
sua benevolenza. Inoltre è anche in lui e mediante lui che siamo
ricondotti al Figlio e tramite questi al Padre501.
1
Anche se questa anteriorità non bisogna intenderla sempre in senso
cronologico, occorre però almeno conservarla secondo un ordine di natura. Per fare
un semplice esempio: io, per ricevere il dono della grazia, devo prima esistere come
creatura; supponendo che la grazia sia data contemporaneamente alla natura
(secondo san Tommaso, è questo il caso del primo uomo), rimane tuttavia che la
259
natura costituisce ciò in cui la grazia è ricevuta.
la natura, ma la perfeziona» 2. Nessuna affermazione attribuita al
Maestro d’Aquino è tanto conosciuta quanto questa; infatti presto ci si
renderà conto che essa traduce un’opzione veramente fondamentale. In
nessun luogo Tommaso si raffigura l’uomo o il mondo in maniera
idealista, come se l’uomo non avesse che una vita dello spirito o il
mondo non rappresentasse che una materia senza alcun rapporto con la
creatura razionale. Tommaso li coglie sempre nei loro reciproci legami
così come Dio li ha creati, con una natura che il peccato non ha potuto
distruggere e che la grazia può recuperare senza abolirla 3. In compenso,
la valutazione esatta di questi dati naturali condiziona anche l’idea che
ci si fa di Dio stesso: il nostro modo di concepire la creatura si
ripercuote sulla nostra concezione del Creatore 4. Questo comporta
anche delle conseguenze nel campo della vita spirituale.
Se quanto abbiamo appena affermato è fondato, si sarà meno
sorpresi di apprendere che i due problemi più scottanti e che hanno
provocato più tumulti durante il secondo insegnamento di san Tom-:
maso a Parigi erano precisamente due questioni, se non esclusivamente
2
Sent. Il, d. 9, q. 1, a. 8 arg. 3: Gratia non tollit natura-m sed perfidi-, cf. I, q.
I, a. 8 ad 2; l’assioma, esplicitato maggiormente in una più ampia trattazione, si trova
espresso nel Super Boetium De Trinitate, q. 2, a. 3: «Dona gratiarum hoc modo
nature adduntur, quod eam non tollunt set magis perficiunt» (Leon., t. 50, p. 98).
L’adagio è enunciato anche sotto forma di un’evidenza ontologica: Gratia
praesupponit naturam, e quasi sempre in una particolare applicazione, a proposito
della fede, della vita soprannaturale, della legge, ecc.; cf. per es. De ueritate, q. 14, a.
9 ad 8; q. 27, a. 6 ad 3; I, q. 2, a. 2 ad 1: «sic enim fidespraesupponit cognitionemg
naturalem, sicut gratia naturam et ut perfectio perfettibile»; I-II, q. 99, a. 2 ad 1;
II-
II, q. 10, a. 10; q. 104, a. 6; ecc.; gli studi fondamentali su questo tema sono già di
alcuni anni fa, ma sempre preziosi: J.B. BEUMER, Gratia supponit naturam. '¿ur
Geschichte eines theologischen Prinzips, «Gregorianum» 20 (1939) 381-406, 535-
552; B. STOECKLE, Gratia supponit naturam. Geschichte undAnalyse eines
theologischen Axioms, «Studia Anselmiana 49», Roma 1962.
3
È proprio questo che vuole preservare il carattere «accidentale» della grazia
(si può rileggere a tal proposito quanto abbiamo detto nel cap. 8); a proposito; del fatto
che il peccato non abbia distrutto la natura, Tommaso non è meno fermo! «Il peccato
non può far sì che l’uomo smetta completamente di essere un essere razionale, poiché
in tal caso egli non sarebbe nemmeno capace di peccare. Perciò è impossibile
che questo livello della natura sia abolito», I-II, q. 85, a. 2; rinviamo su questo tema
allo studio preciso di B. QUELQUEJEU, «Naturalia manent integra». Contribution
à l'étude de la portée méthodologìque et dodrinale de l’axiome théolo- gique
«Gratia praesupponit naturam», RSPT 49 (1965) 640-655.
4
SCG II 3: «Error circa creaturas redundat in falsam de Deo sententiam;
260
(l’errore circa le creature si ripercuote in una falsa concezione di Dio)».
filosofiche almeno profondamente radicate in opzioni pre-teologiche.
Queste due materie, sulle quali le sue prese di posizione gli valsero le
più solide inimicizie e addirittura il sospetto di eresia, erano da ima
parte la sua teoria della creazione e dell’eternità del mondo, dall’altra la
sua antropologia, o più semplicemente la sua concezione dell’uomo 502
503
. Dovremo ritornare su quest’ultima questione, ma nella prima
possiamo entrare fin d’ora.
Tanto vivace quanto quello sulla natura dell’uomo - e forse
ancora di più -, il vivo dibattito che divideva gli spiriti all’Università di
Parigi verso il 1270 riguardava la creazione stessa. Si trattava del
celebre problema dell’«eternità del mondo», e molte opere dell’epoca -
tra le quali una di san Tommaso - portano questo titolo é. Esso si
poneva in maniera diversa per i filosofi e per i teologi; per questi
ultimi, la questione era risolta dalla stessa rivelazione: poiché la Genesi
afferma molto chiaramente che il mondo ha avuto un inizio, ne segue
che non è eterno. I primi, al contrario, seguivano Aristotele e non
esitavano a riprendere la sua affermazione secondo la quale il mondo
esiste da tutta l’eternità.
Agitati dalle conseguenze di questa posizione, i teologi
francescani dichiaravano apertamente che essa era impensabile e
affermavano di poter dimostrare con la ragione che il mondo aveva
avuto veramente un inizio. Più sensibile al rigore dell’argomentazione
aristotelica, fra Tommaso insegnava invece che soltanto la fede può
farci sostenere che il mondo ha avuto un inizio e che è impossibile
darne una dimostrazione. Su questo punto, osservava, vale per la
creazione ciò che vale per la Trinità, e bisogna fare attenzione a non
trattare come oggetto di scienza ciò che non può esserlo, col timore di
offrire pretesto alla derisione degli infedeli:
502 Abbiamo ricordato brevemente il contesto delle due questioni e la
relativa bibliografia in Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo , pp, 2Ì0-222; per una
trattazione molto più estesa vedi: E.-H. WÉBER, La controverse de 1270 à l’université de
Paris et son retentissement sur la pensée de S. Thomas d’Aquin («Bibl. thom. 40»), Paris
1970, che ha come sottotitolo: L’homme en discussion à l’université de Paris en 1270; si
ricorda che questo libro ha dato origine a importanti recensioni, cf. soprattutto C.B.
BAZAN, Le dialogue philosophique entre Siger de Brabant et Thomas d'Aquin. À propos
d’un ouvrage récent de E.-H. Wéber OP, RPL 72 (1974) 53-155; W.H, PRINCIPE, in
«Spéculum» 49 (1974) 163-167.
503 De aeternitate mundi, Leon., t. 43, pp. 85-89; questa questione
ha costituito l’oggetto di numerose pubblicazioni recenti (si veda Tommaso
d’Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 210-214, circa il contesto e la relativa
bibliografia).
261
«Che il mondo abbia avuto un inizio è oggetto di fede; non è
oggetto di dimostrazione o di scienza. Ed è utile fare questa
osservazione, nel timore che, pretendendo di dimostrare le cose
della fede per mezzo di prove poco conclusive, non ci si esponga
alla derisione degli increduli, facendo pensare loro che noi
aderiamo per tali motivi agli insegnamenti della fede»1.
563 Senza voler dare alla dottrina esposta una conferma esterna di cui
non ha bisogno, siamo stati colpiti dalla pertinenza di alcune linee di Paolo VI: «Il
punto centrale e quasi il nocciolo della soluzione che egli [Tommaso] diede al
problema del nuovo confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito
profetico, è stato quello iella conciliazione tra la secolarità del mondo 'e la radicalità del
Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori,
senza peraltro venir meno alle supreme e inflessibili esigenze dell’ordine
soprannaturale. Tutta la costruzione dottrinale di san Tommaso è infatti fondata su
quell’aureo principio, da lui enunciato fin dalle prime pagine della Summa theologiae,
secondo il quale “la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona”, e la natura è
subordinata alla grazia, la ragione alla fede, l’amore umano alla carità» (Lettera di
Paolo VL per il settimo centenario di san Tommaso d‘Aquino, ed. a cura dell’Ordine dei
Frati Predicatori, Roma 1975, p. 42).
564 Questo è stato ben dimostrato da W.H. PRINCIPE, Aquinas’
Spirituality for Christ’ s Faithful Living in thè World, «Spirituality Today» 44 (1992)
110-131.
565 II modo in cui Tommaso comprende il ruolo di Adamo
all’indomani della Creazione è profondamente suggestivo, cf. I, q. 96, e in, a. 2:
«Nell’uomo si ritrovano in qualche modo tutte le realtà, ed è per questo che al tipo di
dominio che egli esercita su quelle interiori, corrisponde quello che deve esercitare
sulle altre».
283
metà
283
o controvoglia. Anzi, la certezza che ha di operare in vista della città
futura conferisce al suo impegno una qualità che soltanto essa gli può
dare: l’imitazione della liberalità divina, la quale dona in maniera tanto
più efficace in quanto è totalmente disinteressata.
286
XI
Una certa idea dell’uomo
1
«Quidquid recipitur ad modum recipientis recipitur (Tutto ciò che è
ricevuto, è ricevuto al modo di colui che riceve)»; la forma impersonale dell’adagio
permette di utilizzarlo in vari contesti, nella maggior parte dei casi si tratta tuttavia
del campo della conoscenza: anche le cose materiali esistono in noi secondo un modo
immateriale, cf. Seni. IH, d. 49 q. 2, a. 1; SCG II 79; I, q. 75, a. 5; etc.
287
L’UOMO IN DISCUSSIONE
smos” según santo Tomás», Angelicum 56 (1979) 62-92; E.-H. WÉBER, La person- ne
humaine au XIIIe siècle, «Bibliothèque thomiste 46», Parigi 1991, pp. 61-73, si è
dedicato a evocare l’origine e il percorso del termine; per l’antropologia di Tommaso,
vedere le pp. 146-198.
4
B. MONTAGNES, «L’axiome de continuità chez saint Thomas», RSPT 52 (1968)
201-221, ha potuto reperire 33 passaggi in cui si ritrova la celebre affermazione:
«Semper enim inuenitur infimum supremi generis contingere supremum inferioris
generis (Sempre infatti ciò che vi è di più umile in un genere superiore, “tocca” ciò
che vi è di più elevato nel genere immediatamente inferiore)».
5
Ci si ricorda dell’affermazione lapidaria di sant’Agostino (Tractatus in Ioan- nem
19, n. 15; BA 72, pp. 207-209): «Cos’è l’uomo? Un’anima razionale che ha un corpo»; a dir
vero, questa affermazione rappresenta più una tendenza che una definì- jí'll zione voluta per
se stessa, poiché Agostino afferma anche nello stesso contesto: «Un’anima che ha un corpo
non costituisce con esso due persone, ma un solo uomo». :
290
non la vita, e nel quale non è che un inquilino provvisorio 568. A
questa posizione dualista, che ha lo svantaggio di collegare il corpo
all’anima soltanto in maniera accidentale, Tommaso preferisce la
posizione di Aristotele per il quale l’anima intellettiva non solo è il
motore del corpo, ma anche la sua «forma»; essa gli dà la vita
mediante un’unione molto intima così da non formare con esso che
un solo essere perfettamente uno; tuttavia non costituisce in alcun
modo il tutto dell’uomo569.
In questa prospettiva, «l’uomo non è né il suo corpo né la sua
anima», ma il composto che risulta dall’unione dell’anima e del
corpo, e, «dato che si tratta del corpo animato, non si deve più
parlare di priorità o posterità; c’è assoluta simultaneità poiché
comunque il corpo animato coincide con lo spirito incarnato» 570.
L’anima è indubbiamente la parte più nobile a causa della sua natura
spirituale creata da Dio, ma non è una sostanza completa esistente di
per sé. L’individuo sussistente, la persona umana, è la realtà totale
formata dall’unione dell’anima e del corpo. Non è l’occhio che vede,
ma l’uomo mediante il suo occhio, così pure non è l’anima che sente,
comprende o agisce, ma l’uomo tramite la sua anima. Se il corpo ha
bisogno dell’anima, questa da parte sua ha bisogno del corpo e non è
pensabile se non come «unibile» al corpo 571. Se la sua natura
568 Altrove (Seni. II, d. 1, q. 2, a. 4 ad 3), Tommaso attribuisce a
Platone anche un altro paragone secondo cui l’anima sarebbe nel corpo come il
pilota nella nave, ma se è conosciuta da Aristotele e da Plotino, quest’immagine non
viene da essi attribuita a Platone, cf. A. MANSION, «L’immortalité de l’âme et de
l’intellect d’après Aristote», RPL 51 (1953) 444-472, vedere pp. 456-465.
569 Questo riassunto che semplifica il pensiero di Tommaso suppone
conosciute molte cose che non si possono ricordare qui; per ben comprendere il suo
pensiero occorre seguirlo passo dopo passo sia nella SCG II 56-90, sia nella I, q. 75-
83, con le note di J. WÉBERT, a SAINT THOMAS D’AQUIN, L’âme humaine, «Revue des Jeunes»,
Parigi 1928; sia ancora nell’importante Questione De anima, che è leggermente
anteriore all’esposizione della Somma che essa prepara. Si può fare riferimento
anche allo scritto breve e preciso di L.-B. GEIGER, «Saint Thomas d’Aquin et le
composé humain», in L’âme et le corps, «Recherches et débats 35», Parigi 1961, pp.
201-220; più completo, ma anche più tecnico, J.-H. NICOLAS, Synthèse dogmatique, t. Il,
pp. 303-347; rinviamo anche al libro, semplice e profondo, scritto per un pubblico
più ampio di P.-M. EMONET, L’âme humaine expliquée aux simples, Chambray-lès-
Tours 1994, e a M.-V. LEROY, «Chronique d’anthropologie», RT 75 (1975) 121-142, in
cui si troverà la presentazione accompagnata da illuminanti osservazioni critiche di
un’abbondante letteratura sul soggetto.
570 SCG n 89, n. 1752.
5711, q. 75, a. 7 ad 3: «Il corpo non fa parte dell’essenza dell’anima, ma
l’anima deve alla natura della sua essenza di essere unibile al corpo (sed anima ex
natura suae essentiae habet quod sit corpori unibilis)».
291
spirituale la conserva incorruttibile e quindi immortale, cosicché
dopo la morte può sussistere da sola nello stato di anima separata,
anche in questo caso «essa conserva nel suo essere un’attitudine e
un’inclinazione naturali a essere unita al corpo» 572. E Tommaso lo
afferma con la più grande chiarezza: «né la definizione né il nome di
nessuno le convengono» 573. Altrove, spiegando che l’immortalità
dell’anima non sarebbe sufficiente alla beatitudine in quanto soltanto
la risurrezione del corpo causerà il compimento del desiderio
naturale di salvezza situato nel cuore dell’uomo, egli impiega perfino
questa sorprendente formula: «L’anima non costituisce tutto l’uomo;
la mia anima non forma il mio io»574.
Si comprende facilmente l’importanza di questa scelta. Di
fronte ad ogni concezione «spiritualizzante» dell’essere umano,
tentata di considerare il corpo come quantità trascurabile, il suo
solido realismo fa affermare tranquillamente a Tommaso che l’uomo
è un essere corporeo e che senza il corpo, non si ha più l’uomo.
L’anima non è unita al corpo per spiritualizzarlo, ma proprio perché
l’anima ha bisogno del corpo; infatti senza di esso non potrebbe
dedicarsi nemmeno alla sua operazione più nobile, l’intellezione 575.
Questa maniera di rendersi conto del modo in cui l’anima si
unisce al corpo si oppone anche a due altre posizioni
successivamente scartate come insufficienti per rendere conto della
complessa unità dell’uomo. Come sostenitori della prima, si
incontrano di nuovo diversi rappresentanti di un platonismo
arricchito di molteplici varianti, ma
anche san Bonaventura e i teologi francescani che rifiutano di
5721, q. 76, a. 1 ad 6.
5731, q. 29, a. 1 ad 5: «L’anima è una parte della natura umana; ed è per
questo che, anche nello stato separato, dato che conserva la sua attitudine naturale
all’unione, non la si può chiamare una sostanza individuale, ossia un’ipostasi o
sostanza prima - come nemmeno lo può essere la mano o qualsiasi altra parte
dell’essere umano Ecco perché né la definizione né il nome di persona le
convengono»; la riflessione sulla situazione contraria alla sua natura dell’anima
separata dal suo corpo mediante la morte apporta qui preziosi complementi, cf. I, q.
89, a. 1; A. C. PEGIS, «The Separated Soul and its Nature in St. Thomas», in
Commemorative Studiesl, 131-158.
574 In 1 ad Corinthios 15, 19, lect. 2, n. 924: «Anima autem cum sit pars
cor- poris hominis, non est totus homo, et anima mea non est ego».
575 I, q. 84, a. 4: «Non si può dire che l’anima intellettiva è unita al corpo
a causa di quest’ultimo... È piuttosto il contrario che è vero: il corpo appare soprattutto
necessario all’anima intellettiva per la sua propria operazione, che consiste nel-
Yintelligere».
292
ammettere che l’anima intellettuale sia l’unica forma del corpo. Essi
sono accomunati da un’unanime avversione ad attribuire alla stessa
anima le attività spirituali più elevate e tutto ciò che abbiamo in
comune con gli animali. Secondo loro, bisognava perciò ammettere
tre anime diverse secondo i diversi gradi di vita che si riscontrano
nell’uomo: vegetativo, sensitivo, intellettivo576. Di fronte a costoro,
Tommaso s’impegna risolutamente a dimostrare che è proprio la
stessa anima che esercita la triplice funzione d’animazione, in quanto
ogni grado superiore di una forma sostanziale include e realizza il
grado inferiore. Chi può il più, può anche il meno, diremmo
familiarmente. L’unità del vivente di natura razionale qual è l’uomo
si trova così molto più perfettamente affermata, come è sottolineato
nel testo sopra riportato577 578.
A questa controversia, interna al mondo cristiano, se ne
aggiungeva una seconda, in cui coloro che erano avversari nella
prima si battevano al contrario fianco a fianco, poiché si trattava di
far fronte all’invadente «arabismo» che aveva già conquistato molte
menti tra i filosofi del tempo. Questi ultimi sostenevano che non era
affatto necessario che ciascun individuo umano esercitasse da se
stesso questa nobile funzione dell’intellezione, giacché un solo
principio intellettivo, separato e comune a tutti gli uomini, agiva per
l’insieme dell’umanità. Tesi affascinante, si è potuto affermare, ma
paradossale, e alla quale Tommaso risponde con una domanda molto
semplice: come si potrebbe rendere conto del fatto innegabile che
«quest’uomo particolare pensa (hic homo singularis intelligit)»? «Se
qualcuno pretende che l’anima non è la forma del corpo, dovrà
trovare il mezzo per spiegare come l’azione del pensare appartenga a
quest’uomo individuale. Ciascuno infatti sa per esperienza che è egli
stesso che pensa» 1<s. Noto
sotto il nome di «monopsichismo» (un’unica anima), questo errore
584 Molto minuzioso, il trattato delle passioni si trova nella I-II, qq. 22-
48; si potranno leggere anche le annotazioni alla traduzione francese del buon
conoscitore qual era ALBERT PLÉ, in THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, t. 2, Ed. du Ceri,
Parigi 1984, pp. 169-299; dello stesso autore, Par devoir ou par plañir?, Parigi 1980;
L. MAURO, “Umanità" della passione in S. Tommaso, Firenze 1974; M.F. MÀNZANEDO, Las
pasiones o emociones según santo Tomás, Madrid 1984.
585 Oltre alla spiegazione di base sul concupiscibile e l’irascibile (I, q.
81, a. 2-3), si vedrà qui I-II, q. 23 per la narrazione di partenza sull’insieme delle
passioni, con l’illuminante quadro di A. Plé, op. cit., p. 181.
296
dell’atto umano, poiché il bene, amalgamandosi col male,
s’indebolisce o addirittura scompare completamente. Questo è
vero se le passioni non sono che dei movimenti disordinati
dell’appetito sensitivo, cioè dei disturbi o delle malattie. Ma se
denominiamo “passione” nient’altro che tutti i movimenti
dell’appetito sensibile, allora la perfezione del bene umano
implica che le passioni, anch’esse, siano moderate dalla
ragione» 586.
Questa moderazione occorre ben intenderla, poiché ciò che
significa «regola di ragione» non è evidente a prima vista 587. Nel
contesto in cui Tommaso l’impiega, e avremo altre occasioni per
rendercene conto, la ragione non è quella di un uomo lasciato alle
sole forze della sua umanità. Per il teologo, si tratta sempre di una
ragione illuminata dalla Parola di Dio, informata dalla legge divina,
fortificata dalla grazia, e impegnata ad operare tutte le energie
virtuose di cui dispone. Così intesa, e vedremo ciò più ampiamente a
proposito della coscienza, la ragione è per così dire il «ripetitore» del
disegno divino sull’uomo. L’obbedienza dell’appetito sensibile alla
regola della ragione è allora tutt’altro che la sottomissione all’ideale
ristretto di una misurata mediocrità, suggerito dalla debolezza della
mente umana abbandonata a se stessa. Infatti è l’apertura
dell’immagine alla somiglianza che postula il suo Esemplare divino.
Si comprende meglio allora la convinzione espressa nel testo appena
citato secondo il quale «la perfezione del bene umano» passa
mediante la correzione e l’integrazione delle passioni a livello della
vita della mente, e in seguito egli spiega il perché:
«Poiché il bene dell’uomo si fonda sulla ragione come sulla
sua propria radice, esso sarà tanto più perfetto quanto più si
comunicherà a un maggior numero di cose che competono
all’uomo. Nessuno dubita che, per il bene morale dell’uomo,
bisogna che gli atti esterni delle sue membra siano moderati
secondo la regola della ragione. Perciò, dato che l’appetito
sensibile può obbedire alla ragione 588, conviene alla per-
586 ITI, q. 24, a. 3.
587 Si potrà vedere la chiarificazione tentata da L. SENTIS, «La lumière dont
nous faisons usage. La règle de la raison et la loi divine selon Thomas d’Aquin»
RSPT79 (1995) 49-69.
588 Tommaso rinvia qui a un punto che ha stabilito precedentemente (cf. I
li, q. 17, a. 7) in cui spiega che il potere della ragione sull’appetito sensibile non è di
tipo “dispotico” (onnipotente), ma “politico” (relativo); ritorneremo su questo tema
un po’ più avanti.
297
fezione del bene morale, o umano, che le stesse passioni
dell’anima siano regolate dalla ragione.
Come, dunque, è cosa migliore che l’uomo, oltre a volere il
bene, lo compia anche effettivamente, così la perfezione del
bene morale esige che l’uomo non sia mosso al bene soltanto
dalla sua volontà, ma anche dal suo appetito sensibile, così
come si esprime il salmo (84, 3): “Il mio cuore e la mia carne
esultano nel Dio vivente”, il “cuore” essendo qui l’appetito
intellettivo, e la “carne” quello sensibile»21.
5891-II, q. 24, a. 3.
590 Si potrà leggere a tal proposito l’affascinante studio di M.-D. CHENU,
«Les passions vertueuses. L’anthropologie de saint Thomas», KPL 72 (1974) 11- 18,
che ha molto ben percepito ed espresso il legame tra l’unità della forma sostanziale e
la vita morale: si tratta di sapere se soltanto l’anima è virtuosa, oppure anche il
corpo, e dunque l’intero uomo nella sua unità.
298
questa parte di se stesso che l’uomo dev’essere evangelicamente
trasformato se un giorno dovrà giungere alla somiglianza divina a cui
è chiamato. Il teologo però resterebbe a metà del suo compito se non
si preoccupasse di spiegare le modalità di questo processo, così da
proporre allo stesso tempo il percorso di questa trasformazione.
Forse è qui che incontreremo una delle parti più originali della
teologia spirituale di fra Tommaso: la sua dottrina sulle virtù 591.
Per esprimere il controllo che la persona umana deve acquisire
sulle sue passioni, Tommaso parla normalmente delYimperium
(precetto, comando) esercitato su di esse dalla ragione e dalla
volontà. È questo un altro termine da ben comprendere poiché,
perfino intesa nel modo in cui l’abbiamo appena definita, la ragione
non esercita sulle potenze sensibili un potere assoluto. Molte reazioni
della sensibilità sfuggono al nostro controllo e il movimento
dell’appetito sensibile può scatenarsi improvvisamente sotto la spinta
di un’immagine o di una sensazione. Anche ciò che, teoricamente,
avrebbe potuto essere controllato se fosse stato previsto, può sfuggire
di fatto al controllo della ragione - ne facciamo spesso l’esperienza -.
Tommaso ricorda qui il detto di Aristotele, suo maestro in questo
campo: «Nei confronti del concupiscibile e dell’irascibile, la ragione
non esercita un potere “dispotico”, come quello del padrone sullo
schiavo, ma un potere “politico”, come quello che si rivolge agli
uomini liberi non sottomessi totalmente al comando»592.
Per tradurre ciò in termini più vicini a quelli della psicologia
moderna, si è proposto di parlare di un «desiderio riflesso» o di una
«intelligenza desiderante», per caratterizzare la duplice impresa
interattiva della ragione e della volontà sulle passioni. L'imperium
che ne deriva non bisogna intenderlo allora come un «comando» nel
senso in
591 Si vedrà un originale intervento sull’importanza di questa dottrina in
Tommaso, e per la stessa vita morale in O.H. PESCH, Tommaso d'Aquino. Limiti e
grandezza della teologia medievale, «Strumenti 54», Ed. Queriniana, Brescia 1994,
cap X: «Tommaso sul sonno e il bagno. L’amore e le virtù»; dello stesso autore, lo
studio di base resta: «Die bleibende Bedeutung der thomanischen Tugendlehre. Eine
theologiegeschichtliche Meditation», FZPT 21 (1974) 359-391 (versione abbreviata
in francese: «La théologie de la vertu et les vertus théologales», Concilium, n.
211,1987,105-126).
5921-II, q. 17, a. 7; cf. ARISTOTELE, I. Politica V, 6 (1254 b 5); lungi dall’igno- rare
che le passioni possono anche resistere e diventare ostacoli, Tommaso al contrario
ritorna spesso su di esse: oltre a I-II, q. 58, a. 2, che è il luogo più sviluppato, si può
vedere I-II, q. 31, a. 5 ad 1; q. 34, a. 1 ad 1; q. 82, a. 4 ad 1, ed il Commento all’Etica
a Nicomaco VII, 14 (1154 b 6-14), Leon., t. 47/2, pp. 437-438.
299
cui lo intenderebbe una morale legalistica implicata dalla nozione del
Dovere; si tratta piuttosto di armonizzare tutte le capacità di cui
dispone l’essere umano. «Esso esercita questa superiorità più come
un maestro d’orchestra che come un poliziotto. Quando san
Tommaso parla dell’influenza della carità sulle altre capacità umane,
parla d’attrazione (De cantate 3, risp. et sol. 18) oppure di chiamata,
di invito, di persuasione. Uinfluenza dell’amore di carità si esercita
come un addestramento dinamico, per far sì che le passioni siano
attirate da sole da un bene che le supera. In ogni modo, è tramite
questa influenza del desiderio-riflesso che le passioni “partecipano
alla ragione” (sol. 2). Perciò, per quanto complesso sia l’uomo, egli è
uno, ed è così che costruisce la sua unità. L’influenza del desiderio-
riflesso non diventa costrizione che allorquando la sua persuasione si
scontra con le passioni pervicaci»593.
Giustamente, questo testo sottolinea il ruolo fondamentale della
carità nell’integrazione delle passioni alla vita morale del cristiano;
inoltre, si sono riconosciuti qui gli stessi termini utilizzati in un
capitolo precedente per parlare della mozione-attrazione dello Spirito
Santo. Questo significa arrivare subito alla radice esplicativa
suprema; ma non sarebbe giusto se nei confronti della ricca
complessità dell’essere umano e di quella dell’elaborazione
tomasiana, si omettesse di precisare che questo controllo supremo
della mente sulle passioni è in realtà il frutto di una lunga
cristianizzazione, essa stessa accompagnata da una paziente
umanizzazione. Per questo non si ha carità senza le altre virtù,
costituendo queste stesse virtù ciò che.Tommaso chiama degli
«abiti».
Si vorrà scusarci se ritorniamo ancora su una piccola
spiegazione tecnica; la sua utilità non tarderà a manifestarsi. Come è
risaputo594, il termine latino habitus è la traduzione del greco exis, e
significa qualcosa che si ha (habere = avere), una qualità del corpo o
dell’anima, una disposizione della natura umana, capace di
svilupparsi mediante l’uso che se ne fa. Nelle nostre lingue moderne
non abbiamo parole per esprimere esattamente questa nozione
fondamentale; è necessario perciò mantenere «abito», anche se si
eviterà di tradurlo con «abitudine», giacché quest’ultimo termine
suggerisce piuttosto il contrario. Mentre l’abitudine è un meccanismo
593 A. PLÉ, nota alla I H, q. 24, THOMAS D’AQUIN, Somme
théologique, Parigi 1984, t. 2, p. 182, n. 3.
594 Cf. 0 nostro capitolo I, p. 22.
300
fermo, incapace di rinnovarsi, l’abito è al
contrario una capacità d’adattamento e di superamento sempre
nuova, che perfeziona la facoltà in cui nasce e le dà una perfetta
libertà di esercizio, fonte di un autentico diletto nell’agire. L’abito è
così il segno e l’espressione del pieno sviluppo della natura in una
certa direzione.
Si parlerà quindi di abito a proposito della maestria di un
artigiano o di un artista, la cui abilità tecnica confonde chi non la
possiede; il termine però conviene anche per designare delle qualità
proprie dell’intelligenza o della volontà. La scienza è così un abito
dell’intelligenza che procede dalla capacità propria dell’uomo di
apprendere e di dominare progressivamente le conoscenze di un dato
campo, sicché si qualificherà sapiente colui che possederà l’abito
corrispondente a tale campo di sapere. Ed egli sarà tanto più sapiente
quanto più perfettamente lo possederà, potendo penetrare così, quasi
giocando, in campi inaccessibili a coloro che non hanno quest’abito.
E proprio questa categoria che Tommaso impiega per spiegare
quel che è una virtù. Non è un peso imposto alla natura per domarla
suo malgrado a forza di ordini e di precetti che essa non potrebbe che
rifiutare, ma un perfezionamento supplementare che va nella linea
del suo vero compimento in quanto, a causa della sua creazione da
parte di Dio, la natura è già necessariamente orientata verso il bene.
Così mediante i suoi abiti virtuosi la persona è meglio ordinata verso
la beatitudine che costituisce il suo fine ultimo. Dedicandosi a
modificare il suo agire, in particolare nel campo istintivo delle
passioni le cui spinte divergenti rischiano di distruggerlo, l’uomo
riprende così in sé l’opera di Dio per condurre a termine
l’umanizzazione più perfetta possibile del suo essere mediante l’uso
della sua libertà. La natura umana non è pienamente se stessa se non
dopo essere stata educata e questo si ottiene precisamente con
l’impiego degli abiti buoni che chiamiamo «virtù»595.
595 Si possono avere anche degli abiti cattivi (vizi, peccati abituali) che, pur
sviluppando nella loro propria linea l’abilità perfettiva implicata nella nozione di
abito, si esercitano in una linea deviata rispetto al fine ultimo e quindi se ne
allontanano. Possiamo lasciare qui da parte l’argomento, ma si gradirà forse
conoscere il modo in cui questo aspetto delle cose è trattato nella Prima Secundae:
dopo le passioni (qq. 22- 48), viene il trattato degli abiti (qq. 49-54), poi quello delle
virtù (qq. 55-70), e infine quello dei peccati (qq. 71-89); sono questi che Tommaso
chiama i principi “interni” dell’agire umano; egli conosce anche dei principi
“esterni” che sono da una parte Dio stesso, che ci aiuta ad agire rettamente
istruendoci mediante la legge (qq. 90-108) e sostenendoci con la grazia (qq. 109-114),
301
Si comprende meglio allora la definizione che Tommaso
riprende volentieri: la virtù è un abito operativo buono, che rende
buono colui che lo possiede e buona l’opera che compie596. Questa
ripetizione insistente dello stesso aggettivo non è semplice
ridondanza: quest’abito orientato verso l’azione (operativo)
dev’essere buono, in quanto esistono abiti cattivi (i vizi); esso deve
permettere di compiere un’opera tanto buona o bella quanto è
possibile nel suo genere, poiché questa agilità superiore è legata alla
nozione stessa di abito; la virtù però possiede in più la singolarità di
rendere buono colui che l’esercita. Quest’ultima caratteristica è
essenziale per distinguere la virtù da ogni altro tipo di abito
operativo. Si capirà meglio stabilendo un parallelo tra l’arte e la virtù
di prudenza; l’una e l’altra sono delle virtù dell’intelletto pratico e
mirano a far esistere qualcosa. L’arte è necessaria all’artigiano per
realizzare ima bella opera secondo i canoni dell’arte, la prudenza è
necessaria all’uomo virtuoso per compiere una buona azione secondo
la norma del Vangelo. Sicché la loro definizione è quasi simile: l’arte
è la retta ragione, la giusta regola delle opere da realizzare (recta
ratio factibi- lium), la prudenza la retta ragione, la giusta regola degli
atti umani da compiere (recta ratio agibilium). Malgrado queste
somiglianze, la differenza è enorme: «L’arte non è necessaria
all’artigiano per “vivere bene”, ma soltanto per forgiare una buona
opera che duri. Mentre la prudenza è necessaria all’uomo non solo
per diventare buono ma anche per continuare a “vivere bene”»597.
dall’altra il diavolo, che spinge verso il male con la tentazione e di cui ha parlato
altrove molto brevemente (I, q. 114).
596 Cf.I-II, q. 55, a. 3.
597I-II, q. 57, a. 5, adì.
302
dalla volontà»598. Ed è
qui, come si vede, che raggiungiamo il trattato delle passioni, perché
nella misura in cui l’irascibile e il concupiscibile possono essere
volontari per partecipazione, in questa stessa misura potranno essere
la sede di virtù. La temperanza avrà così il compito di disciplinare il
concupiscibile, insegnandogli a resistere a tutto ciò che potrebbe
allontanarlo dal bene mediante l’impulso del piacere facile. La
fortezza avrà al contrario il compito di sostenere l’irascibile e di
aiutarlo ad affrontare l’ostacolo di fronte a tutto ciò che potrebbe
allontanarlo dal bene per timore o debolezza. In entrambi i casi, la
virtù fortifica la persona nel suo legame al bene, mentre il fatto di
cedere all’inclinazione naturale delle sue passioni la condurrebbe alla
dissoluzione.
Si comincia così a vedere come la virtù rende buono colui che
l’esercita. Contribuire a prevenire la disgregazione dell’essere
morale e a unificarlo in profondità fin nelle sue potenze sensibili
rappresenta già ima vittoria. Tuttavia occorre menzionare anche un
altro beneficio che per lo più passa troppo spesso inosservato.
Mentre un agire forzato provoca la tristezza in quanto è il risultato di
una violenza esternamente imposta599 600, l’agire virtuoso è al
contrario fonte di gioia. Questa è la diretta conseguenza della
spigliatezza con cui si utilizza l’abito virtuoso; lungi dal diminuire il
valore dell’atto, il piacere col quale lo si compie ne accresce al
contrario la facilità e il merito: «Più il soggetto opera con piacere,
dato il suo abito virtuoso, più il suo atto sarà piacevole e
meritorio»3S. Come osserva Tommaso con una certa insistenza
commentando Aristotele: «Le azioni compiute virtuosamente sono
naturalmente gradevoli. Bisogna ancora aggiungere che il diletto che
se ne ricava appartiene necessariamente alla virtù ed entra nella sua
definizione. Non si è buoni né virtuosi se non si trova la propria
gioia nel ben agire» 601. Evidentemente siamo molto lontani dal pio
slogan fino a poco tempo fa così diffuso: solo ciò che costa è
meritorio. Da ciò non necessariamente si concluderà che non bisogna
agire per dovere ma soltanto per piacere; è certo però che se si agisce
5981-II, q. 56, a. 3.
599 Cf. Quaestio de uirtutibus, a. 4.
600 Sent. Ili d. 23 q. 1, a. 1 ad 4, Quanto delectabilius operatur propter habi- tum
uirtutis, tanto actus eìus est delectabilior et magis meritorius.
601 Commento all'Etica a Nicomaco I, 13 (1099 a 17), Leon., t. 47/1, p. 47, linee
85-90.
303
con molto amore si troverà la propria gioia. La virtù è incompatibile
con la tristezza 602. Si farà attenzione a non dedurre dalla citazione di
Aristotele che Tommaso non ha altre fonti in questa materia; anzi,
egli ha saputo elaborare un bellissimo commento di un proverbio
citato da san Paolo ai Corinzi (1 Cor 9,7):
«"Dio ama chi dona con gioia”. Eccone il motivo. Colui che
ricompensa, ricompensa ciò che è degno, ossia soltanto gli atti
di virtù. Ora, in un atto virtuoso bisogna considerare due cose:
la specie dell’atto e il modo in cui l’agente lo compie. Ne
deriva che se una di queste due cose non si ritrova in un dato
atto, non si dirà che si tratta realmente (simpliciter) di un atto
virtuoso; così non sarà perfettamente giusto secondo la virtù se
non colui che compie le opere della giustizia con gioia e diletto.
Per gli uomini che vedono soltanto le apparenze, è sufficiente
che l’atto di virtù sia impostato quanto alla sua specie, ma per
Dio che scruta il cuore, ciò non è sufficiente, occorre ancora
che l’atto sia compiuto secondo la giusta maniera, ossia con
gioia e diletto. Perciò Dio approva e ricompensa non “colui
che dà” soltanto, ma colui che dà “con gioia”, non con
tristezza e controvoglia: "Servite il Signore nella gioia” (Sai
99); “Nelle tue offerte mostrati gioioso” (Sir 35, 11); "Che
colui che esercita la misericordia lo faccia con gioia” (Rm 12,
8)»41.
Si può aggiungere qui — ma è lungi dall’essere secondario, e
vedremo ben presto perché - che vi è un uso «intelligente» della virtù
che ne esclude ogni ristrettezza. La virtù non elimina soltanto la
tristezza, ma anche la meschineria. Tra le virtù annesse che fra
Tommaso collega alla virtù di fortezza, si trova ciò che egli chiama
la magnanimità, la grandezza d’animo. Molto poco conosciuta,
poiché non rientra nella catechesi corrente, questa virtù che stabilisce
«la misura della ragione nei grandi onori» riceve nella Somma un
trattamento molto ampio 42 Oltre all’eredità aristotelica (sottomessa
peraltro a seria critica), è la sua estrazione sociale che ha potuto
invitare Tommaso ad approfondire questo tema, non fosse altro che
per proporre ai suoi un codice di comportamento sociale. Per cui non
sarebbe possibile esagerare l’influenza di questo secondo fattore,
poiché non vi è alcun dubbio che Tommaso si fa dell’uomo un’idea a
misura del suo Creatore. Più l’uomo è grande, più lo stezza; così pure
602 Giustamente O.H. PESCH, Tommaso d‘Aquino (qui sopra, nota 29), pp. 235
ss., ha osservato che nessun’altra passione è trattata con tanta ampiezza quanto la tri-
304
Tommaso tratta molto seriamente dell’omonimo peccato: quello che si oppone alla
gioia che viene da Dio è chiamato «accidia», quello che si oppone alla gioia che viene
dal bene del prossimo si chiama «invidia» (cf. II-II, qq. 35-36).
41
In ad 2 Cor. 9,7, lect. 1, n. 332.
42
2-II, qq. 129-133.
è anche Dio. La coscienza della sua piccolezza dinanzi a Dio non
elimina, la coscienza della sua grandezza; per questo l’umiltà
dev’essere accompagnata dalla magnanimità. Per i cristiani, l’umiltà
esercita sì la sua moderazione a tutti i livelli, fino al punto in cui
umiltà e magnanimità confluiscono nella nozione di speranza
teologale (a quale più grande onore si potrebbe aspirare rispetto a
quello di condividere la comunione trinitaria?) 603. Ma resta rilevante
il fatto che la virtù si trovi dalla parte della grandezza e i vizi opposti
si chiamino pusillanimità e meschineria604.
LA VIRTÙ PERFETTA
Con la fortezza e la temperanza abbiamo potuto constatare come
san Tommaso s’impegni a presentare la cristianizzazione dell’uomo
fin nelle sue potenze primordiali dell’affettività. Osservazioni del
genere sarebbero incessantemente riproponibili; non esiste nessun
campo dell’attività umana che non si presti alla comparsa di nuovi
abiti e dunque all’esercizio di virtù. Fortezza e temperanza sono delle
virtù di disciplina personale perché il loro oggetto consiste
nell’assicurare un giusto rapporto della persona alle sue proprie
reazioni affettive, alle sue passioni. Ma non sono che le ultime due
delle virtù dette «cardinali» 605; le prime due virtù che portano questo
nome sono da una parte la prudenza, di cui parleremo ben presto,
dall’altra la giustizia, che ha come preciso oggetto la regolazione
603 Rinviamo qui al capolavoro di R.-A. GAUTHIER, Magnanimité. L’idéal de b
grandeur dans la philosophie pai'enne et dans b théologie chrétienne, «Bibl. (Forniste
27», Paris 1951, pp. 295-371 e soprattutto pp. 443-465.
604 Cf. n-H, q. 133; pusillanimitas porta proprio lo stesso nome sia in
latino che in italiano; seguendo molti altri abbiamo tradotto con «meschineria»
(mesqui- neria in orig.) quella che Tommaso indica come parvificentia [che potremmo
rendere in italiano con «piccineria», n. d. tr. ]. La meschineria si oppone in realtà alla
magnanimità (cf. II-II, qq. 134-135), ma restiamo proprio nella stessa attitudine
d’animo. La vedova del Vangelo (Le 21, 2-4) che offre tutto ciò che possiede agisce
con grandezza; il carattere modesto della sua offerta non muta niente.
605 L’aggettivo «cardinale», come si sa, deriva dal latino cardo (= cardine);
questo significa che l’intera vita morale ruota intorno a queste quattro virtù di base,
che reggono così anche i campi maggiori della vita umana e cristiana.
305
obiettiva delle operazioni della persona non più in rapporto a se
stessa, ma in rapporto a ciò che deve agli altri, sia alle persone sia alla
società. Ne riparleremo nel capitolo seguente dove tratteremo
maggiormente della dimensione sociale dell’essere umano.
Se queste quattro virtù morali con i loro annessi costituiscono
un dato umano universalmente valido (ragion per cui abbiamo
iniziato con esse), tuttavia non sono le uniche che il teologo conosce.
Se l’uomo non avesse altra vocazione che quella di un essere
abbandonato alle sue sole forze naturali, queste indubbiamente
sarebbero state sufficienti ad assicurare la sua realizzazione personale
e comunitaria. La rivelazione cristiana c’insegna però che siamo
chiamati a una beatitudine che supera le capacità dell’uomo e che
Dio vi ha per così dire adattato la natura umana rendendola
«partecipe della natura divina» (cf. 1 Pt 1, 4). Allo stesso tempo egli
ci ha dato nuovi abiti virtuosi proporzionati a questo fine
soprannaturale, affinché fossimo convenientemente equipaggiati per
giungervi. Si tratta dunque delle virtù «teologali», dette così per tre
motivi: primo, perché hanno direttamente Dio (theos) per oggetto;
secondo, perché egli ne è l’unica causa (secondo il termine tecnico,
esse sono «infuse» in noi soltanto da lui); terzo, perché non ne
conosciamo l’esistenza se non mediante la rivelazione divina nella
Sacra Scrittura606.
Tutto il nostro sforzo in questo libro è così chiaramente
collocato sotto il segno della vita teologale che non ci sarebbe
bisogno di soffermarci qui su questo aspetto 607. Si osserverà tuttavia
all’occasione che se il Maestro d’Aquino tratta dettagliatamente delle
virtù teologali soltanto nella Secunda Secundae, il semplice fatto che
ne sottolinei ivi la loro necessità, mostra proprio che la sua
intenzione nella Prima Secundae non è mai stata quella di riprendere
in se stesse le strutture di una morale ereditata dall’antichità pagana,
come a volte gli si rimprovera. Come ovunque d’altronde, tutto ciò
che egli deve ad Aristotele o a vari pensatori, stoici o d’altro genere,
è radicalmente trasformato, per non dire sovvertito dall’interno, per il
semplice fatto dell’identificazione con il Dio di Gesù Cristo del Bene
6121-II, q. 58, a. 4.
613551-II, q. 58, a. 4 ad 2.
614 Tommaso evidentemente ci pensa, cf. I-II, q. 58, a. 2 et ad 2, come pure q.
58, a. 4 ad 3.
309
virtù morale s’identifichi con la regola della ragione, Tommaso non
vuole nemmeno che si riduca la virtù ad un’inclinazione al bene
puramente irrazionale; essa si potrebbe rivelare tanto più pericolosa
quanto più sarebbe forte. «Perciò la virtù morale non solo segue “la
retta ragione”, nel senso che
inclina a ciò che è conforme a questa regola, come hanno affermato i
platonici, ma si richiede inoltre che essa sia “accompagnata dalla
ragione”, come vuole Aristotele»615.
Ancora una volta è dunque la forte visione dell’unità
sostanziale dell’uomo che si esprime così: come questi non è
un’intelligenza più o meno accidentalmente unita all’animalità della
sua natura, così, a maggior ragione, non è pura volontà senza
intelligenza né viceversa. Soltanto questa luce permette di
comprendere il posto centrale che Tommaso accorda alla prudenza e
che egli esprime nella tesi fondamentale dell’armonia delle virtù, o,
come afferma nel suo linguaggio, della loro «connessione» sotto
l’egida della prudenza: «Non può esserci nessuna virtù morale senza
la prudenza... Similmente non ci può essere la prudenza senza le
virtù morali». Il motivo è lo stesso offerto precedente- mente: se le
virtù ci orientano rettamente verso il fine, è alla prudenza che spetta
scegliere i giusti mezzi in vista del fine616.
In verità, la tesi in se stessa non è nuova e Tommaso la eredita
da una tradizione patristica che san Gregorio già enunciava: «Le
virtù non possono essere perfette se sono disgiunte: infatti la
prudenza non è autentica se non è giusta, temperante e forte» 617. La
novità risiede qui nell’esigenza e dunque anche nella forza
dell’elaborazione. Abbiamo appena dimostrato che la virtù «rende
buono» colui che la possiede; diremmo che costruisce l’essere
virtuoso. Ma questo non è possibile se non perché è il soggetto stesso
che agisce con le sue virtù, cosicché lungi dall’ignorarsi, esse
interferiscono nelle loro azioni e si aiutano l’una con l’altra, ciascuna
avendo bisogno dell’altra per raggiungere il proprio scopo. Per
riprendere un’immagine già utilizzata, ciascuna virtù può essere
paragonata agli strumenti di un’orchestra la cui armonizzazione è
precisamente l’opera della prudenza. L’unificazione dell’essere sotto
l’impulso di una virtù maggiore risponde infatti a una provocazione
615 I-II, q. 58, a. 4 ad 3.
616561-II, q. 65, a. 1.
617 Moralia in Job XXII1, 2 (CCSL 143 A, pp. 1092-1093; PL 76, 212), citato inl-
II, q. 65, a. 1.
310
nata da un fatto d’esperienza: le passioni sono esse stesse legate tra
di loro, «poiché tutte le passioni derivano da alcune che sono
principali, ossia l’amore e l’odio, e sfociano in altre, cioè il piacere e
la tristezza. Parimenti, tutte le operazioni che sono materia della virtù
morale hanno un legame tra loro e
anche con le passioni. Perciò tutta la materia delle virtù morali ricade
sotto un’unica nozione di prudenza» 618.
PRUDENZA E CARITÀ
618I-n, q. 65, a. 1 ad 3.
619I-H, q. 65, a. 2.
620I-II, q. 65, a. 3.
311
bisogna fraintendere. Essa non vuole dire che le virtù infuse ci
dispensano da ogni sforzo o che esse si praticano senza difficoltà.
Niente di più estraneo al pensiero tomasiano che un quietismo di
bassa lega; il dono della grazia esige
sempre la collaborazione dell’uomo. Si può avere in germe l’abito di
una virtù e non servirsene, o almeno non facilmente. Ma in questa
prospettiva fondamentalmente unificata che presiede alla concezione
dell’uomo secondo Tommaso, ciò significa proprio che con la carità
ci sono dati i mezzi di cui essa ha bisogno e che perdere la carità
significa perdere contemporaneamente tutti questi mezzi.
Non possiamo inoltrarci molto di più nella questione della
connessione delle virtù teologali che Tommaso abbozza in seguito a
quella delle virtù morali; la riprenderemo più ampiamente in un
capitolo seguente. Qui bisogna semplicemente osservare che la
collocazione della carità al vertice dell’organismo virtuoso e la
precisazione che la beatitudine consiste nella comunione con Dio,
trasformano insieme la nozione astratta di fine ultimo di cui egli si
era servito fino a quel momento per comodità di elaborazione
sintetica. Questa nozione riceve ormai il suo contenuto più concreto:
la vita nell’intimità con Dio promessa da tanti testi biblici. Ma dato
che restiamo nel trattato delle virtù, ossia in una prospettiva
d’escatologia in via di realizzazione, occorre nuovamente
sottolineare il fatto che Tommaso ricorda anche che si tratta qui di
una consumazione da realizzarsi ancora. Dal radicamento carnale del
nostro punto di partenza, al momento in cui «gli saremo simili poiché
lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2), il cammino passa
attraverso una lunga conquista, quella della spontaneità dei nostri
abiti virtuosi.
312
XII
Senza amici, chi vorrebbe vivere?
621 Si sa che Aristotele ha consacrato all’amicizia due interi libri della sua
Etica a Nicomaco (libri VIH e IX, 1155-1172), che san Tommaso ha interamente
commentato (Leon., t. 47/2, pp. 442-549) e dai quali ha ripreso numerosi elementi
impiegati nelle sue opere; per la citazione vedere libro Vili, 1, pp. 442-444.
622 J. TRICOT, ARISTOTE, Ethique à Nicomaque. Nouvelle traduction, avec
introduction, notes et index («Bibliothèque des textes philosophiques»), Paris 1959, p.
381.
623 Poiché non riparleremo della relazione interpersonale, rinviamo fin
d’ora a due studi in cui è descritta la posizione di Tommaso con equilibrio e
acutezza: W.H. PRINCIPE, Affectivity and the Heart in Thomas Aquinas’ Spirituality, in
Spiritualities of the Heart. Approaches to Personal Wholeness in Christian Tradition,
313
poi traduciamo con «amicizia». Se per lui il termine conserva tutte le
risonanze di cui l’aveva caricato Aristotele, esso ne riveste anche
altre provenienti dalla tradizione latina (Cicerone soprattutto) riletta
dai monaci del XII secolo, san Bernardo per primo 4. Anzi, egli stesso
farà subire al termine un vero cambiamento definendo la carità
un’amicizia tra Dio e l’uomo. È vero però che l’autorità a cui ci si
riferisce in questo caso non è più Aristotele, ma san Giovanni (15,
15): «Non vi chiamo più servi, ma amici». Se il Filosofo continua a
fornire la struttura della definizione, tuttavia i suoi elementi sono
completamente trasformati poiché il bene intorno al quale si
stabilisce questa comunione tra Dio e gli uomini, e tra gli uomini
stessi, è la vita divina comunicata mediante la grazia 5.
Collocare questo capitolo sotto il segno dell’amicizia significa
allora aprire alle nostre considerazioni un campo estremamente vasto
che non potrà essere sfruttato a fondo, ma che occorre almeno
segnalare dato che con la natura sociale dell’uomo tocchiamo un
aspetto fondamentale della vita spirituale alla scuola di san
Tommaso. Costui non pensa mai l’uomo in quei termini
individualistici che sono prevalsi nella nostra civiltà occidentale fin
dal Rinascimento e dalla Riforma. Egli lo considera sempre come un
essere impegnato nella comunità dei salvati, indifferentemente
chiamata ecclesia o populus, comunità dei fedeli di Cristo
(congregano fidelium), comunione dei santi (societas sanctorum) o
Corpo mistico di Cristo - senza mai sradicarlo, certo, dalla grande
famiglia umana di cui è membro per nascita.
Nella prospettiva aperta dal nostro capitolo sui valori della
creazione, ci si atterrà quindi maggiormente all’aspetto sociale
dell’amici-
A. CALLAHAN (ed.), New York/Mahwah 1990, pp. 45-63; Loving Friendship According
to Thomas Aquinas, in The Nature and Pursuit of Love. The Philosophy oflrving Singer,
D. GoiCOECHEA (ed.), Amherst, NY 1995, pp. 128-141.
4
J. MCEVOY, Amitié, attirance et amour chez S. Thomas d’Aquin, RPL 91 (1993)
383-408, fa notare (p. 399) che né il De amicitia di Cicerone, né l’opera di
Aelredo di Rievaulx sono mai citati da Tommaso; è possibile che egli non abbia
nemmeno conosciuto il secondo, a causa del cambiamento d’interesse provocato
dalla massiccia introduzione di Aristotele nel secolo XIII.
5
Vedi II-II, q. 23, a. 1; l’Etica a Nicomaco non è citata meno di cinque
volte in questo articolo; oltre a san Giovanni, Tommaso si richiama a san Paolo
il Cor 1, 9) per riprendere da lui il vocabolario di cui ha bisogno per esprimere la
communi- catio tipica della carità: «E fedele il Dio dal quale siete stati chiamati
314
alla comunione del Figlio suo»; la societas della Volgata traduce, come si sa, la
koinònia di Paolo e di Aristotele.
zia. Il grande principio secondo cui la grazia non distrugge la natura
ma la guarisce e la conduce alla sua piena realizzazione, trova anche
qui la sua applicazione. Se si vuol seguire san Tommaso ed essere
fedeli alla sua concezione dell’uomo nella sua interezza, non è
possibile prescindere dal fatto che la società in cui la persona umana
è chiamata a realizzarsi non è soltanto la Chiesa come luogo di
salvezza, ma sono anche le diverse comunità umane nelle quali essa
è implicata. E non solo la famiglia, di cui si è già molto parlato in
teologia spirituale, ma ancor più la città terrena la cui importanza non
è minore e di cui tuttavia si parla meno, mentre le sue leggi possono
facilitare in misura considerevole la buona vita cristiana o al
contrario ostacolarla in maniera decisiva - non fosse altro che per la
formazione delle mentalità.
Di primo acchito, questa questione potrà sembrare un po’ fuori
luogo nella prospettiva di una teologia spirituale. Eppure non lo è. Se
è vero che il destino dell’uomo può compiersi definitivamente in Dio
solo, è altrettanto vero che tale uomo noti raggiunge il suo fine
ultimo se non in seno ad una comunità (famiglia, società, Chiesa), e
che esiste per lui un modo di comportarsi all’interno di questa
comunità che può rivelarsi più o meno coerente con la sua profonda
natura. Certamente non tutti i cristiani sono chiamati ad impegnarsi
allo stesso modo socialmente o politicamente al servizio dei loro
fratelli, ma nessuno è dispensato dal partecipare alla vita dello Stato -
non fosse altro che mediante l’esercizio del suo diritto di voto 624 -, e
Tommaso a questo proposito ha da dire a ciascuno qualcosa. Come
tanti pensatori successivi a sant’Agostino, egli considera il cristiano
come membro di due città, ma, ancor meglio di molti tra questi, egli
sa rispettare la finalità propria della città terrena e collegarla alla
natura stessa dell’uomo. Ha un modo di distinguere tra temporale e
spirituale che può ancora aiutare ad evitare le possibili interferenze di
cui molti secoli hanno sofferto. Vi è in lui un’etica sociale e politica
strettamente legata alla sua concezione della morale personale -
come dire alla sua spiritualità — che trova la sua espressione perfino
nel modo in cui concepisce il posto del cristiano nella Chiesa e la
624 Si possono citare molti casi che non possono lasciare indifferente alcun
cristiano, nemmeno se vivesse in un monastero; si pensi soltanto alla difesa della
vita e alla lotta contro le legislazioni che favoriscono l’aborto, al rifiuto
dell’esclusione sociale, al contributo per sostenere la pace, ecc.
315
partecipazione di tutti al governo dello Stato. Sono questi i temi che
saranno proposti alla meditazione nelle pagine seguenti.
316
UN ANIMALE «POLITICO»
«animai politicum et
proprio politicum.
318
sodale» n. Sei primi due termini si spiegano facilmente mediante le
differenti traduzioni che aveva a portata di mano, il terzo, molto
spesso usato da solo 629 630, sembra corrispondere proprio a una scelta
personale e rivela un’altra influenza, diversa da quella di Aristotele.
Sodale traduce infatti koinònikon, termine di cui si servivano gli
stoici per dire che l’uomo non è soltanto cittadino di un’unica città,
ma delYoikoumenè, il mondo allora abitato. Ciò che oggi si potrebbe
tradurre con «cittadino del mondo» 631. In effetti la città, la polis di
Aristotele ha un orizzonte molto più stretto agli occhi di un cristiano
- schiavi e donne ne erano esclusi -. Eppure, senza trasformarli in
cristiani, Tommaso poteva sentirsi più a suo agio con
l’universalismo professato dagli stoici.
Preceduta dalla comunità coniugale - in quanto la prima di tutte
le associazioni è quella dell’uomo e della donna - e da quella
domestica - giacché la famiglia segue immediatamente l’unione
dell’uomo e della donna -, la comunità politica, che rappresenta così
un ulteriore stadio della vita dell’uomo in società, è prima per natura.
Perciò le sono sottomesse le comunità ad essa anteriori senza però
eliminarle perché, sebbene in minor misura, esse sono testimoni di
ciò che ha spinto gli uomini a vivere insieme e che Tommaso, al
seguito di Aristotele, così esprime nel suo linguaggio:
«Vediamo infatti che se alcuni animali hanno la voce o il verso
(uox), soltanto l’uomo ha il linguaggio (locutio) [...]. La parola
umana serve ai esprimere ciò che è utile e ciò che è nocivo, e
quindi anche il giusto e l’ingiusto. Giustizia e ingiustizia
consistono nel fatto che alcuni si adattano o no in materia di
utilità o di nocività. Perciò la parola è propria degli uomini
perché, rispetto agli animali, è loro propria caratteristica
avere la conoscenza del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto, e altre
629 Così in SCG IH 85, n. 2607; I-II, q. 72, a. 4; Expositio libri
Peryermenias 1,2, Leon. t. 1*1, p. 9 (importante nota di R.-A. Gauthier).
630 Lo si incontra circa venti volte, soprattutto in SCG III 117, n. 2897; 128,
n. 3001; 129, n. 3013; ecc.; I, q. 96, a. 4; I-II, q. 95, a. 4; II-II, q. 109, a. 3 ad 1; q.
114, a. 2 ad 1; IH, q. 65, a. 1; ecc.
631 Cf. E. BRÉHIER, Chrysippe et l’ancien stoïcisme, Paris 1951, pp.
259-270: «La société»; ID., «Préface», a Les Stoïciens («La Pléiade»), Paris 1962,
p. XXX: «...gli Stoici sono i primi ad attribuire, tra le inclinazioni naturali, (un
posto) all’altruismo, che nasce nell’inclinazione familiare e . . . si estende
progressivamente fino alla società universale: questo è il cosmopolitismo del saggio
stoico il quale è un cittadino del mondo. Non è in una città chiusa, ma in seno
all’umanità che l’uomo si realizza».
319
realtà di questo genere che possono essere espresse dalla
parola (sermo). Dunque, poiché la parola è stata data all’uomo
dalla natura ed è finalizzata a permettere la “comunicazione”
tra gli uomini circa l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, e
altri valori simili, ne consegue - dato che la natura non fa
niente invano - che è naturale agli uomini “comunicare” tra di
loro su queste realtà. Ora, è precisamente il “comunicare” in
questi valori che costituisce la famiglia e la città; perciò l’uomo
è per natura un essere domestico e politico»632.
658II-n, q. 58, a. 9 ad 3.
659II-II, q. 47, a. 10 ad 2; è molto sorprendente constatare anche qui ciò che
Tommaso ha ricevuto dallo stoicismo, cf. CiCÉRON, De finibus honorum et malorum III 19
(ed. CH. APPUHN, Paris 1938, p. 235; cf. M.T. CICERONE, Il sommo bene e il sommo male,
Milano 1992, pp. 195-197): «Una benevolenza reciproca tra gli uomini è d’istituzione
naturale; un uomo, in quanto tale, non dev’essere un estraneo per il suo simile... Per
natura noi siamo destinati a formare dei gruppi, delle assemblee, delle città. Gli Stoici
credono che il mondo è retto dalla volontà degli dèi, che esso è in qualche modo il
luogo, la città comune degli uomini e degli dèi, e che ciascuno di noi è una parte di
questo tutto che è il mondo. Da ciò proviene il fatto che è conforme alla natura il porre il
bene comune al di sopra del nostro proprio bene. Come le leggi subordinano la salvezza
degli individui a quella di tutti, così il buon cittadino, il sapiente, colui che obbedisce
alle leggi, che è cosciente dei suoi doveri civili, si preoccupa più del bene comune che
di quello di un altro uomo o del proprio».
660 II-II, q. 64, a. 5; cf. q. 64, a. 2: «ogni singolare persona si comporta nei
confronti della comunità come una parte nei confronti del tutto»; cf. I, q. 61, a. 3; II-
II, q. 26, a. 3; ecc.
661 Sententia libri Ethicorum I, 2 (1094 b 10), Leon,, t. 47/1, p. 9; cf. II-II, q.
99, a. 1 ad 1; ci si potrà riferire qui agli studi fondamentali di I.TH. ESCHMANN, A
Thomistic Glossary on thè Principle of thè Preeminence of a Common Good, MS 5
(1943) 123-165 (dopo un’introduzione storica molto documentata, l’autore ha
riportato un insieme di 204 testi tomasiani che esprimono questa superiorità del
bene comune sul bene privato); Io., «Bonum commune melius est quam bonum
unius». Bine Stadie über den W’ertvorrang des Personalen bei Thomas von Aquin, MS
328
quest’affermazione che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro è
comprensibile fintantoché ci si attiene al solo livello naturale;
quando si tratta però del rapporto della persona con Dio, Tommaso
usa un tutt’altro linguaggio. Tuttavia se ne comprende molto meglio
la portata se ci si ricorda della sua intenzione propria di teologo che
non prescinde mai dal fine ultimo. Perfino i testi più apparentemente
«sociologici» non possono esserne isolati e così Dio appare per ciò
che egli è, ossia il vero bene comune ultimo al quale vengono
subordinati tutti gli altri:
«Il bene particolare è ordinato al bene comune come al suo
fine, poiché l’esistenza della parte è per l’esistenza del tutto.
Cosicché “il bene della collettività è più divino del bene di un
individuo’’. Ora, il sommo bene che è Dio è un bene comune,
poiché da lui dipende il bene di tutti. Infatti, il bene per cui
qualsiasi essere è buono, è un bene particolare di esso e di
quanto da esso dipende. Quindi tutte le cose sono ordinate
come al loro fine a quell’unico bene che è Dio»662.
In seguito dovremo riparlare di questo rapporto della persona
con la collettività, ma bisogna ancora aggiungere qui che se
l’organizzazione della comunità esige un corpo di leggi al servizio
del bene comune, essa necessita anche di un’autorità incaricata di
promuoverla. Questo non è da comprendere come un’infausta
necessità derivante dalla cattiveria de-
gli uomini, ma proprio come un’esigenza legata alla natura dell’uomo
e che sarebbe esistita anche se l’uomo non avesse peccato:
«[Ci sono due modi di “dominare” (dominium), spiega
Tommaso: uno, nei confronti degli schiavi considerati come
beni del padrone; l’altro, nei confronti delle persone libere.] Si
può esercitare il dominio su un altro come persona libera
6 (1944) 62-120 (lo scopo di questo secondo scritto è ben riassunto dal contrasto
espresso nel titolo: questa superiorità del bene comune non attenta al primato della
persona umana). Più accessibile è l’opera di J. MARITAIN, La personne et le bien
commun, Paris 1947; J. MARTINEZ BARRERA, Sur la finalité en politique: la question
du bien commun selon saint Thomas, in Finalité et intentionnalité: Doctrine thomiste
et perspectives modernes. Actes du Colloque de Louvain-la-Neuve et Louvain, 21-23
mai 1990, J. FOLLON - J. MCEVOY (edd.), Louvain-Paris 1992, pp. 148- 161; si potrà
proseguire con il medesimo autore: De l’ordre politique chez saint Thomas d’Aquin,
in Actualité de la pensée médiévale, J. FOLLON - J. MCEVOY (edd.), Louvain-Paris
1994, pp. 247-267.
662SCGnil7.
329
quando si dirige costui verso il proprio bene o verso il bene
comune. E tale dominio di un uomo sull’altro si sarebbe
verificato anche nello stato di innocenza per due motivi. Primo,
perché l’uomo è per natura un animale sociale: sicché gli
uomini nello stato di innocenza avrebbero vissuto in società. Ma
non può esserci vita sociale in una moltitudine senza il comando
di uno, il quale abbia di mira il bene comune; poiché di suo una
pluralità di persone ha di mira una pluralità di scopi, mentre un
individuo mira a un unico scopo. Perciò il Filosofo afferma
all’inizio della Politica: “In ogni pluralità di cose dirette a un
fine, se ne trova sempre una che ha funzione direttiva e
principale”.. .»663.
La necessità di un’autorità incaricata del bene comune è
anch’essa uno dei grandi principi della «sociologia» del Maestro
d’Aquino, ma non è affatto necessario insistervi maggiormente in
quanto in seguito riparleremo del governo dell’uomo mediante
l’uomo. Bisogna invece notare quanta cura Tommaso impiega nel
salvaguardare la libertà delle persone nella società. Se il paragone del
tutto e della parte poteva far temere che questa dimensione venisse
persa di vista, questo semplice richiamo di una evidenza basta a
mostrare che non è così: un uomo libero non è una volgare cosa.
Nella situazione concreta che conosciamo, il cristiano dipende
da due grandi società: la Chiesa, alla quale appartiene in forza del suo
battesimo e la città terrena, di cui è membro per nascita. E ben noto il
fatto che Tommaso d’Aquino non ha scritto nessun libro sulla Chiesa,
né le ha inoltre consacrato qualche trattato speciale della Somma. Di
ciò si è rimasti un po’ sorpresi nel XX secolo. Diversi studi sono stati
consacrati a dimostrare che egli non ha evidentemente ignorato
questa realtà cristiana per eccellenza e che, se la Chiesa non appare in
nessun luogo in maniera speciale, è perché essa in realtà appare
dappertutto nel movimento di ritorno dell’uomo verso Dio 664.
Altrettanto si può dire quasi della comunità politica. Se Tommaso ha
tentato di scrivere un De regno come pure un commento alla Politica
673 Cf. Sent. IV, d. 17, q. 3, a. 1 sol. 5; d. 18, q. 1, a. 1 sol. 1; I, q. 92, a. 3; HI,
q. 64, a. 2 ad 3; ecc.
674 Tra tanti altri testi, citiamo questo che è chiaramente esplicito, HI, q.
80, a. 4: «La realtà (la res) procurata da questo sacramento è duplice: quella che
esso significa e comprende, ossia Cristo stesso; l’altra, significata senza essere
contenuta, che è il corpo mistico di Cristo, la comunione dei santi»-, cf. Ili, q. 60, a. 3
se.; q. 73, a. 6; va ricordato che «significare» in questo contesto ha certamente il
senso sacramentale di «segno efficace»: il sacramento realizza ciò che significa.
Questo tema è stato ben studiato: oltre al commento di A.-M. K.OGUET, in SAINT THOMAS
D’AQUIN, L’eucharistie («Revue des Jeunes»), 2 tt., Paris 1959 e 1967, si veda il recente
studio di M. MORARD, L’eucharistie, clé de voùte de l'organisme sacramen- tel chez saint
Thomas d’Aquin, RT 95 (1995) 217-250.
675 Cf. il nostro capitolo XIV: «Degli itinerari verso Dio».
676 III, q. 65, a. 1; Tommaso sembra essersi particolarmente interessato a
questa analogia, dato che ne ha trattato a varie riprese prima di darle la sua forma
definitiva; in questo senso si può vedere Sent. IV, d. 2, q. 1, a. 2, dove la prospettiva
medicinale di guarigione dal peccato è posta in primo piano; SCG IV 58, dove il
parallelo corporale-spirituale fa la sua comparsa, anche se in modo più breve; De
articulis fidei et ecclesiae sacramentis 2, Leon., t. 42, pp. 252-253, dove siamo ormai
molto vicini alla Somma. E interessante notare come, mentre i teologi del suo tempo
cercano di
336
secondo la lettera agli Ebrei (7, 27), i sacerdoti non offrono il'
sacrificio soltanto per essi, ma per tutto il popolo. Poi, giacché questo
perfezionamento sociale è raggiunto tramite la propagazione naturale
della specie, l’uomo è qui perfezionato mediante il matrimonio sia
nella vita corporea che in quella spirituale; infatti il matrimonio
prima di essere un sacramento è prima di tutto un’istituzione
naturale.
Tommaso scorge anche un’altra relazione tra organismo
sacramentale e corpo ecclesiale: i sacramenti sono il fondamento
della legge nella Chiesa61, ma qui entriamo in un campo molto più
vasto che non rientra nel nostro scopo 62. In compenso, occorre
ancora trarre alarne conseguenze dal radicamento temporale della
comunità ecclesiale, poiché esse implicano delle ripercussioni dirette
per la vita del cristiano in questo mondo.
SPIRITUALE E TEMPORALE
73
II-II, q. 104, a. 6; si noterà l’ad 3 in cui Tordo iustitiae appare come il
fondamento stesso di tale obbedienza al principe; se costui si trovasse in rottura
rispetto a quest’ordine, i suoi sudditi sarebbero liberati dal loro dovere
d’obbedienza nei suoi confronti; si veda anche l’articolo precedente, q. 104, a. 5:
l’uomo deve un’obbedienza assoluta soltanto a Dio.
74
Soprattutto in Bonaventura e Alberto Magno, che restano tributari
dell’equivalenza ecclesia-christianitas, ricevuta dall’Alto Medioevo, con i
permanenti rischi contrari di ierocratismo o cesaropapismo che l’accompagnano; cf.
a tal proposito i testi citati da I.TH. ESCHMANN, St. Thomas Aquinas on thè Two
Powers, MS 20 (1958) 177-205, spec. 192-193.
75
Piuttosto che Eschmann, citato nella nota precedente, si veda qui lo studio
di L.E. BOYLE, The De Regno and thè Two Powers, in ID., Pastoral Care, Clerical
Education ad Canon Law, 1200-1400, London 1981, e L.P. FITZGERALD, St. Thomas
Aquinas and thè Two Powers, «Angelicum» 56 (1979) 555-556. In senso opposto alla
posizione qui adottata, cf. W.J. HANKEY, «Dionysius dixit, lex divinatis est ultima per
media reducere». Aquinas, Hierocracy and thè «Augustinisme politique», in Tommaso
dAquino. Proposte nuove di lettura, a cura di I. TOLOMIO (= Medioevo 18, 1992),
Padova 1992, pp. 119-150; nonostante la ricchezza della documentazione
bibliografica di questo studio, molti testi citati qui sopra sembrano essere sfuggiti
all’autore.
76
Cf. per es. Gaudium et spes n. 36, 2: «Se per autonomia delle realtà
terrene intendiamo che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri,
che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di
un’esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma
anche è conforme al volere del Creatore. Infatti è dalla stessa loro condizione di
creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro
341
leggi proprie e il loro ordine».
libertà religiosa 683, quali saranno quelle del Concilio Vaticano II, ma
non vi è alcun dubbio che occorra vedere nella metafisica della
creazione tomasiana l’origine, contemporaneamente lontana.e molto
prossima, di una veduta così chiara di queste realtà complesse.
governo misto è allora preferibile), cf. A. RIKLIN, Die beste politische Ordnung nach
Thomas von Aquirt, St. Gallen 1991, pp. 31-34 (non abbiamo potuto consultare la
ripresa di questo lavoro sotto uno stesso titolo in Politik und christliche Verantioortung,
Festschrift für F.-M. Schmòlz, ed. G. PUTZ - H. DACHS E AL., Innsbruck-Wien 1992, 67-
90); tuttavia ci si può chiedere se questo tipo di lettura è sufficiente; la proposta di M.
Jordan (qui sotto) sembra indicare una soluzione migliore.
689 Si può trasporre alla teologia ciò che altrove è detto della filosofia morale,
Sententia libri Ethicorum, Introduction, Leon., t. 47/1, p. 4: «Si può dividere la filosofia
morale in tre parti. La prima, che è detta “monastica”, considera le azioni dell’uomo
prese individualmente in quanto ordinate al fine. La seconda, detta “economica”,
considera le azioni del gruppo domestico; la terza si occupa della massa civile ed è
detta “politica”».
690 Riassumiamo qui l’essenziale della proposta che ci sembra veramente
nuova e pertinente di M.D. JORDAN, De Regno and thè Piace of Politicai Thinking in
Thomas Aquinas, «Medioevo» 18 (1992) 131-168; il tentativo dij.l. SARAÑYANA,
344
«Propriamente parlando, la legge mira innanzitutto e
principalmente all’ordine in vista del bene comune. Stabilire
quest’ordine in vista del bene comune spetta al popolo intero
(totius multitudinis) o a colui che lo rappresenta (gerentis uicem
totius multitudinis). Perciò il potere di legiferare appartiene sia
all’intero popolo sia al personaggio ufficiale che ne ha la cura
(quae totius multitudinis curam habet). Questo perché, qui come
in tutti gli altri campi, orientare al fine spetta a colui che è
incaricato di questo fine come di qualcosa di proprio»8é.
Così secondo questo testo, non solo il potere legislativo
appartiene alla moltitudine, ma bisogna capire anche che il sovrano
stesso non ha il potere di formulare leggi se non per delega, e
Tommaso lo afferma molto esplicitamente 87. In queste condizioni, non
ci si sorprenderà nell’apprendere che ai suoi occhi la migliore forma di
governo sia quella che egli chiama «mista», giacché è il risultato di un
equilibrio tra le diverse forme di potere descritte da Aristotele.
Essendovi implicati tutti i cittadini, essa è normalmente la più adatta ad
assicurare il buon ordine di questo cammino dell’intero popolo verso il
fine:
En busca de la ciencia politica tomasiana. Sobre el libro IV «De regimine prin- cipum»,
ST 60 (1995) 256-265, che vorrebbe vedere nel supplemento aggiunto da Tolomeo
un’eco delle «conversazioni da tavola» di Tommaso stesso, ci sembra molto meno
probabile.
85
J.M. BLYTHE, The mixed Constitution, p. 556: «Thomas is an unswerving
champion of thè law».
86
1-II, q. 90, a. 3.
87
1-II, q. 97, a. 3 ad 3: «Se si tratta di una società capace di darsi delle leggi,
bisogna contare più sul consenso unanime del popolo per fare osservare una
disposizione resa manifesta dalla consuetudine, che suXIautorità del capo che non ha
il potere di fare delle leggi se non a titolo di rappresentante della collettività. Perciò,
sebbene gli individui non possano istituire leggi, tuttavia l’intero popolo ha questo
potere».
«Due cose si devono tenere presenti circa il buon ordinamento del
governo di una città o di una nazione. La prima è che tutti
partecipino in qualche modo al governo; così infatti, stando al
secondo libro della Politica, si conserva la pace nel popolo e tutti
si sentono impegnati ad amare e difendere codesto ordinamento.
La seconda riguarda la forma di regime o dell’organizzazione dei
poteri; si sa che esistono varie forme di governo, distinte da
Aristotele nel terzo libro della Politica, ma le principali sono la
monarchia, in cui si ha il dominio di uno solo esercitato
onestamente, e l’aristocrazia, ossia il governo dei migliori, in cui
345
si ha l’onesto governo di pochi: Perciò il miglior ordinamento di
governo per una città o un regno è quello alla cui guida è posto, a
causa della sua virtù, un unico capo che ha autorità su tutti,
mentre sotto la sua autorità si trova un certo numero di
subalterni, qualificati per la loro virtù; e tuttavia il potere così
definito appartiene a tutti perché tutti hanno sia la possibilità di
essere eletti, sia quella di essere elettori. E questa è la migliore
forma di governo perché in essa sono debitamente integrate
(politia bene commixta) la monarchia, in quanto c’è la presidenza
di uno solo; l’aristocrazia, in quanto c’è la molteplicità di uomini
eminenti in virtù; infine la democrazia o potere popolare, in
quanto semplici cittadini possono essere scelti come capi e al
popolo spetta la loro elezione» 691.
La volontà d’equilibrio è evidente, ma non è l’unica a giustificare
la preferenza per il regime misto. Come ci si può rendere conto
proseguendo la lettura, Tommaso trae dalla Sacra Scrittura la
convinzione che è proprio questo regime misto che Dio aveva voluto
per il suo Popolo:
«Infatti\ Mosè e i suoi successori governavano il popolo come
capi unici e universali, ciò che è caratteristico della monarchia.
Ma i settanta- due anziani erano eletti a causa del loro merito (cf.
Dt 1, 15)... Ecco l’elemento dell’aristocrazia. Quanto alla
democrazia, essa si concretizzava nel fatto che i capi erano tratti
dall’insieme del popolo (cf. Es 18, 21)... e che il popolo stesso li
designava (cf. Dt 1, 13). Quindi è chiaro che, essendo istituita
dalla legge [divina], questa organizzazione dei poteri era la
migliore» 692.
L’autorità dei Padri della Chiesa viene in aiuto a questo argomento
scritturistico con ima definizione della legge estratta da Isidoro di
Siviglia: «C’è infine un regime misto (commixtum), composto dai
precedenti, e questo è il migliore (optimum); qui si chiama legge “ciò
che gli antichi, d’accordo con il popolo, hanno sanzionato”, come
afferma sant’Isidoro»693.
In tal modo la preoccupazione dell’efficacia di un tale governo
ottenuto con la concentrazione del potere in un piccolo numero non
esclude l’insistenza sulla partecipazione di tutti al governo mediante la
via dell’elezione e dell’eleggibilità di tutti. Domenicano, fra Tommaso
348
dimensione finale 698.
Il fatto che l’amicizia così intesa appaia allora per ciò che essa è,
e cioè un valore escatologico che non sarà pienamente vissuto se non in
patria, non toglie niente alla sua realtà già attuale. Non toglie nulla
nemmeno alla necessità di incarnarla ogni giorno di più tra gli uomini,
poiché, se la carità è un’amicizia, essa vuol far nascere quest’amore
anche là dove esso non è. Ma, ora lo si dovrebbe capire meglio, per
arrivare fino all’estremo di questa esigenza, non è sufficiente applicare
ciò alle relazioni tra persona e persona; si tratta di un compito ecclesiale.
Costruire una società più umana non è il compito di cristiani isolati, è
l’opera dell’intero Corpo di Cristo. Così dunque, quando la Chiesa
interviene per il diritto alla vita, per la giustizia sociale o per la pace nel
mondo, essa testimonia sia la sua fedeltà all’uomo nella sua dimensione
comunitaria, sia la sua fedeltà al messaggio di Cristo, giacché il Vangelo
ha proprio delle ripercussioni politiche e sociali.
In secondo luogo, si trattava di proseguire la riflessione abbozzata
in un capitolo precedente sulle implicazioni dei valori della creazione, in
nome del grande principio secondo cui la grazia non distrugge la natura
ma la perfeziona. Lo scopo non consisteva tanto nello sviluppare tutte le
implicazioni di questo assioma - in realtà soggiacente a molti altri
passaggi di questo libro - quanto nel verificarne la presenza operativa in
tutto il campo dell’agire umano. Secondo Tommaso, la natura non è una
realtà statica ma dinamica; non è dunque completamente se
stessa se non educata. L’uomo naturale non è l’uomo allo stato bruto o
selvaggio, ma l’uomo che si realizza nella linea delle grandi
inclinazioni della sua natura alla ricerca del vero e del bene sotto tutte
le sue forme. E a questo titolo che Tommaso riprende numerosi
elementi della sapienza degli antichi greci o latini, e soprattutto della
loro filosofia morale, personale o politica. La loro assunzione in una
prospettiva cristiana non si realizza senza modificarli profondamente,
ma il patrimonio è nonostante ciò ben acquisito.
La dottrina dell’uomo come essere eminentemente politico e
sociale non costituisce la parte meno preziosa di questa eredità.
Congiunta alle influenze cristiane, anch’esse reperibili, impedirà a
698 Si sarà compreso da quanto precede che risulterebbe difficile per noi
aderire all’opinione di O.H. PESCH, Christian Existence Acccording to Thomas Aquinas,
Toronto 1989, pp. 20-25, secondo il quale il senso profondo della relazione
interpersonale tra Dio e l’uomo avrebbe spinto Tommaso a un certo individualismo
religioso; si potranno leggere alcune informazioni supplementari in J.-P. TOKRELL,
Dimensión ecclésiale de l’expérience chrétienne, FZPT 28 (1981) 3-25.
349
Tommaso di cedere sia alle facilità semplificative di uno spiritualismo
ad oltranza, che non vedrebbe nel mondo se non materia da
disprezzare, sia alla tentazione di ridurre la vita cristiana alla sola
relazione della creatura col suo Creatore. Fondante sotto tutti i punti di
vista, questa prima relazione non impedisce all’essere umano di essere
collocato in un mondo che può richiedere da lui il servizio degli altri
nella collettività. Per scelta personale, Tommaso aveva scelto di
ritirarsi dal secolo, non per questo però l’ignorava. Non è affatto
necessario essere teologo per capire che un cristiano laico può trovare
nei testi che abbiamo appena letto il fondamento e la legittimità di un
impegno attivo nel mondo del suo tempo. Senza pretendere di trovare
in essi tutti gli elementi di una spiritualità dell’impegno temporale, si
può certamente affermare che ne forniscono almeno le basi 96.
XIII
Ciò che vi è di più nobile al mondo
351
Ciò CHE VI È DI PIÙ NOBILE IN TUTTO L’UNIVERSO
1
Cf. BOEZIO, De duabus naturis, cap. 3, PL 64,1343; Tommaso rinvia molto
spesso a questa definizione, soprattutto nei trattati della Trinità e dell’Incarnazione,
cf. per esempio I, q. 29, a. 3 e III, q. 2, a. 2; cf. M. NÉDONCELLE, Les variations de
Boèce sur la personne, RevSR 29 (1955 ) 201-138; M. ELSÄSSER, Das Person-
Verständnis des Boethius, Münster 1973.
2
1, q. 29, a. 3; cf. l’ad 2: «Sussistere in una natura razionale è molto nobile»;
vedi alcuni testi e la riflessione che essi richiedono in S. PiNCKAERS, La dignité de
l’homme selon S. Thomas d’Aquin, in A. HOLDEREGGER - R. IMBACH - R. SUAREZ DE MIGUEL
(edd.), De Dignitate hominis. Mélanges offerts à Carlos-Josaphat Tinto de
Oliveira, Fribourg (Svizzera) 1987, pp. 89-106.
3
III, q. 1, a. 2; vedi anche III, q. 3, a. 8, dove Tommaso spiega che se era
preferibile che fosse il Verbo a incarnarsi, piuttosto che il Padre o lo Spirito Santo,
ciò era dovuto certamente al fatto che il Verbo è causa esemplare della creazione,
ma era dovuto anche «al compimento della perfezione deU’uomo {ad consumma-
tam hominis perfectionem, conueniens fuit ut ipsum Verbum Dei humanae
naturae personaliter uniretur)».
4
Compendium theologiae I, 201: «Era necessario per il genere umano che
Dio si facesse uomo per mostrare la dignità della natura umana»-, cf. anche SCG IV
54, n. 3924: «Questa dignità dell’uomo chiamato a conoscere la beatitudine, Dio l’ha
manifestata nella maniera più adatta, assumendo egli stesso senza intermediari la
natura umana».
5
In questo senso si potranno vedere alcune indicazioni in H. SEIDL, The
Concepì of Person in St. Thomas Aquinas: A Contribution to Recent
Discussion, «The Thomist» 51 (1987) 435 -460, la cui analisi tiene conto anche
352
della tradizione tomistica.
353
«La persona evoca ciò che esiste di più perfetto in tutta la
natura, ossia ciò che sussiste in una natura razionale. Ora,
tutto ciò che dice “perfezione” deve essere attribuito a Dio
perché la sua essenza contiene in sé ogni perfezione. Perciò
conviene attribuire a Dio il nome di “Persona”. Certo, non
allo stesso modo in cui lo si attribuisce alle creature, ma in una
maniera più eccellente, così come accade ogni qualvolta
attribuiamo a Dio altri nomi che noi accordiamo alle creature»
699 700
.
La persona umana si trova così collocata in un registro di
perfezione in cui, mutatis mutandis, il Creatore ha comunicato alla
sua creatura alcune delle sue prerogative. In pratica, l’eccellenza
metafisica della sostanza si coniuga qui con il senso cristiano dello
spirito, e la definizione filosofica riceve in campo cristiano un
significato insospettabile per la pura ragione, poiché ciò significa che
è tramite la sua anima, intelligente e libera a immagine di Dio, che
l’uomo è costituito come persona.
Queste affermazioni così nette pongono indubbiamente degli
interrogativi al lettore che si ricorda ancora dell’esempio della parte e
del tutto, ripetuto così spesso per caratterizzare il posto dell’uomo
nella società. Di fatto, la nozione del rapporto dell’uomo con la
comunità sociale riceve qui un complemento decisivo e una
correzione indispensabile. A dire il vero, Tommaso non perde ciò mai
di vista e lo esprime in vari modi. Sicché la subordinazione della
parte al tutto non avviene in maniera univoca:
«Se un tutto non è fine ultimo, ma a sua volta è ordinato a un
ulteriore fine, l’ultimo fine di una delle sue parti non può
essere il medesimo tutto, bensì qualche altra cosa. Ora, il
complesso delle creature, che sta all’uomo come il tutto alla
parte, non è fine ultimo, ma è ordinato a Dio come a suo ultimo
fine. Dunque non il bene dell’universo, ma Dio stesso è
Vultimo fine dell’uomo»1.
Questo orientamento ultimo costituisce evidentemente la
ragione per la quale la creatura razionale non è una semplice unità
6991, q. 29, a. 3; cf. anche De potentia q. 9, a. 3: «La natura implicata nel
significato del nome di persona è la più degna di tutte le nature, perché è la natura
intellettuale in tutta la sua ampiezza (secundum genus suum). Parimenti, il modo di
esistere che evoca la persona è il più degno di tutti in quanto evoca il modo di esistere
di per sé. E poiché tutto ciò che vi è di più nobile nelle creature dev’essere attribuito
a Dio, il termine “persona” può essere attribuito a Dio in modo “conveniente”, così
come altri nomi che sono detti propriamente di Dio».
354 70011-II, q. 2, a. 8 ad 2.
anonima
persa in una massa indifferenziata, ma forma l’oggetto di
un’attenzione particolare nella maniera in cui Dio governa
l’universo. Tommaso lo spiega con molta chiarezza in ciò che
rappresenta senza dubbio il suo studio più completo e più bello sulla
Provvidenza 701:
«E evidente che la divina Provvidenza si estende a tutti gli
esseri. Tuttavia è necessario notare che, rispetto a tutte le altre
creature, esiste un regime provvidenziale particolare per le
creature intellettive e razionali. Infatti esse superano le altre
creature, sia per la perfezione della loro natura, sia per la
nobiltà del loro fine.
Per la perfezione della loro natura, perché soltanto la creatura
razionale ha il dominio dei propri atti, determinandosi da sola
alla sua operazione; invece le altre creature più che muoversi
sono mosse a operare... Per la nobiltà del loro fine, perché
soltanto la creatura intellettiva raggiunge con la sua
operazione il fine ultimo dell’universo, cioè Dio, conoscendolo
e amandolo; invece le altre creature non possono raggiungerlo
se non mediante una certa partecipazione alla sua
somiglianza»702.
La cosa è ulteriormente sottolineata dal fatto che non sono
soltanto le creature intellettive nella loro generalità ad essere oggetto
di questa particolare Provvidenza, ma ciascuna delle loro singolari
realizzazioni; ogni persona ne costituisce l’oggetto:
«Solo la creatura razionale è guidata da Dio nella sua attività,
non per il solo bene della specie, ma anche per quello degli
individui... La creatura razionale è soggetta alla divina
Provvidenza in quanto è governata e curata per se stessa e non
solo in vista della specie»703.
701 Certamente si tratta di SCG HI 64-163; ma si vedrà anche la
riflessione intrapresa nel commento al libro di Giobbe, su cui si potrà leggere D.
CHARDON- NENS, L’homme sous le regard de la Providence. Providence de Dieu et
condition humaine selon YExposition littérale sur le Livre de Job de Thomas d’Aquin
(«Bi- bliothèque thomiste 30»), Paris 1997.
702 SCG IH 111, n. 2855.
703 SCG IH, 113; le ragioni erano state illustrate nel capitolo
precedente, HI 112, nn. 2859-2860: «Tra gli elementi dell’universo, i più nobili sono
le creature intellettuali [Tommaso pensa qui anche agli angeli, ma ben presto
continua sull’unico registro della creatura razionale]; giacché sono esse che si
avvicinano maggiormente alla somiglianza divina. Le nature intellettuali hanno una
maggiore affinità al tutto rispetto a tutte le altre nature. Infatti ogni sostanza
intellettuale è in qualche modo ogni cosa, dato che la sua intelligenza abbraccia 355
tutto
Ciò si ritrova chiaramente allorquando si tratta di spiegare la
subordinazione ordinata secondo la quale si gerarchizzano tutte le
creature; ancora una volta la creatura razionale riceve una posizione del
tutto particolare:
«...Le creature meno nobili esistono in vista delle più nobili, così
come le creature inferiori all’uomo sono fatte per l’uomo. Inoltre
le singole creature servono alla perfezione dell’universo, il quale,
nel suo complesso e nelle singole parti, è ordinato a Dio, come al
suo fine, poiché risplende in esse una certa immagine della bontà
divina, per la gloria di Dio. Ciò non impedisce, oltre a quanto
abbiamo detto, che le creature razionali abbiano Dio come loro
fine in una maniera speciale perché possono raggiungerlo con la
propria operazione, cioè conoscendolo e amandolo» n.
Tommaso situa quindi la differenza tra l’uomo e il resto
dell’universo sul piano delle opzioni più operative della sua sintesi, la
somiglianza dell’effetto alla sua causa in primo luogo, ma soprattutto
l’immagine di Dio. Soltanto la creatura intellettiva ha questa capacità
di poter conoscere e amare Dio, e quindi di accoglierlo in maniera
cosciente:
«L’universo, per estensione e universalità, è un bene più perfetto
della creatura intellettiva. Ma in intensità e in profondità la
somiglianza con la perfezione divina è più marcata nella creatura
intellettiva, che è capace di possedere il sommo Bene (capax
summi boni)»704 705.
Se dunque la grande legge secondo la quale il bene del tutto è
superiore a quello di uno solo resta valida, essa non è vera se non nella
misura in cui resta nell’ordine di cose paragonabili:
«Il bene dell’universo è più grande del bene particolare di un
individuo se l’uno e l’altro sono dello stesso genere; ma il bene di
un individuo nell’ordine della grazia è superiore al bene naturale
di tutto l’universo» 706.
l’essere, mentre ogni altra sostanza non possiede dell’essere che una partecipazione
limitata. Perciò è “conveniente” che essa sia retta da Dio a beneficio delle sostanze
intellettuali».
7041, q. 65, a. 2.
7051, q. 93, a. 2.
706 I-II, q. 113, a. 9 ad 2; cf. II-II, q. 152, a. 4 ad 3: «Il bene comune è
preferibile al bene privato se è dello stesso genere; ma può accadere che il bene privato
356
sia migliore secondo il suo genere».
Con la grazia, partecipazione alla natura divina, entriamo in tut-
t’altro ordine, la cui grandezza è caratterizzata da Tommaso con una
frase giustamente celebre:
«La giustificazione dell’empio, che ha per termine il bene eterno
della nostra partecipazione divina, è un’opera più grande della
creazione del cielo e della terra, la quale ha come termine un
bene mutevole»707.
Il contesto richiamava in questo caso la giustificazione
dell’empio, ; ma in realtà la verità di questa frase si verifica ogni
qualvolta un uomo perviene alla grazia per la prima volta. Se
l’opposizione tra peccato e vita divina partecipata accentua
ulteriormente lo iato, l’accesso alla vita divina resta ugualmente
invalicabile alle sole forze create, perfino senza il peccato. Non è
dunque un semplice antropocentrismo un po’ ingenuo - l’uomo visto al
centro dell’universo come una volta la terra era vista al centro del
cosmo - che comanda questa concezione della dignità della persona
umana, ma proprio il fatto della sua partecipazione alla vita divina.
Tommaso non poteva affermare qui niente di più forte, ed è ancora
questo che gli permette d’esprimere esattamente il rapporto della
persona con la comunità:
«L’uomo non è ordinato alla comunità politica secondo tutto il
suo essere e tutti i suoi beni... Ma tutto ciò che è, tutto ciò che
ha e tutto ciò che può, l’uomo deve riferirlo a Dio... »708.
La dignità della persona umana si realizza perciò secondo una
duplice direzione: in rapporto all’universo naturale, che essa trascende
sia nel suo aspetto materiale che nella sua organizzazione sociale; in
rapporto a Dio, dal quale riceve tutto ciò che è e tutto ciò che ha, e che
l’invita a condividere la sua propria vita. Al seguito di Maestro
Tommaso, tenteremo di coglierne l’espressione privilegiata in due
realizzazioni maggiori: l’una nel campo morale, in cui l’uomo si
comporta co
707 I-II, q. 113, a. 9; non si può fare a meno qui di pensare a PASCAL,
Pensées, ed. J. CHEVALIER, n. 930, «Plèiade», Paris 1954, p. 1342: «Dall’insieme di tutti
i corpi non si riuscirebbe a ricavare un piccolo pensiero: ciò è impossibile e appartiene
ad un altro ordine. Dall’insieme dei corpi e degli spiriti non si riuscirebbe a ricavare
un movimento di vera carità: ciò è impossibile, appartiene a un altro ordine, quello
soprannaturale».
708 I-II, q. 21, a. 4 ad 3. 357
me un soggetto libero e responsabile secondo la sua coscienza;
l’altra nel campo propriamente teologale, in cui questa dignità
suprema si trova consacrata dall’invito alla comunione che Dio gli
rivolge. Mediante questa comunione già iniziata in questo mondo, la
persona umana si trova perciò collocata in una situazione
d’escatologia in corso di realizzazione.
7091 principali luoghi in cui si troverà la dottrina della coscienza, coniugata a quella
358 della sinderesi, sono i seguenti: Seni. II, d. 24, q. 2, aa. 3-4; d. 39, q. 3, aa. 2-
È necessario innanzitutto ricordarsi di ciò che è stato detto nel
capitolo precedente sulla legge naturale, partecipazione nella creatura
razionale della legge eterna, della Provvidenza divina. Tale partecipazione
si realizza mediante un abito proprio che Tommaso chiama, in; maniera a
noi poco familiare, la «sinderesi». Questo termine, ricevuto da san
Girolamo - che lo definisce «scintilla della coscienza», e di cui afferma
che non si spense nemmeno nel cuore di Caino dopo il suo crimine -, è là
semplice trascrizione probabilmente erronea di un termine greco 17. Se la
designazione si chiarisce in parte grazie alla storia della parola, la
funzione è ancora più importante in quanto è dalla sinderesi che dipende
l’intera vita morale della persona:
i
«Negli atti umani, perché possano avere la rettitudine, è
necessario che vi sia un principio permanente che abbia una
rettitudine immutabile, alla:, luce del quale tutte le opere umane
vengano esaminate, cosicché quel principio permanente resista a
ogni male e dia l’assenso a ogni bene. Questa è la sinderesi, il cui
compito è distogliere dal male e inclinare al bene: e quindi
concediamo che in essa non vi può essere peccato»18.
3; De ueritate, qq. 16-17; I, q. 79, aa. 12-13; I-II, q. 19, aa. 5-6 (coscienza erronea); ci
sono anche il Quodlibet III, q. 12, aa. 1-2 [26-27] (coscienza erronea), e i commenti
scritturistici che citiamo qui di seguito. Per chi volesse proseguire la ricerca, segnaliamo,
tra i numerosi studi, S. PlNCKAERS, Notes et appendices, in S. THOMAS; D’AQUIN, Somme
théologique. Les actes humains, t. II («Revue des Jeunes»), Paris 1966; L. ELDERS, La
doctrine de la conscience de saint Thomas d’Aquin, RT 83 (1983) 533-557, ripreso
in ID., Autour de saint Thomas d'Aquin, t. Il, Paris 1987,; pp. 63-94; T.G. BELMANS, Le
paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, RT 90 (1990) 570-
586 (non senza alcuni eccessi di linguaggio); G. BORGO- NOVO, Sinderesi e coscienza nel
pensiero di san Tommaso d’Aquino, 2 tt., Diss., Fribourg (Svizzera) 1994; più
accessibile: S. PlNCKAERS, La conception chrétienne de la conscience morale, NV
66 (1991) 688-699; ID., La conscience et l’erreur, «Communio» 18 (1993) 23-35.
17
Impiegato per la prima volta da san Girolamo, il termine synderesis è forse
una deformazione di syneidesis, «coscienza»; Tommaso conosce questa origine,: ma
ciononostante distingue «sinderesi» e «coscienza»; per ulteriori dettagli si; possono vedere
alcune pagine di TH. DEMAN, S. Thomas d’Aquin, Somme théologique. La Prudence
(«Revue des Jeunes»), Paris 1949, pp. 430-437; si può proseguire la ricerca con O. LOTTIN,
Syndérèse et conscience au XIIe et XIIIe siècles, in ID., Psychologie et Morale au
XIIe et XIIIe siècles, t. II, Louvain-Gembloux 1948, pp. 103-350; si vedrà anche A.
SOLIGNAC, art. Syndérèse, DS 14 (1990) 1407- 1412, il quale, oltre l’origine del termine,
ricorda la sua utilizzazione nella storia della mistica.
18
De ueritate, q. 16, a. 2.
359
Parallelo dYÌ’intellectus, Yhabitus che coglie intuitivamente i primi
principi della vita intellettiva («l’essere è, il non essere non è»), la sin- ;
deresi costituisce l’habitus che coglie e formula i due grandi principi :
della vita morale che recano in se stessi la loro evidenza: bisogna
compiere il bene e fuggire il male 710. E in questa linea, come abbiamo già
visto, che si collocano le cinque grandi inclinazioni derivanti dalla leg- ;
ge naturale: al bene, alla conservazione nell’essere, all’unione sessuale e :
all’educazione dei figli, alla conoscenza della verità, alla vita sociale 711.
Tuttavia, per quanto importante sia, la comprensione delle intuizioni
primordiali della vita morale e sociale è insufficiente in se stessa. Alcuni
principi del diritto naturale non saranno accessibili se non dopo
un’elaborazione che necessita a volte di una lunga educazione, sia per gli
individui che per l’umanità intera. Per una conoscenza morale che si
voglia direttrice dell’agire, questa conoscenza spontanea dei principi
ultimi richiede inoltre dei prolungamenti e degli adattamenti alle
situazioni concrete. E necessario che la ragione pratica confronti questi
primi dati con tutto ciò ch’essa viene peraltro a conoscere dei dati naturali
ed evangelici che dirigono il campo dell’agire umano e cristiano. Occorre
anche che essa tenga conto della persona impegnata in questa azione
particolare per determinare il modo in cui i principi generali si applicano
qui ed ora712.
È qui che interviene la coscienza morale. Per quanto sorprendente
ciò possa apparire, la coscienza non è ima facoltà né un abito, ma un atto
della ragione pratica713. Si può indubbiamente accettare l’uso corrente che
parla di questo atto a partire dall’abito che permette di porlo, e a questo
punto la sinderesi sarebbe essa stessa questa coscienza «abituale», ma
propriamente parlando la coscienza è un’altra cosa. È l’atto con il quale la
ragione pratica raggruppa tutti i dati a sua disposizione (quelli della
sinderesi, della conoscenza morale, dell’esperienza, delle convinzioni e
delle varie opinioni, ecc.), in vista di arrivare al termine della sua
deliberazione con un giudizio pratico e normativo714. Pratico - in quanto
una certa conoscenza o sapere a ciò che facciamo»; Super ad Rom. 2, 15, lect. 3, n. 219:
«La “testimonianza della coscienza” [di cui parla san Paolo] non è nient’altro che
l’applicazione del sapere [morale] di cui si dispone alla valutazione di un dato atto,
sapere se esso è buono o cattivo». Seguendo Aristotele (Etica a Nicomaco VII, 5), e in
maniera significativa ma forse ingannevole, in quanto ciò sembra introdurre qui un
rigore che non c’è, Tommaso paragona il processo che conduce dai primi principi
morali verso l’azione concreta a quello di un sillogismo mediante il quale si passa
dalle premesse alla conclusione, cf. I-II, q. 13, a. 1 ad 2; q. 76, a. 1; ecc.
24
Non essendo il giudizio di coscienza terminale, alla ragione pratica resta
ancora il compito di «fare la verità dell’azione», ossia di applicare le sue conoscenze
alla direzione immediata dell’agire. Questo molo spetta alla prudenza, «retta ragione
degli atti da compiere» (recta ratio agibilium), ed è essa allora che prende il cambio;
dato però che ne abbiamo già parlato (cap. XI), non dobbiamo più soffermarci.
25
Super ad Rom. 14, 14, lect. 2, n. 1120; tutto questo passaggio (nn. 1119- 1122)
costituisce uno dei luoghi importanti della dottrina della coscienza; vedere anche un
po’ più avanti: lect. 3, nn. 1138-1140.
261-11, q. 19, a. 5.
361
«Sapere che una cosa bisogna farla in coscienza, significa
reputare che si agirebbe contro Dio se non la si facesse. Ora,
agire contro Dio significa peccare» 21. [Tommaso è qui del tutto
formale:] «Se un uomo credesse che la ragione umana gli detta
una cosa contraria alla legge di Dio, non dovrebbe seguirla. In
questo caso d’altronde, la ragione non sarebbe completamente
nell’errore. Quando invece la ragione sbaglia e presenta una
cosa come un ordine di Dio, disprezzare il dettato della ragione
significherebbe disprezzare l’ordine di Dio stesso»715 716.
COSCIENZA E VERITÀ
1- 16, in cui secondo l’uso non tratta soltanto della virtù di fede in se stessa, ma anche dei
doni dello Spirito Santo che gli sono collegati e dei peccati che gli sono opposti; si
potranno vedere le note e i commenti di R. BERNARD, S. Thomas d’Aquin, Somme
théologique. La Foi («Revue de Jeunes»), 2 tt., Paris 1940-1942; M.-M. Labourdette, La vie
théologale selon saint Thomas: L’objet de la foi, RT 58 (1958) 597-622; La vie théologale
selon saint Thomas: L’affection dans la foi, RT 60 (1960) 364-380; H. DONNEAUD, La
surnaturalité du motif de la foi théologale chez le Père Labourdette, RT 92 (1992) 197-238.
732 Compendium I, 2.
733 Cf. II-II, q. 1, aa. 6-7; q. 2, a. 5; vedi qui sopra il nostro cap. I, il
paragrafo «Una certa impronta della scienza divina».
369
invisibili”»734.
Già acquisita nel De ueritate, la stessa definizione era stata allora
ampiamente spiegata: se la fede realizza nel soggetto credente questa
anticipazione della vita eterna, ciò avviene a causa di una certa
somiglianza del fine desiderato. Niente potrebbe essere desiderato, infatti,
se non vi fosse nella persona una certa proporzione nei confronti di questo
fine, poiché è a partire da essa che sorge il desiderio stesso del fine.
Affinché possiamo tendere alla vita eterna, occorre quindi che vi sia in noi
un qualche abbozzo di questo fine, almeno mediante la conoscenza che ne
acquisiamo, ed è questo che realizza la fede: «Nella misura in cui forma in
noi un certo inizio della vita eterna, nella quale speriamo in base alla
promessa divina, la fede è detta la “sostanza dei beni che attendiamo”» 735.
Ma realizzando l’anticipazione del fine ultimo, essa ravviva con ciò stesso
il suo desiderio, giacché «ogni inizio aspira al suo compimento». Se questo
è vero già sul piano naturale, a maggior ragione lo è su quello delle realtà
divine, in cui l’inizio non può che aspirare al compimento del fine ultimo
736
. Tommaso lo riafferma commentando l’incontro di Gesù con la
Samaritana (Gv 4, 14), il dinamismo di una vita vissuta nella fede è quello
di ogni desiderio: il possesso iniziale accende il desiderio del possesso
totale:
«[Come può dire Gesù: “Colui che berrà di quest’acqua non avrà
più sete”, mentre la Sapienza afferma fSir 24, 21): “Quelli che mi
bevono avranno ancora sete”?] Le due affermazioni sono entrambe
vere, perché chi beve dell’acqua data da Cristo ha ancora sete, e non
ha più sete». [In un primo senso ciò si può spiegare paragonando
acqua naturale e acqua spirituale. Colui che beve acqua naturale,
avrà ancora sete, perché quest’acqua non è eterna e quindi anche il
suo effetto ha un termine:] «L'acqua spirituale però ha una fonte
eterna, cioè lo Spirito Santo che è la fonte di vita sempre
zampillante; perciò chi beve di essa non avrà mai sete, come non
avrebbe mai sete chi avesse nelle sue viscere una fonte di acqua viva.
Ma c'è un altro motivo che si ricava dalla differenza tra realtà
temporale e realtà spirituale. L’una e l’altra provocano la sete, ma
in maniera ben diversa. Una cosa temporale ottenuta dopo che la si
è desiderata non attenua tuttavia il desiderio; c'è sempre il desiderio
734n-II, q. 4, a. 1.
735 De ueritate, q. 14, a. 2; si noterà in questo articolo l’insistente ripetizione della
parola inchoatio: la fede non è che un «inizio», ma lo è veramente; si potrà continuare con
D. BOURGEOIS, «Inchoatio vitae etemae». La dimension eschatologi- que de la vertu
théologale de foi chez saint Thomas d'Aquin, «Sapienza» 27 (1974) 272-314.
736Cf.I-II, q. 1, a. 6.
370
di un’altra cosa. Al contrario, la realtà spirituale spegne il desiderio
di un’altra cosa e approfondisce il desiderio di questa stessa. Il
motivo è semplice: fino a che non si possiede una cosa di questo
mondo, la si stima esauriente e di gran valore. Una volta posseduta,
però, non appare più- così preziosa e si rivela insufficiente ad
appagare il desiderio, il quale viene riacceso da un’altra cosa
ancora. Invece la realtà spirituale non la si conosce se non quando
la si possiede, Ap 2, 17: “Nessuno la conosce, se non chi la riceve”.
Perciò non averla significa non desiderarla, ma averla e conoscerla
rallegra il cuore e provoca il desiderio, non certo il desiderio di
un’altra cosa, ma il desiderio che stimola il suo possesso imperfetto
- dato che imperfetto è colui che lo riceve — in vista di un possesso
perfetto.
È di questa sete che parla il salmo (41, 2): “L’anima mia ha sete di
Dio, del Dio vivente”. Però questa sete non può essere del tutto
appagata in questo mondo, perché in questa vita non possiamo mai
percepire perfettamente i beni spirituali. Perciò chi berrà di
quest’acqua avrà ancora sete di possederla nella sua perfezione,
però non ne avrà sete in eterno, come se l’acqua stessa potesse
esaurirsi, poiché come dice il Salmista (35, 9): “Essi s inebriano
dell’abbondanza della tua casa”. Nella vita della gloria, in cui i
beati bevono perfettamente l’acqua della divina grazia, essi non
avranno mai più sete, Mt 5, 6: “Beati coloro che hanno fame e sete
della giustizia”, s’intende in questo mondo, “perché saranno
saziati”, nella vita eterna» 49.
«oggetti» ordinati l’uno all’altro come la causa efficiente lo è alla causa finale.
745 La Questione disputata De spe, a. 1, riassume con una concisione
esemplare le quattro qualità dell’oggetto sperato: «Occorre innanzitutto che sia un bene, in
tal modo la speranza si distingue dal timore. Poi, è necessario che sia un bene futuro’, così si
distingue dalla gioia o diletto. In terzo luogo, deve essere un bene arduo-, con ciò essa si
distingue dal [semplice] desiderio. Infine, deve trattarsi di un bene possibile; ciò che la
distingue dalla disperazione».
746 Come ha ben dimostrato R.-A. GAUTHIER, Magnanimité, pp. 322-327,
«difficile» non è l’esatto sinonimo di «arduo», che aggiunge alla difficoltà l’idea di qualcosa
di grande (magnum), d’alto (altum), d’eminente (excellens).
747 Come si potrà percepire più volte nelle pagine seguenti, allorquando
Tommaso parla della preghiera, generalmente pensa alla preghiera di domanda (oratio),
situandola però in un insieme che comprende tutte le attitudini religiose della persona
dinanzi a Dio (azione di grazie, devozione, adorazione, in breve tutti
374
posta davanti a loro, nella quale si ha un’àncora per la nostra anima, sicura
e salda, la quale penetra fino all’interno del velo»;
«... Se l’uomo deve legarsi alla speranza come la nave all’àncora,
c’è tuttavia una differenza tra l’àncora e la speranza: l’àncora è
fissata in basso; la speranza invece è fissata nel più alto, cioè in
Dio. Non esiste niente quaggiù 'che sia abbastanza solido da far sì
che l’anima vi si possa fissare e riposare. [L’al di là del velo in cui
l’àncora della speranza è fissata, è la gloria futura.] È là che il
nostro capo... ha fissato la nostra speranza, così come si dice nella
colletta della vigilia e del giorno dell’Ascensione» 62.
Pur non essendo rara, l’allusione alla liturgia merita di essere
rilevata; essa costituisce uno dei segni del clima di preghiera nel quale
Tommaso pratica la sua ricerca e il suo insegnamento. Egli non esita
nemmeno, quando il testo gliene offre l’occasione, a stabilire un legame tra
spiegazione teologica e vita cristiana; questa caratteristica è già stata
spesso incontrata, ma resta preziosa per noi:
«[Secondo san Paolo (Rm 5, 3-5): “Noi ci vantiamo nella speranza
della gloria di Dio. ..Eia speranza non delude affatto, perché
l’amore
gli atti della virtù di religione, cf. II-II, qq. 82ss.). Ma qui non bisogna porre nessuna
opposizione tra petitio e oratio\ Tommaso distingue semplicemente tra la simplex petitio che
s’indirizza all’uomo, e la petitio decentium a Deo che è Yoratio; nei due casi vi è petitio, ma
una è semplice, l’altra riguarda ciò che si può sperare di ottenere da Dio.
61
Compendium theol. II, 7.
62
Super ad Hebraeos 6,18, lect. 4, n. 325.
375
!
di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo
che ci è stato dato”:] Questa gloria, che si rivelerà nel futuro, è
iniziata già fin d’ora in noi tramite la speranza. [Paolo ne mostra il
vigore quando sottolinea che essa nasce dalla tribolazione:] Infatti
chi spera ardentemente qualcosa, sopporta volentieri per essa delle
prove, anche difficili e dolorose. L’ammalato che desidera
ardentemente la salute beve volentieri la medicina amara per essere
guarito. Il segno dell’ardore della nostra speranza nel nome di
Cristo risiede nel fatto che non solo ci vantiamo nella speranza della
gloria futura, ma anche "nelle^ tribolazioni” mediante le quali
giungiamo alla gloria, At 14, 21: “È necessario per noi attraversare
molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (...). È ben noto
infatti che sopportiamo facilmente le difficoltà per ciò che amiamo.
Se dunque qualcuno sopporta con pazienza le avversità di questo
mondo in vista di ottenere i beni eterni, con ciò stesso egli prova che
ama molto di più i beni eterni che quelli di questo mondo» 748.
756 Compendium theol. II, 2; si sarà notato in questo testo il tema della
fami- liaritas: l’uomo che prega diventa un familiare di Dio; qui siamo molto lontano dal
Dio dei metafisici, ma tanto vicino a Colui che ci invita a condividere la sua amicizia
mediante la virtù teologale di carità.
757 Tommaso insiste specialmente sulla fiducia generata dalla speranza nei
capitoli 4 e 6 del Compendium.
758 Cf. Compendium theol. II, 8: affinché Dio sia amato e santificato è
necessario che sia innanzitutto conosciuto, e Tommaso sviluppa qui un intero piccolo
trattato della conoscenza di Dio, passando dalla conoscenza naturale alla rivelazione
dell’Antico, e poi del Nuovo Testamento, andando così dal principo al termine {ut id quod
inchoatum est ad consummationem perueniat)\ ciononostante, tra gli indizi che manifestano
la santità di Dio, «quello più evidente è la santità degli uomini santificati per mezzo
dell’inabitazione divina».
759 Compendium theol. Il, 9; questo lunghissimo capitolo (più di 500 righe, 6
grandi pagine dell’edizione leonina), forma in realtà un autentico piccolo trattato della
beatitudine.
379
!
dalla
verità (gaudium de ueritate)"»762.
Per descrivere questa comunione con Dio, vero oggetto della
nostra speranza, Tommaso, normalmente così sobrio, diventa qui
lirico e moltiplica i superlativi: Dio è «il bene di ogni bene» (bonum
omnis bont)\ presso di lui si ottiene «il riposo totale e la perfetta
sicurezza» (piena quies et securitas), «una pace assoluta» (omnímoda
pax), «la calma di una pace perfetta» (perfecta pacis tranquillitas),
ecc. Da ciò si dedurrà soprattutto che «l’inquietudine del desiderio
terminerà a causa della colmante presenza del bene supremo e
dell’assenza di ogni male».
Se si fosse tentati di leggere questa descrizione da un punto di
vista troppo intimista, Tommaso ci rinvierebbe a quanto egli ha detto
in alcune pagine precedenti, a proposito del primo termine della
preghiera del Signore: noi diciamo «Padre nostro» e non «Padre
mio» proprio per esprimere il carattere comunitario della nostra
vocazione cristiana763. «L’amore di Dio [per noi] non è “privato” ma
“comune” e si rivolge a tutti»; così pure, «noi non preghiamo
“individualmente” (.singulariter) ma con uno stesso cuore [ex
unanimi consensu)». E d’altronde, «sebbene la nostra speranza si
fondi principalmente sull’aiuto divino, noi siamo aiutati anche dai
nostri fratelli nell’ottenere più facilmente ciò che chiediamo». A
sostegno di questo carattere comunitario della preghiera cristiana
Tommaso moltiplica le citazioni di autorità patristiche e
scritturistiche per osservare in conclusione: «poiché la nostra
speranza si rivolge a Dio mediante Cristo... il Figlio unigenito per
mezzo del quale diventiamo figli adottivi», non possiamo rivendicare
questa paternità di Dio soltanto per noi; ciò significherebbe usurpare
un titolo che non ci appartiene esclusivamente. D’altro canto, non è
soltanto nella preghiera che appare questo senso della comunità;
nella stessa beatitudine vi sarà posto per la gioia della comunione
amicale764. Qui però, anche se resta da dire poco, sfioriamo già la
terza virtù teologale.
765 Oltre il trattato della carità (H-II, qq. 23-46), ci sono soprattutto i
passaggi paralleli del Commento alle Sentenze (dd. 27-32) e della Questione
disputata De cantate. Ricordiamo i tre volumi sempre utili della «Revue des
Jeunes»: S. THOMAS D’AQUIN, Somme théologique, La Charité, tt. 1 e 2, Notes et
appendices par H.-D. NOBLE, Paris 19502, e 1967; t. 3, par H.-D. GAEDEIL, Paris 1957; per
chi ha la possibilità di accedervi, raccomandiamo il corso ciclostilato di M.-M.
LABOURDETTE, La Charité, Toulouse 1959-1960. La storia teologica del trattato nel XX
secolo è stata segnata da lunghe discussioni nelle quali non è necessario addentrarsi
qui; per non moltiplicare i riferimenti a studi a volte antichi o poco accessibili,
rinviamo semplicemente a T.-M. HAMONIC, Dieu peut-il être légitimement convoité?
Quelques aspects de la théologie thomiste de l’amour selon le P. Labourdette, RT 92
(1992) 239-264, in cui si troverà soprattutto un utile stato della questione, con in
appendice un bel testo del p. Labourdette: «Faire sa joie de la joie de Dieu».
766 Per la carità - amicizia con Dio, consigliamo la rilettura dei capitoli
della SCG IV 20-22, abbondantemente tradotti qui sopra nel nostro capitolo VII; in
particolar modo si vedano i paragrafi: «La vita nello Spirito» e «Vieni verso il
Padre».
383
grazia che inizia qui nella vita presente, ma è mediante la
gloria che avrà compimento nel futuro. Questa duplice realtà
noi ora la possediamo in forza della fede e della speranza.
Perciò, come non è possibile avere amicizia con qualcuno, se
non si crede e non si spera di poter avere con lui una certa
comunione di vita o scambio familiare, così nessuno può avere
con Dio questa amicizia che è la carità senza avere la fede per
credere a questa comunione e scambio dell’uomo con Dio, e
senza avere la speranza di poter appartenere egli stesso a tale
comunione. Ecco allora che la carità non può affatto esistere
senza la fede e la speranza»767.
90
, II-II, q. 23, a. 1 ad 1.
91
1, q. 20, a. 2 ad 3: «Non può esserci amicizia che nei confronti di creature
razionali, capaci di redamatio e di communicatio nelle attività vitali, e capaci di
provare il bene e il male, la disgrazia e la fortuna, e nei confronti delle quali si può
provare propriamente della benevolenza. Le creature irrazionah in nessun modo
possono giungere all’amore di Dio e alla comunione della vita intellettuale e beata di
cui Dio vive».
92
I II, q. 65, a. 5 ad 1.
386
93
n-II, q. 23, a. 1.
Detto altrimenti, Dio non ci vuole soltanto felici, ma cj vuole
felici della felicità di cui egli stesso è felice, della sua beatitudine. La
carità ci associa quindi al bene già posseduto in comune dalle tre
Persone della Trinità, alla loro stessa vita, alla loro felicità, e ci rende
partecipi del loro eterno condividere.
«[Oltre all’amore col quale Dio ama tutta la creazione] vi è
anche l’amore vero e propriamente detto, simile all’amicizia,
per mezzo del quale Dio non ama la creatura soltanto come Un
artigiano può amare la sua opera, ma proprio con una certa
comunione di amicizia, così come l’amico ama il suo amico,
nella misura in cui egli lo introduce nella gioia della sua
comunione, in modo tale che la loro gloria e la loro beatitudine
siano precisamente quelle mediante le quali Dio stesso è felice.
E di questo amore che egli ama i santi...» 775.
Come la fede e la speranza, ma con una sua modalità propria, la
carità realizza in noi allo stato iniziale, «in speranza», in modo
escatologico, la vita eterna alla quale siamo chiamati. Come la fede e
la speranza, essa appartiene dunque alla dimensione del «già» e «non
ancora», ma meglio di esse - sebbene non senza di esse — unisce la
persona all’oggetto del proprio amore, l’amante all’Amato, l’amato
all’Amante, poiché è tipico della natura dell’amore incitare all’unione
776
. Anticipazione precaria, fragile e minacciata, come tutto ciò che
appartiene alla temporaneità - «Portiamo questo tesoro in vasi
d’argilla», 2 Cor 4, 7 -, ma possesso stabile e certo, poiché il bene che
qui assicura la comunione amicale non è altro che il Bene di ogni
bene, che si identifica all’Amico stesso, e con l’Amico l’eternità è
entrata nelle nostre vite.
Non si deve far altro che riprendere qui l’impeto di tanti testi già
incontrati nei quali abbiamo visto in funzione il movimento circolare
impresso da Dio all’opera uscita dalle sue mani. La costanza con la
quale Tommaso ritorna su tale movimento sottolinea il fatto che egli
ha ben percepito questo dinamismo e vuole rispettarlo ad ogni costo.
Ne ritroviamo una formulazione teologica definitiva quando egli
s’interroga sul perché soltanto Dio può produrre la grazia:
«Poiché il principio e il fine dell’universo sono identici, il fine
[perseguito mediante il dono] della grazia stessa deve essere
proporzionata, alla sua causa agente. Perciò, come l’azione
primordiale per mezzo delf la quale le creature sono poste
nell’essere, ossia la creazione, è propridi soltanto di Dio, che è
primo principio e fine ultimo delle creature, così il dono della
grazia, tramite il quale l’anima è immediatamente unita al fine
ultimo, viene soltanto da Dio»}.
Collocato dopo tutti quelli che abbiamo letto, questo testo non
rivela niente di nuovo, a dire il vero, ma conferma che l’itinerario
proposto da Tommaso, e che noi cerchiamo di scoprire al suo seguito,
è| un cammino di grazia in cui l’uomo avrà certo il suo progresso da
389
ef- 779
ffettuare, ma in cui Dio conserva l’iniziativa. Altri passaggi che non
sono meno chiari propongono diverse varianti all’interno di questo
iti- f herario ma, cosa molto importante, queste particolarizzazioni
non scal- ! iiscono affatto la prospettiva fondamentale.
La teologia dell’immagine di Dio valorizza incontestabilmente
que- f sta dinamica, poiché se l’immagine è capace di giungere alla
somiglianza i questo avviene perché, fin dalla sua creazione, Dio ha
creato la sua creatura per sé, e l’ha costituita in maniera tale che essa
non troverà il suo proprio compimento se non nella misura in cui gli
sarà più profonda- | mente somigliante:
«Per il fatto stesso che tendono alla loro perfezione, gli esseri
cercano il loro bene, poiché ogni essere è buono nella misura
della propria perfezione. Per il fatto stesso che cercano il loro
bene, essi tendono alla divina somiglianza.- ogni essere
assomiglia a Dio nella misura della propria bontà. Ma questo
o quel bene particolare è desiderabile nella misura in cui
assomiglia alla bontà prima; perciò un essere tende al proprio
bene a causa della somiglianza con Dio, non già viceversa. E
evidente allora che tutti gli esseri cercano come loro fine
ultimo una somiglianza con Dio»780.
Dio ha immesso quindi nel più profondo di ogni essere il
desiderio di raggiungerlo. Tommaso ne è talmente convinto che
giunge perfino a dire che «l’ultima e perfetta beatitudine dell’uomo
non può consistere che nella visione divina, (perché) l’uomo non può
essere perfettamente felice fin quando gli resta qualcosa da desiderare
e da cercare». La sua intelligenza non raggiunge la propria perfezione
se non conoscendo l’essenza della prima causa in quanto là si trova il
suo oggetto. Soltanto così egli otterrà la sua unione a Dio in cui si
trova la sua vera felicità. Fintantoché non vi giunge, «resta nell’uomo
a causa della sua natura (naturaliter) un desiderio insoddisfatto», «un
desiderio naturale di conoscere questa causa. Egli perciò non è
perfettamente felice» 781. Come aveva già detto giustamente a
consistit».
782I, q. 12, a. 1.
783 Cf. qui sopra cap. IV: «Immagine e beatitudine».
784 SCG HI 51, n. 2284; cf. ibid., 50.
785 HI SCG 57, n. 2334: «...omnis intellectus naturaliter desiderat diuinae
substantiae uisionem. Naturale autem desiderium non potest esse inane. Quilibet
intellectus creatus potest peruenire ad diuinae substantiae uisionem, non impediente
inferioritate naturae».
391
contraddittorie»786.
Questi testi del Maestro, ai quali se ne potrebbero aggiungere
molti altri 787, hanno creato qualche difficoltà ai loro commentatori
dell’età classica del tomismo. In essa infatti è nata la famosa
questione del «desiderio naturale di vedere Dio», altrimenti detto -
con una formula breve che ne fa ben sentire la scorrettezza - «il
desiderio naturale del soprannaturale». Non significava questo
affermare che il soprannaturale - cioè la grazia - era dovuto alla
natura, dato che Dio non avrebbe potuto aver messo nell’uomo un
desiderio che sarebbe rimasto vano? Il Gaetano ha creduto di risolvere
il problema dicendo che questo desiderio di vedere Dio non è
naturale se non all’uomo soprannatu- ralizzato-, esso allora, di fatto è
soprannaturale788.
Questo significa enunciare una verità lapalissiana, seppure non
infondata; questo desiderio soprannaturale esiste certamente visto che
è incluso nelle virtù teologali, e specialmente nella speranza, qui però
è in causa un’altra cosa. Per questo Silvestro di Ferrara, altro grande
commentatore, contesta questa interpretazione del Gaetano,
adoperandosi a qualificare questo desiderio in maniera tale (elicito,
libero, condizionale, inefficace) che esso non ha più la necessità che
san Tommaso attribuisce a un desiderio di natura, venendo così a
perdere tutta la forza della sua argomentazione. Questo desiderio così
caratterizzato non è altro che il segno che probabilmente esiste
nell’uomo una capacità obbedienziale, cioè una pura non ripugnanza
a un’elevazione soprannaturale 789.
786 A. GAKDEIL, La structure de l’âme et l’expérience mystique, t. I, Paris 19273,
p. 281.
787 Si può vedere a tal proposito lo studio decisivo di J. LAPORTA, La
Destinée de la nature humaine selon saint Thomas d’Aquin («Etudes de
philosophie médiévale 55»), Paris 1965, con la recensione di M.-M. LABOURDETTE, RT
66 (1966) 283-289, che è d’accordo con lui. Qui sopra ci rifacciamo
all’interpretazione del p. Labourdette così come la si trova nel suo Cours de
théologie morale I, 2. La fin dernière de la vie humaine (La Béatitude),
nuova edizione completamente rivista, Toulouse 1990, dal quale riprendiamo a volte
i termini stessi. Vedi anche S. PlNCKAERS, Le désir naturel de voir Dieu, «Nova et
Vetera» 51 (1976) 256-273, il quale sottolinea che «l’argomento del desiderio
naturale di vedere Dio, con il ruolo che esso gioca nella questione della felicità
dell’uomo, è... una trovata del genio di S. Tommaso» (p. 260).
788 In Iam q. 12, 1, n. V-X, Leon., t. 4, Roma 1888, 115-116.
789 In SCG 51, Leon., t. 14, Roma 1926, pp. 141-143; si troverà in A.
GAR- DEIL, La structure de l’âme et l’expérience mystique, t. I, pp. 268-307, il
riassunto chiaro e vigoroso delle posizioni dei commentatori tomisti, rifacendosi lo
stesso autore a quello di Silvestro di Ferrara.
392
Noi non dovremo inoltrarci ulteriormente in questa discussione
che occupò le menti per vari secoli 790. Ciò che essa testimonia
soprattutto - e che è rimasto inavvertito per i suoi stessi protagonisti -
è il totale cambiamento di prospettiva intervenuto tra il XIII secolo e
l’epoca inaugurata dal Rinascimento e dalla Riforma, in cui il
termine «natura» è stato assunto in un senso molto diverso da quello
che gli accordava san Tommaso 791.In questi tempi più recenti esso
non significava altro che la natura «pura», come si diceva, ossia
quella di un uomo lasciato alla sua sola definizione di animale
razionale, senza il minimo dono soprannaturale, senza la minima
vocazione a condividere la condizione divina o a vedere Dio. Questa
natura non poteva avere evidentemente nessuna aspirazione a
condividere quella vita divina per la quale non era stata fatta; essa
perciò si trovava nei suoi confronti in uno stato di semplice non
ripugnanza, come il marmo che può certamente diventare statua sotto
la mano di Michelangelo, ma che non richiede né auspica ciò, e non
ne ha alcun «desiderio».
La natura umana di san Tommaso è tutt’altro. Essa ha il
desiderio naturale, cioè innató, quindi necessario, di conoscere in se
stessa la fonte di tutto ciò che è. Questo desiderio di natura forma una
sola cosa con l’essere stesso dell’uomo, ed è tale che il suo intelletto
non può fermarsi prima di essere ricolmato dalla conoscenza in se
stesso dell’Essere che è l’origine del suo essere e di ogni essere, così
come nemmeno il suo amore può essere completo prima di
raggiungere il Bene che è all’origine di tutti i beni 792. Non si tratta
CAPACE DI DIO
causa prima in cui tutte le cose possono essere conosciute, la ricerca dell’intelligenza si
ferma. Della volontà perché, quando essa è giunta al fine ultimo in cui si trova la
pienezza di ogni bontà, non resta nient’altro da desiderare... Perciò è chiaro che il
compimento ultimo dell’uomo si trova nel riposo e nella quiete perfetta
dell’intelligenza e della volontà»; per il ruolo dell’intelligenza e della volontà nella
beatitudine, si veda soprattutto: SCG IH 26; I-II, q. 3, a. 4. Se ci si vuole rendere conto
della differenza tra questa concezione della beatitudine e quella che sostenevano le
correnti filosofiche condannate a Parigi nel 1277, sarà molto interessante leggere A.
DE LIBERA, Averroìsme éthique et philosophie mystique. De la félicité
intellectuelle à la vie bienheureuse, in L. BIANCHI (ed.), Filosofia e Teologia
nel Trecento. Studi in ricordo di Eugenio Randi, Louvain-la-Neuve 1994, pp. 33-56.
17
Tommaso parla di questo desiderio cosciente nella I-II, q. 5, a. 8 dove
distingue tra la beatitudine considerata sotto la sua ragione comune di bene (Et sic
necesse est quod omnis homo beatitudinem uelit ), e la beatitudine considerata
come conosciuta: Et sic non omnes cognoscunt beatitudinem, quia nesciunt
394
cui rei commu- nis ratio beatitudinis conueniat.
è al di sopra della natura dell’anima razionale perché questa non
può giungervi con le proprie forze. Tuttavia sotto un altro
aspettò è conforme alla sua natura, in quanto precisamente per
la sua natura ne è capace, essendo stata fatta a immagine di
Dio»793 794.
Così Tommaso non afferma che ogni uomo ha naturalmente
l’esplicito desiderio della visione beatifica, ma afferma proprio che la
sua vera felicità non si trova che in esso, come pure afferma che
l’uomo è naturalmente capace di ricevere il dono divino della grazia
in quanto è fatto a immagine dell’Autore della grazia, e che tramite
questa potrà dunque appagare il desiderio naturale che gli è proprio.
Tra i testi che sostengono la sua riflessione, Tommaso riprende qui un
passaggio dì sant’Agostino al quale accorda ima forza accresciuta
dalla menzione stessa del carattere «naturale» di questa possibilità:
«L’anima è naturalmente capace della grazia; come sostiene
sant’Agostino: per il fatto stesso che è ad immagine di Dio, essa è
capace di Dio per grazia»19. Queste espressioni sono lungi dall’essere
rare795, e non sono riservate al teologo e alla sua riflessione. Quando,
nella sua predicazione, vuole parlare della vita eterna, Tommaso
ritrova spontaneamente questo linguaggio:
«[La vita eterna consiste] nel perfetto appagamento del
desiderio dell’uomo. Ciascun beato infatti possederà in cielo
quel bene che si trova al di là di ciò che avrà desiderato e
sperato quaggiù. Il motivo è che nessuno può in questa vita
793 III, q. 9, a. 2 ad 3: «Visio seu scientia beata est quodammodo supra
natu- ram animae rationalis, inquantum scilicet propria uirtute ad eam peruenire
non potest. Alio modo uero est secundum naturam ipsius, inquantum
scilicet secundum naturam suam est capax eius, prout scilicet est ad
imaginem Dei facto».
794 «Naturaliter anima est gratiae capax: “eo enim quod facta est ad
imaginem Dei, capax est Dei per gratiam”, ut Augustinus dicit», I-II, q. 113, a.
10, con citazione del De Trin. XIV, 8, 11: BA 16, p. 374; NBA 4, p. 609, il cui
andamento è tuttavia un po’ diverso: «Eo quippe ipso imago ejus est, quo ejus capax
est, ejusque particeps esse potest; quod tamen magnum bonum, nisi per hoc quod
imago ejus; est, esse non potest» («Infatti, ciò che fa che sia immagine, è il fatto che
essa è capace di Dio, può partecipare di Dio. Un così grande bene non è possibile se
non in quanto essa è immagine di Dio»).
795 Oltre il passaggio succitato, capax Dei ricorre una decina di volte,
soprattutto in III, q. 4, a. 1 ad 2; De ueritate, q. 22, a. 2 ad 5; ma ci sono molte altre
espressioni equivalenti: capax summi boni (I, q. 93, a. 2 ad 3), capax perfecti
boni,: capax uisionis diuinae essentiae (I-II, q. 5, a. 1), capax uitae aeternae
(11-11, q. 25, a. 3 ad 2), ecc.
395
soddisfare pienamente il suo desiderio e che
nessuna cosa creata può appagare il desiderio dell’uomo.
Soltanto Dio può soddisfarlo completamente e addirittura
superarlo infinitamente. Per questo l’uomo non trova il suo
riposo che in Dio, come afferma sant’Agostino: Tu ci hai fatti
per te Signore e il nostro cuore resta inquieto fino a quando
non riposa in te 21. E poiché i santi nella patria possederanno
Dio perfettamente, è chiaro che il loro desiderio sarà appagato
e perfino superato dalla loro gloria»796 797.
re suggerisce inoltre che si può leggere il commento delle beatitudini anche come
qualcosa che propone un itinerario, cf. Super Mattò. 5 , 1-9, nn. 396-443; si ricorda
LA VIA MAESTRA
8031-II, q. 2, a. 8.
804 Sarà utile riferirsi a S.T. PINCKAERS, Les sources de la morale
chrétienne. Sa méthode, son contenu, son histoire, Fribourg-Paris 19933.
805 ÏÏ-II, q. 4, a. 7: uirtutes theologicae quarum obiectum est
400
la fede, è «la
vita eterna che comincia in noi» 806; con la speranza, abbiamo l’audacia
di non sperare altro da Dio che Dio stesso 807. Quanto alla carità, «essa
raggiunge Dio come è in se stesso in modo tale che è in lui che essa si
fissa senza aspettarsi nient’altro»808, ed è tramite essa che si giunge alla
perfezione809. Ciascuna di esse è analizzata con la stessa cura, ma qui ci
atterremo alla carità perché quando si tratta del cammino concreto che
conduce alla beatitudine, Tommaso non ne conosce altri aH’infuori di
quello proposto da Gesù: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente... e il prossimo tuo
come te stesso»810. Normalmente vi aggiunge le vigorose affermazioni
di san Paolo: «Se non ho la carità, non sono niente», «La carità è il
vincolo della perfezione»811.
Non ci si può sorprendere allora del fatto che la carità svolge un
ruolo assolutamente unico nella teologia e nella visione spirituale del
Maestro d’Aquino. Questo appare già nella sua definizione della carità
come amicizia812. Certo, egli non è stato l’inventore dell’applicazione
delle categorie affettive alle relazioni tra l’uomo e Dio, ma sembra
proprio essere stato il primo a trasporre in questo registro la nozione
d’amicizia, della koinònia così come la si trovava nell’Etica a
Nicomaco, aprendo così la via a feconde prospettive 813. Tuttavia, ciò
che non è meno importante e che qui ci interessa direttamente è il modo
in cui egli ne parla come di una virtù dell’uomo in cammino.
ultimus finis-, ci si ricordi che abbiamo parlato più diffusamente della fede e della
speranza nel capitolo precedente.
806 II-II, q. 4, a. 1: «fides est habitus mentis qua inchoatur uita eterna
in nobis»\ cf. De ueritate, q. 14, a. 2, e qui sopra, cap. I: «Una scienza pia».
807 Cf. II-II, q. 17, a. 2.
808 II-II, q. 23, a. 6.
809 II-II, q. 184, a. 1: «Si dice che una cosa è perfetta allorquando
raggiunge il suo proprio fine, che è la sua ultima perfezione. Ora, è la carità che ci
unisce a Dio, fine ultimo dello spirito umano, giacché “colui che dimora nella
carità, dimora in Dio e Dio in lui”. La perfezione della vita cristiana consiste
specialmente nella carità».
810 Mt 22, 34-40, con il commento di Tommaso.
811 1 Cor 13, 2 e Col3, 14, che bisogna leggere nel contesto del
Deperfectione spiritualis vitae 2, Leon., t. 41, p. B 69, che ben presto ritroveremo.
812 II-II, q. 23, a. 1; cf. qui sopra, cap. XIII, pp. 40ss.
813 Cf. L.-B. GILLON, art. Charité, Dominicains, DS 2 (1953 ) 580-584. Se qui ci
si serve di Aristotele, tuttavia non si sottolinea abbastanza che l’autorità esplicitamente
invocata da Tommaso al principio del suo studio non è altro che Gv 15, 14-15: «Non vi
chiamo più servi..., vi chiamo amici», cf. II-II, q. 23, a. 6 se.; In loannem, ibid., lect. 3,
nn. 2010ss.
401
Beatitudine allo stato iniziale, la carità a causa della sua stessa natura
non può restare in riposo fintantoché non giunge alla sua meta, ed è per
questo che normalmente è in perenne crescita:
«La carità dei viatori può aumentare. Infatti noi riamo considerati
"viatori” (uiatores) per il fatto che tendiamo verso Dio, fine ultimo
della nostra beatitudine. Ora, in questa nostra via tanto più
avanziamo, quanto più ci avviciniamo a Dio, al quale ci si avvicina
non con i passi del corpo, ma con gli affetti dell’anima. Ma è la
carità stessa a compiere questo avvicinamento, perché con essa
Vanima si unisce a Dio. Perciò la carità dei viatori ha per sua
natura di poter aumentare: poiché se non potesse aumentare,
questo cammino progressivo che caratterizza la nostra vita non
esisterebbe più. Ecco perché l’Apostolo dà alla carità il nome di
via, là dove dice: “vi mostrerò una via ancora più eccellente”»814.
Presentata qui come una possibilità legata alla natura stessa
dell’uomo, la crescita della carità appare anche come un’esigenza legata
al soggetto che la esercita. Questo testo riflette una profonda coscienza
del carattere progressivo della natura umana; impegnato nel tempo,
l’uomo ha una storia fin nel suo organismo virtuoso, e il seguito ne rende
conto grazie a un paragone ripreso sovente: La crescita spirituale della
carità è simile in un certo modo alla crescita corporea. L’analogia non
ha niente di meccanico e non bisogna intendere questa crescita come un
fatto puramente quantitativo; come però vi sono nella natura dei tempi di
latenza e altri di fecondità o di sviluppo,
«così la carità non cresce in maniera attuale con qualsiasi atto, ma
qualsiasi atto di carità predispone all’aumento di essa, in quanto
l’uomo da un atto di carità viene reso più pronto ad agire
nuovamente in tal senso. E col crescere di questa attitudine,
prorompe finalmente in un atto più fervente di carità, col quale si
sforza di assicurarne lo sviluppo; e allora la carità cresce in
maniera attuale» 815.
Virtù di un essere in movimento, tendente verso la propria
perfezione, la carità non cresce matematicamente. La sua crescita
consiste molto di più in un radicamento della virtù nel soggetto che la
possiede, in una dolcezza, una prontezza e un fervore crescenti
dell’amore di Dio
814n-n, q. 24, a. 4.
815II-n, q. 24, a. 6.
402
e del prossimo, in «una maggiore somiglianza allo Spirito Santo di cui essa
è una similitudine partecipata» 816. Ma ci si sarà forse insospettiti
dell’affermazione del Maestro secondo la quale la carità non aumenta con
ciascuno dei suoi atti817. Tuttavia essa è comprensibile facilmente se ci si
ricorda della sua dottrina sulla crescita degli abiti 818. Come abbiamo già
detto, l’abito è una qualificazione delle nostre potenze operative, una
specie di abilità acquisita che rende capaci di agire con agilità e rapidità
nel campo che esso qualifica 819. Nella vita spirituale, se le virtù sono degh
abiti non acquisiti ma infusi, ossia dati da Dio, il loro stesso esercizio resta
a nostra disposizione. Io non ho la carità se non perché Dio me l’ha donata,
però dipende dalla mia libertà fame un buon uso o meno, e addirittura
eventualmente perderla. Ora, nel campo naturale, se l’abito si perfeziona
normalmente con l’uso che se ne fa, succede anche che esso non sia
utilizzato al massimo della sua capacità e che resti poco impiegato.
L’abilità degenera allora in abitudine ripetitiva e, invece dell’artista in
potenza qual era, l’artigiano resta un buon dilettante. Soltanto un lavoro
creativo in cerca di perfezione e di nuovi modi di espressione potrebbe
innalzarlo a un livello superiore.
Analogicamente - dato che ciò resta nelle mani di Dio —, succede un
po’ la stessa cosa con la carità. Io posso, senza per questo perderla,
compiere soltanto degli atti tiepidi, lasciandola così sottoccupata. Non si
tratta certamente di peccati, giacché l’atto di una virtù non può essere
peccaminoso ma, secondo il linguaggio usuale, si tratta almeno di
imperfezioni820. Io posso anche compiere degli atti ferventi e sforzarmi di
essere attento alle esigenze dell’amore di Dio e del prossimo; in questo
caso però non faccio niente di straordinario - nel senso del Discorso della
Montagna —: non faccio altro che conservarla «in buono stato di
funzionamento», dato che è il suo stato normale. Occorre di più per farla
816II-II, q. 24, a. 5 ad 3.
817 In realtà, i commenti di questo articolo sono stati numerosi. Colui che
ne avesse la possibilità, potrà leggere le illuminanti spiegazioni di M.-M. LABOURDET- TE,
Cours de théologie morale. La Charité (II-II, 23-46), Toulouse 1959-1960, pp. 63-89,
commento alla q. 24. Non potendo fare ciò, vedere l’art. Accroissement des vertus, DS 1
(1937) 137-166, diviso in due parti che presentano successivamente la posizione di san
Tommaso (TH. DEMAN, OP) e quella di Suàrez (F. DE LANVEK- SIN, SI).
818 Cf. I-n, q. 52.
819 Cf. qui sopra, cap. XI, pp. 300-302.
820 Cf. E. HUGUENY, art. Imperfection, DTC 7 (1923) 1286-1298; A. SoLI-
GNAC - B. ZOMPARELLI, art. Imperfection et imperfection morale, DS 7 (1971) 1620- 1630; si
noterà tuttavia che, partendo da un altro contesto, questi autori qualificano come peccati
veniali gli atti «meno ferventi»; nella prospettiva in cui ci si situa qui, ciò sarebbe
certamente eccessivo.
403
crescere: bisogna compiere degli atti più ferventi. Allora interviene Dio
che è l’unico a poter dare alla carità quella crescita di cui si parla nel
nostro articolo. A partire da questo momento tutto si rischiara e
contemporaneamente si comprende il formidabile appello alla santità che
nasconde la banale apparenza della sua formulazione.
Che sia proprio questo ciò a cui pensa san Tommaso, lo si potrà
constatare facilmente proseguendo la lettura. Un po’ come se mettesse in
guardia contro la tentazione di credersi subito arrivati al termine del
cammino, egli aggiunge una considerazione decisiva:
«Non si può assegnare un limite all’aumento della carità nello stato
di viatori. Infatti la carità non ha un limite di aumento nella natura
della propria specie, essendo essa una partecipazione dell’infinita
carità, che è lo Spirito Santo. Né può avere limiti se la si considera
nella sua causa efficiente, anch’essa infinita, poiché si tratta di Dio
stesso. Infine, non si può fissare da parte del soggetto un limite a
tale crescita, perché col crescere della carità cresce sempre più
l’attitudine a un ulteriore aumento. Perciò rimane che all’aumento
della carità non si può fissare nessun limite nella vita presente» 821.
Qui, ancora, l’aspetto formale dello sviluppo permette di capire
facilmente l’ampiezza del campo aperto al progresso della vita spirituale.
Eppure, come se temesse di non aver insistito abbastanza, Tommaso
riprende la questione sotto un’altra forma: è possibile avere in questa vita
una carità perfetta?
«La perfezione della carità si può intendere in due modi: primo,
rispetto all’oggetto da amare; secondo, in rapporto al soggetto che
ama. Rispetto all’oggetto la carità è perfetta allorché si ama quanto
esso è amabile. Ora, Dio è amabile quanto è buono. Ma la sua bontà
è infinita. Dunque è infinitamente amabile. Però nessuna creatura
può amarlo infinitamente giacché ogni facoltà creata è finita. E
quindi sotto questo aspetto la carità di nessuna creatura può essere
perfetta; ma lo è solo la carità con la quale Dio ama se stesso.
Si dice invece che la carità è perfetta in rapporto al soggetto che
ama, quando uno ama con tutte le sue possibilità. E questo può
avvenire in tre maniere. Primo, in maniera che tutto il cuore di un
uomo si porti attualmente e sempre verso Dio. E questa è la
perfezione della carità nella patria celeste: perfezione che non si può
raggiungere in questo mondo, in cui è impossibile, per l’instabilità
della vita umana, che uno pensi a Dio, e che a lui si volga con
l’amore sempre in maniera attuale. Secondo, in maniera che uno
821II-II, q. 24, a. 7.
404
metta tutto il suo impegno nell’attendere a Dio e alle cose divine,
trascurando tutto il resto, ad eccezione di quanto richiede la
necessità della vita. E questa è la perfezione della carità che è
possibile nella vita presente: però non è comune a tutti quelli che
hanno la carità. Terzo, in maniera che uno “abitualmente’’ tenga
tutto il suo cuore in Dio, cioè in modo da non pensare e da non
volere niente che sia contrario all’amore di Dio. E questa perfezione
è comune a tutti coloro che hanno la carità» 822.
839 De perfectione uitae spiritualis 6, Leon., t. 41, p. B 71; cf. Seni. Ili,
d. 27, q. 3, a. 4; II-II, q. 44, a. 6.
840IM, q. 184, a. 5 ad 2; c£, a. 4: «Niente impedisce che ci siano dei perfetti i
quali non sono in stato di perfezione, e che nello stato di perfezione ci siano alcuni che
non sono perfetti»; la questione 184 è interamente consacrata a questo tema.
841 Tommaso riprende questa dottrina nella II-II, q. 184, a. 3 e in numerosi altri
luoghi.
61
II-II, q. 184, a. 3; cf. l’ad 2: Perfectio iìuinae dilectionis uniuersaliter
cadit sub praecepto.
411
«Di per sé ed essenzialmente, la perfezione della vita cristiana
consiste nella carità: in maniera principale nell’amore di Dio, e
in maniera secondaria nell’amore del prossimo... Ora, l’amore di
Dio e del prossimo non sono comandati secondo una certa
misura, così da lasciare il di più come consiglio; e ciò risulta
dalla stessa formulazione del precetto che mira alla perfezione:
‘Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore”. .. oppure “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”’. Ciascuno ama se stesso in grado
massimo. E questo perché “il fine del precetto è la carità” (1 Tm
1, 5). E la misura non si applica al fine, bensì ai mezzi. Il medico,
per esempio, non misura la guarigione da raggiungere, ma la
medicina e la dieta da usarsi per la guarigione. E chiaro quindi
che la perfezione consiste essenzialmente nei precetti»61.
412
L’INNO ALLA CARITÀ
413
Usato abitualmente per indicare il capitolo tredicesimo della
prima lettera ai Corinzi, a noi sembra che questo titolo si imponga qui
come introduzione alla lunga citazione che seguirà. Leggendola,
ancora una volta si constaterà il modo in cui il predicatore prolunga il
teologo, senza rinnegare niente delle sue intenzioni, ma conferendo
loro un calore di cui a volte gli scritti eruditi sono sprovvisti:
«E chiaro che non tutti possono dedicarsi agli studi [lunghi e
severi]; per questo Cristo ci ha dato una legge che per la sua
brevità è accessibile a tutti e nessuno ha il diritto d’ignorare:
tale legge è la legge dell’amore divino, questa “parola breve
che il Signore proclama all’universo’’842.
Una simile legge, ammettiamolo, deve essere la regola di tutti
gli atti umani. L’opera d’arte obbedisce a dei canoni.
Similmente l’atto umano, giusto e virtuoso quando segue le
norme della carità, perde la sua rettitudine e la sua perfezione
se si discosta dalle suddette norme. Ecco allora il principio di
ogni bene: la legge dell’amore. Inoltre essa comporta molti altri
vantaggi.
E innanzitutto fonte di vita spirituale. È naturale ed evidente che
il cuore amante è abitato da ciò che ama. Chi ama Dio, lo
possiede in sé. “Chi dimora nella carità dimora in Dio, e Dio in
lui” (Gv 4, 16). E la natura dell’amore è tale da assimilare
colui che ama all'oggetto di tale amore. Sicché se amiamo
realtà vili e caduche finiamo col divenire noi stessi meschini e
insicuri, amando Dio invece siamo divinizzati poiché: “Chi
s’unisce al Signore, diventa un solo spirito con lui” (1 Cor 6,
17). Sant’Agostino afferma: “Dio è la vita dell’anima, come
questa lo è del corpo che anima”... Senza la carità l’anima non
compie più nulla: “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,
14). Voi potreste possedere anche tutti i doni dello Spirito
Santo, ma senza la carità sareste morti. Dono delle lingue o
della scienza, della fede o della profezia; tutti i doni che vorrete
non faranno affatto di voi dei viventi se non amate. Un cadavere
rimane tale anche se lo si riveste d’oro e di pietre preziose.
La carità rende possibile l’osservanza dei precetti divini:
“L’amore di Dio non è mai ozioso, dice san Gregorio; se è vero
amore, esso agisce e compie grandi cose. Se non agisce, allora
non è la carità”. Il segno manifesto della carità è la
sollecitudine che poniamo nel compiere i precetti divini. Chi
ama, vediamo che compie cose grandi e difficili per la persona
amata. Il nostro Signore ci dice: “Se qualcuno mi ama, osserva
la mia parola” (Gv 14, 23). E si badi: osservare il
842 Rm 9, 28 secondo la Volgata; cf. J.-P. ToRSELL, La pratique, p. 235.
414
comandamento
dell’amore, significa compiere tutta la legge. Se si tratta dei
precetti positivi, la carità dà al loro compimento quella
pienezza che non è altro se non l’amore con il quale si
obbedisce loro. Se si tratta di proibizioni, è ancora la carità
che obbedisce poiché "essa non fa niente di sconveniente’’ (1
Cor 13, 4).
La carità è anche una protezione di fronte alle avversità. Chi la
possiede non resterà danneggiato. “Ogni cosa concorre, dice
san Paolo, al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 29). Le
cose difficili e avverse appaiono quasi soavi a colui che ama.
Questa è l’esperienza dell’amore.
La carità infine conduce alla felicità. La beatitudine eterna è
promessa soltanto agli amici di Dio. Senza la carità tutto il
resto rimane insufficiente. ..E se tra i beati vi è qualche
differenza, essa non dipende che dal loro grado d’amore e non
dalle altre virtù. Molti condussero una vita di maggior
astinenza rispetto agli apostoli, eppure questi sorpassano
chiunque altro nella beatitudine a causa dell’ardore della loro
carità...
La carità ci ottiene la remissione dei peccati. Lo sappiamo tutti
che se uno ha offeso una persona ma poi comincia a volerle
bene di cuore, certamente sarà perdonato... E l'esempio più
lampante lo vediamo nel caso della Maddalena. Di lei disse il
Signore: "1 suoi tanti peccati sono stati rimessi”. E perché?
"Perché ha molto amato” (Le 7, 47). Ma forse si dirà: se la
carità è sufficiente, a che serve la penitenza? Sappiate che
nessuno ama davvero, se davvero non si pente...
La carità poi illumina il nostro cuore. “Siamo avvolti dalle
tenebre” dice Giobbe (37, 19), assai spesso non sapendo che
fare, che desiderare: la carità ci insegna quanto è veramente
necessario in ordine alla salvezza. “L’unzione dello Spirito
v’insegnerà tutto” (1 Gv 2, 27). Questo perché là dovè la carità
c’è anche lo Spirito Santo che conosce tutto e ci conduce sulla
retta via... La carità infonde in noi la gioia perfetta... e la pace
perfetta...
È essa infine che forma la grandezza dell’uomo... La carità
rende l’uomo, da servo che era, amico. Così non solo siamo
liberi, ma diventiamo figli, portando questo nome ed essendolo
in realtà. “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo
figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio,
coeredi di Cristo” (Rm 8, 17)...
Tutti i doni traggono origine dal Padre della luce, ma nessuno
supera la carità. Si possono avere gli altri doni senza la grazia
e senza lo Spinto Santo, ma con la carità si ha necessariamente
415
lo Spirito Santo: “L’amore di Dio è stato diffuso nei nostri
cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5)» 843.
Un testo del genere incita al commento, ma è preferibile
lasciarlo alla meditazione silenziosa del lettore. L’abisso dell’amore
di Dio non è per l’intelligenza umana meno imperscrutabile del suo
mistero. Senza pretendere di aggiungere ciò che non lo può essere,
sarà forse lecito osservare come queste omelie sul comandamento
dell’amore - giacché si tratta proprio di una predicazione - lascino
risplendere alla luce del sole l’evangelismo del loro autore.
Giustificato a vario titolo, questo termine non ricorre qui per caso.
Abbiamo parlato altrove del «doppio evangelismo» che ispira la sua
concezione della vita religiosa, ma forse non abbiamo sottolineato
abbastanza fino a che punto egli è qui solidale con la sua famiglia
religiosa e col suo fondatore fra Domenico, uin euangelicus844. Non è
possibile dimenticarlo, domenicani o francescani, f frati mendicanti
hanno profondamente modificato l’approccio alla vita: religiosa nel
XIII secolo, e fra Tommaso è stato partecipe di questo845.
Egli però vi contribuisce a modo suo, con il suo proprio
carisma, in modo tale che anche la sua pratica della teologia porti il
segno di quest’impegno personale. Già molto tempo fa, e con lo
stesso fervore di domenicano e di storico dell’Ordine dei Predicatori,
il p. Chenu aveva ricordato il radicamento evangelico della teologia
dei Mendicanti846. Non si trattava soltanto di valorizzare l’accordo tra
teoria e pratica {nerbo et exemplo) che caratterizzava i nuovi maestri,
ma proprio di sottolineare il profondo rinnovamento che l’ispirazione
biblica tradizionale subiva con essi. Erede della tradizione di Saint-
Jacques dove, una trentina d’anni prima, sotto la direzione di Ugo di
San Caro, revisione della Bibbia ed elaborazione di concordanze
erano andate di pari passo, Tommaso ne rappresenta il frutto più
843 De decem praeceptis II-IV; cf. l’ed. francese di J.-P. TOKRELL, RSPT 69
(1985), 26-30, in cui si troverà l’indicazione delle fonti e dei luoghi paralleli.
844 Cf. M.-H. VICAIRE, Histoire de saint Dominique, 1. Un homme
évangélique, Paris 1982, pp. 10 e 218, il quale propone corne traduzione di uir
euangelicus-, <d’ uomo che si sforza di imitare gli Apostoli».
845 Cf. Tommaso d'Aquino. L’uomo e il teologo, cap. V: «L’avvocato
difensore della vita religiosa mendicante»; vedere pp. 111-112 per il «duplice
evangelismo».
846 Cf. Introduction à l’étude de saint Thomas d’Aquin, Paris 19542, pp. 38-
43: «L’évangélisme»; cf. anche: Evangélisme et théologie au XIIIe siècle, in Mélanges
offerts au R. P. Ferdinand Cavaliere, Toulouse 1948, pp. 339-346; Le réveil évangélique,
in La théologie au douzième siècle («Etudes de philosophie médiévale 45»), Paris 1957,
pp. 252-273.
416
maturo847.
Già varie volte - per non dire sempre - abbiamo incontrato que-
sta vena biblica in vari campi della sua teologia. Nel suo approccio
spirituale, questo si traduce in riferimento diretto al Vangelo che egli
insegna e medita 848. Egli non pensa perciò nemmeno a proporre un
altro metodo diverso da quello del Vangelo. Né conosce altro
cammino se non quello in cui si entra per la porta stretta; si accontenta
di ripetere: «Tutta la legge si fonda sulla carità (Tota lex pendei a
cantate)» 849. A maggior ragione egli non pensa di offrire descrizioni
degli stati dell’anima in cammino, come se ne vedranno ben presto
fiorire - sebbene le sottili analisi psicologiche non gli siano estranee -,
ma colui che lo frequenta come discepolo si vede costantemente
rinviato alle parole e all’esempio dell’unico Maestro. In ciò,
Tommaso è anch’egli uir euan- gelicus850.
in cosa consiste? Bisogna rispondere: nella perfezione della carità (Col 3, 14):
“Prima di tutto abbiate la carità, che è il vincolo di perfezione”. Così l’amore di Dio è
la perfezione, la rinuncia alle ricchezze è la via della perfezione... Sarà perfetto nella
carità colui che ama Dio fino alla rinuncia di sé e dei suoi (usque ad contemptum
sui et suorum)».
82
Leperfectione spiritualis uitae 8, Leon., t. 41, p. B 73; il capitolo si
condude con la stessa affermazione: «Haec est ergo prima uia perueniendi ad
perfectionem ut ' aliquis studio sequendi Christum, dimissis diuitiis paupertatem
sequetur».
83
In Matthaeum 19, 21, n. 1598.
84
H testo continua con queste parole: lmitatio enim est in sollicitudine
prae- dicandi, docendi, curam habendi. Si tratta di uno di quegli esempi in cui si
vede come fra Tommaso s’immerge personalmente in questo dibattito e non perde mai
420
di vista il suo proprio modo di seguire Cristo; cf. J.-P. TORRELL, Le semeur est sorti
pour semer. L’image du Christ prêcheur chez frère Thomas d’Aquin, «La Vie
spiri- fermarci; le formule hanno un valore abbastanza universale
per potersi applicare a tutti i discepoli di Cristo. Quando s’imbatte
nelle parole di Gesù circa il servitore «fedele e saggio» al quale il
padrone come ricompensa «affiderà l’amministrazione di tutti i
suoi beni», Tommaso le concepisce come un’allusione alla
beatitudine che si può interpretare in vari modi:
«La terza interpretazione si riferisce all’unione a Cristo. In
questo mondo non si giunge alla perfezione se non seguendo le
orme di Cristo, parimenti nell’altro la beatitudine eterna non si
otterrà se non mediante l’unione a Cristo. Essi saranno stabiliti
come amministratori di tutti i suoi beni in quanto la loro volontà
è conforme alla volontà divina»85.
È molto significativo ritrovare qui, strettamente unite, sequela di
Cristo su questa terra e unione a Cristo nella beatitudine. Cristo resta
simultaneamente il cammino e la meta, e Tommaso lo ripete ogni volta
che il contesto lo permette, come nel caso del detto di Gesù in san
Giovanni (10, 27-28): «Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le
conosco, ed esse mi seguono; io do loro la vita eterna»:
«In questa frase bisogna considerare quattro cose che sono in
reciproca corrispondenza: due da parte nostra, ossia due nostri
atteggiamenti verso Cristo; e due da parte di Cristo nei nostri
riguardi.
La prima cosa, che dipende da noi, è l’obbedienza a Cristo... La
seconda, che dipende da Cristo, è la scelta che egli compie nei
nostri confronti e il suo amore per noi... La terza, che dipende di
nuovo da noi, è l’imitazione di Cristo... La quarta, corrispettiva
da parte di Cristo, è la ricompensa: "Io do loro la vita eterna”. Il
che equivale a dire: essi qui mi seguono camminando sulla via
della mansuetudine e dell’innocenza; e io dopo farò in modo che
essi mi seguano entrando nella gioia della vita eterna» 86.
tuelle», nov.-déc. 1993, 657-670. Ciò è stato anche osservato da L.B. PORTER, Stimma
Lontra Gentiles III, Chapters 131-135: A Rare Glimpse Into thè Heart as meli
as thè Mzndof Aquinas, «The Thomist» 58 (1994) 245-264.
85
In Matthaeum 24, 47, lect. 4, n. 2003; la prima interpretazione intende le
parole del vangelo della beatitudine, la quale consiste nel godimento di Dio stesso in
quanto egli è al di sopra di tutti i beni; la seconda intende queste parole della
ricompensa riservata ai buoni pastori della Chiesa.
86
1« Ioannem 10, 27-28, lect. 5, n. 1444-1449.
421
XV
Conclusione:
idee guida e fonti
1
Sarà piacevole leggere qui il giudizio di un esperto circa uno degli «opuscoli»
filosofici di Tommaso, qualificato come «gioiello dell’argomentazione filosofica»:
«Esegesi del De anima, critica dell’averroismo, teoria generale dell’anima e del
pensiero, piccola storia del peripatetismo, il De untiate intellectus contra auer-
roistas costituisce una delle opere maggiori della storia del pensiero», THOMAS ID’AQUIN,
L’untié de l’intellect contre les Averroistes suivi des Textes contre Aver- roès
antérieurs à 1270. Testo latino, traduzione francese, introduzione, bibliografia,
cronologia, note e indici, a cura di A. DE LIBERA, Paris 1994, p. 73.
422
tentare di capire ciò in cui egli crede, non ne fa un semplice affare di
rigore logico; al contrario, egli impegna tutta la sua persona e invita il
proprio discepolo a fare altrettanto. Chi vorrà leggere o addirittura
rileggere l’una o l’altra delle pagine così belle tradotte qui, non nvra più
alcun dubbio su questo carattere spirituale della sua teologia. Era
necessario mostrare ciò almeno per alcuni temi, ma resta tanto da fare
per manifestarlo anche su altri punti. Se questo tentativo potesse
suscitarne altri, il suo scopo sarebbe raggiunto e perfino superato.
Se si tenta ora di fare uno sforzo di sintesi, due punti principali
devono attirare l’attenzione. Innanzitutto si tratta di individuare il più
fedelmente possibile le caratteristiche maggiori di questa teologia
spirituale del Maestro d’Aquino. Senza ripetere troppo ciò che è stato
già detto, occorre piuttosto riassumere e mettere in evidenza alcune
COLISI. guenze che ne derivano. Poi bisognerà ricordare le fonti di questa
spiritualità, ossia ricollocare l’autore nel suo ambiente originario,
ricordare il suolo fecondo in cui immerge le sue radici. Come diceva
tempo fa il p. Congar, san Tommaso non è Melchisedek! Se egli ha una
propria fisionomia, ha anche una genealogia, ed è illuminante ricordare
alcune delle sue ascendenze.
IDEE GUIDA
423
f quaggiù non possiamo che pregustare nell’attesa della visione beatifica.
ì~r Lungi dal pensare di potersi impadronire bene del mistero di Dio me- ;
I diante i suoi concetti e i suoi ragionamenti, Tommaso .non smette di -,
essere cosciente del fatto che il mistero sfugge ad ogni presa e invita il
proprio discepolo a prostrarsi con lui nell’adorazione dell’Ineffabile.
Lungi pertanto dal concepire il mistero del Totalmente Altro come il sacro
temibile e lontano della storia delle religioni, egli lo identifica con colui
che è vicinissimo, col Padre del nostro Fratello e Signore Gesù che ci
genera alla sua vita a immagine del suo Figlio prediletto.
In quest’approccio della realtà cristiana, anche la Persona del
Figlio è valorizzata in maniera assolutamente specifica. Come Verbo,
egli presiede alla prima creazione delle cose; come Verbo incarnato,
guida l’umanità nel suo ritorno verso Dio. Secondo il linguaggio qui
proposto, egli è contemporaneamente colui a partire dal quale siamo
creati e ricreati (esemplarismo ontologico), ma anche l’incarnaziorie
perfetta di tutte le virtù e quindi, di conseguenza, il modello offerto a
tutti coloro che si dicono appartenenti a lui, i quali devono seguirlo
liberamente e imitarlo (esemplarismo morale). Mentre tutto nell’idea
aristotelica di scienza che diceva di seguire, spingeva Tommaso a
trascurare questo fatto singolare e contingente, ribelle alle
universalizza- zioni, egli si rifiuta di disfarsene e preferisce sovvertire
l’eredità del Filosofo greco attribuendo a Cristo il ruolo unico e
insostituibile che gli accorda il Vangelo. La sua costruzione non è
meno rigorosa, ma è dominata da un’altra coerenza, quella della storia
della salvezza, di cui sa bene che le «convenienze» in essa riscontrate
non hanno niente di una necessità logica.
Quanto allo Spirito Santo, implicato allo stesso titolo del Figlio
nella creazione primordiale, egli è colui che, mediante la sua azione
universale e costante - «la grazia dello Spirito Santo» -, rende
possibile il ritorno verso il Padre permettendo d’impegnarsi al seguito
di Cristo. Soltanto per suo tramite inizia il nostro cammino di ritorno
verso il seno del Padre ed è ancora grazie a lui che tale cammino può
giungere al suo termine, poiché è esclusivamente con la grazia dello
Spirito d’adozione che siamo resi conformi all’immagine dell’unico
Figlio per natura. In nome dell’amore che presiede all’azione della
Trinità nel mondo, Tommaso non esita ad attribuire allo Spirito Santo
per appropriazione la guida suprema della storia della salvezza, come
pure gli riconosce il primo ruolo sia nella direzione della vita
personale del cri-
stiano che in quella della vita ecclesiale. Lo Spirito appare così come
424
la cerniera, se così si può dire, tra l’iniziativa divina e la libertà
umana, nell’ineffabile comunione d’amicizia che Dio stesso ha voluto
instaurare con la sua immagine.
Questa opzione trinitaria ha trovato la sua trascrizione nella
costruzione della sintesi della Somma - non è più il caso qui di
ritornarvi, ma non è inutile ripeterlo -, è essa che permette di superare
le alternative semplicistiche a volte proposte: la teologia di Tommaso
non è né teocentrica né cristocentrica a discapito dell’una o dell’altra
Persona divina. Parimenti, la sua spiritualità non è unicamente filiale,
né tantomeno semplicemente eristica o pneumatica, ma appunto
teologale, tri- nitaria: in essa ogni Persona è ugualmente presente e
operante, e la relazione con l’indivisibile Unitrinità è veramente
determinante. JU
860 Si rileggerà il testo completo qui sopra, cap XIV: «L’inno alla carità».
861 Cf. S. PlNCKAERS, Les sources de la morale chrétienne, pp.
427
ma non si tratta che di una differenza d’accento. Tommaso certamente
non ignora il posto che occupa il male e la sofferenza nella vita
dell’uomo (la sua lunga meditazione sul libro di Giobbe ne è la
testimonianza 862), ma, sebbene ne parli bene, non si può riassumere la
sua spiritualità in un elogio della croce. Né tantomeno egli elogia
l’epicureismo, ma invita piuttosto a «diventare ciò che si è». Certo,
egli intende a modo suo la massima del saggio antico, ma non la
rinnega. La concezione toma- siana dell’uomo e della sua libertà
implica che costui non trova se stesso se non trovando Dio. Figlio di
Dio, chiamato a servirlo nella gioia e nell’amore, destinato ad essere
erede del Regno, l’uomo non ha nessun motivo per comportarsi come
uno schiavo che ha timore. Il ripetuto appello all’esperienza
dell’amicizia evidenzia il posto che Tommaso riconosce ai valori
umani per esprimere il mistero delle nostre relazioni con Dio. Anche
se è necessario che questi valori siano purificati e resi alla loro
integrità, la vita secondo lo Spirito per Tommaso non si situa soltanto
sul registro della rinuncia e dell’obbligo, ma appunto su quello del
compimento per mezzo dell’amore.
FONTI
La sapienza antica
Sebbene il loro impatto sulla spiritualità sia relativamente indiretto,
sarebbe impossibile misconoscere tutto ciò che san Tommaso deve ai
moralisti pagani dell’antichità nella propria valorizzazione della virtù
umana e del mondo creato. Non è più il caso di analizzare i dettagli di
questi vari prestiti, alcuni dei quali sono stati citati in questo libro; eppure,
se oggi si tende piuttosto a non esagerare ulteriormente l’apporto di
Aristotele - che tuttavia resta reale, in modo particolare con l’Etica a
Nicomaco -, si scopre ogni giorno di più ciò che egli deve allo stoicismo
attraverso sant’Agostino e Cicerone 864 865. Mediante questa «ricezione» del
pensiero filosofico e morale degli antichi, in realtà c’è in Tommaso la
volontà d’accogliere il tutto dell’uomo e della sua eredità. Per lui l’uomo
non consiste nella natura bruta quanto piuttosto nel suo stato di cultura.
Questo è un modo tra gli altri per onorare la verità ovunque si trovi e,
infine, per rendere omaggio a Dio stesso nel quale essa trova la propria
origine. Come il bene, che non sarebbe possibile compiere senza
l’influenza, almeno segreta, della grazia, così ogni verità, detta da
chicchessia, viene dallo Spirito Santo n. Tuttavia è certo che le fonti
propriamente cristiane esercitano un’influenza molto più intensa.
La Sacra Scrittura
Di primo acchito, la vena paolina è quella che colpisce di più.
Quando si tratta di evidenziare il carattere cristoconformante della grazia
oppure l’imitazione di Cristo, Tommaso trova in Paolo un materiale
immediatamente utilizzabile, che il più delle volte si è accontentato di
organizzare in forma teologica. Se si dovesse pensare che questo primato
non sia dovuto che ad un effetto di prospettiva - dato che il corpo paolino,
integralmente commentato, occupa un posto importante nelle opere di
La liturgia
La menzione di questa fonte forse sorprenderà i frequentatori
abituali di fra Tommaso, che si ricordano della confessione fatta una volta
866 É. GILSON, Les tribulations de Sophie, Paris 1967, p. 47.
867 Contra errores graecorum I, 1, Leon., t. 40, p. A 72: «De diuinis non
de facili debet homo aliter loqui quam sacra Scriptum loquatur»; cf. STh I, q. 36, a. 2 ad
1: «Non si deve insegnare a riguardo di Dio ciò che non si trova nella Sacrai Scrittura, o
espressamente con le parole o per il senso». Lungi dall’essere isolate, queste formule
esprimono una convinzione maggiore spesso incontrata, cf. B. DECKER, Schriftprinzip und
Ergänzungstradition in der Theologie des hl. Thomas von Aquin, in Schrift und
Tradition, herausgegeben von der deutschen Arbeitsgemeinschaft für Mariologie, Essen
1962, pp. 191-221 (cf. la nostra presentazione: RT 64,1964, pp. 114-118).
868 Cf. M. AlLLET, Lire la Libie avec S. Thomas. Le passage de la
littera à la res dans la Somme théologique, «Studia Friburgensia» N.S. 80, Fribourg
(Svizzera) 1993.
431
da quest’ultimo di non aver partecipato all’Ufficio di un Giovedì santo per
rispondere subito ad una consultazione del Maestro dell’Ordine 869. Da ciò
si è concluso che per lui il lavoro era più importante della preghiera 870.
Ora, questo significa dimenticare che, nonostante la sua dispensa di
Maestro in teologia che lo liberava da alcuni obblighi, l’Ufficio divino
restava la sua occupazione quotidiana, e che si possono cogliere molte
coincidenze tra la sua teologia e la celebrazione dell’anno liturgico 871. Egli
ha condotto la sua vita di teologo in un’esperienza vissuta della liturgia e
se ne trova l’eco, nella sua predicazione e altrove, sotto la formula dicitur
o cantatur, per mezzo della quale egli introduce nel suo discorso ciò che si
canta nella liturgia (la formula ricorre trentatré volte). Al di là delle parole,
uno dei più begli esempi di questa corrispondenza tra liturgia e teologia si
trova a proposito dell’efficienza attuale dei misteri della vita di Cristo,
dove la spiegazione che egli propone si congiunge strettamente all’«oggi»
della celebrazione liturgica872. Se ci si ricorda della sua infanzia
benedettina, anch’egli avrebbe potuto dire a buon diritto: «Devo alla
liturgia, alla celebrazione dei misteri cristiani, la metà di ciò che ho
percepito in teologia»873.
Il eredità domenicana
La scelta di Tommaso a favore dell’Ordine domenicano invece di
quello benedettino - e forse di altri ancora - lo ha spinto a identificare la
sua causa personale con quella della sua famiglia religiosa con una voga
inaspettata da parte sua. Ciò lo si scopre con assoluta evidenza nel suo
atteggiamento e nei suoi scritti sulla vita mendicante, considerando il
modo in cui parla della povertà, dello studio, dell’insegnamento e della
missione di predicazione universale877. Prescindendo dal clima di rivalità e
874 Cf. L.-J. BATAILLON, Saint Thomas et les Pères: de la Catena à la Tertia
Pars, in Ordo sapientiae et amoris, pp. 15-36; G. EMERY, Le photinisme et ses précurseurs chez
saint Thomas, RT 95 (1995) 371-398.
875 Questa felice espressione è di L. Elders.
876 Cf. Tommaso d'Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 275-278.
877 Si può rileggere qui il nostro Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo,
cap. V: «L’avvocato difensore della vita religiosa mendicante»; si veda anche il cap. XIV,
433
addirittura d’ostilità tra secolari e regolari che regnava allora, nessun
maestro secolare di quell’epoca avrebbe potuto scrivere quelle pagine, è
nemmeno un maestro francescano878.
Questa presenza domenicana la si coglie benissimo seguendo le
tappe della vita e della formazione intellettuale e religiosa del giovane
Tommaso. Se non si può tacere sul tempo trascorso a Montecassino e a
Napoli, tanto più non si potrebbero mai sopravvalutare i lunghi anni di
formazione in compagnia di sant’Alberto. E seguendo costui che egli si è
impegnato in teologia nella duplice via simultanea del rispetto della
sapienza antica (Aristotele) e della riverenza nei confronti del mistero
trascendente di Dio (Dionigi), come pure è anche al Maestro di Colonia
che egli deve, tra l’altro, alcune intuizioni maggiori della sua teologia
trinitaria della creazione.
A volte non si può che intuire ciò che Tommaso ha ricevuto
dall’ambiente di Saint-Jacques, e resta tanto da fare per precisarlo ulte-?
riormente. Oltre al fervore religioso di una fondazione ancora giovane,?
quali ricchezze umane e quali risorse di biblioteca egli non ha trovato in
questo luogo privilegiato, fin dall’origine legato all’Università! Tutto ciò
che c’era di più vivente nella cristianità di quell’epoca trovava ini esso, se
non sempre l’origine, almeno la sua più immediata ripercussione. E
indubbio che l’accoglienza di tutte le novità intellettuali, greche, arabe ed
ebraiche, così intimamente mescolate, abbia contribuito a svegliare e
mantenere viva in Tommaso la curiosità intellettuale, l’apertura della
mente, l’attitudine di accoglienza positiva di tutto ciò che esiste di valido
nella cultura umana. Tuttavia il segno più evidente dell’ambiente
intellettuale e spirituale di Saint-Jacques potrebbe ben consistere
nell’attenzione accordata alla Sacra Scrittura che in lui è così
sorprendente. Senza vedere in ciò un’esclusività domenicana, si può
certamente riconoscere però l’eredità dei grandi lavori di Ugo di San; Caro
e della sua «équipe».
Si ringrazia Tommaso, e giustamente, per la grande chiarezza del
suo insegnamento dogmatico, identificando volentieri la missione
domenicana con la difesa della fede. È indubbio che san Domenico ne sia
stato qui l’ispiratore879. Checché ne sia delle deformazioni posteriori, ciò
pp. 412-413.
878 Lo si capirà facilmente se si pensa soltanto alla diversa concezione della
povertà nei due Ordini.
879 Per non appesantire questa conclusione moltiplicando i riferimenti ad
una realtà d’altro canto supposta conosciuta, rinviamo una volta per tutte all’opera
434
che è principale nell’uno e nell’altro è l’attaccamento alla verità - si è
notato abbastanza che ueritas è la prima parola della Somma contro i
Gentili come pure della Somma di teologia? -. Per l’uno come per l’altro,
l’atteggiamento principale consiste dunque nella contemplazione della
verità - i racconti dei testimoni sono inequivocabili - ma la volontà di
comunicarla ne è inseparabile. Infatti Tommaso e Domenico - seguendo il
Cristo di san Giovanni - sanno che soltanto la verità salva e rende liberi e
che in essa si trova la realizzazione, la salvezza e la felicità dell’uomo.
Con la sua teologia e la sua spiritualità della vita apostolica, Tommaso
raggiunge perciò Domenico in una comune passione per la salvezza altrui.
Annunciare a colui che ne fosse privo ciò che si è percepito della verità
evangelica, significa venire in aiuto alla sua più grande miseria e
partecipare all’atto supremo della misericordia divina.
Più raramente osservato, forse, c’è un altro aspetto che sarebbe
impossibile dimenticare e che si scopre sempre di più: l’apporto più
innovativo della Somma risiede non nella sua parte dogmatica ma in quella
morale, la Secunda Pars. Ora, ciò trova esattamente la sua origine nella
così feconda epoca di Orvieto, durante la quale Tommaso era incaricato
della formazione dei fratres communes in vista della predicazione e della
confessione. Allora certamente egli aveva potuto constatare i limiti della
formazione domenicana corrente, ma è proprio la fedeltà a questo compito
ricevuto dall’Ordine che lo ha spinto a sviluppare il suo proprio genio 880.
Se passiamo a delle opzioni più immediatamente spirituali, le
influenze sono forse meno dirette, tuttavia però reperibili. San Domenico
non ha lasciato altro ai Frati predicatori che il suo proprio esempio di
povertà, di preghiera per i peccatori, di mortificazione volontaria, di studio
costante, di predicazione instancabile e la sua preoccupazione per una
formazione intellettuale adatta per i frati. La sua influenza è stata decisiva
e ha trovato la sua forma istituzionale nelle Costituzioni dell’Ordine,
tuttavia egli non ha lasciato un metodo spirituale come altri fondatori.
Perciò è ammesso che, sebbene vi siano «correnti domenicane» di
spiritualità, non si può dire propriamente parlando che esista una «scuola
domenicana» di spiritualità 881. Indubbiamente si può vedere una traccia di
quest’attitudine nel fatto che nemmeno in Tommaso troviamo un metodo
spirituale. Sebbene spesso si trovino in lui delle allusioni e delle forti
fondamentale di M.-H. VlCAlRE, Histoire de saint Dominique, 1. Un Homme évangélique\ 2.
Au coeur de l’Église, 2 tt., Paris 1982; più breve, ma molto suggestivo: G. BEDOUELLE,
Dominique ou la gràce de la parole, Paris 1982.
880 Cf. Tommaso d‘Aquino. L’uomo e il teologo, pp. 141-143.
881 Cf. sopra, cap. XIV, nota 76.
435
motivazioni spirituali, e che si possa individuarle, come abbiamo tentato
di fare, non vi è tuttavia una spiritualità tomistica data in anticipo.
E direttamente in relazione al fondatore dei Predicatori, si può anche
osservare che san Domenico si è energicamente rifiutato di essere
chiamato «abate» dai suoi, volendo esprimere così che egli non si
considerava chiamato a comandare la loro coscienza, ma voleva essere
semplicemente tra loro il priore, «fra» Domenico 882. L’insistenza di
Tommaso sulla virtù di prudenza e sulla coscienza come regola del-;
l’agire personale ha sì una giustificazione teologica, ma può anche esse-;
re letta come traduzione di quest’appello alla responsabilità personale: che
Domenico rivolgeva così ai suoi. In una teologia spirituale alla; scuola di
san Tommaso, la persona trova in se Stessa la norma del prò-; prio agire;
abitata dallo Spirito, essa è la sua propria legge. Certo, può : consigliarsi e
informarsi, ma è lei che decide. Se dunque nella spiritualità tomistica vi è
posto per il consiglio di un maestro spirituale, tuttavia non si troverà in
essa niente di paragonabile al ruolo di un direttore di coscienza che può
avere un posto determinante in altre spiritualità 883. In ciò forse non si ha la
minor eco dell’eredità domenicana di Tommaso d’Aquino.
All’inizio di questo libro avevamo lasciato sospesa la questione di:
sapere se vi fosse una spiritualità propria di san Tommaso. Senza far parte
di quegli incondizionati stigmatizzati da Umberto Eco 884, crediamo che si
possa rispondere affermativamente. D’altro canto ora ciascuno può
giudicare da solo. Senza pretendere di aver ripreso qui tutto ciò che
meritava di esserlo, si è tuttavia proposta una buona quantità di elementi
che permetteranno a ciascuno di valutare più esattamente la collocazione
di Tommaso come autore spirituale con una propria fisionomia.
Questo non significa che egli è innovativo su ogni punto. Dopo aver
ricordato, come abbiamo appena fatto, la grandezza del suo debito,
sarebbe rendergli davvero un cattivo servizio il pretendere che egli abbia
inventato tutto. Al contrario, bisogna riconoscere che vi è in lui, come in
882 Eppure già il suo primo successore gli accorda il titolo di «padre», cf.
Libellas, n. 109, in M.-H. VICAIRE, Saint Dominique et ses frères. Evangile ou
GIORDANO DI SASSONIA,
Croisade?, Paris 1967, p. 132.
883 Cf. il nostro art. in DS, col. 769; ancora una volta sono felice di
sottolineare qui il mio accordo con il penetrante saggio di W.H. PRINCIPE, Thomas Aquinas’
Spirituality, in cui si osserva (pp. 24-25) che il self-counseling è l’implicazione diretta della
dottrina di Tommaso sulla prudenza.
884 Ci si ricorderà della sua valutazione non priva di ogni verità:
«Tommaso d’Aquino ha la sfortuna di essere letto più da “fans” che da storici», U. Eco,
Le problème esthétique chez Thomas d’Aquin, p. 9.
436
molti autori dell’epoca - Alberto o Bonaventura, per non citare che i più
grandi dei suoi contemporanei -, un fondo di pensiero cristiano
praticamente invariabile. Soltanto la misconoscenza di un enorme numero
di scritti di quell’epoca ha potuto far sì che un tempo si formulassero dei
giudizi la cui parzialità, per non dire erroneità, oggi ci sorprende.
Tommaso ci appare al contrario molto meglio collocato e non è meno
grande per il fatto che lo vediamo più da vicino.
Perciò non bisogna cercare la sua specificità in tale o tal altra
caratteristica più o meno artificialmente isolata, ma appunto nella totalità
di un pensiero che mantiene uniti in un equilibrio che raramente viene a
mancare, vari aspetti facilmente sacrificabili l’uno all’altro 885. Basta
pensare al modo in cui egli sostiene contemporaneamente l’aspirazione
dell’uomo a vedere Dio - alla quale tiene al di sopra di ogni cosa, dato che
non può concepire un’altra felicità ultima per l’umanità - e l’apofatismo
della tradizione cristiana orientale che gli insegna il senso del mistero
sempre più grande, e nel quale l’uomo si perderà molto più di quanto non
lo comprenderà. Si pensi inoltre soltanto al modo in cui egli sottolinea con
Agostino la necessità della grazia affinché sia realizzabile una piena
riuscita umana e, allo stesso tempo, alla robusta salute intellettuale che
ispira il suo apprezzamento della bontà innata della creazione. Poiché i
frati predicatori fin dall’inizio hanno dovuto lottare contro l’idea catara di
un mondo cattivo, non bisogna vedere qui una nuova traccia della sua
appartenenza domenicana?
Se, tra le tante altre cose che avrebbero potuto trovare un posto in
questo libro, abbiamo limitato il nostro sforzo alla presentazione dei due
soggetti principali, Dio e l’uomo, è certamente per mettere in evidenza il
carattere dialogico dell’avventura spirituale, in cui oggi prosegue, in
quest’epoca della salvezza qual è la nostra, l’Alleanza stabilita un tempo
da Dio con il suo Popolo. Come pure, così facendo, abbiamo voluto
sottolineare la profonda unità che presiede alla visione to- masiana delle
cose. Inaccessibile nella sua trascendenza, Dio-Trinità non smette di
essere presente in questo mondo uscito dalla sua volontà creatrice, e le tre
Persone sono tanto inseparabili nella loro opera nella storia, quanto lo
885 Alcuni lettori ricorderanno forse quanto abbiamo detto
precedentemente ispirandoci ad un suggerimento di S. Pinckaers ( Les sources de la morale,
pp. 121- 123): «1) Se si usa il metodo del residuo - eliminando successivamente tutto ciò che
si trova altrove in una maniera o nell’altra - conservando soltanto l’infimo nucleo che ha
resistito a tale decapaggio, certamente non si troverà niente di originale in Tommaso. 2) Se
si usa il metodo degli insiemi, si osserverà invece che egli propone una dottrina che onora
simultaneamente e in un equilibrio dinamico la quasi totalità dei dati evangelici. Questo
forse è più raro», DS 15, col. 772.
437
sono nell’unità della loro vita intima dall’eternità. E neppure l’umanità che
si trova al loro cospetto forma una collezione più o meno disparata di
individui isolati in un mondo in cui si trove
438
rebbero per caso. Essa è vista con lo sguardo stesso di Dio, unita a
quella creazione che ha la missione di umanizzare, essendone parte in
causa alla radice; finalizzata, perfino senza saperlo, dalla ricerca della
beatitudine; profondamente unificata, almeno in germe, nella Chiesa -
Corpo di Cristo, primizia dell’unione definitiva nella patria.
Simultaneamente; persona e comunione, l’«umanità» di Tommaso è fatta
proprio a immagine della comunione trinitaria e questo caratterizza in
maniera indelebile il suo approccio alla spiritualità.
Sigle e abbreviazioni
Sono elencate qui sotto le sigle correntemente usate nelle note e
nella bibliografia. I titoli dei libri o articoli citati in modo abbreviato
hanno la loro segnalazione completa nella bibliografia.
435
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INDICI
Indice dei temi e dei termini principali
467
468
Abito: 22-23 ; 300-301; a. entriamo in comunione, in
operativo, 301-302; a. creato di koinonia con Dio, 381-383; è la
carità, 207. beatitudine in germe, 399; ha
Amicizia: la sua dimensione vari gradi, 406-409; fa parte
sociale, 313-315; l’uomo non della sua natura crescere
può essere felice senza amici incessantemente, 406-409;
318-319; la carità è una. 380- madre e «forma» di tutte le
384. virtù, 404-406; niente può
Anima della Chiesa: 215-221. dispensarne e senza di essa il
Appropriazione trinitaria: cristiano è un niente, 402-403;
definizione, 182-185; permette 410-412.
di attribuire allo Spirito Santo Chiesa: Corpo di Cristo, 169-173;
tutto ciò che dipende partecipa alla triplice qualità
dall’economia della salvezza, messianica del suo Capo, 173-
186-198. 175; comunione dei santi, 221-
227; Lo Spirito Santo è la sua
Beatitudine: comanda la teologia «anima», 217-221; è il suo
morale, 96-100; il Verbo si è cuore, 221-222; congregatio
incarnato per aprirci la strada fidelium, 226; risponde alla
della b., 126-131; è la natura sociale dell’uomo, 329-
comunione con Dio, già 335; è contemporaneamente
cominciata in questa vita, «città» e «collegio»,
compiuta nella gloria, 377-379; «famiglia», «popolo», 331-
ciò che è, ciò che non è, 393- 334; il suo rapporto ai
397; fa entrare in gioco tanto sacramenti,
l’amore quanto l’intelligenza, 334- 335; la sua relazione allo
390-391; soltanto essa può Stato,
appagare il nostro desiderio, 335- 340.
391-393; 396-397; vedere Comunione, comunicazione: 316-
«Fede», «Speranza», 319; 381-384.
«Escatologia». Connessione delle virtù nella
Beatitudini: si distinguono dai prudenza e nella carità: 308-
frutti dello Spirito Santo come 312.
opere più perfette, 247-250; Coscienza: definizione, 357-358;
sono un anticipo della c. e sinderesi, 356-359; il suo
beatitudine della patria, 250- obbligo è quello della legge di
251. Dio, 358-359; c. erronea, 360-
Bene comune: al di sopra del b. 364.
particolare nell’ordine naturale, Creazione: c. e Trinità, 71-76;
325- 328; ma il b. di grazia di assomiglia al suo Creatore, 77-
uno solo prevale sul b. naturale 81; la sua presenza in Dio, 81-
di tutto l’universo, 353-354; 82; è avvenuta nel tempo, 262;
persona e b. c., 351-355. relazione di dipendenza
dell’essere creato nei confronti
Carità: è un’amicizia con Dio, del Creatore, 262-266; Dio crea
380-384; per mezzo di essa per pura bontà, la sua c. è essa
469
stessa buona, 267-269. Tetra- gramma, 58-62;
Credibilia'. 23-24. inconoscibilità di D. e visione
Cristo: la sua collocazione nel dell’essenza divina, 37- 41; 62-
piano della Somma, 70-71; 65; D. è principio e fine di tutte
119-124; DODI; nostro le cose, 67-71; la sua presenza
cammino verso Dio, 119-120; nel mondo, 82-87; il suo amore
140-145; l’Immagine perfetta per il mondo, 90-91; 93-95;
di Dio, 102; l’Esemplare di non è implicato nelle nostre
tutta la creazione, 122; 134- sofferenze, 93.
136; nostro modello, 132-141; Divinizzazione: 147-149; 420-
modello di tutte le perfezioni, 421.
413-416; la sua presenza e il Doni dello Spirito Santo: si
suo agire salvifico nella fede e distinguono dalle virtù, 236-
nei sacramenti ci rende 237; dati con la carità, 233-243;
conformi a lui nei suoi diversi necessari alla salvezza, 243-
«misteri», 162-168; principio 244; dati per aiutare le virtù,
di ogni grazia così come Dio è 243-244.
principio di tutto l’essere, 169-
171; vedere anche Ecologia: 274-276.
«Imitazione» e «Sequela» diC. Escatologia: le virtù teologali
Cristologia e teologia morale: fanno assaggiare la felicità
120-124. della patria: 364-373; vedere
Cuore della Chiesa: 221-222. anche «Fede», «Speranza,
«Carità», «Beatitudi- ne/i».
Deificazione: vedere Esempio: la sua forza prevale su
«Divinizzazione». quella delle parole, 132-133;
Desiderio: fede e speranza 136-137.
ravvivano nell’uomo il d. della Esemplarismo, morale e
patria celeste, 367-370; la ontologico: 135; 146-147; 419.
preghiera è il suo interprete, Esperienza: implica un contatto
373-376; d. naturale di vedere diretto, affettivo e non solo
Dio, 386-391; non sarà intellettuale, 113-115;
appagato che nella beatitudine, conoscenza sperimentale di
391-393. Dio, 111-116; è una
Dio: la sua esistenza, 35-37; non conoscenza da cui sgorga
si può conoscere «ciò che egli l’amore, 115-116.
è», 37-41; ma se ne può avere Evangelismo di fra Tommaso e
una conoscenza analogica della sua dottrina: 412-413.
mediante la causalità, Exitus-reditus-, schema circolare e
l’eminenza e la negazione, 51- piano della Somma, 68-71; la
54; la via negativa come creazione nel prolungamento
esercizio di spoliazione, 42-45; delle processioni trinitarie, 71-
apofatismo e conoscenza di D., 75; l’immagine di Dio è il
47-49; i nomi di D. lo luogo a cui si allaccia il
significano senza rinchiuderlo movimento di uscita- ritorno,
in una definizione, 54-57; il 104-105.
470
Fede: virtù teologale, 13-15; 23- nell’anima in atto d’amore e di
25; assaggio della beatitudine conoscenza di Dio,
futura, 366-369; quasi abito dei 104- 109; la sua suprema
primi principi della teologia, somiglianza si raggiunge nella
22-23. patria, 116- 118.
Fine ultimo dell’agire umano: Inabitazione della Trinità
vedere «Beatitudine». nell’anima: 109-111.
Frutti dello Spirito Santo: sono le Incarnazione del Verbo: il suo
buone azioni che l’uomo motivo e la sua convenienza,
compie sotto la mozione dello 86-89; 124- 131.
S., 245-247. Inclinazioni della legge naturale:
322- 325.
Gioia: accompagna la virtù, 303- Istinto dello Spirito Santo: 238-
305. 240.
Grazia: soltanto Dio può darla
poiché essa ci rende Koinonia: vedere «Comunione,
«deiformi», 147- 149; comunicazione».
l’umanità di Cristo ne è lo Legge: nuova, 229-231; 1. e
«strumento», essa lascia in noi libertà, 232-234; 1. naturale,
la sua impronta e ci rende 319-323; per mezzo della 1.
conformi anche a Cristo, 149- l’uomo diventa la sua propria
152; la g. di Cristo si comunica provvidenza, 325-327;
al suo Corpo, la Chiesa, 170- necessaria ad ogni comunità,
173; che diventa così un Corpo 325- 328.
sacerdotale, regale e profetico,
173-175; g. dello Spirito Santo: Magnanimità: 304.
non si identifica con la terza «Misteri» della vita di Cristo: 153-
Persona della Trinità, è un dono 155; esercitano un’azione
creato, 205-210; in rapporto efficace nel dono della grazia,
alla natura dell’uomo essa è un 155-157; in modo che la loro
«accidente», 208-209; non influenza salvifica ci raggiunge
distrugge la natura, ma la realmente oggi, 157- 162.
conduce alla sua perfezione, Mondo: creato da Dio, esso è una
287-288. cosa buona, 267-276; non vi
sono tracce di «disprezzo» per
Imitazione di Cristo: 136-145; la creazione nell’opera
413- 416; e di Dio, 131-135; tomasiana, 276-279; il m. e i
167-168. suoi valori meritano rispetto e
Immagine di Dio: il ruolo di impegno, 273-276; 285-286;
questo tema nella costruzione messa in guardia contro le
della Somma, 97-100; 121-123; attività secolari che rischiano di
deve tendere alla somiglianza, sostituirsi all’unico fine
100-103; l’uomo ad immagine ultimo,, 279-284; vedere anche
della Trinità, «Creazione».
103- 107; i suoi tre gradi, 104- Mutakalimoun o motecallemin:
106; si riscontra meglio 270.
471
Passioni: definizione, 295-296; S., 119-124; 130-131.
sono materia soggetta a Speranza: virtù teologale, 369-
modifiche da parte delle virtù, 373; la preghiera è l’interprete
296-300. del suo desiderio, 373-376; la
Persona umana: ciò che c’è di più sua dimensione escatologica,
nobile nel mondo, 350-352; e 377-381.
bene comune, 352-354. Spirito Santo: onnipresenza
Preghiera: 373-377. nell’opera di Tommaso, 177-
Presenza (di Dio nella sua 181; compreso nella sua
creatura): p. d’immensità, 84- predicazione, 198-200;
86; p. di grazia, 86; 109-111; p. processione per modo di
mediante l’unione ipostatica, Amore sussistente, 210-215 ;
86-89. processione eterna e missione
Principi della teologia: 16-17. temporale, 201- 204; conduce i
Processione: p. intradivina e credenti al Figlio e mediante lui
creazione, 71-76; 201-204; p. al Padre, 252-255; per
dello Spirito come Amore del appropriazione gli sono
Padre e del Figlio, 210-215. attribuiti creazione e governo
Prudenza (virtù del rischio): 307- dell’universo, 92-93; 186-188;
311; p. e virtù morali, 308-311; sempre collegato a Cristo, 171-
p. e carità, 311-312. 173; 234-235; ci rende figli
Pusillanimità: 305. adottivi, 193-194; ci rende
Sacra doctrina-, i suoi due sensi, conformi a Cristo e a Dio, 168;
10; i suoi tre principali 192-194; ci rende amici di Dio,
elementi: «speculativo», e così la Trinità abita in noi e
«storico-positivo», «mistico», noi in Dio, 189-191; è colui per
10-12; quasi impressici diuinae mezzo del quale Dio rivela il
scientiae, 25-26. suo segreto, 191-192; colui che
Sacramenti: è mediante essi che anima i predicatori, 191; tutti i
giunge a noi l’azione salvifica doni spirituali provengono da
dei «misteri» della vita di lui, 191-193;
Cristo, 162- 163; il loro ruolo compresa la remissione dei
nella costruzione della Chiesa, pecca- ri. 194; ci fa vivere in
334-335. un'intima amicizia con Dio e
Sapienza umana e sapienza accorda là nostra volontà alla
evangelica: 280-282. sua in una perivi ia libertà, 194-
Scienza (nozione aristotelica): 198; è il vincolo d’amore che
verità- principio e verità- custodisce nell’unità: la
conclusione, 16. comunione ecclesiale, 215-221;
Sequela di Cristo: 136-145; 413- è la sua «anima», 217-221; è il
416; vedere anche «Cristo» e suo «cuore», 220-222; è il
«Imitazione». fautore principale della legge
Sinderesi: 356-358. nuova, 229-232; è lo S. di
Somma di teologia-, lo schema libertà, 229-232; e di verità, dal
circolare della S., 66-71; il quale proviene tuttodì vero e
posto di Cristo nel piano della tutto il bene, 251-253; vedere
472
anche «Doni», «Frutti», ridurre quella di Dio, 271;
«Beatitudini». collabora all’opera di Dio come
Spirituale e temporale: distinzione un agente libero e responsabile,
delle competenze tra Chiesa e 272-273; confine tra materia e
società civile, 335-340; lo spirito, l’u. è un microcosmo,
spirituale ha delle ripercussioni 288-291; non è né il suo corpo
nel campo temporale, 340-348. né la sua anima, ma il
Spiritualità: tre sensi, 28-30; composto dei due, 291-293; è il
sapere speculativamente pratico vero soggetto del suo atto
e pratica- mente pratico, 30-31; d’intellezione, 293- 294;
dimensione trinitaria, 418-420; animale «politico» o «sociale»,
oggettiva e realista, 421-422; 316-319; è per natura «capace
umana ed ecclesiale, 423-424; di Dio», 391-393; l’u. spirituale
deve molto alla liturgia, a san ha le qualità stesse dello
Paolo, a san Giovanni e ia Spirito, 228- 229; 233; vedere
sant’Agostino, 425-429; come anche «Passioni», «Persona».
pure all’eredità domenicana,
429-432. Al Vestigia: vedere «Trinità».
Subalternazione (della teologia): Virtù: definizione, 298-302; abiti
15- 18. operativi buoni, 302-303; v.
Supposizione impossibile: 92. infuse, 305-307; v. teologali,
305-306; 364- 384;
Teologia: t. e fede, 12-15; t., connessione nella prudenza e
principi, 16-17; t. e preghiera, nella carità, 308-312; sono
26-28; t., sape-: re accompagnate dalla gioia, 303-
contemplativo, 26-28; t., sapere 304.
pratico, 21-22; t., scienza Visione beata: 37-41; 62-64; 391-
«subaltèrna», 15-18; t., 393.
«soggetto» e oggetto, 18-20; t. Vita religiosa: 282-283; 408-409.
e visione di Dio, 15-18.
Trinità: T. e creazione, 71-76;
motivo della sua rivelazione,
76-77; vestigia della T., 78-81;
le tre Persone sono all’opera
nel governo dèi mondo, 90-93;
processione dell’À- more in
seno alla comunione trinitaria.
201-204.
Tristezza: 302-305.
Uomo (vedere anche «Immagine
di Dio»); riceve la propria
dignità dal suo Creatore che gli
ha permesso di esserne causa a
sua volta, 268- 272; attentare
alla dignità dell’u. significa
473
Indice dei nomi
474
475
Aelredo di Rievaulx: 314 Aertsen Bernardi K.: 275
J.A.: 70, 268 Agostino (s.): 11, Berrouard M.-F.: 144, 254
12, 13, 14, 18, 38, 39, 53, 74, 78,Berteaud E.: 385
79, 80, 81, 82, 88, 94, 101, 105, BetzJ.: 10
108, 109, 115, 124, 125, 129, 132, Beumer J.B.: 260
133, 140, 142, 144, 145, 150, 171, Bianchi L.: 272,391
182, 184, 185, 186, 187, 205, 210, Bianco M.G.: 210, 225
213, 215, 218, 230, 231, 238, 239, Biffi 1:9, 68,114,154,231,421
240, 245, 247, 254, 290, 315, 319, Blythe J.M.: 341,343,345
323, 325, 334, 364, 379, 392, 393, Boezio: 350
394, 407, 410, 425, 428, 429, 433 Bonaventura (s.): 19, 39, 41, 67,
Aillet M.: 427 Alberigo G.: 424 68, 71, 185, 246, 272, 279, 293 ,
Alberto Magno (s.): 40, 41, 48, 294, 335,339, 348,385,407,432
51, 67, Bonino S.-Th.: 268,330,341
68,71,335,339,340,407,429,432 Borgonovo G.: 356 Borresen
Alessandro d’Afrodisia: 126 K.E.: 104 Bouessé H.: 87, 158,
AlfaroJ.: 173 159, 161 Bougerol J.-G.: 370,407
Ambrogio (s.): 247,251,252 BouiUard H.: 180,239
Anseimo (s.): 12,13, 14, Boulnois O.: 390
82,124,125, 212,182,185 Antonio Bourassa F.: 215
Eremita: 316 Appuhn Ch.: 326 Bourgeois D.: 367
Araud R.: 360 Bouthillier D.: 6, 90, 140,181,
Aristotele: 10, 17, 50, 101, 126,
127, 128, 133, 155, 163, 190, 192, 408
197, 225, 230, 234, 237, 239, 245, Boyle L.E.: 339
261, 279, 291, 299, 303, 304, 306, Bracken J.: 125
310, 313, 314, 316, 317, 318, 319, Brady L: 205
324, 329, 333, 341, 343, 344, 358, Brazzola G.: 322
381, 382,393,394,398, Bréhier É.: 317
404,425,429 ArnouÌd J.: 263 Breton S.: 268
Atanasio (s.): 150 Aubert J.-M.: Bühler P.: 96, 99,104
321 Busa R: 138,252,277
Averroè: 84,126, 294 Avicebron Buytaert E.M.: 47, 149
(Ibn Gebirol): 270 Avicenna: 85 Buzy D.: 248
BaiUeux É.: 77,168,170,193 Callahan A.: 314 Calvis Ramirez
Barzaghi G.: 263 A.: 178 Canto-Sperber M.: 306
Bataillon L.-J.: 199, 200,276, 428 Capelle
Caquot
C.: 104 Capreolo: 11
A.: 58 Casel O.: 159s.
Bazan C.B.: 261 Cassiodoro: 138 Castaño S.R.:
Bedouelle G.: 430 338 Cenacchi G.: 274 Cesare
Bekker: 341 C.G.: 338 Cessano R.: 125
Belmans T.G.: 356 Chardon L.: 5, 118, 140, 168, 169
Benedetto (s.): 30 Chardonnens D.: 8, 159,352, 423
Bermudez C.: 194 Chatillon J.: 272
Bernard Ch.-A.: 245, 370, 375 Chenu M.-D.: 6, 16, 26,39, 263,
Bernard R.: 246, 248,366 274, 298,412,424 Chevalier J.:
Bernardo (s.): 314 354
476
Cicerone M.T.: 296, 314, 324, 339 Florand F.: 5
326, 425 Follon J.: 268,327
Cirillo di Gerusalemme (s.): 150 Fouilloux E.: 424
Clemente Alessandrino: 210, 225 Francesco ¿’Assisi (s.): 30,
Coggi R: 32 Cointet P. de: 144 424 Fries H.: 10 Froidure
Colombo G.: 131 Combles A.: M.: 179
113
Congar Y.: 5, 10, 20, 24, 29, 128, Gaetano (il): 11, 158, 186, 245,
171, 173, 177, 216, 217, 218, 389, 390
221, 225, 330, 332, 333, 335, Gaillard J.:
340, 345, 418,428 157,159
Conus H.-T.: 149 Gandillac M. de:
Corbin M.: 87, 126 48 Gardeil A.:
Couesnongle V. de: 245
155 Cunningham Gardeil H.-D.: 16, 99, 101, 380,
F.L.B.: 109 388, 389
Garrigou-LagrangeR.: 407
Dabin P.: 173 Dachs H.: 342 Gauthier R.-A.: 305,317, 319, 371
D’Ancona Costa C.: 49,289 Geffré C.: 54 Geffre Cl.-J.: 159
Dasseleer P.: 268 Dawney M.: Geiger L.B.: 78, 100,291
348 Decker B.; 426 DedekJ.F.: Geiselmann J.R.: 150 Gervais M.:
113 Deman Th.: 356, 400, 421 93,264 GerwingM.: 154 Gillon
Dionigi Areopagita (Pseudo-): 39, L.-B.: 120,398 Gilson É.: 31, 36,
40, 42, 47, 48, 49, 50, 52, 68, 74, 44, 47, 50, 69, 83,
88, 101, 108, 114, 127, 148, 169, 263,270,295,426 Gioacchino da
288, 378,403,420,429 Dockx S.: Fiore: 235 Giordano di Sassonia:
217,221 Domenico (s.): 137, 237, 431 Giovanni Crisostomo (s.): 81,
412, 413, 424, 425, 430, 432 141, 142,176,247
Dondaine H.-F.: 39, 40, 41, 76,
77, 118,182,185,186,212 Giovanni Damasceno (s.): 39, 40,
Donneaud H.: 366 D’Onofrio G.: 47, 56,
10,16 Downey M.: 28 Dumont C.: 97,99,148,149,150,169,171
20 Dupuy M.: 28 Giovanni della Croce (s.): 30, 80,
385 Giovanni di S. Tommaso:
Eco U.: 268, 432 Egidio di Roma: 11,241 Girolamo (s.):
341 Elders L.: 181,231,356, 429 58,277,356,415 Goicoechea D.:
Elisondo Aragon F.: 113 Emery 314 Grabmann M.: 221 Gregorio
G.: 51, 68, 71, 74, 96, 148 Magno (s.): 37, 38, 63, 244,
187,214,265,428 Emonet P.-M.: 254,310,410
291 Erasmo Ambrosiaster: 252 Gregorio Nazianzeno (s.): 148
Eschmann I.Th.: 327,339 Étienne Grillmeier A.: 153 Grotius: 321
J.: 231 Eunomio: 39 Ewbank Guerrico di San Quintino: 40
M.B.: 50 Guglielmo d’Auvergne: 38 Guyot
B.-G.: 40
Ferraro G.: 181 Filone: 58
Filthaut Th.: 160 Fitzgerald L.P.: Hamer J.: 340
477
Hamonic T.-M.: 380 Hankey Lohaus G.: 154
W.J.: 339 Harding A.: 345 Longpré E.: 246
Hedwig K.: 231 HennW: 24 Heris Lottin O.: 236,356
Ch.-V.: 91 Holderegger A.: 350 Lubac H. de: 360, 390
Hölderlin: 266 Holtz F.: 159 Luyten N.A.: 96
Hubert M.: 67 Huerga A.: 402
Hugueny E.: 400 Madec G.: 145 Maidl L.: 374
Humbrecht T.-D.: 44, 48, 50, 54, Maimonide: 50,58 Mansion A.:
57, 59 291 Manzanedo M.F.: 289, 296,
Hünemörder C.: 275 381 Marc P.: 50, 137
Maritain J.: 30, 31, 36, 37, 94,
Ignazio di Loyola (s.): 30,424 221, 274,322,327,345 Maritain
Ilario (s.): 74, 81 R.: 345 Martinez Barrera J.: 327
Imbach R.: 77,341,345,350
Indicopleustes C.: 107 Marty F.: 289 Maurer A.: 58
Ippolito di Roma (s.): 222 Mauro L.: 296
Ireneo (s.): 348 McEvoyJ.: 268,314,327, 381
Isidoro di Siviglia (s.): 344s. Melloni A.: 336 Mennessier A.-L:
5 Merle H.: 78
Jordan M.D.: 280, 295, 342 Merriell D.-J.: 99,101,106,108,
Jossua J.-P.: 276, 424 Journet Ch.: 109 Mersch E.: 227 Meyendorff
158, 159, 161, 208, 221, J.: 208 Mitterer A.: 329
224,225,329 Moltmann J.: 94,370 Mongillo D.:
99,246,250 Montagnes B.: 80,
Käppeli Th.: 226 Kilwardby R.: 182,233, 280,281, 290,321
21 Kovach F J.: 78 Kühn U.: Morard M.: 334 Motte A.: 283
179,231 KünzleP.:378 Muñoz Cuenca J.M.: 241 Murait
La Soujeole B.-D. de: 215, A. de: 272
318,332 Labourdette M.-M.: 31, Narcisse G,: 87
241, 283, 308, 322, 357, 366, 378, Nautin P.: 222
380, 389, 400,405 Ladrière J.: 424 Nazareno
80
dell’Addolorata:
Nédoncelle M.: 350
Lafont G.: 36, 98,105,109,118 Neels M.G.: 159 Nestorio:
Lafontaine R.: 131,154,159
Lagarde G. de: 320 Lanversin F. 150
de: 400 Laporta J.: 389 Latour J.- Nicolas J.-H.: 37, 82, 84, 94, 110,
160,182,263,291,421 Nicolas M.-
J.: 158 J.: 158, 241,320 Noble H.-D.: 380
Laugier de Beaurecueil S. de: 101
Lavalette H. de: 182 Omero: 316
Leclercq J.: 29 O’Neill C.E.: 96
Lecuyer J.: 158, 159 Origene: 81, 92
Leone Magno: 125 Owens J.: 48
Leroy M.-V.: 283,291
Libera A. de: 294,391,417 Paolo VI: 285
Livingstone E. A.: 105 Parel A.: 101
Lobasto A.: 274 Pascal B.:
478
116,354 60, 92 Seckler M.: 68, 239,378
Patfoort A.: 112, 113, 116, 125, Seidl H.: 93, 250,264 Sentis L.:
179, 186,198 PedriniA.: 181 Pegis 297 Sertillanges A.D.: 263
A.C.: 49, 292 Pelagio o Pseudo- Serverai V.: 262 Sieben H.J.: 163
Girolamo: 29 PelikanJ.: 101 Perez Silesius A.: 81 Silvestro di
Robles H.R.G.: 112 Perotto L.A.: Ferrara: 389 Smalley B.: 412
423 Pesch O.H.: 299, 303,347 Smith J.C: 143
Philippe M.-D.: 93,141 Philips Socrate: 309
G.: 177 Phillis A. Bird: 104 Pietro Solignac A.: 28,29,
d’Auvergne: 341 Pietro di 99,101,105,356, 400, 407
Tarantasia: 265 Pietro il Somme L.: 155,194,370 Stoeckle
Venerabile (s.): 427 Pietro B.: 260 Suarez de Miguel R.: 350
Lombardo: 18, 115, 120, 121, Suarez F.: 158, 400
138, 154,205,207,208,209,252
PinchardB.: 390 Teresa d’Avila (s.): 30,385
Pinckaers S.: 27, 99, 179, 231, Testard L. 324 Tillard J.-M.R.:
238, 245, 295, 323, 324, 350, 356, 225 Tolomeo di Lucca: 341, 343
363, Tolomio L: 339
370,373,389,394,397,423,433 Tonneau J.: 179, 180, 230, 231,
Pinto de Oliveira C.-J.: 104, 308 235, 283
Pio XII: 216, 329 Platone: 225, Torrell J.-P.: 5, 6, 9, 10, 16, 27,
291 Plé A.: 296,300 Plotino: 291 29, 49, 85, 90, 116, 164, 165,
Porter L.B.: 416 181, 191, 197, 347, 395, 408,
Potvin Th.R.: 88, 172 Pourrat P.: 410, 411, 413, 415
407 Prades J.: 86, 110 Tricot J.: 313 Tromp S.: 216
Principe W.H.: 28, 105 , 261, 285, Trottmann C.: 40 Tschipke T.:
313,348,432 Putz G.: 342 PuyoJ.: 159 Tshibangu T.: 16 Tugwell S.:
428 40,413
Quelquejeu B.: 260 Ugo di San Caro: 40, 412,430
Randi E,: 272,391 Re G.: 168 Ugo di San Vittore: 19,39
Reginaldo da Piperno: 145
Reginaldo: 364 Ricci S.: 390 Vaisecchi A.: 131,137 Vanni-
Riklin A.: 342, 345 Rimoldi A.: Rovighi S.: 272 Vannier M.-A.:
131 Rodriguez P.: 225 Roguet A.- 211,394 Vauthier E.: 216,217,218
M.: 151, 250,334 Roques R.: 125 Veer A.C. de: 360 Verbeke G.:
Rublëv A.: 107 Ruether R.R.: 104 289, 425 Verhelst D.: 289
Ruppert G.: 154 Ryan C.: 330 Vicaire M.-H.: 137, 237, 412,
430, 431
Sabra G.: 330 Saffrey H.-D.: Victoria: 321 Villey M.: 346
49,289 Saranyana J.I.: 342 Virgilio: 240 Vivès: 113,173,332
Scheffczyk L.: 153 Schenk R.: Viviano B.T.: 235
138, 364 Schillebeeckx E.: 13,
20,239 Schmitt F.S.: 13, 82,212 Walgrave J.H.: 239
Schmölz: 342 Schockenhoff E.:
295, 370 Scoto Eriugena G.: 39,
479
Walsh L.G.: 427
Wéber E.-H.: 48, 60,250, 261,
290 Wébert J.: 291 Wenin Chr.:
70 Werner H.J.: 275
Wohlmann A.: 58
Zedda S.: 181
Zomparelli B.:
400 Zum Brunn
É.: 56
Indice generale
5
PREMESSA ..................................................................................
9
I. TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ .................................. 9
Sacra doctrina....................................................■................ 12
Una scuola di vita teologale ....................................... 15
Teologia e visione di Dio ............................................ 18
Il soggetto della teologia.............................................. 22
Come un’impronta della scienza divina....................... 26
Una scienza «pia»........................................................ 28
Tre sensi della parola «spiritualità».............................
PARTE PRIMA
UNA SPIRITUALITÀ TRINITARIA
PARTE SECONDA
L’UOMO NEL MONDO E DAVANTI A DIO
482
Indice dei nomi .................................................................. » 472
483
TOMMASO D’AQUINO
maestro spirituale J.-P.
Torrell
Tommaso d’Aquino è
indubbiamente conosciuto come
filosofo. Spesso si dimentica che egli
è anche e soprattutto mistico e
teologo, tanto più spirituale quanto
più rigorosamente dottrinale. E, in
un certo senso, proprio la chiarezza
delle sue prese di posizione
intellettuali, filosofiche e teologiche
che si riflette e confluisce in un
atteggiamento religioso capace di
rivelare l’appassionato mistico
dell’assoluto. Il “pre-giudizio”
intellettuale che contraddistingue
l’opinione comune su Tommaso è
dovuto, in realtà, alla non
conoscenza e, talvolta, all’incapacità
di saper leggere la sua opera con la
sua stessa attitudine religiosa. Forte
della sua profonda conoscenza del
pensiero e dell’opera dell’Aquinate,
J.-P. Torrell si propone di ampliare
tali giudizi, offrendo una lettura
assolutamente originale e
innovativa. Non limitandosi ai testi
classici delle opere sistematiche,
dopo aver delineato il campo
specifico della teologia spirituale
secondo Tommaso, l’autore fa
emergere i contenuti di tale
spiritualità nei nuclei principali in
cui si sviluppa la riflessione
teologica del maestro d’Aquino: dal
rapporto dell’uomo con Dio-Tri-
nità nella Chiesa al radicamento
dell’uomo nella storia della salvez-
za. A servizio di tutto ciò è
un’analisi diretta, attenta e puntuale
degli scritti di Tommaso, anche dei
meno conosciuti e considerati, come
i commenti scritturistici.
Con la dichiarata rinuncia alle
sottigliezze tecniche in favore di un
maggior rigore scientifico, e con il
rifiuto di ogni forma di apologia, si
porta l’attenzione su una spiritualità
ricca di contenuti cristiani: un
«giardino segreto» nel pensiero di
Tommaso d’Aquino che merita di
essere esplorato.
ii
311-311-3334-9
9 788831 1 133340
f 31,00 i.i.