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STORIA DELLA MUSICA DALLE ORIGINI AL SEICENTO

CAP. 1: LE ORIGINI
Le più antiche cosmogonie narrano che il suono genera la vita. Anche la tradizione cristiana, derivata
da quella ebraica, pone la creazione della vita nelle parole “E Iddio disse…”.
Tutto ciò rimanda all’idea che se c’è vita c’è movimento, e se c’è movimento c’è suono: pertanto il
suono diventa manifestazione sensibile della vita!
Tuttavia il suono comincia con la percezione (es. folata di vento è tale se ci sono orecchie ad
“ascoltarla”), non con la vibrazione, ci vuole qualcuno ad ascoltarlo.
Canto e seduzione: il canto nei rituali di seduzione è noto da sempre. Si collega al “principio
dell’handicap” elaborato nel 1975 da un biologo: esso rivela che chi mostra capacità specifiche per
risolvere un handicap tipico della propria specie viene considerato attraente/seducente. Quindi
l’animale emette suoni o canta durante situazioni di pericolo per mostrarsi attraente nei confronti delle
femmine; fare lo stesso in situazioni normali viene considerato inutile.
Un esempio “umano” risalente al Neolitico è Stonehenge: esso è il simbolo della gestione
dell’handicap da parte di un clan, che costruendo questo edificio, afferma la sua superiorità sugli altri.
Costituendo sforzi enormi non si esclude che vi siano collegate pratiche musicali: cori e tamburi, per
creare stupore uditivo. Tuttavia non abbiamo testimonianze di strumenti musicali di quest’epoca
perché erano deperibili.

In epoca antica la musica era quindi collegata essenzialmente al sacro (musica durante sepoltura). Il
fare musica si collega a due condizioni fondamentali: strategie di seduzione (cfr supra) e gestione
dello scorrere del tempo nei momenti di disagio o paura.
Il rito è infatti un modo per gestire un surplus energetico che non può essere espletato diversamente:
si organizzano azioni fisiche ed immediate, spesso ripetitive, al fine di placare l’emozione e .
riequilibrare i sentimenti. Il rito è utile anche perché è prestabilito.
Il sacro quindi è la conseguenza del rito:l’insieme dei significati che diamo ad un rituale lo rende
sacro, perché non riusciamo a giustificarlo! Inoltre la cultura del sacro è fondata su una scala
gerarchica in cui l’uomo si pone al centro fra il mondo reale e un mondo irreale, dove si colloca Dio
(timore verso Dio, dominante). Per dare maggiore “sostanza” a questo mondo “che ci domina” entra
in gioco il rito, che rappresenta la “base” di ogni religione.
Di conseguenza questo tipo di musica sarà particolarmente elaborata, proiettata in una dimensione
estetica, mentre quella legata ai riti di seduzione tenderà più al virtuosismo performativo. Questa è
l’unica distinzione possibile tra sacro e profano. Nell’Homo sapiens la musica di tipo sacro, legata
alla gestione del tempo, è concessa alle donne, mentre quella di tipo profano solo all’uomo.

Strumenti musicali: cetra, arpa, lira


Questi termini indicano specifiche famiglie di strumenti a corde. I cordofoni si dividono in cetre, arpe
e liuti, mentre le lire senza manico sono un sottoinsieme dei liuti. Un pianoforte moderno appartiene
al gruppo delle cetre, mentre una chitarra ai liuti. Ciascuna famiglia si riconosce in base alle corde: le
cetre le hanno parallele alla cassa armonica che è separata; le arpe le hanno perpendicolari; i liuti
prevedono la tastatura delle corde.

2.3 Ebrei
La Bibbia presenta numerosi testi in versi sciolti che hanno la forma di un canto (alcuni sono proprio
detti cantici). Difatti la tradizione ha sempre usato la musica per memorizzare i testi! Tuttavia dopo la
deportazione babilonese gli ebrei abbandonarono la musica, sia strumentale sia da accompagnamento
al canto, per dedicarsi solo al canto liturgico, con l’uso esclusivo della voce. Si ritiene che il canto
praticato ancor oggi nelle sinagoghe risalga a quel periodo storico.
Il canto liturgico ebraico è costituito da un recitativo l. che si distingue in cantillazione quando intona
un testo in prosa e in salmodia quando è in versi sciolti: in quest’ultimo caso le formule scandiscono
in modo sempre uguale inizio e fine di ogni verso. Queste forme canore saranno riprese
successivamente anche dal cristianesimo.

IL RESTO È STATO SALTATO COME DA INDICAZIONE DEL PROF. DAOLMI. LO STESSO


PROCEDIMENTO DI “SELEZIONE” È STATO ESEGUITO ANCHE PER IL SECONDO
CAPITOLO.

CAP. 2: LE CULTURE TARDO-ANTICHE (dal paragrafo 2)


Il Tardo Antico è un’epoca aperta e chiusa sotto il segno di due monoteismi, ovvero la
liberalizzazione del cristianesimo (313) e la riscossa contro i musulmani da parte del popolo franco
(VIII sec).

All’inizio il cristianesimo non aveva un aspetto rigorosamente rituale per staccarsi dalla tradizione
ebraica, di conseguenza la musica non era parte della pratica religiosa. Tuttavia la preghiera conserva
la cantillazione e sovente i salmi sono cantati, mentre nascono sempre nuovi inni e canti. L’ufficialità
del rito fu garantita troppo tardi per essere unitaria, quindi era diversa da regione a regione.

Forme della musica:


Tutta la liturgia cristiana è cantata, ad eccezione dell’omelia. La maggior parte dei testi liturgici in
prosa sono cantillati, cioè recitati su un unico suono ripetuto con formule melodiche diverse che
compaiono all’inizio e alla fine.
Quando si cantano sezioni in prosa esse prendono il nome di antifone, mentre i canti che seguono le
letture si chiamano responsori, entrambi formati da versetti.
I testi poetici sono sempre cantati; tra essi i salmi: introdotti da una intonatio, sono divisi in due
emistichi, ciascuno cantillato sul tenor, chiusi da formule cadenzanti attorno all’ultima sillaba tonica
(meditatio e terminatio). Inoltre vi sono cantici ed inni: questi ultimi sono composizioni strofiche
costituite da strofe metriche intonate sulla stessa melodia. Se non sono metrici si cantano come i
salmi.
Il tropario è una breve frase cantata, originariamente intercalata ai versetti dei salmi: poteva essere
una sorta di refrain oppure adattare nuove parole sulla stessa musica. Le strofe di un inno qiundi sono
una successione di tropari senza versetti salmodici. Inni molto lunghi tipo sermone con tropari
acrostici (cioè la prima lettera di ogni strofa forma una frase) e conclusi con un refrain sono detti
contàci; questa struttura viene adottata nella maggior parte degli inni.

In questo periodo (V-VI secolo) operò Severino Boezio, autore del De musica: si tratta dell’ultima
sintesi latina della cultura musicale greca allora conosciuta, oltre che del più diffuso trattato sul
pensiero matematico-musicale del Medioevo.
Con l’arrivo in Italia dei Longobardi Roma fu sostanzialmente abbandonata; nell’Urbe rimase la sola
autorità del clero. Papa Gregorio (590-604) si occupò del rito cristiano, ma non direttamente della
musica: il suo ruolo sarà rivalutato solo due secoli dopo (intervento di Carlo Magno) e vedrà Gregorio
come fonte di saggezza anche in merito alla musica; in particolare serviva una “paternità” antica da
affibbiare al canto sacro. Infatti la preghiera si canta per manifestare la vitalità di chi pronuncia la
parola. Nell’Ottocento però si è riconosciuto che Gregorio e il canto non avevano uno stretto rapporto
e che il canto “gregoriano” moderno si afferma solo a partire da Carlo Magno. Sempre nel XIX secolo
alcuni benedettini di Solesmes trascrissero alcuni canti e pretesero di affermare quale fosse il vero
gregoriano, confrontando manoscritti adiastematici e diastematici, quindi unendo tradizioni diverse
creando un prodotto che non coincideva con nessun precedente.
Alcune caratteristiche che oggi riteniamo proprie del gregoriano in realtà sono frutto del gusto
religioso tardo-ottocentesco, che contrastava con gli altri generi profani e soprattutto per certi versi
non era coerente con la prassi medievale!

Liturgia. Il ciclo liturgico dura un anno e, giorno per giorno, intende ricordare Cristo e il suo
insegnamento. Al suo interno vi sono due periodi più importanti, ovvero Pasqua e Natale; il resto
dell’anno è definito tempo ordinario, in cui si ricordano anche martiri e santi.
Anche il giorno stesso è diviso in otto momenti di preghiera chiamati ore: ciascuna è divisa in due
parti concluse da un responsorio o da un cantico. La scelta dei testi prevede un gruppo di canti fissi
(ordinario) e uno che muta in base alla ricorrenza (proprio). La musica dei canti è raccolta in libri
dedicati, come antifonari o salteri.
La cerimonia più importante è la messa, componente collettiva della liturgia in cui si rievoca l’Ultima
Cena di Cristo. A partire dall’VIII-X secolo assume la sua forma compiuta: è interamente cantillata, in
più vi sono alcuni canti. Quelli dell’ordinario sono Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus, mentre
quelli del proprio sono Introito, Graduale, Alleluia, Offerta e Comunione. I canti sono intervallati
dalle letture.

CAP. 3: L’ETÀ DELLA SCOLASTICA (IX-XIII SECOLO)


La nascita della scrittura musicale è probabilmente l’episodio più importante per la storia della musica
medievale occidentale. Esso si lega alle scelte politiche di Charlemagne.

La sostituzione dei Merovingi con i Carolingi (751) fu possibile a seguito di una presa di potere
militare all’interno del governo franco.
Già Pipino il Breve intuì l’utilità di uniformarsi al rito romano, il quale affascinava i Franchi per via
della sua raffinatezza. Per fare ciò sarebbe servito l’invio di libri e di maestri da Roma. Fu Carlo
Magno ad attuare effettivamente questo disegno: alla base vi era la consapevolezza che per governare
un territorio così vasto sarebbero serviti un sistema amministrativo forte e un’unica fede (unico
rituale). Di conseguenza i funzionari statali dovevano alfabetizzarsi in apposite scuole che spesso
sorgevano nelle cattedrali: in esse i vescovi dovevano insegnare a leggere e far di conto, ma anche gli
usi romani di effettuare il rito e quindi di cantare la liturgia.
Fu istituita anche la schola palatina, mentre i monasteri furono portati a professionalizzare l’arte della
scrittura al fine di redigere testi “sicuri” e, soprattutto, in grande quantità. Scrivere era considerata
un’attività artigianale poiché tante erano le fasi per produrre un manoscritto. Per l’importanza data
all’insegnamento la cultura di questi secoli venne chiamata “Scolastica”.
Carlo Magno dunque voleva che ogni parrocchia adattasse il proprio modo di cantare a quello
romano: a questo proposito si resero necessarie tecniche mnemoniche nuove come, appunto, la
notazione musicale e la classificazione delle melodie.
La notazione alfabetica adottata dai greci era da tempo dimenticata, per cui in questi secoli furono
adottati segni stenografici utili a ricordare i vari movimenti della voce, che, quando si stabilizzarono
sotto forma di neumi, costituirono una notazione prescrittiva. Il comportamento del canto passò da
“spontaneo” a “cristallizzato”.
La scrittura della voce portò alla semplificazione dei brani, di conseguenza il nuovo canto dei Franchi
era molto diverso rispetto a quello originario romano! Ma, poiché era scritto, divenne il modello per
tutti.
I primi manoscritti con notazione musicale risalgono a poco prima dell’anno 900 e sono già maturi; si
pensa che, ad ogni innovazione, i manoscritti venissero “aggiornati”.
Le più antiche scritture neumatiche sono dette adiastematiche e permettono di riconoscere solo
un’approssimativa direzione delle altezze, inoltre il ritmo non è specificato. Il rigo musicale e le
indicazioni ritmiche compariranno solo nel XII secolo (notazione diastematica).
I più antichi manoscritti sono di ambito franco-tedesco per le ragioni di cui sopra, tuttavia le notazioni
adottate dai vari scriptoria sono disomogenee almeno nella grafia poiché si sono sviluppate in
maniera indipendente.
La scrittura paleofranca è la più aderente alle origini della notazione ed è diffusa nel nord della
Francia; è costituita da cinque segni: punctum, clivis, pes, porrectus e torculus, i quali vengono anche
combinati. Esistono anche notazioni più articolate che prendono il nome di franco-tedesche: esse
elaborano forme particolari per i neumi doppi (due note), sostituiscono al punctum il tractulus e hanno
infine il climacus e lo scandicus. I neumi a tre note si comportano secondo la paleofranca. Vi sono
inoltre alcuni neumi particolari che servono a legare la pronuncia delle sillabe, infine alcune piccole
lettere (significative) che indicano comportamenti vocali.

Vi sono quindi le notazioni tedesche/sangallesi (scriptorium di San Gallo) e le aquitane (scriptorium


di Limoges). I copisti aquitani furono i primi a disporre le note secondo una linea ideale orizzontale.
Attorno al 1000 abbiamo un doppio fenomeno: da un lato la migrazione della notazione a Sud delle
Alpi e dall’altro le prime forme diastematiche in ambiente aquitano. In Italia vi sono diversi centri di
scrittura che seguono il modello francotedesco, aquitano e tedesco. Le prime attestazioni
diastematiche si hanno in territorio beneventano (dominazione longobarda).

In questo periodo si hanno sempre più teorici che ragionano sul modo in cui i suoni formano una
melodia. Lo si sa a partire dal proliferare di trattatistica attestato al IX secolo.
I teorici di quel secolo identificarono otto tipologie melodiche, fatte corrispondere ad altrettante scale
(modi). Ciascuna aveva una nota principale attorno alla quale ruotava la melodia (tenor) e un’altra su
cui chiudeva (finalis). La distanza tra queste due note era in genere di quinta (m. dispari) o di terza
(m. pari). I principali teorici sono Aureliano di Reome e Hucbald di Saint-Amand: essi erano monaci
che rielaborarono trattati anonimi precedenti a scopo didattico.
Nel secolo successivo (X) fu promossa un’organizzazione dei canti secondo gli otto nuovi modi: forse
è da questo momento che le melodie furono semplificate per essere adattate alle scale.
Ma il teorico per eccellenza è Guido d’Arezzo: il suo testo principale è il Micròlogus, il quale
presenta alcune strategie d’insegnamento. Ciononostante diverse invenzioni che gli furono affibbiate
non provennero realmente da lui! Ad esempio il nome delle note: per Guido era solo un modo per
memorizzare le altezze, non un vero e proprio sistema. Egli individua una scala fatta di ut re mi fa sol
la, sillabe con cui inizia ogni semiverso dell’inno Ut queant laxis, ognuno ad un grado superiore.
L’introduzione del si è datata al Seicento.

Guido propone anche l’uso di una linea orizzontale per identificare correttamente il semitono (fa e do)
usando anche colori differenti (rosso e giallo) e la lettera latina corrispondente (cfr notazione greca).
Queste cose non sono novità guidoniane anche perché non dò ulteriori indicazioni!
Neanche la solmisazione è da attribuire a Guido, nonostante si fondi sull’esacordo da lui suggerito (ut
re mi fa sol la). Lo si trova compiutamente definito solo nel XIII secolo, ma veniva già utilizzato.
Avendo l’esacordo un unico semitono, ovvero mi-fa, si poteva applicare in presenza di qualunque
intervallo di semitono (si-do, la-sib), producendo tre tipi di esacordo (naturale, duro e molle).
Un’altra invenzione attribuita a Guido, che però non ne è l’artefice, è la mano guidoniana. Si tratta di
una tecnica mnemonica per cantori, i quali facevano corrispondere ogni altezza ad un punto della
mano. Essa appare derivata dalle combinazioni esacordali della solmisazione.

Tropo. In ambito musicale è un’aggiunta ad un canto liturgico, datata a partire dal IX secolo. Il
termine è di origine bizantina (tropari, interpolazioni ai salmi).
Il processo di aggiungere al preesistente o sostituire delle parti è la base della creatività antica: è un
modo per migliorare il presente conservandolo. Non accade solo in musica, ma anche in architettura.
Al contrario oggi la novità è alla base dell’arte, quindi si tende a pensare che l’artista medievale sia
poco originale. In realtà l’artista è orgoglioso dei suoi modelli e, confrontando la propria opera con
l’originale, capisce se ha fatto meglio; in altre parole l’exemplum è la base da cui elevarsi.
Esistono due tipi di tropo: di giustapposizione e di stratificazione. Ai primi appartengono i tropi
liturgici da cui nacquero nuove forme musicali; ai secondi si rifanno le aggiunte testuali e le
sostituzioni (contrafacta), oltre che le polifonie, le quali si basano su un’idea di armonia verticale.
(cfr quaderno per Terribilis est locus iste).
I tropi rappresentano quindi la massima creatività medievale, nonostante il loro carattere “accessorio”
e occasionale che spesso ha infastidito i lettori ecclesiastici (difatti col Concilio di Trento saranno
eliminati). Eppure i tropi diedero vita a nuovi generi musicali quali le sequenze e i motti, infine
diedero maggiore importanza al compositore (forse “trovatore” deriva proprio da tropo).

Uno dei tropi più celebri, Quem quaeritis, è un breve dialogo che introduce la messa di Pasqua ed è
considerato origine del dramma liturgico e in generale del teatro medievale. La prima testimonianza è
del X secolo, mentre quelle successive si arricchiscono di indicazioni relative all’abbigliamento e alle
messe in scena.
La novità di questo tropo è il fatto che sia scritto, dopo una lunga tradizione orale e spesso
estemporanea. Non è da collocare all’origine del dramma moderno perché nessun dramma scritto è
realmente liturgico perché spesso separato dalla liturgia e perché i soggetti biblici erano prediletti
all’epoca, erano parte del “sentire comune”, quindi non avevano un aspetto esclusivamente religioso.
E’ meglio parlare di drammi latini per identificare quei testi teatrali scritti.

Per quanto riguarda i t. per stratificazione, oltre alle polifonie sono interessanti le sostituzioni o
aggiunte di testi su melodie preesistenti. La sostituzione di un testo è pratica antica (cfr struttura
dell’inno), in un intero canto si dice contrafactum: cambiando il testo emerge comunque la melodia.
La sequenza invece è un genere prettamente liturgico; inizialmente seguiva l’Alleluia, poi diventa
indipendente sottoforma di inno metrico che cambia la melodia ogni due strofe (aabbcc…) In origine
però la sequenza nasce come tropo dello Iubilus, il melisma dell’Alleluia, il quale veniva frazionato
aggiungendovi un doppio testo per ripetere due volte la melodia in modalità responsoriale (tra
maestro e coro ad esempio… Aveva quindi funzione didattica). Si pensa inoltre che aggiungere un
testo ad un melisma fosse un’altra tecnica mnemonica per ricordare meglio la melodia!
Forma strofica. E’ il modello di gran parte della lirica medievale e presenta strofe o stanze con metro
e rima simili, ciascuna cantata con la stessa melodia. Si può dire che ogni strofa è il contrafactum
della prima. La canzone strofa può essere chiusa da un congedo (envoi) che adatta rima e musica alla
parte conclusiva della strofa. Nelle forme più popolari è possibile l’aggiunta di un refrain.

La polifonia è una pratica spontanea della musica. Spesso è considerata la vera novità dell’epoca
carolingia, ma in realtà l’aspetto innovatore sta nello scrivere le polifonie anche in notazione
mensurale, cioè con l’indicazione della durata delle note, il quale si afferma in epoca scolastica.
Oggi chiamiamo organa le prime forme scritte di polifonia. Questo termine è derivato dall’aggettivo
“organicum”, che invece identificava l’uso di strumenti musicali nelle liturgie importanti; quindi la
parte aggiunta per creare una polifonia si disse vox organalis, contrapposta alla principalis e il canto
liturgico accompagnato fu detto semplicemente organum.
Un organum a due voci è un canto trascritto unitamente ad uno dei suoi possibili controcanti
(duplum).
Negli organa la scrittura vocale può essere melismatica (molti suoni) o sillabica (un solo neuma per
sillaba). Ne deriva che nel primo caso le parole sono meno comprensibili perché più dilatate, mentre
nel secondo caso le cose si invertono. Difatti le formule melismatiche erano spesso conclusive
(clausolae): in esse sia la vox organalis sia il tenor potevano essere molto mossi, di modo che il
secondo diventasse una sorta di bordone. Quando, invece, la seconda voce associava un unico neuma
ai neumi del tenor prende il nome di discanto.
Le clausolae spesso venivano tropate con nuovi testi e diventavano così sillabiche, prendendo il nome
di conductus, la forma primitiva del mottetto.
Ne è un esempio Quod promisit, il quale è stato ampiamente sillabato. E’ stata estrapolata la musica
ed applicata alle parole di Mundum renovavit. Il secondo tropo è Curritur ad vocem con le stesse rime
di Mundum, ne deriva che forse Curritur sia un contrafactum di Mundum. Il terzo caso è Crucifigat
omnes, il quale compare nella raccolta dei Carmina Burana (ne deriva che fosse cantato come
canzone). I conducti infatti non sono esclusivamente vocali, poiché in essi la polifonia può essere
anche data da uno strumento. Inoltre all’epoca le composizioni musicali erano estremamente versatili
(più voci, strumenti, modifiche al testo…).
A partire dal XIII secolo il mottetto è la composizione polifonica per eccellenza. E’ anch’esso un
tropo, almeno all’inizio, perché si stratifica su canti liturgici. Prima il tenor è diviso in brevi moduli
detti talee, poi viene aggiunta la seconda voce detta motetus o duplum.
Il testo del mottetto nasce dalla sillabazione di un melisma precedente (ormai si è in grado di gestire il
ritmo), ma conserva anche il testo del tenor sfruttando la politestualità! Possibilità anche di terza voce
con terzo testo!
Il mottetto non dispone le sue parti in partitura, cioè in parallelo, ma una dopo l’altra, lasciando
all’esecutore la ricostruzione polifonica. I manoscritti non venivano usati in sede d’esecuzione ma
solo come testimonianza.

Carlo Magno pose le basi per una forte unità culturale che passava attraverso la Chiesa e la scuola, la
quale permise all’Europa di riconoscersi e di opporsi all’islam e all’oriente bizantino.
Le parole chiave di quest’epoca sono: stranieri, feudo, monastero, scuola, Chiesa.

1) Tra gli “stranieri” sono significativi i Vichinghi che, una volta stanziatisi in Normandia, prendono
il nome di Norreni (o Normanni). La loro cultura precristiana era essenzialmente orale, ma a partire
dal XIII secolo i loro testi furono trascritti. In essi si narrava la mitologia norrena e le antiche imprese
dei popoli germanici. Questa tradizione si perdette una volta che i Norreni si convertirono al
cristianesimo.
Per quanto riguarda gli arabi, la loro presenza non si può dire “straniera” perché, nei luoghi dove
dominarono, la popolazione era avvezza a vicinanze di diverso tipo. Gli arabi inoltre furono promotori
di un apporto culturale straordinario. A livello musicale è probabile che il gusto arabo abbia
influenzato la musica negli ambienti aristocratici, ma non ci sono giunte testimonianze a questo
proposito. Forse nelle scuole cristiane ci fu una sorta di resistenza all’influenza araba.
Tuttavia gli arabi introdussero nuovi strumenti musicali come il liuto, oltre che l’uso dell’archetto per
far vibrare le corde. Il liuto ad arco è il progenitore delle moderne viole, che nel Medioevo si
chiamavano vielle.
2) Il feudo diventa immagine del signore e la musica ivi prodotta ha la stessa funzione. Si tratta di
musica religiosa ma anche aristocratica/encomiastica, che è l’unico tipo di musica non liturgica di cui
vi sono testimonianze scritte, nonostante assuma connotati pseudo-liturgici come i planctus o i canti
morali edificanti.

3) Il monastero è il luogo dove si scrive. Esso smette di essere “isolato” e si unisce saldamente al
mondo esterno. I loro terreni vengono coltivati da mezzadri, così i monaci sono liberi di dedicarsi al
canto e alla musica. I monasteri sono i luoghi migliori per la formazione degli intellettuali per quanto
riguarda poesia, musica, pittura ecc, attività che venivano viste come omaggio a Dio.
Nel monastero di Limoges è stato ritrovato uno tra i più antichi manoscritti semi-adiastematici, oltre
che plancti per Carlo Magno ed altre ottime composizioni che fungevano da exemplum da imitare.

4) La scuola da questo periodo assume un ruolo fondamentale per la formazione del clero. Si tratta di
un contesto protetto che permette alle forme musicali di diffondersi e di svilupparsi in tutto il
territorio imperiale. Il fiorire di trattatistica musicale di questo periodo è da attribuire alle esigenze
didattiche/manualistiche.

5) Le chiese cattedrali ospitavano le scuole capitolari. Esse avevano anche ruolo didattico non solo
per la promozione di immagini attraverso le quali apprendere la Parola, ma anche di nuove antifone di
stampo agiografico (presi dalle vitae e detti historiae), che simboleggiano un’attenzione condivisa
verso la rappresentazione.

I secoli che seguirono il Mille videro un’esuberanza culturale, unita ad un maggiore attrito tra Papato
ed Impero. La solennità che acquisisce la liturgia è segno della volontà di rivalsa della Chiesa verso il
potere civile. La stessa notazione musicale smette di essere un mezzo per ricordare le melodie e
assume un connotato di incorruttibilità e di verità. I tropi vengono incoraggiati.
Tuttavia la produzione laica è altrettanto attiva: all’interno di essa troviamo canti politici (es. encomi
verso la dinastia ottoniana), canti polemici verso la Chiesa e la sua corruzione.

Dopo il Mille l’Europa ferve di attività. La musica, pur cantando in lingue locali, intona melodie che
oltrepassano i confini nazionali e diffondono il tema condiviso dell’amor cortese, sentimento privato
ma anche universale. Questo tema è parte delle principali tradizioni letterarie dell’epoca, il ciclo
carolingio e il ciclo bretone. In essi si narrano i racconti cavallereschi in grado di nobilitare le origini
dei due popoli in ascesa all’epoca, ovvero i Francesi e gli Inglesi.
M. carolingia. Su ispirazione norrena (trad. scaldica) già prima del Mille nel territorio franco si
celebrava l’eroismo francese a partire da Carlo Magno. Il testo di riferimento è La chanson de Roland,
redatta nel XII secolo. Esso celebra la vittoria di Carlo Magno sui saraceni, ricordando anche
l’eroismo del paladino Orlando.
M. bretone. Il ciclo bretone è successivo e si lega alla costituzione del regno normanno d’Inghilterra
(1066, battaglia di Hastings). Esso nasce dalla Storia dei re di Britannia (XII sec.) in cui si raccontano
le imprese di Artù e del druido Merlino. Si tratta di testimonianze orali rielaborate.
Il sentimento “nazionale” da entrambe le parti si esprime in vernacolo cortigiano, non più in latino; da
questo momento si crea un continuum tra la canzone “da taverna” e la lirica cortese.

Il tema forte dell’epica cavalleresca è quindi l’amore, inteso non solo come passione, ma anche come
ragionamento amoroso e spiritualità. La possibilità di dedicarsi a questo tipo di speculazione fa capire
che la società medievale era ormai in grado di sostentare i propri bisogni primari.
Il discorso amoroso prende il nome di fin’amor e ha il suo testo di riferimento nel De amore di
Andrea Cappellano, legato alla corte francese. Egli riconosce nell’amore la manifestazione di un
animo nobile non per ragioni di sangue ma di spirito, cioè di un intelletto educato (nobiltà ancora
troppo “giovane”, altri modi per confermarla). Il trattato è ovviamente specchio di un ambiente
aristocratico che ha precise regole di comportamento.
Ci sono altri tipi di canto amoroso meno tesi spiritualmente; si tratta delle pastorelle o delle chansons
de toile. Sono un prodotto al femminile (non necessariamente di autrici) che, per questo motivo,
hanno una spiritualità bassa.

Diversamente dal passato quindi l’aristocrazia non si riconosce più nel latino, ma, forte della
tradizione scaldica, riconosce nobiltà ad altre lingue che esaltano la classe dominante attraverso le
tematiche cavalleresche. Vi sono due tipi di interpreti: da un lato i trovatori, i quali celebrano
l’aristocrazia e hanno buoni studi, dall’altro lato gli stornellatori (che hanno anche nome di giullari,
menestrelli) che si esibiscono nelle fiere, ma eseguono musiche spesso improvvisate che non
sopravvivono.
L’uso del volgare letterario quindi si manifesta in quei contesti in cui le élites di origine germanica
hanno bisogno di affermarsi. L’insieme dei dialetti del nord della Francia è detto lingua d’oil, mentre
al sud si chiama lingua d’oc. Essi in realtà saranno utilizzati anche fuori dai confini francesi (es. Italia
del nord, Catalogna), mentre territori avulsi dall’influenza francese manterranno lingue poetiche
proprie (Sicilia).
Il volgare non guardava solo al latino, ma anche all’arabo, che già veniva usato per la poesia di corte.
Ne è un esempio la forma monorima con chiusa “unisona” (uguale ad ogni strofa), la quale ha origine
negli zajal arabi e che ha influenzato diverse composizioni trobadoriche come le cantigas spagnole o
le laudi italiane. La rima, che non si trovava nella produzione latina, si è inserita nel modello musicale
a Barform. Questo termine deriva dal tedesco Bar, che indica la canzone tedesca e fu coniato negli
anni Venti. Questa forma riprende la successione aab rintracciabile anche oggi nella musica popolare,
oltre che nella strofa delle canzoni cortesi medievali. Dante già la considerava tipica della strofa,
unica alternativa all’oda continua, ovvero un’intonazione senza ripetizioni interne. Tale modello si
trova in tutte le forme strofiche e l’eventuale refrain può adottare la melodia della volta oppure averne
una propria.

La grande poesia cavalleresca corrisponde all’epoca delle Crociate: cantare gesta aristocratiche e
allargare i propri confini sono espressioni della vitalità della classe dominante. Si chiude quindi
l’epoca carolingia e romanica, la quale viene sostituita dall’epoca gotica, speculativa, estetizzante e
proiettata verso una grande spiritualità.
Durante la seconda crociata morì il trovatore Jaufré Rudel, il quale per anni aveva cantato l’amor de
lonh (di lontano) per la contessa di Tripoli, da lui mai incontrata anche perché inesistente; il suo
amore gli fu fatale. Nel 1144 fu assediata Damasco e di questo parla Marcabru, il quale però non
combatté; il suo verso è difficile e si rifà al trobar clus, opposto al trobar leu. Sono anche gli anni in
cui Chrétien de Troyes, in oil, produce i poemi che alimenteranno la materia bretone (mito del Sacro
Graal).
Anche la lingua tedesca sperimenta le forme auliche per celebrare la corte imperiale. I trovatori
prendono il nome di Minnesänger (da Minnesang). Essi inizialmente utilizzarono modelli latini o
francesi, forse conservandone la musica.

La terza crociata è cantata dai primi grandi trovieri (trovatori di lingua d’oil) come Blondel de Nesle o
il Castellano di Coucy, di cui però non si hanno notizie certe.
Alla quarta crociata prese parte il trovatore-soldato Raimbaut de Vaqueiras, al quale si deve Kalenda
Maya oltre ad altre 34 cansos. Oltre a lui combatté anche Audefroid le Bastard, compositore di
chansons de toile (dama in attesa del ritorno dell’amato).

Federico II, eletto imperatore nel 1211, fondò l’Università di Napoli e, attorno alla sua corte, si
sviluppò una poesia alta, di tipo amoroso, che prese il nome di Scuola siciliana. essa si modellò forse
sugli esempi provenzali, senza dimenticare quelli che appartenevano alla Sicilia stessa. Un autore
famoso di questa scuola è Giacomo da Lentini, inventore del sonetto, cioè una monostrofa a Barform
metricamente fissa; più a nord invece si sviluppa una poesia dai lineamenti colti, ma vicina alla
produzione provenzale. E’ il caso delle laudi, le quali hanno impianto popolare (presenza della
ripresa, ovvero refrain che precede la strofa). Un noto autore di laudi è Jacopone da Todi.
La Spagna usa il provenzale per la canzone cortese, ma in alcuni canti spirituali adopera il gallego
(lingua di Santiago de Compostela): si tratta delle cantigas, fatte raccogliere da Alfonso X come
emblema della cristianità spagnola.

L’ottava crociata segna la fine dell’epoca carolingia e con essa anche l’esperienza dei trovatori:
l’ultimo è Guiraut Riquier, il quale, consapevole del dramma della “fine di un’epoca”, ordina
meticolosamente la sua opera. Adam de la Halle invece è l’ultimo troviere. Era molto colto ed entrò a
servizio di Carlo d’Angiò. (Jeu de Robin et Marion).

Memoria e scrittura. Semiografia gregoriana. La notazione diastematica si mantenne anche una


volta esaurita la sua funzione didattica di insegnamento del canto romano perché cambiò la sua
interpretazione: divenne specchio di un “canto ideale” per la liturgia. Ciò è quanto accade nelle
principali tradizioni liturgiche italiane indipendenti dalla rivoluzione carolingia e che fanno capo a
Milano, Roma e Benevento.

CAP. 4: L’EPOCA DELLA PROGETTUALITÀ (XIII-XV secolo)


L’Europa vive un forte cambiamento culturale, il quale è testimoniato dalla diffusione di testi,
richiesti sia da istituzioni ecclesiastiche e didattiche, sia dai ricchi borghesi che volevano “elevarsi”.
Un’altra rivoluzione colpirà la cultura europea due secoli dopo, cioè la nascita della stampa (e segnerà
la fine del Medioevo).
In questo periodo si diffonde una cultura laica, in cui si fa strada il razionalismo. Grazie a Tommaso
d’Aquino la ragione diventa una manifestazione di Dio nel mondo. Il pragmatismo politico del
Trecento lasciava spazio al fascino della costruzione formale che vedeva nella razionalità una
manifestazione divina. Inoltre ora l’uomo può trovare risposte nel coltivare la sua razionalità: la
musica rappresenta pienamente quest’ambizione e difatti abbiamo nuove teorie mensurali, l’ars nova,
l’ars subtilior e i primi fiamminghi. Tutto ciò però appartiene ad un contesto aristocratico. La
contrapposizione di cultura alta e bassa, seppur sempre esistita, in questo periodo è più delineata:
l’uso della scrittura delimita un mondo più colto. Tuttavia la gran parte della pratica musicale (canti,
feste, liturgia, spettacolo) era soprattutto ricreativa e di trasmissione orale.

Le città sono diventate il fulcro della vita nel Medioevo: esse sono ricche di suoni! Campane,
trombetti, tamburini… Inoltre si cantava al lavoro e per stare insieme, in forma corale: i refrain
servivano proprio per coinvolgere tutti nel canto, inoltre potevano essere danzate; la danza è una
componente fondamentale della vita medievale, sia nella forma della danza di corte sia quella più
“divertita” del popolo. La chiesa però la condannava, in particolare denigrava la “danza mercenaria”
degli istrioni/giullari e gli ammiccamenti erotici delle danze popolari.
La forma più rappresentativa di queste ultime è la caròla: si danzava in gruppo tenendosi per mano
con ruoli definiti per sesso. Infatti i balli precedevano l’incontro delle future coppie e quindi
bisognava “esibire” le proprie doti (sempre nell’ottica dell’handicap).
Alla caròla spesso si accompagnavano le ballate, genere più nobile. Cantate in forme strofiche e
inframmezzate da riprese, si sono conservate attraverso i testi perché la musica veniva annotata solo
se a più voci! (ad eccezione della laude monodica). In Francia il corrispettivo di ballata è virelai,
mentre la ballade è più colta e si limita a tre strofe. Infine la ballad nordeuropea è soprattutto
narrativa, con o senza refrain, caratterizzata da molte strofe e raccontava storie di fantasia o di
cronaca.
La danza meno sovente veniva accompagnata solo dalla musica, è il caso delle estampies.

Gran parte della musica veniva prodotta per le feste, inquadrate nel calendario liturgico. Un ruolo
importante è svolto anche dalle confraternite laiche cittadine, che svolgevano assistenza/carità e
propaganda cristiana e che quindi probabilmente si servivano di un canto popolare, come reazione alla
professionalizzazione del canto polifonico liturgico.
Le feste cristiane erano spesso commutate da feste di origine pagana; la forte componente popolare
della liturgia determina una pratica spontanea di canti e danze con ricca presenza di strumenti
musicali.

Pasqua. E’ la principale festa cristiana. Nei giorni precedenti si ricorda la Passione di Cristo in
adattamenti e letture di cui conserviamo anche la musica. Si tratta di testi drammatici tratti dai
Vangeli interpretati da 3 “attori” (popolo, Gesù, narratore). Il fulcro della celebrazione si ha nel
Triduo pasquale, in cui il canto predomina. Le liturgie sono spesso teatralizzate; la Messa domenicale
è preceduta dalla Visitatio sepulchri, ormai pienamente drammatizzata. La musica è indispensabile a
garantire la componente sociale della festa.
Primavera. Tempo speciale di questa stagione è maggio, il mese mariano. Il medioevo dà grande
attenzione a Maria e ciò è attestato dai numerosi canti in galego, le Cantigas de Santa Maria, di cui si
ha anche la musica (testo sacro = conservazione completa).
Estate. E’ la stagione della mietitura, in cui si fanno sacrifici animali e si fanno i falò (notte di S.
Giovanni). Vi sono i palii con fanfare e tamburi a imitazione dei tornei aristocratici; il 15 settembre la
festa del “Sette dolori”, nata come parallelismo femminile alla Passione di Cristo, la quale diede vita a
molte laudi e cantigas, oltre che alla sequenza più famosa, lo Stabat mater.
Natale. Esso fu introdotto attorno al IV secolo, per occultare la festa romana di omaggio al sole.
Tuttavia il Sol invicuts fu “imitato” dalla Chiesa nella Festa degli Innocenti o dei Folli (asinaria
festa), i cui preparativi iniziavano il 6 dicembre.
Durante il Natale si cantava il Quem quaeritis, oltre ad altre rappresentazioni cantate della nascita di
Gesù.
Carnevale. E’ una ricorrenza che la Chiesa non è riuscita ad integrare nel suo calendario. Essa prende
consistenza nel tardo Medioevo dopo lo spostamento della Festa dei Folli fuori dal periodo natalizio.
Queste due feste appaiono in alternativa e si pensa che il predominio del Carnevale sia databile al Tre-
Quattrocento. Si costruivano carri rappresentativi delle arti e dei mestieri della città (carro di Dioniso).
I primi esempi di musica legati a questo periodo sono tardi perché nel Trecento non trascriveva la
musica di queste manifestazioni; l’esempio più noto è quello dei Canti carnascialeschi di Lorenzo il
Magnifico (secondo 400).

C’è un’altra musica, più intellettuale, legata al potere perché partecipa al prestigio delle corti e poi
della ricca borghesia. Per questo motivo è stata conservata.
Il rito liturgico non aveva bisogno del segno, quindi gli scriptoria spesso trascrivevano le polifonie
solo per attestare il progresso delle competenze. In particolare a Parigi, dove la principale università
era legata alla chiesa, si investì molto per elaborare una teoria mensurale già nel secondo Duecento.
Ora si rivolgeva l’attenzione alla durata dei suoni, la cui codifica è fondamentale per trascrivere la
polifonia; emerge una nuova percezione matematica della musica, non più intervallare, ma ritmica.
Proprio a Parigi Johannes de Muris elaborò un sistema che risolveva le incertezze della notazione
franconiana. I suoi testi furono ripresi e studiati anche fuori Parigi; emerge il nome di Philippe de
Vitry, che insegnava musica oltre ad essere compositore. Egli ripropose le innovazioni di Muris e ne
introdusse di proprie, che saranno raccolte dai suoi allievi: essi distingueranno tra le tecniche già
acquisite (ars vetus) e le ultime soluzioni (ars nova). Questa divisione ebbe successo e quindi
l’espressione Ars nova darà il nome alla musica del Trecento, in particolare all’aspetto polifonico, che
portò a chiamare la musica precedente Ars antiqua.
Marchetto da Padova era un altro teorico che sviluppò nel Pomerium un sistema alternativo per
determinare il valore delle note. Non si sa se ci fossero altri metodi/teorie, tuttavia i sistemi più
compiuti sono quello di Muris e di Marchetto.

Tuttavia essi apparvero fin troppo sofisticati! Alla Chiesa non servivano “griglie matematiche”,
inoltre l’eccessiva professionalizzazione del canto lo rendeva un fatto elitario; al contrario la musica
doveva coinvolgere il fedele. Per questo emerge una liturgia popolare, come risposta alla
speculazione cercata dalla liturgia. Infine Giovanni XXII promulgò un decretale nel quale condannava
le innovazioni musicali temendo la perdita di una tradizione. In realtà quest’attenzione alla musica
non era casuale, ma legata al contesto: il papa stava perdendo sempre più autorità, quindi quello era
un tentativo di riaffermare, almeno in campo liturgico, la dignità papale. Quel documento influenzò
profondamente la musica del Trecento che, di conseguenza, utilizzò le nuove conoscenze solo in
ambito profano. Nasce così un nuovo genere di canzone, sofisticato ed esclusivamente cortese, che
interruppe per la prima volta il dialogo tra musica profana e liturgia.
Le prime testimonianze dell’ars nova sono tardi: i primi sono quelli di Guillaume de Machaut,
databili agli anni 50 del Trecento. Forse iniziò a scrivere già negli anni 20: avendo trascritto le
composizioni in epoca più tarda è probabile che si sia servito di principi notazionali successivi (infatti
i codici sono più maturi).
Con l’ars nova quindi si assiste ad una novità: per la prima volta la teoria precede la pratica (di solito
succedeva il contrario).

Solo dopo la fine della cattività avignonese (1377) la Chiesa accoglie le novità musicali anche per la
musica sacra.
L’ars nova emigrò verso Nord, producendo nuove forme musicali ed arricchendosi di segni e
possibilità ritmiche; è una notazione eclettica viene identificata oggi come ars subtilior o di maniera,
poiché esprime un’artificiosità esclusivamente notazione. Sarà abbandonata dopo il concilio di
Costanza (1417). L’ars subtilior si diffuse maggiormente ad Avignone e nelle corti filo-antipapali.

Con l’istituzione della terza sede papale la cristianità ormai aveva perso credibilità. Durante il
Concilio, durato quattro anni, le grandi corti cardinalizie e principesche si installarono a Costanza con
i propri musici e artisti. Per questi ultimi fu un momento di confronto di stili e pratiche, quindi un
laboratorio di diverse esperienze musicali. Ci si accorse che non era la scrittura a creare varietà, ma
il modo in cui la si eseguiva. Di conseguenza venne meno l’interesse per le sperimentazioni
notazionali, l’ars nova divenne base comune per tutte le pratiche polifoniche. I virtuosismi finora
praticati si scontrarono con la musica d’Oltremanica, caratterizzata dalla cosiddetta contenance
angloise: in Inghilterra si praticava una musica basata su terze e seste, che, unita alla ricchezza
melodica continentale, creò lo stile alto del Quattrocento polifonico, che caratterizzerà il gusto
europeo. In ogni caso i compositori più colti erano quelli del Nord della Francia che si formavano alle
maîtrises più prestigiose e che avevano come obiettivo Roma. Inoltre furono contesi dalle maggiori
corti italiane e quindi si assistette alla migrazione di questi musici, detti fiamminghi, che aprirono la
grande epoca della polifonia colta quattrocentesca.

La produzione arsnovistica è un prodotto per pochi, che non può descrivere la pratica musicale
dell’epoca in maniera estesa. Ma essendo l’unica musica scritta oltre il gregoriano ci permette di
immaginare forme musicali più popolari. Per esempio vi sono molte ballate a più voci, ma accanto ad
esse vi è una più diffusa produzione monodica, di cui però resta pochissima musica. Tuttavia anche le
ballate polifoniche scritte non rappresentano il modo per eccellenza in cui intonarle, ma uno dei modi
con cui la monodia veniva accompagnata.
Documentazione. Le polifonie resistono in raccolte che vengono redatte solo se qualcuno le finanzia,
oppure se si intende conservare la loro memoria. Quindi lo sviluppo non è omogeneo, e soprattutto
spesso i volumi vengono redatti molto tempo dopo la composizione dell’opera, in generale nella
seconda metà del Trecento, anche nei paesi in cui la notazione era più diffusa come la Francia. Si
crede inoltre che la Peste Nera abbia contribuito alla dispersione di alcuni manoscritti. Infine non tutti
utilizzavano la scrittura musicale per “fissare” il proprio lavoro.

Vi è un’unica eccezione e si tratta del poeta cortigiano Guillaume de Machaut (1300-1377), il quale
mise in musica i suoi versi e non, ma trascrisse e raccolse le sue composizioni in un codice riccamente
miniato (codice C, 1350-56). I libri, se preziosi, si conservavano meglio e spesso venivano anche
ritrascritti, difatti si hanno una dozzina di manoscritti contenenti l’opera di Machaut, ovvero di metà
della musica francese del Trecento di cui abbiamo notizia.
Come tutti i compositori di successo Machaut operò a contatto con ricchi protettori, con l’ambizione
di arrivare al sovrano più potente che all’epoca era il re di Francia. Inizialmente si lega a Giovanni di
Boemia, figlio dell’imperatore Enrico VII; alla sua morte Machaut dedica il suo poema più
importante, il Remède de Fortune, alla figlia. Da lì in poi sarà sempre legato alla Corona francese.
Opera. Partecipando alla circolazione scritta la poesia comincia a stabilire alcune regole tipiche degli
ambienti accademici, le quali traggono ispirazione anche dal lavoro di Machaut, pieno di forme chiuse
(f. fixes). Quelle presenti nel Remède sono sette: lai (strofe mutano ogni due), complainte e balladelle
(molte strofe -C, BF esteso), chanson royal (una strofa), ballade (3 strofe), virelai (ripresa tra le strofe)
& rondeau (otto sezioni intonate da due frasi musicali, con variazioni cfr pg 182). A parte lai e
rondeau che hanno forma a sé, le altre cinque forme sono organizzate in strofe a Barform (aab).
Inoltre Machaut compone 24 mottetti isoritmici e la famosa Messe de Notre-Dame (dopo il 1357), la
quale presenta usi ben lontani dalla pratica di Notre-Dame. Infatti Machaut compone questa messa
con i canti dell’Ordinario, mentre di solito la liturgia prevedeva polifonie destinate al Proprio, cioè ai
testi legati alla specifica ricorrenza religiosa. Quindi l’opera di Machaut era avulsa da esigenze
funzionali.

Dei contemporanei di Machaut si sa quasi nulla, ma è a questi anonimi che si lega il gran numero di
brani presenti nei manoscritti trecenteschi. Diversamente dalla Francia l’Italia vede pochi polifonisti,
di cui però sono rimaste delle tracce significative. Quasi tutti sono monaci, mentre attorno alla metà
del Trecento questo tipo di musica appare legata ad alcuni signori del Nord come Mastino II della
Scala o Luchino Visconti. Tre compositori sembrano essere passati per entrambe le corti: maestro
Piero, Giovanni da Cascia e Jacopo da Bologna. Di questi autori sopravvivono quasi esclusivamente
madrigali a due voci, tra cui alcune cacce. Il madrigale trecentesco è una forma tipicamente italiana:
è un genere pastorale monostrofico apparentemente in Barform, ma propenso a triplicare o
quadruplicare la prima sezione, detta copula. Il madrigale tende all’epigramma (strofa di cinque
versi), l’etimologia sembra legata al termine “mandriale” e sottolinea quindi la componente “rustica”
di questa forma. Infatti il “melodiare” doveva essere onomatopeico (vento, onde, suoni della natura),
come accade nella caccia. Quest’ultima in particolare richiedeva un canto evocativo che veniva
eseguito a canone, cercando di dare la sensazione dell’inseguimento delle due voci. A causa
dell’ingresso “sfalsato” la melodia dovrà essere armonizzata con quanto già cantato, generando
sezioni armoniche sovrapponibili. Il canone sarà una delle tecniche polifoniche più praticate nel tardo
Medioevo, capace di mettere insieme la spontaneità dell’improvvisazione con l’artificio compositivo.

L’intera produzione polifonica italiana attorno alla metà del Trecento proviene da Firenze, la quale si
era dotata di scriptoria musicali e quindi raccoglieva molti manoscritti. I più importanti sono lo
Squarcialupi e il Canzoniere di Parigi, mentre poco più antichi sono il Panciatichiano e il Lo. Essi
raccolgono perlopiù produzione fiorentina. I più antichi polifonisti sono tutti quindi di Firenze, o
hanno lavorato per un periodo lì. In questo periodo la ballata polifonica si sostituisce al madrigale
campestre.

Gli anni dello Scisma: 1377-1414. Si sviluppa l’ars subtilior, ma non tutta la produzione è di maniera
perché CONTINUA AD ESSERE PRODOTTA MUSICA DI PIÙ SEMPLICE FATTURA. Questa
musica rivela un gusto filofrancese per composizioni complesse, artificiose, le quali prevedevano
segni nuovi, colorazioni diverse, righi musicali piegati in forme simboliche (cuore, cerchio, arpa). Il
più celebre è il codice di Chantilly, che raccoglie brani profani in francese. E’ difficile dire se la sua
compilazione sia stata spinta da esigenze di conservazione di un repertorio così particolare o di studio.
Il secondo codice è quello di Modena, in cui sono presenti brani francesi e italiani, tra cui Matteo da
Perugia, che, come Antonello da Caserta e Zacara da Teramo, operò a Milano. Vi è anche un terzo
codice, il Franco-Cipriota, che raccoglie la summa della musica cortigiana prodotta a Cipro. Vi è un
solo trattato che cercò di definire le regole dell’ars subtilior: si tratta del Tractatus figurarum,
attribuito a Filippotto da Caserta.
L’etichetta di moderno si attribuisce solo a chi sviluppa nuove soluzioni grafiche. In Italia vige una
notazione ibrida, ma solo le forme miste più sofisticate sono dette subtilior e nascono dall’imitazione
dell’esperienza dei polifonisti francesi che prediligono queste soluzioni complesse. La doppia corte
papale ha incrementato lo scambio tra le due forme notazionali, dette appunto francese e italiana.
Le fonti per la polifonia scritta di quest’epoca quindi sono soprattutto francesi ed italiane; solo il
gregoriano appare un po’ più diffuso. La scrittura musicale però, ancora una volta, non è specchio
della pratica, anche perché la polifonia rimane circoscritta ad ambienti elitari che sono essenzialmente
italiani e francesi a causa della presenza del papato! La fortuna di quei compositori è legata alla
conservazione delle musiche! Inoltre vi era una contrapposizione culturale tra queste due aree: la
speculazione francese di base teologica e la concretezza empirica delle università italiane laiche, da
cui derivano le due notazioni.

Diverso è il caso dell’Inghilterra, in cui la riforma anglicana di Enrico VIII (1532) distrusse molti
manoscritti musicali “papisti”, quindi non esiste alcun manoscritto musicale inglese del Trecento, solo
alcuni fogli sparsi. Solo il monastero di Worcester ha conservato un buon numero di fogli databili tra
la metà del Duecento e gli inizi del Trecento in cui ancora non erano utilizzati i principi dell’ars nova.
Di quest’epoca è anche un trattato composto ad Oxford chiamato De speculatione musica scritto da
W. Odigton. Poco ci rimane anche della musica popolare, ovvero canzoni ed inni strofici (carols).
Monodica e quindi raramente scritta, ci permane solo sotto forma del testo poetico, e spesso si tratta di
contrafacta. La polifonia inglese predilige le forme a canone, sia ad ingressi successivi (rota) sia
contemporanei (rondellus). Queste due forme potrebbero essere all’origine del ground rinascimentale,
la più tipica forma strumentale britannica, dove la composizione poggia sulla ripetizione di una stessa
successione armonica. Infatti il principio per ottenere rota e rondellus è creare una sezione armonica
su cui generare tante porzioni melodiche quanti sono gli ingressi! L’ingresso all’ottava, spontaneo e a
voci miste, richiede il contrappunto doppio e obbliga all’uso di terze e seste, che tanto caratterizzano
l’armonia dell’isola.
Per quanto riguarda i compositori, oggi non ci rimangono che nomi. Tuttavia l’unico manoscritto del
Quattrocento, l’Old Hall, raccoglie i compositori presenti nelle cappelle di alcuni re. Contiene 150
brani sacri scritti per metà in partitura, una scelta inusuale poiché si preferiva separare le voci
distribuendole sulla doppia pagina.

Francesco Landini è un compositore fiorentino, l’altro grande polifonista del Trecento insieme a
Machaut. Egli trascurò le forme subtilior e la ricerca sul segno non fu suo interesse: il suo rapporto
con la musica era prevalentemente empirico. Fu organista, costruttore di strumenti musicali e sapeva
suonare ogni strumento. 50 fogli del codice Squarcialupi sono dedicati alla sua opera, per un totale di
165 brani (polifonie). Egli scrisse principalmente ballate a due o tre voci e il suo brano più famoso è
Musica son ch mi dolgo, in cui Musica si lamenta della scarsa qualità dei musici moderni. Landini si
caratterizza anche per la formula cadenzale che prende il suo nome. I suoi eredi sono Bartolino da
Padova e Andrea dei Servi.
Johannes Ciconia è di formazione francese, ma operante in Italia. La sua musica esprime
l’internazionalismo che sarà tipico della polifonia fiamminga quattrocentesca, al punto di essere
considerato il trait d’union. Sperimentò anche l’ars subtilior.
Negli anni 80 entrò nella cappella di Philippe d’Alençon; alla sua morte Ciconia partì alla volta di
Milano dove Giangaleazzo Visconti voleva apparire un mecenate illuminato finanziando musici di
formazione francese. Sono forse di questo periodo le composizioni più ardite spesso associate all’ars
subtilior. Scrisse anche dei trattati e ci lascia quattro brani francesi e una ventina di brani italiani,
soprattutto ballate.

Spagna. Qui la musica scritta è discontinua e d’importazione, come dimostra il Codice di Madrid, che
rivela soprattutto l’interesse per le sperimentazioni parigine (Notre-Dame). Tuttavia in Spagna la
musica aveva un ruolo importante: nel 1323 viene fondata la Lietissima Compagnia dei Sette
Trovatori di Tolosa, che proponeva annualmente le gare poetiche musicali chiamate puys. All’interno
di questo ambiente viene promosso il più importante trattato di poesia provenzale Las leys d’amors
(1337) di Guilhem Molinier.

Europa centro-orientale. Il Minnesang, con l’adozione delle competenze mensurali, si era


trasformato in Maistergesang. La produzione trecentesca era ancora monodica, ma solitamente
accompagnata dalla musica. I Meistersinger preferivano i centri cittadini alla corte, cantavano temi
morali e non cortesi, riunendosi in confraternite di musicisti. Oswald è il primo compositore di cui
abbiamo polifonie in tedesco; egli usava molto la tecnica del contrafactum e raccolse la sua opera in
due manoscritti. Nell’Europa dell’Est, da cui provengono numerosi giullari, istrioni e musici, gran
parte della musica derivava dalla pratica liturgica, accanto ad altri canti monodici derivati da
improvvisazioni su tenor.

Il Quattrocento. Siamo ancora in un’epoca in cui gran parte della musica non è scritta ed
interpretarla sulla base dei testi superstiti è fuorviante; la polifonia stessa è sovente un fatto
estemporaneo. Sono di questo periodo formule come cantare a libro o cantare alla mente: la prima
significa elaborare controcanti da affiancare al tenor, mentre la seconda coordinare altre voci senza
affidarsi alla scrittura. Solo nel Cinquecento “cantare a libro” significherà eseguire un brano a prima
vista. Vi sono alcune tecniche improvvisative, come il faburden, che in italiano prende il nome di
falsobordone, basata sul tenor liturgico che privilegiava accordi di terza e di sesta su ogni nota.
Appartiene allo stile dei compositori colti per la polifonia sacra, il cui riferimento è John Dunstable.
In Francia invece il precursore è Dufay, il quale applicò queste tecniche improvvisative scrivendo
(Missa Sancti Jacobi).
La “svolta” nel decorso culturale va cercata nel secondo Quattrocento, quando la notazione si
aggiorna, la musica mette in relazione colto e popolare; la prima parte del secolo era ancora intrisa di
cultura scolastica tradizionale. La storiografia pone a capo di questa svolta proprio Dufay, il quale è
visto anche come capostipite dei fiamminghi. In realtà Dufay esula da questa classificazione, anche
perché non sancisce l’inizio di alcuna epoca, e soprattutto interromperebbe la continuità con la
tradizione polifonica sulla quale D. si era formato.
Gran parte della musica scritta al tempo di Dufay è di autori francesi, poiché in Italia il grosso della
musica era improvvisata e il musico noto era innanzitutto un esecutore. La polifonia era un ambito in
cui i francesi avevano il primato, quindi gli italiani preferirono concentrarsi su un modo più vivace di
fare musica che rese meno interessante qualsiasi altro. La nobilitazione dell’intrattenimento popolare
è sancita dall’interesse degli ambienti cortigiani per la danza.

La produzione di libri di musica nel Quattrocento è un fenomeno importante. Vi sono numerosi


manoscritti di musica liturgica/polifonie sacre e canzoni polifoniche profane. I canzonieri raramente
furono libri d’uso: si tratta di piccoli volumi che hanno a modello i libri d’ore, talvolta riccamente
decorati. Di conseguenza difficilmente sarebbero stati usati per imparare nuovi canti. Tra i più
originali vi è il Codice Cordiforme, cioè a forma di cuore.

I compositori fiamminghi hanno una formazione colta, provengono dal nord-est della Francia e sono
attivi per qualche anno in Italia. Il termine fiammingo è utile perché descrive un compositore in
trasferta, che fa musica sofisticata (cfr pittori omonimi). Meno difendibile è l’individuazione di sei
generazioni di f. che si estendono su due secoli (Dufay, Ockeghem, Josquin, Willaert, Lasso e
Sweelinck); infatti nel Cinquecento questo termine è ormai superato.
La ragione per cui Dufay appare nuovo è relativa alla notazione usata per trascriverlo: è bianca. Egli
in realtà scrisse soprattutto in notazione nera, ma i manoscritti che lo hanno raccolto sono tardi e
quindi usavano già la notazione bianca! Il passaggio da nero a bianco è dovuto ad un’esigenza
meccanica: sulla sempre più diffusa carta era meglio usare meno inchiostro, perché se abbondante
avrebbe bagnato il foglio. In realtà Dufay, letto sulle copie più tarde, cioè in notazione bianca, appare
come il più antico dei musicisti che scrivono in una notazione giudicata moderna da un compositore
del tardo Quattrocento. Johannes Tinctoris nel 1477 scrive che non c’è un solo brano composto prima
di quarant’anni fa che valga la pena di essere ascoltato. Tinctoris ovviamente attribuisce la datazione
alla stesura e non alla composizione delle opere! Egli sceglie quel lasso di tempo (quarant’anni prima)
perché a quell’epoca sono datati i primi manoscritti in notazione bianca.

G. Dufay. Nato forse a Bruxelles, si forma alla maitrise di Cambrai. Seguì l’arcivescovo al concilio di
Costanza e successivamente operò in Italia, tra Rimini e Bologna, presso le rispettive corti, infine
approda alla corte più ambita, quella del Vaticano. Successivamente Dufay si ritrova ad essere musico
del papa e dell’antipapa; muore a Cambrai.
Egli ha composto mese, mottetti e un gran numero di canzoni tra cui rondeaux, ballades e pochi
virelais. L’uso di tenores non liturgici per le messe polifoniche diventerà una pratica sempre più
diffusa, evidenziando l’interpretazione morale del testo. La Missa L’homme armé inoltre sarà un
genere praticato fino al Seicento: per timore di una guerra tutti corrono ad armarsi.
Accanto a Dufay ci sono altri nomi francesi, poiché in Italia non si dava ancora importanza al ruolo
del compositore. Binchois scrisse sia musica profana (arpa) sia liturgica (organo), caratterizzata da
spigliatezza malinconica. Busnoys e Ockeghem, entrambi presenti nel Codice Cordiforme,
appartengono alla generazione successiva di fiamminghi, ma si muovono ancora in quel solco. Essi
furono impiegati nelle cappelle più prestigiose del Nord Europa, cioè Borgogna e Francia.
Busnoys, che fu anche un tormentato ecclesiastico, ci lascia soprattutto chansons secondo il modello
delle formes fixes. Ockeghem, al contrario, predilige le complessità mensurali; ci lascia una decina di
mottetti, una ventina di chansons e una dozzina di messe (ve n’è una tutta di canoni mensurali, cioè
stessa melodia a diverse velocità). Scrisse inoltre una Déploration per la morte di Binchois, che egli
considerava il suo maestro. Tinctoris lo ricorda come il più ammirato fra i musicisti.

CAP. 5: LA PRIMA ETÀ MODERNA (XV-XVI SECOLO)


In questo periodo è possibile rilevare che: 1. l’Italia torna protagonista della scena musicale
(umanesimo); 2. grande interesse per la trattatistica; 3. la musica assume un ruolo nella gestione del
potere (cappelle musicali); 4. pratica della stampa; 5. la novità è preferita alla rielaborazione
(autorialità). Sono tutte risposte alla crisi religiosa formatasi con Avignone, proseguita con lo scisma e
con i successivi anni incerti. Infatti il concilio di Costanza non ricostruì un papato unitario, ma fece
nascere la sfiducia nel ruolo pontificale. La verità veicolata dalla Scolastica verrà messa in crisi e la
gente cercò risposte altrove, specialmente tra gli intellettuali italiani, i più delusi da questa situazione.

Ci si rivolse in prima istanza alla filosofia classica, fino a quel momento poco conosciuta se non
attraverso la rilettura selettiva della Chiesa. Poggio Bracciolini ritrovò numerosi manoscritti durante i
lavori di Costanza, tra San Gallo e Fulga, mentre si ricominciavano a leggere i testi greci (lingua
ormai non più praticata). La musica mostrò nuovo interesse nella trattatistica greca: il confronto con
questi testi permise una visione evolutiva della teoria musicale che aprì la strada all’idea del
progresso. Nel mentre la nobiltà della musica smise di coincidere esclusivamente con l’erudizione
accademica recuperando spiritualità.
La musica come intrattenimento e non più come artificio colto fu la prima risposta alla crisi
religiosa. Solo in Francia fu portata avanti la tradizione polifonica erudita, infatti in Italia ci si
concentrò di più sulla spontaneità. Viene considerata un’età d’oro della musica che durò per qualche
decennio, come “disintossicazione” dalle subtilitas del passato.
In questi anni il gusto aristocratico diede dignità alla pratica estemporanea: la produzione comprende
essenzialmente frottole, un genere monodico con accompagnamento strumentale che poteva
realizzarsi anche come polifonia vocale. La stampa privilegiò questa forma polifonicamente più
elaborata rispetto alla canzone perché il canto a voce sola ha meno necessità di essere scritto!
Le frottole hanno musica semplice, orecchiabile, in forma di ballata a refrain, come il virelai, con o
senza ripresa e intonano versi italiani di qualità diversa a seconda delle circostanze. La frottola
predilige testi di Petrarca, Poliziano… Può assumere diversi nomi come strambotto, ode, villanella…
Tutti termini che rimandano allo svago campestre. Anche i canti carnascialeschi sono frottole.

La storia della musica vede in questo momento una forte esigenza teorica (dopo il sistema modale del
IX secolo e la teoria mensurale del Trecento). La musica ormai è “matura e consapevole”.
Il primo trattato a stampa è costituito dai tre volumi in folio di Franchino Gaffurio, intitolati
Theorica, Practica e Harmonica. Sembra un omaggio a Boezio, in realtà le teorie greche vengono
rilette alla luce dell’Umanesimo che Gaffurio aveva incontrato a Napoli e a Milano, dove fu maestro
di cappella del Duomo e dove produsse messe e mottetti caratterizzati da una polifonia disinteressata
all’artificio.
Solo con il già citato Tinctoris la regola musicale divenne espressione di un pensiero estetico. Egli
produsse tutti i suoi trattati alla corte napoletana (Aragonesi), ma non poté godere dei vantaggi della
stampa.

La cappella musicale era l’insieme dei funzionari ecclesiastici musicisti destinati alle celebrazioni
liturgiche di una corte principesca, come il capitolo di una cattedrale. In origine era limitata alle corti
reali di Francia, poi fu assorbita dal Vaticano su modello parigino dopo il trasferimento ad Avignone e
infine da altre corti italiane. I funzionari erano musicisti ma coprivano anche ruoli diplomatici, ed
erano diversi dai musici di rappresentanza come i trombetti o di intrattenimento. La cappella era
l’unica istituzione che giustificava la produzione di polifonia sacra, formava inoltre pueri cantores e
quindi necessitava di libri musicali. I membri delle cappelle diventavano sempre più professionali,
così spesso furono contesi.
La cappella del ducato di Borgogna fu la prima ad essere utilizzata in funzione rappresentativa, con
lo scopo di contrapporsi al re di Francia a partire dal valore della musica liturgica, emblema della
sacralità del re. Gradualmente tutte le corti che volevano emergere si dotarono di una cappella, poiché
essa esprimeva il prestigio del principe. Il nuovo ruolo istituzionale è ricoperto dalla musica per il
legame con la funzione liturgica: ormai il mondo ecclesiastico ha perso il suo prestigio, quindi un
sovrano non è più sacro perché “unto”, ma perché sacerdote egli stesso. In altre parole la cappella ne
garantisce la sacralità. In questo contesto si inserisce il risorto platonismo musicale, che interpreta la
bellezza del suono e la sua capacità emotiva, la quale riconosce la natura superiore del principe. Il
ritorno alla polifonia dotta in un contesto di umanesimo alla ricerca di una verità interiore, naturale,
produce 1. una semplificazione delle f. polifoniche e 2. una nobilitazione della pratica estemporanea.
Inoltre la pratica musicale diventa imprescindibile per l’educazione di un animo nobile.

La stampa. I caratteri mobili di Gutenberg (1455) furono la risposta all’ampiamento della domanda
di libri, che portò anche al passaggio dalla notazione nera a quella bianca (pergamena -> carta). La
prima tipografia musicale sorse a Venezia all’inizio del Cinquecento, ma già prima qualcuno
sperimentò le matrici in legno. La difficoltà di combinare i caratteri mobili delle singole note con la
continuità del rigo musicale fu risolta dal tipografo Ottaviano Petrucci: la sua soluzione prevedeva
una tripla impressione, cioè 1. righi, 2. note, 3. testi.
Nel 1501 Petrucci pubblicò il primo libro interamente musicale, l’Harmonice musices odhecaton, una
raccolta di canti non in partitura, ma in un volume oblungo per ridurre gli a capo. Petrucci chiuse nel
1520, ma la domanda di musica a stampa fu esaudita da Andrea Antico, il quale propose una
xilografia di maggiore qualità. Il principale stampatore francese è invece Pierre Attaignant: egli
realizzò stampe a un’unica impressione che divennero il modello dagli anni Trenta del Cinquecento
fino al Settecento. Alla fine del Cinquecento si affiancò l’uso dell’incisione su rame che riproduceva
fedelmente la pagina manoscritta (Simone Verovio, 1586).
I libri di musica a stampa non erano economici, ma erano comunque meno costosi della copia
manoscritta. La richiesta di questi testi non fu più esclusiva di ambienti nobiliari o istituzioni
musicali, ma coinvolse la borghesia benestante e amatori che volevano cimentarsi nella musica. Vi fu
infatti un incremento di composizioni in volgare, destinate a non professionisti (diversamente dalle
polifonie fiamminghe), e si tendeva a stampare tanti fascicoli quante erano le parti da eseguire. A
livello tipografico le ligaturae furono sostituite da note singole, più facili da imprimere, e furono
introdotte le divisioni di battuta.

Musica d’autore. Il rapporto tra autore e opera cambia tra Quattro e Cinquecento anche spinto dalla
stampa. Il pensiero musicale infatti non veniva più visto come “immutabile”, ma si evolveva tramite il
contributo degli artisti! I quali avevano un loro stile e quindi volevano farsi riconoscere.
La contrapposizione tra vecchio e nuovo divenne un termine di confronto anche nella trattatistica
dell’epoca: essa divenne completamente storicizzata. Si fece strada l’idea di un’evoluzione nell’arte,
che nel tempo migliora. Ogni novità era garanzia di un progresso e quindi era necessaria e ricercata!
A partire dagli anni Quaranta la parola “nuovo” campeggia su tutte le pubblicazioni (opera nuova,
nuovamente composto, …)
La stampa permetteva una maggiore riproduzione delle opere e quindi l’autore era incapace di gestire
la diffusione del suo lavoro. Allora si cercò di incentivare il riconoscimento del compositore! Si
iniziano a scrivere biografie su ispirazione delle vidas duecentesche.

Josquin Desprez è l’emblema del compositore “nuovo” perché ha saputo imporsi, quasi fosse un
brand; venne anche celebrato da molti. La sua carriera seguì quella del compositore fiammingo, cioè
formazione nel nord-est della Francia, emigrazione in Italia e ritorno in patria. In Italia fu al servizio
di Ascanio Sforza, del fratello Ludovico, di Innocenzo VIII (1489; è di questi anni la Messa La sol fa
re mi, che utilizza come tenor le cinque note del titolo) e di Ercole d’Este (1503, Miserere e la messa
Hercules dux Ferrarie). Anche quando tornò in patria Josquin continuò a comporre per la nobiltà
europea. Tale fu la sua fama che sotto il suo nome vi furono decine di composizioni anonime o di
autori minori.

Europa nel Cinquecento. La scoperta del Nuovo Mondo fu l’attuazione pragmatica delle aspirazioni
dell’Umanesimo, che cercava verità fuori dai dogmi; il sistema da quel momento diventa instabile e
chiunque può farlo saltare. Il ruolo di ogni uomo non è più legato alla condizione di nascita, ma al
riconoscimento pubblico di tale condizione.

L’Europa in questo periodo guarda all’Italia come modello culturale, poiché ha reagito alla crisi
religiosa con un incredibile sviluppo artistico; anche per questo motivo Francia e Spagna si stanno
contendendo la penisola. Di fronte a queste grandi potenze i principi italiani si frammentano,
cambiano continuamente alleanze e percepiscono la precarietà del potere. La produzione di cui
abbiamo notizia è per lo più aristocratica, sia in forma celebrativa, quindi con un pubblico
destinatario, sia in forma privata.
La riscoperta umanistica della tragedia classica portò all’evoluzione della lauda, che divenne l.
rappresentativa. Fu il modello di riferimento. Le nuove forme di sacra rappresentazione venivano
spesso affidate a compagnie semiprofessionali e stampate. La musica invece non sopravvisse e
continuò ed essere improvvisata. La stessa tragedia antica viene riproposta in forma moderna; La
favola di Orfeo di Poliziano è uno dei primi esempi di opere che vogliono riproporre il modello
classico con musica e cori, cioè con intermedi rappresentativi. Si diffuse nelle corti italiane
velocemente.
Anche ballare non era più solo una pratica popolare, infatti si svilupparono dei balli cortigiani con
delle coreografie composte. Anche la danza era diventata uno strumento per manifestare l’eleganza
del principe, infatti le coreografie avevano valenza autocelebrativa (acrobati, nobili e dilettanti). A
Milano fu fondata la prima scuola di ballo nel 1545.

La caratteristica del Cinquecento è l’allargamento del pubblico colto: ad esempio il ricco


commerciante fa studiare musica alle figlie e lui stesso si diletta con le note. Queste esigenze sono ben
raccolte ed esaudite dalla stampa musicale, che non produce più solo per istituzioni musicali e nobiltà,
ma anche per gli amatori (es. manuali di strumento).
Le stampe di Petrucci avevano esordito pubblicando canzoni, che avevano come acquirente il
dilettante colto. La sua produzione si divise in frottole (polifoniche) e musica sacra (cappelle). I suoi
successori si indirizzeranno poco per volta verso canti e frottole sempre più elaborati senza perdere di
vista la destinazione amatoriale. Queste frottole più elaborate prendono il nome di madrigali, una
parola che rimanda all’ambiente pastorale e al Trecento. Il nuovo madrigale è un mottetto in italiano
che intona testi poetici amorosi, come ad esempio di Petrarca, ma soprattutto testi nuovi. La fortuna
del madrigale rese questa forma l’emblema della musica italiana. Il mottetto sarà visto ormai solo in
latino e relegato alla produzione sacra - sarà talvolta composto in italiano prendendo il nome di
“madrigale spirituale” o “canzone spirituale”.

Concilio di Trento (1545-1563). Volle riaffermare gli antichi valori cattolici in opposizione a chi
richiedeva aggiornamenti. Dal punto di vista musicale non vi furono vere novità; fu confermato l’uso
del latino per la messa, la comprensibilità delle parole, non furono banditi gli strumenti, ma solo
l’organo venne ricordato come necessario al rito. La Cappella Sistina divenne emblema del Vaticano;
qui non si suonava, per questo che si dice “cantare a cappella” quando c’è solo canto. Tuttavia l’altro
coro vaticano, quello della Cappella Giulia, ha sempre avuto un accompagnamento musicale stabile. Il
modello sistino verrà erroneamente interpretato nell’Ottocento come il solo modo di fare musica,
inoltre si diffuse il mito secondo il quale il Concilio volesse eliminare la polifonia per assicurare
l’intelligibilità dei testi.
Vincenzo Ruffo fu maestro di cappella a Milano e sostenitore dei principi tridentini. Egli scrisse delle
messe “conformi” ai dettami del Concilio. Non vi è in realtà un vero cambiamento di stile: sono usate
forme omoritmiche nei canti ad alto contenuto testuale poiché il Concilio richiese di favorire la
comprensibilità dei testi. Si tratta anche di una richiesta scaturita dal sentire comune che, dopo il
successo del madrigale, richiese un rapporto non casuale tra parola e musica.
L’unica novità fu l’eliminazione dei tropi; solo quattro di questi, che divennero col tempo veri e
propri inni, furono salvati (Dies Irae, Veni Sancte Spiritus, Lauda Sion, Victimae paschali). Lo Stabat
Mater sarà introdotto nella liturgia solo nel Settecento.

Gli Asburgo. La Cappella borgognona di Filippo non aveva sede fissa, ma si trasferì occasionalmente
in Spagna dove prese il nome di Capilla Flamenca, distinta dalla Espanola. Anche i successivi sovrani
si servirono della cappella. Il suo ruolo fu importante per la musica iberica, ma in Spagna si dava
anche molto spazio all’intrattenimento. Le composizioni più diffuse sono romances (canzoni
strofiche) e villancicos (canzone popolare con refrain). Quest’ultimo è assimilabile alla frottola
italiana poiché è un canto strofico con voci di accompagnamento, facilmente cantabile.
Lo sfarzo della corte spagnola, con i suoi numerosi musicisti, che divenne modello per le altre corti
europee, si origina proprio dalla corte borgognona. L’imperatore Massimiliano I adoperò molta
propaganda e preferì quasi maggiormente le xilografie alle vere e proprie cerimonie. Il suo
successore, Massimiliano II, fu un amante della musica: per il matrimonio di sua sorella fu eseguito
un mottetto a 40 parti reali scritto da Alessandro Striggio; la corte di Massimiliano è una delle poche
che può permettersi così tanti musici.
Germania. Qui l’evoluzione polifonica seguì una strada a sé stante e fu influenzata anche dalla
Riforma di Lutero. Egli puntò molto sulla forza di coinvolgimento della musica, perciò inizialmente
predilesse canzoni di facile esecuzione soprattutto monodiche. Tuttavia vi sono anche 32 inni che
rappresentano una proposta elitaria, giustificata da esigenze didattiche (insegnare ai giovani qualcosa
di valore). Il compositore è Johann Walter, il quale quindi creò una raccolta di Tenorlieder. La forma
a quattro del corale luterano si consoliderà alla fine del Cinquecento, ma sarà più una forma d’arte che
una pratica popolare.
Francia. Francesco I investì molto sulla musica di corte. Costituì due cappelle: la Chapelle de
Plainchant e la Chapelle de Musique per la polifonia sacra accompagnata. Destinò invece alla musica
profana due ensembles. Era amante della moda e delle musiche italiane. Le sue mire espansionistiche
in Italia furono forse raccontate nell’ironica Guerre di C. Jannequin, in particolare la battaglia di
Melegnano/Marignano: si tratta di una chanson polifonica in cui le onomatopee richiamano i rumori
della guerra.
Il ruolo di Catherine de Médecis fu determinante per l’introduzione in Francia del gusto italiano nel
Cinquecento. La risposta francese all’Umanesimo italiano fu l’Académie de Poésie et de Musique
(1570): questa accademia era nutrita di ideali neoplatonici, vicina alla Pléiade di Ronsard, e introdurrà
la moda del ballet de cour.
Inghilterra. Con l’avvento dei Tudor la corte divenne stanziale. La musica a corte divenne pratica
quotidiana e si puntava molto sulla qualità. La cultura tendeva a concentrarsi a Londra, ma anche
nelle campagne si faceva musica presso le chiese.
Per quanto riguarda la liturgia, il distacco anglicano dalla Chiesa cattolica si distrusse molta musica
papista, si ordinò l’esproprio dei monasteri e si utilizzò la lingua inglese per la messa. Si celebrava un
rito particolare, cioè quello di Salysbury (Sarum). Esso prevedeva inni detti services (canti polifonici
delle ore) o anthems (antifona, a cappella o accompagnata). Tutti i testi vennero inseriti nel Book of
common prayer a partire dal 1549 e ufficializzato nel 1562 da Elisabetta I (dopo la parentesi
cattolica).
Thomas Tallis era un compositore apprezzato che dovette accettare i princìpi anglicani per essere
assunto nella cappella di Enrico VIII, quindi smise di comporre in latino e si indirizzò verso gli
anthems, con alcune eccezioni dovute alla tolleranza di Elisabetta I.

La stampa 2. Nel Cinquecento ciò che non finisce comincia o eventualmente muta. L’esempio
emblematico è il madrigale, il quale non esiste in quanto genere ma è in continua sperimentazione.
(Recap: la nascita della stampa musicale risponde alla domanda di musica esterna alle corti, perlopiù
si stampano frottole o musica sacra per esigenze didattiche. Il libro di musica proponeva in generale le
parti vocali come guida sommaria per l’accompagnamento di uno o più strumenti.
Tali musiche erano destinate soprattutto ad un uso privato, quindi ad un passatempo che aveva una
funzione nobilitante, di conseguenza equiparabile alle pratiche musicali cortigiane. Infatti l’impegno
nello studio musicale era compensato dal prestigio sociale e a quel punto imparare stornelli non
bastava più: la musica doveva esprimere le qualità dell’acquirente. Gli ultimi libri di Petrucci
presentano polifonie moderatamente complesse; spesso le frottole venivano pubblicate senza il testo
delle stanze dopo la prima, o perché esso era noto oppure perché erano soprattutto suonate, e quindi
venivano usate per le “prove” dell’ensemble. La frottola è ora sovente monostrofica, quasi fosse un
mottetto in miniatura, a parte i temi amorosi e l’uso del volgare toscano. Sta diventando il nuovo
madrigale (cfr supra); il termine si diffuse a partire dal frontespizio dei Madrigali de diversi musici
del 1530. Similmente alla frottola il madrigale di questo periodo è semplice, spesso omoritmico, ma si
differenzia dalla canzone perché mancano ripetizioni formali e i temi sono spesso morali, pur nel
contesto amoroso. Il madrigale esclude il vocalizzo poiché rivolto ad amatori e ha ritmi semplici.

Willaert spinse della direzione del madrigale dotto, ma senza stravolgere la natura amatoriale del
genere. Al contrario il giovane Cipriano de Rore, anch’egli fiammingo, fece della scrittura polifonica
severa la sua cifra stilistica; egli tentò di ripristinare il tactus alla semibreve, cioè il ritmo non tagliato,
ma non ebbe successo e le pubblicazioni successive preferiranno il tempo tagliato.
E così il madrigale è diventato un genere colto! Non si interessa alle forme chiuse, il cantore instaura
un rapporto analitico con il canto e la parola attraverso il foglio… Si inizia a riflettere sui modi in cui
la musica poteva esprimere concetti, come se fosse capace di generare significati, similmente alla
parola. A partire da metà Cinquecento i compositori riconobbero la necessità di creare musica che
assecondasse il significato dei versi. Lo sforzo di allacciare testo e musica appartiene al madrigale
tardo (madrigalismo), mentre altri cercarono di imitare formule musicali su parole significative, che è
un procedimento molto manieristico. Una reazione al madrigalismo di maniera si avrà al cambio di
secolo, quando si ritornerà ad un’innovazione piana della parola lasciando libero l’interprete.
(secondo indirizzo)

La terza fase del madrigale si divide a sua volta in tre indirizzi:


1. madrigale colto trattato come un mottetto (Willaert), madrigale spirituale, madrigale arioso
(semplice).
2. sperimentazione armonica in relazione ai significati del testo.
3. madrigale eclettico, che vuole tornare alla spigliatezza della canzone polifonica
d’intrattenimento, cioè un ritorno alla frottola, che ora prende il nome di villotta. Si
recuperano anche i rispettivi procedimenti, ma epurati del connotato popolare. E’ il caso di
Tirsi morir volea, un madrigale di Guarini in cui vengono messe in relazione la morte e la
sessualità, con particolare riferimento alla soddisfazione dei sensi. Il dialogo tra Tirsi e la
Ninfa rimanda ad una componente performativa che è sempre stata in potenza nel madrigale: i
testi intonati sono spesso legati alla scena e i temi si dipanano a seconda dell’interpretazione
del cantore. ->
4. L’ultima (4) fase del madrigale infatti enfatizza la sua natura rappresentativa. D’India e
Monteverdi rivoluzionano il m.: una voce per personaggio, con un modo di cantare che è
imitazione sonora della fisiologia delle emozioni, la polifonia è lasciata agli strumenti e
descrive l’ambiente, infatti il suo scopo è fare da supporto al canto. (cfr Combattimento di
Tancredi e Clorinda sentito in aula).
Il madrigale era un prodotto in apparenza poco esportabile poiché la sua caratteristica era la lingua
italiana. Tuttavia all’estero questo aspetto piace e viene assorbito, ovviamente in forme/lingue diverse.
In Francia ad esempio si sviluppa la chanson parigina sul modello della frottola italiana che si
avvicina al madrigale. Tuttavia la varietà della chanson è inferiore a quella del m., inoltre presto
abbandonerà le polifonie per trasformarsi in canto accompagnato, che comunque era il modo più
comune di eseguire le chansons. Diversamente in area tedesca il madrigale veniva pubblicato in
italiano!

Strumenti musicali. Si ritiene che il Cinquecento sia stato il secolo dell’emancipazione musicale
poiché le testimonianze ci parlano di trattati e di nuovi sistemi di notazione. Ciò significa che gli
strumenti smettono di dipendere dalla voce. La folta presenza di queste testimonianze si deve
soprattutto alla stampa che a sua volta raccolse le esigenze della più ampia platea di coloro che si
dedicavano alla musica (suonare è prerogativa di chiunque voglia distinguersi).
Intavolature sono un sistema notazionale esclusivamente strumentale, che serve a chi suona
strumenti che non seguono la notazione vocale, come ad esempio il liuto. E’ del 1507 la prima
Intabolatura de lauto stampata da Petrucci: in esso le sei righe identificano le sei corde del liuto, i
numeri i tasti da premere e i “gambi” i valori delle note. I brani contenuti in questa pubblicazione
sono di F. Spinacino, ma non si sa se questa tecnica sia stata una sua invenzione o dello stampatore.
Questa soluzione verrà utilizzata anche da Pierre Attaignant, il quale la modificherà leggermente
dando vita al sistema francese (corda più acuta in alto). Anche la chitarra, diffusissima nel
Cinquecento, adotta le intavolature, integrando la tecnica della botta, cioè un accordo ottenuto
facendo vibrare tutte le corde insieme. Le varie posizioni della mano sinistra vengono fatte
corrispondere alle lettere maiuscole dell’alfabeto; prende il nome di alfabeto per chitarra (1606).
I nuovi trattati sono diversi dai precedenti perché, anch’essi, sono diretti all’appassionato di musica,
non all’erudito. Al posto dei grandi volumi si prediligono quindi piccoli fascicoli che trattano di
aspetti pratici. Il secolo infatti produce numerosi manuali atti ad imparare uno strumento: all’interno
non vi erano solo intavolature e posizioni, ma anche diminuzioni, cioè la tecnica per “fiorire” le note
lunghe. L’accompagnamento di un madrigale non necessitava di tanta abilità, ma per suonar canti solo
strumentali le note venivano sempre diminuite, cioè tenute (tecniche di virtuosi che di sicuro non si
formavano su questi trattati!).
Diventa popolare anche il clavicembalo, detto anche “arpicordo”, uno strumento costoso e
appariscente che trovava spazio nelle famiglie abbienti (“virginale” = piccolo clavicembalo per
l’insegnamento delle figlie in attesa di marito). Il primo trattato che si occupa di strumenti a tastiera,
in particolare dell’organo e del clavicembalo, è Il Transilvano di G. Diruta (1593; 1609). In esso lo
stampatore aveva adottato il moderno sistema di notazione a due righi (5 linee sopra e 8 sotto), il
quale necessitava di uno sforzo tipografico che fu raggiunto tramite la creazione di nuovi caratteri
mobili.
Gli strumenti avevano bisogno dell’intavolatura solo nella pratica solista, perché nell’ensemble si
improvvisava. In questo periodo l’organo assume il ruolo di “sostegno” dell’intonazione: in altre
parole l’intera armonia viene riassunta a partire dal basso! Precedentemente si credeva che il
fondamento di ogni polifonia fosse il tenor e non il basso, ma nella pratica ci si rese conto del
contrario (era più facile rimanere intonati in presenza di un bordone). Si fa strada quello che verrà
chiamato basso continuo, ma che per ora prende il nome di basso per sonare nell’organo.
E’ proprio questo basso che fa da trait d’union tra le diverse forme musicali; i brani più diffusi
riadattavano in genere musica vocale. E’ del Seicento il trattato Syntagma musicum in cui sono
raccolte le innovazioni del secolo precedente e alcune precise illustrazioni degli strumenti coevi.

Personaggi. Willaert (cfr supra); Morales era estraneo alla produzione fiamminga, lavorò alla
cappella di Paolo III e scrisse quasi esclusivamente musica vocale sacra.
Palestrina e Lasso furono tra i più famosi compositori del Cinquecento ma non furono interessati alla
sperimentazione musicale, che tuttavia è l’anima del secolo! Palestrina ebbe diversi incarichi in
Vaticano fino a diventare organista della Cappella Giulia, imponendo il suo stile e la sua modernità.
Al contrario Lasso era considerato più “vario” e abile a rendere il significato delle parole, ma senza
sfociare in “descrittivisimo” musicale; in gioventù si spostò molto, era un uomo colto e dalle mille
doti. Pubblicò alcuni libri di messe e di mottetti (ca 700 brani), ma scrisse anche musica profana (250
canzoni). Egli scrive in “parodia” (ad imitationem moduli) cioè non sovrappone più le voci, ma
concepisce la polifonia nel suo insieme. La sua scrittura appare subito matura e controllata, anche se
in alcune canzonette italiane fa emergere il suo lato più goliardico.
Dopo Palestrina fu L. Marenzio il primo musico d’Italia: benché si sia dedicato alla musica sacra, il
grosso della sua produzione è profano. Agli inizi la sua scrittura è già moderna, ma si evolve verso
una maggiore maturità e raffinatezza. La sua attenzione al testo non si limita alla singola parola, ma
descrive l’insieme e si indirizza verso la scrittura drammatica. L’ultimo suo libro propone alcuni testi
difficili in musica, come Petrarca e le rime petrose di Dante.
Victoria fu uno spagnolo che vinse una borsa regia per andare a Roma come cantore e completare la
sua formazione ecclesiastica (sacerdote). Fu organista e maestro di cappella. Egli mostra un uso
personale dell’armonia prediligendo una polifonia controllata.

Il descrittivismo dei testi riusciva a non diventare manierismo solo in autori smaliziati come Marenzio
e Victoria, così i loro contemporanei ma anche i successori se ne tennero ben distanti.
William Byrd fu il più ammirato tra i compositori inglesi. Egli era cattolico, quindi a quei tempi in
Inghilterra non se la passava bene. Egli scriveva in latino, la lingua papista, come modo per
rivendicare la propria indipendenza. Byrd fu indipendente anche nelle sue pubblicazioni, che si
autofinanziò. Egli scrisse anche per la liturgia inglese, quindi non in latino, e ovviamente questi brani
furono più suonati; tuttavia la sua tecnica non cambiava da un genere all’altro. A causa di queste
difficoltà molta musica di Byrd rimase manoscritta.
Giovanni Gabrieli stampa alcune musiche in cui vi era un’esplicita distinzione tra voci e strumenti;
si tratta di un esordio editoriale circa una pratica già in uso. Egli stampò una raccolta di brani dello zio
Andrea uniti ai suoi, un prodotto destinato a musici professionisti e ad organici ampi, come ad
esempio le accademie, associazioni cittadine che nel Cinquecento stavano proliferando. Prendono il
nome di filarmoniche: promuovevano concerti, formazione e aiuto finanziario. Insieme alle chiese
erano gli unici luoghi fuori dalle corti che potevano permettersi organici allargati.
Gabrieli scrisse il Sacrae symphoniae, una raccolta di mottetti e canzoni da eseguire con sei fino a
sedici voci. Questa composizione nasce dal gusto bavarese per il mottetto monumentale (Gabrieli
aveva lavorato in Bavaria), quindi non è una specificità veneziana. Tuttavia la novità sta nel fatto che
queste composizioni vengono stampate e diffuse al di fuori delle corti! Nella raccolta vi è anche la
celebre Sonata pian e forte, dove per la prima volta viene indicato il volume richiesto.
Ciononostante tutti questi scritti rimangono CANOVACCI per la performance, non sono prescrittivi:
la componente improvvisativa non si perde, anzi emerge l’importanza dell’orchestrazione del brano.

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