You are on page 1of 26

CAP.

1 – SPAZIO E STRATEGIE DELLA CRESCITA DEMOGRAFICA

Una terra densamente popolata è la prova di un assetto sociale stabile, di rapporti umani non precari
e di risorse umane ben sfruttate. La popolazione quindi è un segnale di benessere. Dal milione di
abitanti del paleolitico, ai 10 del neolitico e così via, cadenzano una crescita che non è solo
demografica e non uniforme nel tempo. Essa si è sviluppata attraverso cicli di espansione, ristagno e
perfino riduzione, obbligato da numerosi vincoli che hanno fissato l’itinerario, di tipo biologico e
ambientale. I primi connessi a leggi di mortalità e riproduttività dalle quali dipende la velocità di
accrescimento demografico, i secondi determinano le forze di attrito che tali leggi incontrano. I
biologi hanno identificato due grandi categorie di strategie vitali chiamate di tipo r e di tipo K. Gli
insetti, i pesci, gli uccelli, alcuni piccoli mammiferi adottano strategie di tipo r, vivono in ambienti
instabili e si avvantaggiano nei periodi favorevoli (annuali, stagionali) per riprodursi con grande
rapidità, anche se le probabilità di sopravvivenza della discendenza sono scarsissime, perciò si
affidano al grande numero. Diversa è la strategia degli organismi di tipo K (i mammiferi di medie e
grandi dimensioni e alcuni tipi di uccelli) che colonizzano ambienti stabili, nonostante la presenza
di predatori. Gli organismi K sono indotti dalla pressione ambientale e selettiva a competere per
sopravvivere, e ciò richiede forti investimenti parentali di tempo ed energia sulla discendenza per il
suo allevamento e questo è possibile solo se il numero dei discendenti è ridotto. Le strategie r si
adattano a organismi di piccole dimensioni, sorta durata di vita, ridotto intervallo tra generazioni,
breve gestazione, brevi intervalli tra le nascite e rilevata numerosità delle cucciolate. Le strategie di
tipo K sono invece associate con organismi di grandi dimensioni, lunga durata di vita, lunghi
intervalli tra generazioni e tra nascite, parti singoli e lungamente intervallati. La specie umana segue
la strategia K.

Molte specie animali sono sottoposte a cicli rapidi e repentini che ne modificano la numerosità in
crescita o diminuzione. La specie umana ubbidisce a leggi di variazioni temporali assi lente, tuttavia
si riscontrano lunghi cicli di crescita o di flessione che in alcuni casi portano anche all’estinzione di
alcuni gruppi. La popolazione del Mesoamerica, nel secolo successivo la conquista spagnola si
ridusse a una frazione delle dimensioni iniziali, mentre quella conquistatrice spagnola, nel paese di
origine, aumentava della metà e in America si espandeva rapidamente. In ogni intervallo la
popolazione P varia di numero per effetto dei flussi di rinnovo o entrata: le nascite N e le
immigrazioni I e di estinzione o uscita, i morti M e le emigrazioni E. Il campo di variazione sia dei
tassi di natalità sia di quelli di mortalità è assai ampio. Per gran parte della storia dell’umanità,
natalità e mortalità debbono essere state in situazione di equilibrio, perché il tasso di incremento è
stato bassissimo.
La capacità di crescita di una popolazione può esprimersi in funzione di due misure: il numero delle
nascite o di figli per donna e la speranza di vita alla nascita. Cfr appunti

FREQUENZA DELLE NASCITE – Questa è la funzione inversa degli intervalli tra parti. In regime
di fecondità naturale (senza controllo delle nascite) l’intervallo tra parti può essere scomposto in 4
segmenti: a) un periodo di infecondità dopo ogni parto; b) il tempo medio di attesa costituito dal
numero di mesi che occorrono perché dopo la ripresa dell’ovulazione si torni a concepire; c) la
durata della gravidanza; d) la mortalità intrauterina e l’aborto spontaneo. Sommando i valori minimi

1
e massimi si ottiene un intervallo tra i 18 e 45 mesi. Ma se la fecondità è controllata, il tempo tra un
parto e l’altro si può dilatare a volontà.

PERIODO FERTILE UTILIZZATO PER LA RIPRODUZIONE – Fattori quasi sempre culturali


determinano l’età di accesso alla riproduzione (matrimonio) mentre fattori biologici ne determinano
la fine. L’età del matrimonio varia tra i limiti minimi prossimi alla pubertà (15 anni) e massimi che
in popolazioni europee hanno spesso superato i 25 anni. Il termine del periodo fertile è posto
intorno ai 50 anni. Combinando i minimi e i massimi e arrotondando si può dire che le durate medie
delle unioni ai fini procreativi in assenza di interruzioni per morte o divorzio potevano variare tra i
15 e i 25 anni.

Naturalmente queste combinazioni sono estreme. Ad esempio in caso di matrimonio precoce le


ripetute gravidanze possono portare a patologie che diminuiscono la fecondità o un precoce
rallentamento dei rapporti sessuali. Sulla variazione del numero di figli per donna prevale
l’influenza dell’età al matrimonio. La riproduttività umana, oltre ai condizionamenti bio-sociali
della fecondità, deve superare anche il filtro della mortalità. Riproduttività e mortalità non sono
indipendenti tra loro. Quando il numero dei figli è alto, i rischi di morte nella prima infanzia sono
più elevati. Inversamente dove la mortalità è bassa, un’elevata fecondità è alla lunga insostenibile
per l’accrescimento della popolazione. Tuttavia una larga quota della mortalità è condizionata
dall’ambiente ed è indipendente dal livello di fecondità. Un modo di descrivere la mortalità è
costituito dalla funzione di sopravvivenza lx, che descrive l’eliminazione progressiva di una
generazione di 10n individui dal momento della nascita fino all’età di estinzione dell’ultimo
componente. Nelle popolazioni umane si ha una forte eliminazione dopo la nascita e nella prima
infanzia, riflesso della fragilità di fronte all’ambiente esterno. I rischi di morte raggiungono il
minimo nelle età della tarda infanzia o adolescenza per poi tornare ad elevarsi a partire dalla
maturità in funzione del graduale indebolirsi dell’organismo. Da un punto di vista genetico la
sopravvivenza dopo le età riproduttive non ha alcuna rilevanza. Invece durante o anteriormente l’età
riproduttiva quanto più alta è la mortalità tanto più forte è il suo effetto selettivo (eliminazione di
individui con caratteristiche sfavorevoli alla sopravvivenza non trasmesse alla generazione
successiva). Tuttavia la maggiore sopravvivenza dopo la fine dell’età riproduttiva degli adulti e
degli anziani può anche avere conseguenze biologiche indirette. La loro presenza favorisce la
trasmissione delle conoscenze, favorisce gli investimenti parentali e quindi può concorrere alla
migliore sopravvivenza delle nuove generazioni. Il successo riproduttivo di una popolazione cioè il
suo accrescimento dipende dal numero di figli che le donne effettivamente sopravviventi all’età
riproduttiva mettono al mondo. Poiché ogni figlio corrisponde a una coppia di genitori avremo che
con 2 figli ogni potenziale coppia paga il suo debito e generazioni di figli e di genitori saranno
approssimativamente in equilibrio. Un numero superiore a 2 implica un accrescimento, se i figli
sono 4 la popolazione si raddoppia nel corso di una generazione (circa 30 anni).

Fecondità e mortalità pongono dei vincoli oggettivi al ritmo di crescita delle popolazioni. Se restano
fisse per lungo tempo si può definire il tasso d’incremento in funzione del numero di figli per donna
(TFT) e della speranza di vita alla nascita (e0). Uno spazio di crescita tipico di popolazioni
premoderne ha un incremento variabile tra 0 e 1%. Le combinazioni di riproduttività e mortalità
possono essere assi diversificate. La Danimarca della fine del ‘700 e l’India dell’inizio di questo
2
secolo hanno tassi d’incremento simili ma ottenuti con posizioni assai diverse nello spazio
strategico: la prima con l’alta speranza di vita e basso numero di figli; la seconda viceversa.
Posizioni diverse e tassi d’incremento vicini avrebbero avuto le popolazioni del paleolitico dedite
alla caccia e alla raccolta e quelle del neolitico sedentarie e dedite alla coltivazione. Nelle prime
sarebbe invalsa una mortalità meno alta in ragione della bassa densità sfavorevole all’insorgere e al
propagarsi delle malattie infettive e una fecondità moderata in ragione della mobilità, non
favorevole a un alto carico di figli per donna; nelle seconde un analogo tasso d’incremento sarebbe
stato raggiunto con una mortalità e fecondità più elevate conseguenti alla maggiore densità e alla
minima mobilità. Nella seconda metà del nostro secolo lo spazio strategico ha subito una
dilatazione: il progresso medico-sanitario ha alzato l’età media dai 40 anni dell’epoca storica agli 80
attuali, mentre il controllo delle nascite ha portato all’attuale minimo di 1 figlio per donna, accanto
a situazioni come quella dell’Africa subsahariana di alta fecondità. Per il futuro si prospetta
stabilità.

I meccanismi di crescita debbono quindi fare continuamente i conti con le condizioni ambientali
con le quali interagiscono ma dalle quali sono frenati. Carlo Cipolla scrisse: si può affermare che
fino alla rivoluzione industriale l’uomo si è servito quasi esclusivamente di piante ed animali come
fonti di energia; questa subordinazione all’ambiente e alle sue risorse costituiva il vincolo al
popolamento. Vincolo che risulta evidente in una popolazione dedita alla caccia e alla raccolta. Col
neolitico la transizione a una stabile coltivazione della terra e all’allevamento ha determinato una
fortissima espansione della capacità produttiva. Il progresso delle tecniche di coltivazione, da taglia
e brucia alle rotazioni triennali, la selezione delle sementi migliori, la domesticazione di nuove
piante e animali, l’utilizzo dell’energia del vento e dell’acqua hanno accresciuto la disponibilità di
cibo e di energia. Ovunque l’innovazione permette di espandere la produttività. In Messico la
produzione per ettaro tra il III e il II millennio a.C. si triplica per l’introduzione di nuove varietà di
mais. In varie zone dell’Europa durante l’era moderna si accresce il rapporto prodotto/semente per
svariati cereali. Ma ancora dei limiti sono posti dal condizionamento della disponibilità di energia
oltre l’energia muscolare dei singoli individui. I limiti imposti all’espansione demografica
dall’ambiente vengono infranti di nuovo nella seconda metà del ‘700 con la rivoluzione industriale
e tecnologica e con l’invenzione delle macchine per la produzione di energia. Tra il 1910 e il 1990 i
consumi di energia mondiali sono aumentati quasi di 16 volte e la popolazione si è triplicata. La
crescita di una specie in un ambiente limitato è funzione decrescente della densità. Ciò avviene
perché le risorse disponibili sono considerate fisse ed è l’aumento della popolazione che genera i
suoi freni. Nella specie umana l’ambiente e le risorse che esso offre non è mai fisso ma
continuamente dilatato dall’innovazione.

Nel 2010 la Cina popolare eseguì il quinto censimento dalla Rivoluzione contando 1 miliardo e 295
milioni di abitanti. 10,4 milioni erano gli abitanti della Spagna nel 1787; 3,9 milioni censiti negli
USA nel 1790, sono i primi esempi di moderni censimenti in grandi paesi. I tassi di incremento
sono un’astrazione poiché presumono una variazione di forza costante in ciascun periodo mentre si
sa la popolazione procede a cicli. Biraben: nei 10.000 anni precedenti la nostra era con il sorgere e il
diffondersi delle culture del neolitico del Medio oriente e dell’alto Egitto il passo della crescita si
accelera. Questo ritmo di incremento si consolida nei 17 secoli d.C.: la popolazione si triplica a ¾ di
miliardo alla vigilia della rivoluzione industriale. Ma è la rivoluzione industriale che dà il via a una
3
accelerazione decisiva nei due secoli successivi, conseguenza di un rapido accumulo di risorse, del
controllo dell’ambiente e dei regressi della mortalità. Processo che culmina nella seconda metà del
nostro secolo. Seguendo le ipotesi si possono valutare in 82 miliardi i nati dall’origine dell’umanità
ai giorni nostri. Naturalmente la crescita demografica non è avvenuta in maniera continua, ma
attraverso cicli di espansione e di flessione. Limitandoci all’Europa rileviamo le crisi del tardo
Impero Romano e nell’epoca di Giustiniano con le invasioni barbariche e la peste; le espansioni del
1100 e 1200, nuove crisi per ricorrenti visite della peste della metà del 1300, ripresa dalla metà del
1400 alla fine del 1500, crisi e ristagno fino all’inizio del 1700 e nuova espansione.

CAP. 2: SVILUPPO DEMOGRAFICO TRA SCELTA E COSTRIZIONE

Lo sviluppo demografico si esplica con forza variabile nell’ambito di uno spazio strategico vasto
che permette velocità di accrescimento o di riduzione molto considerevoli, quindi grandi numeri o
estinzione. Questo spazio ha per limite la capacità di riproduzione o sopravvivenza data da
caratteristiche biologiche della specie umana. La crescita demografica si sviluppa in proporzione
alla crescita delle risorse disponibili. Tali risorse non sono statiche poiché si espandono sotto
l’azione incessante dell’uomo: nuove terre vengono abitate e sfruttate, le conoscenze mutano, le
tecniche si modificano. Abbiamo individuato tre grandi cicli di popolamento: 1 dai primi abitatori
alla transizione del neolitico, 2 dal neolitico alla rivoluzione industriale, 3 dalla rivoluzione
industriale ai giorni nostri. All’interno di queste fasi lo sviluppo è avvenuto irregolarmente, con
periodi di accelerazione, di ristagno e regressione. Lo sviluppo demografico si muove compresso tra
due grandi sistemi di forze: quelle della costrizione e quello della scelta. Sono forze di costrizione
clima, patologie, terra, energia, alimenti, spazio, modi di insediamento. Queste forze sono variabili
e interdipendenti ma rilevanti perché condizionano il quadro di sopravvivenza di una popolazione.
Il clima condiziona la fruibilità della terra ed è correlato al sistema delle patologie. Queste ultime
collegate anche all’alimentazione incidono su riproduzione e sopravvivenza. Spazio e modi di
insediamento sono collegati alla densità della popolazione e alla trasmissione delle patologie.
Tuttavia la popolazione deve convivere con i fattori costrittivi. Questo implica ad esempio che di
fronte alla penuria alimentare la crescita corporea rallenta e produce adulti con minor fabbisogno
nutritivo. Altra forma di adattamento è data dall’immunità permanente o quasi di fronte a patologie
ed infezioni come il vaiolo o il morbillo. Altro adattamento: prima che si diffondesse lo strumento
di controllo delle nascite (XVIII secolo) un insieme di comportamenti poteva influenzare la
fecondità delle coppie e la sopravvivenza dei neonati, come la durata dell’allattamento, l’aborto,
l’infanticidio diretto o praticato. I meccanismi riequilibratori sono in parte automatici, ma
principalmente connessi ad azioni di scelta, infatti sono esistite popolazioni estinte.

Con la rivoluzione del neolitico l’uomo iniziò a seminare e coltivare migliorando con la selezione le
qualità nutritive di grani e alberi. Riuscì ad addomesticare alcune specie di animali e da cacciatori e
raccoglitori si fanno agricoltori diventando nel tempo da mobili a sedentari. La transizione avviene
con irregolare gradualità sviluppandosi in aree e tempi separati. Col diffondersi dell’agricoltura il
popolamento si accresce stabilmente. Nel periodo paleolitico ha poco senso riferirsi alla
popolazione mondiale, essendo di fronte a piccoli aggregati composti da poche centinaia di unità in

4
precario equilibrio con l’ambiente. Infatti, la discesa al di sotto di certe soglie compromette la
riproduttività e la sopravvivenza mentre la crescita numerica può provocare la scissione e la
formazione di nuovi nuclei.

Una teoria classica parte dal presupposto che l’accelerazione della crescita sia la conseguenza del
migliore livello di nutrizione assicurato dal sistema agricolo e quindi la diminuita mortalità. Una
teoria più recente ritiene invece che la dipendenza da colture poco variate, la maggiore sedentarietà,
la maggiore densità, i rischi di trasmissione delle malattie infettive aumenterebbero la mortalità, ma
anche la fecondità, che consente una più rapida crescita. La teoria classica si basa sul fatto che
l’inizio della coltivazione e la domesticazione consentono un approvvigionamento più regolare e
proteggono le popolazioni che vivono dei frutti dell’ecosistema dallo stress nutritivo, connesso con
l’instabilità del clima e dell’alternanza delle stagioni. La coltivazione di cereali altamente nutrienti e
facilmente conservabili accresce le disponibilità alimentari e aiuta a superare i periodi di penuria.
Salute e sopravvivenza abbassano la mortalità e la capacità di crescita si rafforza. Ultimamente
questa teoria è stata rimessa in discussione affermando che nelle popolazioni agricole sedentarie sia
la mortalità sia la fecondità si accrescono, ma la seconda più della prima e questo spiega
l’accelerazione demografica. La spiegazione della mortalità più elevata tra gli agricoltori sta nel
fatto che il livello nutritivo dal punto di vista della qualità peggiorerebbe con la transizione
all’agricoltura, al contrario i cacciatori e i raccoglitori avrebbero avuto una alimentazione più
completa rispetto agli agricoltori sedentari, i quali avevano una alimentazione calorica sufficiente
ma povera e monotona. La prova dei resti scheletrici ci dice che le dimensioni corporee declinano
quando i cacciatori si fanno stabili agricoltori, oltre a diverse malattie e carenze.
Altro sostegno alla teoria consiste che con l’insediamento stabile si pongono le condizioni per
l’insorgenza, la diffusione e la conservazione di malattie infettive e parassitarie sconosciute in
popolazioni mobili, come avviene con le pulci le cui larve si riproducono in nidi, giacigli, alloggi. A
questo punto l’unica spiegazione che giustifica il rapido accrescimento è data dalla maggiore
fecondità degli agricoltori. L’alta mobilità dei cacciatori e raccoglitori, dovuta ai continui
spostamenti, rendeva oneroso e pericoloso per la donna il trasporto di piccoli non autonomi. Per
questa ragione l’intervallo tra i parti sarebbe stato assai più lungo, in modo che una nuova nascita
avvenisse solo quando il precedente nato fosse capace di badare a se stesso. In una società
stabilmente insediata questa necessità veniva meno e il costo dei figli in termini di investimento
parentale era minore mentre il loro apporto per i lavori nella casa, nei campi e nella guardia di
animali era maggiore. Nonostante ciò è difficile ammettere che il livello nutritivo peggiorasse con
lo sviluppo dell’agricoltura solo se si pensa alla capacità di estendere le colture, di accumulare le
scorte, integrare il prodotto del suolo con la caccia e la pesca, le migliore tecniche di preparazione e
conservazione del cibo. Il livello di nutrizione appare assai meno influente sulla mortalità di quanto
si ipotizza; più fondata invece sembra l’ipotesi di maggiore incidenza e trasmissibilità delle
infezioni con l’incremento della stanzialità. Per quanto concerne la fecondità, le osservazioni
propendono a favore di un aumento della prolificità con sedentarismo.

Attorno all’anno 1000 la popolazione europea inizia una fase di crescita destinata a durare tre
secoli. Si fondano nuove città, aree abbandonate si popolano e le coltivazioni si espandono
occupando anche terre meno fertili. La popolazione europea si accresce di 2 o 3 volte. Tra la fine
del 1200 e gli inizi del 1300 il ciclo di crescita si va esaurendo. Complesse sono le cause: una
5
economia meno vigorosa con l’esaurimento delle terre migliori e l’arresto del progresso tecnico è
soggetta a carestie più frequenti dovute a condizioni climatiche più sfavorevoli. Verso la metà del
1300 la peste di lunga durata provoca un netto declino del popolamento che sarebbe sceso di quasi
1/3 tra il 1340 e il 1400 per diminuire ancora fino alla prima metà del 1500, prima di iniziare un
recupero che riporterà la popolazione a livelli anteriori la crisi verso la metà del 1500. Cfr appunti
quaderno.

Tragici sono gli effetti del contatto tra bianchi europei, coloni, esploratori o marinai, e le
popolazioni indigene del Nuovo Mondo, del Pacifico e dell’Oceania. La popolazione di
Haiti/Hispaniola, terra in cui sbarcò Colombo, fu sottoposta ad una sorta di censimento, ma dopo
l’epidemia di vaiolo del 1518/19 non rimasero che poche migliaia di abitanti destinati all’estinzione.
Il rapido declino delle popolazioni indigene nei 30 anni successivi alla conquista fu determinato dal
fatto di non essere immuni a una serie di patologie che erano sconosciute in America ma comuni in
Eurasia come morbillo e influenza, che divennero mortali per gli indigeni. Questa virulenza è il
risultato di tre fattori: 1) Quando la malattia infettiva crea immunità negli individui colpiti e guariti
si crea una parte di popolazione che non è suscettibile al contagio limitando i danni. In una
popolazione vergine invece tutti gli individui sono suscettibili e la nuova malattia produce all’inizio
danni immensi. 2) In una popolazione non vergine la malattia tende a selezionare generazione dopo
generazione gli individui più resistenti. Sifilide, malaria, morbillo influenza sono esempi di malattie
che hanno attenuato nel tempo la loro violenza. Questo fenomeno viene chiamato effetto “terreno
vergine” ed è una spiegazione convincente al declino demografico del continente nei due secoli
successivi alla conquista, anche se si possono trovare due problematiche: la prima è che non vi sono
prove storiche di epidemie mortali prima del vaiolo del 1518 e la seconda che il paradigma terreno
vergine tende a nascondere altre cause del declino demografico quali gli ostacoli alla riproduzione
imposti dalla conquista. ->

La ricerca dell’oro e il sistema dell’encomienda (pratica di attribuire gli indigeni agli spagnoli in
stato di servaggio) furono ritenute le principali cause della catastrofe. La ricerca dell’oro vedeva
troppi indios nelle miniere e per lunghi periodi, con il conseguente abbandono delle altre attività
produttive, il lavoro eccessivo, le condizioni avverse delle miniere, i maltrattamenti, le separazioni
dalle famiglie producevano alta mortalità e bassa fecondità delle loro donne. Inoltre il sistema delle
encomiendas spostava gli indios da una parte all’altra dell’isola per i frequenti passaggi da un
padrone all’altro e la vita comunitaria veniva stravolta; infine gli encomenderos, timorosi di perdere
i loro indios, li sfruttavano imponendo eccessivi carichi di lavoro, maltrattamenti, concubinato e
sottrazione delle donne dal pool riproduttivo. Gli indios spesso fuggivano, ma la loro sopravvivenza
si faceva ancora più precaria. La conquista spagnola determinò un profondo sradicamento
economico e sociale creando la condizione per l’alta mortalità e la ridotta fecondità. Cuba, Portorico
e Giamaica subirono lo stesso disastro. Anche sulla terraferma il contatto con gli europei produsse
medesime conseguenze catastrofiche, ma gli indigeni non furono spazzati via (Messico, Perù). Il
declino varia a seconda delle situazioni, ma il meccanismo è lo stesso (see above). Non furono però
solo le malattie ad influenzare la catastrofe delle popolazioni americane, bensì anche le tecnologie
(utensili, esplosivi, cavallo) e le conoscenze superiori a quelle delle popolazioni indigene. Gli
animali importati si adattarono e si riprodussero velocemente, così come le piante. Le capacità di
conquistare l’ambiente dettarono le regole del successo demografico della colonizzazione europea
6
nel continente americano e oceanico. I conquistatori furono motivati dallo spirito di avventura e
dalla volontà di arricchirsi. In molte parti del continente la conquista si impose con le armi con
conseguenze di distruzione, carestia e fame, come il Perù, devastato dalla guerra di conquista.

Tra il 1500 e il 1870, quando la tratta degli schiavi fu abolita, 9,5 milioni di africani furono
deportati come schiavi in America, senza contare quelli morti durante la traversata. Ne consegue
che le popolazioni tributarie di schiavi subirono un ristagno se non un declino, in quanto il traffico
riguardava individui giovani, più uomini che donne, in piena età riproduttiva. Gli effetti riguardanti
il regime demografico della collettività africana che si formò nel nuovo mondo sono deducibili dal
confronto della popolazione cumulatasi tra il 1500 e il 1800. Tale stock composto da individui
sopravviventi e i loro discendenti indica un rapporto pari a meno di 1, il che indica l’incapacità della
popolazione africana di sostenersi nel nuovo continente. In Brasile e nei Caraibi, che assorbirono la
stragrande maggioranza del flusso, il sistema demografico si manteneva grazie ad una sostenuta e
continua importazione di nuove leve che riempivano i vuoti aperti dall’elevatissima mortalità, non
sufficientemente ricompensata dalla bassa riproduttività. Solo nell’America ispanica e negli Stati
Uniti la riproduttività degli schiavi era alta. Le ragioni della tragedia africana nei Caraibi e in
Brasile stanno tute nelle condizioni di vita imposte dalla perdita della libertà, dalle modalità di
cattura e di trasporto, dal lavoro massacrante nelle piantagioni di zucchero, dalle condizioni avverse
all’adattamento climatico e alimentare. Inoltre le unioni erano meno soventi. Tutto ciò rende la
popolazione schiava più vulnerabile.
In Brasile la vita utile di un giovane schiavo in una piantagione era compresa tra i 7 e i 15 anni. La
speranza di vita degli schiavi maschi era stimata in 18 anni contro la media di 27 della popolazione
brasiliana. Noti sono infatti i massacranti cicli di lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero;
l’igiene negli accampamenti era pessima, la cura dei malati scarsa. Antonil scriveva che il problema
quindi erano i padroni che pur ammettendo unioni libere o occasionali, non incoraggiavano o
ostacolavano il matrimonio tra schiavi, facendo assumere un segno meno a bilancio tra nascite e
morti. Quando venne abolita la schiavitù, il governo ordinò ai proprietari di Campos che facessero
sposare i propri schiavi, alcuni obbedirono, ma altri risposero che era inutile maritare le donne
negre che non avrebbero potuto allevare i loro figli. Queste infatti dopo il parto erano obbligate a
lavorare nelle piantagioni di canna e il loro latte era insufficiente. Finché vi fu ampia disponibilità
di schiavi sul mercato, il loro prezzo era basso, conveniva acquistarli piuttosto che favorire la
riproduzione. Inoltre frequente era l’intrusione dei padroni nella vita sessuale delle schiave, quindi
la nascita di mulatti, che restavano schiavi.

Nella provincia canadese del Québec poche migliaia di pionieri immigrati nel 1600 sono i
progenitori della maggior parte degli abitanti di oggi. Nonostante il clima rigido e inospitale,
favoriti dall’abbondanza delle risorse naturali e della disponibilità della terra, si sono moltiplicati
rapidamente. Invece al successo demografico delle popolazioni americane e australiane, oltre al
dinamismo di pionieri e colonizzatori, ha influito anche il continuo flusso di immigrati.
Le particolarità di questo gruppo di pionieri e dei suoi discendenti si possono riassumere in tre
elementi: 1 elevata nuzialità e bassa età al matrimonio; 2 alta fecondità; 3 mortalità relativamente
bassa. A tenere bassa la mortalità fu almeno in una prima fase la bassissima densità del
popolamento, quindi bassa trasmissibilità e diffusione di infezioni ed epidemie, ma anche un fattore
di selettività. Infatti chi era in grado di sostenere un lungo e gravoso viaggio per poi reggere il
7
confronto con un paese inospitale doveva essere in possesso di integrità e forza fisica. Quanto
all’alta riproduttività, man mano che la società si radicalizza le figlie dei pionieri hanno una elevata
fecondità, tale anche negli anni a venire. Ma mentre la popolazione canadese cresceva rapidamente,
quella francese d’origine cresceva con lentezza e ristagno.

L’Irlanda, uno dei paesi più poveri dell’Europa, sottomessa all’Inghilterra, con un’economia
agricola, vive una condizione di arretratezza. Nonostante la miseria cresce rapidamente, perfino più
dell’Inghilterra che è tra i paesi europei il più dinamico. Gli irlandesi alla fine del 1600 sono circa 2
milioni, nel 1841, qualche anno prima della grande fame, sono 8 milioni. Il caso dell’Irlanda è stato
analizzato da Connell, la cui tesi evidenzia la predisposizione degli irlandesi al matrimonio precoce,
ostacolata dalla difficoltà di acquisire un podere sul quale costruire casa e famiglia, in quanto i
grandi proprietari tendevano a mantenere gli affittuari in una economia di sussistenza. Una volta
rimosso l’ostacolo, e innescata la fortuna della patata, la quale era molto nutriente, la nuzialità
aumenta e determina un’alta fecondità che, abbinata ad una mortalità non troppo elevata, determina
il tasso di accrescimento. Questo equilibrio finisce per diventare precario con l’eccessivo
incremento demografico, infatti la Grande Fame del 1846/47 sconvolgerà l’intero assetto
demografico venutosi a creare, poiché in una società rurale dove la terra è elemento limitante alle
risorse la crescita non poteva continuare all’infinito. Già nel decennio anteriore al 1841 si sviluppa
un’elevata emigrazione, ma ciò non scongiura la catastrofe. Un fungo danneggia gran parte del
raccolto di patate del 1845 e lo distrugge, l’inverno del 1846/47 porta la fame, la povertà, le
migrazioni di massa, le epidemie e le febbri di tifo. La grande fame segna la fine del regime
demografico legato alla patata che aveva assecondato la forte crescita, ma aveva reso fragile la
popolazione. Nei decenni successivi un nuovo regime fondiario e un nuovo assetto matrimoniale
basato sul tardo matrimonio e sull’alto celibato, nonché l’emigrazione di massa, provocano una
diminuzione sostenuta della popolazione.

Il caso del Giappone vede invece il regime Tokugawa, lungo oltre due secoli, un periodo di pace
interna, di chiusura all’esterno e di restaurazione del confucianesimo, durante il quale la società si
prepara alla modernizzazione. Prima la produzione era destinata a pagare le imposte fondiarie, ma
quando vendere divenne il fine principale della produzione, il lavoro migliorò il livello di vita.
L’estensione della terra coltivata si raddoppiò ed il modello di coltivazione divenne intensivo. Nel
secolo successivo questa impetuosa ondata di crescita si ritira, nel 1870 cade il regime Tokugawa e
inizia il ristagno. Sicuramente influisce il controllo della produzione di bambini, per mezzo, più che
del ritardato matrimonio, dell’aborto e dell’infanticidio, ampiamente praticati in tutte le classi
sociali. Un’altra interessante spiegazione riguarda la trasformazione dell’agricoltura, che implicò
migliori condizioni di vita ma anche un notevole aumento di lavoro sia per gli uomini sia per le
donne. A differenza del sistema demografico irlandese che si frantuma con la grande fame e la
grande emigrazione, il sistema giapponese è graduale, non imposto da eventi traumatici.

Con il secolo XVIII buona parte del mondo sembra entrare in una fase di accelerazione
demografica. Sostanziosi accrescimenti si hanno in Europa e in Asia, mentre in Africa la
popolazione rimane stagnante. L’espansione settecentesca è attribuita da molti autori all’espansione
economica rispecchiata dall’aumento di valore della terra e della produzione agricola, sostenuta da
un allentamento della pressione tributaria, quindi il benessere aumenta.
8
Alcuni autori sottolineano la plasticità del sistema demografico cinese, capace ad adattarsi alle
costrizioni esterne con varietà di meccanismi. In primo luogo, il ricorso all’infanticidio che
permetteva di regolare il numero e il genere dei figli. Questo colpiva soprattutto le femmine.
L’infanticidio selettivo e la più alta mortalità femminile dovuta alle minori cure dei genitori verso le
bambine generavano una forte distorsione nel mercato matrimoniale, dove le giovani donne
scarseggiavano. Il risultato era che le donne si sposavano molto giovani mentre gli uomini in età
avanzata, o rimanevano celibi. Nonostante l’alta frequenza delle donne sposate, c’era una fecondità
bassa e l’età all’ultimo figlio nato era più bassa che in Europa, anche perché la fecondità
matrimoniale era legata ad una tradizione filosofica e religiosa prescrittiva della continenza
sessuale. Infine nel sistema familiare cinese era soventi le adozioni di bambini. Durante la prima
metà dell’800 la Cina avanzò a ritmo rallentato anche a causa di conflitti interni e due carestie,
perciò a fine ‘800 è ancora lontana dalla modernità.

L’espansione europea ha meccanismi e vicende ben diverse. Il controllo delle nascite salvo casi
circoscritti come la Francia è ancora sconosciuto. Tra il 1750 e il 1850 la popolazione europea
subisce una netta accelerazione nonostante la peste, la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche
che devastano l’Europa per venti anni, la carestia del 1816/17, il tifo ed infine il colera.
Ciononostante la popolazione aumenta vigorosamente, dando inizio anche alla migrazione verso
l’America. I meccanismi di tale accelerazione sono diversi: nel caso dell’Inghilterra è imputato alla
maggiore fecondità, in quanto la rivoluzione industriale genera un notevole aumento della domanda
di lavoro, che stimola i matrimoni e quindi le nascite, non ancora sottoposte a controllo. Tuttavia
anche la mortalità diminuisce e in gran parte d’Europa la transizione tra ‘700 e ‘800 porta a una
minore frequenza delle crisi di mortalità, che sono legate ad esplosioni epidemiche. Le cause
dell’attenuazione sono di natura biologica, economica e sociale: 1 Biologica perché sono l’effetto di
un processo di adattamento tra agente e ospite che ha portato all’attenuazione della virulenza di
alcune patologie. 2 Sociali, che riguardano invece l’attenuazione della trasmissibilità delle infezioni
grazie ad una maggiore igiene privata e pubblica. 3 Economiche, attinenti non solo al progresso
agricolo, ma anche al miglioramento dei trasporti e quindi alla redistribuzione delle derrate tra aree
di abbondanza e aree di penuria.
L’accelerazione demografica del ‘700 sarebbe la conseguenza del declino della mortalità la cui
causa è da ricondurre al migliore livello alimentare. Questa tesi si scontra con altre considerazioni:
nuove colture si erano diffuse, la patata fra tutte, ma questo non significò miglioramento dei
consumi poiché spesso le nuove colture provocarono l’abbandono di consumi più pregiati,
immiserendo la dieta (cfr consumo di mais che porta alla pellagra). Altre considerazioni vedono la
generalizzata diminuzione dei salari reali e quindi diminuzione del potere di acquisto per gli
alimentari. Si nota inoltre la diminuzione della statura a causa di un peggiore standard nutritivo, ma
anche la mortalità in età giovanile e anche in età infantile.

9
CAP. 3: TERRA, LAVORO E POPOLAZIONE

Riguardo l’effetto dello sviluppo demografico sulle società agricole esistono due punti di vista: il
primo, con connotazione negativa, sostiene che l’aumento della popolazione provochi
l’impoverimento della stessa e la competizione, a fronte di minore disponibilità di risorse; il
secondo sostiene l’importanza dell’inventiva umana volta ad eliminare le limitazioni. Da un lato è
vero che il progresso è dato da una maggiore popolazione, ma dall’altro non si può affermare che
possa mutare il destino delle risorse fisse. Perciò la crescita avviene in un ambiente fisso, con
tecnologie fisse, che comportano rendimenti decrescenti dell’economia. Infatti far lavorare un
numero maggiore di persone con la stessa macchina farà aumentare la produzione generale, ma il
contributo del singolo sarà decrescente! Inoltre i benefici portati da ogni innovazione tecnologica
hanno vita breve perché la crescita demografica li assorbe.
Secondo Malthus la crescita della popolazione, se non controllata, cresce in modo geometrico,
mentre il cibo cresce in modo aritmetico creando disuguaglianza, la quale può essere fermata
dall’azione dei freni repressivi, come fame, epidemie e guerre. Essi infatti riequilibrano la
popolazione, ma non basta: bisogna agire sulla capacità riproduttiva della popolazione. Malthus
proponeva il celibato come freno preventivo. Ma sfortunatamente nella storia sono stati
maggiormente praticati i freni repressivi, per esempio durante l’epoca moderna in cui erano
frequenti carestie/picchi di mortalità, a cui seguivano meno matrimoni e meno nascite. E’ questo il
modello malthusiano, valido circa in tutti i paesi del mondo fino alla rivoluzione industriale, che
invece altera lo schema. (cfr. schema: periodi di crescita della popolazione portano ad aumento dei
prezzi e diminuzione dei salari, quindi minor denaro per le cure e maggiore mortalità, popolazione
in diminuzione. Da qui: meno popolazione, prezzi più bassi, salari in aumento quindi meno
mortalità, più nascite). In conclusione, i rendimenti decrescenti a fronte di un aumento della
popolazione portano ad un declino del reddito pro capite, quindi questa trappola può essere elusa
dall’innovazione o dal freno della crescita demografica.

L’opinione speculare a quella di Malthus, sviluppatasi nel 17mo e 18mo secolo, sostiene che è
l’aumento della popolazione la molla dello sviluppo. Infatti, storicamente, le aree poco popolate
erano quelle maggiormente arretrate. E’ l’azione umana che modifica per esempio il suolo,
rendendo fertili anche le aree meno atte alla coltivazione (intensificazione); in questo senso si può
dire che la crescita demografica sia causa e non conseguenza delle innovazioni agricole. Il legame
tra popolazione e sistemi agricoli è constatata dal fatto che in presenza di minore densità si ritorna a
tecniche meno intensive. Ester Boserup quindi sostiene che da una maggiore popolazione nascano
migliori tecniche agricole volte a creare più cibo, quindi è necessario più lavoro. Questa teoria però
non si applica ai paesi in via di sviluppo e ad economia mista. E’ una teoria che rovescia quella di
Malthus: la popolazione diventa, da variabile dipendente dello sviluppo, variabile esplicativa dello
stesso.

Esempi dall’età della pietra. Secondo la Boserup infatti la transizione da caccia/raccolta ad


agricoltura è dovuta alla crescita demografica, che obbliga cacciatori e raccoglitori a riprodurre ciò
di cui si nutrivano. Si sostiene che le tecniche agricole non fossero sconosciute ma semplicemente
non necessarie, anche perché la caccia e la raccolta, insieme alla pesca, permettevano un cibo più
ricco, mentre l’agricoltura può sostenere popolazioni più dense, ma a fronte di una riduzione della
10
qualità della dieta. Il passaggio sarebbe avvenuto in tempi brevi e in contemporanea con le
migrazioni.

Per gran parte della storia il benessere della popolazione è dipeso dalla disponibilità di spazio e di
terra. Infatti la specie umana moderna si sarebbe diffusa dall’Africa all’Asia occidentale,
all’Europa, nell’ottica di popolare i territori vuoti. Circa 9000 anni fa si è assistito alla rivoluzione
neolitica, terminata 5000 anni fa: essa è dovuta ad un processo di diffusione di conoscenze oppure
alla diffusione demica, ovvero la migrazione degli agricoltori, a causa della crescita demografica, e
del loro sapere. Ciò ha portato ad un avanzamento della popolazione lento ma continuo, verso zone
spopolate, attraverso la selezione dei migranti tra coloro che erano più forti ed inclini a
sperimentare. Quindi il meccanismo della rivoluzione neolitica è lo stesso che ha portato i popoli
barbari a spingere sulle terre dell’impero, alla ricerca di risorse. Relazioni tra spazio e mutamento
demografico: 1 insediamento in spazi vuoti che porta alla moltiplicazione della popolazione (es.
Medioevo dopo anno 1000); 2 trasformazioni e bonifiche per ottenere nuove terre (es. Olanda); 3
espansione esterna sottoforma di emigrazione e colonizzazione (es. Drang nach Osten, continente
americano, Siberia).

Le dimensioni di una popolazione producono i loro effetti mediante la divisione del lavoro, ovvero
con la migliore utilizzazione delle capacità individuali, e mediante l’organizzazione della società,
più complessa se la popolazione è considerevole. Infatti la divisione del lavoro è utile se il mercato
è ampio, altrimenti sarebbe uno spreco. Inoltre, la creazione del surplus permette la
modernizzazione della città. Kuznets propone invece la teoria della conoscenza sperimentata, cioè
che i creatori di nuova conoscenza si avvantaggiano del grande numero: è più facile trovare
maggiori creatori tra 4 milioni di persone che tra 400.

Quindi i rendimenti sono crescenti o decrescenti? Se la popolazione negli ultimi 10000 anni è
riuscita ad aumentare le risorse a disposizione è perché i limiti non sono ancora stati toccati, grazie
a nuove colture e a nuovi insediamenti; al contrario vi è chi sostiene che la fase decrescente non sia
ineluttabile, perché sarebbe compensata dalle trovate dell’ingegno umano.
La rapida crescita demografica può accompagnarsi allo sviluppo, ma nel medio periodo porta a pesi
gravissimi, come per esempio le sementi ad alto rendimento introdotte negli anni 60 in India, che
portarono all’impoverimento della dieta costituita ormai di solo grano. Però la rivoluzione verde
portò maggiore lavoro e i suoi effetti si sentirono nel lungo periodo.

CAP. 4: LA DEMOGRAFIA CONTEMPORANEA VERSO L’ORDINE E L’EFFICIENZA

Nel 1769 Watt costruì una macchina a vapore con condensatore separato, più efficiente. A parità di
potenza la macchina di Watt consumava meno combustibile, risparmiando energia. Qualcosa di
simile è avvenuto nelle popolazioni occidentali. La crescita demografica, fino alla rivoluzione
industriale, è avvenuta con grande spreco di energie demografiche. Ogni generazione di nati
perdeva dalla metà a 1/3 dei propri componenti prima che raggiungessero l’età riproduttiva. Inoltre
la probabilità che un figlio morisse prima di un genitore era notevole, sovvertendo così l’ordine
naturale di precedenza tra generazioni. Negli ultimi due secoli nasce, si sviluppa e termina il ciclo
11
demografico moderno dell’Occidente: la popolazione europea si moltiplica per 4, la speranza di vita
passa da valori tra i 25 e i 35 anni ai 75/80. Il numero dei figli per donna scende da 5 a 2. Natalità e
mortalità scendono. Questa profonda trasformazione prende il nome di transizione demografica:
designa il processo di passaggio dal disordine all’ordine demografico. Questo processo è ancora in
corso nei paesi in via di sviluppo ed è appena iniziato nei paesi arretrati.

Lo spazio strategico era occupato da popolazioni che si collocavano in un’area delimitata da tassi di
incremento con basse speranze di vita e alto numero di figli. Nell’attualità questo spazio si è molto
dilatato per la precipitosa discesa della mortalità nei paesi in via di sviluppo, che hanno occupato in
assenza di pari discesa della fecondità. Nei Paesi europei la transizione degli ultimi 200 anni è
avvenuta senza esplosioni del tasso di accrescimento, ma con una modificazione graduale e
parallela di mortalità e fecondità. L’inizio del declino della mortalità precede in genere il declino
della fecondità. L’ipotesi è verificata dall’esperienza europea, in quanto una volta avviato il declino
della natalità e della mortalità, questi proseguono senza interruzioni fino al raggiungimento dei
bassi e stazionari livelli finali. Durante la fase di transizione il rapporto tra popolazione alla fine e
popolazione all’inizio della crescita si chiama moltiplicatore di transizione. Il primo motore del
mutamento nella discesa della mortalità a partire dalla seconda metà del 1700 è dovuta a fattori
esogeni, come la minor incidenza di cicli epidemici (scomparsa della peste) e la migliore
organizzazione economica. La diminuzione della mortalità provocò una accelerazione della crescita
e, in conseguenza della maggiore pressione sulle risorse, stimolò i meccanismi riequilibratorii che
abbassarono la natalità, specialmente tramite il controllo volontario delle nascite (non previsto da
Malthus). Il nuovo punto di equilibrio si raggiunse al termine del processo di declino della
mortalità. Altre spiegazioni privilegiano, nel processo di transizione, il mutamento delle scelte delle
coppie indotto dalle trasformazioni sociali messe in moto dalla rivoluzione industriale. Il sorgere
della società industriale e urbana provoca un aumento del costo relativo all’allevamento dei figli,
che divengono autonomi in età più tarda rispetto alle società agricole, e richiedono maggiori
investimenti in termini di salute, istruzione, benessere; ciò preclude occasioni di lavoro soprattutto
per la donna. L’aumento del costo dei figli sarebbe la molla che spinge alla restrizione della
fecondità. Come per la macchina a vapore di Watt la dispersione di energia propria dell’antico
regime demografico si trova enormemente diminuita; nel nuovo regime le poche nascite sono in
grado di compensare le poche morti.

Con la seconda metà del 1700 la mortalità comincia a dar segni evidenti di declino. Ciò inserisce
ordine nei processi vitali assai disordinati per la forte componente di casualità e imprevedibilità
della mortalità, dovuta a due fattori tra loro collegati: il primo era costituito dalla frequenza e
irregolarità delle grandi crisi di mortalità che sorgevano per una varietà di cause, il secondo
elemento era il rischio di sovvertimento di un ordine naturale e cronologico della morte collegato
all’età. Infatti oltre alla mortalità della prima infanzia, la probabilità che un figlio in età giovane
morisse prima dei genitori era molto elevata. Durante il XIX secolo, ai progressi
nell’organizzazione economico-sociale si aggiungono quelli ottenuti nel controllo delle malattie
infettive, dalla vaccinazione contro il vaiolo (Jenner 1798) e all’individuazione degli agenti
patogeni causa di dirompenti malattie epidemiche. Ma ancora stragi per le guerre mondiali, le
guerre civili, le deportazioni di massa e l’olocausto; ciononostante la mortalità declina. 2/3
dell’allungamento della speranza di vita sono imputabili alla diminuzione di mortalità nei primi 15
12
anni di vita. La transizione della mortalità nei paesi sviluppati è stata relativamente lenta. Nel tempo
i guadagni si sono accumulati con velocità crescente fino alla metà di questo secolo.

La transizione non è dunque finita anche se ha rallentato il passo dopo i disastri della seconda
guerra mondiale. I regressi della mortalità vanno in parallelo con il progresso economico e sociale,
rendendo più agevole la sopravvivenza. Se poniamo in relazione il valore e0 (speranza di vita) con
il PIL pro capite dal 1870 al 1994, si verifica che al crescere del prodotto pro capite si hanno alti
guadagni di e0 in una prima fase della transizione e guadagni via via decrescenti, fino all’ultima
fase nella quale a incrementi cospicui di ricchezza corrispondono scarsissimi guadagni di e0. Il fatto
che nella fase finale della transizione paesi che hanno livelli diversi di prodotto pro capite abbiano
valori quasi identici di e0 dimostra che oltre un certo livello di benessere la disponibilità di beni è
praticamente ininfluente sulla sopravvivenza. Nella prima fase della transizione gli incrementi di
prodotto si sono riflessi in forti guadagni di sopravvivenza: più cibo, miglior vestiario, maggiori
cure mediche, migliori case, hanno avuto effetti notevoli. Gli effetti sono invece esigui o ininfluenti
qualora gli incrementi del prodotto si riversino su popolazioni già prospere.

L’abbassamento della fecondità è stato altrettanto graduale e differenziato. Il decisivo contributo al


declino della natalità è dato dalla diffusione del controllo volontario delle nascite, uno strumento
più efficiente dei metodi prima utilizzati come il ritardo del matrimonio o il prolungamento
dell’allattamento. Appare in Francia alla fine del ‘700 e si diffonde rapidamente in tutta Europa
durante la seconda metà dell’’800. La diffusione del controllo delle nascite si manifesta con un
declino continuo del livello di fecondità legittima. In più di un caso l’abbassamento di questa
avviene in presenza di un aumento della nuzialità; ciò può anche interpretarsi con fatto che la
disponibilità di un efficiente mezzo di controllo delle nascite rende superfluo il ricorso al controllo
della nuzialità! L’indicatore migliore è il TFT (numero medio di figli per donna): da livelli massimi
superiori a 5 figli per donna in Inghilterra, Galles, Germania, Olanda, nati attorno al 1850 si passa a
circa 2 figli nel 1950. Le donne nate nei primi anni ‘60 hanno una fecondità notevolmente inferiore
al livello di rimpiazzo.
Interessante è vedere anche quali siano state le relazioni tra TFT e PIL pro capite nei paesi
industrializzati. L’andamento è speculare rispetto a quello che lega il prodotto pro capite ed e0. La
crescita del PIL si accompagna in una prima fase a sostenute diminuzioni della fecondità;
successivamente si accompagnano regressi via via minori della fecondità fino a diventare quasi
nulli nella presente fase di maturità economica. La trasformazione sociale ed economica è stata
molto importante nel determinare la discesa della fecondità, pur con importanti eccezioni: il declino
della fecondità inizia con molto anticipo nella rurale Francia assai meno avanzata e ricca
dell’Inghilterra nel pieno della rivoluzione industriale; perciò l’attuale indifferenza della fecondità
ai diversi livelli di reddito indica come siano altre motivazioni a guidare le scelte delle coppie;
inoltre in molti paesi il ritmo del declino nelle varie aree si spiega in limitata misura con indicatori
sociali ed economici come ad esempio il grado di istruzione, il grado di ruralità, di
industrializzazione, di urbanizzazione; spesso fattori culturali prevalgono su fattori di benessere.

Il discorso della transizione non sarebbe completo senza parlare delle grandi emigrazioni che hanno
permesso, popolando due nuovi continenti, di alleggerire la pressione demografica dell’Europa.
Alla fine del 1700 oltre 8 milioni di persone di origine europea popolano l’intero continente
13
americano. Le molle sono economiche e demografiche: economiche perché la rivoluzione
industriale e il progresso tecnico accrescono la produttività e rendono inutili le masse di lavoro
soprattutto nelle aree rurali; demografiche perché la transizione implica un forte moltiplicatore
demografico, cioè accelera la crescita aggravando i problemi posti dai mutamenti economici. La
disponibilità di terra e di spazio in America e la domanda di lavoro in queste società emergenti
crea le condizioni per le migrazioni di massa. Tra il 1846 e il 1932, questo fiume di emigranti si
dirige verso gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile, l’Argentina, l’Australia, la Nuova Zelanda, Cuba,
dove erano stati innescati processi di integrazione economica. Al netto dei rientri l’Italia ha perso 8
milioni di abitanti. L’emigrazione ha certamente avuto conseguenze benefiche, poiché ha reso
possibile un più rapido accrescimento economico delle zone di partenza, ha permesso di utilizzare
la forza lavoro laddove era più produttiva, accrescendo le risorse per l’intero sistema in Europa
come oltreoceano. Tre sono le ragioni del grande travaso demografico: a) la crescita della
popolazione rurale, la disponibilità di terra e la produttività agricola; b) la dinamica naturale della
popolazione delle campagne, c) il contemporaneo sviluppo delle attività non agricole. Per quanto
riguarda il primo punto, si osserva della seconda metà del 1700 che in tutti i paesi europei, esclusa
l’Inghilterra, i ¾ della popolazione è occupata nell’agricoltura.
Ma a causa del vigoroso aumento demografico che accresce la domanda di alimenti, soddisfatta
perlopiù con l’aumento di terra coltivata, la produttività resta troppo bassa. La scarsità di terra, il
crescente aumento dei contadini e la bassa produttività, avrebbero imposto nuovi limiti malthusiani
alla crescita demografica. Grigg ha calcolato che la terra arabile in Europa sia aumentata, ma nel
frattempo la terra coltivata è aumentata anche nelle nuove aree, dove i bassi costi di produzione
sono alla base della caduta dei prezzi delle derrate agricole che porrà in crisi le campagne europee:
grandi masse di contadini con poca terra implicano un forte aumento di eccedenti di mano d’opera,
e crescono i candidati all’emigrazione. Il secondo punto si riferisce alla dinamica naturale delle
campagne dove il controllo della fecondità si diffonde con sensibile ritardo rispetto alle aree urbane,
determinando una accelerazione più intensa della crescita naturale durante il periodo di transizione.
Il terzo punto si riferisce alla rapidità con cui vengono create in Europa attività di lavoro nei settori
non agricoli, creando sbocchi alternativi alle popolazioni delle campagne. Paesi in cui
l’occupazione agricola declina o è stazionaria (Germania, Inghilterra, Belgio) hanno bassa
emigrazione transoceanica, paesi dove l’occupazione rurale cresce fortemente (Norvegia, Italia,
Spagna) hanno forte emigrazione. La grande ondata emigratoria sospinta dalle eccedenze
demografiche delle campagne decresce il moderno settore economico è in grado di assorbire le
eccedenze che ancora si formano in agricoltura. I paesi mediterranei come Spagna e Italia con
tardiva industrializzazione superano il fenomeno negli anni 60 – 70. L’esperienza dei paesi europei
non può essere trasposta alla situazione dei paesi in via di sviluppo oggi, se non altro perché non
esistono più paesi vuoti aperti all’emigrazione e perché le politiche migratorie pongono forti vincoli
agli spostamenti. D’altro canto la globalizzazione dell’economia tende ad ampliare le
disuguaglianze economiche accentuando le differenze di reddito tra paesi ricchi e poveri,
rafforzando le spinte migratorie.

La transizione demografica con i fenomeni migratori connessi lascia le popolazioni europee


profondamente mutate nella loro dinamica e nella loro struttura. Nel 1981, anno di fine della
transizione, la speranza di vita si raddoppia, stabile è l’età del matrimonio e la proporzione delle

14
donne che restano nubili fino alla fine del periodo riproduttivo, a conferma che, nel mondo
occidentale, il matrimonio ha perso valore. In corrispondenza della diminuzione della fecondità, si è
ridotta l’utilizzazione dello spazio riproduttivo; ciò indica che l’ultimo figlio raggiunge l’età adulta
quando il padre e la madre sono ancora giovani (circa 50 anni) e con una lunga frazione del ciclo di
vita davanti a loro. La diminuzione della fecondità è in buona parte responsabile delle minori
dimensioni familiari. La discesa della natalità ha provocato l’assottigliarsi delle classi di età più
giovani e il corrispondente allungamento delle età anziane, determinando l’invecchiamento
demografico. L’ordine demografico della mortalità non ha eliminato i rischi di disordine che
proprio perché più rari rendono più vulnerabili chi li subisce (la perdita di un figlio unico; la perdita
di genitori in giovane età). Le strutture familiari sono più esili e fragili di fronte al rischio.
L’invecchiamento al di là di certi limiti appesantisce fuori misura la dinamica sociale, mentre una
fecondità molto bassa, al di sotto del rimpiazzo, è insostenibile nel lungo periodo.

Con l’avvento della rivoluzione industriale, la moltiplicazione dell’energia a disposizione


dell’uomo l’espansione degli scambi, i termini dell’equazione popolazione, lavoro e terra cambiano
rapidamente. L’aumento della popolazione non genera più, con l’aumentare della domanda, la
lievitazione dei prezzi e la diminuzione dei salari. A partire dal XIX secolo l’espansione
demografica dell’Europa avviene in presenza di prezzi decrescenti e di salari crescenti, il faticoso
equilibrio tra popolazione e terra si incrina e si rompe, mentre crescita demografica ed economica si
sostengono.
Schumpeter assegna un ruolo secondario alla popolazione nel processo economico poiché l’impulso
fondamentale che mette in moto il motore del capitalismo e lo mantiene in movimento viene dai
nuovi beni di consumo, dai nuovi mezzi di trasporto ecc che le imprese capitalistiche riescono a
creare. La dipendenza dalla terra si va attenuando, ma si accresce la dipendenza da altre risorse
naturali, anch’esse legate alla terra, come il carbone, il ferro, che già nell’800 si temeva che
finissero. La relazione tra sviluppo demografico e sviluppo economico, tra il 1820 e il 1994, nella
popolazione dei 4 paesi leader dell’occidente, Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti è
aumentata di quasi 6 volte contro un PIL di 90 volte. Si può trarre l’impressione che l’incremento
demografico abbia esercitato una azione frenante assai modesta. Alcuni fattori legati alla crescita
demografica che possono aver contribuito nei due secoli ad accelerare più che a ritardare lo
sviluppo si possono raggruppare in tre categorie: 1 fattori puramente demografici; 2 fattori di scala;
3 stock delle conoscenze e progresso tecnico. Il primo: si tratta di mutamenti avvenuti con la
transizione demografica, che hanno aumentato l’efficienza della popolazione. Tutto è diventato
favorevole alla produzione: la struttura dell’età, il calo della natalità ecc. Ma l’esaurirsi di questi
benefici porta a ritenere che si è arrivati a una fase di svolta che semmai introduce un ciclo
decrescente di efficienza della popolazione.
Il secondo: fattori di scala non derivano solo dalla crescita demografica, ma anche dall’aumento
delle dimensioni dell’economia e dalla maggiore integrazione tra i mercati (globalizzazione). Con
una popolazione che si espande, gli imprenditori sono incoraggiati ad assumere nuove iniziative,
generando sviluppo. Il contrario avverrebbe nei periodi di rallentamento, stagnazione o flessione
demografica. Il terzo: stock delle conoscenze. Il progresso della conoscenza sperimentata avviene
perché esistono individui di ingegno che creano nuova conoscenza. La creazione di nuova

15
conoscenza si avvantaggia dei fattori di scala; quindi, al crescere delle dimensioni demografiche,
queste contribuiscono significativamente allo sviluppo economico.

Il prodotto globale noto come PIL esprime il valore della produzione di beni e servizi con
esclusione delle transazioni con l’estero ed è espresso a prezzi costanti. L’evoluzione demografica
ha provocato l’aumento di popolazione e occupazione: quella sociale ha liberato una cospicua
frazione del tempo dal lavoro, quella economica ha moltiplicato i rendimenti del lavoro.
Keynes attribuì l’espansione del tasso di formazione del capitale in Gran Bretagna all’incremento
demografico oltreché all’aumento del benessere e solo in minor misura a quei mutamenti tecnici che
richiedono aumenti di capitale per unità di produzione. Il rallentamento demografico tra le due
guerre si sarebbe riflesso sulla domanda reale creando sovrapproduzione, disoccupazione. Della
stessa opinione Hansen, secondo il quale nella seconda metà dell’800 la crescita demografica fu alla
base di circa il 40% della formazione del capitale in Europa e di circa il 60% negli USA. La crisi
degli anni ’30 trovava le sue radici nel rallentamento dell’espansione demografica della prima parte
del secolo con conseguente rallentamento degli investimenti.
Relazione tra i cicli demografici ed economici negli USA: la crescita del benessere attirava
immigrazione e promuoveva matrimoni facendo accelerare la crescita demografica che a sua volta
provocava una accelerazione di investimenti sensibili allo sviluppo demografico.

Mobilità e migrazioni misurano la capacità di ridistribuzione efficace delle risorse umane. La storia
europea recente può suddividersi in tre periodi: il primo termina con l’introduzione delle restrizioni
all’immigrazione nei paesi oltreoceano, caratterizzato da un forte processo redistributivo che
sospinse masse di persone, prevalentemente provenienti da aree rurali. Durante lo stesso periodo
anche le migrazioni intraeuropee furono intense. Il secondo periodo, quello tra le due guerre, fu
caratterizzato dalla chiusura delle destinazioni extraeuropee e il mercato del lavoro si restrinse e si
frazionò. La terza fase è stata caratterizzata dall’esaurimento dell’immigrazione extraeuropea e una
notevole redistribuzione demografica nell’Europa occidentale. E’ una fase che si chiude
gradualmente negli anni 70- 80 con l’esaurirsi del serbatoio migratorio dell’Europa mediterranea e
l’introduzione di politiche restrittive all’immigrazione fuori continente. Le conclusioni di questa
analisi evidenziano che nel corso degli ultimi due secoli la crescita demografica non ha intralciato
lo sviluppo economico, anzi lo ha favorito. Stati Uniti e Francia hanno avuto uno stesso sviluppo
del PIL, nonostante il tasso di crescita della popolazione sia stato molto diverso. La Francia ha fatto
bene come gli USA, ma sotto il profilo geopolitico è la dimensione globale dell’economia ciò che
più conta. Una economia sei volte più grande come quella degli USA può, utilizzando la stessa
frazione del PIL, mandare aiuti ai paesi poveri per un valore sestuplo di quanto possa fare la
Francia.

CAP. 5: LE POPOLAZIONI DEI PAESI POVERI

Nel 2000 il numero degli individui è di circa 5 miliardi, contro il miliardo del 1900. Un secolo di
espansione da parte dei paesi meno sviluppati, mentre i paesi ricchi l’hanno realizzata già nei due
secoli successivi alla rivoluzione industriale; l’eccezionalità sta appunto nella rapidità. La massima
accelerazione si raggiunge negli anni ’60 e le ragioni di questa rapidità possono spiegarsi
16
facilmente: nel mondo ricco la transizione è avvenuta lentamente, sotto l’impulso di una graduale
riduzione della mortalità a cui si è accompagnata una riduzione della natalità. La riduzione della
mortalità è la conseguenza delle conoscenze, soprattutto mediche, che hanno permesso di contenere
le patologie infettive. Queste conoscenze sono state trasferite massicciamente nel mondo povero
provocando in poco tempo una forte diminuzione della mortalità.
La natalità, che dipende da fattori culturali solo parzialmente modificabili, non ha seguito il declino
della mortalità e la distanza tra le due componenti si è fortemente divaricata. Il mondo povero si
articola in società diversissime e la transizione demografica vi avviene con tempi accorciati e ritmi
dilatati rispetto al percorso compiuto nel mondo ricco. Comunque il divario tra popolazioni più
sviluppate e popolazioni meno sviluppate è enorme, come per la speranza di vita: nelle prime è di
75 anni, nelle seconde di 63 anni; il numero medio di figli per donna nelle prime è pari a 1,6, nelle
seconde di 2,9; il tasso di incremento delle popolazioni povere è il quintuplo di quelle ricche.

Risultano disparità di situazione all’interno del mondo povero in cui convivono popolazioni
africane, con transizione abbozzata, e quella cinese, con transizione conclusa. Nelle aree
continentali si trovano diverse situazioni intermedie. Lo spazio più esteso che occupano è segno
dell’avanzare del processo di transizione demografica. Ma ancora convivono posizioni estreme con
paesi con speranza di vita da regime antico come l’Etiopia, con 44 anni, e paesi che hanno la stessa
speranza di vita dei paesi ricchi come Argentina e Cile, popolazioni senza controllo delle nascite
(Etiopia e Congo), e popolazioni vicine alla norma (Corea, Cina, Thailandia). Nel 1950 non appare
relazione alcuna tra i livelli di mortalità e di fecondità, quest’ultima alta ovunque
indipendentemente dal livello di mortalità. Nel 2000 esiste una netta relazione tra e0 e TFT poiché
sono i paesi più a bassa mortalità ad avere anche una fecondità più ridotta. Questo avviene solo
perché lo sviluppo del benessere incide in direzione opposta sulla speranza di vita, innalzandola, e
sulla fecondità, abbassandola, ma anche perché il miglioramento della sopravvivenza comincia ad
avere una influenza diretta sulla fecondità, rendendola non necessaria e più costosa. Questo
processo, una volta avviato, tende ad autoalimentarsi fin quando la mortalità non ha esaurito la sua
discesa.

Non vi sarebbe sviluppo senza l’abbassamento della mortalità e senza che il disordine ceda il passo
all’ordine gerarchico-cronologico della sopravvivenza. La riduzione della mortalità infantile e
giovanile è una delle condizioni della riduzione della fecondità e dell’adozione di comportamenti
più responsabili. Il declino della mortalità nel mondo povero si è prodotto in modi diversi nelle
varie popolazioni che nel loro insieme hanno aumentato la speranza di vita nell’ultimo mezzo
secolo. I progressi della sopravvivenza passano in primo luogo per la riduzione della mortalità nei
primi anni di vita. Ciò favorisce la modernizzazione del comportamento riproduttivo e si associa ad
un miglioramento del livello di salute. Gli alti livelli della mortalità dell’infanzia hanno cause varie
e complesse, dalle malattie infettive tipiche della prima infanzia (morbillo, difterite, polio, tetano),
all’alta incidenza di diarrea e gastroenterite connesse con le condizioni igieniche precarie e alla
malnutrizione, ed ancora alla presenza di vaste zone malariche.

La speranza di vita è posta in relazione con l’indicatore del benessere economico, il PIL pro capite.
Una forte ascesa della speranza di vita si verifica col passaggio da livelli di PIL pro capite bassi a
livelli più alti. In altri termini la crescita del benessere materiale ha effetti sull’allungamento della
17
speranza di vita, anche se questa relazione in una prima fase di progresso è maggiore perché legata
all’introduzione di tecniche massicce: antibiotici, disinfestazione con DDT, vaccinazioni. Negli
anni ’70 in conseguenza a segnali di rallentamento dei regressi della mortalità nei paesi poveri gli
organismi internazionali preposti alla salute hanno favorito il personale paramedico, più facile da
formare, rispetto ad ospedali ecc che faticavano ad arrivare a tutta la popolazione. Integrano questa
strategia programmi di istruzione, sistemazione idrica e sanitaria, appropriate tecnologie agricole.
Ciò per sensibilizzare la popolazione a comportamenti indispensabili a ridurre la mortalità, ma è
difficile. Per farlo sono necessarie azioni sociali e politiche: lo sviluppo dell’istruzione,
particolarmente di quella femminile, è vista come una condizione necessaria di progresso sanitario.
La Nigeria che ha lo stesso PIL del Bangladesh, ha una speranza di vita molto inferiore, mentre
quella dell’Indonesia è minore di quella della Cina, che è più povera. Queste disparità così notevoli
sono la prova che l’accumulo di beni materiali, da solo, non garantisce il progresso sanitario.
Il fatto che alcuni paesi islamici, nonostante i discreti livelli di sviluppo, abbiano ancora livelli di
mortalità elevati è stato messo in relazione con lo stato di subordinazione e la mancanza di
istruzione della donna. L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha calcolato che il 90% delle
morti nei paesi poveri sono causate da polmonite, diarrea, tubercolosi, malaria, morbillo e AIDS.
La sopravvivenza in buona salute è un requisito per tutte le componenti di sviluppo. E’ anche un
requisito per modificare la domanda di figli e l’adozione di forme di controllo della riproduzione.

La fecondità deve compensare la mortalità: per questo, a fronte dell’elevata mortalità, nei paesi ivds
si fanno ancora molti figli. Inoltre ci sono diversi fattori culturali come il sostegno alla famiglia
oppure il guadagno dei genitori ad avere molti figli. Perciò, per ridurre la natalità, bisogna ridurre la
mortalità. Ma i programmi di family planning non vengono facilmente accettati, sia per motivi
culturali sia politici (sist. Socialisti: la fecondità si sarebbe sistemata da sola; sist. Nazionalisti:
popolazione folta serve). Gli stati contrari sostenevano che il maggior freno alla natalità fosse lo
sviluppo economico. Questo nel 1974, mentre dieci anni dopo tutti i paesi concordavano nella
necessità di frenare la crescita demografica. (cfr quaderno su: contraccezione, bisogni, accessi). Nei
paesi ricchi quindi l’aumento del costo relativo all’allevamento dei figli è indicato come fattore
determinante del declino e questo avviene in presenza di istruzione della donna, che è così meno
disponibile a rinunciare al reddito di una attività professionale in favore dell’attività domestica di
allevamento della prole; in presenza dell’obbligo scolastico per l’infanzia che ritarda l’inizio di una
attività lavorativa dei figli, in presenza di un accrescimento del benessere.
Quindi ciò che determina la fecondità sono le motivazioni, le aspettative e i desideri.

India e Cina contengono circa la metà della popolazione terrestre. La Cina tra gli anni 50 e l’inizio
di questo secolo ha ridotto la fecondità del 73% mentre in India si è ridotta del 49%. La speranza di
vita che alla nascita era uguale, adesso è di 8 anni più lunga in Cina. Oggi in Cina la fecondità è
inferiore al rimpiazzo e se mantenuta tale potrebbe portare ad un declino demografico; quella
dell’India implica tassi di incremento. Il rallentamento della crescita demografica rientra nei piani
del governo indiano fin dal 1952, ma i successi sono stati assai limitati. Nel 1970 la percentuale di
coppie che usavano la contraccezione era circa del 14% e il metodo contraccettivo prevalente era la
sterilizzazione sia maschile che femminile. Nel 1976 Indira Gandhi dà una accelerazione ai
programmi, e il governo vara una serie di misure arrivando anche agli incentivi monetari, e a
disposizioni di legge che rendono obbligatoria la sterilizzazione dopo il terzo figlio. Questo
18
indirizzo coercitivo sollevò un’ondata di violente opposizioni che furono tra le cause della sconfitta
della Gandhi nel 1977, perciò il programma subì un notevole rallentamento. Con il suo ritorno al
potere nel 1980 e i risultati del censimento del 1981, che rilevò una popolazione numericamente
molto superiore alle attese, la politica demografica subì una accelerazione e un rafforzamento. Il
settimo piano quinquennale (85/90) ebbe come obiettivo il conseguimento di una fecondità di
rimpiazzo per il 2000. Nel 2000 la fecondità era ancora di quasi il 50% più alta del livello di
rimpiazzo. Negli anni il governo indiano non è riuscito ad organizzare un programma di controllo
delle nascite: i contraccettivi orali non sono mai stati autorizzati, quindi l’unico programma di
successo è stato quello della sterilizzazione. Anche i programmi incentrati sullo sviluppo
economico e sociale, incisivo sull’abbassamento della fecondità legato all’aumento dell’età al
matrimonio, il miglioramento dello status della donna, l’incentivazione all’istruzione, la lotta alla
povertà e forme di previdenza per la vecchiaia, hanno avuto pochi effetti.
I risultati del censimento del 2001 (un miliardo e 27 milioni di persone) hanno ulteriormente
preoccupato il governo indiano per il futuro demografico del paese. Recentemente sono stati offerti
incentivi alle coppie che decidono di non avere più di due figli.

L’azione del governo per la pianificazione delle nascite in Cina segue un andamento assai diverso.
Nel 1949 Mao dichiarò che era positivo che la Cina avesse una vasta popolazione, e anche se si
fosse moltiplicata sarebbe stata in grado di gestirla. Rivoluzione e produzione possono risolvere il
problema alimentare della popolazione. Ma con il consolidarsi della rivoluzione e il censimento del
1953 cominciarono a emergere le preoccupazioni e al congresso del partito del 1956 si affermò che
per la prosperità della nazione bisognasse adottare idonee misure in favore del controllo delle
nascite. Questa prima campagna di controllo delle nascite doveva costruire una rete di assistenza,
produrre contraccettivi e creare un clima ricettivo. Contestualmente ebbe inizio un ambizioso
programma economico e sociale chiamato Grande balzo in avanti, che però non si intonava con la
prudenza in campo demografico. Solo dopo il fallimento del Grande balzo in avanti, i cattivi
raccolti, la grave carestia e l’altissima mortalità del periodo 59/61, si attua una seconda campagna
demografica con la creazione di un Dipartimento per la pianificazione familiare e l’introduzione
della spirale come metodo contraccettivo, ma questa viene sospesa dalla Rivoluzione culturale e
solo con il ritorno alla normalità nel 1971 ha inizio la terza campagna che si basa su tre principi:
matrimonio ritardato, lungo intervallo tra le nascite, minor numero di figli. Il successo conseguito
negli anni 70 si basa sul sistema delle quote programmate di nascite: il governo cinese cominciò a
stabilire obiettivi numerici annuali riguardanti il tasso di incremento naturale della popolazione in
ciascuna provincia. I metodi contraccettivi più diffusi erano la spirale e la sterilizzazione sia
maschile che femminile. Molto diffuso era anche l’aborto, ottenibile rapidamente, gratuitamente e
senza il consenso del marito. Con la morte di Mao gli obiettivi demografici diventano più espliciti e
ambiziosi. Hua Guofeng nel 1979 affermò che era necessaria una riduzione dell’incremento
demografico, necessaria per la riuscita delle 4 modernizzazioni: agricoltura, difesa,
industria/scienza e tecnologia. Dal 1979 si impone la limitazione delle nascite a un solo figlio per
coppia, che doveva essere certificato, con eccezioni per minoranze etniche, aree di confine e coppie
in situazioni particolari. Chi rispettava questo provvedimento otteneva benefici, mentre penalità
vennero istituite per le coppie che rifiutavano di collaborare. La resistenza e la protesta della
popolazione cui viene negato uno dei fondamentali diritti umani spingerà ad un allentamento della

19
coercizione. Il declino della fecondità si arrestò nella prima parte degli anni 80. Il processo di
liberalizzazione economica, l’attenuazione del controllo pubblico hanno ostacolato la piena
realizzazione della politica, anche se la dirigenza cinese, agli inizi degli anni 90, rinnovava ancora il
suo impegno a favore del figlio unico, lasciando invariata la legislazione. Il rapido sviluppo degli
ultimi anni ha aiutato a mutare le norme riproduttive, facilitando l’avvio ad una bassa fecondità. Ed
ora che è stata stabilmente raggiunta, si crede che la politica coercitiva debba essere smobilitata,
anche se è ancora in vigore nelle popolazioni urbane la regola del figlio unico. E’ permesso, per
esempio, alle coppie che hanno come primogenito una bambina di avere un secondo figlio. Alla
base dell’abbandono graduale della vecchia politica vi sono 3 elementi: le preferenze delle coppie si
orientano verso un numero ridotto di figli; la politica del figlio unico ha alterato il rapporto tra i
sessi, infatti il profondo desiderio di avere un figlio maschio ha avuto come conseguenza l’aborto
selettivo con uno sbilancio nella mortalità delle bambine rispetto ai maschi; il rapido
invecchiamento della popolazione che subirà una fortissima accelerazione nel secondo, terzo
decennio del secolo quando entreranno nell’età anziana i nati degli anni 50 e 60, che avrà per
ripercussione la mancanza di copertura pensionistica per gran parte della popolazione. Tutto ciò
determinerà un esplosivo problema da qui a pochi anni.

Nonostante le grandi difficoltà, la Cina ha comunque raggiunto un grande successo. Le sue ragioni
si possono riassumere in: trasformazione sociale della Cina più rapida ed efficiente anche in campo
sanitario, dove la mortalità si è ridotta più velocemente che in India, favorendo un più rapido
declino della fecondità; il sistema politico cinese ha permesso una politica demografica più efficace,
poiché si è puntato su una pluralità di mezzi di controllo compreso l’aborto; una società più ricettiva
alle ragioni della riduzione della fecondità. Nel 1950 la Cina aveva una popolazione più numerosa
dell’India, nel 2025 la popolazione cinese sarà inferiore a quella indiana nelle età fino a 35 anni, e
nel 2030 l’India avrà compiuto il sorpasso demografico. La rapida frenata della Cina ha contribuito
alla crescita economica compiuta negli ultimi vent’anni, ma il paese dovrà subire lo shock
demografico del rapido invecchiamento. La sostenuta crescita dell’India ha frenato la
modernizzazione del paese, aggravato da non pochi problemi sociali, anche se non ha represso la
crescita economica in accelerazione nell’ultimo decennio.

Una popolazione rapidamente crescente comporta rendimenti decrescenti del lavoro e di altri fattori
produttivi determinando una diluizione del capitale, che provoca impoverimento, il più lento
accrescimento, dunque pone in posizione di svantaggio. Al contrario il ridursi delle dimensioni
familiari conseguenti il controllo delle nascite stimola la formazione del risparmio e quindi degli
investimenti, altro elemento di vantaggio; il rallentamento della crescita demografica comporta una
maggiore efficienza delle forze di lavoro e quindi un’accresciuta produttività. Analogamente
l’incremento demografico non avrebbe alcun effetto positivo sul progresso tecnico. Risulta che la
capacità di mettere un freno all’incremento demografico è elemento determinante per lo sviluppo.
In 28 paesi poveri, nel periodo 1975/2000, si riscontra che più l’incremento della popolazione è
basso, più il PIL è alto. Ma se mettiamo in relazione la crescita demografica e crescita del reddito
pro capite nel periodo 1950/2000, emerge una associazione inversa rispetto alla precedente.

20
Ciò significa che la crescita demografica non è stata di ostacolo alla crescita del benessere.
Ciononostante… Una crescita demografica più veloce dovrebbe essere pregiudizievole allo
sviluppo economico per una serie di motivi: 1 lo stock di capitale fisico (utensili, macchine,
infrastrutture, edifici) per lavorare tende ad assottigliarsi con l’aggiunta di nuove unità a una
popolazione, di conseguenza anche il prodotto pro capite risulta minore, se non ci sono ulteriori
investimenti. Tali forze da paese a paese sono assai differenti. Per la maggioranza dei paesi
dell’Asia i tassi futuri sono ben al di sotto di quelli del passato, mentre il contrario è vero nei paesi
dell’Africa. 2 Anche le risorse naturali, come terra e acqua, che la rende produttiva, quando sono
scarse soffrono dell’incremento demografico più rapido e alla lunga determinano rendimenti
decrescenti. 3 Il capitale umano, espresso dall’efficienza (fisica, tecnica) della popolazione,
funziona come il PIL: per andare incontro alle esigenze di una grossa popolazione deve essere
aumentato. L’aumento dell’istruzione ha effetti positivi sullo sviluppo.
4 La rapida crescita avrebbe anche un effetto sulle spese pubbliche poiché quelle in alfabetizzazione
e sanità sono considerate generalmente prioritarie e assorbono una maggior quota di quanto
avverrebbe in una popolazione più moderatamente crescente. 5 Alcune relazioni implicano infine
che non si producono positivi effetti di scala col crescere della popolazione. In altri termini non si
determinano condizioni migliori per l’impiego di fattori produttivi, risorse naturali, capitale, lavoro,
passando da una dimensione a una superiore.
Se le relazioni sopra indicate si fossero verificate avremmo dovuto osservare una relazione
negativa tra la crescita demografica e quella economica negli ultimi decenni. Se così non è stato è
perché le realtà dei paesi poveri sono varie, legate a vicende politiche, economiche, sociali ed hanno
deformato e alterato i meccanismi di cui sopra.
Partendo dal principio che dovrebbe prodursi diluizione di capitale per lavoratore nelle popolazioni
che crescono più rapidamente, molti paesi poveri sono riusciti ad aumentare invece la quota PIL per
investimento, quindi l’effetto diluizione del capitale è stato parzialmente neutralizzato. Per quanto
riguarda le risorse fisse, specialmente la terra, è stato osservato che l’espansione dell’agricoltura ha
permesso ai paesi in via di sviluppo di aumentare la produzione agricola a un tasso superiore e ciò è
avvenuto per effetto delle rese (rivoluzione verde) che non per la messa a coltura di nuove terre.
Una maggiore economia nell’impiego delle risorse disponibili ha pertanto permesso di mantenere
gli obiettivi anche in caso di forte pressione demografica. Per quanto riguarda la formazione del
risparmio alcuni teorici contestano l’assunto che una popolazione rapidamente crescente debba
avere un minor tasso di risparmio a causa del maggior numero di figli e osservano che di fronte a
questo effetto scattano due possibili meccanismi che lo neutralizzano: il primo è che l’intensità di
lavoro dei componenti adulti delle famiglie si adatta alle dimensioni, quindi un maggior numero di
dipendenti determina una intensificazione dell’attività lavorativa soprattutto nelle economie rurali.
Altro elemento riguarda l’azione delle economie di scala, come le infrastrutture (comunicazioni,
trasporti), determinanti per lo sviluppo e che sono sotto impulso dalla crescita della popolazione e
dalla densità del popolamento. Infatti, i comportamenti umani sono estremamente plastici e
adattabili alle costrizioni esterne.

21
CAP. 6: IL FUTURO

Il cammino della popolazione mondiale sta spegnendosi per il mondo prospero, ma è in pieno
sviluppo per quello povero. I rendimenti decrescenti non possono non deteriorare il benessere
acquisito, perché terra, acqua, aria, minerali sono risorse fisse e limitate e sono in parte sostituibili e
destinate a porre un limite alla crescita. La crescita demografica minaccia l’ambiente a causa
dell’inquinamento dovuto alle attività industriali, oltre che la salute e l’ordine nei rapporti sociali.
Altri, invece, sottolineano che il benessere nasce dal progresso scientifico e tecnologico.
La storia della crescita della popolazione è stata vista, infatti, come un continuo compromesso tra
le forze della costrizione e quelle della scelta. Questo processo interattivo tra forze e scelta ha
continuamente mutato il punto di equilibrio ed ha prodotto cicli di crescita e fasi di ristagno o di
regressione numerica. L’autoregolazione in molte popolazioni ha avuto successo in altre è restata
assente. Il prezzo pagato è stato un duro tributo alla mortalità, fino alla sparizione.

Nel 2025, la popolazione con oltre 20 anni apparterrà a generazioni nate prima del 2005, quindi è
già noto il loro ammontare numerico anche se non è verificabile la mortalità, che però è abbastanza
stabile. I giovani con meno di 20 anni saranno invece un’incognita e dipenderanno dall’ammontare
della popolazione riproduttiva dei prossimi 20 anni e dalla loro propensione a fare figli. Secondo le
proiezioni delle N.U. del 2004 la popolazione del mondo nel 2050 dovrebbe crescere fino a circa 9
miliardi di persone, tuttavia qualora la fecondità si fissasse a livello di rimpiazzo la popolazione
toccherebbe nel 2050 circa 8 miliardi di individui. I prossimi decenni dovranno fare i conti con la
forza di inerzia, che già da sola porterebbe molte popolazioni ad una considerevole crescita
demografica, del 10% in America del Nord, del 23% in Asia, fino al 42% in America latina e Asia
meridionale e ben del 50% in Africa; l’inerzia in Europa porterebbe invece a una diminuzione. Forti
saranno i mutamenti geo-demografici: il peso della popolazione dei paesi sviluppati scenderà e
specialmente in Europa, mentre aumenterà quello del mondo povero. Nel 1950 dei 4 paesi europei
che si trovavano tra i primi 10 paesi (per peso) assieme a due paesi sviluppati, gli USA e il
Giappone, solo gli USA rimarranno nel gruppo nel 2050. Nessun paese africano si trovava nel
gruppo dei 10 nel 1950, ma 2050 ci saranno Nigeria, Congo ed Etiopia.

Due autori hanno elaborato alcune proiezioni su fecondità, mortalità e migrazioni, avvalendosi delle
proiezioni della Banca Mondiale secondo le quali nel 2100 la popolazione toccherà i 10 miliardi.
Dopo il 2050 la fecondità sarà a livello di rimpiazzo mentre la speranza di vita continuerà a
crescere. La popolazione si avvicinerebbe a crescita zero alla fine del secolo. La crescita in questi
cento anni sarà dovuta ad una struttura per età iniziale molto giovane nel mondo in via di sviluppo,
alla fecondità ancora superiore al livello di rimpiazzo, alle ulteriori riduzioni della mortalità, e alle
migrazioni che però nell’insieme daranno un saldo zero. L’alta fecondità dell’Africa sub-sahariana
sarà la maggiore responsabile della crescita futura, il suo declino è però insidiato dall’epidemia
dell’AIDS.

Il processo di globalizzazione nel mezzo secolo che precedette la prima guerra mondiale non fu solo
economico ma anche demografico. I flussi finanziari e i trasferimenti di beni tra paesi si
accompagnarono alla migrazione di decine di milioni di persone dall’Europa ai paesi d’oltreoceano.
Al contrario il processo di globalizzazione attualmente in corso ha caratteristiche diverse.

22
L’integrazione economica ha proceduto con velocità elevata, ma i trasferimenti umani sono stati
inferiori a quelli avvenuti durante il precedente ciclo. Questa affermazione può sorprendere se si
tiene conto delle pressioni migratorie nella parte povera del mondo, ma nel rapporto con la crescita
della popolazione ciò appare più comprensibile. E’ ovvio comunque che la crescita effettiva dei
flussi preoccupa e giustifica gli sforzi del mondo ricco per contenerli.

DISUGUALIANZE DEMOGRAFICHE. Il tasso di crescita della popolazione in età attiva


continuerà a divergere in modo significativo tra paesi ricchi e paesi poveri, portando a una netta
flessione delle nascite nei primi ed un aumento nei secondi.
DISUGUAGLIANZE ECONOMICHE. Le disuguaglianze economiche tra mondo sviluppato e
mondo in via di sviluppo sono destinate ad accentuarsi ulteriormente. La crescita attuale è spronata
dalla tecnologia e c’è un’enorme sproporzione tra ricchi e poveri per quanto riguarda la produzione
e il possesso di questa.
POLITICHE MIGRATORIE. Sono in continua evoluzione, anche se si è attuata una severa
restrizione. Il diritto di asilo è fortemente limitato in quasi tutti i paesi con liberali tradizioni di
accoglienza. Inoltre è forte anche la tendenza a rendere più impermeabili le frontiere
all’immigrazione clandestina o comunque non legale e di limitare le migrazioni per motivi familiari
selezionando l’immigrazione per motivi di lavoro specificando profili e capacità professionali.
GEOGRAFIA DEI SISTEMI MIGRATORI. Esistono tre o quattro aree di riferimento. Quella che
fa perno all’America del nord è di provenienza latino-americana; quella europea dei paesi nord e est
delle rive del Mediterraneo; gli stati del golfo con provenienze meridionali. L’esplosione dell’URSS
non ha portato alla formazione delle imponenti migrazioni est-ovest. Ciò è dovuto ad un’inerzia che
lega paesi di origine e destinazione a causa di legami economici, legali, politici, rafforzati da grandi
comunità etniche. Forti disuguaglianze demografiche e crescenti disuguaglianze economiche
aumentano le tensioni e le pressioni migratorie che le più rigide politiche tendono a controllare e
incanalare.
SOPRAVVIVENZA: Secondo le N.U. in una previsione al 2050, la speranza di vita nei paesi
sviluppati è destinata a progredire da 75 a 82 anni e da 63 a 74 nei paesi meno sviluppati. Il
Giappone potrebbe arrivare a 88 anni e molti paesi europei a 85.
SOSTENIBIILITA’ BIOLOGICA. Niente è immutabile nel mondo della biologia poiché vi è una
continua interazione e adattamento reciproco tra umani, microbi patogeni e animali e insetti. Piccole
quantità di DNA presenti nei microbi patogeni consentono a questi di evolversi e adattarsi a nuove
cellule o specie ospiti producendo nuove tossine, evitando o sopprimendo così risposte
infiammatorie o immunitarie sviluppando resistenza a farmaci e anticorpi. Influenza, febbre gialla,
encefalite, AIDS, tularemia, ebola, SARS, cadono sotto questa categoria. Altre malattie che si
credevano vinte negli anni 50 e 60 come la tubercolosi, malaria colera, riemergono al deteriorarsi
delle condizioni ambientali
EPIDEMIA DELL’AIDS. L’AIDS venne identificata nel 1981 e battezzata nel 1982, ma in Africa
centrale si trovava già in fase epidemia negli anni 70 e vi sono tracce della sua apparizione in
Congo nel 1959. Come l’infezione abbia potuto svilupparsi tra gli umani non è stato ancora
accertato, anche se la trasmissione dalle scimmie appare l’ipotesi più plausibile. Una persona con
l’infezione può trasmettere il virus a una persona sana tramite il contatto sessuale o per mezzo di
trasfusioni o di condivisione di siringhe infette. Donne con l’infezione possono trasmetterla al feto

23
se incinte o al bambino che allattano. Una volta acquisita l’infezione occorrono fino a dieci anni
prima che si sviluppi l’AIDS e una volta che è manifesto la morte è certa nella maggior parte dei
casi entro 4 anni. Ciò in assenza delle moderne cure antiretrovirali sviluppate nell’ultimo decennio.
L’epidemia dell’HIV/AIDS è un fenomeno nuovo diffuso in tutto il mondo e uccide in particolar
modo i giovani e i sessualmente attivi. Il suo epicentro è nell’Africa equatoriale centrale (Rwanda,
Zambia, Uganda, Congo). L’infezione raggiunse il Belgio e la Francia per i contatti migratori.
Immigrati haitiani nello Zaire, poi tornati ad Haiti e successivamente emigrati negli Stati Uniti
introdussero l’infezione nel Nord America. Da qui l’infezione si moltiplicò nella popolazione
omosessuale e tossicodipendente raggiungendo l’America centrale, il Brasile e poi tutta l’America
latina. Un’alta proporzione di donne infette si associa con un’alta proporzione di bambini infetti.
Nel mondo 39 milioni di persone hanno l’infezione, di cui 2/3 nell’Africa a subsahariana. Le
conseguenze di questo disastro si estendono alla società, alla cultura, all’economia. Si pensi al
crescente numero di orfani, al peso delle famiglie delle persone ammalate e bisognose di assistenza,
al gravame della malattia sulla società. Infatti l’AIDS è sostenibile per i ricchi, ma insostenibile per
i poveri.
LA SOSTENIBILITA’ POLITICO-ISTITUZIONALE. La lunga sopravvivenza è il risultato di un
processo assai complesso. E’ il frutto dell’accumulo di conoscenze scientifiche, della capacità
tecnologica, di risorse materiali, di efficienti azioni sociali e di comportamenti individuali corretti. Il
lento progredire di tutti questi elementi ha determinato l’allungamento della speranza di vita nel
900. Mantenere questo ritmo di progresso implica che nessuno dei pilastri sui quali è basato abbia
dei cedimenti. Ma la storia ci mostra che i cedimenti sono possibili e il caso dell’ex URSS ne è
l’esempio. L’attuale Russia che negli anni 60 aveva raggiunto una speranza di vita di 69 anni, vicina
ai paesi occidentali, ha subito un arresto e una inversione di tendenza tale che a metà degli anni 90 è
scesa a 64 anni. Il deterioramento del sistema politico prima e il suo collasso poi ne è stata la causa.
I livelli di alimentazione sono peggiorati, sono aumentati i consumi di alcol, la spesa pubblica per la
sanità è diminuita per l’aumento del prezzo dei farmaci, la povertà è aumentata colpendo ¼ delle
famiglie, è presente una sindrome di stress sociale che ha determinato l’aumento dell’alcoolismo,
della tossicodipendenza, delle violenze e dei suicidi.
LA SOSTENIBILITA’ ECONOMICA. Anche la sostenibilità economica riguarda la speranza di
vita. Mentre le popolazioni europee hanno una speranza di vita più alta di quella degli Stati Uniti,
questi ultimi hanno una mortalità minore tra i molto anziani. Le ragioni di questa inversione di
tendenza alle età più avanzate sono plausibilmente legate a un migliore accesso alle cure sanitarie e
al loro alto livello. Tuttavia il declino della mortalità alle età anziane è la prima causa
dell’invecchiamento della popolazione e man mano che questo procede, l’influenza combinata
dell’aumento di domanda di cure sanitarie a maggiore contenuto tecnologico e conseguente
incremento di prezzo determinerà un aumento del costo della sanità ed una ripercussione sull’intera
economia. Le forze che fanno lievitare la spesa sanitaria riguardano anche l’incidenza della
disabilità e le malattie croniche presenti negli anziani di una certa età. Ne deriva che mentre la
speranza di vita si allunga, cresce la proporzione di questa vissuta in salute non buona. Infatti i
progressi medici consentono di sopravvivere a individui fragili, vittime di patologie invalidanti che
fanno crescere l’incidenza della disabilità oltre determinate età.

24
Negli ultimi secoli molti studiosi si sono cimentati con la nozione di popolazione massima
sostenibile nel mondo dati i vincoli di spazio, livello tecnologico, qualità di vita senza produrre
degrado ambientale. Tuttavia è indubbio che viviamo in un ambiente finito. Sono stati schematizzati
4 possibili interazioni tra popolazione e capacità di popolamento (Cp): due rispecchiano una visione
ottimista con assenza di conflitto, gli altri due propongono una visione conflittuale. Nel primo caso
al crescere della popolazione anche Cp cresce per effetto del progresso tecnico; nel secondo caso
Cp è costante ma la dinamica della popolazione decresce all’avvicinarsi al limite imposto dalla
finitezza ambientale. Nel terzo vi è un continuo aggiustamento dovuto ai sorpassi e oscillazioni dei
due elementi, nel quarto la crescita della popolazione provoca il collasso ambientale e questo
determina la catastrofe demografica. Altri criteri considerano la disponibilità di un fattore
limitativo, generalmente la produzione di alimenti, per determinare il massimo popolamento
possibile, altri combinano più fattori limitativi come alimenti e acqua. Infine tentativi più complessi
si concentrano sull’interazione tra più fattori. Ciò che appare realistico pensare è che la terra possa
sostentare 10/11 miliardi di persone.

Fattori limitativi della crescita legati alla produzione alimentare e alla disponibilità di materie prime
sono oggi ancora lontani o comunque non si percepiscono come chiari. Però si riscontra che le
società industriali consumano molte più risorse dei paesi in via di sviluppo. Tuttavia le popolazioni
dei paesi ricchi cresceranno lentamente o rimarranno stazionarie nei prossimi decenni, pertanto le
previsioni di una stabilizzazione o addirittura di un declino dei consumi di risorse base nei paesi
ricchi sono ben fondate. Nei prossimi decenni lo sviluppo delle economie dei paesi poveri dovrà
superare quello dei paesi ricchi affinché si riducano le differenze di benessere: il PIL pro capite di
queste economie dovrà accrescersi di 2, 3 o più volte, ottenendo con input di energia materie prime
e spazio. Queste popolazioni naturalmente aspirano a più cibo, utensili, vestiario, abitazioni e
combustibili. Secondo Ehrlich l’impatto sull’ambiente (I) è funzione dell’ammontare della
popolazione (P) moltiplicato il flusso di beni prodotti per persona (A) moltiplicato per un fattore
che esprime il livello della tecnologia. Quindi I=PxAxT. Se vogliamo che l’impatto sull’ambiente
rimanga stabile o diminuisca e che il livello di vita rimanga stabile o aumenti, dobbiamo
necessariamente agire sul livello di tecnologia o sulle dimensioni della popolazione. La sola
variabile ben identificata è P della quale conosciamo le caratteristiche. Gli altri elementi hanno
misurazioni labili. I 4 elementi hanno in comune comunque che l’inerzia insita nella giovane
struttura delle popolazioni povere genererà un forte aumento demografico. Più popolazione se con
un più alto livello di vita implica una crescente attività umana e una crescente incidenza ambientale.

Altro aspetto riguarda l’agricoltura e la domanda di cibo: l’aumento della popolazione implicherà
un aumento della domanda di cibo, ma molto maggiore se il livello generale di vita deve migliorare.
Ciò accrescerà enormemente la pressione sulle risorse naturali, quindi esse dovranno essere
amministrate con cura e protette dall’inadeguato uso. Se la maggiore domanda di cibo implica
un’intensificazione dell’agricoltura i mutamenti nell’utilizzo dei suoli possono mettere in pericolo
aree che già si trovano in fragile equilibrio. Le alterazioni di habitat non sono un fatto nuovo nella
storia. La causa principale della deforestazione è la preparazione del terreno per la coltivazione,
specialmente in Africa e in America latina. Il ritirarsi della superficie forestale è la diretta
conseguenza della crescente domanda di cibo e di legname, e indiretta della crescita demografica. In
genere c’è una interazione tra rapida crescita della popolazione, povertà e degrado ambientale.
25
La scarsità di risorse base come acqua e legna sostengono l’alta fecondità poiché i bambini
forniscono lavoro e reddito. La crescita delle aree costruite per uso abitativo, industriale,
commerciale o ricreativo, per trasporti e comunicazioni è un altro aspetto della trasformazione dei
suoli. Una forza trainante di questi processi è l’urbanizzazione. Secondo le stime delle N.U. la
popolazione urbana è cresciuta dal 30% del 1950 al 48% del 2003. La concentrazione della crescita
demografica nelle aree costiere è un altro problema che riguarda il degrado della fauna marina. La
vulnerabilità ecologica delle aree costiere è resa evidente dai ricorrenti disastri naturali (tifoni,
inondazioni) che hanno colpito le zone dei paesi del Sud e del Sud est asiatico. Altro punto di
rilievo dato dalla crescita demografica è l’inquinamento atmosferico, dovuto all’aumento della
combustione di carburanti fossili causando l’effetto serra. Ciò potrebbe comportare l’aumento della
temperatura di un grado nel 2025 e di 3-4 gradi nel 2100.

La percezione dei problemi posti dalla crescita demografica nelle società rurali tradizionali era assai
più diretta e immediata di quanto non sia nella società moderna, ma questo legame si sta
ricostituendo man mano che cresce la consapevolezza della globalità e dell’interazione tra fenomeni
che riguardano l’ambiente. Per quanto riguarda i meccanismi di scelta e di regolazione della crescita
è evidente che con la diffusione del controllo della riproduzione essi si sono enormemente
rafforzati, rendendo le società più flessibili di fronte alle costrizioni che debbono affrontare. Si
profila così un problema di segno opposto e cioè che il freno del controllo delle nascite rimanga
bloccato su livelli troppo bassi come sta avvenendo in Europa. La mortalità negli ultimi due secoli è
diminuita con consistenti allungamenti della speranza di vita. Tuttavia non va sottovalutato il fatto
che ulteriori diminuzioni della mortalità possono trovare ostacoli nei crescenti costi legati a un
innaturale allungamento della vita umana. Va poi tenuto conto dell’apparire di nuove malattie
(AIDS) legate a nuovi comportamenti e alla versatilità trasformistica dei virus, al permanere di
vecchi flagelli come il cancro, l’insorgere di nuove più sottili forme di costrizione ambientale, stress
e le sue conseguenze. Poi c’è l’emigrazione che è stata sempre la strada maestra per sfuggire alla
povertà e al degrado.

26

You might also like