You are on page 1of 224

2

Indice

Copertina
Frontespizio
Grande Tōkyō, piccola Tōkyō
Tōkyō tutto l’anno
GENNAIO. Il mese degli affetti
FEBBRAIO. Il mese degli abiti a strati
MARZO. Il mese della crescita
APRILE. Il mese dei fiori di deutzia
MAGGIO. Il mese delle azalee
GIUGNO. Il mese senza acqua
LUGLIO. Il mese della letteratura
AGOSTO. Il mese delle foglie
SETTEMBRE. Il mese delle lunghe notti
OTTOBRE. Il mese senza dèi
NOVEMBRE. Il mese della brina
DICEMBRE. Il mese dei bonzi affaccendati
Ringraziamenti
Note
Il libro
L’autrice
Copyright

3
Laura Imai Messina

Tokyo tutto l’anno


Viaggio sentimentale nella grande metropoli

Illustrato da Igort

4
A mia madre e a mio padre,
che mi hanno guidato fin lí.

A Loretta e a Maurizio,
che mi hanno lasciata giungere qui.

5
Grande Tōkyō, piccola Tōkyō

Sono arrivata a Tōkyō che avevo poco piú di vent’anni. Sono partita da
Roma con una immensa valigia color ciliegia, una laurea in Lettere e mia
sorella a scortarmi all’aeroporto.
Dovevo restare un anno. Ne sono passati quindici.
Sono ancora qui.

Da bambina non leggevo manga, non guardavo gli anime alla tv. Anche
pensando a un viaggio lontano, il Giappone non mi sarebbe mai venuto in
mente. Non fu il paese a farmi innamorare, né fu un giapponese in
particolare. Fu invece il giapponese, la lingua.
Cercavo informazioni per regalare un corso di lingua al ragazzo che
allora frequentavo, lui sí appassionato di tutto quanto avesse a che fare col
Giappone. Quando vidi quei segni che si affollavano sullo schermo,
scorrendo dall’alto in basso, da destra a sinistra, fu un colpo di fulmine. Per
temperamento ho sempre amato la complessità, misurarmi con qualcosa che
non accetta di aprirsi al primo incontro. Iniziai a seguire le lezioni
all’università: «Frequenterò ma non darò esami», mi dissi. E tuttavia presto
capii che il giapponese non avrebbe potuto mai essere uno svago, un
contorno, qualcosa a margine del piatto. È una lingua che pretende
dedizione, è come l’amore, dà dipendenza. Avrei finito cosí per dedicare
l’altra metà del mio corso di studi quadriennale al Giappone e come dono di
laurea avrei chiesto ai miei genitori di trascorrervi un anno.
Ricordo la vista dall’aereo, quel primissimo giorno – l’anno zero della
mia nuova esistenza –, planando verso il fianco est della città. Il monte Fuji
si ergeva a lato, a proteggere e insieme a minacciare la città. Ogni regione
pareva rasa al suolo scrutata da lí. Tutto è piatto visto dall’aereo, sembra che
non ci riguardi. Ricordo che percepii chiaramente come invece tutto già
avesse a che fare con me.
Andavo a studiare la lingua per un anno, in una prestigiosa università

6
nella zona ovest di Tōkyō.
Da Narita al quartiere di Musashi-sakai, dove sorgeva il campus, presi un
treno, poi un secondo. Diventarono tre. C’era un’elaborata sequenza di
paesaggi che scorreva fuori dal finestrino. Dopo distese di campi di riso e
casette dai tetti blu arricciati ai bordi, dopo montagne tappezzate d’alberi e,
a mano a mano che ci si avvicinava alla città, un discreto mucchio di
palazzi, d’improvviso ecco una cupola che ricordava il duomo di Firenze, un
granchio gigante spalmato su una facciata; a Shinjuku, giorni dopo, avrei
colto Godzilla che sbucava a mezzo busto da un palazzo. E poi una torta
nuziale in cima a un altro edificio, orme di gatto su una parete.
Eccola Tōkyō, metropoli figlia d’Oriente.
Eppure c’era anche dell’altro. Perché mi parve da subito indubbio che
una parte fosse stata partorita dall’Occidente. Non sbagliavo, come avrei
avuto modo negli anni di verificare.

Tōkyō è stata un innamoramento in piú fasi. Quella iniziale fu


strabordante, quel tipo di passione che ti divora le notti, e ti convince che
non ci sia nulla meglio di lei, che puoi smettere persino di mangiare e di
dormire, perché basta respirare lei, la città, per essere felice di essere al
mondo. Ricordo che uscivo a ogni ora del giorno e della notte, convinta che
il pericolo non mi potesse sfiorare. Guardavo colare come miele i caratteri
sulle insegne ai lati delle strade, mi affacciavo oltre le aureole di verde che
circondavano le villette a due piani, le strade senza marciapiedi su cui si
rovesciavano rami di ciliegio, altissimi ginkgo biloba.
Ogni giorno imparavo nuove parole, scioglievo i grumi dei kanji che si
stendevano sui fogli a lezione, nella bocca delle persone per strada, sui
palmi che tutti usavano come una tavoletta di cera, per tracciarvi sopra con
l’indice la successione precisa dei tratti e spiegarmi. Il piú delle volte non
capivo nulla, ma provavo quasi un senso di onnipotenza quando riuscivo a
isolare anche una sola parola.
Il primo anno ho vissuto in homestay dai signori Kusama, lui oncologo
con una passione smisurata per il karaoke e la fotografia amatoriale, lei
casalinga piena di talenti, la musica, la letteratura, l’arte di coltivare
relazioni. I figli, già grandi e già genitori a loro volta, abitavano altrove. Ho
scoperto cosí, in quell’ambiente familiare, le ricadute domestiche delle feste
tradizionali, ho imparato come si prepara il tenpura, che il sushi anche in
Giappone si mangia solo al ristorante, ho appreso come infilare

7
quell’intercalare sonoro tra le parole, tipico del giapponese, ho capito come
bisogna impugnare le bacchette per servirsi da una ciotola comune (al
contrario, facendole ruotare tra le dita). Ho compreso anche la durezza di
certe convenzioni sociali, il rigore necessario a salvaguardare i rapporti, che
la parola data tra giapponesi è data per sempre.
In quel primo anno esploravo Tōkyō col passo entusiasta ma incerto del
neofita. Mi perdevo nel dedalo delle stazioni, non capivo bene la lingua.
Ripassavo gli stessi locali, memorizzavo le strade piú prossime
all’abitazione e all’università, cercavo in ogni modo di creare abitudini e
sentirmi cosí meno straniera.
Mi convinsi che la capitale giapponese fosse un frutto: quell’immagine
non me la sarei mai levata dalla testa.
I quartieri di Tōkyō mi paiono ancora oggi come i rubini di una
melagrana, tutti ammassati e separati da una pellicola spugnosa, di
contenimento, mentre la buccia – che resta spessa, rossa con sfumature e
macchie di vari colori – non suggerisce per nulla quel che si troverà
all’interno. Tōkyō è autentico stupore.
In quei primi dodici mesi particolari finiva un amore vecchio e usurato
tutto italiano, e iniziava a divorarmi quel senso di solitudine che solo una
città come Tōkyō sa iniettarti nel sangue; lei che ha addosso trentasei
milioni di abitanti – tanto che la solitudine del corpo a Tōkyō non esiste –,
con i suoi settantadue milioni di pupille che non ti guardano per niente può
farti sentire emarginata. E allora cercai l’amore, e con quel pensiero colorai
l’occhio del mio primo daruma. Rosso scarlatto, spessi baffoni e grosse
sopracciglia, piú grande della mia testa.

«Vorrei restare un altro po’ in Giappone», mi dissi dopo circa cinque


mesi. Ne mancavano altri sette, ma bisognava muoversi per tempo. Cercai
una borsa di studio per accedere al master, fui ammessa. Ero convinta fosse
stato il destino a darmi una mano, a mostrarmi la via.
Di giorno andavo a lezione, di sera e nel weekend facevo tutte le cose
che si addicevano a una studentessa straniera: Shibuya, Harajuku, il sumō,
lo Studio Ghibli, le discoteche. Soprattutto, sbagliavo. Parole sbagliate,
relazioni sbagliate, un mucchio di inevitabili incomprensioni. Ero una
turista residente circondata da ragazzi stranieri come me: coreani, tedeschi,
finlandesi, americani, inglesi. Il vero Giappone, per strano che potesse
suonare, era ancora di là da venire.

8
Tramite una studentessa australiana che frequentava il mio dormitorio
conobbi Miwa, una ragazza giapponese piú grande di sei anni. Già lavorava
e nel weekend mi trascinava in locali eleganti e discoteche. Divenne
un’amica importante, la migliore, e nei mesi seguenti la solitudine ce la
saremmo spartita a fasi alterne in due.
È stato dopo quasi due anni che ho incontrato Ryōsuke, che Tōkyō ha
imparato ad amarla con me. Fiero di venire dal Kanagawa e da una città
lambita dall’oceano, con il monte Fuji a spuntare come un gigante da dietro
la spiaggia di Fujisawa, quel giovane uomo dai capelli lunghi e la musica
sempre premuta sulle orecchie guardava con un po’ di sospetto la metropoli
che ingoia la provincia e non le restituisce nulla.
Il primo regalo che mi fece fu l’enciclopedia illustrata del periodo Edo
sugli yōkai e dei biscotti a bastoncino che non erano né dolci né salati, tipici
della sua zona. Ma soprattutto quel che mi donò fu quel raccontarmi gentile,
gonfio di una conoscenza capillare e ragionata, che non ho mai trovato in
nessun altro cosí, quell’avere sempre una risposta. Solo stargli accanto e
parlare mi parve la cosa piú vicina alla felicità.
Camminavamo per Tōkyō ore e ore, per scovare le sue cuciture, per
vedere dove il nome di un quartiere si perdeva in un altro, dove iniziava
Shinjuku e dove finiva Ueno, per capire nei passi la trasformazione da città
alta a città bassa, quella definizione che sempre leggevo nei saggi e faticavo
a fare mia. Eravamo Ryōsuke, Miwa e io.
E cosí, col cuore piú calmo, è subentrato anche l’amore maturo per la
città, quello che non ti strattona per uscire di notte, che non ti fa girare in
tondo sulla linea Yamanote finché non ti assale la nausea, che non ti fa
prendere l’ultimo treno da condividere con una generazione che si ubriaca
per sciogliersi un po’, quello che non ti mette piú l’ansia d’essere amata
quanto la ami tu. È bastato far cadere i pronomi «io, noi» – contrapposti a
generici «loro, voi» – per sentirmi a casa.
«Non fare l’errore di paragonare l’Italia e il Giappone, Laura, – mi sono
detta. – Non sempre serve scegliere nella vita. Puoi amare entrambi,
prenderne il meglio senza metterli al banco degli imputati. La tua vita sarà
piú ricca cosí». Ancora oggi sono convinta che questo sia stato il consiglio
migliore.
Dopo la fine del master è subentrata una fase piú calma, di stabilità. Ho
iniziato a lavorare all’università, a incontrare centinaia di giovani uomini e
donne, ragazzi che mi chiedevano della mia vita di prima, dell’Italia che, a

9
sua volta, li faceva innamorare. In quella frizione di mondi si è potenziata la
meraviglia, che è un’andata ma, sempre, anche un ritorno. Spiegando la
bellezza di una mezzaluna e dell’altra ho capito quanto fossi felice di non
essere piú né completamente italiana né giapponese.
Poi una sera, sul letto che occupava un terzo di tutta la casa, Ryōsuke ha
abbassato la voce, ha scandito lentamente Kekkon shiyō e,
come anello di fidanzamento, mi ha consegnato una piantina di caffè.
Ci siamo sposati, abbiamo cambiato casa due volte, la piantina è ancora
con noi.

Poco prima del matrimonio, come inquilini di un castello medievale, ci


siamo trasferiti dall’ala nord all’ala sud di Kichijōji. Intanto mio suocero
Yōsuke, nei weekend, ci portava a cena fuori e mi presentava la cucina
tipica di Okinawa: l’oden com’è che si mangia, yakiniku cos’è; mia suocera
Yōko mi spiegava le tradizioni del butsudan, la disposizione delle bambole
per la Festa delle Bambine, ritagliava sotto i miei occhi origami da
appendere ai fuscelli di bambú durante Tanabata, la Festa delle Stelle.
Con il lavoro che aumentava e il corso di dottorato in cui nel frattempo
ero entrata, avevo meno tempo a disposizione e tuttavia iniziavo a sentire
tutta un’altra fretta. Quella di acquistare uno sguardo nuovo sulla città. Non
mi bastavano piú i weekend con Ryōsuke e con Miwa. Volevo scoprire gli
asili, le febbri e gli ospedali di notte, i parchi giochi, nuovi grotteschi
pupazzi, le ninnenanne, i cerotti con su disegnato Anpanman. In una clinica
appesa sul fianco di un alto edificio a Kichijōji, ho cercato mio figlio che
non voleva arrivare. Tutte le parole della maternità sono state in giapponese.
Ho camminato, la notte prima di partorire Sōsuke, per la zona di Nishi-
Tōkyō. Dopo sei ore di passi ero in travaglio. Ho scoperto cosí, per tentare
di evitare l’induzione farmacologica del parto, i colori della notte di un’altra
periferia. Con Emilio, il nostro secondo bambino, è stato lo stesso. Poi un
nuovo asilo, diversi modi di affrontare le medesime feste, passeggiate di
ventimila passi coprendo quattro, cinque stazioni della linea Chūō o della
Yamanote.
Per ogni relazione, per ogni lavoro, per ogni nuovo amico, per ogni figlio
ho ricevuto un nuovo vocabolario. Ho conosciuto un altro frammento della
città.

Tōkyō non è tanto una metropoli quanto una narrazione plurale. Io, senza

10
di voi, non sono nulla: è questo che insegna. Nella capitale dell’Estremo
Occidente tutto è mescolanza. Nulla è definitivo.
Il rischio maggiore di spiegare Tōkyō in dettaglio, del resto, è che i
particolari si muovono come pedine su una scacchiera. Restano nella loro
posizione un momento, nella misura in cui il gioco e la strategia lo
richiedono, ma poi, subito dopo, scivolano sulla scacchiera e ne escono non
appena il gioco finisce.
Con la stessa rapidità, ecco che un’altra partita riprende da capo ed
elimina la memoria della precedente.
Cosí mutano i locali a Tōkyō, cambiano di aspetto o di nome, da un
barbiere fiorisce una caffetteria, un negozio di scarpe partorisce un konbini.
Pare quasi che le cose nascano solo per essere scansate da altre, che le mode
cavalchino il tempo solo per finire rapidamente sotto teche di musei,
custodite come cose fragilissime tra le pagine di spessi manuali. Qui nulla
viene risparmiato alla rapidità, tutto finisce in un lampo nel mucchio del
vecchio.
Eppure, sotterraneo, scorre un fiume placido, che resiste a ogni scossa e
novità. È la tradizione, sono i gesti lentissimi, le frasi fatte, le decorazioni
profumate di pino nel trasloco dell’anno, le maschere da orchi durante
l’equinozio di primavera, le lanterne sull’acqua durante l’o-bon, le
cerimonie precise che si reiterano ogni mese, a ogni stagione, tutte quelle
cose che raccontano come il tempo del rito rimanga, come l’eredità degli
antichi sia accolta anche oggi, anche dalla generazione dei cellulari, spesso
frettolosa e distratta.

Tōkyō sembra sempre in costruzione. Da quando sono arrivata,


percepisco la metamorfosi ininterrotta di questa città. Da bruco a farfalla, da
farfalla a rondine, da rondine a sasso, da sasso a palazzo, da palazzo a
bosco, da bosco a… È in uno stato di infanzia perenne, come una bambina
che a guardarla fissa non pare diversa, ma poi confrontandola con le
fotografie – l’album aperto una domenica sulle ginocchia – emerge
strabiliante nella differenza. Una settimana prima aveva quella piega sul
volto, quella linea del treno correva di là, e ora i lineamenti, prima tutti
concentrati in mezzo alla faccia, si sono distanziati di un po’, hanno preso
posizione sul volto. Il parco di Shibuya è diventato un centro sportivo, a
Shimokitazawa il mercato è sparito, è nata un’altra città.
Oggi, guardandola attraverso la lente dei bimbi, la comprendo persino di

11
piú. Perché ai loro occhi non c’è nulla di ovvio, perché non hanno paura di
fare domande, e so che per insegnare serve conoscere meglio, bisogna usare
la chiarezza nelle parole, approfondire.
I bimbi sono questo, una carta di Rossana tra l’occhio e il mondo. Tutto è
nuovo, tutto è meraviglia.
E Tōkyō, in questo senso, sarà sempre bambina. Butterà giú costruzioni
scintillanti, coloratissime, per il puro piacere di edificarne altre, si stupirà
della bellezza spalancando la bocca in un Oh! che le occuperà tutta la faccia,
pretenderà giocattoli nuovi e nuove mode una di seguito all’altra. E insieme
si rifugerà nell’abbraccio dei grandi, nelle tradizioni che l’hanno resa felice
quando era piccina, e ogni anno, a ogni cambio di stagione, vorrà le
decorazioni appese in casa, i cibi particolari preparati dalle mani della
mamma e della nonna, l’emozione della festa, le lucine.

Grande Tōkyō. Piccola Tōkyō mia.

12
Tōkyō tutto l’anno

Je voyage pour connaître ma géographie.


Un folle (MARCEL RÉJA, L’art chez les fous,
Paris 1907, p. 131)

Il maestoso e svelto Susanowo cercava dove innalzare la propria dimora nelle


terre di Izumo. A Suga trovò il posto adatto. «Qui mi sento a casa» disse, e
costruí una residenza principesca.
KOJIKI

13
GENNAIO

Il mese degli affetti

Mutsuki
Gennaio, ha in coda, come tutti i mesi, il kanji di tsuki, la luna, e in testa quello di
mutsu, dall’aggettivo mutsumajii che indica l’armonia nei rapporti interpersonali, la
serenità di una coppia, l’accordo all’interno di una famiglia, un’affettuosa relazione
tra amici. Si ipotizza che gennaio abbia questo nome perché in Giappone, all’inizio
dell’anno, tradizionalmente le famiglie si riuniscono e trascorrono del tempo in
compagnia. Potrebbe anche trattarsi di una torsione del termine mototsu-tsuki,
letteralmente «primo mese dell’anno».

Tuttavia, proprio come capita ai bimbi e agli animali, gennaio possiede moltissimi
soprannomi. Ci sono yōshun , che fa riferimento alla gaiezza della primavera,
al calore e alla luce che inonda la terra, e iwai-zuki , ovvero «il mese della festa,
dei festeggiamenti»; hatsusora-zuki , che significa letteralmente «il mese del
primo cielo», e kasumisome-zuki , «il mese della prima nebbia». E poi
samidori-zuki , ovvero «il mese del verde delle prime foglioline e delle
giovani erbe», e kureshi-zuki , «il mese del crepuscolo nuovo». Infine, tan-
getsu , «il mese da cui prende origine tutto».

Capodanno a Yoyogi.

Sono i giorni cremisi e bianco: i colori che addobbano i santuari e le


stazioni, luoghi che in queste ore andranno riempiendosi sempre piú. Tutti
attenderanno in fila, ordinatamente, vociando se in compagnia, o in silenzio
se soli. In mano avranno gli amuleti dell’anno che sta per finire da bruciare

14
nel rogo appositamente allestito nel tempio e, in tasca, il portafogli cosí da
snocciolare le monetine durante la preghiera e acquistare nuovi portafortuna,
di fogge diverse a seconda del luogo. Proteggeranno loro stessi e la loro
famiglia nell’anno che viene.
A scaldare la folla, ci sono già dei fuochi alimentati da ciocchi di legno e
ramoscelli, dentro appositi fornelletti. Le fiamme si riflettono negli occhi dei
pochi bambini che vi corrono intorno, volti eccitatissimi che giocano e
urlano mentre vanno incontro a ore minuscole quanto loro.
Gong gong gong – o come sussurra la ricchissima onomatopea
giapponese, goon goon goon –, ecco che risuonano i 108 rintocchi della
grande campana di bronzo: ne cadono 107 prima della mezzanotte e l’ultimo
precipita subito dopo. Secondo la religione buddhista 108 è il numero delle
umane passioni, delle tentazioni cui l’uomo è soggetto: ogni rintocco ci
libera da una di esse.
È Harajuku: l’ultima notte del vecchio anno, la prima notte del nuovo.

Una notte di «joya», la prima dell’anno.

Ecco che dai treni della linea Yamanote, che come un serpente che si
morde la coda striscia nel bel mezzo di Tōkyō, si riversa nel buio la folla
vociante della festa, s’alza il chiasso dell’evento che vuole tutti svegli nella
gioia – e, guarda caso, joya in giapponese indica l’ultima notte
dell’anno.
Stringo forte la mano di Ryōsuke: perdersi qui, adesso, vorrebbe dire non
ritrovarsi che altrove, tra ore.
C’è chi è vestito in kimono, anziani ma anche giovani che, da qualche
anno, hanno riscoperto la bellezza dell’abito tradizionale. Ragazzi intorno ai
vent’anni fanno capannello sotto al mon di Yoyogi, ovvero il grande
ingresso di pietra che introduce all’omonimo parco, YOYOGI-KŌEN
. Dentro sorge il santuario Meiji-jingū, meta di questo vasto
pellegrinaggio d’anime in festa.
Si dice che, nei primi tre giorni del nuovo anno, circa tre milioni di
persone vengano a porgere qui la loro prima preghiera. I pilastri che
sostengono il tetto del santuario testimoniano, con le loro innumerevoli
scheggiature, questo passaggio massiccio di gente: fa quasi tenerezza
guardare il legno intaccato dalle migliaia di minute ferite provocate dalle

15
monetine. Schizzano in aria, gettate nello spazio dedicato alle offerte, lí,
subito prima di esprimere la preghiera: un rituale precisissimo e sempre
uguale per cui prima bisogna scuotere con vigore la corda cui sono attaccati
grandi campanelli, poi lanciare l’offerta, inchinarsi due volte, battere altre
due volte le mani, giungere i palmi rivolgendo la preghiera e, solo dopo,
licenziarsi dalla divinità con un ultimo inchino conclusivo. Si chiama nirei-
nihakushu-ichirei , letteralmente «due inchini - due battiti
di mano - un inchino», e pare essa stessa un’espressione che canta, che
regola il ritmo della speranza.
È però con aria altera e un poco stupita che la gente della CITTÀ BASSA
(shitamachi ), cioè la Tōkyō piú legata alle antiche tradizioni, guarda a
questo enorme flusso di persone. Recarsi per il Capodanno in grandi
santuari come il Meiji-jingū a Harajuku o il Sensō-ji ad Asakusa,
immergersi in un mare nero di sconosciuti e percepire l’eccitazione del
passaggio di testimone dell’anno è infatti una nuova usanza di giovani e di
stranieri.
Tutti gli altri preferiscono pregare al piccolo santuario di quartiere,
quello davanti a cui ogni giorno fanno un impercettibile cenno col capo o un
inchino profondo: gente che vedo tutti i giorni trattenere il passo un istante
prima di correre verso il lavoro o a fare la spesa; persone che bloccano la
bicicletta e in tralice salutano la divinità, le affidano preoccupazioni,
aspirazioni. Cosí, per questa familiarità, i giapponesi spesso scelgono per la
prima preghiera dell’anno – la piú importante, sia che avvenga questa notte
o nei giorni a seguire – il santuario dove magari hanno presentato al dio il
proprio figlio, prima che il neonato compisse il centesimo giorno di vita, o
lo stesso dove marito e moglie si sono uniti in matrimonio secondo il rito
shintoista. Oppure ancora quello dove vanno periodicamente a comprare
amuleti da attaccare alla borsa, da tenere nel portafogli: sono gli o-mamori
, che hanno il verbo «proteggere» (mamoru ) nella parola,
oggettini colorati di buon auspicio per gli studi, per i rapporti d’amore, per
un parto felice, per la sicurezza nei viaggi.
Ne comprerò uno per i miei bimbi, per un anno libero da sfortune e
malanni e un altro per Francesco. È per la sua compagna che aspetta una
bimba.

«Samui, samui».

16
Il Capodanno in Giappone è caratterizzato non tanto dal chiasso della
festa, quanto piuttosto dalla discrezione familiare, dai toni bassi e controllati
della voce, il congiungersi di parenti che abitano anche molto lontani. È il
ritorno alla casa dei genitori, il rintocco delle campane che echeggia in
stradine strette, nei corridoi di meno di un metro che distanziano i filari delle
casette a due piani, tra il posto macchina di pavimenti asfaltati e collane
finissime di prato che circondano le abitazioni. Il vociare in questi piccoli
santuari di zona è conosciuto, cosí come noti sono i volti di chi attende il
proprio turno in un’unica fila che s’allunga sul marciapiede oppure si
sviluppa in ordinatissime curve nel recinto. Gente stretta in cappotti, sciarpe
e guanti che, al suono dell’ultimo rintocco di campana, si inchinerà per
rivolgersi reciprocamente l’augurio di un buon anno e che, subito dopo la
preghiera e l’acquisto dei nuovi amuleti, riceverà del sakè dolce (amazake
), una pappetta biancastra dal sapore delicato, offerta dal comitato di
zona e versata con mestoli intinti in grossi calderoni nei bicchierini di carta.
«Samui, samui» ripetono tutti, a intervalli, come una parola d’ordine che
ci si passa di bocca. Vuol dire: «Che freddo!»

Fiori di fuoco.

Le discoteche sono eccentricità da turisti, cosí come i fuochi d’artificio


che vengono tanto praticati in Occidente a Capodanno, ma che qui saranno
sparati solamente a Disneyland, verso Chiba. I fiori di fuoco (hanabi :
dove hana è il fiore e hi il fuoco) non sono infatti una tradizione degli
inverni giapponesi, che sono assai secchi e per questo accompagnati
dall’atavico terrore degli incendi. Le città erano costruite tutte in legno e la
paura del fuoco le attraversa da millenni.
Forse è ancora sentito il ricordo di Yaoya Oshichi, una giovane donna di
sedici anni che, innamoratasi a prima vista di un uomo incontrato per caso
durante il grande incendio del dicembre del 1682, tentò di appiccarne un
altro, nella speranza di rivederlo. Arrestata, fu condannata a morire sul rogo
nonostante il suo tentativo fosse fallito e non avesse provocato alcuna
vittima o danno. La pena capitale attendeva chiunque azzardasse un simile
gesto, proprio perché in una città fatta di legno, tutta ammassata di
costruzioni l’una sull’altra, il pericolo che l’incendio dilagasse e spazzasse
via migliaia di abitazioni e di vite era enorme. Di questa tragedia d’amore,

17
che mette al centro la giovanissima Oshichi, esistono molte versioni, opere
teatrali del teatro kabuki e delle marionette, e soprattutto uno dei cinque
racconti della celeberrima raccolta di Ihara Saikaku, Cinque donne amorose,
pubblicata nel 1685, che faceva parte del filone letterario di ukiyozōshi
, «racconti del mondo fluttuante».

Perché gli spiriti degli antenati trovino la via.

Di Edo, antico nome di Tōkyō, si diceva che i suoi fiori fossero i litigi e
gli incendi. Cosí oggi ancora, solo che la gente non litiga piú, perlomeno
non in pubblico.
Nel capolavoro della letteratura classica medievale Tsurezuregusa, Ore
d’ozio, miscellanea di riflessioni e ricordi redatta intorno al 1330, Kenkō
Hōshi racconta come un tempo, nel fitto buio dell’ultima notte dell’anno, la
gente desse fuoco alle torce e, alzando un grande baccano, andasse
freneticamente a bussare alle porte. Bisognava attendere l’alba perché
calasse nuovamente il silenzio e subentrasse la malinconia dell’anno
passato. Lamentava anche la scomparsa di una tradizione che omaggiava i
defunti che si diceva facessero ritorno proprio il 31 dicembre, qualcosa che
è giunto fino ai giorni nostri attraverso una serie di indizi che tuttavia non
tutti riescono a decifrare.
«Ecco dunque – scriveva Kenkō Hōshi – che il cielo in questo primo
giorno dell’anno non sembra diverso dal giorno innanzi, eppure si ha
l’inebriante sensazione che ogni cosa sia mutata. Lungo le vie principali
tutte le porte sono adorne di pini augurali, e c’è un’aria di vivacità e allegria
che tocca profondamente il cuore». Faceva riferimento alle composizioni di
varia grandezza che ancora oggi addobbano gli ingressi dei palazzi, che si
attaccano sulle porte esterne o interne di una casa. Basta attraversare adesso
la strada dalla stazione gremita di Harajuku, scivolare anche di poco sul
viale alberato di OMOTESANDŌ , percorrere all’inverso la strada che conduce
a getto continuo persone verso l’ingresso del parco di Yoyogi, per notare
kadomatsu – maestose decorazioni fatte di pino, tronchi di bambú,
fioriti rametti di pruno – ritti a destra e a sinistra dei portoni di esercizi
commerciali e di semplici edifici, in ricchissime composizioni davanti ai
negozi di alta moda. Tempestano il largo viale che continua per centinaia di
metri, calando in una dolce pendenza fino all’omonima stazione della

18
metropolitana.
– Servono a far sí che gli spiriti degli antenati, le divinità che scendono
dalle montagne nell’ultima notte dell’anno, non smarriscano la strada e
giungano fino a noi.
– E perché servono proprio queste foglie agli dèi? – mi chiede Sōsuke.
– Perché si dice che loro dimorino sugli alberi di pino.
– E questi? A cosa servono questi?
Questi sono, nelle parole del mio bambino metà giapponese metà
italiano, gli shimekazari , decorazioni piú elementari nella
composizione e nel volume che si affiggono alle porte di casa e scacciano
gli spiriti malvagi, scongiurando l’ingresso di sciagure e calamità. Sono fatti
principalmente di paglia intrecciata, di felce, di spighe di riso ed esibiscono
arance nel mezzo. Una forma ancora piú semplice, che ricrea un mero anello
di paglia e decorazioni di carta, si pone invece in prossimità dei luoghi in
cui si usa l’acqua, ovvero il bagno e la cucina nelle abitazioni private.

19
20
Ho ancora nelle narici l’intenso profumo che si è sparso in soggiorno
mattine fa quando, dopo averli acquistati dal fioraio davanti alla stazione, li
abbiamo scartati con i bambini, ammirandoli a lungo prima di attaccarli e
cambiare cosí il volto di certi angoli della casa.
Le parole in giapponese sono giochi, suoni che si attaccano a una forma e
non perdono tuttavia la loro sonora identità, schiacciati dalla predominanza
della vista. Cosí matsu è il pino ma è anche il verbo che veicola l’attesa
(si legge matsu anche «aspettare» o il sostantivo «fine» ). E come
scriveva Kenkō Hōshi, è proprio in questa notte che attendiamo il ritorno dei
defunti, notando ovunque queste decorazioni belle che profumano di pino le
vie di Tōkyō e che colorano di verde gli ingressi.
Che esse guidino il passo degli antenati, che li riportino a noi.

Le prime parole, le prime cose dell’anno.

Dalla mezzanotte, a Tōkyō e in tutto il Giappone, ci si scambia nuove


parole.
Fino a un minuto prima ci si diceva yoi otoshi wo e ora la
formula diventa akemashite omedetōgozaimasu
. Tradotte in italiano, suonano banalmente
sempre «Buon anno!» Fondamentalmente il primo è l’augurio di trascorrere
un buon «passaggio di anno», intendendo la preparazione al Capodanno e
alla notte, mentre l’altro si pronuncia quando quel passaggio, l’attimo in cui
si entra nel nuovo anno, è già trascorso.
Nonostante il freddo sia rigido, e Tōkyō si prepari a un irrigidirsi
ulteriore tra la fine di gennaio e febbraio, alcuni si sono lavati le mani con
quel mestolo d’acqua che, all’ingresso dei santuari, purifica e prepara al
contatto con la zona sacra, altri – anziani soprattutto – hanno anche portato
l’acqua alla bocca, perché la tradizione vorrebbe che la purificazione
riguardasse anche l’interno del corpo.
I treni continuano intanto a rovesciare come scrosci di pioggia persone
nella stazione di Harajuku. La metropolitana sarà in funzione tutta la notte,
per permettere di celebrare lo hatsumōde , ovvero la «prima visita al
santuario». Questo modo di ritualizzare il passaggio di testimone dell’anno è
costume che non abbia sulle spalle piú di circa centoquaranta lune e pare
debba la sua nascita proprio alla prima rete ferroviaria di Tōkyō, il cui tratto

21
originario collegava Yokohama a Shinbashi, lí dove c’è uno dei santuari piú
famosi del paese.
– E dopo? Dopo la preghiera cosa succede? – mi chiede ancora Sōsuke.
Un’altra tradizione vuole che si assista al levarsi del primo sole, all’alba
del nuovo anno. Alcuni vanno verso Odaiba e la baia di Tōkyō; io invece
ricordo una corsa di notte sulle carrozze della linea Shōnan-Shinjuku, le
strisce verdi e arancioni della fiancata del treno che, in meno di un’ora, ci
condusse dalla stazione di Shinjuku alla SPIAGGIA DI KAMAKURA, per
seguire la storia del sole che sorgeva dal mare e annegava di rosa
l’orizzonte. Lí si stagliava il profilo dell’isoletta di Enoshima, luogo del
primo appuntamento con Ryōsuke, con la sua striscia di terra sulla destra e il
monte Fuji, immenso, subito dietro. C’erano nibbi che volavano alti, a
pattugliare il cielo, e poi scendevano giú in picchiata, per rubare agli
sprovveduti turisti ogni sorta di cibo: onigiri, tramezzini, piccoli dolci tipici
della stagione come gli ichigo-daifuku, una pasta di riso in cui viene
immersa una fragola intera.
La prima preghiera al tempio, la prima alba. Tutto si annida nell’inizio, e
tutto in questi particolari giorni di gennaio in Giappone è hatsu , «primo»,
nel prefisso o suffisso che può adattarsi a ogni cosa.
Ecco allora il primo pasto dell’anno, la prima risata, il primo libro che si
decide di sfogliare, oppure il kakizome , che è letteralmente «la
prima cosa che si scrive» e, insieme, i proponimenti per i mesi a venire. Il
primo bicchiere d’acqua che ci si versa ha persino un suo nome: è waka-
mizu (dai kanji affiancati di «giovane» e «acqua») e si dice allontani il
malocchio, fungendo da purificazione. Bisognerebbe offrirlo alle divinità
dell’anno e usarlo per preparare il cibo rituale del Capodanno.
Io tuttavia mi sveglierò che farà troppo freddo per pensare di bere
dell’acqua. Le case giapponesi sono riscaldate soltanto nelle zone da giorno,
e in corridoio e in bagno spesso si gela.
Ryōsuke si affaccerà in cucina. – Cosa hai sognato? –domanderà ridendo.
– Non lo ricordo purtroppo… e tu? Falchi? Melanzane?
– Non mi pare proprio.
Hatsu-yume è il primo sogno dell’anno, quello che deciderà la
buona sorte dei dodici mesi e che richiede si pensi intensamente a
melanzane, falchi oppure al monte Fuji; non lo si dovrà fare però questa
notte, ma domani, tra il 1° gennaio e la mattina del 2, o nella notte
successiva.

22
Dall’antichità si dice ichi fuji ni taka san nasu-bi ,
«Uno, il monte Fuji; due, i falchi; tre, le melanzane». Qualunque fra questi
tre simboli di fortuna si vedrà nei sogni dell’1 o del 2 gennaio garantirà
successo e prosperità.
È difficile tuttavia sognare falchi e melanzane, ancora piú complicato
ricordarlo, e quasi impossibile riportarlo con precisione nell’infanzia, in cui
sogno e realtà si fanno tutt’uno. Cosí, sotto il cuscino di Sōsuke e di Emilio,
infileremo piuttosto un’immagine allegra, il disegno della nave del tesoro
delle Sette Divinità della Fortuna (shichi-fuku-jin ), personaggi dai
volti bonari e grassocci che pare assicurino, se non la fortuna, perlomeno un
bel sogno. E poco importa lo si sappia narrare. Bisogna viverle le cose,
anche quando ancora non le si sa raccontare. Altrimenti l’infanzia, cos’è?

La stazione giocattolo.

Ci sono vari modi di accedere al parco di Yoyogi. Il piú noto è proprio


quello che parte da questa deliziosa stazione della Japan Railways.
Realizzata nello stile delle case a graticcio di stampo tedesco, con una
torretta a sormontare gli spioventi incrociati, pare sproporzionata rispetto al
traffico di persone che dispensa a ogni ora, in giorni feriali e festivi. Anche
se sarebbe piú plausibile in una località di villeggiatura come la popolare
Karuizawa, magari immersa nel verde della campagna, la STAZIONE DI
HARAJUKU venne completata nel 1924, quando il quartiere si trovava ancora
fuori dall’anello centrale di Tōkyō, quella antica zona che dal 1896 al 1932
veniva chiamata Toyota-magun e che ora corrisponde orientativamente a
parti delle circoscrizioni amministrative di Shibuya, Shinjuku, Nakano e
Suginami.
Quanto appartiene architettonicamente allo stile Meiji, come questa
costruzione, si tiene in equilibrio su due distinti universi: wa , che è
prefisso di tutto ciò che significa «Giappone» ed è il carattere che piú lo
racconta, e yō , che invece è l’Occidente, in una formula che comprende
indistintamente Nord America ed Europa. Lo stile Meiji li affianca, senza
mai creare uno scontro o un rapporto di predominanza dell’uno sull’altro,
incarnando in fondo il concetto che è alla base stessa del kanji di wa, ovvero
«armonia», «armonizzazione» di elementi anche molto distanti.
La stazione di Harajuku, che si allarga eccezionalmente proprio nei

23
giorni del Capodanno – guadagnando una piattaforma temporanea per
meglio gestire il traffico –, si accorda al viale alberato di Omotesandō, che
venne costruito nello stesso anno. Si privilegiarono gli olmi del Caucaso
(Zelkova serrata) ai piú nipponici ciliegi, proprio per attribuire a quella che
letteralmente era omotesandō , ovvero «la via che conduce al
santuario», un’impronta occidentale, un respiro disteso da promenade
francese. Non a caso si fregia del soprannome di «Champs-Élysées di
Tōkyō».

L’ingresso della tana del Bianconiglio.

Tuttavia basta virare solo un po’ da questo paesaggio, per trovarsi in un


mondo che appare, davvero, un altro mondo.
È facile: basta scegliere l’altra uscita della stazione di Harajuku, quella
che porta il nome di TAKESHITA-DŌRI , per entrare in un universo
parallelo come fa Alice inseguendo il Bianconiglio: è l’ingresso roboante di
questa viuzza gremita ed esuberante, dove generazioni di giovani giapponesi
si immergono nella moda, nei colori piú chiassosi, in un’esagerazione che a
volte rischia di fare tutto il giro e diventare una paradossale omologazione.
Takeshita-dōri è dal dopoguerra terreno fertile per studiosi di costumi
giovanili, per chi è a caccia di nuove mode e cerca sottoculture da studiare,
che però nel definirle, con album fotografici che ne riassumono gli intenti,
ne decreta già in qualche modo la fine.
Ricordo – ormai quasi due decenni fa – le sorprendenti diapositive del
professor Tsuchiya Junji del Dipartimento di Sociologia dell’Università
Waseda, proiettate sullo schermo di una grande aula della Sapienza a Roma:
la sorpresa nella successione di colori e fogge, l’interrogativo soprattutto su
come questi giovani potessero acconciarsi cosí senza avvertire disagio, e
senza la paura di subire canzonature dalle persone. Ricordo l’entusiasmo
soprattutto, qualche anno dopo, nel percorrere le medesime strade, calare
giú per il piano inclinato di Takeshita-dōri, imbattermi in decine di gothic
lolita, visual kei, yamamba e ganguru (ormai quasi del tutto scomparse) e, la
domenica mattina, ritrovare il panorama di musica e attrazione dei
rockabilly, i mitici take-no-kozoku , membri della «tribú dei
germogli di bambú», ormai invecchiati, fieri detentori di uno stile che i
giovani non sapevano già piú articolare. Che meraviglia ammirare le

24
movenze dinoccolate e scattanti di un corpo che danzava al ritmo della disco
music anni Cinquanta, flessuoso nei jeans aderenti e giacche borchiate, la
pelle spesso tatuata e la lunga cresta. Ricordo la gioia di ritrovarvi tendenze
previste e altre ancora da nominare, e il coraggio sorprendente – dovuto
probabilmente alla nostra giovane età e al contagio che spesso scatta nel
gioco – di indossare, Ryōsuke e io, costumi da volpe e da rana, in acrilico e
pile, mia sorella da coniglio e mio cognato da tanuki, in occasione del primo
viaggio della mia famiglia in Giappone. Era un altro Capodanno: undici
anni, due nipoti e due figli fa.
Pare davvero un confine questa strada, Takeshita-dōri: un simbolo
adolescenziale, tempio del cool e del kawaii (letteralmente
«carino»), qualcosa che facilmente si tramuta in una filosofia di vita oltre
che di consumo, tanto che è frequente veder transitare per questa viuzza
classi in gita scolastica, alunni delle medie e del liceo, provenienti dalle
località piú disparate del Giappone, ragazzini per cui il meglio della capitale
non sono il quartiere di Ueno e i suoi musei, non è neppure il Palazzo
imperiale (oltre le cui mura intuire la regale presenza dell’imperatore, il
tennō), bensí l’uscita «delle meraviglie» della stazione di Harajuku e la sua
aggressione sonora e visiva.

Eppure basta superare di pochi passi Marion Crêpes, un fantasmagorico


ristorantino dove la ricchezza dell’offerta in fatto di crêpes fa venire quella
«vertigine della lista» di cui parlava Umberto Eco, e girare a destra, per
scorgere una breve scalinata in pietra, il portale di un santuario e, subito
accanto, un asilo. Ecco l’ampio cortile e, in mezzo, coloratissimi giochi di
bimbi. Si potrebbe rimanere sbalorditi dall’abbinamento tra il silenzio del
luogo di culto e il baccano infantile, ma questo ribadisce invece il rapporto
privilegiato che esiste in Giappone tra santuari shintoisti e asili, e spiega
come anche in una zona «trasgressiva» e turistica come questa abiti gente
comune, normalissimi padri e madri che la mattina presto, quando
Takeshita-dōri è ancora immersa nel sonno o nei postumi di una sbornia,
portano i figli a scuola in bicicletta, la parcheggiano vicino alla stazione, e
poi corrono a prendere il treno per andare in ufficio.

Dal silenzio al «gyaa gyaa».

25
Ragazzini in gita, che considerano Takeshita-dōri una tappa obbligata,
devono aver percorso piú volte i 350 metri in discesa di questa viuzza che
lega, in obliquo, due traverse di Omotesandō. Scommetto non saprebbero
neppure sospettare com’era Takeshita-dōri prima della guerra. Nel 1906, per
esempio, quando la stazione di Harajuku venne progettata.
Se all’inizio del secolo scorso Takeshita-dōri era infatti anonima e
deserta, ora troneggiano al suo ingresso immense decorazioni che
periodicamente vengono sostituite dal comitato di zona. Molte sono state
ideate da artisti famosi, con palloncini, bambolini giganti, elaborati addobbi
di fasce e di nastri, che sono diventati nel tempo il suo segno distintivo,
immancabile scatto su ogni guida di Tōkyō.
Privata dell’ombra e del silenzio, se un tempo era impensabile che al
calar del sole vi potessero passeggiare da sole donne e bambini, adesso il
gyaa gyaa dei giovani risuona a ogni ora e l’assenza di risa e di svolazzi di
stoffa parrebbero invece un’accusa.
Fu proprio la presenza straniera a richiamare i giapponesi in questa zona,
cosí come adesso è l’originalità dei giapponesi a chiamare gli stranieri. La
vedo quasi quotidianamente tornando dal lavoro, dalla ferrovia della linea
Shōnan-Shinjuku o dalla Yamanote, che hanno una vista privilegiata perché
sopraelevate rispetto alla strada. Takeshita-dōri appare effettivamente come
un’onda e scivola giú piuttosto ripida, per risalire immediatamente,
permettendo quindi allo sguardo di addentrarsi in profondità.
Mentre con Ryōsuke percorro questa viuzza densissima di gente e colpi
d’occhio, osservo i piccoli negozi di accessori e abbigliamento che sono
stipati gli uni accanto e sopra agli altri.
– Dieci anni fa era parecchio diversa… – sussurro stupita.
Mano nella mano, Ryōsuke e io torniamo ragazzi. Harajuku ha questo
potere. Di essere spiritualmente altissima e insieme pop, di ispirare
geografie di una storia cosí lontana da venire ormai considerata al riparo
dalla dimenticanza – come il parco di Yoyogi e il santuario Meiji-jingū –, e
una recentissima invece, che non ha nulla di fisso – come Takeshita-dōri o
l’eleganza di Omotesandō.
Se di là della stazione era la tradizione, il verde, la storia, qui invece è la
moda, il passeggero, il superfluo. Ecco, sarebbe sbagliato negarlo,
Takeshita-dōri è proprio questo, la futilità, l’inutilità che si erge a valore, le
urla eccitate dei ragazzi, la gioventú che non si fa domande, che non si
spinge mai troppo piú in là della superficie.

26
Quel che conta, sembrano dire, è adesso soltanto il kawaii, il carino, il
cool. Anzi, è il yasu-kawaii , una nuova parola coniata per
intendere quanto è economico (yasui ) e insieme carino (kawaii
).

La ragazza perfetta.

È bellissima la gioventú che ci circonda, ma un poco stanca. Penso allora


che basterebbe sfuggire alla folla e infilarsi in una viuzza secondaria di
Harajuku, per immaginarsi sul percorso di quella lei e quel lui narrati da
Murakami Haruki nel racconto Vedendo una ragazza perfetta al 100% in
una bella mattina di aprile. Non è aprile, ma la mattina è potenzialmente
perfetta, almeno quanto la ragazza.
Ed ecco, come chiamata, una giovane donna scendere dalla breve
scalinata a sinistra. Ha enormi buste che pendono dalle braccia, una spesa
d’abiti in stile gothic lolita e relativi accessori. Il ghirigoro sugli shopper
recita il nome di uno dei piú di cento negozi di Takeshita-dōri, tra cui
spiccano boutique distribuite sui vari piani di questa stradina, negozi che
propongono abiti di ogni foggia e colore, scelte ardite in stile gaal (girl),
take-no-kozoku ecc.
Forse Murakami pensava a quella minuta traversa, sí proprio a quella che
intravediamo anticipata da una statua di Brahms. Pochissimi sanno che ha
forma serpentina perché un tempo ospitava un corso d’acqua, lo stesso che è
stato poi spostato qui, esattamente sotto i nostri piedi, sotto Takeshita-dōri.
Dicono anzi che l’energia che un tempo pulsava dentro il VICOLO DI
BRAHMS (Burāmusu-no-komichi ) sia stata trasferita
alla sorella piú popolare e ragazzina, e che questo ne abbia determinato il
drammatico calo di popolarità. Il potere calamitante di Takeshita-dōri
verrebbe pertanto anche dalla potente sorgente del fiume Shibuya
che le scivola sotto le scarpe.
Eppure non farei paragoni qualitativi: semplicemente, se Takeshita-dōri
oggi è il miele che attira la gioventú e le blande trasgressioni dello stile dei
postmillennial giapponesi, il vicolo di Brahms è invece il luogo piú adatto
alla generazione dei genitori che, in un ristorante come l’elegante Jardin de
Luseine (ora rinominato La Boulette), si rifugiano per trascorrervi del tempo
indolente, un po’ «antico». Giradischi, vinili, lampade, pianoforti a coda.

27
Cose cosí. È in questo modo che a Tōkyō, a brevissima distanza l’una
dall’altra, due generazioni possono trovare il loro «posto giusto», la forma
perfetta.

Una foresta partorita dalla città.

Tutta la zona di Harajuku era un tempo di impronta militare, quartier


generale dell’esercito giapponese che faceva capo a Yoyogi. Fu dopo la
disastrosa sconfitta nel secondo conflitto mondiale, che essa venne occupata
dall’esercito americano che la denominò Washington Heights. Vent’anni
dopo si sarebbe nuovamente trasformata, divenendo sede del villaggio
olimpico in occasione dei Giochi di Tōkyō del 1964.
Dal dopoguerra in poi, era quindi possibile incontrare per le vie di
Harajuku molti stranieri, intercettare volti e stili di abbigliamento
radicalmente differenti dai propri e che non si vedevano in nessun’altra
parte di Tōkyō. Questo incuriosiva i giovani giapponesi che presero a
frequentarlo, ergendolo a luogo di ritrovo.
Sgorga da qui l’anima piú giovane di questo quartiere in cui convivono le
mode estreme dei ragazzi, le lente passeggiate della Tōkyō benestante che
frequenta le boutique lungo Omotesandō-dōri, e quella piú spirituale che
frequenta il parco di Yoyogi.
Ecco infatti cosa accade quando il passo si allunga oltre i tornelli della
stazione giocattolo di Harajuku e non gira a sinistra, verso Takeshita-dōri,
né oltrepassa l’incrocio andandosi a sciogliere nell’ampio viale alberato di
Omotesandō.
Ecco cosa accade a tenersi a destra, restando appresso al muro e
scivolando oltre il ponte pedonale di JINGŪ-BASHI sotto cui
s’annodano i lacci delle rotaie della linea Yamanote e sopra cui, alcune
domeniche mattina, raccontano che facciano ancora sfoggio di sé sempre
piú rari rockabilly.
Basta seguire il verde e si giunge a una foresta, e la cosa non deve
lasciare a bocca aperta, perché dentro Tōkyō sorge anche una montagna,
anzi due: centosettantamila sono gli alberi a guardia di questo sprazzo di
natura che ricorda come un tempo doveva essere la terra.
È qui, all’ingresso del parco di Yoyogi, il torii piú grande del Giappone,
che nella sua materia conserva la pazienza e la costanza di un cipresso

28
hinoki di circa millecinquecento anni, giunto da Taiwan. Dicono che il legno
continui a vivere anche quando è estirpato dalla terra.
Il maestoso SANTUARIO MEIJI-JINGŪ venne edificato in onore
dell’imperatore Meiji Mutsuhito, che si spense nel 1912, solo due anni
prima che venisse a mancare anche la consorte, l’imperatrice Shōken. Il
ricordo s’insinuò nell’immaginario, poi nell’architettura della capitale, nella
planimetria degli spazi, e i lavori di costruzione del palazzo iniziarono nel
1915 per concludersi in un quinquennio.
Sfiatato il traffico straordinario dello hatsumōde dei primi giorni di
gennaio, ripresi il lavoro e le scuole, tornano a frequentare il parco i turisti,
gli anziani con il cagnolino al guinzaglio, le madri con i piccoli stretti nel
marsupio o seduti tutti infagottati nel passeggino.
Lo stereotipo che vuole Tōkyō capitale soffocata dalla tecnologia e dal
cemento, in cui solo boschi di palazzi risultano rigogliosi, è smentito dai
dati. Secondo le stime fornite dall’Agenzia forestale nel 2012, il 36,3 per
cento della superficie complessiva di Tōkyō è composto da boschi, di cui il
20,2 per cento naturali e il 16,1 per cento artificiali (soprattutto cipressi
giapponesi, hinoki), mentre quella abitata corrisponde al 37,8 per cento. Su
scala nazionale, la percentuale di boschi sale invece al 67,2, quella dei
terreni coltivati al 12 e la superficie abitata resta al 3,4.

Procedo in questo polmone verde, mi lascio alle spalle il maestoso torii


di ingresso e, sotto le suole, scricchiola la ghiaia che accompagna i passi di
ogni camminamento che conduce al tempio. Avanzo difesa dall’ombra
irregolare di alberi di canfora e di Castanopsis, varietà di Arakashi e
Shirakashi, Akagashi, tutti nomi che ripeto senza trovare il corrispettivo
immediato nella mia lingua, arbusti di cui piú di una metà venne donata,
ormai quasi cento anni fa, e inviata da varie parti del Giappone in onore
dell’imperatore Meiji, Mutsuhito: 365 specie differenti, recita una guida,
come se ne esistesse una per ogni giorno dell’anno.
La foresta di Yoyogi è artificiale, che non vale come connotazione
negativa, ma anzi è il segno di come sia possibile creare anziché distruggere
la terra e come basti un po’ di impegno per invertire la rotta. È a tutti gli
effetti una foresta partorita dalla città.
Lo shintoismo lo insegna: tutto partecipa alla vita, tutto vi è immerso. Gli
dèi, i kami , risiedono sulle montagne, ed è per questo che le preghiere si
rivolgono alla natura, senza intermediari. Eppure sono ovunque, come si

29
trattasse di una realtà non tanto posseduta quanto piuttosto condivisa.
Bisogna curare e credere nel divino che dimora in ognuno di questi arbusti.
Bisogna avere cura. Di tutto. Anche del divino che risiede dentro e intorno a
noi.

30
FEBBRAIO

Il mese degli abiti a strati

Kisaragi
Esistono opinioni divergenti sul perché febbraio si chiami cosí. Nel mondo degli
haiku, i caratteri originariamente utilizzati per trascrivere kisaragi erano
(ki, «abiti») (sara, «ulteriore») (gi, «indossare»). Questi kanji descrivevano il
tempo atmosferico, o meglio il nostro rapporto con questo: a febbraio bisogna
indossare piú indumenti sotto e sopra il kimono (koromo ) per difendersi dal
freddo. Per spiegare il fatto che, in questo mese, ci si avvia invece verso il tepore
della primavera, la trascrizione della stessa parola suonava uguale ma sfruttava kanji
diversi: ovvero (ki, «energia, spinta vitale») (sara, «ulteriore») e
(gi, «giungere, arrivare, venire»).

Altri soprannomi, nomignoli e appellativi di febbraio erano hatsuhana-zuki ,


ovvero «mese dei primi fiori», e umemi-zuki , «mese in cui ammirare i
pruni». Tra i moltissimi altri kenbō-getsu , rei-getsu , yukige-zuki
, chūyō , ogusaoi-zuki , ognuno di essi rivelatore, nei suoi
caratteri preziosi, di una diversa sfumatura del mese: lo sciogliersi delle nevi, la
comparsa dei pruni, la nascita dei primi germogli o l’atmosfera radiosa.

Alcune scomode credenze del periodo Edo.

– Da che parte? Di qua oppure di là?... No, sul serio, dov’è che dobbiamo
andare?
– Vuoi dire dov’è che possiamo andare…
– In che senso?

31
Ryōsuke, scherzando, mi racconta di come, a seconda dei giorni,
nell’antica Edo non ci si potesse dirigere, ad esempio, verso nord o verso
sud-est, secondo una credenza di ispirazione taoista che voleva che lo spazio
geografico fosse periodicamente occupato da una divinità. Pertanto, allo
scopo di raggiungere la meta, e dovendo necessariamente aggirare quella
precisa direzione «già occupata» dal dio, si finiva per fare un giro anche
molto diverso da quello stabilito. Se si intraprendevano lunghi viaggi, non
era raro si fosse costretti a chiedere ospitalità per la notte: pare che tutti, in
fondo soggetti periodicamente alla medesima tara, accogliessero la
preghiera e concedessero di buon grado riparo ai viandanti.
In una glossa alle Note del guanciale di Sei Shōnagon, Lydia Origlia
spiega come la temutissima divinità si chiamasse Ten’ichijin («il dio unico
del cielo») e che pareva trascorresse «su ogni sessanta giorni dell’anno, i
primi sedici in cielo e i rimanenti quarantaquattro in terra, divisi in cinque
giorni rispettivamente a est, ovest, sud, nord e in sei giorni a nord-est, sud-
est, sud-ovest, nord-ovest».
– Immagino che agli abitanti di Edo, alla lunga, passasse la voglia di
uscire di casa.

Il «kakizome» nella scarpiera.

Ma adesso dobbiamo uscire, non c’è divinità che tenga: Shinjuku ci


attende!
All’ingresso di casa, in questa strettoia in cui il capriccio dei bimbi è
sempre in agguato, le scarpe sono tutte incastrate: quelle di Ryōsuke, le mie,
quelle minuscole e piene di disegni dei bimbi. Mentre sfilo stivali da pioggia
dalle scansie e un odore di gomma si spande tutt’intorno, intravedo il mio
kakizome: il foglio su cui la notte di Capodanno ho scritto caratteri
benauguranti, come fuku e kotobuki , e ho segnato, con pennello e
inchiostro, gli obiettivi dell’anno. Originariamente pare fosse un rituale
della corte imperiale, ma poi, nel periodo Edo, si è diffuso tra la gente
comune.
Benché sia poco ortodosso, ho voluto appendere qui il kakizome,
all’interno della scarpiera in ingresso, in questa ideale cerniera tra l’interno e
l’esterno, soglia varcata la quale, nelle case giapponesi, si abbandonano i
passi, li si denuda e inizia il vero relax, qui dove la casa saluta, dice

32
itterasshai (Buona giornata, buon lavoro!) È appeso qui dove può vederlo
solo chi abita in questa casa e dove mi ricorda il perché delle mie sveglie
alle 4.44, le occhiaie, la luna enorme nel cielo spalmato oltre la soglia.
C’è un bell’haiku di Masaoka Shiki in cui si staglia placido il parallelo
tra il mare e l’inchiostro, l’incontro tra il pennello e il silenzio della carta
nella mattina del kakizome: hatsuhi sasu suzuri no umi ni nami mo nashi
: «Prima alba dell’anno | la ciotola da
inchiostro | mare, senza onde». La traduzione è di Cristina Banella, che di
Masaoka Shiki mi ha fatto innamorare negli anni.

Ha nevicato e Tōkyō è avvolta in una pellicola di luce che già inizia a


sfaldarsi. Voglio mostrare la neve ai bimbi prima che si sciolga… ma
soprattutto voglio vederla io! Amo la neve ma, dopo averla desiderata a
Roma per tutta l’infanzia e l’adolescenza, la storica nevicata del 2012 nella
capitale italiana me la sono persa. Ancora oggi non me ne do pace.
SHINJUKU significa «Nuovi alloggiamenti», un nome che le è stato
attribuito nel XVII secolo e si riferiva all’esigenza di nuovi stanziamenti:
sorse grazie al sankin kōtai , un astuto sistema ideato dai
Tokugawa, la famiglia di shōgun alla guida del governo feudale per piú di
due secoli, che di fatto costringeva i signori delle prefetture a creare una
seconda residenza a Edo, dove soggiornare ad anni alterni, lasciando
scoperta per lunghi periodi l’amministrazione delle loro terre. Per allestire
quella doppia residenza, i signori delle prefetture (daimyō) intaccavano il
proprio patrimonio, stavano lontani dai familiari, che rimanevano in
ostaggio a Edo, e finivano per indebolire il loro potere. Quello centrale, dei
Tokugawa, ne godette invece immensamente, a dimostrazione della
genialità dell’idea che stava nell’isolare potenziali rivali, renderli
geograficamente vassalli, non fargli mai dimenticare la subalternità del
proprio ruolo.

La stazione di Shinjuku sembra una torta a tre fette: Shinjuku Ovest,


Shinjuku Est, Shinjuku Sud. E tuttavia ognuna di esse è a sua volta
frammentata in multiple uscite, alcune in sotterranea o inglobate in grandi
magazzini, altre che conducono in superficie. La quarta direzione se la
mangia invece il laccio di binari che conduce verso Nakano: l’uscita nord a
Shinjuku non esiste.
Le differenze tra le due zone principali, ovest ed est, sono intuibili già

33
solo osservando distrattamente una mappa del quartiere. Shinjuku Ovest è
una scacchiera di ricchi edifici, tra cui spicca la torre Cocoon (Mode Gakuen
Cocoon Tower), sede di tre scuole, di moda, di design e di medicina. La
sagoma che cattura lo sguardo e rende subito riconoscibile il quartiere è
chiamata «il nido», Cocoon, che è esattamente quello a cui pensava Tange
Kenzō quando la progettò: rametti, paglia, frattaglie di mondo, un luogo
confortevole dove prepararsi a spiccare il volo.
Se Shinjuku Ovest, vista dall’alto, è una rete a maglie larghe e regolari,
Shinjuku Est le maglie le ha strettissime, pare un intreccio in cui passa a
malapena lo sguardo.
Shinjuku Ovest, a vederla sulla cartina, sono grossi blocchi, strade
imponenti, spazio che cola dovunque, insieme alla luce che le precipita
addosso. I grattacieli paiono essersi comprati un palco, non solo lo spazio
che occupano fisicamente, ma anche quel tunnel d’ombra perenne che
gettano intorno a sé, come lancette giganti di un mastodontico orologio
solare. A Shinjuku Est, invece, le strade sono come capillari sul viso di un
vecchio.
Se Shinjuku Ovest, per via delle immense vetrate che restituiscono il
riflesso, ha il cielo sempre addosso – l’azzurro e le varie gradazioni del blu e
del grigio di giorno e l’arancio serale che pare rifrangersi all’infinito in una
sorta di ping pong tra le superfici dei grattacieli –, Shinjuku Est è invece
imbrattata di mille colori, insegne iridescenti, tanto che ogni scampolo di
spazio pare a sé, come assemblato alla meglio da piú generazioni, ognuna
con gusti e interessi differenti.
Tanto è linda e tirata a lustro Shinjuku Ovest – con i suoi alberghi a
cinque stelle e i bar che guardano il mondo dall’alto –, cosí Shinjuku Est sa
essere sudicia e volgare, sembra prenderci gusto a fare incetta di devianze
ed errori. A Est c’è, infatti, Kabuki-chō, c’è Golden-gai, c’è per certi versi il
peggio di Tōkyō. E tuttavia io la percepisco soprattutto come una zona di
fragilità, di gente che è stata scalzata dal corso principale della vita per esser
spintonata verso i margini, magari per una situazione familiare complessa.
Da quando sono madre, avverto la consapevolezza di come siano tutti
figli di qualcuno, di come tutti siano partiti dallo stesso grado zero
dell’esistenza: una constatazione ovvia, eppure spaventosamente dolente che
mi rende certi aspetti di Tōkyō meno facili da giudicare.
A Shinjuku Ovest, però, c’è anche la sede centrale della storica catena di
librerie Kinokuniya, ci sono i grandi magazzini di Isetan, splendidi nei

34
dettagli, ricchi di storia; c’è il gioioso grande schermo di Alta ma anche
piccole sale, cinema d’essai. E santuari, che vibrano di Storia e di storie.
Tutto quello che si cerca di definire con un compasso e una riga, insomma,
come sempre finisce per svincolarsi, per mescolarsi, per partorire un mondo
nuovo di zecca. In tal senso Shinjuku è esemplare: c’è l’alto e c’è il basso, e
forse proprio per questo è affascinante.

Osservatori.

Ma ecco che siamo arrivati, e davanti a noi compare Shinjuku no me


: «L’OCCHIO DI SHINJUKU».
Questo intaglio di vetro si trova all’uscita ovest, sul lato del Fukutoshin
Building, nel sotterraneo Subaru-biru. Immenso (3,4 metri di altezza per 10
metri di larghezza), è perfetto per scatti di moda, di quelli grazie a cui
raccogliere apprezzamento sui vari profili social. La pupilla azzurra, il
bianco che è giallo, tagliato in fette sottili come una mela; nel dotto
lacrimale, del verde.
Protagonista di molte tavole manga, l’occhio è stato realizzato da
Miyashita Yoshiko nel 1969. Il palazzo che ne ha deciso in qualche modo il
nome è famoso per essere luogo d’incontro di addetti ai lavori dell’ambiente
televisivo che da qui partono per andare a fare riprese in esterna. È tuttavia
un tratto di strada che comunica fretta e non tantissima gente si ferma a
scattare una fotografia. Adesso c’è solo una giovane donna sottile sottile
come una bacchetta che mima la sforbiciata di una persona che corre, il
ginocchio piegato, lo stivale alzato, la posa allegra e scanzonata di un
Benigni-Pinocchio. L’amica, davanti allo schermo del cellulare, la guida con
la mano (un po’ piú in qua, un po’ piú a destra): basterà un istante e quella
figura con il paraorecchie di pelo sintetico si trasformerà in una forbice
aperta, stagliata sopra la pupilla dell’occhio di Shinjuku.
L’effetto è spettacolare.
Ci fanno un rapido cenno del capo, come a scusarsi del tempo impiegato.
Sōsuke, sciolto dalla stretta con cui lo trattenevamo, prende a correre e a
strusciare le manine sulla superficie di vetro.
– Un occhio gigaaaaante, – ripete tirando la a come un marshmallow.
– Sei tu che lo guardi, o è lui che guarda te?
La domanda resta senza risposta.

35
Da qui, bastano dieci minuti e si raggiunge il MUNICIPIO DI TŌKYŌ,
l’imponente palazzo dell’amministrazione metropolitana chiamato Tochō –
completato nel 1990 dopo che quello a Yurakuchō era diventato
insufficiente. Negli anni dell’università andavo spesso a scrivere lí,
dall’osservatorio a 202 metri d’altezza, nella torre nord del grattacielo dove
c’è, al centro del piano, un caffè. Mi ispirava, mi faceva sentire vicina
eppure «sopra le righe» di Tōkyō, sul margine di un foglio da cui ammirarla.
E oggi, con Ryōsuke e coi bimbi, è lí che siamo diretti, per vedere che
effetto fa osservare dall’alto questa città bianca di neve.
Il municipio ha un’altezza complessiva di 243 metri e al momento del
suo completamento si fregiò della denominazione di edificio piú alto del
Giappone. I materiali esterni, nelle parti piú scure sono svedesi, in quelle piú
chiare spagnoli; l’interno vanta invece marmi italiani. Ogni dettaglio è
accuratamente studiato: tutto si ispira esteticamente a un tipo di design wa,
alle porte a grate giapponesi, agli shōji, i passaggi scorrevoli con intelaiature
di legno e carta traslucida tipici delle case tradizionali. Finí per costare circa
157 bilioni di yen e fu soprannominato «Torre della Bolla» proprio per
intendere l’opulenza che dominò il Giappone a cavallo tra gli anni Ottanta e
Novanta, e che rese possibile la realizzazione di un progetto tanto
ambizioso.
Nel bosco dei grattacieli di Shinjuku Est, l’edificio che ospita il
Municipio di Tōkyō lo si riconosce immediatamente, per la sua struttura a
doppia torre sul modello della cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Ha una
compagine che procede diritta e che, d’un tratto, si piega virando di 45
gradi, acquistando drammatica tridimensionalità al tramonto.
Tange Kenzō vinse il concorso per la costruzione dell’edificio nel 1986,
e nel frattempo Tochō è diventato luogo turistico per eccellenza. Soprattutto
per via del suo stupefacente, doppio osservatorio. Anche noi oggi, del resto,
siamo qui per questo. L’ingresso è gratuito e, a seconda dei giorni e degli
orari, risulta congestionato, soprattutto negli ultimi anni in cui sono
aumentati a dismisura gruppi di turisti cinesi. Anche le norme di sicurezza si
sono fatte piú severe.
Noi siamo però fortunati: oggi c’è pochissima gente. Nell’ascensore,
progettato a suo tempo per comunicare un lampo di futuro – luci e bottoni
come nella stanza dei comandi a bordo di un’astronave –, ci si tappano le
orecchie per la velocità.
– Waaa!!! – esclama Sōsuke divertito.

36
– Waaa!!! – facciamo eco noi.

Tōkyō innevata, Tōkyō sconfinata.

Febbraio è il mese del setsubun , ponte stagionale tra l’inverno e la


primavera. È il mese in cui nevica piú abbondantemente, e a Sapporo, nel
Nord del Giappone, si tiene il maestoso Festival della Neve che richiama
decine di migliaia di persone a contemplare le mastodontiche statue di
ghiaccio e di neve allestite nel parco della città.
Pare che nei periodi Edo e Meiji la gente della capitale si riversasse nelle
strade dopo abbondanti nevicate per ammirare il paesaggio ingentilito da
tutto quel candore. Come tra marzo e aprile risuona insistente sulla bocca
dei giapponesi la parola hanami («ammirare la fioritura», dal kanji di
«fiore», affiancato a quello di «vista») e in settembre tsukimi
(«contemplare la luna» dal carattere di «luna» insieme, di nuovo, al verbo
«vedere»), in inverno era ricorrente la parola yukimi , che accosta
all’«osservare» il soffice ideogramma di «neve».
A quel tempo, infatti, la gente stabiliva i luoghi piú suggestivi (e quindi
famosi) dove ammirare la neve, fondava una sorta di nuova mitologia dello
sguardo: il paesaggio al di là del fiume Sumida, ad esempio, oppure il
profilo innevato di Mukō-jima o del monte Matsuchi-yama, e piú in
generale la vista di tutti quei templi e santuari arroccati su alture, che
avevano il merito di amplificare il dominio dell’occhio sul paesaggio
investito dal bianco.
Tuttavia, sul finire del mese, ecco già i boccioli di pruno scucirsi dal
ramo e prendere piede nella fantasia dei tokyoti.
Le stampe ukiyo-e che, come gli haiku, possiedono i loro kigo
(ovvero tutte quelle parole che aiutano a inquadrare una stagione) dipingono
febbraio con coltri di neve e con il carminio di pruni. Mettono anche in
primo piano bellissime donne, secondo lo standard del tempo, con il kimono
ad avvolgerne elegante le figure, le carni sode, i capelli corvini e le morbide
acconciature che lasciavano sgombra la fronte. Ecco allora che febbraio è tre
cose: la neve, i pruni, le donne.

Appena la voce annuncia il piano d’arrivo, le porte dell’ascensore si


spalancano e la hostess ci fa defluire nell’osservatorio del Municipio,

37
stringo forte la mano di Sōsuke. – Vieni a vedere! – gli dico.
Esiste un’altra parola che convoglia un’abitudine culturale e spirituale
del Giappone, e che tanto somiglia a hanami, tsukimi e yukimi, ovvero fujimi
. Qui, a precedere il kanji di «vista» ( ), a essere insomma
ammirato, è il MONTE FUJI .

38
39
Ricordo che anche da sola, quando venivo a scrivere o a riparare
semplicemente giornate un po’ storte, era mia abitudine correre subito là,
alla vetrata di destra. Come superando una serie infinita di ostacoli, una
distesa sterminata di vite e di palazzi, scorgerlo netto, sul fondo, come una
linea tracciata su una lavagna, mi riempie ogni volta di gioia. Sorrido
quando ripenso a come da studentessa ne avessi persino frainteso il nome:
«Fuji-san, Fuji-san» lo sentivo chiamare, convinta fosse il suffisso di
«signore». «Ci si rivolge a lui come a una persona, – mi dicevo, – che buffo!
Come Nakamura-san o Tanaka-san, con tutto il rispetto che gli si deve».
Solo piú tardi, a lezione, avrei scoperto che, banalmente, quel san finale
corrispondeva alla lettura cinese del kanji di montagna .
Con il monte Fuji fu amore a prima vista, ed è cosí per tutti. Me ne
accorgo la mattina quando, per quanto affollato possa essere un treno e per
quanto scomodo possa essere il proprio posto nella carrozza, le persone
alzano gli occhi dal giornale, dal libro o dallo schermo, come chiamate da
una voce silenziosa. Nel momento in cui si vede stagliarsi all’orizzonte il
monte Fuji, ci si sente profondamente bene, come constatando la presenza di
uno spirito benevolo, di un nume tutelare che veglia su di noi. Ciò è dovuto
in buona parte al fatto che non è affatto ovvio che si mostri – per la nebbia,
le nuvole, il tempo che cambia. Ci si sente fortunati a vederlo.
In una nota a Parole sul trasferimento del banano del poeta Matsuo
Bashō, si racconta come nell’antica Edo nessun palazzo superasse i due
piani e che questo faceva sí che tutti potessero vedere la cima del Fuji; si
narra però anche dell’eruzione che fece scappare la popolazione verso i
boschi, del terrore al pensiero che stesse per scoppiare la fine del mondo. In
un passo di Un viaggio chiamato vita, Banana Yoshimoto riferiva d’altronde
una conversazione di tutt’altro tenore avuta con un amico. «Beato te che
avevi ogni giorno davanti agli occhi il bel panorama del Fuji...» gli diceva
gelosa, ricevendo tuttavia in risposta un «Non scherziamo! Era spaventoso!»
La percezione del bambino era infatti tutta rivolta alla possibilità che
eruttasse, alla paura che scalzava via, senza neppure metterla in conto, la
bellezza.
Fu comunque proprio nel periodo Edo che, per dare a ognuno la
possibilità di scalare il monte Fuji (e ottenere cosí i potenti benefici che si
credeva ne derivassero), vennero create delle sue versioni in miniatura. Si
trattava di collinette, ammassi di terra e di rocce posizionate ad hoc, in un
percorso simbolico che rendeva accessibile ad anziani, bambini e persone

40
con difficoltà motorie o limitazioni economiche la sacra bellezza del Fuji.
Di queste riproduzioni, chiamate fuji-zuka , ne esistono piú di
quaranta nella sola Tōkyō, le piú imponenti delle quali richiedono tra i due e
i tre minuti per guadagnare la cima. Ve n’è una, ad esempio, nel santuario
Shinagawa-jinja a pochi passi dalla stazione di Shin-baba, un’altra al
santuario Komagome-Fuji-jinja a dodici minuti a piedi da Komagome, o
altre ancora nel quartiere di Sendagaya e Shimo-ochiai.
– È stupendo, non trovate? – dico ai piccoli e grandi uomini dietro di me,
indicando il profilo del Fuji coperto di neve. – Io, solo a guardarlo, mi sento
felice.
La natura ha tante parole e il giapponese dà il meglio di sé nella sua
descrizione; pare espandersi all’infinito, quasi allungando al limite le
braccia per accoglierla tutta: questa lingua punta sull’unica cosa destinata a
restare.
Si dice che si possano leggere le nuvole sul Fuji come avvisaglie del
tempo, un annuncio di pioggia come di un cielo sereno. Sfogliando un
vecchio libro in casa di Ryōsuke, ho scoperto che le nuvole sul monte Fuji
hanno un nome preciso, e che si dividono in due macrocategorie: kasa-
gumo, ovvero «nuvole che coprono come un cappuccio la cima» (di cui
fanno parte renzu-gasa «lente convessa», nikai-gasa «a due piani», ohiki-
gasa «di cui resta la scia, tirata per la coda, che si trascina», tosaka-gasa
«cresta», ware-gasa «spezzata, incrinata», hisashi-gasa «gronda, tettoia»,
kaimaki-gasa «spesse e imbottite come un kimono da notte», hanare-gasa
«staccate, discoste [dalla cima]»), e tsurushi-gumo, ovvero «nuvole appese,
che calano dall’alto» (tra cui nami «onda», hachi «vaso, ciotola, scodella»,
gyōseki «condensazione», tsubasa «ala»).
Ryōsuke è quello che in famiglia condivide con me questa passione
insana per il linguaggio. Con Sōsuke guardo il cielo e vedo animali, ma con
lui non posso dire kumo-ma , che è lo squarcio che si apre in una coltre
di nuvole, la divaricazione in un banco di nubi, né kumo-ashi , che è il
movimento delle nubi, che combina l’ideogramma di nuvola e piede,
gamba.
Con i bambini mi sono imposta di parlare solo italiano.

È sempre tanta l’emozione di vedere Tōkyō dall’alto, il suo essere


sconfinata, il riconoscere luoghi come volti su una vecchia fotografia.
In una scena di Tōkyō Monogatari (1953) di Ozu Yasujirō, una donna si

41
rivolge al marito: – Guarda quanto è grande Tōkyō. Se ci perdiamo, non ci
ritroveremo mai piú, – gli dice. L’aver condiviso una vita, l’aver avuto
persino cinque figli, non conterebbero nulla, l’immensità della città
comunque li ingoierebbe e loro non si rincontrerebbero piú. Senza l’aiuto di
cellulari, di navigatori o di persone, privi di punti di riferimento, accadrebbe
ovunque probabilmente, ma a Tōkyō l’evidenza è schiacciante: mettici
l’assenza di nomi per quasi tutte le strade, la vaga somiglianza delle zone e
delle viuzze, la familiarità ambigua che comunicano le stazioni, i trentasei
milioni di abitanti.
Quando in estate scopro un insetto a vagare nel vagone di un treno,
magari mentre con le zampette si accerta della consistenza del vetro – già
ormai a chilometri di distanza dalla sua precedente esistenza e
probabilmente incapace per sempre di farvi ritorno –, ripenso a quella scena
di Tōkyō Monogatari.

Rituali di «setsubun», orchi e fagioli.

Oltre alla splendida fioritura dei pruni – che si può ammirare in un


celebre parco come Shinjuku Gyoen o durante un suggestivo festival come
al tempio Yabo Tenmangū a Kunitachi da metà gennaio a marzo – e oltre a
gustare cose eccellenti come gli spiedini di tōfu e konnyaku chiamati
dengaku, gli inari-zushi o il tenpura di shirouo, febbraio è in Giappone un
mese affollato di ricorrenze.
Ieri, per dire, è stato setsubun, celebrazione che cade ogni anno il 3
febbraio e che, originariamente, segnalava semplicemente il cambio di
stagione. Anticamente, infatti, erano denominati cosí tutti i giorni precedenti
a risshun , ovvero il primo giorno di primavera secondo il calendario
lunare (4 febbraio), rikka , il primo giorno d’estate (6 maggio), risshū
, il primo d’autunno (8 agosto) e il primo d’inverno rittō (8
novembre), diciture che si trovano ancora trascritte su ogni agenda o
calendario.
Setsubun assunse la forma e le divertenti caratteristiche attuali in
connessione con l’usanza di «demoni e fagioli» chiamata tsuina ,
che è parte dei rituali dell’ultimo giorno dell’anno. Effettivamente, in molte
cose, setsubun e Capodanno coincidono, anche nelle spiegazioni che si
trovano illustrate nei dizionari. Ciò è giustificato dal fatto che

42
essenzialmente, secondo il calendario lunare, era proprio in questi giorni che
cadevano le celebrazioni per il nuovo anno.
E tuttavia, al di là dello studio di cosa esattamente sia setsubun, quel che
resta nella memoria ogni anno, ciò che amano specialmente i bambini, è
mame-maki , ovvero l’usanza di gettare fagioli di soia nelle stanze
della casa per cacciare il malocchio. È un grande trambusto, un adulto finge
d’essere l’oni , ossia l’orco, indossa una maschera spaventosa spesso
disegnata dai bimbi stessi, e i fagioli chiamati fuku-mame ,
letteralmente «fagioli della fortuna», finiscono ovunque. Li si ritrova anche
dopo mesi, in luoghi a dir poco bizzarri. Durante il precedente trasloco
ricordo ne trovammo sotto la lavatrice, nella scatola delle decorazioni
natalizie, dietro la libreria, persino in fondo a un cassetto di biancheria.
Pare che mame-maki lo abbiano fatto anche all’asilo, con le maestre
travestite da demoni e tutti i bambini intenti a gettare fagioli contro di loro.
Sōsuke è tornato a casa con un doppio lavoretto, una maschera da oni
colorata di arancio, i ricci di lana, i cornini di carta, e un contenitore per i
fagioli talmente bellino da guadagnarsi un posto speciale nell’ingresso.
Di questi rituali del setsubun esistono versioni pubbliche in santuari
come Naritasanshinshō-ji a Narita o Asakusa-ji, in cui il personale del
tempio e personaggi famosi del jet-set giapponese gettano fagioli sulla folla.
Ad Asakusa-ji, in occasione del setsubun, si svolge la danza dei Sette Dèi
della Fortuna che, trasformati in pupazzi, si esibiscono sul palco per il
divertimento di tutti. E poi, ancora a Zōjō-ji, ai piedi della Torre di Tōkyō, o
nel tempio buddhista sul monte Takao, il Takao-san Yakuō-in.
E allora, come vuole l’usanza del setsubun, anche noi abbiamo
spalancato la porta di casa e a gran voce abbiamo strillato: – Fuku wa uchi!
Oni wa soto! «Fortuna, dentro! Orchi, fuori!» Bisogna
serrarla subito dopo, la porta, però, affinché i demoni che sono usciti
(liberando la casa dal malocchio) non rientrino di nascosto.
– Veloce, veloce, – abbiamo gridato ai bambini. Emilio altalenava il peso
del corpo da una gamba all’altra, emettendo una sorta di verso da belva,
mentre Sōsuke correva come un pazzo per casa urlando e tirando fagioli.
L’emozione è stata talmente tanta che c’è stato bisogno di sorvegliarli nel
sonno, per evitare che – sognando – rotolassero fuori dal futon.
L’usanza di gettare i fagioli di soia nasce dalla credenza per cui lo spirito
dei cereali e delle granaglie, presente all’interno dei chicchi, tiene alla larga
i demoni. Un’altra interpretazione vuole invece che discenda da una diversa

43
trascrizione della parola «fagiolo» in giapponese, lí dove mame potrebbe
anche scriversi come «occhio del maligno» , sinonimo di mamono
, ovvero «cosa/creatura del diavolo/maligna».
Dopo aver gettato i fagioli abbiamo pregato per un anno senza malattie e
danni, e ogni membro della famiglia ne ha mangiati tanti quanti sono i
propri anni – tenendo tuttavia conto del fatto che in Giappone ne va
tradizionalmente aggiunto uno alla propria età anagrafica per via del sistema
kazoe-doshi (che sottintende che si nasce già con un anno di vita
sulle spalle).

Per cena, neanche a dirlo, fagioli. L’eccitazione è nuovamente salita alle


stelle quando ho tirato fuori l’ehō-maki , quello spesso rotolo di riso
avvolto in alghe essiccate nori e ripieno di un’ampia varietà di ingredienti
tagliati a listarelle come kanpyō, funghi shiitake, pesce a granuli, frittata
tamago-yaki, cetrioli. Nell’immediata prossimità di questa festività si
vendono ovunque, nei negozietti di sushi, nei supermercati: li si può notare
già da gennaio su sgargianti poster attaccati fuori e dentro ai konbini che
invitano i clienti a ordinarli per tempo.
Ricordo che lo preparai una volta per Ryōsuke, quando eravamo da poco
sposati. Il riso per sushi, caldo, nel tipico contenitore di forma circolare,
l’aggiunta di aceto, zucchero e sale, il profumo delle alghe tostate, il makisu
di bambú steso sul tagliere, i goffi tentativi di stratificare la pellicola di
alghe; e poi il riso schiacciato con la paletta e al centro i troppi ingredienti.
Finii per arrotolarlo prima del tempo, i chicchi mi si appiccicarono su tutte
le dita, e sulla punta dei capelli. E voilà, il risultato: piú che un ehō-maki a
me parve mi fosse riuscita una perfetta dichiarazione d’amore.
– Bisogna mangiarlo in religioso silenzio, tutto intero e senza
interruzioni. Sí, zitti zitti fino alla fine. E soprattutto bisogna tenerlo rivolto
di là come un flauto, senza girarsi né ridere, – ho spiegato a Sōsuke,
consegnandogli una versione in miniatura del nostro enorme ehō-maki. Ogni
anno la direzione fortunata cambia e, per scoprirla, basta leggere il foglietto
infilato nella confezione dei rotolini oppure cercare in rete.
– Devi pensare forte forte a una cosa che desideri, e mangiarlo tutto. Se si
pronuncia anche solo una parola mentre lo si mangia, la fortuna scappa via!
Mi raccomando! – ho concluso, fingendo serietà.
Emilio lo ha tenuto in braccio Ryōsuke, nel vano tentativo che non
strappasse l’ehō-maki di bocca a suo fratello.

44
Sentendo mia suocera per il weekend, ho scoperto invece che a casa loro
si mangerà sí un piccolo involto, ma soprattutto si berrà il fuku-cha ,
«tè della fortuna», inventato per misericordia nei confronti degli anziani per
i quali, soprattutto se particolarmente longevi, mangiare tanti fagioli quanti
sono i loro anni può costituire una inaffrontabile prova.
Nella miscela di questo tè, immancabili, i fagioli, la prugna umeboshi, le
alghe konbu e altri ingredienti che garantiscono si godrà degli stessi effetti
benefici dei fuku-mame.
Ancora una volta il tè – bollente in inverno, ghiacciato in estate – in
Giappone aggiusta ogni cosa.

Funiculí funiculà.

Abbiamo pranzato con il piatto invernale per eccellenza, nabemono


, al piano piú alto di Takashimaya. È usuale in Giappone che ogni grande
magazzino che si rispetti conservi uno o due piani in cima dedicati a
ristoranti ed eleganti caffè. Qui, al tredicesimo piano, si spalanca persino
una terrazza da cui è possibile scorgere Shinjuku Gyoen e il traffico
imbrigliato di Shinjuku-san-chōme. Attendiamo l’ascensore che affaccia
sulla stazione di Shinjuku e che, grazie alla trasparenza delle vetrate,
conquista i bambini: pare d’essere a bordo di un’astronave che scivola giú,
fino alle viscere della terra.
È da qui che ci avviamo verso il PUK PUPA TEATRO.

Si tratta di un luogo magico dove sognavo da tempo di portare Sōsuke ed


Emilio, uno di quei posti che quando sei ragazza ti mettono addosso una
gran voglia d’essere madre. È la prima e la piú antica compagnia teatrale
delle marionette giapponese, attiva dal 1929. L’indirizzo sulla cartina recita
Shibuya, ma a essere esatti il teatro è situato tra l’uscita sud di Shinjuku e
Yoyogi. Sorge all’interno di una eccentrica costruzione, piccola e stretta,
edificata nel 1971, su cui campeggia un’insegna con il nome in lingua
esperanto. Al Puk Pupa Teatro vengono anche turisti stranieri: la lingua non
appare loro una barriera, dal momento che il tono, la modulazione articolata
delle voci, la musica vivace, il colore e il movimento delle marionette
riescono a compensare quanto sarebbe di solito demandato alla parola. Sono
molte, inoltre, le collaborazioni nazionali e internazionali, e gli spettacoli –

45
dieci diversi per anno – sono offerti in giapponese e in inglese.
La durata è di quindici minuti per storia, la giusta lunghezza – dichiarano
in un’intervista i membri della compagnia – perché rimanga alto l’interesse
dei bimbi. E tuttavia l’estroso gruppo artistico varia tecniche e stile,
sperimenta anche il teatro delle ombre, allestisce spettacoli per adulti e
bambini. Come nel bunraku, i marionettisti non si coprono i volti.
Abbiamo visto una storia tradizionale. I bambini hanno applaudito forte.
È stata una parentesi armoniosa, mentre già cala il pomeriggio, e nel cielo
schiarito s’alza il freddo della neve accumulata ai lati delle strade. Eppure
quasi dispiace sia già stata perfettamente ordinata nelle aiuole, sciolta col
sale, come si trattasse di elemento nemico all’efficienza della capitale. È lo
stesso destino che affrontano i petali di ciliegio in primavera, le foglie di
momiji e di ginkgo in autunno.
Mentre ci avviamo verso la stazione, tra la stanchezza e l’eccitazione,
l’occhio dei bimbi si appiglia a una testa di sardina, e nel grottesco si
incanta. È sempre piú raro vederne a Tōkyō, ma alcuni appendono ancora
alla soglia di casa, sotto alla gronda, sul portone o fuori dalla finestra
composizioni in cui una testa di sardina, arrostita di tradizione la sera di
setsubun, viene infilzata in uno spiedo o, a seconda delle usanze, conficcata
in un ramo di agrifoglio o di soia. Si dice che le spine dei rami e la puzza del
pesce allontanino i demoni.
È attaccata fuori da un izakaya, non devono aver fatto in tempo a
riordinare il locale da ieri, oppure è intenzionale, a ogni modo è ancora
appesa là. Sōsuke parte a cantare.
Sa che la canzone ormai tipica di setsubun mi provoca un riso
irrefrenabile. È Le mutande dell’orco, che inneggia all’insuperabile
resistenza delle mutande in questione, fatte di pelle di tigre, cosí gagliarde
che le puoi indossare anche dieci anni e non si strappano neppure un po’, e
che – e qui sta il motivo del riso – applica il testo giapponese sulla melodia
della napoletana Funiculí funiculà con cui non intrattiene, tra l’altro, alcuna
relazione. Ogni anno la posto sulla mia pagina social e puntualmente
affronto l’incredulità; solo il video dei bimbetti intenti nel canto rassicura
sulla veridicità di quanto racconto.
E tra le strade di Shinjuku innevate, col sole che scende e scioglie di ora
in ora quell’illusione di luce, due voci si affrontano in coro. La mia e quella
di Sōsuke.

46
Oni no pantsu wa ii Addo’ lo ffuoco coce, ma si
pantsu fuje
Tsuyoi zo, tsuyoi zo Te lassa sta’, te lassa sta’

Il vicolo dei ricordi.

Due voci che si intrecciano in coro: cosí accade anche a OMOIDE-


YOKOCHŌ , subito accanto al fascio di rotaie che sovrasta il sottopassaggio
da Shinjuku Ovest a Shinjuku Est. È un angolo nostalgico che conserva il
sapore del periodo Shōwa, quell’arco di piú di sessant’anni che,
specialmente in relazione al dopoguerra, è connesso nell’immaginario
giapponese a un senso di purezza infantile, alla ricostruzione, allo stupore
nei confronti di un tempo che cambia, alla speranza verso il futuro.
Ricordo di aver scovato questo vicoletto durante una passeggiata e di
averne avvertito immediata la suggestione. Fu per via delle lampade rosse
appese a lato dei locali, del passo rallentato con cui la gente oltrepassava
l’arco d’ingresso con scritte gialle su sfondo verde, dell’atmosfera rilassata
degli avventori. Chiamato un tempo addirittura il «vicolo del Piscio»,
perché gli uomini erano soliti scaricare la vescica sui muri, ora si è
trasformato nel decisamente piú poetico «vicolo dei Ricordi». Come spesso
accade, il nuovo nome ha mondato ogni sporcizia, e il luogo ha reinventato
la propria memoria: il passato è, del resto, in buona parte un’invenzione del
presente. Il bagno pubblico, installato alla fine della via, è condiviso da tutti
i locali. Sono accomunati dall’assenza di porte o muri a separarli dal
passaggio pedonale in mezzo: sono completamente esposti allo sguardo.
Solo in inverno vengono fissati teloni di plastica che fungono da isolanti
termici e rendono vaghe, come di fantasmi, le consistenze dei volti, oniriche
le voci che si alzano alticce al di là.
Rimasuglio del mercato nero che si estendeva un tempo a Shinjuku
Ovest, Omoide-yokochō mi pare una versione piú trasandata e in miniatura
di Hāmonika-yokochō, del «vicolo dell’Armonica» a Kichijōji, dove il
clima informale è accompagnato a un’estrema pulizia e dove il vicolo, in
effetti, non è solo uno ma sono parecchi.
Anche Shibuya ha il suo: Nonbei-yokochō, «vicolo dei Beoni». Altre
lampade rosse di carta oscillano al vento e al passaggio delle persone, ed
esercitano un fascino estremo sia sugli stranieri che sui giapponesi; sono in

47
molti a sedersi ai tavolini per bere una birra, sgranocchiare snack con amici
e colleghi, e chiacchierare fino a che non interviene l’alcol ad annebbiare la
mente e la parola. In questi piccoli locali, senza cesura con la strada, si
servono cibi «plebei» come yakitori, gli spiedini di carne e verdure,
specialmente frattaglie, rāmen succhiato con vigore, ravioli intinti nella
salsa di soia e nel rāyu. Lo spazio è occupato soprattutto dalle cucine, i posti
arrangiati su panche e tavolinetti, intorno al bancone.
Guardiamo in su. Sopra le nostre teste, i fili elettrici restano a
ondeggiare, coperti da un lievissimo strato di neve. Sgocciolano in
continuazione.

Bar in pochi metri quadrati.

Basta addentrarsi nel quartiere per accedere a quel quadrilatero


circoscritto tra Yasukuni-dōri, Meiji-dōri, Bunka-sentā-dōri e Kuyakusho-
dōri, da un estremo del quale (a sud-ovest) prende avvio GOLDEN-GAI .
Non bevo alcolici e c’è un solo momento in cui me ne dispiaccio: quel
momento è sempre a Golden-gai. Perché, se non si conosce la cultura del
bicchiere, della conversazione e di tutto quanto vi gravita intorno, quel
luogo è in qualche modo interdetto.
Prende il nome originario (Hanazono-chō) dal santuario Hanazono
, che è a un minuto da qui, e che fin dal periodo Edo è protettore
degli artisti. È magico Golden-gai: da quella stradina, in cui di giorno
difficilmente ti viene la fantasia di addentrarti, sembra prendere vita una
dimensione altra, come uno di quegli spostamenti leggermente disallineati di
cui parla Murakami Haruki nei suoi libri: pare quel piano tra il
ventiquattresimo e il ventiseiesimo nel racconto In un posto dove potrei
trovarlo, oppure quella luna che non è la prima, ma la seconda, che si staglia
nel cielo di Tengu e Aomame.
E tuttavia basta avere sotto gli occhi la struttura architettonica interna
degli edifici che, mischiati indistricabilmente ai fili elettrici, alle insegne e ai
neon, con casse di alcolici e biciclette incatenate alla meglio fuori dalle
piccole porte, costituiscono Golden-gai, basta farsi largo in uno di questi
microscopici bar di pochi metri quadrati, tornare piú volte, chiacchierare con
il barista e con altri avventori, diventare magari cosí intimi con il
proprietario da riuscire a farsi mostrare il secondo e il terzo piano, per

48
scoprire come il suo passato non sia molto diverso da quello svergognato di
Kabuki-chō.
Se un tempo era considerata aka-sen , letteralmente «linea rossa» –
termine con cui si intendeva l’abitudine della polizia di tracciare sulla
mappa una linea scarlatta tutto intorno a zone in cui si praticava la
prostituzione –, nel dopoguerra, quando il commercio del corpo divenne
illegale, il suo aspetto mutò, scivolando in una linea di diverso colore, quella
blu. Si definiva infatti ao-sen (dal kanji di «celeste» affiancato a
quello di «linea») quella parte della città in cui la prostituzione continuava a
essere messa in atto ma veniva nascosta, con la tacita tolleranza della
polizia. Se all’esterno di questi locali un tempo si pubblicizzava quanto
avveniva all’interno, adesso la sua natura veniva celata e, ritirate le insegne
chiassose, era addirittura camuffata l’esistenza di quel terzo piano dove si
consumava effettivamente l’illegalità. Capitava cosí che proprio il terzo
piano (che restava a tutti gli effetti il fulcro del locale) fosse collegato al
secondo tramite una precaria scala a pioli, di modo che all’occorrenza la si
potesse tirare su.
Solo piú avanti si assestò su quella che è la sua attuale vocazione, che fa
di Golden-gai un luogo in cui si sviluppa una precisa cultura, quella della
degustazione e dell’apprezzamento degli alcolici. Il tutto intinto in una
porzione imprescindibile di seken-banashi , ovvero di quelle
chiacchiere tra avventore e barista che abbracciano il mondo. Una realtà che
pare lontanissima e che prende avvio fuori dalla porticina del bar.

Sulla strada di casa, noto accanto a noi due liceali, lei con un pacchetto
pieno di nastri tra le mani. Si stanno scambiando doni di San Valentino, o
meglio, è lei che consegna a lui cioccolatini e biscotti fatti a mano, come è
di norma in Giappone. Sarà lui, tra un mese esatto (il 14 marzo), a
ricambiare nel Giorno Bianco, il White day. In ogni caso da un mese la
cioccolata è dovunque, è una celebrazione molto sentita.
Penso allora che febbraio è un mese che inizia bambino, con orchi e
fagioli, e poi diventa adolescente nel mezzo, con questa romantica festa che
decide di decine di migliaia, no, forse di milioni di giovani uomini e donne,
l’umore. Chissà quanti cuori spezzati oggi, chissà quanta felicità.

49
MARZO

Il mese della crescita

Yayoi
Il nome tradizionale di marzo deriva da iyaoi, «la crescita rigogliosa e progressiva
della vegetazione». Tra gli altri nomi (e derivazioni di nomi) che marzo possiede, ci
sono: yayohi ; hanami-zuki , letteralmente il «mese della
contemplazione dei fiori», il «mese di hanami»; sahanasa-zuki , «mese
della fioritura anticipata dei fiori»; yumemi-zuki , «mese dei sogni», dove
yumemi significa «fare un sogno», «vederlo»; sakura-zuki , «mese dei ciliegi»;
haruoshimi-zuki , «mese che ha cara la primavera».

Ci sono yōshun , che fa riferimento alla gaiezza della primavera, al calore e alla
luce che inonda la terra, e iwai-zuki , ovvero «il mese della festa, dei
festeggiamenti»; hatsusora-zuki , letteralmente «il mese del primo cielo», e
kasumisome-zuki , «il mese della prima nebbia». E poi ci sono samidori-zuki
, «il mese del verde delle prime foglioline e delle giovani erbe», e kureshi-
zuki , «il mese del crepuscolo nuovo». Infine, tan-getsu , «il mese da cui
prende origine tutto».

Tōkyō è una casa abitata.

Tōkyō è una casa abitata. Un’abitazione costantemente sventrata da


ruspe, certo, con gli abitanti che, incuranti, continuano a fare la loro vita. È
un’impressione amplificata delle vetrate enormi, anche a tutta parete, dei
palazzi: trasparenze rese ancora piú indiscrete dalle distanze ridicolmente
piccole tra i binari dei treni e gli edifici, e delle case tra di loro.

50
Ecco il becco della scavatrice che s’alza e affonda in una cucina di
Yotsuya, rivelando una donna che modella gli onigiri per la colazione. Ecco
che cala di nuovo la pinza demolitrice e stacca un’altra parete davanti alla
stazione di Ōsaki dove, al quarto piano di una palestra, alle sei e quaranta
della mattina, un uomo tira pugni a un sacco di sabbia. E poi riunioni
apparecchiate in pompa magna in un grattacielo di Shinagawa, al tramonto,
lo schermo luminoso alle spalle della giovane donna in completo nero e
chignon, che affronta un tavolo pieno di salarymen in giacca e cravatta.
Sono scene che osservo quotidianamente quando viaggio a bordo di una
vettura della linea Yamanote, oppure della Chūō, quando all’alba mi sposto
verso l’università, o della Keiō, al ritorno, o ancora della Shōnan-Shinjuku,
mentre corro verso l’asilo di Sōsuke e di Emilio. Di molti di quegli
sconosciuti ho imparato i volti a memoria.
Tōkyō è uno spazio interno, intimo, quasi segreto, che si apre
all’improvviso. Tra me e me ho sempre giustificato la dimensione
assurdamente ridotta degli appartamenti di Tōkyō con questa idea: è casa
anche il fuori (soto ), non solo il dentro (uchi ); curare un parco
pubblico equivale a curare il proprio giardino. Fuori è semplicemente il
prolungamento del dentro e il possesso è qualcosa che ha a che fare con
l’uso piú che con il patrimonio.
Ovunque è pertanto una Tōkyō d’interni, città che prosegue in un flusso
continuo oltre la soglia.

La primavera in Giappone è stagione di separazione e di incontro, di


conclusione e di avvio. A marzo si svolgono le cerimonie di consegna del
diploma e i presidi e gli insegnanti rivolgono parole di incoraggiamento agli
studenti che stanno per passare a un livello superiore di istruzione, o stanno
per fare il loro ingresso nella società. Si tengono vari discorsi, si manifesta
la riconoscenza ai maestri, ai compagni. Si celebra, in un certo senso, il
nuovo che crescerà.
Tutto è scandito dal rito in questo paese, e se marzo è la fine, aprile sarà
l’inizio, e si susseguiranno cerimonie di immatricolazione. Tengo ancora
nella custodia del computer la «medaglia» confezionata dai bimbi piú grandi
del nido di Emilio, ricevuta in occasione del suo ingresso quasi un anno fa,
quando aveva otto mesi.
Tra febbraio e marzo in Giappone sono anche frequenti i traslochi. È il
momento in cui molti universitari inaugurano hitori-gurashi ,

51
ovvero la «vita da soli», in cui imparano a gestire la quotidianità lontani
dalla famiglia, a fare il bucato, ad assemblare un bentō da sé. Si notano per
le strade di Tōkyō grossi camion che esibiscono mascotte di panda,
sorridenti lettere dell’alfabeto o gatti neri (come quello delle poste
giapponesi Yamato Transport Co. che, a sua volta, riporta alla mente il gatto
Jiji di Kiki – Consegne a domicilio, il lungometraggio del 1989 di Miyazaki
Hayao).
È affascinante osservare il modo con cui armadi, sedie, tavolini, chitarre,
calano dai camion, avvolti in coperte e materiali isolanti, e i muri
dell’edificio – nel passaggio dall’ingresso della palazzina alla porta del
monolocale – vengono ricoperti da speciali superfici, in modo da evitare che
il transito li righi o li sporchi. Le case in affitto in Giappone non sono quasi
mai ammobiliate.

Neanche a farlo apposta stamane intercettiamo due camion nel tragitto da


casa alla stazione. Giovani in divisa sono affaccendati a caricare e scaricare
lampade a filo, piante, scatole piene di stoviglie o di libri.
Per le strade, la natura si risveglia. Già da febbraio l’aria era gemmata di
fiori di pruno, e lentamente i ciliegi si stanno preparando a sbocciare. La
neve lascia spazio a un caldo a intermittenza.
Ma ecco che un suono preciso, una strana melodia buca l’aria. Tutto si
ferma.
– È lui? – domando eccitata.
– È lui, sí! – esclama Ryōsuke in risposta. – Bimbi, lo avete sentito?
È l’uguisu , l’uccellino che nell’immaginario dei giapponesi annuncia
la primavera. Con l’arrivo di questa stagione, l’uguisu scende infatti dalle
montagne, emettendo il tipico verso che i giapponesi trascrivono cosí:
hōhokekyo . Ha un bel piumaggio marroncino e tuttavia
resta verdissimo nella fantasia, perché spesso confuso con un altro volatile,
il mejiro , letteralmente «occhi bianchi».
La minuscola panetteria vicino a casa, quella dove talvolta facciamo una
sosta prima di riprendere la corsa verso l’asilo, propone anche oggi
l’uguisu-pan, un panino ripieno di una marmellata verde di piselli ao-endō,
che dell’uccellino richiama la tinta. Ne compriamo due per festeggiare
l’evento. Sōsuke sceglie invece il melon-pan, un grande classico della
panetteria made in Japan. Tondo, al sapore di melone, ripropone
graficamente il taglio a cubetti del frutto sulla sua superficie circolare, che

52
viene tutta ricoperta da uno spesso strato di zucchero. Il melon-pan lo si può
acquistare dovunque e, quando preparato con cura, è la fine del mondo.
Con la bocca foderata di briciole arriviamo in stazione.

Due livelli, giú il passato, su il presente. Il futuro è lo scarto tra i due.

Il treno a quest’ora non è particolarmente affollato. Molti scendono a


Shinjuku, Ochanomizu e Kanda, e nella carrozza si trova facilmente posto a
sedere.
Mentre mostro ai bambini le rive verdi del fiume KANDA e osservo di
sottecchi il paesaggio umano dentro al convoglio, penso che in questa
stagione a Tōkyō sono davvero in tanti a tenere premute le mascherine sul
volto.
Mentre si conclude la stagione delle influenze – che spingono i
giapponesi a indossarle sia per prevenzione al contagio, sia, una volta
contratto un qualche malanno, per evitare di passarlo ad altri – le
mascherine assumono nuove funzioni: il secchissimo inverno giapponese,
per dire, viene tenuto a bada anche cosí, e all’occorrenza fungono anche da
fonte di calore. Ho scoperto negli anni che alcune donne le usano per
nascondere un volto struccato, e io stessa le metto quando suona il postino e
ho il volto disordinato. Altri ancora se ne servono solo per timidezza, come
una copertina di Linus dietro cui celarsi.
E tuttavia, a marzo e aprile, le mascherine servono soprattutto come
strategia contro i temibili pollini di sugi , la Cryptomeria japonica.
Ryōsuke ne soffre e lui – come una moltitudine di colleghi, studenti,
conoscenti e amici – ogni anno in questa stagione è intrattabile per il prurito
che l’allergia provoca agli occhi, al naso, per i mal di testa e l’insonnia che
porta con sé.
– Etciú! – starnutisce qualcuno dietro di noi.
In giapponese non esiste «Salute!»

53
54
– Sai che ai tempi di Sei Shōnagon starnutire pare fosse ritenuto di
cattivo auspicio?
Ricordo nella nota 28 delle Note del guanciale, come allo starnuto di uno
seguissero immediate parole di scongiuro. Oggi la superstizione giapponese
vuole invece che starnutire significhi che qualcuno sta pensando a noi.
– Esattamente come in Italia, quando lo diciamo perché ci «fischiano le
orecchie»…

Seimila anni fa, nel periodo Jōmon, l’oceano copriva circa metà della
zona piú centrale della città.
Edo emerse nel XII secolo: l’area nelle immediate vicinanze di Hibiya e
Marunouchi formava una piccola baia, di cui la lingua di terra tra Nihon-
bashi e Shinbashi costituiva la penisola, chiamata allora Edomae-jima
, letteralmente «l’isola di fronte a Edo». Era una cittadina di mare
che nell’acqua faceva prosperare i propri commerci. Nel XV secolo vennero
avviati lavori di riempimento che portarono alla costruzione di cittadelle
davanti a Edomae-jima.
All’inizio del XVII secolo, quando Edo divenne la roccaforte del governo
militare dei samurai che unificò il Giappone moderno, sulla placca di
Musashino, a oriente, prese forma il Castello di Edo. Intorno venne
sviluppandosi la città: nella parte bassa, nella zona a est del castello,
fiorirono le case della gente comune, mentre a ovest si allargarono le terre
dei samurai.
Si reclamava al mare la terra, e un fitto sistema di trasporti via acqua
divenne funzionante nella parte bassa dell’area. Si dice che all’inizio del
XVIII secolo la popolazione raggiunse il milione di abitanti. Con lo sviluppo
della città, i suoi distretti urbani si espansero ulteriormente; una rete di
trasporti su terra, compreso l’antico snodo viario delle cinque grandi strade
del Gokaidō, portò alla formazione di zone altamente popolate e vivaci,
precorritrici delle attuali Shinjuku e Shibuya.

Nel 1868 la città cambiò nome. «Edo» scivolò dentro «Tōkyō»,


indagando le proprie possibilità come metropoli moderna, simbolo di un
mondo sempre piú vasto, ancora sconosciuto ma sempre piú accessibile.
Si svilupparono ulteriormente i trasporti su terra e in particolare fu
implementata la rete ferroviaria. Nel 1925 la Yamanote iniziò a circolare,
letteralmente, in quel tondo impreciso che ancora oggi costituisce una sorta

55
di anello verde al centro della città. In effetti la sua forma è piú vicina a un
ovale frastagliato che a una circonferenza, ma l’immaginario ha avuto la
meglio sulla realtà.
Il terremoto del Kantō, solo due anni prima, aveva devastato la città. Se
la zona a est era stata irrimediabilmente deturpata dal sisma, a ovest la
capitale aveva invece registrato danni piú contenuti, il che spiega la
massiccia migrazione che si verificò verso occidente, dove sorgevano le
grandi stazioni ferroviarie di transito e partenza come Shinjuku, Shibuya e
Ikebukuro, che vennero ad assumere sempre piú l’aspetto di distretti urbani,
centrali e popolosi, quali sono ancora oggi.
Dopo la Seconda guerra mondiale, arrivò a compimento il processo per
cui le vie di navigazione fluviale – che servivano originariamente come
infrastrutture per i quartieri centrali di Edo – furono interrate e convertite
all’uso per il trasporto su terra, cosicché il livello del suolo, in prossimità
della baia di Tōkyō, si elevò di anno in anno.
La città sorge e prospera da piú di quattrocento anni su quella che viene
chiamata la Pianura del Kantō (Kantō-heiya ), che tuttavia, vista
su scala umana, è tutt’altro che un territorio pianeggiante, bensí ampiamente
ondulato. Testimonianza ne sono i saliscendi ripidissimi di molte zone della
capitale, che non mancano di stupire i visitatori che di Tōkyō hanno spesso
un’immagine meramente orizzontale, di agglomerato urbano che si stende
come un lenzuolo sulla piana del Kantō.
Ma ecco un’altra cosa che Tōkyō fa spesso: smentisce. Come se amasse
contraddire e smentire tutte le idee che puoi farti su di lei.
Nella sola zona metropolitana, risiede adesso una popolazione di piú di
trenta milioni di persone. L’antica Edo è diventata cosí, in un lasso di tempo
relativamente breve, la piú vasta megalopoli della terra.

Una stazione lunga lunga.

Scendiamo dalle vertiginose scale mobili che, dalla banchina della linea
Chūō, guidano verso l’uscita est del capolinea, capolinea che tra l’altro porta
il nome intero della capitale: Tōkyō. O come viene piú precisamente
chiamata, Tōkyō-eki , ovvero STAZIONE DI TŌKYŌ.
Siamo esattamente alle spalle dell’edificio della stazione, è la banchina n.
1. Affacciandosi da queste lunghissime scale si notano altri piani, altre scale

56
gemelle che trasportano su e giú i viaggiatori, banchine intermedie dove
fermano linee ulteriori, che danno l’idea della profondità della costruzione.
È un edificio bellissimo Tōkyō-eki. Venne realizzato nel 1914 su
progetto di Tatsuno Kingo, l’architetto piú rappresentativo del periodo
Meiji, e già autore del progetto della banca di Tōkyō, e di Kasai Manji, altro
stimato architetto che collaborò a lungo con lui. Tatsuno mescolò le
caratteristiche e gli stili di moda del tempo: dettagli che omaggiavano la
famiglia imperiale, riferimenti all’Occidente che si voleva imitare, lo stile
Regina Anna (Queen Anne Style) e l’epoca vittoriana, insieme a motivi che
richiamavano il sumō, sport nazionale assai amato dall’architetto. L’ingresso
riservato ai membri della famiglia imperiale, ad esempio, rievoca il
ventaglio di quegli atleti possenti.
Originariamente sviluppata su due e poi su tre piani, solo nel 2012 alla
stazione di Tōkyō è stato restituito anche il terzo livello, andato distrutto
durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. La stazione è stata
riportata cosí al disegno originale, grazie a un approfondito studio
archeologico, all’analisi di fotografie in bianco e nero da cui, con fatica, si è
estratto persino il colore. Come quello degli interni della cupola, sotto cui
transiteremo a breve, appena oltre i tornelli dell’uscita est.

La nudità dei numeri racconta un mucchio di cose.


Nell’anno della sua realizzazione, quando fuori dalla stazione di Tōkyō si
apriva un terreno incolto, il traffico giornaliero era di appena 9500 persone;
oggi ne raggiunge, in una stima approssimata, 380 000. Se allora era servita
da quattro linee del treno, e davanti alla stazione passava una sola linea del
tram, oggi Tōkyō-eki vanta il maggior numero di banchine dell’intero
Giappone: vi transitano diciotto linee del treno (dieci in superficie, otto
sotterranee), due della metropolitana, e dieci linee di alta velocità.
Sono gli shinkansen , i «treni proiettile», che si conficcano nel
Giappone dell’Ovest e del Nord-Est e che sono una delle prime parole che
imparano i bimbi da questa parte del mondo. Salta subito all’occhio quanto
l’immaginario infantile nel Sol Levante sia pieno di treni.
Tutto si svolge con marziale precisione, un bianco sterile domina
l’ambiente, l’aria è seghettata da movimenti esatti, al secondo. Ossessionata
come sono dall’inizio e dalla fine delle cose (quando inizia veramente una
cosa? qual è il momento preciso in cui finisce?), trovai nel corollario della
ritualità dello shinkansen una partitura affascinante, meticolosa.

57
– Un giorno ci saliremo insieme, te lo prometto. Andremo a Katsuyama a
vedere il Parco dei dinosauri. Basta che tu ed Emilio cresciate un po’.
Salire sullo shinkansen è il sogno di Sōsuke da quando aveva due anni.
I piccoli negozi incassati dentro Tōkyō-eki sono un tripudio di souvenir
gastronomici. I bimbi si incantano davanti alle vetrine che espongono la
grande varietà di ekiben , ovvero quei bellissimi bentō che si declinano
diversamente a seconda delle regioni e delle stazioni (eki «stazione», ben
diminutivo di bentō). Sono di varie forme e grandezze, le confezioni
richiamano volti di animali, bambole, simboli geografici, pietanze. A tutti
gli effetti paiono balocchi, e dentro, ad accompagnare l’immancabile riso,
cibi pensati per essere gustati freddi.
I bambini sono rapiti e li guidiamo a fatica verso l’uscita. Transitando da
un punto a un altro dell’immensa stazione, passiamo per caso davanti a uno
dei luoghi piú famosi di incontro della città. Come il cane Hachikō sta a
Shibuya, cosí il gigante campanello d’argento (gin no suzu ) sta alla
stazione di Tōkyō.
Ryōsuke mi spiega come un tempo qui passasse la prima linea
sopraelevata, che collegava Shinbashi – il punto di partenza della Tokaidō
(ovvero la principale via di comunicazione tra Tōkyō e Kyōto lungo il
versante occidentale dell’isola di Honshū) – e Ueno (ovvero il suo
corrispettivo nella direzione a nord-est, verso il Tōhoku). La
modernizzazione del Giappone, cui mirava il governo metropolitano, trovò
qui, nel 1914, la sua principale stazione di transito e sosta. Le si donò un
nuovo nome (Tōkyō-eki), abbandonando quella dicitura piú fredda e
neutrale che la voleva chūō-teishajō , ovvero una sorta di
«luogo centrale di arresto dei treni». E fu proprio nel nome che essa ritrovò
importanza e solennità.
– Dopo la guerra russo-giapponese del 1904-5 che l’aveva visto
vittorioso, il Giappone era passato dalla parte delle grandi potenze del
mondo. Questo ingresso era uno dei modi per enfatizzare
architettonicamente quella vittoria. Guarda!
Siamo ai tornelli e mentre li oltrepasso con Sōsuke per mano, alzo lo
sguardo verso l’interno della cupola che ci sovrasta. Pare stranamente
tagliata a metà, come creata in due momenti diversi e successivamente
assemblata: quella superiore è in stile Taishō e quella inferiore in stile
Heisei. In questo particolare, subito si conferma la caratteristica primaria
della stazione e piú in generale del quartiere tutto: il loro essere spezzati nel

58
mezzo, costruiti su doppia altezza.

– Ma è lunghissima questa stazione! – esclama Sōsuke, ora che siamo


finalmente all’esterno e dalla piazzola riusciamo a comprendere con lo
sguardo l’interezza della costruzione. Effettivamente Tōkyō-eki si dipana
per 335 metri: è la piú lunga di tutto il Giappone.
– All’inizio la stazione di Tōkyō era formata da tanti edifici separati.
C’era l’entrata e c’era l’uscita e bisognava fare lunghe passeggiate per
raggiungere l’una o l’altra. Immagina un po’ la fatica con le valigie, magari
col treno che sta per partire e vai di fretta… – spiego a Sōsuke mentre lui fa
per lanciarsi nella corsa. – E poi c’era l’ingresso riservato alla famiglia
imperiale, come a Harajuku, ricordi? E anche l’ufficio postale.
– E poi?
– Poi però, un po’ per praticità, un po’ per rendere il suo aspetto piú
attraente, è stata collegata e resa omogenea. E cosí si è fatta lunga lunga.
– Come tanti vagoni! – grida allargando le braccia.
Entrata e uscita, un tempo separate, vennero adattate a entrambe le
funzioni nel 1948.
Dettagli, infiniti dettagli.

Uscendo dalla stazione di Tōkyō, come due aguzzi canini, si stagliano a


destra Shin-Marunouchi Building, a sinistra Marunouchi Building e, subito
a sinistra di questo, Kitte, un tempo l’ufficio postale.
Se ne ricava l’impressione netta di edifici posti su varie altezze, madri
basse e tozze, con alle spalle i propri figli, piú alti e massicci, che svettano
altissimi e brillanti a riflettere il cielo. Paiono due generazioni a confronto,
l’una di fronte all’altra, diverse, e tuttavia impegnate in un lavoro comune.
– Ecco di nuovo la doppia altezza di questo quartiere, te lo dicevo. È
tagliato a metà!

Per pranzo andiamo in un ristorante al quinto piano del SHIN-


MARUNOUCHI BUILDING da cui la vista è spettacolare e si mangia kushi-ryōri
, ovvero «cibo allo spiedo». A sentire questa formula, gli stranieri
pensano subito agli yakitori, gli spiedini di carne cui si accompagnano snack
e boccali di birra. Non sanno che esiste una varietà strabiliante di pietanze,
cotte e arrangiate nei modi piú diversi, dolci e salate, che si infilzano in
queste stecchette di legno. Soprattutto fritte, e chiamate pertanto kushi-age

59
(da ageru , «friggere») o kushi-katsu (dall’inglese
cutlet, «cotoletta») perché spesso a base di carne, ne esistono varie
declinazioni, da quella di Ōsaka, città di cui pare siano originarie, a quella di
Nagoya, Kōbe, Tōkyō ecc.
Prendo in braccio i bimbi a turno, mentre Ryōsuke finisce quel che i
piccoli hanno lasciato. Nei ristoranti giapponesi i menú per i bimbi, oltre che
venduti a un prezzo accessibile, sono bellissimi e – particolare da non
trascurare – anche deliziosi. Quando c’è qualcosa che non incontra il loro
palato, per Ryōsuke e per me non è mai un cruccio ripulire piatti a barchetta
o a forma di orso, assaggiare würstel occhiuti che paiono polpi, pezzetti di
formaggio scolpiti a cuoricini.
Affacciati alla vetrata che dà proprio sulla stazione, domando a Sōsuke: –
Lí dentro si può dormire, lo sai? – Lui, che continua imperterrito a
sovrapporre il nome di Thomas e dei suoi amici ai treni che scorge dallo
snodo ferroviario, si blocca.
– Lo sai? – insisto.
– Sí, – risponde, anche se non lo sapeva. Mi pare si senta in dovere di
assentire a ogni domanda che gli venga posta cosí.
– C’è un hotel lí dentro, ed è uno degli alberghi piú costosi del mondo, –
esagero. Non è proprio vero, ma certo la cifra è notevole considerando che
una notte nella suite può raggiungere e superare persino i cinquemila euro.
Per un lungo momento mi immagino lí, insieme a Ryōsuke, a svegliarci e
a guardar fuori dal cipollotto rosso, scorgendo l’ingresso del Palazzo
imperiale, la città che si sveglia all’alba e diviene, nell’arco di un’ora
soltanto, da vuoto bacino di strade, massa formicolante di salarymen e
turisti.
– Sarebbe bello, – sussurro tornando a sedere e invitando Ryōsuke a un
bacio che, però, in Giappone sarebbe piú opportuno lasciare all’intimità
della casa.
– Papà? Ti piace la mamma?
– Certo! – esclama mio marito.
– Mamma è una bellissima… – sospende la frase Sōsuke, cercando
visibilmente la parola giusta. – È una bellissima locomotiva.
Ecco. E mentre penso che questa cosa dei treni ci sta prendendo
decisamente la mano, spinta dal suo stesso entusiasmo osservo la Yamanote
giungere in fondo alla banchina, affiancarsi alla linea Keihin-Tōhoku che ne
condivide parte del tragitto, e ripartire.

60
La Festa delle Bambine.

La zona di MARUNOUCHI è caratterizzata dalla preservazione di


costruzioni del periodo Meiji e Taishō, un’eredità che si mantiene secondo
diversi procedimenti come la conservazione totale o parziale, il restauro, la
ricostruzione.
Sí, Tōkyō è una città-casa di interni ed esterni. Ma anche una città-
mondo, nella definizione riuscita di Marc Augé che individua la
globalizzazione come marcatore potente, per cui la «fama internazionale dei
grandi architetti disseminati nel mondo è un caso emblematico […]:
ovunque nel pianeta, essi siglano i luoghi del nuovo prestigio, della nuova
potenza, tracciando, in un certo senso, la grande pianta di questo mondo-
città».
Tōkyō ovest, addirittura, porta un nome olandese, di un visitatore che
visse lí a lungo. Yaesu è la nipponizzazione del suo nome: Jan Joosten Van
Lodensteijn.
Ma Tōkyō è anche un gioco, con i bambini tutto lo è.

Non appena smessi gli abiti di setsubun, ecco infatti che la città – nei
supermercati, nei banchi dei konbini, negli addobbi dei negozi che vendono
i piú disparati prodotti – già adottava i toni pastello di questa celebrazione
tutta al femminile. Per me che ho due figli maschi pare interdetta, eppure
non lo è.
La mia amica Akiko, splendido soprano oltre che madre di Hiroto-kun,
un compagnetto di asilo di Sōsuke, ha un’altra figlia, Miyuki-chan, ed è
attraverso Akiko e mia suocera che ho appreso gli aspetti quotidiani di
questa festa antica che fa della donna in nuce, della bambina, la
protagonista. Ryōsuke ha una sorella di dieci anni piú grande, una nipote
che frequenta già l’università, e nell’osservanza in terza persona del rito
posso godere della sua bellezza.
È questo il periodo in cui in Giappone fioriscono gli alberi di pesco e
hina-matsuri , la Festa delle Bambine, ha la funzione di pregare per il
benessere, la felicità e la buona crescita delle piccine. Hina-matsuri è anche
chiamata Momo no sekku , ovvero «Celebrazione delle pesche»,
per via del fatto che fin dall’antichità la pianta era considerata capace di
cacciare sventure e malanni. L’origine di questo festival affonda le sue
radici in Cina dove anticamente, il 3 marzo, era tradizione lavare mani e

61
piedi, per far scivolare via con l’acqua il malocchio. L’approdo in Giappone
lo trasformò: la sfortuna non la si lavava piú via dal corpo, ma la si
trasmetteva al corpo delle bambole, oggetto di gioco delle bimbe, e nel
gettarle nelle correnti del fiume si allontanava cosí dalle piccole padrone
ogni disgrazia.
Oggi questa festa tutta al femminile si celebra attraverso l’esposizione di
bambole rituali in casa – la cui arte è regolamentata con estrema precisione
– e nella consumazione di alcuni cibi particolari, ricchi di colore e di
simbologie.
La cerimonia tradizionale richiede che sia la famiglia della madre della
bimba a caricarsi dell’onere dell’acquisto delle bambole, una collezione sui
toni accesi del rosso, che spicca per il suo volume, cosí che un angolo della
casa le viene interamente dedicato. È tuttavia premura della famiglia
smontare l’allestimento non appena la festa si sia conclusa, per via di una
superstizione che avverte come, temporeggiare nel riporle, porti sfortuna e
ritardi le nozze della bambina.
Mi ha sempre intenerito la coincidenza tra il termine che indica i pulcini,
gli uccellini implumi, appena nati, e quello che racconta le bamboline per la
festa del 3 marzo (hina ).
Akiko mi ha invitato domani a casa sua, con Sōsuke ed Emilio, e già non
vedo l’ora di vedere Miyuki-chan indossare il piccolo kimono della festa, e
di gustare insieme alla mia amica shiro-zake , ovvero sakè bianco, che
tra l’altro è l’unico liquore che riesco ad apprezzare. È una bevanda dal
bassissimo tasso alcolico, assai densa, che si beve solo in questa occasione,
e che mi ricorda il rito delle nozze shintoiste con Ryōsuke, in cui bevemmo
piccoli sorsi da un piattino colmo di sakè.
Porteremo in dono, e insieme prepareremo, una serie di pietanze e snack
tipici: chirashi-zushi , hishi-mochi , hina-arare .
Questi ultimi li acquisteremo, per via della elaborata preparazione: sono
dolcetti fatti di farina di riso per mochi, cotti al vapore e lasciati seccare, su
cui viene sparso dello zucchero, e poi nuovamente abbrustoliti e lasciati
ancora una volta seccare. Sono come palline, di quattro colori per indicare le
quattro stagioni, non solo climatiche, ma piú in generale, come fasi
dell’esistenza.

La stratificazione del tempo.

62
Non so bene perché ma ho la fortissima sensazione, da sempre, che
uscendo dalla stazione di Tōkyō e proseguendo diritto troverò il mare.
Non è cosí. Dall’uscita opposta, semmai, giungerei alla baia di Tōkyō.
Mi spiego questa confusione imputandola in parte al fatto che da qui si
prende la monorotaia per Odaiba.
Seguitando a camminare, ecco che avvistiamo il PALAZZO IMPERIALE.
Appare principalmente come un giardino circondato da mura, luogo di
passeggiate. Credo sia per questo motivo che il ricordo che ne serbo è
flebile, di un paesaggio anonimo pur nella bellezza che esprime una natura
recintata e sorvegliata con cura. Del resto non è come a Versailles o alla
Reggia di Caserta: il Palazzo imperiale di Tōkyō è tuttora abitato dai suoi
legittimi inquilini.
Appare oggi godibile principalmente nei suoi elementi di contorno, nel
fossato, nelle mura, nelle piante. L’ingresso è a suo modo impressionante,
non per l’imponenza (che non possiede), quanto per i dettagli che spiegano
come, pur facendo parte dello stesso fossato, ci sia ai lati una discrepanza di
ben 12,2 metri di altezza. A destra e sinistra si propone infatti un paesaggio
assolutamente diseguale. Basti sapere che se l’acqua nel fossato a destra è
salata, perché proveniente dal mare, quella a sinistra, piú in alto, è invece
dolce, perché arriva da un’antica sorgente sotterranea. Questo testimonia, tra
l’altro, il grande lavoro che fu fatto alle origini di Edo, a partire da un
terreno complesso, composto da alture e, subito sotto, da avvallamenti, da
corsi d’acqua dolce e dal continuo tira e molla col mare: caratteristiche
queste con cui si confronta tuttora Tōkyō.
A ben vedere la vita umana si riduce tutta a uno scendere e salire, cosí
che, citando Zazie nel metrò, «tanto fa l’uomo che alla fine sparisce».
Proprio questa disparità ha determinato lo sviluppo culturale non solo
dell’antica Edo, ma di tutta la cultura che da qui si irradiava nel resto del
paese, l’opposizione cioè tra città alta (yama no te ) e città bassa
(shitamachi ). Anzi, ci si può spingere addirittura a leggerla come una
delle chiavi di lettura del pensiero locale che, fin dall’antichità, sfrutta
quanto ha a disposizione – come un territorio irregolare e scosceso –,
impegnandosi in un lavoro di adattamento prima ancora che di
trasformazione.

Emilio interrompe la mia riflessione. Allunga la manina paffuta verso il


cielo, pronunciando suoni disarticolati che stanno diventando a tutti gli

63
effetti una lingua.
– Guarda, – e altri brandelli di parole che non comprendo se non per la
direzione ad arco dell’indice in cielo. Sono gli uccelli, dal piumaggio
distinto, non solo i notissimi corvi.
Lui non lo saprà che tra anni, ma si deve a questo immenso giardino, e
proprio ai suoi abitanti piumati, il verde esuberante dell’intera zona di
Marunouchi, i suoi viali alberati, i piccoli parchi rigogliosi. Dal bosco del
Palazzo imperiale, coltivato per centinaia di anni e i cui alberi hanno visto
nascere Edo e trasformarsi nell’attuale Tōkyō, gli uccelli trasportavano
infatti i semi nel becco, oltre la stessa portata del vento, triplicandone,
secondo una stima, la quantità. È quindi grazie agli uccelli se Marunouchi è
cosí.
Il Palazzo imperiale era un tempo il CASTELLO DI EDO, prima residenza
della famiglia degli shōgun Tokugawa, luogo da cui ebbe inizio la storia di
Tōkyō. E tuttavia il Castello di Edo non equivale al Palazzo imperiale.
L’immensità del primo corrispondeva piuttosto al perimetro tracciato dal
secondo fossato, che oggi equivale all’intera circoscrizione amministrativa
di Chiyoda, mentre è solo il primo fossato che circonda l’attuale Palazzo
imperiale.
Fatico a immaginare quel doppio giro di collana e Ryōsuke ci mostra
come esista un’applicazione del cellulare che rende possibile mettere
costantemente a paragone passato e presente. Si chiama TŌKYŌ JISŌ MAPS
e mostra scorci della capitale in varie ere e periodi storici,
piú precisamente dal periodo Meiji a oggi. Jisō è un neologismo che
intende letteralmente gli strati di tempo: la «stratificazione del tempo».
Mentre Ryōsuke e io ci voltiamo intorno, e sotto la crosta di questa città
ci pare di vederne un’altra, i bimbi si rincorrono per i viali di ciottoli ed
erba. Emilio ha insistito per scendere dal marsupio del padre e provare su
questo nuovo pezzetto di mondo le sue scarpette sonanti, che a ogni passo
producono una melodia. Gliele hanno comprate i nonni, per comunicargli la
gioia del passo, perché provasse da subito la soddisfazione di camminare.
Tiro fuori le bolle di sapone che, da quando Sōsuke ha compiuto due
anni, sono perennemente in borsa insieme a libri, dizionari, computer. Lo
spazio in questo luogo non manca e soffiarle su questo sfondo è
stupefacente.
A fine mese sarà uno spettacolo immenso quello dei ciliegi che si
affacciano languidamente sul fossato dalla parte di Kudanshita. Lo saranno

64
anche i riflessi delle loro braccia nodose, ingentilite da nuvole appese di
petali e pistilli, sul laghetto del parco Inokashira a Kichijōji dove, sulla scia
di un entusiasmo che nella ripetizione non si infiacchisce, ho scattato per piú
di dieci anni fotografie tutte uguali della primavera.
Col tempo ho tuttavia scoperto angoli meno noti, come in prossimità
della stazione di Takaidō sulla linea Inokashira, in cui il paesaggio pare in
miniatura rispetto al piú noto Naka-meguro. Se sono solo i ciliegi a
interessare, e non invece tutta la cornice umana di struscio, bancarelle
profumate di cibo, chiasso di gioia condivisa, i migliori sono senza dubbio
questi scorci, piú intimi e godibili.
La parabola è chiara. «I doveri del vento sono pochi, – scriveva Emily
Dickinson, – accompagnare sul mare i navigli, | scortare i flutti, presentare
marzo, | significare ovunque libertà». Ed eccolo marzo, s’insedia torturando
i ciliegi, rendendo ancora piú fragile questo paesaggio esitante, sempre
sbilenco. Precipitare fa parte dell’immaginario dei ciliegi: tutto lo segnala,
che niente è destinato a restare e che tutto farà ciclicamente ritorno.
La prima persona singolare sarà sempre diversa. La prima persona
plurale – ovvero quella che conta – rimarrà invece per sempre.

65
APRILE

Il mese dei fiori di deutzia

Uzuki
Aprile è il mese della deutzia. Sono varie le interpretazioni riguardo a questa
attribuzione: è il kanji che può intendere il fiore della pianta chiamata utsugi
, appunto la deutzia (Deutzia creanata), ma anche il quarto animale dei dodici
segni zodiacali, il coniglio – quarto come è il mese di aprile sul calendario. Oppure
ancora, il kanji lo si fa risalire originariamente a quello di pianta ( ), per via del
fatto che ad aprile si semina il riso.

Altri nomi sono: hananokori-zuki , il mese dei «fiori che restano»; natsu-ha-
zuki o , il mese di inizio dell’estate; in-getsu , il mese di
massima luce/yang. Secondo il calendario solare, aprile è mese di sakura e nano-
hana, il principio della stagione dei fiori. Mentre il trapianto del riso è ancora un po’
di là da venire.

La vita negli interstizi di Tōkyō.

Tra la fine di marzo e il principio di aprile, SAKURA-DŌRI (letteralmente


«viale dei ciliegi») diventa un tunnel bianco e rosa che si riflette nelle
vetrine dei negozi, nelle finestre delle palazzine disposte l’una di fianco
all’altra, negli specchietti delle auto. Come legnose dita intrecciate, i rami
formano un tetto di fiori attraverso i quali la luce del sole filtra a formare un
merletto di luce e di petali.
Sakura-dōri è da sempre uno dei miei scorci preferiti per ammirare i

66
sakura, forse proprio perché pare essere un mondo a parte rispetto al resto di
Yaesu, la zona a ovest di Tōkyō-eki. Spogli intrecci di rami in inverno,
questi alberi hanno chiome rigogliose in estate, foglie rosse e dorate in
autunno e, in primavera, chiome rosa e tronchi bitorzoluti da cui spuntano,
sporadici, i boccioli.

In queste sere che leggo Mary Poppins a Emilio per farlo addormentare,
pronuncio spesso quel nome: Viale dei Ciliegi n. 17. Immagino lo scorcio di
notte, all’ora che nell’antico modo di intendere il tempo connesso ai segni
zodiacali corrispondeva a quella del bue, tra l’una e le tre della mattina, in
cui letteralmente «alberi ed erbe sono calati nel sonno» (kusaki mo nemuru
ushi mitsu doki ni ). È bellissima questa
espressione che in italiano si rende con «nel cuore della notte», ma che in
giapponese suggerisce quanto la notte sia fatta del sonno della natura piú
che di quello dell’uomo.

Oggi siamo scesi a Tōkyō-eki solo per ammirare questo viale: subito
dopo riprenderemo il treno. Ryōsuke deve andare alla biblioteca
dell’Università di Tōkyō, mentre io lo seguirò per tenere una lezione lí
vicino. Fa freddo: quando rientriamo in stazione stiamo rabbrividendo.
Benché i ciliegi siano già sbocciati e si sia ufficialmente entrati nella
primavera, talvolta capitano ancora dei giorni di un freddo sorprendente.
Questo fenomeno ha in giapponese una sua parola, ovvero hana-bie
, che presenta gli ideogrammi di «fiore» e di «freddo, gelo».

Un attimo prima di imboccare le scale mobili che portano alla banchina


della linea Chūō, scorgo una donna di spalle. Armeggia con il cellulare e la
borsa dietro uno di quegli spiritosi pannelli di cartone su cui sono dipinte e
ritagliate varie figure con un foro al posto del volto e che sono sparsi un po’
ovunque nelle località turistiche giapponesi, per la gioia dei viaggiatori.
Spesso quando le vede, Sōsuke mi obbliga a fermarmi: lo prendo in braccio
e lui si affaccia a guardare il mondo da lí e della fotografia che qualcuno
scatta dall’altra parte non pare importargli molto.
Tuttavia è proprio quel dorso di donna, che, a mano a mano che saliamo,
sparisce lentamente, a farmi pensare come a Tōkyō sia frequentissimo
notare persone accampate in luoghi rimediati, ricavati fantasiosamente in
spazi arrangiati. Spazi in cui, pur essendo assolutamente visibili, nessuno le

67
guarda. Mi pare uno dei segreti che i tokyoti hanno sviluppato per vivere al
meglio l’immensità della propria città e soprattutto la densità impressionante
di abitanti.
– Sí, Tōkyō è piena di gente, – annuisce Ryōsuke.
– Ogni volta che torno in Italia, a confronto le strade mi paiono vuote, –
riprendo. – E quel che è stupefacente è proprio la capacità di ritagliarsi un
angolo tutto per sé.
Come se a Tōkyō vigesse un patto non scritto fra le persone, un accordo
che si basa sulla privacy e sul rispetto dell’intimità altrui; in qualunque altro
paese del mondo sarebbero probabilmente prede di sguardi curiosi, mentre
qui tutti sono destinatari di una garbata indifferenza. Alcuni giocano al
cellulare, altri sfogliano una rivista, altri ancora concludono un lavoro
urgente. Di rado guardano il cielo, si perdono in qualcosa di astratto; ma
quando accade si fissano su un orizzonte vicino, senza vederlo, oppure
mirano in alto, verso altro di cui non si sente la voce.
Istantanee che dimostrano come a Tōkyō tutti, indistintamente, vivano
negli interstizi del mondo.

Tre rintocchi importanti di date.

In treno preparo i bambini alla giornata, racconto in dettaglio quel che


faremo oggi: Meguro, il santuario che sorgeva in una foresta, il tour
dell’invisibile nel Museo dei Parassiti («Pensate! È l’unico al mondo!»), e
poi a Naka-meguro con i suoi ciliegi che si rovesciano sul fiume fino a
renderlo rosa, il pranzo a Gajoen, uno degli edifici piú sfarzosi della città.
Fuori dei finestrini intanto inizia a piovere piano, come al rallentatore. In
Giappone la si chiama haru-same , «pioggia di primavera»,
precipitazioni dai grani piccini che sono un dono per i campi e per le gemme
di alberi e piante. Tipica di questo mese è anche uraraka , una
particolare luce che si sparge radiosa nel cielo sereno di primavera, come un
chiarore gentile che si posa sulla realtà. Questa parola evoca il tepore
piacevole del sole e la sua brillantezza.
Nel sussurrarla a Ryōsuke, penso che davvero ogni sfumatura di luce
dovrebbe avere un nome. E che a conoscere tutte quelle parole, la vita delle
persone sarebbe migliore.

68
Ad aprile ci sono almeno tre rintocchi importanti di date: il 5, l’8 e il 13.
– Il primo cos’è? – mi chiede Sōsuke.
Cade intorno al 5 di aprile uno dei ventiquattro periodi stagionali
dell’antico calendario lunare chiamato seimei , abbreviazione del
termine seijō-meiryō , dove la prima coppia di kanji significa
«purezza» e la seconda «chiaro, distinto, evidente». Come a dire che grazie
alla contemplazione del cielo sgombro di nubi, dell’aria limpida e della
natura nel pieno rigoglio, si fa sereno anche il cuore delle persone.
– Guardiamo i ciliegi fiorire, insieme a moltissime altre piante. Per
questo ci sentiamo tutti piú leggeri, piú felici.
Ryōsuke ci spiega come anticamente, in Cina, nel Giorno della Purezza
(seimei no hi ) fosse consuetudine recarsi sulla tomba degli
antenati e che, intorno al XVIII secolo, questa usanza si diffuse anche nella
prefettura di Okinawa. Lí venne istituita la Festa della Purezza (seimei-
matsuri ) e tuttora, in quei giorni speciali, le famiglie si raccolgono
intorno alla tomba degli antenati, fanno offerte e mangiano diverse pietanze.
Quanto diversa (e quanto piú cupa) è la nostra percezione dei cimiteri e
della morte in genere, e quanto vorrei che Sōsuke ed Emilio imparassero ad
accettare la circolarità dell’esistenza, la visione shintoista del mondo: grazie
all’osservazione concreta ma partecipata di ogni cosa – dalla forma della
terra alla breve parabola primaverile dei ciliegi in fiore – insegna come tutto
ciò che inizia sia destinato a finire. Ma anche come tutto ciò che finisce
adotti un’altra forma, rinasca.

– E la seconda? La seconda data qual è? – domanda Sōsuke, cui l’idea


della purezza non interessa un granché.
– Il compleanno di un grande dio, – rispondo, – … e anche il compleanno
di papà, – aggiungo subito dopo.
Il compleanno di Ryōsuke coincide in effetti con la Festa dei Fiori, l’8
aprile, giorno in cui si celebra la nascita del Buddha. Nel tempio SENSŌ-JI
ad Asakusa assisteremo per la prima volta a un profumato rituale che
consiste nel ricoprire di fiori la statua del Buddha e nel versarvi sopra un tè
dolce di ortensia (amacha ), pronunciando preghiere: si crede che cosí
saranno scongiurate le malattie e, tergendo con lo stesso tè la tavoletta per
l’inchiostro, si ricaveranno miglioramenti nell’arte della calligrafia. Una
leggenda vuole che un dragone, disceso dal Paradiso, abbia fatto fare al
piccolo Buddha il primo bagno con dolci gocce di acqua sacra.

69
Tutti questi rituali, ci sarà spiegato, sono concentrati sulla prevenzione,
sul cercare di scongiurare i malanni, sul preservarsi nei limiti del possibile
in buona salute perché un tempo, quando ci si ammalava, era ormai tardi: la
medicina risolveva poco o nulla.

– E il 13? Cosa c’è? Cosa si fa?


Il 13 aprile coincide con un rituale chiamato jūsan-mairi ,
ovvero «la visita al tempio dei tredici anni».
Nell’epoca Nara e Heian, i tredici anni erano considerati l’età in cui a
tutti gli effetti si faceva il proprio ingresso nell’età adulta. Erano, in realtà, i
nostri dodici anni, sempre secondo il sistema kazoe-doshi per cui si nasce
già con un anno alle spalle. Per diventare pienamente adulti si diceva
servisse innanzitutto chie , «saggezza», e, per questo motivo, il rito era
chiamato anche chie-morai , letteralmente «ricevere
saggezza».
– Tredici? – domanda Sōsuke deluso. In casa nostra nessuno ha tredici
anni. – Non importa! Ci sono tredici dolci, Sōsuke! Tredici! – rispondo. –
Dolci? – Sí, dolci.
In questo giorno infatti, in alcuni templi buddhisti, si prepara un
assortimento di tredici tipi di dolci, chiamati jūsan-chika . È
tradizione acquistarli e poi consumarli in famiglia.
– Li acquisteremo al Sensō-ji di Asakusa, – prometto e… – Gnam! –
esclama Sōsuke, subito contagiando il fratello. Entrambi mimano il gesto di
portarsi del cibo alla bocca.
E tra le loro piccole labbra sembra che tutto possa entrare: menú per la
strada, alberi, borse, fiori, passanti.

Falchi e oro.

Nel periodo Edo, Meguro era considerato una popolare meta turistica per
una gita fuori porta. Si rivolgeva una preghiera nel celebre TEMPIO MEGURO
FUDŌSON e si trascorreva del tempo di svago. Traboccava di
sale da tè, ristoranti, negozi di souvenir.
È difficile oggi da immaginare, eppure Meguro in passato era talmente
frequentato dalla gente di Edo che, benché si trovasse geograficamente fuori
dalla città, finí sotto la sua giurisdizione. La popolarità era dovuta

70
principalmente alla presenza dentro Meguro Fudōson di una statua dai
poteri miracolosi: si credeva che per assicurarsi la guarigione bastasse
versarle addosso dell’acqua sulla parte del corpo che faceva male al
pellegrino. Prima che venissero distrutti dai bombardamenti della Seconda
guerra mondiale, sorgevano tutto intorno anche una serie di templi minori in
onore di varie divinità, il che rendeva Meguro Fudōson il luogo perfetto per
ogni preghiera.
Il 28 di ogni mese, nel giorno chiamato en-nichi (che si crede
particolarmente fortunato perché legato a una specifica divinità del
vastissimo pantheon giapponese: Fudō myō-ō ), il viale che
conduce al tempio si fa animato di bancarelle. Okonomiyaki, takoyaki e
yakisoba, zucchero filato e mele caramellate diffondono il loro invito
dovunque.
Indico ai bimbi, in fondo alla scalinata in pietra del tempio, un piccolo
monumento che ritrae un falco e che ricorda come un tempo qui si stendesse
sterminata una foresta. Vi si cacciavano uccelli dell’altopiano come fagiani,
quaglie o conigli, e Tokugawa Iemitsu, il terzo shōgun, se ne innamorò. La
foresta di Meguro si presentava come la località ideale in cui praticare la
falconeria, disciplina di cui era un grande appassionato.
Nel periodo Kan’ei, ovvero dal 1624 al 1643, lungo una salita chiamata
Gyōnin-zaka (letteralmente «la salita degli eremiti»), pare
vivessero gli eremiti dei monti Dewa-san-zan , a metà strada
verso il tempio Daien-ji . Qui, nell’arco di cinquant’anni, furono
erette quasi cinquecento statue di pietra, ognuna con lineamenti ed
espressioni facciali proprie, per commemorare le tante vittime causate da un
disastroso incendio avvenuto nel 1772 e partito proprio dall’edificio
principale del Daien-ji.
– Kan’ei, – ripeto tra me e me questa parola, ma non riesco a ricollegarla
a nulla.
In tutti questi anni di studio e frequentazione del Giappone non sono
ancora riuscita a memorizzare la sua minuziosa periodizzazione: una
dimostrazione di come, nonostante la massiccia occidentalizzazione vissuta
da fine Ottocento, la cultura autoctona resiste ostinata in sottofondo.
– Mi fa impressione che un periodo storico possa essere tanto breve…
– È perché bastava accadesse un qualche evento funesto perché si
cambiasse precipitosamente il nome al tempo che si stava vivendo.
Ecco perché. Nomen omen.

71
La si ritrova in una stampa di Utagawa Hiroshige, una delle sue
celeberrime viste del monte Fuji, questa salita cara agli eremiti di quattro
secoli fa, che oggi noi percorriamo solo in parte dalla stazione. La nostra
meta è il MEGURO GAJOEN , un edificio di rara opulenza che
venne costruito nel 1931 sul fiume Meguro. Grazie alla morfologia del
terreno, si trova in una posizione elevata da cui è possibile godere di uno
splendido panorama. Pare che questo fosse uno dei motivi per cui la zona
venne scelta dal daimyō di Kumamoto come residenza di vacanze, oltre al
fatto che qui confluivano abbondanti acque di irrigazione.
Una parte degli interni del Meguro Gajoen fu inserita nel 1935 nel
patrimonio culturale di Tōkyō: la «scalinata dei cento scalini», costruita nel
tradizionale stile sukiya-zukuri che si ispira all’estetica della
cerimonia del tè. Al cento, numero perfetto secondo la tradizione cinese,
venne sottratto un gradino, in base alla visione di incompletezza e di
tensione perpetua che è caratteristica invece del pensiero giapponese.
Salendo, a lato si aprono sette stanze, ognuna con un proprio nome e
singolari decorazioni pittoriche a opera di grandi artisti giapponesi. Il lusso
debordante, l’oro sparso a piene mani, la ricchezza manifesta che sprigiona
dalle stanze, sfruttate oggi soprattutto per banchetti nuziali e ricevimenti, si
contrappongono a queste scale disadorne. Esemplificano due diverse facce
del mondo.
Qui è particolarmente stimolato l’immaginario di chi si è avvicinato al
Sol Levante tramite il disegno, in quella mediazione grafica che generazioni
di mangaka hanno distribuito copiosamente sul mercato mondiale da tempo
immemore e che fa sí che certi scorci di Tōkyō paiano stranamente familiari
al visitatore. Altrettanto funzionali all’immaginario i lungometraggi di
Shinkai Makoto che riproducono quadri urbani della capitale (5 cm per
secondo, 2007; Your name, 2016) o scene singole come il matsuri chiassoso
ed eccessivo della processione onirica in Paprika (2006) di Kon Satoshi,
che torna alla mente ogni volta che ci si imbatte in un festival di quartiere.
E, soprattutto, si dice che il Meguro Gajoen sia servito come modello delle
terme nella Città incantata (2001), lungometraggio che, tra i numerosissimi
riconoscimenti ricevuti, valse a Miyazaki Hayao l’Orso d’oro al Festival del
cinema di Berlino nel 2002 e il premio Oscar come miglior film di
animazione nel 2003.
Gli interni non sono aperti al pubblico, ma vengono periodicamente
organizzate mostre che permettono la visita a varie sezioni. Esistono

72
pacchetti che abbinano il tour a un pasto in uno dei suoi lussuosi ristoranti:
cucina cinese, cucina giapponese.
– Il Meguro Gajoen è servito anche da sfondo a una scena del racconto di
Dazai Osamu Kajitsu . Venne pubblicato sulla rivista «Kaizō»… nel
gennaio del 1944! – dico, recuperando i miei studi di letteratura giapponese.
Lo stesso malinconico Dazai Osamu, uno degli scrittori piú rappresentativi e
amati del Giappone del dopoguerra, simbolo, per una intera generazione di
giapponesi, di un certo modo infelice ma strenuo di stare al mondo, si spese
grandemente, in occasione del matrimonio di un amico (Shiotsuki Takeshi),
per l’organizzazione sia del rituale precedente alla cerimonia, sia per la
cerimonia stessa. Di lí pare scaturí l’idea del racconto.
Eppure, al di là della pregevolezza artistica dell’edificio, e per quanto
suoni grottesco, al Meguro Gajoen bisogna soprattutto recarsi al bagno.
– Al bagno? – domanda Sōsuke sorpreso.
– Sí, perché questo bagno è tutto d’oro, il piú costoso di tutto il
Giappone! – esclamo. – Andiamo insieme a vedere?
Il Meguro Gajoen è famoso infatti anche per il suo «bagno da un milione
di yen», chiamato cosí per via del costo di realizzazione che si aggira
intorno a quella cifra.
Superiamo l’ingresso tenendoci per mano. Ha porte preziosamente
laccate e, sotto un ponticello tradizionale, scorre un rigagnolo d’acqua.
Ovunque, tanto protagonista da risultare molesto, è l’oro. Entrarvi è a tutti
gli effetti un’esperienza.
– Oro, – fa eco ai miei pensieri Sōsuke, spalancando la bocca e
lasciandola cosí per vari istanti. Lo fa da quando aveva solo un anno. Gli
piace mimare – esagerandola – la mia sorpresa.

Vedere l’invisibile.

Andare in musei in cui non va nessuno, allontanarsi dalla comodità, da


quello che fanno gli altri: solo cosí è possibile mettersi alla prova, aprirsi a
idee inaspettate. Altrimenti, come faceva dire Murakami Haruki in
Norwegian Wood al suo narratore, «se uno legge quello che leggono gli
altri, finisce col pensare allo stesso modo».
Ecco: Tōkyō, per chi ama esplorarla, può costituire in questo senso una
continua digressione.

73
Anche zone all’apparenza nuovissime, o magari persino bruttine per via
dell’affastellarsi di massicci edifici dall’aspetto lindo ma impersonale, cosí
come quartieri con un carattere specifico e una storia robusta alle spalle
ammettono questi piccoli, inaspettati sconfinamenti che sono i minuscoli
musei che non c’entrano niente, sorprendenti proprio perché celati nel nodo
di strade da cui non ci si aspetterebbe nulla.
A Ryōgoku, il quartiere del sumō, c’è ad esempio il Museo dei materiali
per fuochi d’artificio, a Nihon-bashi il Museo dei farmaci, a Waseda il
Museo della tintura; nella ricca zona di Setagaya esiste l’unico museo al
mondo dedicato alle palle di vetro con neve, mentre a Kikukawa ne esiste
uno che raccoglie biglietti da visita; a breve distanza dalla stazione di
Morishita sorge il Museo delle chiavi e delle casseforti, e a Takao, ce n’è
uno assai spiritoso, riservato all’arte dell’illusionismo. A Yokohama,
prenotando, è possibile visitare il Museo dei denti (Ha no hakubutsukan
), un luogo accessibile solo su prenotazione che illustra la
storia dell’ortodonzia in Giappone.
Ed ecco che proseguendo su Meguro-dōri, a dodici minuti a piedi
dall’uscita ovest della stazione, c’è una esposizione permanente unica al
mondo: il MUSEO DEI PARASSITI (Meguro kiseichū hakubutsukan
, «Museo parassitologico di Meguro»). Di per sé non ha
un aspetto appariscente, presentandosi piuttosto per quello che è, ovvero un
centro di ricerca. E tuttavia esso è divenuto assai noto negli anni grazie a un
passaparola fra turisti locali e internazionali e grazie ad articoli pubblicati su
riviste e giornali.
Mi ha sempre divertito come tra i suggerimenti che propongono i motori
di ricerca in lingua giapponese accanto al nome del museo compaia la parola
dēto , ovvero «appuntamento» nel senso proprio di «rendez-vous
romantico». Tra le possibili mete per un appuntamento galante, infatti, pare
che questa sia una delle soluzioni piú popolari. Del resto ha molti vantaggi:
è gratuito (anche se è consigliato lasciare all’ingresso un’offerta), non
sottintende alcuna conoscenza pregressa ed è talmente insolito da rimanere
scolpito nella memoria.
Sono affascinata da sempre dalla visione al microscopio, dalla
prospettiva sorprendente che si apre nel perimetro di pochi millimetri di
materia, dall’idea soprattutto che dietro alla forma approssimativa delle cose
che vediamo, si nasconda un universo di invisibili particolari. Portare qui
oggi i bimbi rientra nella speranza che siano contagiati da una visione del

74
reale non preconfezionata, di renderli curiosi.
Sōsuke tralascia i pannelli pieni di scritte, fissandosi piuttosto sulle
fotografie, concretissime, alcune sconvolgenti anche per me.
– Serve anche a sfatare il mito completamente negativo del parassita, a
partire dall’uso linguistico che se ne fa, – dico rivolgendomi a Ryōsuke. – In
italiano parassita è quello che vive alle spalle degli altri, quello che mangia
alla tavola altrui… l’etimologia, del resto, ha il cibo nella parola.
– In giapponese parasaito single è anche una categoria sociale, quella
degli uomini e soprattutto delle donne che non mettono su famiglia e vivono
alle spalle dei genitori.
– Qualcosa di vicino ai nostri bamboccioni forse, – rispondo distratta.
Sōsuke mi tira per la mano, ha individuato al secondo piano, al centro della
saletta, i campioni degli organismi immersi in un liquido trasparente o di un
intensissimo blu. Ci sono un topolino dalle viscere esposte che è stato
infettato dall’Echinococcus multilocularis, un parassita che prospera
nell’Hokkaidō, l’intestino di uno scoiattolo volante e il cuore di un cane,
sfilacciato dal micidiale parassita Dirofilaria immitis.
Difficile dire cosa stia pensando Sōsuke, lui la morte ancora non la sa. È
sbigottimento, fascino, sospesa incredulità. Emilio invece dorme e,
considerata la sua età, è meglio cosí. Probabilmente si annoierebbe.
Tra le curiosità piú pubblicizzate del museo, un verme solitario di 8,8
metri, il Diphyllobothrium nihonkaiense, parassita che s’introduce
nell’organismo umano attraverso le carni crude della trota. È interessante
anche ritrovare il maestro dell’ukiyo-e, Katsushika Hokusai (l’autore della
Grande onda di Kanagawa), su uno dei pannelli, dove è illustrato un caso di
elefantiasi scrotale. È ritratto un uomo, aiutato da un altro, che sorregge il
proprio scroto infettato dal verme della filaria, il Wuchereria bancrofti, con
stecche di bambú e un ampio panno. Va tutta là l’attenzione dei bambini
presenti nella sala, incapaci come sono di intravedere gli aspetti tragici della
vicenda.
Usciamo in strada con la colorata guida del museo sottobraccio e con
Sōsuke che continua eccitato a fare domande sul cuore filamentoso del cane,
sulle palpebre della tartaruga, su quello che c’è ma non si vede.
Capire i parassiti, in fondo, è capire l’equilibrio tra le creature viventi, la
reciproca dipendenza che ci lega gli uni agli altri, nessuno escluso. È
probabilmente la lezione piú preziosa che si possa apprendere
dall’osservazione della natura.

75
In una giornata che inizia presto, è bello salire a bordo della linea
Shōnan-Shinjuku o della Yokosuka e scendere a KAMAKURA – da Shinjuku,
Shibuya o Tōkyō dista in treno poco meno di un’ora. Antica capitale del
Giappone, circondata da montagne e lambita dall’oceano Pacifico,
rappresenta una delle mete piú amate dai giapponesi e dai turisti stranieri.
Alcuni amano giungere in tempo per prendere un caffè da portar via,
sorseggiandolo magari sulla via principale che conduce di torii in torii
all’oceano, e ammirare cosí, dal bagnasciuga disseminato di conchiglie, il
monte Fuji che si staglia nitido all’orizzonte, al di là di un esile
promontorio. E tuttavia da marzo e aprile, in un orario piú tardo, la sacra
montagna inizia a farsi sfuggente, per via dell’umidità che porta con sé haru
, la primavera.
È proprio passeggiando su questa spiaggia che ho avuto modo negli anni
di individuare il mio kigo preferito di stagione che è shinkirō ,
termine che dà il nome a un poetico fenomeno naturale: sulla superficie del
mare e piú in là, vicino alla linea dell’orizzonte, per via di uno scarto di
temperatura dell’aria, accade che paesaggi e luoghi geograficamente assai
distanti si riescano a scorgere con inedita chiarezza. Che quanto solitamente
è avvolto nell’aria e nei suoi vapori (umidità, foschia eccetera…) si renda
nettissimo, preciso alla vista. Lo si traduce in italiano come «miraggio», ma
è molto di piú. Non è una fantasia, bensí una visione chiara e inattesa di
qualcosa di reale, di qualcosa che solitamente è al di là del nostro sguardo.

Le vent se lève.

Partiamo da qui, vicino a casa dei nonni dove ieri notte abbiamo dormito,
dalla spiaggia di Kamakura, da cui, in questo giorno luminoso di aprile, si
riescono a scorgere le isole dell’arcipelago del Miura-hantō e da cui
l’isoletta di Enoshima pare distare solo un palmo.
– Guardate in alto, lí! – dico ai bambini che alzano il viso e scorgono in
cielo oche che volano in stormo verso nord. Si concretizza cosí, davanti ai
nostri occhi, un altro kigo del mese: è haru-no-kari letteralmente «le
oche selvatiche di primavera», volatili che migrano dal Giappone – dove
hanno dimorato durante l’inverno – verso nord.
Oggi faremo una scorpacciata di ciliegi per Tōkyō, iniziando proprio da
qui, dal lunghissimo viale che porta al santuario TSURUGAOKA

76
HACHIMANGŪ , tempestato nel mezzo da fitti sakura, sostituiti
di recente. Venire qui, dove io e Ryōsuke ci siamo sposati tanti anni fa, è
sempre un’emozione.
Camminando vediamo turisti tornare dal mare giusto in tempo per
l’apertura dei negozi, nella trama di stradine secondarie di cui Kamakura
abbonda e in cui sorgono villette, giardini, tracciati incisi dai binari del
celebre trenino locale, l’Enoden . Sōsuke ed Emilio lo adorano: è
tutto verde, composto da due sole carrozze, e si infila letteralmente nel
tessuto cittadino, costeggiando anche un ampio tratto di mare che collega
Kamakura a Enoshima, fino alla vivace città di Fujisawa. Per fare scatti
davvero suggestivi basta armarsi di una buona macchina fotografica e fare
in modo di sedersi dietro al conducente. Vedere il mare sbucare
all’improvviso è per i bimbi una grande emozione.
Tornando verso la stazione di Kamakura è bello tuffarsi decisi dentro
Komachi-dōri. È la viuzza che conduce fino al santuario Tsurugaoka
Hachimangū: trabocca di piccole botteghe caratteristiche dove assaggiare
pietanze locali e acquistare souvenir, come il sapone di konnyaku o i fūrin e
le campanelle di bronzo che in estate donano al vento la voce. Vediamo
alcune coppie infilare la porticina di uno dei tanti locali dove affittare yukata
e kimono, in linea con la tendenza odierna dei giovani giapponesi,
soprattutto ventenni, che riscoprono la bellezza degli abiti tradizionali, in un
rinnovamento costante di fantasie e di colori. Nel prezzo è compresa la
vestizione, e chiacchiere lievi con le signore che cingono alla vita gli obi e
sistemano le pieghe della stoffa, cosí da farla cadere armoniosamente anche
sul corpo piú formoso delle europee.

Mi accorgo d’un tratto che tuttavia è lí, in quel lunghissimo tunnel


d’ingresso dell’università, che un tempo era una pista d’atterraggio di aerei,
che ho visto la mia prima fioritura di ciliegi. Avevo ventitre anni, ero
arrivata in Giappone da otto mesi. Tutto mi provocava allora un forte
batticuore.
– Sarebbe bello tornarci, che dici? – sussurro a Ryōsuke.
È tra i banchi dell’International Christian University che mi sono
innamorata del Giappone, che ho appreso per bene la lingua, che ho
maturato la decisione di restare. Ed è lí che ho incontrato Ryōsuke, che di
quella decisione è una bellissima parte.
– Dovevamo già scegliere tra il parco di Ueno, il tunnel sul fiume di

77
Naka-meguro e il laghetto di Kichijōji: ovunque i ciliegi sono in fiore, –
replica lui. – Per non parlare di Chidorigafuchi, nel fossato intorno al
Palazzo imperiale. Sei sicura di voler andare proprio lí?
Sí, è lí che voglio tornare, nei luoghi della nostalgia. E comunque
dall’università a Kichijōji, in autobus è soltanto una corsa.

In questo luogo sconosciuto ai turisti, ma assai amato dalle persone di


zona, torna ancora il nome di Miyazaki Hayao. È per via del suo ultimo
lungometraggio di animazione, S’alza il vento (2013): qui furono progettati
gli aerei cui si dedicò Jirō, il protagonista del film, nato dalla
sovrapposizione della vita del celebre ingegnere Horikoshi Jirō (1903-1982)
con quella dello scrittore Hori Tatsuo (1904-1953).

«Hanami»: la lezione dei ciliegi.

Nel dialogo fra Tezuka Tomio e Martin Heidegger, riportato da


quest’ultimo nella raccolta In cammino verso il linguaggio, il filosofo
tedesco fa spiegare all’interlocutore, che chiama «G» – cioè il Giapponese
–, cosa sia kotoba , ovvero «parola» o «linguaggio». «G» si appella –
non senza l’esitazione che è innata nei giapponesi nell’approcciarsi al
mistero della propria lingua – ai kanji: «[S]ono costretto a darne una
traduzione, per la quale la nostra parola per indicare il linguaggio assume
l’aspetto di un’ideografia, rientra cioè nella sfera rappresentativa dei
concetti». E nella parola koto ba – cosí trascritta e scomposta per
evidenziarne le parti – indica in ba le «foglie» e i «petali».
Subito Tezuka propone la visione della fioritura di un ciliegio o di un
susino, tanto rappresentativi essi sono del Giappone, parti ineludibili del
paesaggio primaverile. Anzi, tale è la presenza dei ciliegi nell’immaginario
poetico dei giapponesi, che quando negli haiku si utilizza il termine hana
, ovvero «fiore», si sottintende che sia quello di ciliegio. Dura poco, e
proprio perché dura poco, allunga radici robuste nella memoria.
La bellezza (bi ) è del resto intrinsecamente legata al concetto di
caducità nella cultura del Sol Levante, l’allegria alla malinconica tristezza
nella contemplazione della fine. Tutto quanto vive e pulsa, è destinato a
terminare. Cogliere l’attimo presente, contemplare l’immanenza che già
volge al tramonto è tutto quanto serve a essere coscienti, presenti a se stessi

78
e alla vita che si ha a disposizione.
Simone Weil, nello stigmatizzare la povertà come chiave autentica del
mondo, come porta attraverso cui accedere al bello, individuava nei fiori di
ciliegio il simbolo piú potente.
Bello e fragile. Bello perché fragile.
«Lo spettacolo dei fiori di ciliegio, a primavera, non potrebbe andare
dritto al cuore, come accade, se la loro fragilità non fosse cosí sensibile»,
scriveva per il Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain.

79
80
I sakura sono della famiglia delle rose. Sotto questo nome si catalogano
tuttavia una varietà notevolissima di ciliegi. Si era soliti definire sakura, in
particolare, gli yama-zakura , ovvero i ciliegi della montagna,
definizione che adesso si è spostata a indicare i somei-yoshino .
Negli anni sono stati creati innumerevoli ibridi che hanno dato origine alle
duecento, trecento varietà oggi esistenti.
Un tempo si credeva che nei ciliegi dimorassero gli dèi delle risaie e che,
quando raggiungevano la piena fioritura, le persone dovessero fare offerte di
cibi e bevande e pregarli per una raccolta abbondante di riso, grano e altri
prodotti della terra.
– Gli dèi? – domanda Sōsuke curioso.
Da quando ha scoperto nella libreria di casa uno dei pochi libri di
bambina che mi sono portata dietro in Giappone (il vecchio volume I greci
degli Editori Riuniti) capita che al parco mi rincorra con grossi rami
spezzati, gridando: «Io sono Zeus e tu sei il mostro». Un preciso comando
che è insieme la sceneggiatura del gioco. Ma succede anche che io sia Birba
e lui Gargamella, entrambi affamati alla ricerca dei Puffi, oppure che io sia
Baikinman e lui mi dia uno dei micidiali pugni di Anpanman, eroe nazionale
giapponese che aggiusta tutto con il suo destro e il faccione a panino.
Nel periodo Heian si diffuse nell’aristocrazia l’abitudine di recitare
poesie e comporre musica all’ombra dei ciliegi in fiore. Nel periodo Edo era
invece usanza mangiare, bere, e creare incontri di grande socialità.
Somei-yoshino è adesso la varietà di ciliegi piú amata e diffusa. Una
leggenda vuole che la loro diffusione abbia avuto inizio alla soglia del
periodo Meiji, quando un vivaista della zona di Somei (antico nome
dell’attuale quartiere di Komagome a Tōkyō) prese a venderli con
notevole successo.
Ma al di là di ogni nozione di botanica, i bimbi ne sono entusiasti, e
corrono verso questo nevischio messo a margine dalle scopette, ricacciato
nelle aiuole da cittadini solerti. Sōsuke ed Emilio ci infilano dentro le mani,
le immergono fino a farle sparire. I petali sono soffici, formano un manto
liscissimo al tatto: basta toccarlo con un’unghia per lasciarvi un solco.
In questa fase i ciliegi non danno foglie – ed è proprio grazie a questa
assenza che la loro chioma pare cosí abbacinante, nell’integrale uniformità
di colore e consistenza – e le rilasciano solo quando quasi tutti i fiori stanno
per precipitare.
– Spuntano le foglie e lí si capisce che la stagione dei ciliegi è finita.

81
Non arriveranno mai le ciliegie: sono ibridi che non danno frutto ma
unicamente fiore. Le energie vengono convogliate tutte là.
Emilio lancia con le manine gonfie i petali in aria. Sono coriandoli, per
un carnevale in ritardo, pioggerella dall’inesprimibile profumo dolciastro.
Le temperature lievemente piú costanti di quelle di marzo sono ancora
oscillanti e, negli inizi, aprile resta tendenzialmente umorale e malfermo.
– Mi piacciono i ciliegi! – esclama Sōsuke e ogni volta che impara una
nuova parola, alla felicità che provo (sempre mista a stupore) si accompagna
il rammarico per come un termine solo venga utilizzato per indicare tante
sfumature. Mi affretto sempre a fare luce sulle variabili nell’ombra delle
parole, quasi mi spaventasse il raggrupparsi del mondo dentro un unico
suono.
– Vedi? – gli dico indicando le tantissime varietà su un libro illustrato. –
Ci sono gli yama-zakura, i ciliegi di montagna, che si stendono pallidi o
bianchi sulle alture e crescono come fratelli insieme alle foglie.
Ne ricordo la suggestione, durante il mio primo viaggio a ovest,
nell’ammirare la montagna Yoshino (Yoshino-yama ) nella
prefettura di Nara, quando mi apparve totalmente ricoperta dai suoi tenui
colori.
– Guarda! – L’indice scorre sugli shidare-zakura , chiamati
anche ito-zakura , «ciliegi a filo», che hanno rami flessuosi e molli, su
arbusti che si espandono in grandi dimensioni e per questo producono
moltissimi fiori. Con i somei-yoshino fanno staffetta i kanzan (o
sekiyama) perché i secondi fioriscono proprio quando cadono a terra i fiori
dei primi. Hanno un numero abbondantissimo di petali, anche cinquanta per
fiore, e paiono piú gonfi, tanto magnificamente gonfi che è quasi irresistibile
il desiderio di schiacciarli tra indice e pollice.
Sōsuke mi guarda mentre io continuo a sciorinare parole. Pare alzare le
piccole mani, come rinunciando a imparare. «Mamma, tu sei ossessionata»,
mi dirà un giorno. Non ne ho la certezza, ma ci scommetto.

Per fare hanami a Tōkyō la scelta è assai ampia.


C’è innanzitutto il parco di Ueno che, dall’inizio del periodo Edo,
divenne particolarmente celebre per ammirare i ciliegi che il monaco
buddhista Tenkai (1536-1643) fece trapiantare lí direttamente dalla
montagna Yoshino. Il parco si riempie di bancarelle, diviene uno stendere
collettivo di teli, un concilio di teste e di fiori: è il chiasso del Festival dei

82
Sakura (tra la metà di marzo e l’inizio di aprile), durante il quale si tengono
una serie variegata di eventi e la sera si accendono lanterne bonbori .
Cosí è al parco di Shinjuku Gyoen, al Rokugi-en o a Yoyogi. È
bellissimo anche il recinto del tanto discusso santuario di Yasukuni a
Kudanshita – dedicato ai caduti in guerra al servizio dell’Impero, qualcuno
di dubbia integrità morale – o il lungo viale che porta all’Università di
Kunitachi.
Per averci vissuto a lungo vicino, conservo un ricordo speciale degli
hanami sotto la cascata di shidare-zakura sul No-gawa, il fiume, e
nell’omonimo parco, cosí come nel parco di Koganei, dove passeggiai a
lungo quando ero incinta di Sōsuke. Ricordo che mangiavo e camminavo,
camminavo e mangiavo mentre il ventre cresceva. E poi c’era quel soffitto
annodato di rosa, rami di cui avvertivo il profumo a una tale distanza e in un
modo talmente netto che immaginavo (a ragione) che di sentirlo cosí non mi
sarebbe capitato mai piú.
D’impulso, sull’onda dell’eccitazione per la festa, e forse anche per la
fame che stimola il ricordo del sapore di certi deliziosi cibi di strada, vorrei
essere a Naka-meguro, sul lungofiume tempestato di caffè e camioncini-
ristorante, dove la gente sembra procedere in una sorta di estasi religiosa,
nel bel mezzo di una tale densità di ciliegi che la luce ne pare oscurata.
Alla fine scegliamo KICHIJŌJI , uno scorcio piú tranquillo per timore della
folla, che per i bimbi è solo un mare nero di gente, o una foresta buia e
impenetrabile di gambe. In questa stagione, infatti, come in spiaggia in
estate o nei parchi divertimenti, c’è il picco di maigo , ovvero di
bambini ( ) che si perdono ( ).
Ed ecco che, seduti sotto un cielo di rami pesanti di fiori, questo
lunghissimo giorno mi consegna un’ultima parola: hana-mushiro . Si
succedono i caratteri di fiore ( ) e di stuoia ( ) e vi si intende l’atto di
stendere il tappetino sotto i ciliegi in fiore e di accomodarcisi sopra a piedi
scalzi, per fare hanami in compagnia di amici, colleghi e parenti.
I giapponesi, durante i vari eventi sociali cui amano partecipare, hanno
l’abitudine di stendere teli (oggi soprattutto di plastica) per ricreare anche
fuori casa uno spazio in cui stare comodi e scalzi a bere e mangiare in
un’atmosfera rilassata. Paiono due rettangoli di tatami capaci di trasportare
«casa» dovunque.
È qui che anche noi apriamo il bentō che ieri notte ho impiegato ben due
ore e mezzo a confezionare: onigiri a sfera di vari colori, piccoli a

83
sufficienza per le dita di Sōsuke e di Emilio, e petali bianchi ricavati
premendo lo stampo su sottilette e prosciutto cotto. Crocchette, bocconcini
di pollo fritto e rotolini di frittata, insalate assemblate in piccoli prati, alghe
ritagliate come fossero tronchi, broccoli che interpretano cespugli dietro cui
si nasconde un coniglio, a sua volta scolpito con due uova sode, il profilo di
un gatto i cui occhi sono verdi piselli e le orecchie fettine della radice di
renkon.
E mentre la stagione dei sakura va finendo e il testimone passa al
Festival delle Azalee di Nezu – uno sterminato prato a batuffoli rosa, fucsia
e bianchi –, alzando gli occhi al cielo notiamo sempre piú svirgolati voli di
rondini, che cercano luoghi dove nidificare. E le persone ovunque, negli
uffici, sotto le tettoie dei negozi, nei garage delle case private, persino nelle
stazioni della metropolitana, cominciano a darsi da fare per salvaguardare
quelle curve aeree spericolate e quelle grida acute dei volatili che mettono
su casa.
Anche nella megalopoli piú popolata del pianeta, in questa Tōkyō che è
enorme e piccola insieme, a breve nasceranno nuove famiglie.

84
MAGGIO

Il mese delle azalee

Satsuki
Maggio porta il nome delle azalee, satsuki . E tuttavia pare sia il risultato di una
modifica del nome originario che suonava piuttosto come sanae-zuki ,
ovvero «il mese delle piantine di riso»: un riferimento alla consuetudine agricola di
trapiantarle in questo periodo dal semenzaio al campo. Inoltre, la sillaba sa ha in
sé il significato del trapianto del riso cosicché satsuki suona come «il mese di sa»,
ovvero l’abbreviazione di taue no tsuki , «il mese del trapianto del
riso».

Tra gli altri nomi di maggio: tagusa-zuki , «il mese delle gramigne delle
risaie»; tachibana-zuki , «il mese del mandarino selvatico»; samidare-zuki
, «il mese delle piogge che cadono prima dell’estate», nome quest’ultimo
che conferma lo spostamento indietro del calendario solare rispetto a quello lunare.
Il tempo era costantemente nuvoloso, il cielo gonfio di nubi, tanto che non era
possibile osservare la luna (tsukimizu-zuki ).

Quel doppio 8 che parla del tè.

Si avvicina l’estate, le nuvole si abbassano, ci vengono addosso. Cosí


almeno sembra a Sōsuke. Mi domanda se mai scendano a fare merenda o a
riposarsi, le nuvole. E, grazie al gioco di un bambino, mi accorgo di come a
maggio le nuvole paiano davvero avvicinarsi alla terra, mentre l’aria è tersa
ma sempre piú impregnata di umidità. È proverbiale l’estate giapponese:
aria e acqua sono un tutt’uno nelle narici.

85
A maggio, oltretutto, il caldo arriva improvviso, come repentini scoppi di
febbre. Tōkyō si sbraccia, si arrotola le maniche fino alle ascelle, suda. Poi
tutto si smorza, ma solo per riprendere da capo nell’arco di un giorno o due.
Nella vasta piana del Kantō, maggio e giugno sono cosí.

Se la terra si impegna, i contadini la assecondano: è questo il periodo in


cui si raccolgono le fave sora-mame, il mandarino-pera mikan-nashi e
soprattutto il frumento, l’avena e le foglioline da cui si ricaverà il tè. In
Giappone sono frequenti gli eventi organizzati in serre e campi coltivati in
cui i turisti raccolgono frutta e verdura, sotto l’occhio attento degli
agricoltori. Fragole in serra, pannocchie, patate, grappoli d’uva, mele,
meloni, kaki, pere, germogli di bambú: i prodotti si consumano in parte sul
posto – apprendendo cosí direttamente dagli esperti la maniera di esaltarne
al massimo il sapore –, in parte li si porta a casa come ricordo della giornata.

Cade intorno al 2 maggio Hachijūhachi-ya , l’«Ottantottesima


notte», un doppio 8 che nel Giappone della tradizione richiama alla mente il
tè. Camminando per le strade di Tōkyō, si incontrano di frequente negozi
specializzati: il tipico odore abbrustolito delle foglie di tè si sparge per le vie
antistanti, e le teiere in bella vista, spolverate meticolosamente dai
commessi, stanno fianco a fianco con tazze linde, subito pronte all’uso. In
questi negozi è immancabile un panciuto dispensatore di acqua bollente,
cosí come onnipresenti sono le voci acute e ammalianti che invitano a
degustare le varietà di stagione («Prego, assaggiate! Volete provare?») Ed
ecco che chiunque abbia lentezza nel passo fa una sosta, sorbisce il tè dai
bicchierini sul vassoio che la commessa tiene in eccezionale equilibrio, e
ascolta quella stessa voce, che prima si dispiegava per tutta la via, farsi
piccina piccina, per spiegare quale tè si stia sorbendo e perché sia il migliore
che c’è.
Dal primo giorno di primavera, secondo il calendario lunare, sono
trascorsi 88 giorni e nelle aziende agricole questa data coincide anche con la
stagione della raccolta delle foglioline nuove di tè. Tutto ha origine dal kanji
di «riso» (kome ): se sciolto nelle sue parti, forma una successione di
caratteri di base quali hachi-jū-hachi , ovvero i numeri 8, 10 e 8, da
qui «88» secondo la lettura giapponese. Si ritiene pertanto che questo sia un
giorno propizio per la produzione del riso ma, piú in generale, un giorno
fortunato perché l’ideogramma di hachi ha la caratteristica di allargarsi

86
alla foce, simboleggiando apertura e prosperità.

Il tè verde tipico giapponese prese in realtà origine da quello cinese, e la


sua produzione si diffuse rapidamente in tutto il Giappone. Poi, sempre dalla
Cina, si estese all’India e all’Europa, ma diffondendosi come «tè nero»,
quello, per intenderci, che ora definiremmo «inglese».
La parola in uso è ocha e le foglie da cui viene estratto
appartengono alla pianta di chanoki, della famiglia delle camelie. Ne
esistono molte varietà come il tè oolong, il tè verde o il tè nero, ognuno dei
quali viene preparato tramite procedimenti diversi come fermentazione,
essiccazione, cottura a vapore, che a loro volta danno origine a differenti
modi di gustarlo. Le foglie del tè oolong, ad esempio, vengono fatte
leggermente fermentare; il tè verde non è sottoposto ad alcuna
fermentazione, mentre il tè nero nasce proprio dalla fermentazione delle
foglie.
– In Giappone è tuttavia possibile godere anche di varietà che non
sfruttano foglie ma erbe, come il rosmarino, la camomilla, il grano (mugi-
cha), le alghe (konbu-cha) –. Potrei passare un’ora intera ad ascoltare mia
suocera elencare le virtú di una varietà, guardarla mentre estrae piccole
tazze dalle scansie a vetri che sono il vanto delle case giapponesi. Lí è
affastellato vasellame di forme e colori diversi, tra cui una teiera di ceramica
spessa cui mia suocera dedica ogni volta uno sguardo piú dolce: presenta
alcune venature irregolari color ocra nel corpo e nel beccuccio, punti di
rottura che conosco a memoria perché sono stata io a riempirli di urushi, la
lacca giapponese, durante un corso di kintsugi .
In questo paese, di tè vengono imbevuti tutti i discorsi che richiedono
tempo, anche se poi il tè non lo si beve. Ogni volta che si viene accolti in
una casa, o in un negozio o ufficio, dove la trattativa richiederà pazienza e
un certo grado di confidenza, la frase che anticipa l’ingresso nella
conversazione vera e propria è sempre: «Ocha wa ikaga desuka? Che ne
dice di un tè?» O ancora, per invitare a un incontro, a quell’intervallo di
pochi minuti o di ore che gli italiani sono soliti accompagnare con una
tazzina di caffè, i giapponesi chiedono: «Ocha ni shiyōka? Ci prendiamo un
tè?»

Una settimana d’oro.

87
A cavallo tra la fine di aprile e l’inizio di maggio si raggrumano una serie
di festività che, aggiunte al weekend, danno luogo alla Golden Week. È uno
dei periodi di vacanza piú lunghi del Giappone insieme al Capodanno e, in
estate, alla Festa dell’o-bon. Chiamato anche Ōgata-renkyū ,
«lunga vacanza di giorni consecutivi», e Ōgon-shūkan ,
«settimana giallo-oro», copre una lunga settimana che va dal 29 aprile al 5
maggio.
I giapponesi si mettono in viaggio, si dedicano allo svago, mangiano
fuori, prendono lo shinkansen per raggiungere luoghi remoti, esplorano i
musei della propria città, i parchi, il verde che a maggio si dice essere il piú
bello dell’anno. C’è chi tuttavia evita appositamente questo periodo per
prendere le ferie, per non finire nelle lunghe code che si formano fuori dai
ristoranti piú famosi e dai luoghi di divertimento piú ambiti.
Il 29 aprile fu fissato in origine perché data di nascita dell’imperatore
Hirohito (1901-1989), salito al trono nel 1926 con il nome di Shōwa («Pace
illuminata»): è consuetudine infatti rendere festivo il giorno in cui ogni
nuovo imperatore viene al mondo, e la festività è chiamata, letteralmente,
«Compleanno dell’imperatore». Quindi, se fino al 2018 andava sotto questo
nome il 23 dicembre, giorno di nascita dell’imperatore Akihito, da maggio
2019, quando ha abdicato in favore del figlio Naruhito, la data è cambiata al
23 febbraio, giorno di nascita dell’attuale tennō. All’avvento dell’imperatore
ancora successivo, la data nuovamente cambierà. Come anche il nome
dell’era. Ed è stato cosí nel 1989, quando l’era mutò passando dalla Shōwa
alla Heisei – appena trascorsa mentre scrivo. Allora il 29 aprile venne prima
rinominato «Giorno del Verde», e poi nel 2007 si tramutò definitivamente
nella festa nazionale Shōwa no hi , il «Giorno di Shōwa».
In omaggio a questa data speciale, sogno di spingermi un giorno fino alla
prefettura di Ishikawa, al Wakura Shōwa Museum and Toy Museum. Me lo
riprometto ogni anno perché pare che lí siano esposte riproduzioni
particolarmente efficaci non solo di giocattoli antichi ma anche di interi
scorci di quel magico periodo di ricostruzione e modernizzazione seguito
alla Seconda guerra mondiale che, per molti versi, incarna per i giapponesi il
concetto stesso di «nostalgia». Il presente e la solida speranza nel futuro
avevano allora la meglio sul passato luttuoso della sconfitta.
C’è poi il 3 maggio, giorno in cui nel 1947 venne promulgata la
Costituzione di cui mi ha sempre colpito, nell’articolo 13, il riferimento al
«diritto alla felicità». Benché chiaramente mutuato dal modello americano,

88
imposto all’indomani della sconfitta nella Seconda guerra mondiale, è
sempre bello ripetere a fior di labbra che la felicità è un diritto, proprio
come la libertà. Come il «diritto [di tutte le persone] alla vita, alla libertà e
al perseguimento della felicità, entro i limiti del benessere pubblico,
costituiranno l’obiettivo supremo dei legislatori e degli altri organi
responsabili del governo».
Per la strada, davanti agli uffici o fuori dalle abitazioni di alcuni cittadini
solerti, sventola la bandiera giapponese, e intanto la Settimana d’Oro scivola
via. Ecco, sul finire, il «nuovo» Giorno del Verde, spostato al 4 maggio e
dedicato alla celebrazione della natura, al desiderio di sentirla piú vicina e
alla necessità di esprimerle la giusta riconoscenza.
E tuttavia è l’ultimo giorno di questa settimana speciale, il doppio cinque
(5/5), il piú sgargiante di tutti. Accende di una infinita varietà di tinte le
case, anche la nostra, i balconi del quartiere, le finestre delle abitazioni su
cui alcuni appiccicano adesivi di carpe, elmi e personaggi della tradizione
favolistica giapponese come Kintarō. Il 5 maggio è infatti Tango no sekku
no hi , oggi piú semplicemente chiamato Kodomo no hi
, il «Giorno dei bambini».
Tradizionalmente era una celebrazione dedicata ai maschietti, festeggiata
issando tasche a vento a forma di carpa fuori dai balconi, dalle finestre o nei
giardini. Se ne vedono anche a filo, sui fiumi, durante grandi eventi
collettivi come tra Mejiro e Takadanobaba sul Kanda-gawa. Hanno bocche
spalancate che ingoiano il cielo e guizzano nell’aria lasciandosi plasmare dai
colpi di coda improvvisi del vento. Si prega per la crescita e la salute dei
piccini e oggi la festa abbraccia indistintamente femmine e maschi.
Tra qualche ora di queste tasche a vento ne vedremo ben 333 attaccate ai
piedi della Torre di Tōkyō; saliremo fin su in cima ed entrando nel corpo di
uno dei simboli piú amati della città ammireremo la metropoli dall’alto della
sua verticalità scarlatta che, come scopriremo, rossa non è.

Carpe, draghi e ragnetti.

– Ma perché le carpe? – mi ha domandato ieri Sōsuke, mentre tornavamo


a piedi dall’asilo. Nel tragitto fino a casa ne incontriamo almeno sei.
La sua domanda mi ricorda per l’ennesima volta quanto col tempo si
finisca per considerare ovvio anche ciò che ovvio non è, e quanto negli anni

89
io stessa mi sia assuefatta a una cultura che in origine non era la mia. Per
rispondere cerco nei libri e scopro cosí che una antica leggenda cinese
voleva che le carpe che risalivano le tempestose correnti dei corsi d’acqua si
tramutassero in draghi, nel tratto dei fiumi che si interrompono bruscamente
in cascate.
Nel tempo questa credenza cinese si fuse con l’usanza giapponese di
issare dei particolari pilastri decorati (kagodama) davanti alle case, come
segnali per accogliere l’arrivo della divinità della risaia; fu sopra questi
pilastri che, in un secondo momento, vennero issate le tasche a vento dei
koi-nobori , dando vita alle decorazioni che oggi si ammirano in
ogni angolo del Giappone nei giorni prossimi al 5 maggio.
Tralascio dettagli troppo specifici come i nomi delle varie parti che
compongono gli stendardi, la simbologia della piccola ruota che sprigiona
un rumore energico e funge da amuleto contro gli spiriti maligni, la sfera
tagliata a spicchi che indicava la via alla divinità delle risaie. A Sōsuke dico
soltanto, perché vorrei che si tramutasse per lui in un’immagine
rassicurante, come è nata prima la carpa nera (magoi ), poi quella rossa
(higoi ) e come proprio quella blu, la piú piccina, si aggiunse piú tardi
ancora, nel periodo Shōwa, quando i koi-nobori simboleggiavano ormai la
famiglia.
Siamo noi, insomma: padre, madre e bambino.
– Allora sono io quella? – chiede conferma allungando la manina verso
l’ultima carpa. – E Bimbo è quella gialla, subito sotto?
– Esatto, è cosí.
Siamo tutti pesci, fra le tumultuose e convulse correnti del fiume
dell’esistenza.
E l’augurio è doppio, per loro e per noi: che i piccoli siano in grado di
superarle e che noi grandi impariamo a guidarli senza farci travolgere dalle
emozioni.

– Ha circa sessant’anni, è nata per essere molto piú alta ma poi, per paura
di terremoti e tifoni, è diventata piú bassina. Cos’è?
– Non lo so…
– Altro indizio: ha cinque sorelle, un abito estivo e uno invernale.
Lo sguardo dei bimbi resta perplesso e oscilla da me al padre, come a
bordo di un’altalena.
– Ultimo indizio: si illumina di sette diversi colori il sabato sera, per due

90
ore soltanto.
– Mmh…
– Insomma, cos’è?
Scendiamo alla stazione di Asakasa e la risposta è lí, stagliata nel cielo
terso di questa mattina di maggio. Per la prima volta saliremo tutti insieme
sulla Torre di Tōkyō.
La TŌKYŌ TOWER, cosí come viene abitualmente chiamata, è stata
completata nel 1958 e, fino alla costruzione della Sky Tree in anni recenti,
era la torre piú alta del Giappone e ha egregiamente svolto la funzione di
trasmettitore dei segnali radio-televisivi: è alta esattamente 333 metri,
nonostante il progetto iniziale fosse di 380 metri, ridimensionato per meglio
affrontare possibili calamità. Dai DUE OSSERVATORI, posti a 150 metri e a
250 metri d’altezza, si può ammirare la città che non dorme mai (e che
tuttavia spesso sonnecchia), il profilo sfuggente del monte Fuji e, nei giorni
in cui l’aria è tersa, la penisola di Bōsō (Bōsō-hantō )
all’orizzonte a sud-est.

Se nel 1958 torreggiava sul mondo intero, dopo sessant’anni la modesta

91
portata della Tōkyō Tower fa quasi tenerezza; il fatto che quando ci sali non
riesci a individuare il punto in cui nasce e termina la città spiega bene come
Tōkyō vada ormai ben oltre la gittata dello sguardo della torre. E tuttavia
rimane il simbolo della rinascita del Giappone dopo la Seconda guerra
mondiale.
– Comunque non scherzavo prima, sai. La Torre di Tōkyō ha davvero
cinque sorelle, – dico rivolta a Sōsuke che mi guarda perplesso.
– Veramente! – insisto. – La sorella maggiore è la Torre della
Televisione di Nagoya, poi ci sono la Tsūtenkaku di Ōsaka, la Torre di
Beppu, la Torre della televisione di Sapporo e infine la Port-Tower di
Hakata. Sono state tutte generate dallo stesso padre: Naitō Tachū.
– Mmh…
– E lo sapevate che una volta ogni cinque anni la Torre di Tōkyō viene
riverniciata interamente?
Si tratta di un’operazione che impiega complessivamente il lavoro di piú
di 4500 persone e circa dieci mesi di tempo per 94 000 metri quadrati di
superficie. – E trentaquattromila litri di vernice! – esclamo leggendo la
guida.
– Oh!
I bambini adorano i numeri. Chissà perché, ma alla fine è proprio cosí
che riescono a esercitare potere sulle cose infinite..
– Tutta rossa!
– E invece no! Tutti pensano che la Torre di Tōkyō sia rossa e invece è
arancione e bianca. Un arancione internazionale, scelto per essere ben
visibile anche di giorno dagli aerei che attraversano il cielo sulla città, lo
stesso che si usa per le gru e le ciminiere nella zona dell’aeroporto di
Haneda.
Mentre ci avviamo verso il desk per acquistare i biglietti di ingresso
all’osservatorio, penso che quel che i tokyoti amano piú di questa torre è il
suo essere sempre presente, testimone del tempo, lí a cantare «Tanti auguri a
te!» a ogni compleanno, come fosse un parente stretto. Apprezzano il suo
modo di vegliare sulla città e di evocare il lustro di un passato colmo di
speranze e di attese.
Se Maupassant si rifugiava nel ristorante della Tour Eiffel proprio per
fuggire dalla sua ombra, all’opposto i tokyoti possono trascorrere tutta la
vita senza salire mai sulla Tōkyō Tower, pur adorando guardarla. La
abbinano a vari stralci di città, la inseriscono nel quadro di diversi quartieri,

92
come un drammatico obi nella complessa composizione di un kimono. E
non appena essa si svela dietro un grumo di grattacieli o un muro di palazzi,
la fotografano.
In particolar modo, amano la girandola di colori di cui si fregia
nell’oscurità. Se prima, di notte, la Torre di Tōkyō pareva il tratteggiato a
puntini di un modellino di moda, fu per il trentesimo anno dal suo
completamento (1989) che venne inaugurato un piú massiccio gioco di luci.
Nacque cosí l’abito estivo, sui toni freschi dell’argento, e insieme la divisa
invernale, che vira su un piú caldo arancione. Fu poi in occasione del
cinquantenario (2008) che vennero aggiunte sette nuove tinte, ognuna con
un suo specifico nome e una sua simbologia: Angel Red che rappresenta
l’amore e la riconoscenza, Pure Green che ricorda la natura e l’ambiente,
Aqua Blue per evocare l’acqua e la vita, Dream Pink ovvero il sogno e la
fortuna, Planet Green che richiama la terra e la pace, Ribbon Gold per la
speranza e i giorni di festa e White Diamond che indica l’eternità e l’eredità.
Da allora, ogni sabato, è possibile ammirare la luminosa veste
multicolore della Torre per due ore, tra le 20 e le 22.
È tuttavia nei primi giorni di luglio, cosí come in quelli di ottobre, che
alzando gli occhi si può assistere allo spettacolo piú sorprendente: centinaia
di operai arrampicati sulle stringhe di metallo, intenti a cambiare
manualmente le lampadine dall’inverno all’estate, dall’estate all’inverno.
– Immaginate tanti omini grandi come formiche, tanti Superman appesi
alla torre come ragnetti con i caschi e le corde.
Fossimo soli inviterei Ryōsuke alla scalata dei seicento gradini della
Tōkyō Tower, impresa possibile in salita solo i sabati, le domeniche e nei
giorni di festa, dalle 11 alle 16 e soltanto nel tratto che va dal basamento al
primo osservatorio. Una volta arrivati, pare vi si riceva un certificato che
attesta la salita, siglato con le silhouette dei gemelli Noppon (Noppon kōnin
nobori kaidain ninteishō ) – mascotte
ufficiali della Tōkyō Tower –, uno con la salopette rossa, l’altro con la
stessa blu. In discesa, invece, pioggia e vento permettendo, il passaggio è
aperto ogni giorno dalle 9.30 della mattina alle 21.30.
– Sarebbe bellissimo, un ricordo sicuro, – accenno sognante. Ryōsuke
annuisce divertito. Abbiamo sempre amato le cose inutili e belle, le uniche
che sappiano diventare memorie.

Prima di riprendere il treno da Hamamatsu-chō, ci sediamo su una

93
panchina all’ombra di un ciliegio ormai pieno solo di foglie.
Nell’eccitazione generale, scarto la confezione di wagashi acquistati per
l’occasione nella splendida sede centrale dell’ANTICA PASTICCERIA TORAYA
ad Asakasa. I bimbi tirano i lembi della incantevole confezione e per
puro miracolo non finiscono tutti a terra. Li taglio in bocconi piccolissimi
perché, come insegnano i tragici incidenti di Capodanno, anziani e bambini
sono nemici dei collosi mochi.
Questi wagashi sono i verdissimi kashiwa-mochi , dolci tipici di
pasta di riso avvolti in foglie di quercia, e i chimaki , fatti anch’essi di riso
stracotto, fasciati con foglie di bambú e legati in fibre di giunco. Carichi di
simbologia, sono i dolcetti della Festa dei Bambini: il bambú, ad esempio,
che mantiene il vecchio fogliame finché non spuntano nuovi germogli, è
emblema di prosperità nella discendenza. Dentro ai mochi si trovano vari
tipi di marmellata di fagioli an, diversi a seconda delle regioni del Giappone
e…
– No, no! Non si mangia quella! – intimo a Sōsuke. A differenza dei
sakura-mochi, gustati fino a qualche settimana fa, la foglia profumata dei
kashiwa-mochi non è commestibile.
Nell’antichità in Cina si celebrava l’anniversario della morte del poeta
Kutsugen, avvenuta proprio il 5 maggio, mangiando i chimaki. La differenza
tra quelli giapponesi e quelli cinesi consiste nel fatto che questi ultimi sono
ripieni di carne, bambú e altri ingredienti salati.
Paku paku, mogu mogu, baku baku! Perori! come recitano le tante parole
(intraducibili) dell’onomatopea giapponese che spiegano la voracità, il gusto
di mangiare in abbondanza, la golosità. Il gesto del leccarsi i baffi.

La malattia di maggio.

Ci rimettiamo in cammino dopo questa lunga pausa piena di sapori.


Domani riprendono le lezioni all’università, ricomincia l’asilo e gli uffici
torneranno al regime di estrema efficienza di sempre.

Ricordo che il signor Kusama, padre della famiglia di homestay con cui
trascorsi il mio primo anno in Giappone, era solito recitare un proverbio:
Ichi-byō soku-sai . Chi non ha una buona salute, spiegava, spesso
sopravvive a tante persone sane, proprio perché si prende cura di sé. Come

94
dire che è grazie alla malattia che si acquista consapevolezza della salute,
che è cosa friabile e mutevolissima, e ha lo svantaggio, quando la si
possiede, d’essere data per scontata.
È però tra i banchi dell’università che ogni anno mi accorgo di cosa,
davvero, affligga maggio e di come questo proverbio gli si adatti
perfettamente. È la fatica ereditata dall’inverno, dalla preparazione agli
esami di ammissione, dall’ingresso in azienda dopo i tanti colloqui e la
montagna di curricula vitae che nei mesi scorsi ho visto compilare nei caffè
di Tōkyō. È la gogatsu-byō , letteralmente la «malattia di maggio»,
che nel Sol Levante porta questo mese a trascinarsi piú lento, piú pigro.
Maggio, tra l’altro, è il mese che nell’antichità si temeva maggiormente,
considerato in Cina addirittura funesto. Il Giappone adottò questa credenza e
dal VII secolo circa si diffuse l’usanza di raccogliere piante medicinali che
vantavano il potere di allontanare gli spiriti maligni; si preparavano pozioni
e bambole decorative da appendere all’ingresso delle case per scacciare il
malocchio. In epoche piú tarde, dal periodo Edo, a essere esposte furono
bambole guerriere, elmetti e stendardi, in cui si riversavano le speranze dei
genitori che i figli crescessero forti e coraggiosi.
Su questi vessilli compariva anche l’immagine della divinità cinese
Shōki (Zhong Kui), che si credeva detenesse a sua volta il potere di fugare i
malanni. Nell’antichità, in Cina, si narrava che l’imperatore fosse
miracolosamente guarito da un grave stato di malattia grazie all’apparizione
in sogno di questa divinità. Di lí si iniziò ad allestire una riproduzione di
Shōki come amuleto per i bambini.
Sōsuke osserva incantato il disegno che lo ritrae: ha enormi occhi, una
foltissima barba, porta robusti stivali e stringe nella mano destra una spada
mentre con la sinistra afferra un piccolo demone. È una figura che compare
anche nei canti del teatro nō.
– Un tempo lo si disegnava anche là, – spiega Ryōsuke, indicando le
carpe che, ingorde, ingoiano il vento di maggio. – Lo si riproduceva in
forma di bambola da esibire in casa e quando veniva dipinto di color
cinabro, rosso vermiglio, si pensava fosse capace di scongiurare il pericolo
di contagio di malattie mortali come il vaiolo.
Molti passi della Storia di Genji o di Ore d’ozio lo ricordano al lettore,
sciorinando i precisi rituali che dovevano essere osservati in questo mese
speciale, le precauzioni tutte pratiche che impegnavano le ancelle e altro
personale. Si parla ad esempio di sacchetti di broccato riempiti con sostanze

95
odorose e adornati all’esterno con fiori artificiali e lunghi cordoncini di
cinque colori che pendevano a un’estremità. Venivano appesi a pilastri e
cortine il quinto giorno del quinto mese e servivano a scacciare gli spiriti
maligni e i cattivi odori.

Di qui, procedendo verso la zona di Tora-no-mon , letteralmente


«Portale della tigre», dal nome di uno degli ingressi dell’antico Castello di
Edo, e l’omonima stazione sulle linee della metropolitana Ginza e Hibiya,
solitamente amo passare per il SANTUARIO DI ATAGO-JINJA , aggrappato a
una ripida collina e raggiungibile attraverso due scalinate che si inerpicano
su versanti diversi: una scalinata «maschile» (otoko-zaka ) di 86 ripidi
gradini e l’altra «femminile» (onna-zaka ) che ne conta 113 ma meno
spossanti. Dall’alto del suo triplo santuario – oltre al principale che dà il
nome al luogo, ce ne sono un altro dedicato al culto di Inari e un altro
ancora, minuscolo, in onore alla dea Benten –, dal suo giardino
lussureggiante e dallo stagno che brilla grazie alla presenza di enormi e
seducenti carpe si domina un pezzo di città e pare davvero una miniatura del
Giardino dell’Eden, la cui atmosfera raccolta si stacca drammaticamente dal
rumore delle auto e dalle distese di asfalto e cemento che si allargano in
fondo alla fiumana di scale.
Venne costruito nel 1603 da Tokugawa Ieyasu per proteggere Edo dagli
incendi ed è oggi noto per i molti eventi storici cui ha fatto da scenario:
proprio qui, durante il bakumatsu, pare che i rōnin di Mito avessero ordito
l’assassinio del gran consigliere del governo shogunale Ii Naosuke, scena
spesso ritratta nei rotoli ukiyo-e; sempre qui, da dove un tempo pare si
riuscisse a scorgere la baia di Tōkyō e la penisola di Bōsō, si scongiurò la
distruzione di Edo, grazie all’incontro tra l’«ultimo samurai» Saigō
Takamori e lo sconfitto Katsu Kaishū; fino all’evento piú luttuoso, che ci
proietta in un torrido 22 agosto 1945: il suicidio collettivo di un manipolo di
dieci soldati alla sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale.
Nel mio immaginario, tuttavia, il santuario Atago è soprattutto vestito dei
colori di giugno, quando si tiene il mercato di piante di hōzuki, ed è, senza
esagerazioni, una meraviglia vedere questo comignolo di mondo illuminato
a festa, soprattutto sul far della sera; cosí come incantevole appare nella
settimana dei ciliegi in fiore, che spolverano i loro petali, lievi come carta
velina, sulla superficie dello stagno.

96
Il fuoco e la fenice.

Eccoli: il venerdí, il sabato e la domenica piú prossimi al 17 e 18 maggio,


la festa si sposta ad ASAKUSA . È il Sanja Matsuri , uno dei festival
piú vivaci e frequentati di Tōkyō, che ebbe inizio nel 1312, la celebrazione
della cultura popolare dell’antica Edo e dei tre fondatori del tempio
buddhista Sensō-ji, il piú antico della città: i due fratelli pescatori Hinokuma
no Hamanari e Hinokuma no Takenari – ossia coloro che, secondo la
leggenda, nell’anno 628 trovarono nelle loro reti tirate nel fiume Sumida
una statuetta della dea Kannon – e il capo del villaggio Haji no Nakatomo.
La celebrazione ricorda anche il terzo shōgun Tokugawa Iemitsu che fece
ricostruire il tempio due volte, prima nel 1636 e poi tra il 1648 e il 1649.
Era uno dei tre grandi festival di Edo e anche oggi il programma si
mantiene fittissimo di eventi, prolungandosi, a seconda dei giorni, dall’ora
di pranzo o dalla mattina fino al pomeriggio o alla sera inoltrata.
È la festa della città bassa (shita-machi ) che annuncia l’inizio
dell’estate.

Sulla via del ritorno da Asakusa mi pare ogni volta ci si trovi con le mani
piene di tutto quello che, prima di partire dall’Italia, si è sognato del
Giappone: le bancarelle, gli yukata e i kimono, i negozi di giocattoli
tradizionali, il cibo di strada, i portali scarlatti del santuario, la pagoda che
buca il tetto abbassato di nubi o altissimo nel sereno di Tōkyō, la gente
pressata per partecipare alla gioia, le stradine e il teatro di rakugo, il
vaticinio dell’o-mikuji, e prima ancora l’enorme lanterna e il fumo
purificatore che esce dal braciere davanti agli scalini del santuario, quello
stesso fumo di incenso che mille mani si sventolano addosso, sul viso, su
parti del corpo che vorrebbero piú sane.
Ricordo quando venni qui nell’estate dei miei ventidue anni, la prima in
assoluto trascorsa in Giappone: il primo tempio, come il primo amore, non
si dimentica mai. Questo benché nella memoria si sovrappongano luoghi e
immagini – proprio come accade ai turisti stranieri reduci dalle nostre chiese
–, tanto che alla fine resta piú l’idea di un’atmosfera che il ricordo di un
luogo preciso.
E tuttavia, davvero, il Sensō-ji non lo si dimentica mai.

– Asakusa è una fenice, – mormoro quasi fra me.

97
– Perché dici cosí?
– Perché è bruciata tante volte e ogni volta è risorta. È testarda, non
voleva morire, né, rinascendo dalle proprie ceneri, si è arresa a trasformarsi
in una cosa diversa.
Forse, mi dico, è accaduto perché è sempre stata molto amata dai suoi
abitanti, grazie a quello speciale miscuglio di sacro e profano che
rappresenta. La gente l’ha sempre voluta indietro uguale a se stessa, molto
piú di altre zone di Tōkyō che, una volta rase al suolo da incendi e
bombardamenti, hanno vissuto uno sviluppo totalmente diverso, ripartendo
da un design moderno che delle antiche vestigia non conservava piú traccia.
Nel 1865 vi fu ad esempio un disastroso incendio che distrusse l’ingresso
di Kaminari-mon . Eppure nel 1960, dopo quasi cento anni, Matsushita
Kōnosuke – il magnate di quell’azienda di apparecchi elettronici che
sarebbe diventata la Panasonic –, fece una ingente donazione per
ricostruirlo.
Sotto un tetto di glicine, si apre la viuzza di HATSUNE-KŌJI ,
nota perché tempestata di informali osterie in cui bere e mangiare, con un
occhio sempre rivolto alla bisca poco piú in là, dove puntare sui cavalli. Uno
sguardo al giornale, una mano al boccale di birra, e sul tavolino, accanto al
posacenere, gli immancabili contenitori per i biglietti delle scommesse. Li si
può compilare sul posto, oppure acquistare in fondo alla strada:
scommettitori e turisti si mescolano qui senza soluzione di continuità.
Lanterne rosse pendono dalle tettoie, mentre sulle piccole televisioni,
installate poco sopra le teste degli avventori, scorre la diretta delle corse.
Anche subito dietro, su Hoppī-dōri – chiamata anche Nikomi-dōri dal tipo
di cibo stufato che viene principalmente servito e dove si susseguono bettole
con i tavolini posti all’esterno in cui gustare deliziosi yakitori e nikomi,
appunto, di varia natura –, è frequente nel weekend notare persone che
stringono tra le dita biglietti delle puntate. La tensione sul loro volto è tutta
diversa dagli scommettitori feriali.
Ecco allora Asakusa, strappo di Tōkyō dove si ferma il tempo. Asakusa,
visitata ogni anno da quasi 30 milioni di persone.
Asakusa che è sacro e profano, in accordo.
Asakusa che non va giudicata, perché l’uomo sa essere insieme sublime e
triviale.

98
Il cuore di Edo.

Per noi che ne vediamo abitualmente a Kamakura, cosí tanto ormai da


riconoscerne i volti e le società di appartenenza, non è un grande evento
imbattersi in un risciò e nei suoi conducenti, allo stesso modo in cui i
veneziani non scattano mai fotografie alle gondole di passaggio. Tuttavia è
palpabile l’emozione dei turisti, che si fanno fotografare accanto a quei
muscolosi ragazzi e alle loro incantevoli carrozzelle a due ruote.
Ecco Kaminari-mon, letteralmente l’«Ingresso del tuono», l’enorme
lanterna divenuta simbolo non solo di Asakusa, ma di Tōkyō tutta, del
Giappone nella sua interezza. Tutti vogliono fotografarla o farsi immortalare
in uno scatto con lei a fianco, e il gioco di proporzioni che sottolinea i suoi
quasi quattro metri di altezza. – Guardate il dragone, che meraviglia! –
esclamo. E guido lo sguardo dei bimbi lí dove la maggior parte dei turisti –
tutti presi come sono a scattarsi un selfie – di solito non si sofferma, cosí
come al Louvre tutto quanto è vicino al ritratto della Gioconda è risucchiato
nella sua bolla. Si tratta della parte sottostante della lanterna, la base scolpita
a ritrarre un dragone, intimamente legato alla leggenda di fondazione del
tempio di Sensō-ji.
Continuando di questo passo, giocoso e arruffato, ecco che inizia
NAKAMISE-DŌRI , costruita tra il 1688 e il 1736. Lunga 250
metri è piena di negozietti, 89 per la precisione. Ha inoltre una tettoia che,
nei giorni di pioggia e durante la canicola estiva, si collega tutta, riparando i
passanti: il turismo si ingegna cosí, schivando le previsioni funeste del
bollettino meteorologico, specialmente nelle settimane volubili della
stagione delle piogge, e nel capriccio diffuso di inizio primavera e autunno.
Le decorazioni stagionali che animano le gronde e gli ingressi dei negozi, il
lavoro di messa in sicurezza sottoterra delle antiestetiche linee elettriche,
rendono Nakamise-dōri particolarmente seducente.
Questo viale, due anni dopo il disastroso terremoto del Kantō (1923),
venne ricostruito in cemento armato, cosí che mantiene l’altezza originaria.
Il prezioso dettaglio fa sí che, studiandolo, sia possibile intuire la
dimensione media degli edifici del tempo.
Nonostante la sua estrema fortuna, Asakusa ha conosciuto anche le
bruciature dei bombardamenti americani della Seconda guerra mondiale,
che conserva sulla pelle di certi minuscoli scorci.
Il fascino bambino di questo viale-simbolo della Tōkyō piú

99
sfrenatamente votata al turismo è tuttavia altrove.
È, ad esempio, da Kimuraya ningyō-yaki honten , il
negozio che vende dolcetti a stampo, in quattro forme, ripieni di crema di
fagioli, e che è gestito dalla stessa famiglia fin dalla seconda metà
dell’Ottocento. Anche il sapore è lo stesso da allora. Piccini e turisti
premono rispettivamente facce, manine o obiettivi sul vetro oltre il quale,
con antichi strumenti e gesti snelli e precisi, l’artigiano è impegnato a
stampare sempre nuovi dolcetti, quattro alla volta: una colomba, una
lanterna, una pagoda e il volto di Raijin, il dio giapponese dei tuoni e dei
lampi. Usano fagioli azuki dell’Hokkaidō (Tokachi ), assicura un
cartello, e la fondazione nel 1868, anno esatto di inizio dell’era Meiji, funge
da garanzia.
Un altro luogo-calamita è Edo-shumi kogangu nakamise sukeroku
, che a dire il vero pare un museo in
miniatura piú che un negozio. Fondato nel 1866, è specializzato nella
vendita di giocattoli su modelli del periodo Edo, tutti prodotti a mano, con
una varietà di circa 3500 esemplari.
Sōsuke ed Emilio sono incantati. Piú crescono, piú diventa difficoltoso
arginare i loro «voglio» e «vorrei». Compriamo una trottola, anzi due, per
equità. Già me le immagino in casa, vorticare festanti sui blocchi di gomma
di cui è tappezzata la stanza, le strisce di colore che ruotano ipnotiche
attirando l’attenzione di tutti. Acquistiamo per mia nipote di sette anni anche
un modello elementare di kendama , gioco che consiste nel mettere
in equilibrio una pallina fissata con un filo a un blocco di legno che si
impugna. Ricordo di averne visto un formidabile campionato in tv.
E poi ventagli, qui come nel gomitolo di stradine sul retro. Passando
davanti ad Arai-bunsen-dō , uno dei piú antichi negozi
tradizionali di ventagli, che vanta una storia lunga piú di centoventi anni e
una clientela di celeberrimi interpreti del teatro kabuki, rakugo e butō, mi
piace ricordare Arai Osamu, che fu erede dell’attività e autore di un libro
pieno di suggestioni e aneddoti sulle cronache annuali della Tōkyō di un
tempo, della città bassa e delle tradizioni con base ad Asakusa. In Edo,
Tōkyo no shitamachi no saijiki, «Compendio delle parole stagionali della
città vecchia di Tōkyō, Edo», l’autore, nato nel 1948 e scomparso nel 2016,
racconta di come nel dopoguerra Tōkyō fosse una distesa di baracche, del
suo sviluppo strabiliante. E di come Asakusa rimanesse il cuore pulsante di
quella cultura tradizionale, piú lenta e sonnacchiosa, che, ancora oggi,

100
incanta milioni di turisti.
Il cuore di Edo è ancora lí.

101
GIUGNO

Il mese senza acqua

Minazuki
Secondo l’antico calendario lunare, l’attuale mese di giugno corrispondeva al
settimo mese dell’anno, caratterizzato da un caldo intenso e dall’assenza di acqua.
Da questo deriverebbe il nome minazuki , ovvero «il mese senza acqua». È
tuttavia piú accreditata l’ipotesi che il nome sia stato mutuato dalla dicitura opposta
mizu no tsuki , ovvero «il mese dell’acqua», perché si irrigavano
abbondantemente le risaie.

Altri nomi attribuiti a giugno sono: aomina-zuki , «il mese senza acque
azzurre»; tokonatsu-zuki , «il mese dell’eterna estate»; kazemachi-zuki
, «il mese dell’attesa del vento»; seminoha-zuki , «il mese delle ali di
cicala», forse dall’abitudine di mettersi sulle spalle – sopra il kimono – indumenti
sottili come ali di cicala; suzukure-zuki , che presenta i caratteri di «fresco» e
di «oscurarsi». Narukami-zuki intende invece i tuoni che risuonano nelle
sere di inizio estate.

Benedetta pioggia.

In giapponese lo chiamano noizu, rumore di fondo, rumore bianco. Nelle


orecchie amo sentire il rumore della pioggia, premuta in cuffia. È l’unica
colonna sonora che, nella stanchezza, riesce a farmi concentrare: brani di
temporali tempestosi, scrosci d’acqua e tuoni roboanti. E tuttavia giugno
rende superfluo questo mio stratagemma. Piove: è la stagione in cui si
avvicendano instancabilmente non fragorosi temporali ma precipitazioni

102
lievi e costanti.
Secondo l’antico calendario lunare, il momento in cui si inaugurava la
stagione delle piogge (nyūbai ) cadeva a 127 giorni dal primo giorno di
primavera (risshun ), data che oggi si aggira intorno all’11 giugno.
Sono giornate di pioggia fitta e sottile con qualche (breve) schiarita, oppure
tappeti di nuvole squarciati qui e là da momenti d’acqua o di sole che
sembrano sopraggiungere trafelati, di corsa, per poi subito ripartire.
L’aria è molto umida, il clima un po’ tetro, le temperature ancora
contenute. Il periodo delle piogge rende malinconiche le persone e tuttavia
in agricoltura è una benedizione, specialmente per le piantine di riso che
attendono avidamente quest’acqua per crescere rigogliose e per far scorta in
vista dell’implacabile afa estiva.
Tsuyu , la stagione delle piogge, significa letteralmente «la pioggia
del periodo in cui maturano le prugne». A causa dell’elevato grado di
umidità, in Giappone a giugno si avverte una diffusa fiacchezza nel corpo. E
in piú sale il pericolo d’intossicazione alimentare per il rapido marcire degli
alimenti. Ma grazie all’acido citrico presente nelle prugne giapponesi, ci si
sente piú vitali, e si dice abbiano anche proprietà antibatteriche. Visto che il
frutto del susino giapponese non si può consumare crudo per via della sua
estrema asperità e durezza, lo si gusta solo dopo averlo fatto seccare fino a
renderlo croccante, oppure lasciandolo immerso nello sciroppo per un mese
finché non si fa molle molle.
Chiedo a Ryōsuke e lui mi racconta della preparazione dello sciroppo di
prugne ume no shiroppu-zuke con i nonni di Ōita, della
bacinella in cui galleggiavano i frutti, del panno che li asciugava con
gentilezza, del bastoncino con cui estrarre il nocciolo, del grosso barattolo di
vetro, dello zucchero e dello shōchū , un distillato di origine
giapponese.
Passa un sorriso sul suo volto, di quelli che solo i ricordi dell’infanzia
sanno evocare.
Perché poi, come mi racconta mescolando la voce a quella della madre –
che ne sa per forza di cose molto di piú –, con quello stesso sciroppo si
preparavano vere delizie: lo si versava allora sulle lamelle di ghiaccio del
kakigōri , oppure sul gelato alla vaniglia… – Sempre un po’ troppo
abbondante!
Ed ecco allora che nonostante la pioggia – e anzi, proprio grazie a lei –
giugno è un bellissimo mese in Giappone.

103
Leggiamo il libro illustrato di Egashira Michiko che si intitola Ame furi
sanpo , «La passeggiata sotto la pioggia», e dalle opulente
ortensie accanto a cui è ritratta la piccola protagonista dell’albo è chiaro
come la storia sia ambientata a giugno. Alzo gli occhi, e guardo oltre la
testolina di Emilio che mi siede in braccio: fuori dalla finestra e dentro le
pagine il tempo è lo stesso.
– Guardate che bello!
Uno dei compiti che mi sono assegnata come madre, è quello di far
apprezzare ai bambini giornate cosí, le pozzanghere, l’effetto dell’acqua
sulle cose, il rumore diverso dei passi, gli abiti cambiati delle persone,
stivali di gomma e impermeabili pieni di colore. Trovo deprimente che della
pioggia si percepisca solo il fastidio e mi pare piuttosto un peccato mortale
schiacciare la percezione dei bambini, che sarebbe invece naturalmente in
grado di tirar fuori il meglio dalla realtà.

In un mese di pioggia e di caldo ancora affrontabile, a Tōkyō si possono


fare un mucchio di cose.
Esplorare, ad esempio, le terme, quel magnifico luogo che sono le ŌEDO
ONSEN MONOGATARI , letteralmente «Racconti delle
terme della Grande Edo», denominazione evocativa che tiene fede al suo
nome. Il veleno lo si sconfigge col veleno, si dice, e cosí il caldo lo si
sconfigge col caldo. A mollo nei vapori delle terme, tutto il malumore si
soffia via insieme alla nebbia che avvolge come una nube la gente.
Un’altra soluzione è riparare in uno dei tanti piccoli e grandi musei di cui
si fregiano la città e i suoi dintorni, come quello della pubblicità, a ingresso
gratuito, ADVERTISING MUSEUM TŌKYŌ nel
Caretta Shiodome a Higashi-Shinbashi, dove sono esposti cartelloni,
inserzioni, volantini che coprono un lunghissimo lasso temporale che
conduce dal periodo Edo a oggi, con un volume di materiale esposto che
raggiunge i duecentomila pezzi. Oppure si possono portare i bimbi al Museo
dei Vigili del fuoco, a dodici minuti a piedi dalla stazione di Yotsuya, alla
fabbrica della birra Suntory a Chōfu, al Museo del Rāmen a Shin-
Yokohama o in uno degli altri bizzarri musei che ho già ricordato, molti a
ingresso libero. Esiste peraltro anche un libro (Free Tōkyō) che racconta
cosa è possibile fare in città senza spendere neppure uno yen.
Tōkyō ingoia davvero tutto e, come la balena di Pinocchio, nella sua
pancia conserva cose strabilianti, difficili persino da immaginare. Ecco

104
allora alcuni dei luoghi preferiti dalle famiglie, per stare all’asciutto pur
guardando l’acqua, come gli acquari a misura di capitale: l’ACQUARIO
SUNSHINE dentro Sunshine City a Higashi-
Ikebukuro, che al piano terrazza propone anche il bel planetario di Konica
Minolta; il Sumida Aquarium nella Sky Tree; e l’Aqua Park di Shinagawa,
il piú grande dei tre – piccolissimo tuttavia rispetto a quello che si trova a
Okinawa, all’estremo ovest del Giappone. Non amo le performance coatte
degli animali, tollero a fatica gli zoo pur riconoscendo la necessità di
allevare le nuove generazioni all’amore per le specie animali. La nostra
visita esclude quindi gli spettacoli dei delfini e affini, e si limita
all’osservazione delle immense vasche di pesci dai nomi che ricordo a
fatica. I giapponesi vanno pazzi per questi luoghi, molto curati, e se a Tōkyō
di un’attrazione se ne parla, è subito folla.

Una banchina molto speciale.

Oggi è un giorno speciale. Voglio mostrare ai bambini la strabiliante


casa-museo di Okamoto Tarō che si trova a breve distanza dalla stazione di
Omotesandō la quale, a sua volta, dista pochissimo da HARAJUKU .
Nel treno affollato della domenica mattina, stanno pigiate nel convoglio
molte piú parole del consueto. Io che lo frequento nelle albe dei giorni
feriali, vi ritrovo un umore diverso, chiacchiere che non sono abituata a
sentire. La stanchezza preferisce tacere, l’allegria invece è chiassosa.
Sōsuke è molto eccitato. Gli ho mostrato un’immagine del giardino, con
l’imponente scultura che riproduce il sole dal tipico volto bucato nello stile
di Okamoto, e da allora insiste per andare alla «Casa del Sole», come l’ha
rinominata lui. Nella stagione delle piogge, mi pare un ossimoro di quelli
belli.
Ai bimbi in Giappone si è soliti sfilare le scarpette in treno, e lasciare che
premano guance e manine sui vetri. Lo si fa per evitare che inzaccherino con
le suole i sedili e perché si distraggano con quanto vedono fuori. Abituati a
finestroni lindi e immensi, ogni giorno lustrati dagli addetti, i piccoli
appiccicano gli occhi al paesaggio e spaziano con tutta la meraviglia di cui
sono capaci.
Cosí è anche per Sōsuke, cui mi affretto a rimettere le scarpine, perché il
treno sta rallentando e la voce femminile recita, prima in giapponese e poi in

105
inglese, il nome di Harajuku e l’uscita sul lato sinistro.
Tuttavia, mio figlio fa in tempo a farmi notare qualcosa che sono certa di
aver visto centinaia di volte e di cui però non mi sono mai chiesta il perché.
È una costruzione snella, bianca, di un legno che mostra tutto il tempo che si
porta addosso, la vernice un poco scrostata che pare possa venire via da un
momento all’altro. È lunghissima quella banchina, resta impressa proprio
perché immensa, illuminata, eppure vuota. Sōsuke, con la sua solita,
instancabile domanda («Cos’è?») mi rende consapevole, ancora una volta,
di come lo sguardo si assottigli nella familiarità.
Ryōsuke ci spiega che la stazione di Harajuku ha due antenati. La prima
stazione venne costruita nel 1906 piú in prossimità di Yoyogi e bisogna
allora immaginarla interessata da un traffico non di giovani modaioli e
turisti chiassosi come oggi, ma di prodotti agricoli e merci. Lo spostamento
piú a sud si rese necessario dopo il completamento del santuario Meiji-jingū
che portò a un aumento vertiginoso delle visite in questa zona fino ad allora
marginale.
Esistono nella stazione tre banchine: una viene sfruttata quotidianamente
su entrambi i lati dalle due direzioni di percorrenza della linea Yamanote –
verso Yoyogi e Shinjuku una e verso Shibuya e Shinagawa l’altra. Esiste
poi, come avevamo già visto a gennaio, quella banchina temporanea che
serve proprio nei giorni a cavallo del Capodanno, quando da tutto il paese si
recano a porgere la prima preghiera dell’anno tre milioni di persone e la
stazione, già di per sé piccolina, pare scoppiare. È come un ingresso-
scorciatoia con una sua speciale uscita che conduce direttamente al parco
del santuario, cosí da evitare il giro largo cui obbliga la stazione.
Ma ecco la terza, notata per la prima volta grazie alla domanda di
Sōsuke: – Mamma, quella, quella cos’è?
Piú defilata, c’è un’altra banchina ancora, dislocata poco piú in là verso
Yoyogi ed è quella preposta al solo utilizzo della famiglia imperiale.
Possiede persino una sua particolare denominazione, cosí come ogni cosa
che riguarda la famiglia imperiale: kyūtei hōmu , ovvero
«banchina della Corte». Scopriamo cosí che vi può fare sosta solo il
convoglio speciale a bordo del quale sono ammessi l’imperatore e i suoi
parenti piú stretti.
– Solo l’imperatore?
– Eh sí, solo lui.
Questo treno unico al mondo si chiama o-meshi ressha e la

106
speciale banchina della stazione di Harajuku venne completata nell’ottobre
del 1925 e usata per la prima volta nel 1926 dall’imperatore Taishō che,
gravemente malato, si muoveva in sedia a rotelle. Ultimamente, tuttavia,
pare non venga molto utilizzata perché il treno stesso non circola che in rare
occasioni.
La ferrovia di superficie e sotterranea di Tōkyō pare una rete a maglie
fitte e irregolari, calata sul corpo in costante crescita della città. Eppure
continuano progetti di costruzione di nuove linee. Forse anche per questo
bisogna fare attenzione quando si parla di treni e di loro curiosità: sono
discorsi che appassionano terribilmente i giapponesi – e in particolare i
tokyoti –, i quali vi scovano potenti epifanie, e che invece annoiano a morte
tutti gli altri.

La meravigliosa casa di un essere umano.

Arriviamo alla CASA-MUSEO DI OKAMOTO TARŌ. Sōsuke fremeva già


dall’uscita di Tōkyū Plaza: ha fame, pretende la merenda. Siamo riusciti a
trattenerlo solo con la promessa di mangiare una fetta di torta al caffè del
museo che dà sul giardino e che, nomen omen, si chiama A Piece of Cake.
– O-ka-mo-to, il signor Okamoto, – scandisco perché Sōsuke lo ripeta.
– Un signore importante? – domanda, mentre smembra con la forchettina
i pancake che alla fine ha ottenuto. Ne abbiamo comunque acquistato un
pacchetto in piú perché – nel tipico stile spiritoso dei giapponesi – hanno
sopra ritratto uno dei volti ridanciani di Okamoto: come regalino ai nonni è
perfetto.
– Sí, certo. Famosissimo! – ripeto, trovando nei biscotti la prova provata
della sua notorietà.
Anche tra gli stranieri che vengono a Tōkyō e sanno tuttavia poco o
niente della cultura del posto, anche chi di Okamoto Tarō non ha mai sentito
parlare, deve aver visto, fors’anche di sfuggita, il mastodontico murale alla
stazione di Shibuya, quello sulla parete antistante all’altissima vetrata che dà
sull’incrocio piú affollato del pianeta, lo Shibuya Scramble Crossing. Ci si
imbatte volenti o nolenti in quella monumentale parete uscendo dai tornelli
della linea Inokashira o da quelli della Yamanote, oppure ancora,
scendendo, da una delle uscite della linea Ginza.
Bisogna essere ciechi per non notare la coloratissima opera di Okamoto

107
che occupa una superficie di 30 × 5,5 m e che descrive gli spaventosi effetti
della bomba atomica. Va detto però che lo spettacolo di Shibuya dall’alto,
nei diversi intervalli del semaforo e dell’attraversamento, con la massa
inconsapevolmente sincronizzata d’una umanità diversissima che si è data
appuntamento in un pezzo microscopico di mondo, assorbe completamente
la vista. È una vertigine che può far sparire ogni cosa intorno: tutto è
assorbito in quel buco nero. Anzi, grigio e bianco, a strisce.
– E poi, – riprendo, tornando al presente, a Sōsuke che giocherella con la
mia mano, a Emilio che afferra il mento del padre, – questo signore,
Okamoto, ha anche ideato tante altre sculture che sono sparse per Tōkyō.
Un giorno magari ti porto a vederle –. Penso soprattutto a quella scultura
tentacolare, dal tipico volto in stile Jōmon: Wakai tokei-dai, «La giovane
torre dell’orologio», a Ginza, e a Kodomo no ki, «L’albero dei bambini», tra
Shibuya e Omotesandō.
Poi – ma qui mi censuro perché Sōsuke non capirebbe –, Okamoto è
anche stato allievo dell’etnologo francese Marcel Mauss, tra i suoi amici ed
estimatori ci furono la poetessa Yosano Akiko e lo scrittore Abe Kōbō. E il
nome d’arte scelto dalla fotografa Gerda Taro viene proprio da lui.
– È davvero tanto, tanto famoso, – concludo, mentre penso alla sua
magnifica esistenza di «avanguardista», all’incontro con Pablo Picasso e
Piet Mondrian, alla sua eccezionalità come artista e come uomo. Ricordo
all’improvviso la lezione del corso di dottorato del professor Matsuura
Masao che ci raccontò come Okamoto Toshiko, la sua assistente e
compagna di vita, amasse ricordare che Okamoto Tarō, a chi gli domandava
quale fosse il suo mestiere, rispondeva semplicemente: ningen ,
«essere umano».
Ed eccoci qui, nella casa che fu dei suoi genitori – della madre, Okamoto
Kanoko, che fu celebre poetessa e romanziera, e del padre, Okamoto Ippei,
mangaka noto per la sua satira politica e sociale – e che il figlio usò per piú
di quarant’anni come personale atelier, dal 1954 fino alla morte, nel 1996
all’età di ottantaquattro anni. Tramutata successivamente in un museo, tre
volte l’anno pare che vengano cambiati gli oggetti e le opere in mostra, in
modo da rinnovare la meraviglia dei visitatori piú assidui.
Finiamo di mangiare la torta alle mele e i pancake, la banana grattata con
il cucchiaino e la gelatina di verdure portate da casa per Emilio, e a pancia
piena ci avviciniamo all’entrata – anche se, in verità, quella da cui realmente
usciva ed entrava l’artista quando ci abitava sarebbe sul retro, come

108
testimonia il cancello decorato che è visibile girando tutto intorno alla casa.
La maniglia della porta d’ingresso è un piede, una scultura forgiata da
Okamoto stesso, e Sōsuke, entusiasta, alza la gamba, come per far
combaciare due cose che dovrebbero logicamente essere insieme. Ai bimbi
piacciono un mondo i ribaltamenti.
Paghiamo l’ingresso, Emilio sgambetta allegro appeso sul petto di
Ryōsuke, nel marsupio rivolto all’esterno perché possa vedere chiaramente
ogni cosa, e io mi chino verso Sōsuke per mostrargli il biglietto che riporta
un disegno stilizzato di Okamoto, un simbolo che campeggia anche sul lato
dell’edificio. Cerchiamo di occupargli le mani e di circoscrivere il raggio
d’azione delle sue braccia che si stendono a indicare la meraviglia costante.
Punta l’indice ovunque, sul sole ridente che spicca in giardino (eccolo,
infine!), sui piccoli animali nascosti sotto i cespugli, i loro occhi come
enormi buchi, gli arti spinosi. E il fratello non lo perde d’occhio e ride in
risposta, reiterando quel miracolo che intendo come la sua prima parola, la
prima che Emilio abbia mai detto e che ripete da allora, ogni giorno, persino
all’asilo dove nessuno la capisce perché intorno a lui si parla solo
giapponese. È in italiano, chiarissima, cristallina persino nelle consonanti di
mezzo: – Guarda!
– Hai visto che bello, Emilio?
– Guarda!
– Ti piace, eh?
– Guarda!
La a divaricata nella bocca, pare che ingoi tutto il mondo.
Per una luce piú stabile, Okamoto volle per il suo laboratorio solo un
grande finestrone esposto a nord. Desiderava un edificio neutro, una sorta di
rifugio e spazio, soprattutto spazio, fino a esserne sazi, tanto che non fece
installare né perni né colonne, ma dell’atelier centrale fece una sala a doppia
altezza, da cui ci si poteva (e ci si può) affacciare per osservare da piú
angolazioni le opere esposte piú giú. Anche all’esterno, la casa-museo
appare come un semplice blocco di cemento, con il tetto di legno che si
allarga a mo’ di ali di aereo.
Dal balcone che dà sul giardino si erge anche quella celebre scultura che
pare un lungo collo – in bianco con decorazioni a lampo rosso sui lati, il
volto ridanciano d’un altro sole in cima, simbolo dell’Esposizione
universale di Ōsaka del 1970 – Taiyō no tō , «La torre del sole»,
che descrive passato, presente e futuro. Sōsuke ed Emilio un giorno la

109
ritroveranno in uno dei pochissimi manga di cui io abbia tutti i numeri in
casa: 20th Century Boys di Urasawa Naoki, un capolavoro.
Il giardino, a ogni modo, conquista i bambini, che lo avevano già
intravisto dal caffè. Osservarlo però cosí da vicino li esalta. Nonostante la
pioggia, non vogliono rientrare piú.
Ma del resto, al di là delle preoccupazioni per l’acqua che continua a
cadere fitta in questa stagione, Okamoto sarebbe stato d’accordo con Sōsuke
ed Emilio. Lui che non amava torcere la natura al proprio gusto, che
lasciava crescere ovunque piante ed erbacce e che era solito dire: «Invece di
vivere dentro angusti edifici, sarebbe meraviglioso se gli esseri umani
potessero abitare nei giardini».

«Koromo-gae»: cambio di stagione.

Fa caldo. Sí, inizia a fare sempre piú caldo.


È proprio intorno al primo giorno del mese che a Tōkyō avviene la
trasformazione: a giugno e a ottobre, infatti, si fa tradizionalmente koromo-
gae , ovvero il cambio di stagione. Nel paese che ha fatto delle
divise uno dei suoi simboli piú efficaci, scuole e uffici mutano l’abito, le
uniformi da invernali diventano estive, e in città aumentano le persone che
scelgono stoffe leggere, sottili, abiti bianchi di lino o dai colori squillanti. Si
percepisce l’arrivo dell’estate dall’accrescersi dell’informalità e dai
movimenti piú disinvolti.
Un tempo koromo-gae era un rituale tempestato di precisissime norme,
legate alla cura e alla vestizione dei kimono; era perlopiú una questione di
aggiunta o sottrazione di cotone nell’imbottitura, operazione che si faceva a
mano con l’ausilio di ago e filo, e che si svolgeva originariamente nel
palazzo imperiale. Nell’epoca Heian avveniva due volte l’anno (il 1° aprile
e il 1° ottobre), raddoppiando nel periodo Edo, e diffondendosi via via dalla
corte alla gente comune. Con l’adozione del guardaroba occidentale,
tuttavia, buona parte di quei rituali andò perduta.
Eppure in casa nostra, senza che nulla venga annunciato, accade qualcosa
di simile ogni anno. E lo stesso avviene in casa di amici, a leggere
perlomeno le bacheche dei social network in cui tutti compiliamo la cronaca
del nostro banale vissuto.
Marie Kondō non nasce in Giappone per caso. Cosí penso aprendo i

110
cassetti di Ryōsuke, guardando le magliette piegate e arrotolate con cura, i
calzini avvoltolati gli uni negli altri a formare un solo blocco compatto; o
ancora imbattendomi nei sacchi traboccanti di cappotti e piumoni che,
diligente, porta in lavanderia all’arrivo del caldo, perché poi puliti e riposti,
in inverno li si possa tirar fuori perfetti.
Giappone sono anche le plissettature che assumono in questo paese le
cose. È commovente lo stupore degli stranieri che si vedono impacchettare
sotto gli occhi i souvenir, con quell’unico pezzettino di scotch che serve a
fermare l’intero castello di carta. I puristi degli origami, del resto, non
ammettono uso di colla né di scotch neppure per le composizioni piú
complicate. E anche se l’oggetto comprato è un regalo e finirà nelle mani di
altri, chi lo acquista riceve a sua volta un dono che è proprio l’esperienza
dell’assistere al minuscolo show dell’impacchettamento.
Il cambiamento stagionale tuttavia lo si applica anche alla casa
tradizionale: gli shōji, un tempo rimossi per far circolare l’aria, la tenda di
convolvoli alla finestra che pare riesca ad abbassare di uno o due gradi le
temperature interne, o ancora il futon che passa da invernale a estivo, con
una serie di accorgimenti che riguardano i materiali, la disposizione delle
cose e la stimolazione di un immaginario di frescura.
In Wa no shisō, «Il concetto di wa», il poeta di haiku e saggista
Hasegawa Kai dedica una lunga trattazione al caldo, al rapporto dei
giapponesi con l’estate umida e soffocante da cui cercano in ogni modo di
fuggire. Tutto, nella concezione giapponese, viene piegato nell’uso al
contrasto dell’afa: nello stesso uchiwa , il ventaglio con cui
originariamente si cacciavano gli insetti, i giapponesi videro piuttosto un
ulteriore strumento con cui difendersi dalla calura.
E non è un caso che una delle parole dei kigo di giugno sia amido ,
ovvero le reti scorrevoli per evitare che entrino gli insetti, ora installate tutto
l’anno alle finestre, e che un tempo si applicavano solo con l’arrivo della
stagione estiva.

Colori: arte e natura.

Storicamente considerato il quartiere-città ingresso dalla campagna, per


via del suo grande snodo tranviario, UENO oggi è soprannominato il «bosco
della cultura» (bunka no mori ). È per via della concentrazione

111
straordinaria di santuari, templi, musei, gallerie, biblioteche e piú in
generale di opere pubbliche che offrono architettonicamente un’ideale
passeggiata nei periodi Meiji, Taishō e Shōwa.
Un’escursione, per quanto rapida e disordinata, non può escludere il
tempio Kan’ei-ji, con la sua pagoda sviluppata su cinque piani, che venne
edificato nel 1625 dal monaco Tenkai, sotto richiesta dello shogun
Tokugawa Hidetawa, per proteggere il versante a nord-est della città di Edo
dal maligno (kimon ), secondo le consuete credenze cinesi legate ai
punti cardinali. E passeggiare intorno al laghetto Shinobazu, che muta
sorprendentemente aspetto a seconda delle stagioni, passando dal seppia
degli stecchi secchi all’opulenza delle foglie di loto, immense come facce
allineate di giganti, e poi in primavera dalle file di ciliegi in fiore al verde
dei germogli che ne prendono il posto al loro sfiorire con l’arrivo dell’estate:
qui, dove adesso vi è una tortuosa strada cementata, si allungava il percorso
di una corsa di cavalli.
Il tempio SHINOBAZU-IKE BENTEN-DŌ , sorge nel
corridoio di terra che dalla scalinata del tempio Kiyomizu Kannon-dō porta
verso le radici della collinetta. Scalini di pietra che vanno a due a due, un
po’ ripidi e gravosi. I riflessi d’acqua giocano con il tempio dedicato alla
dea Benten, il suo caratteristico edificio a pianta ottagonale, il tetto di
smeraldo invecchiato, la ghirlanda di ciliegi, i grattacieli che si ergono alle
spalle. Benten è nel pantheon giapponese la dea delle arti e della fortuna e la
sua iconografia è associata alla musica e ai serpenti, motivo per cui i Giorni
del Serpente sono propizi per visitare il tempio. È la divinità il cui amuleto
porto sempre con me, chiuso nel portafogli; quella che, come ama ripetere
mio suocero, ha visto subito di buon occhio l’unione di Ryōsuke e mia. Lo
dice perché il luogo del primo appuntamento con Ryōsuke, l’isola di
Enoshima, ha un unico tempio dedicato proprio a lei e una leggenda narra
che le coppie si debbano guardare dal visitarlo prima di sposarsi, o l’invidia
della dea le separerà.
Cormorani e anatre ne hanno fatto il loro habitat ed è frequente vederli
flottare disordinatamente sulla superficie dell’acqua, o appollaiati
ordinatamente sul filo teso fra i pali lungo il corridoio di terra.
La guerra civile scaturita dalla Restaurazione Meiji distrusse la maggior
parte degli edifici che sorgevano sulla collina su cui prosperava Ueno e,
sulle ceneri della città, il governo progettò la costruzione di un grande
ospedale. Fu su consiglio dell’olandese Antoon Bauduin, approdato in

112
Giappone per insegnare la scienza medica occidentale e colpito dalla
stupefacente natura e dalla ricchezza storica dell’area, che si stabilí invece di
farne un parco. Al posto del tempio Kan’ei-ji, quello da cui tutto era
iniziato, e che tuttavia non scampò ai fuochi incrociati del conflitto, venne
trasferito lí da Kawagoe un altro ampio tempio, noto per essere stato guidato
un tempo dallo stesso monaco Tenkai.
Oggi Ueno sono soprattutto i ciliegi a tappeto durante la stagione dei
sakura in fiore, il suo magnifico parco, lo zoo che fu il primo in stile
occidentale e venne creato nel 1882, la concentrazione straordinaria di
musei, la vivace e labirintica GALLERIA COMMERCIALE sotto la ferrovia
andando verso sud, verso Okachimachi prima e Akihabara poi.
È anche la statua di Saigō Takamori , con il fedele cane di
razza Akita accanto, una delle sculture piú note dell’arredo urbano di Tōkyō
e disegnata nel 1892 da Kōun Takamura: l’«ultimo samurai» già evocato al
santuario di Atago-jinja è stata una figura emblematica della seconda metà
del XIX secolo, impasto di saggezza, dignità e ribellione, combinazione di
umori diversi che ne ha fatto uno degli eroi piú amati del Giappone.

Uno storico dedalo di contrattazioni.

Uscendo dal parco, Sōsuke reclama la merenda. Anche Emilio è stanco e


un dolce è ciò che serve prima di reimmergersi nel caos colorato di Ueno.

113
114
«Affidatevi al cibo» consiglio sempre a chi porta i bambini in viaggio in
Giappone. «Incaricate i sapori particolari e il kawaii applicato alle pietanze
di distrarli». Poche cose aggiustano l’umore come un parfait che ci sorride
col volto di Hello Kitty, o un pancake di dieci soffici piani, o ancora un
gelato con il faccino a forma di maialetto o tenpura di foglie e di fiori.
I ristoranti e i caffè di Tōkyō iniziano già a esibire sugli stendardi e nelle
vetrine riproduzioni di kakigōri , una sorta di granita fatta di
ghiaccio a lamelle soffici e sottili sopra cui si versano sciroppi colorati,
ingredienti come polvere di kinako e maccha, fagioli azuki ma anche
marmellate, biscotti, brownie e mochi.
Ripenso a quell’antica celebrazione chiamata kōri no sekku , la
Festa del Ghiaccio che, nel periodo Edo, si teneva il 1° giugno e serviva a
scacciare la calura. Questo rituale veniva chiamato anche himuro no sekku
, «la festa della stanza del ghiaccio», o kōri no tsuitachi
, «il primo giorno del ghiaccio». Originariamente, infatti, la data
coincideva con l’abitudine delle famiglie dell’aristocrazia di tirare fuori il
ghiaccio dalla stanza apposita in cui lo si custodiva (himuro) e di mangiarlo
per rinfrescarsi; l’usanza si diffuse tra i samurai e poi, piú in generale, tra gli
abitanti della città, finché a esser congelati in inverno divennero
direttamente i mochi, interi oppure tagliati a listarelle, e fatti seccare.
I giapponesi amano il ghiaccio, adorano sentirlo tintinnare contro le
pareti di vetro del proprio bicchiere, magari la sera, a casa, dopo una dura
giornata di lavoro, tanto che nei frigoriferi esistono scomparti appositi per
onorare questo moderno rituale.
E tuttavia quest’anno il caldo sembra non voler arrivare, la stagione delle
piogge insiste e tiene basse le temperature, pur alzando l’umidità alle stelle.
Scendendo dal treno o oltrepassando le porte automatiche dei konbini e dei
grandi magazzini, resi gelidi dall’aria condizionata in estate, pare ogni volta
di entrare in bagno dopo che qualcuno è uscito dalla doccia. Tutti
nell’anomala nuvola di vapore che si crea in prossimità di una gigantesca
vasca d’acqua bollente.
Tra il dentro e il fuori pare sia in corso una guerra.

Ame vuol dire «pioggia» ma, con una lieve inclinazione della voce,
acquisisce un significato diverso. È «caramella», e proprio questa via fitta di
negozi e bancarelle fino a scoppiare porta il suo nome. È AMEYA-YOKOCHŌ ,
l’ultimo mercato nero sopravvissuto ai tempi che cambiano, chiamato cosí

115
perché quando negli anni Quaranta furono introdotti per la prima volta sul
mercato dolciumi, e soprattutto caramelle ottenute dalla patata dolce, la loro
vendita fu mirabolante. In giapponese, «caramella» si dice appunto ame .
Chiamato America-yokochō, nel periodo in cui questo era il luogo per
eccellenza dove procurarsi sottobanco beni di importazione come
cioccolata, alcolici e abbigliamento occidentali, da piccolo mercato di circa
4 tsubo (circa 13,2 mq), è diventato una sorta di intricato labirinto che oggi
ospita approssimativamente cinquecento tra negozi e bancarelle. Le insegne
sporgono tutte diseguali, senza tratti comuni nell’altezza e nella forma,
affollando lo sguardo che è tirato qui e là, in su e in giú.
La distanza che si apre tra chi cammina avanti e chi sta dietro è talmente
scarsa che il passo si fa lento, e nella prossemica tutta ribaltata di Ueno
rispetto a quella di un quartiere come ad esempio Marunouchi – la prima
attillata come un paio di leggins, la seconda morbida e larga come una
gonna svasata – si trova il gusto dell’attesa. Sta proprio nel non riuscire a
vedere cosa c’è oltre, il piacere di domandarsi: «Dopo questa bancarella,
quale arriverà? Il prossimo banco cosa venderà? I prezzi come saranno?
Troverò qualcosa di bello?»
Su Ameya-yokochō un’altra coppia binaria, che oppone questa volta i
concetti di chiuso e aperto, fa sí che tettoie e vessilli otturino la vista del
cielo, cioè lo sguardo verticale, mentre la prospettiva orizzontale, quella
orientata nel ventre cavo dei negozi, è esercitata agilmente grazie alla natura
«spalancata» degli esercizi commerciali, che non hanno porte di ingresso e
possiedono solo tre pareti. È allora tutta un’esplorazione dello sguardo,
spingendolo giú fino in fondo ai locali, dove è possibile osservare il
succedersi delle merci, l’affastellarsi di prodotti tutti uguali come scarpe,
cosmetici o confezioni di alghe e crostacei. E poi grandi marche a piccoli
prezzi, negozietti di street food o di abbigliamento, incassati perlopiú sotto
le rotaie (gādo shita ).

Seguendo la linea del dito di Emilio che, dal marsupio del padre, indica
ogni cosa, notiamo come anche qui siano abbondanti i sacchetti di ume,
trasparenti, gonfi di frutti verdi, tondi e duri.
E tuttavia, guardando i banchi lo si nota, che giugno è anche il mese dei
cetrioli, dei frutti di biwa , delle albicocche che dell’estate hanno
l’arancio tenue, cosí com’è il tempo della radice di zenzero che, grattugiata,
sprigiona un profumo fresco e aggressivo, ma anche di una sfilza di pesci i

116
cui nomi, a tradurli in italiano, suonano oscuri: cobite, sauro, grugnitore.
In questo vorticoso mercato c’è tutto, piú di tutto. Qui i venditori sono a
loro volta esuberanti e le voci altissime comunicano la vitalità e l’atmosfera
concitata da mercato nero di cui, nonostante il travolgente scorrere della
storia e del tempo, pare resti ancora traccia. Ameya-yokochō è oltretutto uno
dei pochissimi posti in cui la contrattazione è ancora bene accetta, in una
città come Tōkyō in cui «mi fa uno sconto?» è un’espressione che credo di
non aver mai sentito: al massimo la si sente pronunciare come una gentile
offerta da parte del negoziante (omake shimasu ), e
solamente in ambienti informali come il mercato o in circostanze particolari.

Oggi che giorno è in Giappone?

– Buongiorno! – accolgo Sōsuke in cucina. È domenica ed è appena


sveglio.
– Oggi che giorno è? – mi domanda.
Sa quanto io sia ossessionata dalle microcelebrazioni giapponesi. Le
controllo quotidianamente, spulcio i libri che le elencano tutte, anche dieci
per data, dettagliatissime nel raccontare i giochi di parole e gli anniversari
per cui, ad esempio, il 1° di questo mese è stato «il giorno della fotografia»,
l’11 «il giorno dell’ombrello», il 18 «il giorno del trasferimento all’estero».
Sōsuke ignora che quando compirà sei anni sceglierò appositamente il 6
giugno per introdurlo al taiko e alla calligrafia, perché fin dall’antichità quel
doppio sei (6/6) è inteso come il giorno piú propizio per intraprendere lo
studio di una disciplina. Cosí come quasi certamente ha già dimenticato
perché il 16 giugno ad Asakasa ci siamo abbuffati di wagashi senza
vergogna: non solo perché era la Festa dei Bambini ma anche perché era
proprio kashō no hi , ovvero il «giorno dei dolci giapponesi»,
quando secondo un’antica leggenda, grazie all’offerta di wagashi alle
divinità, si scongiurò una piaga mortale. Si celebra quel giorno con sedici
diversi dolcetti di buon auspicio, in ognuno dei quali è convogliata la
speranza di una fortuna continuativa.
– Allora, mamma, oggi che giorno è?
– È esattamente la metà dell’anno, – rispondo, e con le mani taglio
idealmente qualcosa in due parti.
Si chiama nagoshi no harae e cade intorno al 30 giugno:

117
è esattamente il giorno che si pone a metà dell’anno e in cui si tengono
cerimonie di purificazione per liberarsi da sfortune, calamità e influenze
negative della prima metà dell’anno ed entrare, purificati, nella seconda. Si
prega forte contro disastri e malanni, per l’incolumità della famiglia, o di
un’attività.
È usanza in particolare passare attraverso un grande cerchio sorretto da
rami di bambú chiamato chi no wa e composto da paglia di riso
intrecciata e chigaya, un’altra pianta della stessa grande famiglia delle
graminacee. Passarvi attraverso garantisce purificazione, oltre a liberare
dagli spiriti malvagi. Appese tutt’intorno stanno bamboline ritagliate di carta
katashiro e shide , quelle strisce caratteristiche di carta washi che
segnalano l’ingresso di un santuario shintoista, l’approssimarsi del sacro.
A Tōkyō questa cerimonia si tiene in molti santuari come Akasaka
Hikawa-jinja , tra Akasaka a Roppongi, Yushima Tenmangū
, nel distretto di Bunkyō, a breve distanza dall’Università
imperiale di Tōkyō, e Yoyogi Hachimangū , subito fuori dal
parco di Yoyogi.
– Allora oggi che facciamo? – ripete il mio bambino.
– Cosa facciamo? Be’, oggi attraverseremo un cerchio, Sōsuke.
– E perché?
– Perché dall’altra parte sarà tutto piú bello.

118
LUGLIO

Il mese della letteratura

Fuzugi
Nel giorno di Tanabata, la festa piú popolare del Giappone, da cui il nome tanabata-
zuki , «il mese di Tanabata», era consuetudine scrivere sui tanzaku delle
poesie e si pregava per migliorare nell’arte della calligrafia; di qui anche l’altra
dicitura, simile, del mese, fumihiraki-zuki o fumihiroge-zuki , che illustra la
scrittura sui rami di bambú. Un’altra ipotesi vuole sia invece derivato dal nome
fufumi-zuki , che allude alla crescita delle piantine di riso.

Altri antichi nomi di luglio sono: ominaeshi-zuki , «il mese di ominaeshi»,


ossia una delle sette erbe di nana-kusa che fiorivano in questo periodo e
venivano offerte ai defunti durante la Festa dell’o-bon; ryō-getsu , «il mese del
fresco» o «il mese dell’aria fresca»; e ran-getsu , «il mese delle orchidee».
Luglio un tempo era anche oya-zuki , «il mese dei genitori», occasione di
commemorazione degli antenati e dei defunti: era infatti usanza recarsi a pregare
intorno alla tomba di famiglia e tenere rituali dell’o-bon. Secondo la declinazione
contemporanea del calendario solare, adesso luglio coincide con la fine della
stagione delle piogge, con l’ingresso vero e proprio nell’estate, con il canto corale di
cicale e ranocchie.

Numeri e parole.

Tipico di questo periodo è il mercato di hōzuki ( ),


Physalis alkekengi, con i loro frutti simili a palloncini che i bambini si
divertono a usare come strumenti a fiato. A partire da giugno, e per buona

119
parte del mese di luglio, è comune scorgere hōzuki, che dal verde maturano
fino a ricoprirsi di vivo arancio, fuori da uffici e abitazioni private e
all’ingresso di ristoranti di cucina giapponese tradizionale washoku:
fungono da decorazione, abbellendo l’esterno delle porte intrecciati in
ghirlande minimaliste e altre raffinate composizioni.
Fin dalla metà del periodo Edo, il 9 e il 10 luglio al santuario Kannon di
Asakusa, al Sensō-ji o nel recinto del santuario di Atago-jinja si tiene un
mercato dedicato, hōzuki-ichi , dove per ichi si intende il luogo
di compravendita e scambio. Stanno tutti allineati lí i calici degli hōzuki,
come soli perennemente al tramonto appesi ai verdi fusti diritti nei vasi.
Questo evento si sovrappone alla celebrazione chiamata shimanrokusen-
nichi , «il quarantaseimillesimo giorno», per cui recarsi al
tempio a pregare in quello specifico giorno equivarrà ad averlo fatto per 46
000 volte, ottenendo pertanto dal dio un equivalente favore.
– Un giorno fortunatissimo, insomma!
– Sí, eccezionale, ma non è l’unico, – risponde Ryōsuke. – Ad esempio,
meno potente ma ugualmente eccezionale è il sennichi-mairi .
– Sen? Mille?
– Sí, originariamente significava recarsi per pregare al tempio buddhista,
quando si recita il Sutra del Loto. Anche in quel giorno basta recarsi al
tempio per ottenere una grazia moltiplicata per mille rispetto al consueto.

Fin dall’antichità in Giappone si credeva che gli dèi dimorassero nelle


montagne. Per questo motivo l’accesso ai monti era consentito solo a
pochissime persone come i bonzi o gli yama-bushi , cioè i monaci
buddhisti itineranti che vi si rifugiavano per praticare l’ascesi.
Successivamente fu permessa la scalata anche alla gente comune,
limitatamente a determinati periodi dell’anno chiamati appunto yama-biraki
, «apertura della montagna».
Su alcuni monti si tengono ogni anno, in questa occasione, delle
celebrazioni. Sullo schermo, tra le notizie liete o interessanti che i
telegiornali giapponesi propongono con una frequenza che in Italia verrebbe
probabilmente giudicata eccessiva, scorrono le immagini del monte Fuji e di
una moltitudine di persone avvolte in abiti color latte e con il tipico bastone
chiamato kongō-zue , che si accinge alla scalata, intonando il tipico
canto rokkonshōjō .
Ricordo le tante riproduzioni del Fuji sul territorio giapponese, la

120
credenza per cui, trattandosi della montagna piú alta (e quindi «potente») del
Giappone, chi lo scalava ricevesse la grazia divina. Cosí, non appena
iniziava il periodo di yama-biraki, in molti si cimentavano nell’impresa, sia
che fosse in grande o in piccola scala.
– Ricordi? L’abbiamo visto a Shinjuku, a febbraio.
Basta rinominarla e chiamarla come l’autentico Fuji-san perché una
montagnola da nulla si trasformi magicamente nel mito. I giapponesi fanno
un incredibile affidamento sui nomi, sui giochi di parole, cosicché un
toponimo è in grado di ricostruire il senso di un luogo: la copia è capace – al
pari dell’originale – di chiamare la buona o la cattiva fortuna.

Striscioline di desideri e stelline di sogni.

La prima domenica del mese ci ritroviamo tutti seduti intorno a un tavolo


traboccante di carta. Forbici dalla punta arrotondata, colla da spalmare con
le dita. C’è Sōsuke, ci sono due suoi compagni dell’asilo eccitati quanto lui,
e tre mamme, inclusa me.
Siamo stati invitati a casa di uno dei due bambini, come è raro che
accada in Giappone: qui, infatti, per incontrarsi si preferisce una zona
franca, un caffè, un ristorante o piú in generale un qualunque locale esterno
alla casa. Questo perché gli appartamenti sono in media un po’ angusti, e
perché ci si vuole risparmiare il fastidio di aprire alla presenza disordinata
degli altri quella che, a tutti gli effetti, è una cuccia. Eppure, con i bambini,
il discorso è un po’ diverso: si accetta la confusione come premessa, si
privilegia la praticità di saperli completamente a proprio agio.
Tanabata è una festa speciale, che cade solo una volta all’anno, anzi due:
il 7 luglio secondo il calendario tradizionale, il 7 agosto secondo quello
solare. Pertanto, se questo mese festeggeremo a Kamakura, ad agosto
saremo ad Asagaya, il quartiere di Tōkyō tra Ogikubo e Kōenji, sulla linea
Chūō, dove si tiene un grande festival che raccoglie un mucchio di gente.
Per assurdo che possa sembrare, infatti, ogni parte del Giappone – e persino
ogni quartiere di Tōkyō – celebra Tanabata un mese prima oppure un mese
dopo. Va detto che sulle agende e nell’usanza comune è luglio che vince,
ma a Sendai, dove la festa di Tanabata è in assoluto la piú celebre e
grandiosa, e stravolge l’intera città, si tiene ad agosto. Insomma, c’è una
sorta di equilibrio.

121
«Si può affermare, – scriveva il filosofo Nishida Kitarō, – che il sé
oscilla come un pendolo tra il desiderio e il suo appagamento». La vita,
insomma, ruota tutta intorno al desiderare. E Tanabata è imperdibile anche
per questo.Tutto nasce come celebrazione dell’incontro tra due stelle, il
pastorello Hikoboshi (Altair) e la principessa tessitrice Orihime (Vega):
separati dalla Via Lattea, ama no gawa , «il fiume divino», le due
stelle hanno occasione di attraversarla solo durante la notte del 7 luglio. La
festa, basata su una vecchia leggenda cinese, ha avuto origine presso la corte
imperiale nell’epoca Nara e solo successivamente, durante il periodo Edo, si
è diffusa tra il popolo.
In prossimità di questo giorno, si trascrivono desideri e preghiere su
tanzaku , striscioline di carta spesso lunghe e sottili che si appendono a
ramoscelli di bambú, cui si aggiungono origami decorativi di diversa
complessità.
Per le strade di Tōkyō sventolano voluminosi festoni. Attaccati alle
tettoie dei negozi stanno infilzati fuscelli, naturali o artificiali, carichi di
sogni e di decorazioni di carta. Eccoli anche accanto ai banchi del
supermercato, verso le uscite, dove la gente si ferma a scrivere frasi che
terminano tutte nella formula giapponese della fantasticheria: masuyōni~
, ossia «Che succeda…», «Fa’ che accada…» I bambini
giocano a individuarli e i festoni di tanzaku, come rispondendo al saluto, si
agitano colorati nel vento all’ingresso della stazione, fuori dalle scuole e
dagli asili, nelle hall degli alberghi e subito oltre le porte degli uffici
comunali.
Cosí a Kamakura, alla fine di Wakamiya-ōji, all’ingresso del lungo viale
che conduce al santuario TSURUGAOKA HACHIMANGŪ, si notano immense
ghirlande tonde come teste di bimbi con appesi fluttuanti corpi da meduse.
Si replicano in prossimità del secondo torii, e poi del primo, che introduce al
recinto sacro; infine li si ritrova appesi agli estremi del tetto spiovente del
santuario minore (wakamiya ), e di quello principale (motomiya ),
sessantuno scalini piú su, da cui si domina la città e la vasta prospettiva del
mare. Sbatacchiati dal vento, riproducono un suono simile a un battito
disordinato di mani.

– Si scrive qui? Mi aiuti?


Sōsuke impugna il pennello, indica i tanzaku sparpagliati davanti. Un
tempo venivano usate foglie di gelso e si tracciavano sopra poesie, pregando

122
per progredire nell’arte del cucito e nella calligrafia. Oggi si usa qualunque
tipo di materiale e i desideri sono espressi liberamente.
Ci mettiamo tutti d’impegno a produrre decorazioni di Tanabata, ognuna
delle quali nasconde un augurio: come kamikoromo , origami a forma
d’abito per pregare di acquisire abilità nella sartoria; o amikazari , la
cui sagoma a rete richiama la speranza di una pesca abbondante e si rifà
proprio alle reti dei pescatori. C’è poi chōchin , che richiama la
lampada di carta nel nome e nella conformazione, la cui funzione simbolica
starebbe nell’illuminare i desideri trascritti sui tanzaku. I bambini si
appassionano però specialmente ai kusudama , magnifiche sfere di
carta dalle forme e dalle tinte piú varie e complesse, la cui origine
allungherebbe le radici fin nella consuetudine, al tempo della corte
imperiale, di arrotolare erbe medicinali come amuleti contro il maligno.
– Guarda, si fa cosí.
Dall’alto verso il basso, da destra a sinistra. Il mio palmo avvolge il
piccolo pugno di Sōsuke che stringe il pennello, e insieme tracciamo il suo
desiderio: «Voglio dinosauri, giocare con Tao-kun, e la nonna, i libri… e
poi andare al caffè con mamma, i trenini, mangiare un dolcino».
Lo fermo perché lo spazio è finito, ma mi rassicura sapere che i suoi
sogni rientrano ancora tutti nel regno del realizzabile.
Akiko, con la sua bella voce, intona la canzone tradizionale Tanabata-
sama, e intorno a noi paiono d’un tratto vibrare le lanterne della festa, gli
autentici chōchin , quelli che gli artigiani fabbricano usando telai di
bambú e fogli di carta di riso, e su cui vengono dipinti a mano disegni e
fantasie.
Poco lontano da qui, in una valle protetta, ci sono le lucciole a illuminare
la notte estiva: ad esempio le si può vedere sul monte Takao o nella zona di
Chōfu, poco distante dall’International Christian University, o ancora in
quel meraviglioso giardino (quasi) segreto e a ingresso gratuito che è
Chinzansō , a Sekiguchi nel distretto di Bunkyō.
Al calare della sera il matsuri salirà di tono e già mi pare di sentire le
grida dei commercianti delle bancarelle di yakisoba, takoyaki e di mele
caramellate che tingono di rosso vermiglio le bocche dei bimbi.
Esploderanno anche le urla dei piccoli per giocare al kingyo sukui
, la piscinetta a serpentone, con dentro non piú pesci rossi, come una volta,
ma sgargianti sfere dipinte con fantasie astratte o con le figure dei tipici eroi
dell’infanzia giapponese – Anpanman, Ultraman – o del pantheon

123
disneyano. Una bacinella e un mestolo e per 300 yen il gioco si conclude in
una manciata di palline elastiche, di quelle che schizzano da una parte
all’altra di una stanza, raggiungendo agilmente anche il soffitto.

Sulla tavola apparecchiata ci sono i sōmen, vermicelli che anticamente si


credeva allontanassero i malanni se gustati nel giorno di Tanabata; sono di
cinque diversi colori e vengono presentati in un groviglio ondeggiante che
richiama il fiume della Via Lattea.
– Basta tagliare l’abelmosco (okura) cosí, – mi mostra Miku, la nostra
ospite, – perché sembrino stelle. E poi si può usare la formina per ricrearne
anche dalla carota, dal formaggio, dal daikon…
– E dal cetriolo? – domando.
– Certo, da quello che preferisci. Non c’è limite alla fantasia, – risponde
mentre mi mostra come anche una fettina di patata dolce possa tramutarsi in
un astro a sei punte.
– Mia nonna era sarta, – riprende, – e ci raccontava che i sōmen erano
considerati di buon augurio per migliorare nella sartoria, proprio perché
richiamavano la forma dei fili da cucito.

124
125
– Che splendore, non ci avevo mai fatto caso, – commento stupita.
Sapevo piuttosto che un tempo, in questo periodo dell’anno, nel Giappone
rurale si tenevano festeggiamenti per il raccolto estivo – frutta e verdura di
stagione come cetrioli, zucche, pomodori, melanzane, angurie – e che questa
eredità era convogliata nell’abitudine ancora attuale di fare delle offerte.
I bambini si affacciano alla tavola, incapaci di attendere l’ora del pasto. È
colpa dei bellissimi dolci associati alla festa che decorano come un quadro i
posti di ognuno: caramelle di zucchero a forma di foglie di bambú, dolci
pressati che richiamano le striscioline di carta dei tanzaku, con sopra scritte
speciali come ama no kawa , «La Via Lattea», oppure a forma di
ordito, di filamenti. O ancora dolci di riso avvolti in foglie di bambú.
Un bambino, chissà quale dei tre, urta la boccetta di konpeitō e
una distesa brillante di stelle di zucchero si rovescia sulla tavola imbandita. I
ditini corrono a raccoglierle ed è tutta un’accelerazione di polpastrelli
appiccicaticci, di lingue tempestate di stelline gialle, rosa, verdi, arancio e
blu, di risa nel gioco a chi ne raccoglie di piú. Nonostante il rischio che
l’appetito si guasti, l’effetto è talmente bello che non abbiamo il coraggio di
fermarli.

Ritorno al futuro: i molti presenti della città.

Quel che può risultare poco evidente a uno straniero è la differenza che
effettivamente intercorre tra una zona e un’altra di Tōkyō, a seconda delle
diverse società di trasporti dalle quali è servito un quartiere, se da linee
private come Tōkyō Metro e Odakyū, oppure semipubbliche come la Japan
Railways.
Le aziende che danno il nome alle linee dei treni sono infatti le stesse che
hanno costruito (e continuano a progettare) i quartieri da esse attraversati e
collegati. Takarazuka, il quartiere della prefettura di Hyōgo dove nel 1914 è
stata fondata la celebre compagnia teatrale femminile, è stato
profondamente influenzato dalla linea Hankyū; cosí come le zone a ridosso
delle stazioni sulle linee private Tōkyū-Tōyoko, Keiō e Seibu, in cui
sorgono i grandi magazzini fondati dalle relative compagnie (Tōkyū, Keiō e
Seibu, Loft). Le metropolitane con le loro stazioni modificano la morfologia
del quartiere-città, modificano anche il bacino di utenza, cosí che una linea

126
privata chiama a sé una popolazione piú ricca, singoli o famiglie che
possono permettersi quei beni che venderanno i grandi magazzini
amministrati dalle stesse società di trasporti, oppure le case che
edificheranno sui terreni a loro disposizione. E cosí via.
Per questo i quartieri serviti da linee private sono tendenzialmente piú
ricchi di quelli dove passano linee della Japan Railways. Sulla linea Chūō,
oltretutto, sorgono tante scuole di specializzazione e università, cosí che il
volto dei quartieri, abitati e frequentati in buona parte da studenti, si adegua
naturalmente.
A KŌENJI , ad esempio, non ci sono enormi supermercati o grandi catene
di negozi, caffetterie come Starbucks o giganteschi negozi di elettronica
nello stile di Bic Camera o Yamada Denki. È un quartiere meno scintillante,
meno schiavo delle tendenze del gusto corrente. Pare piuttosto tagliato su
misura per gente che fugge dalle novità a tutti i costi e preferisce mettersi al
riparo in quella conca di dimenticanza che è l’essere volontariamente in
ritardo, il mantenersi un passo indietro per guardarsi intorno. Kōenji
permette, in questo senso, di perdersi nei propri pensieri senza essere
disturbati dal luccichio delle insegne, dai desideri indotti dall’ultima o dalla
penultima moda.
Forse anche per questo, Kōenji nel tempo è diventato la culla della
cultura underground, che scorre tra gli anni che avanzano, sotterranea tra i
detriti del presente.
Ecco, mi dico, anche questa è Tōkyō, città di scorie, e di novità, di spazi
risicati e di immense altezze. Di vaste foreste, parchi immensi, come
Shinjuku Gyoen, il parco Koganei o il parco Mizumoto, ma anche minuscoli
giardinetti distribuiti ordinatamente tra gli isolati, dove i bambini si lanciano
giú da uno scivolo o si scagliano verso il cielo, in altalena, e dove i
salarymen si siedono su una panchina per consumare il pranzo, magari
sussurrando Itadakimasu a mani giunte davanti alla scatola del bentō, sia
che questo sia stato preparato dalle mani amorose della moglie o da una
delle tante aziende che riforniscono i konbini. Parchi o ritagli tra strade e
edifici in cui uomini e donne si rifugiano nella pausa dal lavoro, a fumare
una sigaretta se è consentito, a pensare o piuttosto a smettere di pensare
premendo le dita freneticamente sullo schermo del cellulare.
Tōkyō è pausa e velocità, è una continua accelerazione spezzata da un
periodico, minuto rallentare. Kōenji, per certi versi, è una di quelle tregue,
un intervallo. È uno dei quartieri giovani, pieni di locali dove radunarsi,

127
chiacchierare e bere, ideale per single che amano la compagnia. Ed è noto
anche per i suoi tanti negozi di abiti usati, che gli danno quell’aria di chi è
volutamente in ritardo sul mondo e si barrica nel vintage.
– È quindi il quartiere della controcultura...
– Sí.
– Ma, la cultura mainstream allora, quella cui dovrebbe andar «contro»,
dov’è?
Secondo l’architetto Kuma Kengo è NAKANO , il quartiere che fino alla
fine della Seconda guerra mondiale era sede di una famosa accademia
militare, centro di addestramento per le varie operazioni di intelligence che
il governo giapponese svolse su vari fronti internazionali. L’impronta bellica
ne plasmò profondamente il volto, creando quel fitto sistema di
infrastrutture utili alla classe amministrativa che si andò a raggrumare subito
intorno alla stazione. Negozi, centri di polizia, ospedali, tutto quanto era
necessario alla vita quotidiana venne collocato lí. Un caso abbastanza unico,
se confrontato con la struttura delle altre ventidue circoscrizioni di Tōkyō.
Ed ecco allora che si spiega la natura antimilitare, libera di Kōenji.
È fatta a strati la storia di Tōkyō. Va in profondità in modo
impressionante e poi si allarga in un apparato radicale ampio, quasi
pervasivo. Una visione di insieme è particolarmente complicata da afferrare,
e non necessariamente restituisce fedelmente la realtà. Con un bacino tanto
grande di spazi e di persone, l’aggregazione, la formazione di tendenze è
possibile a partire da un principio qualunque. La storia, a Tōkyō, non è mai
una soltanto.

Kōenji emana un odore di terme. Sono i BAGNI PUBBLICI, rivestiti di


mattonelle con riproduzioni di paesaggi famosi. Popolarissimi nell’epoca
Edo, dopo la Seconda guerra mondiale vennero sempre meno sfruttati per
via dell’avvento dei bagni privati e delle vasche installate in casa.
Esistono libri dedicati a questi luoghi, il cui nome esatto è sentō e
che, secondo la definizione del dizionario, non sono altro che «bagni
pubblici a pagamento, distinti in zone per uomini e donne, [ciascuna] di esse
a loro volta [differenziata] in: spogliatoio, spazio in cui ci si lava e zona
delle vasche». Durante l’epoca Edo fungevano soprattutto da luoghi di
incontro. Dopo la Seconda guerra mondiale, per attirare i clienti, alcuni
proprietari hanno puntato sull’ammodernamento delle attrezzature,
sull’aggiunta di comfort e dotazioni di lusso, propagandando, ad esempio, i

128
bagni terapeutici, la ricerca di un tempo di puro relax all’interno di una vita
troppo veloce.
Camminiamo pigramente, a un ritmo che questo quartiere a ovest di
Tōkyō permette di fare. Emilio batte le mani. Poco piú avanti nella galleria,
c’è una ragazza con la pianola che canta rapita le note struggenti di una
melodia già sentita da qualche parte.
Artisti di strada se ne incontrano in molte zone di Tōkyō, negli spiazzi di
Shinjuku che si trasformano in palchi, sottopassaggi della ferrovia a
Yurakuchō, piazzole di transito e sosta a Kichijōji e Shimokitazawa. Gruppi
e singoli cantanti suonano per la strada ma non chiedono soldi quanto
invece attenzione; e se di richiesta di denaro si tratta è per l’acquisto del loro
cd. L’ascolto resta quindi l’omaggio piú gradito. Nella folla qualcuno batte
le mani, qualcun altro dondola languidamente la testa. Molti si perdono nei
loro pensieri mentre qualcun altro scatta una foto o gira un piccolo video da
condividere online. I bambini, col tipico approccio tutto bianco o tutto nero,
o sono rapiti dalla melodia e dalla posa concentrata dell’artista, ballano
addirittura se il ritmo è veloce e li ispira, o si annoiano a morte e allora
tirano le mani dei genitori per andare via.

La gola verso cui scorrono i fiumi.

Quando, tre mattine a settimana, prendo la linea Yamanote da Shinagawa


verso Shinjuku, oppure da Shinjuku torno verso Ōsaki con la Shōnan-
Shinjuku, guardo Shibuya scorrermi a destra o sinistra e noto ogni volta
come, da qualunque punto la si guardi, per raggiungere la stazione si debba
affrontare una discesa. Paiono fiumi, che incanalano il traffico a ingrossare
le acque di una sola, sgargiante pozzanghera multicolore.
Del resto il nome del quartiere ha in sé già la risposta, nel secondo kanji
di SHIBUYA , che significa la «valle», la «gola».
Un tempo, quando i fiumi scorrevano liberi a cielo aperto nel quartiere,
ogni volta che si registravano piogge torrenziali, lo Shibuya-gawa straripava
e tutta la zona finiva invasa dall’acqua. Poi arrivò la vertiginosa crescita
economica, lo sviluppo rapidissimo della società che come un’onda spinse
Tōkyō e tutto il Giappone al cambiamento. Lo Shibuya-gawa venne
sfruttato per il sistema di fognature e prese a emanare un pessimo odore. Fu
cosí che intorno al 1961 si decise di nasconderlo sotto uno strato di

129
cemento, come polvere sotto il tappeto, o meglio di «tumularlo».

Quando arriviamo al fianco sud di Shibuya entrambi i bambini stanno


dormendo: Emilio in braccio al padre, Sōsuke nel passeggino.
Lí dove un tempo c’era un parco frequentato da senzatetto, poi
trasformato in luogo per sport all’aria aperta e soprattutto per gli skateboard,
ora c’è un’immensa voragine, un cantiere aperto. Chissà cosa diventerà, mi
sono chiesta per mesi, ma senza un vero rimpianto per quello spazio con
pochi alberi e molto cemento.
Ricordo però, qui vicino, il ricevimento di nozze di uno dei piú cari amici
di Ryōsuke, e la moglie di cui ho memoria per un solo dettaglio: il suo
incondizionato amore per i personaggi della Walt Disney, cosa niente affatto
rara in Giappone. E poi dalla stazione, salendo piú su verso Aoyama, con
Ryōsuke, la copisteria dove ho stampato la mia tesi di dottorato il giorno
stesso della consegna – perché io non so lasciare andare le cose importanti
se non all’ultimo momento. E ancora, sempre qui, con Pina e la sua banda di
amici, due estati fa, le corse come adolescenti avanti e indietro sulle strisce
dello SHIBUYA SCRAMBLE CROSSING cercando il momento migliore per lo
scatto con un aggeggio per fare foto panoramiche, finché per poco non ci ha
messi sotto un taxi.
Nella mia testa esistono decine di ricordi cosí, ed è splendido riscoprirli
tutti nelle stratificazioni del tempo che si applicano come vestiti sui luoghi.
Shibuya li ha tutti addosso.
Come Tōkyō che, nonostante sia casa mia da quasi vent’anni, resta
collegata nella mia testa all’immagine esagerata di una ragazza vestita da
gothic lolita, in rosa, pizzi e cuffietta, con un enorme pupazzo grande quasi
quanto lei. Se penso a Tōkyō ancora oggi per primo vedo il viso di lei
impegnata in un servizio fotografico, mentre guarda costantemente nella
medesima direzione, in posa. Nella mia memoria resta lei, sorprendente, e
insieme quel calibrarsi della gente che le fluisce intorno senza neppure
sfiorarla. Ognuno intento a scavarsi un tunnel personale nella folla di
Shibuya, di questo incrocio che non è una piazza, ma in fondo lo è.
È vero che di regola si transita solamente su quello che i giapponesi
chiamano Shibuya sukuranburu kōsaten ,
ovvero il celebre incrocio di attraversamenti pedonali diagonali di Shibuya,
ma è altrettanto vero anche che mentre si passa si sta. Nell’immaginarsi ad
attraversarlo, fin dai lati di partenza, già gli si sta dentro; quando si attende

130
che scatti il verde e davanti è soltanto uno sfrecciare serrato di macchine e
autobus veloci, si è già nel suo bel mezzo; quando si intravedono gli altri, sul
lato che si raggiungerà, quelli in prima fila, le teste in seconda, volti e
macchine fotografiche in attesa dallo Starbucks di fronte, obiettivi che
spuntano dal tunnel di raccordo della linea Inokashira con il murale di
Okamoto Tarō alle spalle, in ogni luogo che sia lí nei pressi, si fa già parte
integrante di Shibuya.
Bisogna andarci una volta nella vita, guardare la gente camminare, e
osservarla come si osservano stormi di uccelli muoversi in sincrono al
tramonto, con la stessa attenzione e la medesima meraviglia. E serve non
dimenticare, neppure per un istante, che ogni testa, dentro a quel mucchio
nero di gente, è una storia a sé stante.

Quando si dice Shibuya, per prima cosa s’intende il suo incrocio. E poi
HACHIKŌ , il nome dell’uscita di una stazione e della statua che sta di fronte
ricorda il fedele cane di razza Akita celebre per aver continuato ad aspettare
invano per anni fuori dalla stazione il suo padrone: un professore di agraria
dell’Università imperiale di Tōkyō all’inizio del secolo scorso ogni giorno,
scortato dal cagnone, prendeva il treno per recarsi al lavoro; di ritorno, ogni
sera, lo trovava ad attenderlo alla stazione di Shibuya. Dal giorno in cui il
professore muore all’improvviso mentre è all’università, Hachikō rimane ad
aspettarlo davanti alla stazione nell’attesa di vederlo tornare per oltre un
decennio.
Nel campus della sede centrale dell’Università di Tōkyō c’è una scultura
ancora piú bella, che ritrae l’incontro gioioso tra il cane e il suo padrone. Ne
conservo una serie di scatti che Ryōsuke, da Tōdai, talvolta mi manda. Sa
che mi inteneriscono molto.

Shibuya è però, soprattutto, il caos della giovinezza, il sottofondo di gyaa


gyaa dei ragazzini, è meta di shopping e uno dei principali centri del
divertimento della capitale. Negli anni mi è capitato spesso di sentir dire, per
bocca anche di trentenni o quarantenni, frasi come: «È troppo caotica, è
sporca, non è piú adatta alla mia età».
Shibuya è infatti la trasgressione, la libertà. Shibuya è sbruffona, un po’
delinquente. Ed è anche sporca, a differenza della maggior parte di Tōkyō. Il
che dimostra, ancora una volta, come nessuno stereotipo, neppure il
migliore, si attagli a una città grande cosí.

131
Io, comunque, piú che dall’uscita che porta il nome di Hachikō, dove è
installato anche un vecchio convoglio del treno della linea Tōyoko
soprannominato ao-gaeru , «la ranocchia verde», preferisco
l’uscita ovest, lí dove dal 1980 sta MOYAI , la scultura che riproduce uno
degli enigmatici volti dell’isola di Pasqua e che fu donata in occasione del
centenario dell’annessione dell’isola di Nii-jima alla giurisdizione del
governo metropolitano di Tōkyō.
E mi fa sempre una certa impressione ricordare come qui un tempo,
sopra alle teste di tutti, scorresse a filo la funivia.
Schermi e poster consumano ogni possibile prospettiva dello sguardo: è
come un enorme patchwork, adesivi appiccicati gli uni sugli altri come
fanno i bambini, che dei confini tra le cose non hanno alcuna
considerazione. Nonostante sia difficile immaginarla a schermi spenti negli
orari di punta, Shibuya la ricordo nel marzo del 2011 quando, per le
riduzioni energetiche seguite all’incidente della centrale nucleare di
Fukushima, si adottò un regime di austerità. Cosí deve essere apparsa in
origine quella salita che era strada di passaggio per raggiungere il santuario
di Afuri-jinja a Ōyama, letteralmente «la grande montagna» nella prefettura
di Kanagawa. Una strada silenziosa e tranquilla nel periodo Edo, che
divenne invece vivace nel Meiji quando fu costruita la stazione di Shibuya.

Il dio del commercio.

Salendo, oltre la divaricazione che crea il mitico edificio ICHI-MARU-KYŪ


109 (agglomerato di negozi di abbigliamento su vari piani, mecca dei
giovani che inseguono l’ultima moda), vado a sinistra, restando sul lato
destro della via. Mi lascio dietro ragazzine squillanti, uomini con macchine
fotografiche appese al collo che elargiscono nella stessa misura ordini e lodi
alle modelle occasionali che escono ed entrano da 109. Puntano a esser
notate, ad avvicinarsi ai propri idoli, ragazzine comuni che a loro volta sono
diventate modelle. In quel miscuglio di innocenza, malizia e vanità che è
l’adolescenza.
Superiamo la scalinata che porta al pub irlandese dove la sera si riversano
comitive di stranieri, l’enorme Uniqlo poco piú su, il negozio dove la frutta
è avvolta una per una in retine di polietilene, come se mele e pesche fossero
gioielli e dovessero essere protette dagli urti dell’esistenza, e i parfait

132
recitano in vetrina le delizie di cui è capace quella frutta. A sinistra, dove
ora c’è il cinema Toho, una volta c’era il Sony Center. Ricordo uscire dalle
macchinette installate lí una collezione di purikura, le fototessere scattate
negli anni, figure stagliate su uno sfondo verde che scendeva non appena si
sceglievano sul menú le cornici e i paesaggi. Ricordo Ryōsuke vestito da
rana, il costume acquistato nel discount Don Quijote aperto piú su, lungo
questa salita e voltando a destra verso il centro culturale Bunkamura.
Bisognava fare presto, mettersi in posa perché subito arrivava lo scatto. Ora
ci si fa un selfie. Eppure le purikura resistono ancora. È il fascino della
materialità nell’era della digitalizzazione imperante.

Edo era la città dove, secondo il sistema sankin kōtai , erano


costretti ad abitare i vari daimyō dei feudi (han ) sparsi per le isole del
Giappone. Ogni zona di Tōkyō portava il segno del signore che
l’amministrava, e tutt’oggi resta l’impronta della sua residenza e dei luoghi
di culto fatti edificare. Shibuya era dimora del signore di quella che oggi
corrisponde alla prefettura di Ōita. La Società Hakone-tochi acquistò dal
conte Nakagawa le terre e sull’onda del boom edilizio progettò di costruirvi
delle case. Si deve al grande terremoto del Kantō del 1923 il naufragio del
progetto e l’ideazione invece di una stradina commerciale, colma dei negozi
piú famosi che, colpiti dal disastro, dalla città vecchia si trasferirono lí per
iniziare una seconda vita.
Ed ecco, continuando la salita, aprirsi a destra una strada «annunciata». È
SHIBUYA HYAKKENDANA sormontata da un arco che recita il
suo nome, come un torii, un portale che inaugura l’inizio d’un cammino
verso il tempio. E in effetti, al limitare, un piccolo santuario davvero lo
troveremo, dedicato a una divinità del commercio. È il santuario Chiyoda
Inari , trasferito tre volte, l’ultima delle quali lo ha portato
qui a partire dall’altro lato della stazione di Shibuya, su per l’ennesima salita
(Miyama-suzaka ) che sfocia nel quartiere cui dà il nome.
Ma prima di giungervi, servirà oltrepassare quella trafila di squallidi
alberghi a ore, in cui consumare incontri promiscui suggeriti dalla presenza,
uno dietro l’altro, di locali vietati ai minori di diciotto anni. Sono arroccati
lungo Shibuya Hyakkendana e vi si affacciano giovani donne piene di pizzi,
capigliature gonfie come nidi d’uccello e trucco pesante. Luci cianotiche,
altre intermittenti, che macchiano il buio di questa via un po’ maledetta.
Chissà, mi domando, quanti si sono persi qui. Chissà se qualcuno, a

133
dispetto delle premesse, ci ha trovato l’amore.
Amo le strade cosí, vicoli in cui la materia è per metà sotto la luce e per
metà in ombra. Tōkyō è sempre come una maschera che presenta due volti.

134
AGOSTO

Il mese delle foglie

Hazuki
Una delle ragioni per cui nel nome di agosto sono affiancati i kanji di «foglia» e di
«mese», deriverebbe dal fatto che il fogliame inizia a cadere dagli alberi. Questo
perché, secondo il calendario tradizionale, la denominazione veniva in realtà
applicata a settembre, il mese cioè che segna la conclusione dell’estate e l’ingresso
nell’autunno.

Altri nomi attribuiti ad agosto sono: akikaze-zuki , «il mese del vento
d’autunno»; tsukimi-zuki , «il mese della contemplazione della luna»; kei-
getsu , «il mese del siliquastro giapponese», il Cercidiphyllum japonicum,
arbusto chiamato anche «albero di Giuda»; ganrai-getsu , «il mese
dell’arrivo delle oche selvatiche» che è nome molto evocativo perché, seguito dal
kanji hageitō che significa «cremisi», a sua volta rimanda all’inizio
dell’autunno, ovvero al colore amaranto delle foglie.

Eleganza, lusso, paradisi pedonali.

Si cammina larghi a GINZA . Rispetto ad altre zone, lo spazio pare


immenso, e quell’infiltrazione luminosa che si percepisce in altri quartieri,
quel senso di spirito santo che cala dall’alto per bucare tettoie e riempire
fessure tra i palazzi qui è assente, tanto il cielo è sempre spalancato.
A Ginza tutto pare bianco, i marciapiedi, le facciate linde degli edifici
firmati, non ci sono insegne e pubblicità a tappezzarne i muri.

135
Per prevenire un poco la stanchezza dei bimbi – snervati potenzialmente
da tutto quanto non sia abitudine e rito – ho anticipato già ieri sera la lista
dei luoghi da visitare. L’ho stilata e sceneggiata per loro piena di ottimismo.
Chissà poi quante voci riusciremo realmente a spuntare.
Accennando a Ginza e alla sua trasformazione ogni domenica in isola
pedonale, mi è tornato in mente che proprio il 2 agosto del 1970 si tenne a
Tōkyō il primo evento legato alla creazione degli hokōsha tengoku
, letteralmente «paradisi pedonali». Fu istituito dopo gli ottimi
risultati degli esperimenti avviati nelle zone di Ikebukuro, Shinjuku,
Asakusa e, appunto, Ginza, grazie ai quali si notò che i livelli di monossido
di carbonio presenti nell’aria si abbassavano di un quinto in risposta al
blocco settimanale delle vetture. Da quel giorno si decise di estendere questa
usanza non solo ai quartieri piú animati di Tōkyō, ma a tutte le città del
Giappone.

A Ginza c’è The Beer Hall Lion Ginza, un locale dall’architettura


strabiliante che ha quasi cento anni di storia: il beer hall piú antico del
Giappone. Oppure la libreria Morioka Shoten & Co., divenuta celebre anche
all’estero per il suo eccezionale minimalismo: ogni settimana è ospitato un
unico volume a cui viene dedicato tutto lo spazio. Oppure ecco il Vampire
Cafe dalle atmosfere gotiche, oppure ancora quello che richiama
appassionati di treni perché sul bancone scorrono rapidi modellini di
shinkansen, stazioni di sosta, ponti, città (Bar Ginza ChouChouPonPon). Ma
ci si può spingere anche fino all’Historical Nakagin Capsule Tower
, un edificio particolarissimo costruito all’inizio degli
anni Settanta dall’architetto del movimento metabolista Kurokawa Kishō, in
cui vale la pena prenotare una visita se non addirittura abitare per un mese,
sperimentando la «vita compatta» della capsula: un luogo temporale oltre
che fisico, che proietta l’ospite in un futuro (ancora) irrealizzato, le cui
radici ideali affondano però nel periodo Shōwa, nei sogni di una
generazione, nell’entusiasmo di un movimento artistico in pieno fermento.
Ecco, credo sia questo che piú amo di Ginza, la sua varietà che supera di
gran lunga l’apparenza. La metafora che meglio la rappresenta è quella di un
sontuoso salone, arredato con lussuosa mobilia, in cui si annidano segreti di
scarsa eleganza, oggetti che esercitano una sorta di resistenza.
Cosí a GINZA NI-CHŌ-ME , basta virare bruscamente dal
vialone di Ginza-dōri, un tempo delimitato da edifici a due piani nello stile

136
occidentale di mattoni rossi, per scorgere l’inizio di una strettoia. È MIZU-
TAMA ROJI , «il viottolo delle gocce d’acqua», che va visitato al
tramonto: giunti a metà del percorso s’illumina di sfere rosse, proiettate a
terra dall’alto. Solo chi ne conosce l’esistenza rallenta il passo all’altezza di
quello che sembra un interstizio tra Tiffany & Co. e il lussuoso negozio di
abbigliamento maschile Ginza Eikokuya. E dal vicolo delle gocce scarlatte è
pura poesia osservare la gente passare. Come dalla buia platea di un teatro,
si resta al margine dell’immedesimazione e si guardano gli attori sul palco,
gli spettatori intorno.
Cosí, procedendo in avanti verso Ginza san-chō-me fino a
Ginza hacchō-me , se ci si attarda un po’ e si manda in
esplorazione lo sguardo, ecco fra gli imponenti edifici numerosi altri
vicoletti che si aprono come crepe nel muro.
Queste stradine che tempestano il retro di Ginza sono abitate da gatti,
costellate da club di lusso – frequentati solo da manager di alto livello e star
della tv –, oppure da ristorantini fatiscenti a buon mercato di oden e yakitori,
con le tipiche lanterne rosse che si accendono la sera; ma brulicano anche di
minuscoli santuari come quello di AZUMA INARI , costruito
dopo la Seconda guerra mondiale per scongiurare gli incendi che hanno di
volta in volta mutato il volto di Ginza, prima durante il grande terremoto del
Kantō, e poi per via dei bombardamenti americani del Secondo conflitto
mondiale.
Ho molti frammenti di vita legati a questi vicoletti. Ricordo quando un
mio studente di lingua italiana, dirigente di una grossa agenzia di trasporti,
mi portò in un club di Ginza, un luogo in cui peraltro non saprei mai
ritornare, o quando Tokuhira-san, manager della Sony a fine carriera, mi
invitò con sua moglie a mangiare il sushi piú buono e raffinato di tutto il
Giappone. E quando firmai il contratto del mio secondo libro, per
festeggiare venni con Ryōsuke al Bar Lupin , incastonato in
un viottolo fatiscente subito accanto alla sede centrale della prestigiosa casa
editrice Bungei Shunjū . Al Bar Lupin, frequentato da sempre da
scrittori, artisti e attori del cinema, è stata scattata una delle piú intense
fotografie dello scrittore Dazai Osamu, appesa adesso a una parete del
locale.
Ricordo quando, quella stessa notte, al ritorno verso la stazione,
attraversammo un ennesimo vicoletto e d’un tratto fummo gettati nelle
atmosfere del periodo Edo, nel rosso scarlatto non di un torii ma di una

137
intera parete. Era un altro minuscolo santuario: due volpi a vegliare a lato,
una grande campana con la corda appesa da agitare per chiamare il dio, per
pregare l’amore. Il TOYOIWA-INARI è dedicato infatti al dio delle
unioni e le lampade di metallo che sormontano la viuzza, e che ricordano
vagamente le lanterne di bronzo del Grande santuario Kasuga di
Nara, costituiscono un ricordo indelebile, cremisi e giallo paglia.

– È bellissima Ginza… e piena di ricordi, – dico a Ryōsuke mentre mi


barcameno tra le richieste di Sōsuke e i capricci di Emilio: vedremo il leone
all’ingresso del grande magazzino Mitsukoshi – uno dei luoghi d’incontro
piú noti di Tōkyō – e acquisteremo dolci tradizionali che i bambini non
resisteranno a mangiare prima di giungere a casa. Saranno yōkan in un
palmo di mano, come i kingyo-sukui , «pesca dei pesciolini
rossi», ossia dolci nei toni dell’azzurro con dentro in trasparenza il profilo
distinto di un pesce rosso e di un gemello nero, una punta di verde sul
fondo, a ricreare l’atmosfera di un’alga. E poi natsu-goromo , «abito
estivo», fatto di stretti e sottili strati di pasta di mochi, decorati in mille
fantasie diverse, a evocare le maniche dello yukata di una donna in un
giorno d’estate.
Se ci andrà bene passeremo da Dominica, il nostro ristorante preferito di
soup curry – gemello di quello di Sapporo, che ho conosciuto durante un
memorabile Festival della Neve –, e da Ginza, procedendo sempre dritto
verso Yaesu, saluteremo di rito la statua di Ninomiya Kinjirō
davanti all’amata libreria Yaesu Book Center. Poi fileremo a casa con un
doppio cambio di treno.
Infine, ripercorrendo sul futon le emozioni della giornata, arriverà la
nanna. Che casualmente, in giapponese, si dice quasi cosí: nenne .

Inseguendo miniature di treni e armadilli.

Oggi procediamo a destra dalla piccola stazione di MEJIRO ; sotto vi


passano come fiumi le rotaie che corrono verso la vicinissima Ikebukuro. È
una stazione verso cui provo un’antipatia viscerale, istintiva, in buona parte
inconsapevole e ingiustificata, se non per il traffico di gente e il chiasso dei
negozi.
Le cicale strillano come sempre, gonfiando la pancia come strumenti a

138
fiato. In questo tratto di strada sono particolarmente abbondanti per via del
verdissimo campus dell’Università Gakushūin. È storicamente l’università
frequentata dai rampolli della famiglia imperiale e luogo dove si tenne uno
dei discorsi a mio parere piú intensi sull’occidentalizzazione e
modernizzazione del Giappone, pronunciato nel 1914 da Natsume Sōseki.
Conosco molto bene il campus perché vi insegno ormai da piú di dieci anni,
e posso svelare ai bambini che, giú in fondo, alla fine di una ripida scarpata,
c’è anche il maneggio dei cavalli, dove i ragazzi si esercitano la mattina,
prima dell’inizio delle lezioni.
Arriviamo al piccolo ponte CHITOSE ed è proprio in quel
momento che affacciandoci vediamo passare il tram della Toden Arakawa-
sen. Penso sempre che la sua storia abbia un notevole potenziale narrativo…
l’ultimo tram di Tōkyō, la determinazione di chi ha voluto sopravvivesse
alla rivoluzione dei trasporti, l’amore di chi ci ha creduto.
Se nel 1950 il numero degli utenti a servirsi di una delle quarantuno linee
del tram era 1 750 000, nel 1960 diminuirono rapidamente, fino a sfociare
all’annus horribilis del 1972, quando si accumulò un conto in rosso che
superava i 200 000 yen e pertanto le linee furono ridotte a sei. Li
chiamavano anche chin chin densha , abbinando il kanji del
«treno» all’onomatopea chin chin dal tipico suono della campanella
manovrata a mano o a pedale, la cui riproduzione singola o replicata pare
possieda un suo preciso significato un tempo noto a tutti: una volta «ho
passeggeri in discesa, mi fermo», due volte «niente passeggeri, passiamo
oltre» e cosí via.

139
La corsia preferenziale venne abolita nel 1965, rovesciando sulle strade
le automobili con cui i tram entravano fatalmente in competizione. Sempre
meno usate e apprezzate per questioni di velocità, tutte le linee sparirono in
breve. Tutte tranne la TODEN ARAKAWA-SEN che conservò la sua carreggiata
sia perché si ritenne sarebbe stato difficile reinventare il suo percorso su
strada, sia perché gli appelli della gente del posto al sindaco di allora e le
attestazioni di affetto furono particolarmente accorati.
È cosí che ancora oggi quel piccolo tram circola nel tessuto cittadino di
Tōkyō, tra Mejiro e Zōshigaya.
– Voglio salirci, – esclama Sōsuke, ed è un’impresa trattenerlo, tutto
premuto com’è sulle grate del ponte.
– Un giorno ci saliremo, promesso, – dico facendo mente locale di
quando, in questo anno già pieno di cose da fare e vedere, potremo
effettivamente andarci.
– Aspetta, ma era qua vicino che sorgeva Tokiwa-sō? –domando a

140
Ryōsuke.
– Dall’altra parte della stazione.
TOKIWA-SŌ è il nome di un edificio e insieme quello di un mitico gruppo
di mangaka. Si trattava di uno spartano complesso abitativo in legno, a due
piani e senza servizi privati o vasche da bagno, in cui vissero tra il 1952 e il
1982 una serie di celeberrimi mangaka come Tezuka Osamu, Terada Hiroo,
Fujiko Fujio, Ishinomori Shōtarō, tutti a inizio carriera. La reciproca
solidarietà, nella consapevolezza di quanti sacrifici e impegno quotidiano
costasse quel lavoro, spinse i residenti a invitare a loro volta altri artisti per
soggiorni di varia durata, trasformandolo in un laboratorio simile a una
bottega rinascimentale.
Ricordo di aver visto un bellissimo film sulla vita del «Dio dei Manga»,
Tezuka Osamu, che veniva redarguito a causa del furioso e intensissimo via
vai dei suoi redattori e assistenti a ogni ora del giorno e della notte.
– È per questo che la circoscrizione di Toshima è anche chiamata la
«Città santa del manga», una sorta di tappa obbligata di pellegrinaggio per
gli appassionati.
– Nonostante il «tempio» di Tokiwa-sō sia stato demolito e al suo posto
sorga una casa privata qualunque…
Solo piú tardi, facendo qualche ricerca, scopriremo invece che, mentre
questo libro prende forma, stanno per essere completati i lavori di
costruzione di un museo dedicato al mitico gruppo di Tokiwa-sō, finanziato
con fondi raccolti da ogni parte del Giappone. Sorgerà a poca distanza dal
luogo originale e saranno anche riprodotti gli interni delle stanze degli artisti
che vi hanno abitato.
Una scusa in piú per visitare l’altra metà di Toshima-ku, un altro giorno,
dall’altra parte della stazione.

L’estate sono i marciapiedi tremolanti per l’afa e il sole rovente. Il frinire


delle cicale, le campanelle fūrin agitate dal vento e l’orecchio che non
riposa, se non a patto di assorbire ogni rumore come una colonna sonora.
I bambini corrono per la strada, rallentano in prossimità dei cespugli, si
appostano nei parchi di Tōkyō, in allerta con i retini stretti nelle mani per
catturare gli insetti: è una tradizione antica che emerge anche nella
letteratura classica e nei manga. In estate i konbini e i negozi da 100 yen
esibiscono in bella vista tutta l’attrezzatura per acciuffarli, servizi televisivi
si concentrano sul modo piú giusto di maneggiarli, anime descrivono

141
l’estate dei ragazzini delle elementari, i compiti assegnati a scuola per le
vacanze tra cui una costante è proprio l’osservazione di insetti e la
compilazione di un diario quotidiano sul loro comportamento.
Lo ammetto, non amo affatto questa usanza. Con sentimento
ambivalente, di curiosità e timore di nuocere a creature viventi, sono forse
l’unica tra le mamme della classe di Sōsuke a vietargli di catturare cicale,
cavallette, libellule, mantidi.
Faccio un’eccezione solo per i dango-mushi , l’Armadillidium
vulgare, meglio noto come «porcellino di terra», vera e propria passione dei
bambini giapponesi: al solo sfiorarli con un polpastrello, si richiudono
istantaneamente in una palletta corazzata e dopo poco, non appena smettono
di percepire il tocco, tornano a srotolarsi e zampettano via. A luglio erano
ovunque, ed è stato bello vedere come anche Emilio abbia imparato a dosare
la forza, giocando con i dango-mushi senza fare loro del male. Li lascio
giocare, sempre a patto che li liberino dopo un metro o due.
All’ingresso dell’asilo di Sōsuke c’è un grosso contenitore dove tra foglie
e terriccio si nascondono suzu-mushi , «insetti campanella» o «grilli
sonaglio», quegli insetti bruttini ma dal bellissimo canto di cui erano
innamorati i nobili della corte Heian: li ponevano in scatoline di bambú
come si trattasse di strumenti musicali o carillon. Nel Genji monogatari
viene chiamato «grillo del pino» ( ), e del resto tutta l’epoca Heian ne
cambiava la denominazione. Nel periodo Edo, ascoltando i loro versi, che in
giapponese vengono riprodotti nell’onomatopea riin riin, era usanza bere
sakè e recitare poesie.
È splendido, penso, quando letteratura e realtà collimano nel quotidiano.
E il Giappone, in questo senso, è speciale. I suzu-mushi sono a tutti gli
effetti parte integrante della cultura tradizionale del Giappone, e mi fa
tenerezza vedere ogni giorno i bambini che li sorvegliano con solerte e
chiassosa curiosità, che li salutano con la manina.
I giapponesi amano gli insetti e ognuno di loro possiede una voce: bii bii,
korokororii, chinchirorin, rurururu, jiri jiri, pichi pichi jii jii, gasha gasha,
ryuu ryuu. Del resto uno dei grandi classici della letteratura estera piú
apprezzati in Giappone, un testo che conoscono tutti i bambini, è il lavoro
dell’entomologo francese Jean-Henri Fabre, La vie des insectes (1910),
pressoché sconosciuto invece al grande pubblico di altri paesi come l’Italia.
Io stessa ne ignoravo l’esistenza. Possibile, mi chiedevo anzi, che gli insetti
siano un argomento tanto appassionante?

142
Nell’estate di Tōkyō, e piú in generale in Giappone, macchiano l’aria
anche farfalle nero pece, che paiono rondini tanto sono grandi. Oppure
pipistrelli strappati alla notte, secondo la suggestione di Sōsuke.
A Zōshigaya, nel recinto del santuario KISHIMOJIN-DŌ ,
notiamo tavole di legno e gufi ovunque. Le panchine sostenute ai due lati
dalla presenza di una civetta, sapiente.
Non mi stupisco. So, per aver visto documentari e letto libri su Tōkyō
negli anni, che nel quartiere di Toshima esiste un museo del gufo e della
civetta (Toshima Fukuro Mimizuku Museum), cosí come un negozio a
Kichijōji che tratta oggetti di disparato uso e dimensione che però hanno
tutti, senza esclusione, forma di rana.
Per i collezionisti, del resto, Tōkyō è il paradiso. C’è tutto, c’è sempre.
Qualunque cosa si cerchi, a Tōkyō c’è di sicuro.
Raccogliamo dalle mani grassocce della commessa gli o-sen-dango
serviti in due file. La donna porta il tipico fazzoletto che le
copre in un triangolo di stoffa la nuca, accenna un sorriso brevissimo, sul
vassoio nero che ci porge sono posate anche due tazze di tè. I bambini si
avventano con le manine avide sui dolci.
– Aspettate! – dico imperiosa in italiano, facendo trasalire la commessa.
Con le bacchette taglio rapida le pallette di mochi in quattro minuscoli pezzi
e uno alla volta glieli metto in bocca. Memore dei tanti incidenti di
Capodanno, mi domando fino a che età avrò paura che possano soffocarsi.
Un foglietto, posto a fianco del piattino, spiega come Zōshigaya fosse un
tempo piena di negozietti e sale da tè, tutti spariti senza che nessuno ne
sappia l’esatto motivo. Fu la nostalgia della gente del luogo a far sí che ne
venisse riaperto perlomeno uno.
Il nome di questi dolci richiama i mille figli (sen-nin ) della dea
Kishimojin, divinità che curava amorevolmente la propria prole, almeno
quanto crudelmente trattava i figli degli altri.
– Li rapiva e li divorava, era una dea mangia-bambini. È a lei che questo
santuario è dedicato, sapete?
– Mangiava i bambini? – Sōsuke ha un’espressione indecifrabile in viso,
tra l’inorridito e il divertito.
– Sí, ma poi, per punizione, il Buddha le rapí il figlio piú caro, e allora lei
capí quanta sofferenza causava agli altri e si pentí. Da allora la dea
Kishimojin divenne protettrice dei bambini e delle donne incinte.
L’iconografia la vede con una melagrana in una mano – frutto simbolo

143
per eccellenza della fertilità non solo nella cultura giapponese – e con in
braccio un infante.
Sul retro del tempio un gruppo di giovani indiani siede sui gradini e
traffica con buste di plastica e bacchette. Subito fuori, sulla sinistra un
negozietto di bentō, gestito da una grassa signora con un fazzoletto stretto
sulla fronte.
– Non mi sembra proprio il posto ideale dove mangiare, il retro di un
tempio, – sussurro a Ryōsuke, stizzita.
– Nella cultura giapponese, però, la percezione del tempio non è sacra e
rigida. È sí un luogo di preghiera ma anche di riunione, di incontro. Le
bancarelle durante i matsuri si montano nel recinto di templi e santuari, no?
– risponde placando come sempre la mia eccessiva severità.
– Effettivamente…
– Figurati che nel periodo Edo vi si tenevano spettacoli per intrattenere la
popolazione, incontri di sumō e rappresentazioni di kabuki. E per quanto
possa risultare sconcertante, erano anche usati dalle coppiette per appartarsi
e… – ride.
– No, ma davvero? Non ci posso credere!
– Mamma, cos’è? – Sōsuke intanto nota qualcosa a lato della strada. È
una vetrina incastonata in un normale edificio.
Al di là del vetro c’è un matoi , uno strumento che i pompieri del
periodo Edo fissavano sul tetto delle case vicine al luogo dove era scoppiato
l’incendio, in modo da segnalare il pericolo, la posizione delle fiamme.
Fungeva anche come simbolo di riconoscimento del gruppo di intervento.
– I pompieri di un tempo erano chiamati hikeshi , cioè
letteralmente coloro che «spengono il fuoco», eppure, piú che domare le
fiamme con l’acqua, distruggevano le abitazioni adiacenti, in modo da
circoscrivere la propagazione del rogo. Non avevano tanti mezzi a
disposizione come oggi.
Voglio fotografare il matoi. Un uomo dal sorriso cordiale si affretta a
togliere la bicicletta che era parcheggiata davanti alla vetrinetta. Esclama: –
Cosí viene meglio la fotografia!
Ci scusiamo per il disturbo ma lui inizia invece a raccontarci di come
quel matoi, insieme a moltissimi altri, a voluminose lanterne a forma di rami
di ciliegio in fiore e a tamburi fissati all’estremo di lunghi bastoni di legno,
verrà esibito durante il grande festival di metà ottobre Kishimojin Oeshiki-
taisai .

144
Senza vederli è difficile immaginarli ma lui assicura: – È uno spettacolo
eccezionale, la notte si illumina delle lanterne giganti e i matoi vengono
agitati in aria, come avvitandoli e svitandoli, cosí da scrollare tutte le frange.
– Partecipano anche i bambini, – aggiunge lanciando un’occhiata a
Sōsuke. – Si divertono un mondo.
Preso dall’entusiasmo, ci invita a entrare nel piccolo ufficio adiacente,
che scopriamo di proprietà della municipalità e usato effettivamente dalle
forze dei vigili del fuoco. Ci sono casacche ancora oggi in uso, strumenti di
un tempo, faldoni pieni di documenti e soprattutto, fissata sulla parete
accanto alla porta, una stampa originale ukiyo-e di cui pare andare
particolarmente fiero. Descrive decine di uomini che agitano in aria vessilli,
tutti ammassati intorno a un matoi che ruota con particolare vigore.
– Non è una copia, sapete. È proprio l’originale!
Lo salutiamo promettendo di tornare per il festival in ottobre. Se non
quest’anno, il prossimo, magari.
D’un tratto il cielo si fa scuro. Pare che qualcuno abbia tirato le tende,
spazzando via tutta la luce. Alziamo gli occhi ed è plumbeo – e siamo subito
sorpresi da un temporale. Ci rifugiamo sotto il tetto di una palazzina,
guardando l’acqua venir giú fittissima oltre l’orlo ondulato.
Nell’ilarità generale della fuga, Sōsuke alza gli occhi pensoso: –
Mamma, ma perché piove?
Mi volto verso Ryōsuke. – A chi tocca? – Sorride, mi rimanda la palla.
Lo sa che alla scienza io preferisco la leggenda.
– È colpa di Raijin e di Fūjin – rispondo. – Vi ricordate le due
statue spaventosissime all’ingresso del lungo corridoio di negozi ad
Asakusa, lí dove abbiamo fatto compere a maggio? Ricordate il portale di
ingresso con la lampada immensa al centro, il Kaminari-mon?
Annuiscono.
– Ecco, uno era Raijin, un dio potentissimo, dal corpo completamente
rosso, con mutandoni di pelle di tigre, che tiene un cerchio di tamburi
appeso alla schiena e nella mano una bacchetta per suonarli. Getta dall’alto
delle nuvole lampi e tuoni sulla terra verso di noi. Ora deve essere lí, – dico
indicando il cielo oltre la tettoia merlata del Kishimojin-dō, – magari
proprio su uno di quei nuvoloni, a ridere del nostro affanno.
– E poi c’è Fūjin, il dio del vento. Lui ha il corpo verde…
– Come un dinosauro?
– Sí, come un dinosauro tutto nudo e con una sacca piena di vento tra le

145
mani. Sembra un lungo e gonfio lenzuolo teso alle spalle.
E intanto che loro mimano i demoni che versano l’acqua con mestolo e
secchio alla mano, i tamburi percossi da cui si sprigionano i tuoni e il soffio
potente che scombina le chiome degli alberi dentro e fuori il recinto del
santuario, aspettiamo che spiova.

Il ritorno degli antenati.

Tōkyō si svuota di residenti – per riempirsi tuttavia di turisti – tre volte


l’anno: a Capodanno, durante la Golden Week e per l’o-bon .
Quest’ultimo va all’incirca dal 13 al 16 agosto, ed è il periodo dell’anno
in cui si omaggiano i morti, si celebrano gli antenati e li si invita a fare
ritorno a casa dal mondo dell’aldilà. Le famiglie si riuniscono, recandosi a
pregare il primo giorno, di mattina, sulla tomba di famiglia, e la sera
preparandosi invece ad accogliere gli antenati nelle case: per loro viene
acceso il fuoco di benvenuto (mukae-bi fl ) cui seguirà un altro
fuoco, l’ultimo giorno, per proteggerne il ritorno (okuribi ).
Entrambe le fiamme fungono da guida, affinché le anime degli avi non
perdano il cammino, cosí come a Capodanno venivano fissate alle porte le
composizioni odorose di pino per chiamare le divinità.
– Ma è un continuo di partenze e ritorni: nella vostra cultura non stanno
mai in pace i defunti, – scherzo rivolgendomi a Ryōsuke.
Eppure ricordo quella bella frase di Ōe Kenzaburō in Una famiglia e
penso avesse profondamente ragione: «Quanto piú ricca e profonda
diventerebbe la nostra esistenza, se tutti noi nella nostra vita di tanto in tanto
potessimo sentire le voci di chi ci ha lasciato e ci manca». Suppongo che
l’o-bon significhi questo, che il mondo si taglia e si cuce a ogni scomparsa
(e a ogni comparsa), e che sia sano dare importanza a rituali che abbracciano
il mondo dell’aldilà. Una cultura che ha paura dei propri defunti si priva di
quel patrimonio fondamentale che sono il passato e la tradizione.
L’o-bon – abbreviazione del termine urabon – nasce come una
funzione commemorativa, una sorta di requiem, che il discepolo Mokuren
(o Mokukenren) del Buddha Shakyamuni allestí per la propria madre. La
leggenda vuole che l’avesse vista soffrire in sogno.
Nell’antichità le persone credevano che l’aldilà si trovasse dalla parte
opposta di mari e fiumi cosí che a seconda della zona, al posto del fuoco di

146
accoglienza, si teneva un rituale che consisteva nel porre offerte o piccole
fiammelle su barchette e farle scorrere via, come anime a pelo dell’acqua
(tōrō nagashi o shōryō nagashi ).
Per consolare e rallegrare le anime dei defunti, nacquero invece le danze
omonime bon-odori , che avevano anche la funzione di cacciare il
maligno dai vivi. Questi balli rituali sono divenuti parte del tessuto
socioculturale del Giappone e si tengono, come eventi indipendenti, in varie
zone del paese. La loro origine si colloca orientativamente nel periodo
Muromachi (1336-1573), quando si unirono danze popolari a balli chiamati
nenbutsu, propri della tradizione dei bonzi del periodo Kamakura (1185-
1333).

Le parole per dire estate.

Le racconta magistralmente la letteratura, le notti estive di Tōkyō. Negli


haiku di agosto, in particolare, germogliano stelle e riflessi di luna. Li
adorna lo sciamare del canto delle cicale e il volto tondo del convolvolo. E
tuttavia compaiono anche le prime tempeste, il maltempo che vira verso la
fine di agosto.
E poi naturalmente bon no tsuki , la luna dell’o-bon: trattandosi
del periodo in cui si attende la visita degli antenati, lo sguardo alla luna è
particolarmente carico di emozione e compare in molti haiku. Nagare-boshi
, invece, è la parola per il periodo tra l’ultima decade di luglio e la
fine di agosto in cui è possibile vedere il cielo colorarsi delle scie delle stelle
cadenti – che, in giapponese, «scorrono» come le acque in un fiume, anziché
«cadere» come in italiano –, ed è particolarmente famoso lo sciame
meteorico della costellazione di Perseo.
Ma è sul finire del mese che tutto si fa piú nervoso. Sono inazuma ,
ovvero i lampi che squarciano in lontananza il cielo, di cui non si vede che
luce. Niente pioggia: solo e unicamente luce. E li accompagna il kigo
chiamato hatsu-arashi , letteralmente «la prima tempesta»: il vento
forte che precede i tifoni estivi, e che porta in qualche modo il presagio
dell’autunno che si avvicina. Un vento che dalla fine di luglio e per tutto
agosto non cessa mai di soffiare.
Shikushiku-booshi, shikushiku-booshi: è questo il canto caratteristico
della «cicala-bonzo», che proprio dal suo verso prende il nome (Hōshi-zemi

147
), e che si può cogliere nell’aria verso la fine del mese di agosto.
Kigo d’agosto è anche tanabata , che secondo il vecchio calendario
lunare cade il 7 di questo mese, ma pare invece molto lontana. Nella
prefettura di Miyagi, è famosissimo il Festival di Tanabata di Sendai, ma noi
abbiamo festeggiato già ad Asagaya e Shibuya, e abbiamo portato a casa a
luglio i tanzaku dal santuario Hachimangū di Kamakura. Di desideri
abbiamo colmato ogni giorno.
Il mio kigo preferito di agosto? Non è o-bon né nulla che abbia a che fare
strettamente con la natura. È piuttosto un oggetto, una sorta di antenato dei
giochi di un tempo, meccanico, fatto di carta e di fuoco. Si chiama sōmatō
ed è una «lanterna a immagini girevoli» originaria della Cina. Un
manufatto bellissimo e pieno di poesia che gioca con le ombre proiettate
sulle pareti, una volta create dalla luce di una candela posta nel mezzo. Fa
venire voglia di tornare bambini.

Rientriamo a casa che è sera tardi.


È stata un’altra domenica di escursioni nel pieno delle vacanze d’estate,
questa volta trascorsa in tondo sulla Yamanote, prima a Nippori, al MUSEO
ASAKURA , la bellissima casa-atelier del celebre scultore
Asakura Fumio (1883-1964) – dove i bambini si sono divertiti a individuare
le innumerevoli statuette dedicate dall’artista ai suoi amatissimi gatti –, e poi
tra Gotanda e Ōsaki, per vedere GROWING GARDENER, un’opera in acciaio e
alluminio di Inges Idee – un collettivo tedesco di artisti specializzati in
bizzarre installazioni per spazi pubblici – che ritrae un grosso gnomo con
una pala stretta nella mano sinistra e il tipico cappello rosso che si allunga
per ben 16 metri. La sua punta oblunga è visibile fin dalla Yamanote e i
bimbi lo hanno indicato cosí tante volte dal treno che ci è venuta la curiosità
di scendere, per una volta, e andare a toccarlo letteralmente con mano.
Felici ma stanchi, Sōsuke ed Emilio si lasciano fare il bagnetto senza
proteste. Oltre le tende, nella stanza del tatami ci attende il piccolo altare
degli antenati. Vi abbiamo aggiunto fiori, che pare varino a seconda della
località in cui ci si trova: campanule a fiori grandi, lespedeza (hagi ), fiori
di loto (hasu ) o alchechengi che ricordano la forma di una lanterna. Per
l’o-bon abbiamo infilzato con i bambini stuzzicadenti su melanzane e
cetrioli, le une a rappresentare i buoi su cui montano le divinità assicurando
un viaggio stabile e lento, gli altri i cavalli per un rientro rapido nel proprio
mondo. E ora, prima di andare a rotolarsi sul futon in attesa del sonno,

148
vanno a salutarli, a mani giunte e con un inchino.

Si concluderà in un piccolo parco dietro casa questo afoso mese


d’agosto; intorno a un ampio secchio arrangiato alla buona come un
minuscolo bacino d’acqua per le abluzioni e gli schizzi. Ci saranno una
madre, un padre e i loro due bambini. Sarà il cielo in un secchio, le stelle,
l’intero Big Bang.
I senkō hanabi sono piccoli e delicatissimi fuochi d’artificio
della tradizione giapponese, risalenti al periodo Edo. Consistono in un
sottile bastoncino il cui estremo, infiammato, produce minuti fiori di fuoco.
Lo si deve tenere piú fermo possibile in modo che duri piú a lungo. Si
accorcerà sempre di piú, e quando la pallina cadrà, il senkō hanabi sarà
finito e precipiterà nel buio.
Queste scintille portatili esprimono la caducità e la fine prematura delle
cose belle, un concetto molto caro alla cultura giapponese. Cosí tanto che
dicendo senkō hanabi no yōni , cioè letteralmente
«come un senkō hanabi», si intende «come una meteora», come qualcosa di
breve e fulmineo.
Domani sarà shosho , uno dei ventiquattro periodi stagionali del
calendario giapponese, in cui la calura un poco si smorza e si inizia a
percepire un timido preludio d’autunno.
Il caldo tuttavia ci avvolge ancora come un maglione di lana.
Eppure, guardando l’ultimo baluginare dei senkō hanabi, le nervature di
luce che tagliano l’oscurità, l’estate pare già finita.

149
SETTEMBRE

Il mese delle lunghe notti

Nagatsuki
Il nome deriva dal fatto che in questa stagione il sole tramonta presto, e che le ore
notturne si fanno piú lunghe. Essendo, secondo il calendario lunare, il periodo in cui
si svolgeva il raccolto del grano, lo si collegava alla gioia dei lunghi festeggiamenti
anche notturni per la buona crescita delle piantine di riso. È invece, secondo la
declinazione del calendario solare, un mese di tifoni che schiariscono l’aria e di lune
splendenti. È la stagione in cui si ode limpida la voce degli insetti.

Tra gli altri nomi attribuiti a settembre: kiku-zuki , ovvero «il mese dei
crisantemi», per la bellezza della loro fioritura e la celebrazione in loro onore;
irodori-zuki «il mese del colore», intendendo con questo nome il fatto che le
foglie degli alberi iniziano a vestirsi d’autunno, acquistando colore; momiji-zuki
, «il mese delle tinte autunnali»; nezame-zuki , «il mese del
risveglio»; iwai-zuki , «il mese della celebrazione».

L’interno e l’esterno, l’aldilà e l’aldiquà.

Tre giorni prima gli equinozi di autunno e primavera è o-higan ,


parola legata all’idea buddhista del nirvana, l’altro mondo, l’aldilà.
O-higan è una cerimonia buddhista che dura una settimana e prevede la
cura della tomba di famiglia, che per l’occasione viene pulita e decorata con
fiori. I morti sono sempre assetati e l’acqua la si versa copiosa, con quegli
speciali secchielli di legno dotati di mestolo (te-oke ) che si trovano
sistemati in bell’ordine all’ingresso dei cimiteri.

150
Le tombe di famiglia di Ryōsuke sono una a Ōsaka, quella del ramo
paterno, e l’altra nella prefettura di Ōita, il ramo materno. Periodicamente, e
nonostante l’età ormai avanzata, entrambi i genitori vanno a pregare nei
luoghi d’infanzia, come riallacciando le fila del passato e del presente. O-
higan è, a tutti gli effetti, una festa che celebra il tempo.
– Un giorno voglio portarti sulla tomba di famiglia, – mi promise anni fa
mio suocero, prima ancora che nascessero i bimbi. Subito dopo
aggiungendo con una risata: – Chissà come si sorprenderebbero di vedere
un’italiana entrare in famiglia.
È un ricordo a cui, ancora oggi, ritorno con emozione, nella
consapevolezza che quando in Giappone si è accolti lí, nelle radici del
mondo, si è come accettati per sempre.

Tra il fumo speziato dei bastoncini di incenso e le pale di legno (sotōba


) che, come spine di istrici, spiccano piantate sul dorso dei cimiteri
buddhisti, si aggirano in questi giorni di settembre molte persone. Le fitte
scritture verticali riempiono gli occhi di trascrizioni di nomi e preghiere.
La vicinanza dei giapponesi con la morte, il ritrovare questo aspetto un
po’ dovunque, negli anni mi ha fatto risultare piú comprensibili certi rituali
che un tempo giudicavo grotteschi. Piú in generale, mi sembra mi abbia resa
piú serena di fronte all’idea della fine delle cose.
Gemello di questo o-higan di autunno è quello di primavera che si tiene a
marzo. Benché sia questo autunnale a essere piú noto, entrambi hanno uno
stuolo di fiori ad assorbirne il nome e innumerevoli riferimenti di stagione:
cosí edo-higan e higan-zakura , letteralmente «higan di
Edo» e «sakura di higan», sono varietà della famiglia dei ciliegi che
fioriscono in concomitanza con la celebrazione di marzo; higan-bana
, splendidi fiori spontanei di un rosso vivo, ma anche gialli, bianchi,
color volpe, di grande impatto perché incredibilmente dettagliati, sono tipici
di settembre.
Proprio uscendo di casa stamane, sul lato scosceso della via, abbiamo
notato che sono fioriti d’un tratto e ora crescono ovunque, tinteggiando di
rosso la città. Gli higan-bana hanno anche altri nomi e sono considerati i
fiori del nirvana, perché crescono intorno alle tombe, celebrando il ricordo
dei defunti.
Basil Hall Chamberlain li citava in Things Japanese (1890) alla voce
Superstizioni, raccomandandosi di non avvicinarli al fuoco perché quei

151
bellissimi fiori, che sbocciano in profusione ai margini dei campi di riso,
forse per la somiglianza dei petali con le lingue delle fiamme avrebbero
potuto causare un incendio.
– Tutto un po’ cambia a higan, non ti pare?
Ryōsuke mi cammina di fianco con Emilio stretto nel marsupio, mentre
guarda davanti. Sōsuke ci corre intorno, impegnato a raccogliere sassi e
foglie.
– Sí, sono indubbiamente punti di svolta, momenti in cui cambia in
maniera percepibile la stagione. In primavera arriva d’improvviso il caldo,
in autunno invece si placa d’un tratto l’afa estiva, tanto che esiste il detto
Atsusa samusa mo higan made , «il caldo e il freddo
durano fino a higan».
Si approssima l’equinozio, il sole sale da est per affondare a picco
all’estremo ovest, cosicché giorno e notte paiono quasi della stessa
lunghezza. È un momento affascinante per chi ci fa caso: luce e oscurità si
equivalgono.
Tornando verso casa ci affacciamo nella pasticceria di wagashi di
Suzuki-san. Lo stendardo recita in verticale i dolci tipici della stagione e
Sōsuke, che ancora non distingue precisamente cosa sia giapponese e cosa
italiano, mi domanda che cosa c’è scritto.
– O-hagi , dolce di riso ricoperto di marmellata di fagioli
zuccherati. È gemello del botan-mochi , ricordi? Quello che
abbiamo mangiato in primavera e che era colorato come una succulenta
peonia.
Detto piú semplicemente si tratta dello stesso mochi ma con le parti
invertite: ciò che era interno diviene esterno e ciò che avvolgeva diviene il
centro, la polpa. Eppure basta accoglierlo nella bocca per rendersi conto che
sono la medesima cosa. Se botan, la peonia, ricorda il fiore di primavera,
hagi è il fiore d’autunno, la lespedeza.
– Ma è uguale allora! – protesta Sōsuke.
Amo constatare, per l’ennesima volta, come in Giappone basti la parola a
cambiare il sapore delle cose, come ci si accontenti del suono per
differenziarle.
Entrambi questi dolci, insieme a fiori di stagione e ad altre cose che
erano loro gradite quando erano in vita, li si offre ai morti in occasione di
higan e poi li si gusta. La famiglia si riunisce, si lustra la tomba, per
quell’idea particolarmente radicata nel pensiero giapponese per cui pulizia è

152
sinonimo di cura e di bellezza. In molti templi si tengono higan-e ,
funzioni religiose buddhiste che durano sette giorni. Come per molte altre
pratiche e rituali, le cerimonie hanno preso piede prima nell’ambiente
ristretto della corte imperiale, in questo caso nel periodo Heian, e solo piú
tardi, durante il periodo Edo, si sono diffuse anche tra la gente comune.

I CIMITERI DI TŌKYŌ sono numerosi, quasi incalcolabili. Questo perché


non solo ve ne sono diversi a ogni stazione, ma anche all’interno dei templi
buddhisti dove, a differenza dei santuari shintoisti, si celebrano i funerali.
Per la delicata bellezza della fioritura primaverile dei ciliegi, il cimitero
di Yanaka è noto anche ai turisti, che vi si recano anche per passare davanti
alla tomba di Tokugawa Yoshinobu e fare omaggio al quindicesimo shōgun
del lungo governo dei Tokugawa, l’Edo bakufu (1600-1868).
Se nel cimitero di Zōshigaya riposano scrittori del calibro di Natsume
Sōseki, Nagai Kafū, Izumi Kyōka e Patrick Lafcadio Hearn, nel cimitero di
Aoyama è possibile porgere una preghiera sulla tomba del professore Ueno
Hidesaburō, amatissimo padrone del cane Hachikō, la cui stele
commemorativa è stata eretta subito accanto.
Al cimitero di Tama, invece, sono custodite le spoglie di Mishima Yukio,
Edogawa Ranpo, Okamoto Tarō, della mangaka Hasegawa Machiko e di
moltissimi altri. A breve distanza dalla stazione di Sugamo sulla linea
Yamanote, è nel cimitero interno al tempio Jigan-ji che riposano due grandi
narratori: Akutagawa Ryūnosuke e Tanizaki Junichirō, il quale però ha
anche una seconda tomba altrove.
– Kawabata Yasunari è sepolto da queste parti invece, vero? – domando
a Ryōsuke mentre passeggiamo dalla stazione di Kamakura verso il mare.
– Sí, è al cimitero di Kamakura. Cosí come Sugihara Chiune, quel
diplomatico giapponese che salvò la vita di piú di seimila ebrei in fuga dalla
furia nazista.
Passeggiando lungo una stradina senza nome, tempestata di templi
buddhisti, scorgiamo di spalle – per puro caso – un uomo che si rivolge a
una tomba. Lo vediamo versare dell’acqua, con una mano tenere il rosario
buddhista e pregare unendo i due palmi.

153
154
– Aspetta, – sussurro, toccando il braccio di Ryōsuke.
Mi pare di assistere a qualcosa di cosí intimamente privato e insieme alla
sintesi in una sola immagine di un intero credo: – Aspetta… è cosí bello.
L’uomo sorride, mormora qualcosa. Chissà, nella preghiera, chi sta
salutando.

Mangiare fiori.

Hakuro cade intorno all’8 settembre ed è letteralmente la «bianca


rugiada». Porta il nome di uno dei ventiquattro periodi stagionali del
calendario lunare; e corrisponde all’attenuarsi dell’afa estiva, al momento in
cui si percepisce distintamente l’arrivo dell’autunno. È la rugiada che inizia
a formarsi e posarsi su piante e su fiori, e brilla di bianco, nell’aria che si va
raffreddando.
Mia suocera mi spiega che la parola rugiada, in giapponese, è usata come
metafora di qualcosa di breve, fuggevole, effimero nella durata. La fragilità
e la fugacità sono rappresentate dalla rugiada in frasi come ashita wo mo
shiranu tsuyu no inochi da , «la vita è
fuggevole come la rugiada che non conosce il domani». Significa anche
«poco», in espressioni come tsuyu hodo mo che vale «per
niente», «niente affatto». Dunque sono koto wa tsuyu hodo mo shiranakatta
significa: «di quella cosa non ne sapevo che
rugiada».
Mentre camminiamo rapidi per le strade di Ryōgoku, col batticuore per
cercare di non fare tardi all’esercitazione mattutina degli atleti di sumō, mi
viene in mente che siamo a un passo da Chōyō no sekku ,
intorno al 9 settembre: è una delle cinque feste tradizionali del Giappone (7
gennaio, 3 marzo, 5 maggio, 7 luglio, 9 settembre), tutte corrispondenti a
numeri dispari secondo il principio ying-yang, e viene chiamata la Festa dei
Crisantemi (kiku no sekku), Festa del Nono giorno (o-kunchi) o anche Festa
delle Castagne (kuri no sekku). Nell’antichità in Cina si inzuppavano
crisantemi nel sakè (kiku-zake ) e lo si beveva, pregando per la
longevità. Si tratta di un’usanza che nel IV secolo d.C. venne importata e
adottata dalla corte giapponese, la quale, per la simbologia raffinata e
potente e per i benefici medicinali che il crisantemo possiede, ne fece il suo
stemma. È infatti proprio il disegno di un crisantemo sbocciato e irraggiato

155
in sedici petali a rappresentare, insieme al tratteggio stilizzato del fiore di
ciliegio, la famiglia imperiale. In giapponese il nome del fiore è kiku e
anche nel kanji che lo ritrae è stilizzato il disegno complesso dei petali.
Cosí i crisantemi sono diventati protagonisti: sono al centro di
competizioni tra floricoltori e di vere e proprie feste, e ricordo distintamente
zone protette dedicate, allestite nei recinti di molti santuari visitati negli
anni. Pare che nei giardini del castello imperiale si dia un sontuoso
banchetto in onore della fioritura spettacolare.
Satomi, incontrata negli anni del dottorato e originaria di Niigata, mi ha
mostrato una volta le bambole di crisantemi (kiku-ningyo ), pupazzi
a grandezza umana completamente vestiti di fiori, spiegandomi che proprio
della zona di cui è originaria è tipica la varietà commestibile (kakinomoto)
di un bel colore viola intenso, nota in tutto il Giappone.
– Stai mangiando dei fiori, Sōsuke, lo sai? – gli dirò una sera di ottobre,
guardandogli la bocca piena di petali lilla, già quasi marroni. Fermerà la
masticazione e si infilerà il polpastrello del suo minuscolo indice tra le
labbra, con la goffaggine dei bambini.
– Fiori? – chiederà sorpreso e divertito.
– Crisantemi, – risponderò al mio bambino e dall’isola della cucina,
perché la possa vedere, alzerò la confezione dei kakinomoto. Sgranerà gli
occhi, si incuriosirà anche il fratello. Rideremo, diventerà memoria.
Ai crisantemi, peraltro, si fanno numerosi riferimenti nel Genji
monogatari, cosí come nelle Note del guanciale, in cui, a proposito delle
Condizioni atmosferiche ideali (nota 10), Sei Shōnagon scriveva che per «il
nono giorno del nono mese è bene che fin dal mattino cada una pioggia
leggera, affinché i crisantemi possano venire irrorati di copiosa rugiada e il
cotone che li protegge ne sia intriso tanto da lasciar effondere dai fiori un
profumo ancora piú intenso», confermando l’antica credenza secondo cui
aspergere il proprio corpo con la rugiada assorbita dai batuffoli di cotone
garantiva freschezza alla pelle per l’anno a venire.
– È un paradosso però, uno degli scherzi dello scarto tra calendario
lunare e calendario solare.
– Cosa intendi?
– Il fatto che la simbologia di questa festa sia tanto legata al numero 9, il
numero dispari piú alto, il piú potente secondo il pensiero ying-yang.
Addirittura raddoppiato, visto che la Festa dei Crisantemi è stabilita per il
nono giorno del nono mese dell’anno. E invece, secondo il calendario

156
solare, ora i crisantemi sbocciano tra la metà di ottobre e la metà di
novembre…
Ma è adesso che si tiene il Kiku matsuri : lo straordinario
Festival dei Crisantemi al Yushima Tenmangū, un santuario situato vicino al
parco di Ueno e all’Università imperiale di Tōkyō, particolarmente visitato
dagli studenti in prossimità degli esami di ammissione. Un evento analogo
si terrà nel quartiere di Yanaka, al tempio Kokozan Daien-ji, dieci minuti a
piedi dalla stazione di Nippori sulla Yamanote. E sempre in questi giorni si
organizzeranno esposizioni spettacolari anche al tempio di Asakusa, al
Meiji-jingū a Harajuku, al parco di Hibiya, al Shinjuku-gyoen e in
moltissimi altri luoghi.
La città si agghinderà con i volti densi dei crisantemi a ogni stazione, in
giardini privati, a decorare angoli delle case, sotto tettoie montate
appositamente nei piccoli e grandi santuari di quartiere, agli ingressi dei
negozi, per invitare nella bellezza i turisti e spiegare loro la stagione,
irripetibile.
Irreplicabile come ogni altra, del resto.

Scendendo le scale di casa, mano nella mano con i bambini, penso che
questa mattina profuma. Con kiku biyori si intendono i giorni
frequentemente limpidi che coincidono con lo sbocciare settembrino dei
crisantemi, esibiti in bella vista anche dalla nostra vicina di casa, donna di
una giovialità caciarona, originaria del Kansai. In strada è tutto un profumo
sospeso, tra edifici e piccoli templi, negozi che tirano su ora le serrande, lo
scampanellio con cui le porte automatiche del konbini avvisano dell’entrata
di un nuovo cliente. Nell’aria odorosa dei crisantemi è forte la percezione di
benessere nel guardare il cielo d’autunno che si spande davanti a noi, un
cielo di sarde, di iwashi perché in Giappone il cielo non è mai «a pecorelle»
ma «a sardine». È quello tecnicamente chiamato a cirrocumulo e che,
sempre tornando all’immagine del banco di pesci, si dice anche «a squame»
(uroko ).
Ne guardiamo i ritagli dalle strade di Kagurazaka che, come un albero, si
sviluppa a partire da una via centrale che è il tronco, sopraelevato, da cui si
dipartono una serie fittissima di rami e di foglie. Siamo qui per una
passeggiata, e, tornando dalla linea Chūō, intuiamo il profilo del monte Fuji.
La Prima neve sul Fuji, come recitava il titolo del celebre romanzo di
Kawabata Yasunari, la si può scorgere ad agosto, quando è in anticipo, e in

157
ottobre, quando invece ritarda. Se aprile era tutto uno svolazzo rapido, basso
e svirgolato di rondini, con le loro repentine virate sotto tettoie e dentro
garage, adesso migrano per l’inverno verso sud, ma non tutte: pare che
alcune rondini trascorrano in Giappone anche l’inverno.
Un tempo, per il fresco che a settembre si avvia a infittirsi nell’autunno,
si attaccava la carta sugli shōji dismessi durante l’estate per aumentare la
circolazione dell’aria. E di notte era sempre lei, ancora lei, la luna piena che
si stagliava nelle limpide notti d’autunno.

Al ritmo del cuore dei titani.

Benché sia kigo di agosto, ecco finalmente la parola sumō diventare


protagonista.
Anticamente infatti si teneva un torneo di sumō nel palazzo imperiale
nominato Sumō no sekku . Visto che si svolgeva nel periodo di
Tanabata, il sumō è diventato kigo dell’inizio di autunno (shoshū )
ovvero di quell’arco temporale che va circa dall’8 agosto fino all’inizio di
settembre.
RYŌGOKU è il quartiere che ospita lo stadio del sumō e insieme un
numero elevato di sumō-beya , le speciali residenze degli atleti,
gestite da oyakata , ex campioni e membri anziani dell’Associazione
giapponese di sumō (Nihon sumō kyōkai ) – che è costola del
ministero dell’Educazione, della Cultura, degli Sport, della Scienza e della
Tecnologia. Gli anziani supervisionano l’allenamento dei ragazzi e la loro
vita quotidiana, intrecciati secondo uno stile unico, strettamente
regolamentato nel cerimoniale e sottostante a un rigidissimo sistema di
convenzioni, che prevede il rispetto asfissiante e insieme rassicurante
dell’anzianità, la rigorosa divisione dei compiti, le rotazioni interne per la
pulizia e la manutenzione degli ambienti comuni, l’alternanza nei ruoli e
nell’assistenza negli allenamenti. Parte integrante della comunità sono anche
i tokoyama – i parrucchieri specializzati autorizzati dall’Associazione
– e gli yobidashi (o ) – sorta di tuttofare che svolgono
un’ampia gamma di compiti perlopiú misteriosi per chi non conosce a fondo
questo sport.
In quasi tutte le sumō-beya è possibile assistere gratuitamente alle
esercitazioni mattutine (keiko ) degli atleti, a patto ovviamente di

158
sottostare a numerose regole, come il divieto di scattare fotografie con il
flash, di pubblicarle senza permesso, di mangiare o bere nei locali, di
disturbare in qualsiasi maniera il normale svolgimento dell’allenamento.
L’orario di apertura è limitato, cosí come prolungati possono essere i periodi
di chiusura, a seconda dell’approssimarsi del torneo ufficiale, mesi
particolari in cui la concentrazione degli atleti deve essere assoluta.
E tuttavia il sumō lo ricollego negli anni recenti soprattutto a una serie di
scandali legati alla durezza del trattamento subito dai giovani, vessati dai piú
anziani, in una sorta di nonnismo che ha iniziato a mostrare piccole e grandi
crepe a partire dal terribile incidente del 2007, in cui perse la vita un
ragazzo, fino al caso piú recente del 2017, quando un giovane lottatore
venne brutalmente picchiato in un bar dal campione Harumafuji Kōhei.
Grazie a singole denunce e approfondite investigazioni, che hanno
interessato dalla base ai vertici l’associazione, il muro di silenzio che fino ad
allora proteggeva quel mondo prestigioso ma inflessibile (e nei casi peggiori
violento) si è andato assottigliando.

Sono corpi dalla pelle spesso rovinata, di cui spiccano soprattutto le


capigliature cosí particolari, le posizioni che rivelano il lavoro maniacale
sulla muscolatura e la tecnica raffinata in anni di allenamento. Li vediamo
dall’alto dei nostri posti, gli unici che siamo riusciti a procurarci con lo
scarso anticipo con cui ci siamo mossi.
Nel dohyō , il ring del sumō, le tinte sono poche. Acquistano colore
solo gli atleti piú in alto nel ranking quando, indossati i costumi tradizionali,
si esibiscono in una breve parata prima dell’inizio della fase cruciale degli
incontri.
Dei sei tornei annuali, quelli di gennaio, maggio e settembre si tengono
allo stadio del sumō di Tōkyō, il RYŌGOKU KOKUGIKAN .
Fondato nel 1909, venne spostato sull’altra sponda del fiume Sumida a
Kuramae nel 1954, per tornare infine trentun anni dopo nel quartiere
originario. Ha una capacità di piú di diecimila spettatori e basta entrarvi per
finire nel vortice di questo luogo con un centro precisissimo, incavato come
il fondo di una ciotola, dove l’arbitro che presiede l’incontro indossa antichi
abiti da bushi e dove il suono delle bacchette di legno hyōshigi , che
cozzano l’una contro l’altra energicamente, scandisce l’ingresso dei
lottatori, la declamazione del loro nome. Sono stregata dal ritmo a cui batte
il cuore di questo frammento di Tōkyō.

159
– Fanno un suono meraviglioso, paiono geta di legno sull’asfalto. Come
quelli che indossavi a Venezia, ricordi? – rido, recuperando l’immagine di
Ryōsuke in jeans e geta tradizionali, prodotti nella prefettura di Ōita, mentre
mi teneva per mano durante il nostro primo viaggio nella laguna. –
Attraversavi i ponti facendo un fracasso tremendo!
– E tu ti arrabbiavi…
– Ma no, era solo imbarazzo.
Ryōsuke, che ha studiato musicologia all’università e mi pare conosca
tutti gli strumenti del mondo, mi spiega come quelle bacchette che
risuonano da basso siano a tutti gli effetti uno strumento musicale, fatto di
vari materiali e fabbricato in diverse lunghezze, a seconda delle circostanze
in cui è adoperato.
– Ma a parte qui, dove lo si sente? – domando incuriosita.
– Nella musica tradizionale e contemporanea, ad esempio, o durante i
matsuri. In Giappone lo si usa anche nei riti religiosi buddhisti, nel teatro
kabuki e un tempo serviva per chiamare a raccolta i bambini, quando per
strada si allestiva il kamishibai.
Sorrido, ho visto uno di quegli spettacoli all’asilo di Sōsuke, un evento
bellissimo che profuma di antico, in cui si declamano delle storie illustrate
su grandi fogli di carta. Il kamishibai lo usano anche per spiegare come
lavarsi i denti, le norme da seguire quando si entra in piscina o si gioca in
cortile.
– Lo hyōshigi usato nel sumō è fabbricato con legno di ciliegio, ma ce ne
sono di quercia, di bois de rose, ebano e… aspetta, ricordi le processioni di
polizia e pompieri che nelle notti d’inverno camminano per il quartiere,
invitando a fare attenzione agli incendi?
– Yoru-mawashi , certo!
Riaffiora il suono del legno che vibra in certe notti, tra dicembre e
gennaio, quando l’aria si fa particolarmente secca e un manipolo di
volenterosi ricorda il pericolo del fuoco, la paura dei roghi spontanei. L’ho
visto spesso anche negli anime storici Sazae-san e Chibi Maruko-chan.
– Ecco, quel rumore di ciocchi sbattuti è prodotto dallo stesso strumento
usato nel sumō e sono sempre gli stessi che sbattono di notte in inverno, per
mettere in guardia dagli incendi.
Mi fermo, stupita: ma come siamo passati dal sumō agli incendi?
La nostra vita interiore, mi dico, è una digressione continua. Forse è
colpa del Giappone, del fatto che so di non sapere una immensa percentuale

160
di cose che tutti, intorno a me, danno per ovvie, un po’ perché ci sono
cresciuti in mezzo, perché è qui che hanno allungato e allargato le proprie
radici, un po’ perché, per quanto la studi, la lingua giapponese avrà sempre
dei sottintesi che non sarò mai in grado di afferrare. E allora cerco di
recuperare, colgo ogni minima occasione per domandare.
Torno a concentrarmi sul mondo piú giú, nel cerchio dove si consuma lo
scontro fra titani.
Mentre i lottatori entrano chiudendosi a cerchio intorno alla corda del
dohyō, per poi sfilare via con ordine e precisione, e io trattengo il fiato dopo
una serie di false partenze quando si fermano entrambi l’uno di fronte
all’altro e si inchinano maestosi nel cerchio minuscolo, d’un tratto mi
accorgo di quanto il sumō sia un paradosso, miscela di scatto e immobilità,
di possanza e levità. Ecco dov’è la magia di questo sport – meglio forse
«disciplina», «cerimonia», «rituale»? –, la surreale sensazione che se ne
ricava: nella mancata impressione di violenza e tuttavia nella percezione di
immane potenza che viene rappresentata.
Ma ecco sopraggiungere la soave vibrazione del tamburo hane-taiko
che segnala la fine della giornata di incontri.

È impressionante la trasformazione degli atleti, da giganti a esseri smilzi


che tornano a essere un quinto di sé. Come Mai-no-umi Shūhei, nome d’arte
di Nagao Shūhei, divenuto famoso per essere piccolino, e tuttavia pieno di
energia. Si è reinventato una carriera da personaggio dello spettacolo.
– La cosa piú bizzarra del Kokugikan è un’altra però…
– Cioè?
– I suoi sotterranei: in un’area accessibile unicamente agli addetti ai
lavori, si estende la piú grande azienda di yakitori dell’intero Giappone.
Resto senza parole. Sotto lo stadio del sumō un’azienda che produce
spiedini di pollo. Ma veramente?
– Il pollo è ritenuto animale di buon auspicio in quanto rimane stabile su
due zampe, esattamente quanto si augura a ogni lottatore di sumō, che vince
rimanendo ritto sulle gambe dall’inizio alla fine dell’incontro.

Il pianto della montagna.

Anche settembre dispensa matsuri, festival e celebrazioni: alla stazione

161
di Meguro, all’uscita est e all’uscita ovest, viene distribuito gratuitamente il
pesce sanma per la festa in suo nome Sanma-matsuri ; a metà
mese, a Kamakura, si tiene un evento di grande suggestione legato al tiro
con l’arco a cavallo, un’arte marziale chiamata yabusame ; e poi nei
santuari come Ōtori-jinja nella zona di Meguro a Tōkyō, ogni
anno in questo mese si celebra una cerimonia di ringraziamento per i pettini
(kushi kuyō ) cui partecipano addetti ai lavori come parrucchieri,
barbieri, estetisti, acconciatori. La data proviene dal gioco di parole, nella
lettura giapponese dei numeri 9 (ku), come settembre, e 4 (shi): kushi,
«pettine».

Ma ecco che sale l’autunno, come una marea. Dalla stazione, scendendo
a Kamakura, i monti sono presi nel sacco e soffoca il verde.
Quando? Quando è accaduto che il verde si è spento?
Si resta a guardare i monti, quei grandi seni esposti al cielo mentre
cambiano tinta.
E viene da domandarsi se fissandoli abbastanza a lungo si riuscirà mai a
coglierli nel mutamento.
Certi giorni di settembre, poi, il volo delle libellule si fa fitto. Paiono
ubriache mentre schivano le macchine che, invece, non fanno alcuno sforzo
per schivare loro. Ali leggerissime, di carta velina, e tutto è un presagio,
l’aria soprattutto che profuma di terra, la pioggia che prepara il terreno, i
tramonti che si allungano in cielo, mentre i giorni si fanno sempre piú corti.
Non c’è tempo. A Tōkyō sembra non essercene mai abbastanza.

La quotidianità riprende insieme alla riapertura delle scuole per l’avvio


del secondo semestre, shūbun no hi , ovvero il Giorno
dell’equinozio d’autunno che in Giappone è festivo e oscilla ogni anno tra il
23 e il 24. Giorno e notte sono della stessa esatta lunghezza.
– Uguale uguale?
– Uguale.
E tuttavia quest’anno sarà un giorno speciale per tutti noi. Ci sarà il sumō
di Emilio, il sumō del pianto.
A un’oretta da Tōkyō, a Hayama, sorge il SANTUARIO MORITO-JINJA
. Resta nella memoria per svariati motivi: per l’ampio arco del
ponte scarlatto che parte da un fianco del recinto del tempio, e soprattutto
per il torii assiso su un isolotto di rocce, nel bel mezzo dell’oceano. Nelle

162
mattine d’inverno, quando l’aria è secca e spalmata come uno strato
sottilissimo di burro, alle sue spalle si staglia gigantesco il monte Fuji.
Eppure, stamani, c’è qualcos’altro di ancor piú grandioso tra la folla di
famiglie e bimbetti che vi si aggirano a torso nudo. Sono i corpi enormi,
eppure di marmo, dei lottatori di sumō che si prestano a un evento dolce
dolce eppure antichissimo, come il «sumō del pianto» (naki-zumō
). Si tratta di una tradizione vecchia piú di quattrocento anni, che si
tramanda in alcuni santuari in Giappone come a Tōkyō, a fine aprile, al
Yukigaya Hachiman nel distretto di Ōta o, a inizio maggio, al Kokuryō a
Chōfu. La leggenda risale a un episodio lontanissimo nel tempo, quando il
pianto di un bimbo allontanò il demonio: purificò dal maligno.
Oggi che è il giorno di festa in cui cade l’equinozio d’autunno, si rievoca
quell’evento mitico.
Una settimana fa è arrivato per posta il biglietto di partecipazione e la
richiesta di attribuire un nome da lottatore al nostro piccolo Emilio. Ogni
atleta di sumō lo ha. È shikona , ovvero il nome usato
esclusivamente sul dohyō, una sorta di «nome di battaglia», e lo si crea
spesso a partire da famose montagne, fiumi e mari che sorgono vicino al
luogo di nascita del rikishi, il lottatore. Per questo, alla parola che
sceglieremo seguirà obbligatoriamente il suffisso -yama , «monte».
Dopo un primo momento di indecisione, ci siamo affidati a un ossimoro.
– Che ne dici di Shōshoku-yama ?
– La «Montagna di Colui che Mangia Poco»? O meglio la «Montagna
che Mangia Poco»? – traduco all’impronta.
– Mi pare perfetto per Emilio…
Verrà trascritto sul cappello di carta (kabuto ) che ci consegnano
all’arrivo, quando paghiamo la quota di partecipazione e ci viene mostrato il
ripiano tappezzato di keshō-mawashi tra i quali scegliere quello
da legare intorno alla vita di Emilio. Indosserà una di queste stoffe dalle
bellissime fantasie tradizionali e kōhaku-zuna , la spessa corda
intrecciata dei due colori benauguranti, cremisi e bianco. Sotto terrà il
pannolino, nient’altro.
Stamattina tira un fortissimo vento ma, per fortuna, il caldo pare tornato a
farsi sentire da un paio di giorni. Il rischio di prendere freddo si abbassa e
tuttavia ci affrettiamo, nelle proteste violente di Emilio, prima a cambiarlo e
poi a entrare nella sala del santuario dove genitori e bambini già sono seduti.
Il kannushi , il prete shintoista, officia la cerimonia di apertura del rito,

163
rivolgendosi al dio per chiedere la salute delle famiglie e dei bimbi. Che
crescano robusti e pieni di energia e…
… Ryōsuke e io ci guardiamo un momento: è il lunghissimo nome di
Emilio che è stato appena pronunciato, nella lista degli altri, con la voce
cantilenante della preghiera.
Doki doki waku waku: batte forte il nostro quadruplo cuore, l’emozione
cresce mentre scendiamo i gradini di legno e recuperiamo le scarpe. Il vento
ci porta addosso il mare, che si staglia ampio nella frastagliata baia di
Sagami.
Il santuario Morito-jinja è pieno del pianto dei bimbi, delle corse dei
fratelli e delle sorelle piú grandi, dei movimenti legnosi dei nonni, delle voci
eccitate dei genitori – molti, come la sottoscritta, combattuti tra la
consapevolezza di star creando un ricordo indelebile per gli adulti che
diverranno quei figli e il senso di colpa nel metterli in una situazione di
intenso stress emotivo, benché di breve durata.
Da qui è infatti una successione fitta di cose da fare, nessuna delle quali
viene accolta con gioia dai bambini, Emilio compreso. Prima va premuta la
manina su un cerchio impregnato di inchiostro d’un rosso vivo e poi,
direttamente, sul foglio ufficiale: l’impronta che vi si imprime verrà
incorniciata a futura memoria. Poi lo scatto che lo vedrà ritratto seduto sul
grande tamburo rituale messo a disposizione. La sproporzione fa sembrare
ancora piú piccolo Emilio. E infine ecco che si accede al luogo fulcro di
questo giorno speciale, lí dove s’alza un gran chiasso.
In fondo alla sala, apparecchiata all’interno perché le previsioni
minacciavano pioggia, ecco il dohyō e, a due a due, i bambini che vengono
consegnati ai rikishi. In mezzo al cerchio delimitato dalla corda, il gyōji
, l’arbitro con il tipico copricapo nero e l’abito arancio, annuncia il
nome delle due piccole «montagne» che si affronteranno.
– Vostro figlio mangia poco? – mi domanda la giovane donna che si
occupa di creare gli abbinamenti di gara sul pannello a destra del dohyō.
Mentre parla fa scorrere i biglietti con su scritti i nomi, rimuovendo quelli
dei bimbi che sono appena usciti dal cerchio.
– Per questo lo avete chiamato cosí? – riprende. Forse ha notato la mia
tensione sul volto, la preoccupazione su quello di Ryōsuke.
– Sí, non c’è verso di fargli mangiare che qualche boccone. Solo
ingannandolo, mentre è intento a guardare un cartone, si riesce a infilargli in
bocca qualcosa di piú.

164
– Anche mio figlio non mangia quasi niente, è tutt’ossa. Però si allunga,
si allunga…
– In fondo è quello che importa, – sussurro, stupita dal fatto che una
ragazza cosí, che a prima vista mi pareva avesse superato a malapena i
vent’anni, sia già madre di un bambino di quasi tre anni.
Arriva il turno di Emilio, e il piú in ansia è Sōsuke. Di solito litiga
ferocemente con il fratello, però che «gli uomini grandi» facciano piangere
Emilio no, non ci sta.
– Ma è proprio quello che devono fare, ciccino. Piú forte piangerà, piú in
salute sarà. È un rito importante, sai?
Consegniamo Emilio al lottatore di sinistra, un’altra madre passa il
proprio piccolino a quello di destra. L’arbitro annuncia la Montagna che
Mangia Poco e il suo sfidante. Si affrontano nel recinto del dohyō, tra le
manone dei rikishi, urlandosele e piangendosele l’un l’altro di santa ragione.
Emilio credo sarebbe pronto a mordere tutti, se non fosse che le manone del
lottatore lo sostengono con una tale fermezza che ne è sopraffatto.
– Miatte miatte! – incitano intorno. Significa
«guardarsi», affrontarsi non con il corpo bensí con lo sguardo.
Arbitro e lottatori, pur ridendo sotto i baffi, alzano molto la voce, fanno
boccacce, creano scoppi sonori, tutto pur di spaventare le creaturine che, va
detto, non piangono sempre. Alcuni bimbi, soprattutto quando molto piccini,
capita che ridano invece e, prima di Emilio, almeno con tre di loro non c’è
stato verso di farli piangere.
Emilio viene sollevato fino al soffitto al grido di Banzai! , e poi
messo a sedere sulle ginocchia piegate nella posa chiamata sonkyo . Il
rito è finito.
Mentre il mio bimbo torna a calmarsi istantaneamente al contatto con le
mie braccia, penso alla gioia che dà il pianto nel parto, quando quell’urlo è
innanzitutto garanzia di vitalità. Proprio il pianto, che nei neonati è parola, è
il sollievo di ogni madre.

165
OTTOBRE

Il mese senza dèi

Kannazuki
È il mese in cui, secondo il calendario lunare, gli dèi del pantheon giapponese
lasciano le proprie dimore, dislocate nei vari templi e santuari sparsi nel paese, per
raccogliersi tutti nella prefettura di Shimane, nel santuario di Izumo Taisha. Con
questo medesimo significato va letto uno dei tanti altri nomi attribuiti a ottobre,
ovvero kamisari-zuki , «il mese della partenza degli dèi».

Nel decimo mese cadono brevi piogge tipiche del tardo autunno chiamate shigure
e nelle fredde mattine si deposita la prima brina dell’anno: di qui la doppia
denominazione shigure-zuki , «il mese di shigure», e hatsushimo-zuki
, «il mese della prima brina». Secondo la declinazione contemporanea del
calendario solare, ottobre in Giappone è mese di tempo sereno. Iniziano ad
arrossarsi le foglie, fruttificano gli alberi d’autunno, e sul mercato circola il nuovo
raccolto del riso.

Travestimenti.

Le linee ferroviarie di Tōkyō s’elevano anno dopo anno, fluttuando tra i


palazzi, attraversando stazioni sopraelevate per scendere poi fin sottoterra, o
scorrere al livello di macchine, autobus e persone, e risalire ancora. Allo
scopo di snellire il traffico che si forma in prossimità dei passaggi a livello,
per abbreviare l’attesa di veicoli a quattro e due ruote, da molti anni sono
stati avviati massicci lavori che tirano su rotaie e stazioni. Servono oltretutto
a eliminare il pericolo di incidenti e ritardi – anziani che non fanno a tempo

166
ad attraversare il fascio di rotaie, ruote di bici incastrate, tentati suicidi.
Quando sono arrivata a Tōkyō, per dire, la stazione di Musashi-sakai era
al livello della strada. Ora invece si circola nel quartiere da parte a parte
senza interruzioni, e lo spazio che è venuto a crearsi sotto i binari è stato
ridisegnato da negozi incassati tra i piloni, parcheggi, farmacie, magazzini,
piccoli supermercati, ristoranti dai profumi diversi, uno di seguito all’altro.
E tuttavia resta assai affascinante, a bordo di un treno, osservare la gente
che aspetta davanti ai pochi passaggi a livello che ancora resistono. Come
stamane, quando il treno, in attesa del semaforo verde, si è bloccato a poche
centinaia di metri dalla banchina di Shinjuku, proprio davanti al breve
tunnel che introduce alla stazione di Yoyogi. A destra stava ritto un anziano,
con una fascia gialla a tagliargli il petto in diagonale e la scritta che recitava
VOLONTARIO PER LA TUTELA DELLA SICUREZZA DEL TRANSITO DEGLI
STUDENTI VERSO LA SCUOLA; chiacchierava con un padre in giacca e
cravatta, i capelli impomatati, la cartella di pelle a tracolla; accanto c’era il
suo bambino, dagli occhi e la forma del viso identici a lui, il cappellino
rigido in testa e la divisa che gli lasciava fuori le ginocchia ossute; poco
dietro di loro una donna in tacchi alti e completo, la camicia immacolata, le
cuffie premute nelle orecchie, la coda di cavallo che ne tirava indietro i
lineamenti del volto. Tutti pronti alla giornata che stava per iniziare, tutti in
attesa che la luce smettesse di lampeggiare, il segnale sonoro di fischiare.
In giapponese si dice che l’autunno «si approfondisce» in ottobre, come
un addentrarsi nella stagione, che idealmente pare una sorta di giungla, un
luogo di fitto mistero. Nel verbo fukameru è infatti presente il kanji
di «profondo», di «profondità».
È, tra l’altro, l’esatta sensazione che avverto oggi transitando da Shibuya
a Shinjuku, mentre in cielo si sfilacciano nubi e dentro ai convogli è un
affollarsi di abbigliamenti discordi, dovuti all’incostanza delle temperature:
donne con cappelli di lana con il pon-pon calati sulla fronte, gomito a
gomito con altre a braccia e gambe scoperte; e ancora poi, nello stesso treno,
persone in infradito e altre in mocassini avvolti da uno strato di pelliccia
sintetica. Non mancano anche un paio di creste che è difficile dire se figlie
della fretta mattutina o di una precisa cifra stilistica. Inutile provare a
catalogare. A Tōkyō del resto è spesso cosí, le classificazioni non fanno
altro che complicare le cose.

In Giappone il 1° ottobre è dedicato all’avvio della «colletta delle piume

167
rosse». Si tratta di un grande evento di beneficenza per anziani, disabili e
bambini bisognosi che ogni anno si estende fino al 31 dicembre. Troviamo
nella cassetta della posta il volantino stampato in bianco e nero, con la
piuma rossa incastrata in alto a sinistra. Piú tardi, alla tv, la vedo esibita sul
taschino degli opinionisti in studio, durante un programma di
approfondimento della NHK . Anche Shinzō Abe, in una breve intervista
rilasciata all’uscita dal parlamento, la tiene appuntata sul petto.
Quest’ultima scena la vedo proiettata sugli schermi della linea Yamanote,
mentre sono diretta all’università. Alzo gli occhi e si aprono le porte, la voce
registrata annuncia HAMAMATSU-CHŌ .
È lí che scorgo shōben kozō , ovvero il leggendario ragazzino
che orina nella fontanella. La storia di questa piccola statua – ispirata al
manneken pis di Bruxelles – è piuttosto complicata, e tuttavia, pur
semplificando, se ne avverte comunque la tenerezza. Si comprende
soprattutto la ragione per cui sia diventata una sorta di mascotte della
stazione, fin da quando un suo precursore di porcellana bianca venne
installato nel 1952, per festeggiare gli ottant’anni dall’inaugurazione della
ferrovia e in un giorno particolarmente freddo d’inverno una giovane donna
(di cui non si seppe mai l’identità) posò sul capo del bambino un cappellino
di lana. Da allora, per i successivi trent’anni, un’altra donna di nome Tanaka
Eiko, impiegata in un’azienda di Hamamatsu-chō, ha vestito la statua
(divenuta nel frattempo di bronzo) con piú di duecento capi diversi. Alla
morte della donna, shōben kozō è tornato a essere nudo.
Fu dal 1986 che riprese a essere curato e abbigliato, questa volta non da
un privato ma da un gruppo di volontari del distretto di Minato-ku che,
ancora oggi e con cadenza mensile, fabbricano e spesso cuciono
direttamente addosso al shōben kozō fantasiose divise.
– Chissà oggi cosa indosserà… – mi chiedo ogni volta, transitando per
Hamamatsu-chō.
Ricordo la gioia di Sōsuke, innamorato come tutti i bambini del Natale,
quando un dicembre lo vide vestito da Babbo Natale.
Shōben kozō ha indossato in passato una divisa da pompiere, un costume
da Ultraman, yukata leggeri nella stagione estiva; per la Festa dei Bambini
ha tenuto una tasca a vento a forma di carpa e l’elmo tradizionale fatto di
carta, mentre a Capodanno era vestito con un costume da coniglio, con un
pupazzo vicino e le decorazioni tipiche della celebrazione. E ancora girasoli
in agosto, rami di ciliegio in primavera, un ombrello e un impermeabile

168
nella stagione delle piogge; un cappellino giallo da bimbi e una divisa da
allievo quando l’anno scolastico comincia o sportiva quando si tengono
grandi eventi come i Mondiali di calcio.

Il bel tempo dello sport.

Gira in tondo la Yamanote, il suo movimento oscillatorio e le frenate


gentili favoriscono la concentrazione. Quante pagine ho scritto a bordo di
questo treno. A guardare la forma del suo percorso, mi accorgo ora per la
prima volta che somiglia piuttosto a un molare, con le radici idealmente
connesse da una sola linea. La Yamanote è un dente, conficcato nella bocca
di Tōkyō.
Manca poco a Shinjuku. Di scorcio, tra le portiere del treno, intravedo
l’incrocio di Shibuya, dove pulsano immagini sincopate. Si rimane senza
fiato la prima volta e tuttavia ci si assuefà con il tempo, proprio alla maniera
in cui ci si innamora e ci si sposa.
Mentre due bimbe in divisa scolastica, due sorelle, giocano di fronte a me
a dare vita a nuove forme con un filo turchese tra le piccole dita, ragiono sul
fatto che convivere con una città non sia poi tanto diverso dal convivere con
una persona, anche per l’amore smorzato nella passione, nello slittamento di
inquadratura. La passione sposta l’attenzione completamente sull’altro, fa
dell’altro il protagonista, mentre l’amore, quello profondo, ti lascia al
centro, quello che sei e che vuoi fare resta centrale, ti dà la stabilità interiore
necessaria per tentare anche cose che richiedono immenso coraggio.
Le bimbe giocano ancora. A Yoyogi la minore si alza in piedi per
l’eccitazione, nell’errore ognuna di loro paga il pegno di una risata sfrontata
dell’altra. La grande tira fuori un nuovo filo, giallo questa volta, a
dimostrare la batteria di cordicelle che possiedono entrambe e che deve di
certo provenire dalla scatola del cucito della mamma.
Ricordo la scatola di legno della mia, che si apriva a ventaglio rivelando
piú piani e cassettini, come uno di quegli edifici dalle ampie terrazze piene
di piante e di sole sotto il cielo asciutto di Tōkyō.
A Shinjuku fluisce fuori la gente, nel convoglio ne converge dell’altra,
per il piú grande ricambio di folla della Yamanote insieme a quelli che si
verificano alla stazione di Tōkyō, Shibuya, Ikebukuro e Shinagawa.
Il filo giallo su cui iniziano laboriose a impegnare le mani le bimbe è un

169
poco meno consumato degli altri, e il gioco risulta piú fluido.
Mi alzo, sono arrivata. E loro? Dove scenderanno? Chissà in quale scuola
privata sono dirette.
Vedo ogni settimana madri che agitano le mani sulla soglia della
Yamanote, e ragazzini ancora bambini all’apparenza che corrono via spediti
con le loro gambette magrissime e scattanti verso un posto a sedere.
E loro, tutti, dove sono diretti?

Uscendo rapida dalla stazione di Seijōgakuen-mae, faccio mente locale


degli orari e delle cose da portare domenica alla Festa dello Sport,
organizzata dall’asilo di Emilio.
È taiiku no hi , letteralmente il «giorno dell’educazione fisica»:
comprende una moltitudine di eventi e manifestazioni all’insegna dello sport
chiamati undōkai , «incontri sportivi» o «feste sportive». L’obiettivo
di questo giorno è quello di avvicinare la popolazione all’attività fisica, di
indirizzarla a uno stile di vita salutare. Le temperature autunnali sono ideali
per questo tipo di eventi e molti sono i giorni di sereno che si susseguono in
ottobre, tanto che esiste una parola precisa che intende il «tempo sereno
d’autunno», il «bel tempo autunnale»: akibare .
Taiiku no hi si tiene il secondo lunedí del mese, ma prima dell’anno 2000
si svolgeva il 10 ottobre, data in cui nel 1964 furono inaugurate le storiche
olimpiadi, le prime in Asia, proprio perché era altamente probabile che il
tempo sarebbe stato sereno.
Ma scavando ancora piú indietro nel passato, nel 1874, presso
l’Accademia navale di Tōkyō si tenne la prima manifestazione collettiva
dedicata allo sport chiamata undōkai . Tutto sembra sia nato lí.
È un movimento generale, che coinvolge i membri della famiglia, dal
nonno al nipote. Camminando per Tōkyō in questi giorni, basta affacciarsi
in qualche cortile di scuola, per assistere alle esercitazioni. Se ne noterà la
volontà di aggregazione, la gioia, l’organizzazione perfetta, lo spirito
nazionale convogliato nella festa.
Nell’immaginario dei giapponesi, i giochi tipici della Festa dello Sport
sono: kakekko , un gioco di corsa a staffetta; ninin-sankyaku
, la corsa a coppie su tre gambe (espressione entrata nella lingua
giapponese a significare la collaborazione, il lavorare di concerto); tama-ire
, che consiste nel tentativo di ogni squadra di infilare quante piú
palline possibile in un cestino fissato in cima a una lunga asta; tsuna-hiki

170
, il tiro alla fune che, si dice, fosse in origine un rito atto a predire
la buona riuscita del raccolto; mukade-kyōsō , la corsa del
millepiedi. E poi ōdama-okuri , che consiste nel tenere sopra la
testa una grandissima palla e nel consegnarla al compagno che sta dietro,
fino a raggiungere l’ultimo elemento della fila: vince, ovviamente, la
squadra che non fa cadere la palla, raggiungendo l’obiettivo per prima.
– Sarà bello partecipare! – scrivo a Ryōsuke per email. – E ricordiamoci
di portare quest’anno il telone da stendere a terra. Lo scorso anno abbiamo
dovuto occupare una panchina, ricordi?
Ci saranno bentō pieni di prelibatezze, cibi che prenderanno la forma di
volti e di fiori e silhouette di kanji; scarpe comode con cui modulare la
corsa, e so già che terrò in braccio Emilio e poi per mano faremo una
piccola corsa insieme ad altre mamme e bambini, movimenti che ci
coinvolgeranno tutti al ritmo di una marcetta. E poi ci sarà Sōsuke che ci
mostrerà con orgoglio quanto è cresciuto, spiccando nel salto e poi in quel
goffo balletto che commuoverà i genitori di ogni bambino; gli adulti non
smetteranno un momento di girare video e scattare fotografie confrontando
il piccolo che hanno davanti con quello che era l’anno prima e quello prima
ancora.

Divinità 2.0.

A ottobre, a Tōkyō, non ci sono dèi. Templi e santuari sono disertati dalle
divinità. Non ce ne sono neanche a Kyōto, a Sapporo, né a Sendai. In
generale in Giappone ottobre è kaminazuki , «il mese senza dèi». Lo
è ovunque nella lunga isola che tanto mi ricorda nella forma un cavalluccio
marino. Ovunque tranne nella prefettura di Shimane, dove sorge il
SANTUARIO DI IZUMO TAISHA . Qui, fin dall’antichità, si credeva
che nel decimo mese dell’anno gli otto milioni di divinità del rito shintoista
si riunissero per consultarsi. Solo nella prefettura di Shimane, infatti, ottobre
è chiamato esattamente all’opposto, ovvero kamiarizuki : «il mese
con gli dèi».
Il santuario di Izumo Taisha, nel cui sacro recinto gli dèi del pantheon
giapponese decidono delle nostre preghiere, lo si abbina nell’immaginario
alla corda intrecciata, shimenawa , posta sopra l’ingresso, la piú
grande del Giappone: lunga 13 metri e pesante circa 5 tonnellate. È noto

171
soprattutto per essere dedicato al dio Ōkuninushi, cui si attribuiscono poteri
speciali sull’amore, tanto che ogni anno vi si recano in pellegrinaggio
migliaia di persone, in particolare giovani donne in cerca di un fidanzato. È
considerato, in assoluto, il santuario piú potente per en-musubi ,
l’unione, il destino romantico di una relazione.
Con questa speciale circospezione, causata dall’invisibile assenza delle
divinità, transitiamo in kanro , uno dei ventiquattro periodi stagionali
del calendario lunare, che cade intorno all’8 ottobre e racconta la rugiada
che si posa ghiacciata su fiori ed erbe. La brina bianca di settembre (hakuro)
s’intorbida infatti a ottobre, pare gelare. Concluso il ciclo dei tifoni, si
susseguono giorni di sereno autunnale, ma a Tōkyō le sere si fanno piú
fredde.

Oltrepassare i tornelli della stazione di OCHANOMIZU è sorprendente: a


seconda dell’uscita il paesaggio cambia completamente.
Se da Ochanomizu-hijiri-bashi-guchi , l’uscita Ponte
Hijiri, si apre sulla destra una rinnovata stradina colma di minuscoli
ristoranti e caffè, incassati l’uno di fianco all’altro senza che vi intercorrano
piú di una manciata di centimetri di distanza, attraversando la strada,
addentrandosi tra i palazzi e guardando giú dal ponte, si apre una voragine,
una gola sul cui fondo si stende uno spiazzo con tavolini. Qui, a ogni ora,
c’è gente che mangia, lavora, si ritaglia del tempo per sé.
Basta scendere invece lungo HONGŌ-DŌRI perché si intraveda tutt’altro:
nel sottobosco di edifici di varia statura, tra lampioni a filo, semafori e alberi
di ginkgo biloba, ecco il tetto verde acqua della cattedrale della chiesa
ortodossa giapponese Nikolai-dō , la cattedrale della Santa
Resurrezione.
Da sempre, tuttavia, il mio preferito resta il paesaggio che si spalanca
dall’altro lato della stazione, dalla Ochanomizu-bashi-guchi
, l’uscita Ponte di Ochanomizu. Il cielo da lí pare immenso, grazie allo
spazio sottostante fatto di un fascio fitto di binari affiancati o tagliati dalle
acque del fiume Kanda.
È scenografica soprattutto la simultaneità, la concomitanza di piú linee
che si incrociano verso Akihabara: è la varietà del paesaggio di Tōkyō
racchiuso in un colpo d’occhio. A destra, con la stazione alle spalle, c’è
l’antica scuola confuciana Yushima Seidō – fondata nel 1623 –, e
poi il prosieguo del ponte, l’ospedale, la folta vegetazione che prolifera sul

172
lato della strada a strapiombo sul fiume. In mezzo è il tondo perfetto che si
crea con il riflesso dell’arco del ponte sull’acqua. A sinistra invece inizia la
discesa che cala, tutta tempestata di negozietti di strumenti musicali, verso
l’Università Meiji e, ancora piú giú, tra le braccia di Jinbōchō, il vibrante
quartiere delle librerie.
Anche Sōsuke ama affacciarsi dall’uscita Ponte di Ochanomizu, forse
perché gli ricorda un po’ la domenica pomeriggio, quando va dal suo
amichetto Tao-kun e insieme, dopo aver spianato i frammenti grigi e
azzurrini dei binari, rovesciano i trenini sul parquet, creando costruzioni
vertiginose.
Un altro percorso che consiglio sempre a chi mi domanda come
conoscere un po’ meglio la natura di Tōkyō, è uscire da Ochanomizu-hijiri-
bashi-guchi voltando però immediatamente a sinistra. È una discesa
emozionante lungo i binari, ripida, velocissima, con i treni che sferragliano
accanto. A percorrerla tutta conduce fino alla Città Elettrica di Akihabara,
passando per il sottoponte in mattoni rossi che ospita un particolare caffè,
celebre perché posto nel bel mezzo delle rotaie, tanto che sia a destra sia a
sinistra è possibile vedere passare i convogli della linea Chūō.
Usato fino al 1943 come stazione, questo edificio, mAAch ecute ecute
Kanda Mansei-bashi , è stato riaperto
dopo settant’anni nel 2013, e riempito di ristoranti e negozi. È l’ennesima
dimostrazione di come dello spazio Tōkyō faccia sistematicamente
«scarpetta».
Ricordo che una volta con Ryōsuke ci spingemmo in una passeggiata
anche oltre Akihabara, arrivando a Kanda, una zona dedicata fin dal periodo
Meiji al mondo dell’editoria, tanto che gode tra gli addetti ai lavori del
nomignolo di KANDA-MURA , «Villaggio Kanda».
– Non solo è la sede di buona parte delle case editrici, ma c’è anche una
grande concentrazione di tipografie, rilegatorie e laboratori di
fotocomposizione. Per via della vicinanza a Jinbōchō sono tante anche le
librerie: il fascino sta proprio nella prossimità tra le diverse attività del
mondo del libro, che si possono facilmente mettere in contatto
reciprocamente, rendendo piú snella la reperibilità degli ordini.
– Certo, con lo sviluppo del digitale e la compravendita online, Kanda
deve aver subito un duro colpo.
Kanda però non gode solo della vicinanza di Jinbōchō, ma anche di
Akihabara, la città dell’elettronica.

173
Quel giorno Ryōsuke, che all’epoca lavorava in una grossa azienda
informatica, mi portò anche in un altro luogo sorprendente, KANDA MYŌJIN
, che è per molti versi la formula 2.0 della sacralità: il santuario
shintoista presso cui vanno a pregare gli informatici. Nel mondo
dell’elettronica il Kanda Myōjin è il piú famoso. Vi si prega perché non
vengano creati virus, affinché un sistema di sicurezza regga agli attacchi
degli hacker, o che un computer non si inceppi e funzioni alla perfezione.
«Per favore, proteggi le mie informazioni private!» scrive qualcuno sugli
ema.

Quartieri di carta.

«Da nessuna parte si trova scritto che nel decimo mese, detto “senza dèi”
ci si debba astenere da qualsiasi celebrazione in onore dei kami. Nemmeno
nei testi classici v’è alcun cenno in proposito. Non sarà piuttosto che è
chiamato cosí perché è il mese in cui nei santuari non viene celebrata alcuna
festività? Si ritiene che in questi giorni tutti i kami si radunino nel Grande
Santuario di Ise, ma nulla lo comprova. Se cosí fosse si dovrebbero tenere
celebrazioni particolari a Ise proprio in quel mese, invece una tale
consuetudine non esiste. Ci sono piuttosto molti esempi di sovrani che nel
decimo mese si sono recati nei santuari, ma spesso con esito infausto».

174
175
Scrive cosí nelle Ore d’ozio Kenkō Hōshi – è ipotizzabile che al suo
tempo si credesse che i kami si radunassero a Ise anziché a Izumo Taisha –,
il quale, chiaramente, non è d’accordo con quanto si riteneva comunemente.
Pare confermarlo la celebrazione chiamata Ebisu-kō che si tiene
nell’omonimo quartiere di Ebisu per due giorni, il 19 e il 20 ottobre.
Ebisu è il dio della ricchezza, una delle sette divinità della fortuna
chiamate shichi-fuku-jin – Daikokuten, Ebisu, Bishamonten,
Benzaiten, Fukurokuju, Jurōjin, Hotei –, che cavalcavano i flutti del sogno
sulla barca di Capodanno. Ebisu, in particolare, ha grandi lobi, un sorriso
tutto denti, largo sul volto paffuto; una canna da pesca nella mano destra,
un’orata tai, enorme e pacificata, nella sinistra. Pesca e fortuna, in un tempo
in cui le due cose erano sinonimi, spiegano come Ebisu fosse considerato
allora il dio del benessere e dell’abbondanza.
Delle sette divinità, solo lui è di origine giapponese, mentre le altre
richiamano la tradizione indiana o cinese, e ognuna ha una sua iconografia
pregressa. Ebisu viene festeggiato soprattutto dalle famiglie di commercianti
che pregano per la prosperità dei loro traffici. Nell’antichità, nel giorno
dedicato a Ebisu-kō, si offrivano sull’altare del dio riso cotto – proveniente
dal raccolto dell’anno corrente –, una costardella salata alla griglia, e del
denaro nella misura corrispondente a uno shō (circa 1,8 litri) di sakè.
Ancora oggi si organizzano matsuri in suo onore in varie zone del paese
e in diversi periodi dell’anno, tanto che questa stessa celebrazione, se nel
Kantō si tiene il 20 ottobre, nel Kansai cade il 10 gennaio, ma altrove la si
può allestire anche a novembre o dicembre, oppure persino due volte, sia a
gennaio che a ottobre. L’arbitrarietà, a dispetto di quanto all’estero si crede,
è ampiamente contemplata nel Giappone tradizionale. A metà tra la sagra e
la processione, i matsuri sono un compendio di vita.
Nel periodo della festività, in particolare una sera intorno al 19 ottobre,
davanti al santuario Takarada-Ebisu a Nihon-bashi e in tutta la zona di
OTENMA-CHŌ (nel distretto di Chūō-ku a Tōkyō), si tiene un mercato
chiamato bettara-ichi, per via delle bancarelle allestite che vendono
l’omonimo prodotto: la radice di daikon tagliata sottilmente e tenuta sotto
sale e crusca di riso, cui viene aggiunto kome-kōji , ovvero del riso
fermentato in sakè distillato, miso e altri ingredienti.
Nonostante la sua immensa fama, ricordo che lo scorso anno quel sapore
non aveva incontrato il favore dei bimbi – tanto piú attirati da spiedini di

176
fragole, meline caramellate, patate al burro, pesci arrostiti. Perciò
quest’anno saltiamo l’appuntamento.
Ci prepariamo piuttosto alle due Settimane della Lettura (dokusho shūkan
), che vanno grosso modo dal 27 ottobre al 9 novembre. Una
bellissima manifestazione che risale al 1947 e allo sforzo comune di case
editrici, librerie, biblioteche di allora unite nel dar vita a una cultura
nazionale che, dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, fosse
portatrice di pace.
Adesso le due settimane a cavallo del 3 novembre, che è il Giorno della
Cultura (bunka no hi ), vengono dedicate a una serie di eventi
speciali come il concorso per le migliori «osservazioni di lettura», il bingo
dei libri, quiz a tema, letture pubbliche, la maratona di lettura, le biblio-
battles e moltissimi altri, tra cui giorni consecutivi di sconti eccezionali
nelle librerie di Jinbōchō.
Particolarmente tenero è l’evento nuigurumi o-tomari-kai
, in cui i bambini portano in biblioteca il proprio
pupazzo del cuore, lo lasciano lí a trascorrere la notte e la mattina seguente,
quando lo vanno a riprendere, ricevono fotografie del pupazzo impegnato
nella lettura insieme agli amici, al lavoro al banco prenotazioni, o sotto una
coperta a sonnecchiare. E tra le sue zampette il libro che il pupazzino ha
scelto e che vorrebbe che il suo bimbo gli leggesse. Una iniziativa che pare
sia nata in una biblioteca pubblica della Pennsylvania nel 2009, e che ha
trovato terreno fertile in Giappone dove le bambole, come tutte le cose assai
amate, hanno un’anima – tanto che esistono caffè per pupazzi, ospedali per
peluche e cosí via.

JINBŌCHŌ , il quartiere delle librerie, è meta frequente delle nostre


peregrinazioni.
A costo di sembrare noiosi, viviamo la carta dei libri come i pesci vivono
l’acqua: è il nostro elemento. Salvo poi non avere spazio in casa.
Passeggiare per Jinbōchō è pertanto per noi come abitare nella casa ideale,
le pareti della città completamente tappezzate di scaffali, strade in cui girare
l’angolo per incontrare un nuovo scomparto, dove allungare una mano e
sfilare un volume da un ripiano a casaccio e fare una scoperta straordinaria.
La storia di questo quartiere iniziò intorno al 1877 quando, per venire
incontro alle esigenze degli studenti delle vicine scuole di legge – le future
Università Meiji, Chūō, Nihon eccetera –, vennero aperte numerose librerie

177
di seconda mano. Lo sviluppo fu subito dinamico e il commercio fiorente.
Tuttavia, alle ore 13.30 del 20 febbraio 1913, scoppiò un grande incendio
nell’edificio dell’Esercito della Salvezza, situato ai margini della zona, che
dopo aver distrutto completamente il palazzo, per il forte vento che soffiava
quel giorno verso nord-ovest si propagò in ogni direzione. Alle 14.10,
secondo la testimonianza trascritta in un articolo del giornale «Tōkyō Asahi
Shinbun», erano già crollati ottanta edifici. Il bilancio finale fu disastroso:
furono invasi dalle fiamme tremila edifici, distruggendo cosí quasi
totalmente il quartiere e le sue librerie.
Fu sempre nel periodo Taishō, dopo circa sei mesi da quel terribile
incendio, che un uomo di nome Iwanami Shigeo ebbe il coraggio di riaprire
nello stesso luogo una libreria che, in pochi anni, divenne una delle piú
grandi realtà editoriali del paese e che diede impulso alla moltiplicazione
esponenziale di nuove librerie, sempre piú specializzate.
E tuttavia la città avrebbe dovuto continuare a confrontarsi col fuoco. Nel
1923, con il disastro del Kantō, scoppiò un altro catastrofico incendio. Per
via delle enormi perdite, si diffuse persino la voce che il mondo dell’editoria
avrebbe dovuto traslocare a Ōsaka, che Jinbōchō – e piú in generale Tōkyō
– era spacciato. Ma, ancora una volta, l’impegno ebbe la meglio sulla
disgrazia.
Uno dei pericoli piú grandi, però, il quartiere lo affrontò nel cosiddetto
«Periodo della Bolla», quando il costo del terreno nella capitale schizzò alle
stelle mentre Jinbōchō restava relativamente conveniente rispetto ad altre
zone. Lo vengo a sapere da Ryōsuke che mi racconta come questo fatto,
apparentemente vantaggioso, espose invece la zona alle minacce della
speculazione edilizia. A metà degli anni Ottanta si verificò, infatti, una
catena di sospetti incendi dolosi, riconducibili al tentativo di sradicare la
gente dalle proprie abitazioni e attività, da parte di agenzie immobiliari
senza scrupoli, truffatori, membri della yakuza.
Deposizioni del tempo riferiscono l’arrivo nelle case di loschi figuri:
bussavano alle porte abbigliati in giacca e cravatta, tutti impomatati,
millantando affari d’oro e distribuendo volantini. Fu allora che si creò un
movimento di residenti, uniti per far fronte a quello che venne chiamato
Jinbōchō baburu sensō , ovvero la «Guerra della Bolla
di Jinbōchō». E alla fine ebbero la meglio.
Grazie anche al coraggio di quei residenti, oggi Jinbōchō è la piú grande
«città dei libri» del mondo, con circa duecento librerie che si snodano sul

178
lungo viale di Yasukuni-dōri, di cui l’80 per cento è costituito da negozi di
libri usati.
Ci sono librerie di ogni tipo a Jinbōchō, a tema gatti, riviste di idols,
cartine geografiche; ce ne sono altre specializzate in letteratura classica e
manoscritti, di argomento militare; altre ancora che trattano unicamente
cataloghi d’arte, volumi del periodo Edo. E cosí via.
Se si cerca qualcosa, qui di sicuro lo si trova. Si dice, quasi come fosse
uno slogan, che a Jinbōchō nai hon wa nai , «non c’è libro
che non ci sia».

Al ritorno, facciamo un salto nella minuscola libreria al limitare di


Jinbōchō, a un metro da Kudanshita. Da Itaria Shobō, specializzata in libri
italiani e spagnoli, troviamo scaffali pieni di classici della letteratura e
nuove pubblicazioni che spaziano nei generi e negli argomenti piú diversi. Il
costo, trattandosi di libri di importazione, è piuttosto elevato ma è bello
poter sfogliare un libro, allungarlo ai bambini e far scegliere a loro. A causa
della lontananza dall’Italia, sono condannata ad acquistarne quasi
esclusivamente su internet, spesso solo sulla fiducia, ma qui è possibile
toccare le pagine, esplorare la grandezza del carattere, la pastosità e la
lucentezza della carta, mettere alla prova le storie. Tutto ciò che li cattura, lo
acquisto.
In strada, con le mani occupate dai sacchetti pesanti e da un dinosauro
evaso dallo zainetto, ci investe aki kaze , quel particolare vento che
soffia in autunno, che sparpaglia le foglie e accompagna il freddo che
aumenta ed esprime, almeno in poesia, uno stato triste, vagamente
lamentoso.

Come accenna Murakami Haruki nel racconto La lucciola, della raccolta


I salici ciechi e la donna addormentata, da Jinbōchō a «Tōdai» – come
viene abbreviato il nome di Tōkyō daigaku , ovvero l’UNIVERSITÀ
IMPERIALE DI TŌKYŌ – è una lunga discesa e poi una lenta salita. C’è il
gomitolo di rotaie che si annoda e snoda su vari livelli, le giostre delle
montagne russe del parco divertimenti tra Suidōbashi e Iidabashi (Tōkyō
Dome City), lí dove si susseguono edifici sottili come confezioni tubolari di
caramelle, alcune piú discrete, altre assai colorate, a volte con tinte diverse
tra un piano e l’altro, come se davvero ognuno fosse di un gusto diverso:
fragola, menta, limone.

179
Ci addentriamo a passi veloci tra i palazzi, le casette tutte pigiate le une
sulle altre, i minuscoli giardini, gli alberi che spuntano da un cortile, le scale
che spezzano in due una viuzza.
BUNKYŌ è un quartiere impiastricciato di letteratura. Molto lo deve
proprio alla presenza dell’università. Pare un polmone di inchiostro, che
inspira ed espira fitta scrittura. Qui resta l’impronta di celebri scrittori, come
Higuchi Ichiyō e Ishikawa Takuboku, nelle iscrizioni che testimoniano il
loro passaggio e la loro lunga o breve residenza tra queste strade. Targhe in
vari angoli del quartiere spillano il ricordo di personalità come Natsume
Sōseki o Mori Ōgai: gli edifici hanno cambiato volto e nome negli anni, ma
il ricordo della loro opera rimane scolpito nella storia della letteratura
nazionale.
– Qui, – dice Ryōsuke, mostrandomi una targa a Kaneyasu, – è invece il
luogo dove si concludeva la città nel periodo Edo. Si chiamava WAKARE-NO-
HASHI , il Ponte della Separazione.
Se non me l’avesse indicata, non l’avrei mai notata. E pure essendone a
conoscenza serve una forte immaginazione per erodere il palazzo rossiccio
che, a pian terreno, un tempo ospitava un negozio di dentifrici, e bisogna
sforzarsi molto per staccare come figurine di un presepe le cose e le persone
del presente e intravedervi il luogo dove nel periodo Edo ci si separava.
– Edo si allungava fin qui, – ripeto incredula. – Edo, insomma, finiva.
Risucchiata dall’immaginazione di quell’edificio rosso all’angolo, mi
torna alla mente un articolo dello scrittore olandese Christiaan Fruneaux in
cui spiegava il vago malessere e il senso di claustrofobia che gli derivava,
paradossalmente, dalla percezione di Tōkyō come di una città senza fine.
Intrappolato nella sua vastità illimitata, lo scrittore volle accertarsi
fisicamente della sua conclusione.
Dove finisce oggi Tōkyō? si chiese. Cosí prese a camminare, finché non
si ritrovò – come sempre accade quando si cerca un confine tra le cose – con
uno steccato davanti, a venti minuti di cammino a nord di Takao, lí dove
sorge l’omonimo monte. Nel folto di una foresta.
Fruneaux scorse un’antica stele di pietra che introduceva a un santuario
shintoista in abbandono.
Era lí, proprio lí, che Tōkyō finiva.
Era lí che, per quell’uomo reso inquieto dall’incommensurabilità della
città, iniziava il senso di liberazione.

180
NOVEMBRE

Il mese della brina

Shimotsuki
Nel calendario lunare l’undicesimo mese dell’anno corrisponde a dicembre. È il
principio dell’inverno, la brina che si forma sulle foglie, il mese in cui cade
shimofuri-zuki . È l’attesa della neve, yukimachi-zuki ; è della neve la
contemplazione, yukimi-zuki . Novembre, tuttavia, è anche il ritorno degli
dèi nelle loro consuete dimore (shinki-zuki o kamikaeri-zuki ), della musica e
della danza sacra in loro onore (kagura-zuki ).

Nelle zone piú fredde, ancora oggi, a novembre cade la prima neve anche se, nella
declinazione contemporanea del calendario solare, siamo ancora in autunno. Nelle
cantine per il sakè, si appende alla grondaia quella sorta di palla fittamente intessuta
con le foglie di sugi (cedro giapponese) chiamata sakabayashi , che viene usata
come insegna dei negozi specializzati per segnalare l’arrivo del primo sakè
dell’anno.

Il ponte: la soglia e la separazione.

– Aki no hi wa tsurube otoshi .


Ha un dito puntato all’orizzonte, poi spalanca la mano e la cala come per
abbassare il volume del mondo. Ciò che scende tuttavia non è il suono ma la
luce, che viene risucchiata oltre la ferrovia di Mitaka, in questo cielo
cremisi, tempestato di nubi orlate di rosa e albicocca.
– In autunno il tramonto è rapido come il cadere del catino nel pozzo…
Traduco all’impronta le parole dell’uomo che ci sta accanto, ritto come

181
noi sul passaggio in ferro battuto che cavalca da parte a parte la ferrovia di
Mitaka. Resta rapito a guardare, dalle fessure della rete, il cielo cambiare
velocemente colore, la sera crollare.
Ha un nome oblungo e preciso questo ponte, MITAKA DENSHA-KOKOSEN-
BASHI , e sostiene 90 metri di passi. È stato costruito
all’inizio dell’era Shōwa, nel 1929, riutilizzando e assemblando antichi
binari. È rimasto immutato da allora, esteticamente poco attraente, eppure
amato dai bimbi che vi si recano per guardare i treni passare, cosí come
dagli anziani che, con sguardi vacui e pensosi, osservano l’orizzonte.
Dazai Osamu era affezionato a questo posto, vi portava persino gli amici.
Esiste uno scatto famoso che lo ritrae qui, su questo che era per lui come un
belvedere sul paesaggio rurale di allora, un luogo su cui forse riversava la
nostalgia per il paese natale. Amava guardare i treni passare e i campi
sparpagliarsi tutto intorno, la città rimpastarsi sotto quel suo sguardo
tragicamente ricurvo, teso costantemente al precipizio, alla fine.
Nato nel 1909 nella prefettura di Aomori, nella zona rurale di
Kitatsugaru, Dazai sapeva quanto fosse necessario per la sua carriera di
scrittore abitare a Tōkyō. E tuttavia, per l’uomo che era – fragile, incline alla
sregolatezza – vivere nel centro della città avrebbe significato non riuscire a
concentrarsi nel lavoro. Per questo Mitaka gli parve un buon compromesso:
tappezzato in buona parte da campi coltivati, il quartiere era
sufficientemente vicino al centro di Tōkyō, e tuttavia non risultava inglobato
nelle sue spire. Però lo vide trasformarsi da zona agricola a zona impegnata
nella produzione di armamenti bellici; poi sarebbero aumentati gli esercizi
commerciali, i ristoranti e i pub, e la popolazione soprattutto, in fuga dai
bombardamenti.
In uno dei suoi saggi piú noti sulla letteratura giapponese, il critico
Togawa Shinsuke sottolinea di questo elemento architettonico, il ponte
ferroviario, proprio la natura di terrazza panoramica, di raccordo e insieme
di non appartenenza alla grande metropoli: molti ritrovavano nelle stazioni e
nei ponti sopraelevati, come Mitaka densha-kokosen-bashi, un punto di
contatto tra il paese d’origine e la grande città. E d’altronde salirvi diveniva
occasione per rendersi conto di come non si appartenesse piú a nessuno dei
due mondi.
L’incipit del romanzo Lo squalificato fa effettivamente riferimento a un
ponte. Che fosse quello della stazione del paese d’infanzia di Dazai e non
quello di Mitaka non conta: un luogo richiamava naturalmente alla mente

182
l’altro.
Personalmente ho scoperto l’astrusa bellezza di Mitaka densha-kokosen-
bashi quando vi passavo accanto in bicicletta la sera, di ritorno dalle lezioni
di dottorato. Parcheggiavo la bici, salivo di fretta prima che il sole
tramontasse del tutto, e lí scorgevo il monte Fuji accendersi come una
lanterna di carta, sullo sfondo della linea Chūō.

183
184
In quegli anni ero preda di una mania feticista nei confronti del Fuji-san
. Lo cercavo ovunque, lo fotografavo, tentavo sempre nuovi punti di
osservazione. Eppure, a esclusione dei grattacieli di Shinjuku o del Mori
Building a Roppongi, solo da quella posizione sopraelevata, oltre il muro
dei palazzi che a Tōkyō paiono stare costantemente sulle punte, e grazie
soprattutto al sole che gli scendeva alle spalle, il suo profilo si faceva cosí
definito. Accade anche oggi, in qualunque stagione, anche in quelle piú
calde e fumose in cui il monte non ama mostrarsi.
Solo chi abita o ha abitato a Tōkyō lo sa, che questa città vive di diversi
livelli. E non solo perché la sua speciale morfologia la pone costantemente
di fronte al contrasto tra una zona bassa (shita-machi) e una alta (yama-no-
te), ma anche perché è tutto un su e giú di viadotti, cavalcavia, sopraelevate,
passerelle.
Soprattutto Tōkyō è piena di ponti, disseminata del rosso scarlatto di
certe interruzioni armoniose che sorgono nei giardini all’interno di templi e
santuari, curve piú o meno bombate che collegano gli orli di un laghetto
dentro cui nuotano placidamente le carpe. Il ponte, tra unione e separazione,
come ha svelato Georg Simmel, pone l’accento sulla seconda proprio perché
rende percepibili e misurabili i suoi punti d’appoggio. La natura separata di
due rive d’un fiume si fa spiritualmente congiunta, ma il ponte evidenzia
quella separazione. L’uomo, in questo processo, è colui che unisce, il
paciere che, a sua volta, dallo spazio viene cambiato.
Congiunzione e interruzione: Tōkyō rappresenta splendidamente questo
(apparente) contrasto.
Ho abitato tra Musashi-sakai, Mitaka e Kichijōji per piú di dieci anni, i
miei primi in Giappone.
Ne ho memorizzato la cartografia, il colore delle villette, la disposizione
sempre rinnovata dei palazzi, le strade alberate e le viuzze celate. Me ne
sono via via innamorata durante le lunghe passeggiate verso l’università, di
ritorno dalle uscite con amici, mano nella mano con Ryōsuke, in solitaria
ascoltando audiolibri, poi con il desiderio di un figlio prima, e infine con
Sōsuke nella pancia. Per ogni fase della mia vita, i luoghi di questa zona che
si sviluppa lungo tre stazioni della linea Chūō hanno assorbito i miei
sentimenti. E come tali, ancora oggi, li riconosco, come parte cioè della mia
geografia emotiva.
Uscendo a nord dalla stazione di MITAKA , subito spicca un’altissima torre
di cui ricordo, pezzo dopo pezzo, la graduale e tuttavia rapidissima

185
costruzione. Ogni volta che mi soffermo su queste torri che da qualche anno
svettano davanti a parecchie stazioni di Tōkyō mi torna in mente un
programma radiofonico su Tōkyō FM incentrato su uno studio che
dimostrava come i bambini nati in edifici tanto elevati possedessero un
quoziente intellettivo piú basso rispetto a quelli che abitavano in case ad
altezza standard. Ricordo che rimasi sconcertata, come se fosse l’ennesima
dimostrazione scientifica che è alla terra che apparteniamo e il fatto di
metterci a osservare il mondo dall’alto in basso, tanto presto e tanto a lungo,
indebolisse quel legame fondamentale.
Di questo quartiere amo non solo lo Studio Ghibli, il Museo cui conduce
il piccolo shuttle bus decorato che ferma all’uscita sud di Mitaka, ma anche
quell’edificio chiamato KUSA-YA , «Casa d’Erba», che ospita le
succursali dello Studio. Dislocato a metà tra Mitaka e Kichijōji, Kusa-ya è
immediatamente riconoscibile fin dalla ferrovia per via del tetto su cui, a
seconda della stagione, cresce un folto repertorio di erbe e di piante – verde
squillante d’estate, giallo bruciato d’inverno –, coerentemente al messaggio
ecologista che da sempre attraversa i film della produzione Ghibli.
Sempre a Mitaka, ho seguito per anni i passi di Dazai Osamu lungo il
fiumiciattolo ormai quasi del tutto prosciugato in cui si gettò nel 1948,
riuscendo infine (dopo una serie testarda di tentativi falliti) a darsi la morte
insieme all’amante; qui sorge il museo dedicato alla sua opera letteraria, il
DAZAI OSAMU LITERARY SALON, in cui è esposto un modellino in scala della
casa dove ha abitato fino alla morte e sono nati buona parte dei suoi
capolavori; e il piccolo caffè-libreria dell’usato Phosphorescence, dove sono
custodite tutte le copie dei suoi libri insieme a oggetti celebrativi; e ancora il
ristorante Tanabe in cui Dazai prese una stanza in affitto perché gli fungesse
da studio e, piú a sud, procedendo lungo Chūō-dōri, nel recinto del tempio
Zenrin-ji, la sua tomba. È possibile ricevere una mappa dettagliata di questi
e altri posti all’Ufficio del turismo, subito davanti all’uscita sud della
stazione di Mitaka.
Provoca grande emozione leggere i libri di Dazai Osamu e poi seguirne
le tracce, ripercorrendo i passi dell’uomo che imbastí un pezzo importante
della letteratura nazionale e che, insieme, fece scandalo fino alla fine, con i
matrimoni, le amanti, i figli, i tentati suicidi, la militanza politica, la vita
dissoluta.

186
L’autunno, gli alberi, le foglie e le lasagne.

Ecco che a Tōkyō bussa infine il freddo, come una presenza che scende a
valle dalle montagne e modifica tempo e paesaggio. Ecco eserciti di
maniche lunghe e di cappotti, tutto un fiorire di sciarpe strette al collo che
terminano come lingue al vento, un brulicare di guanti che a breve
inizieranno a seminare le strade, dimenticanze spaiate di chi va troppo di
fretta. In bicicletta i bimbi sono avvolti in piú strati e i volti, piano piano, si
fanno semplici fessure nell’imbottitura della stoffa, mentre sui seggiolini
vengono installate speciali coperture che in Italia non ho mai visto. In treno
le mascherine coprono i nasi, le bocche, o anche solo i menti delle persone;
vi si nascondono dietro liceali, ragazzi freddolosi, giovani donne che non
hanno avuto tempo di truccarsi e recuperano «in corsa», letteralmente.
Il freddo cala come un pennello sulla città. Le foglie dei momiji, gli aceri,
che tanto assomigliano a manine affilate di neonato, s’arrossano di colpo. –
Ma quanto è bello l’autunno! – esclamo, intimamente felice della stagione
che fa capolino. Cricchiano le foglie sotto i piedi e la tentazione di saltarvi
sopra, come fanno Sōsuke ed Emilio, per farle «suonare» è irresistibile.
È il 3 novembre, il nostro anniversario di nozze, ma è anche festa
nazionale. Ha un suo preciso nome, si chiama Giorno della Cultura (bunka
no hi ) e vengono organizzati eventi a tema. Ci si reca nei musei e
nei teatri, ci si avvicina nei modi piú vari all’arte e alla cultura; vi
coincidono spesso anche i festival universitari, matsuri durante i quali è
possibile sperimentare l’eccezionale creatività degli studenti giapponesi e
accedere liberamente ai bellissimi campus di molte istituzioni pubbliche e
private.
Un tempo chiamato Meiji setsu , era una delle grandi feste del
Giappone; fissata, secondo il vecchio calendario lunare, il giorno del
compleanno dell’imperatore Meiji, venne prima soppressa nel 1927, poi
riesumata dopo quarantotto anni, e infine trasformata in questo giorno
dedicato a mostre di pittura e scultura, concorsi di fotografia, concerti e
spettacoli di teatro. Nel periodo Nara e Heian le famiglie dell’aristocrazia si
riunivano sotto i tramonti gialli, rossi e arancio del foliage autunnale.
Banchettavano e, al ritmo di cinque o sette sillabe, scrivevano
componimenti waka .
Dal periodo Edo tutti già andavano in cerca dei momiji perché, come per
la celebrata e rosea primavera c’è lo hanami , cosí per l’autunno c’è il

187
momiji gari , letteralmente la «caccia ai momiji». Si ammirano
le foglie rosse, le si raccoglie, si creano segnalibri originali, le si immerge
nella farina e se ne fa un tenpura di un colore vivace, misto al giallo bruno
della pastella.
Le sfumature dell’autunno sono kōyō, che sembra uno ma nel kanji sono
invece due: kōyō quando è rosso cremisi (e il pigmento che tramuta il
verde è l’antociano), kōyō quando il colore che domina è il giallo (e il
salto è favorito dal carotenoide). In tutto questo fogliame che si sparge
generoso prima in cielo e poi in terra basta un po’ di interesse per
distinguere forme e sfumature differenti, separare tra i rossi iroha-momiji,
yama-momiji e ō-momiji, nanakamado, hazenoki da shita-urushi; nel giallo
differenziare ichō da mizuki, mansaku e tochinoki.

Novembre è anche il mese che vede il ritorno a casa degli dèi.


Esattamente un mese dopo kami-okuri, «la partenza degli dèi», se ne
festeggia il ritorno, kami-mukae.
– Tornano a casa? – domanda incuriosito Sōsuke.
– Sí, il 1° novembre tornano a casa, nel santuario dove sono amati e
celebrati tutto l’anno.
– E che festa si fa?
– Offerte di dango, insomma regali, e riso sekihan, quello
appiccicosissimo con i fagioli azuki dentro, hai presente? Quelli piccoli e
dolci, rossi bordeaux.
Mi guarda perplesso. Riformulo svelta, prima di perdere la sua
attenzione: – Quello che cucina la nonna Yōko nelle occasioni speciali.
Quest’anno i mochi li prepareremo anche noi e soprattutto diremo:
Okaerinasai! «Bentornati a casa!»

Ryōsuke e io ci sposammo in autunno proprio per incontrare i colori del


kōyō e ricordo, nell’ampio recinto del SANTUARIO DI KAMAKURA, che
erano tantissimi i bimbi in kimono.
Fu una festa nella festa, una matrioska di tinte e fantasie.
Novembre in Giappone è infatti il mese dei bimbi che crescono – dei tre,
dei cinque e dei sette anni, letteralmente shichi-go-san (7-5-3) – e la città,
nell’approssimarsi ai santuari, è tutta una chiazza di colore. Sono i kimono
sgargianti delle femminucce di tre e sette anni e dei maschietti di cinque. Lo
sguardo viaggia piú in basso, come inseguendo una speciale declinazione di

188
bellezza che sboccia dalla terra, germogli che si affacciano da una prima
infanzia a una seconda e a una terza.
Anticamente veniva celebrato alla corte imperiale e nelle famiglie di
samurai tra cui erano in vigore tre abitudini da cui si dice sia derivato shichi-
go-san: ovvero kamioki , hakamagi e obitoki
. Il primo kamioki indica l’uso di smettere di tagliare i capelli al
compimento dei tre anni; il secondo, hakamagi, era il rituale per cui i
maschi che compivano cinque anni dovevano indossare per la prima volta
una lunga sottana da cerimonia chiamata hakama; e obitoki stabiliva che le
bambine dai sette anni indossassero per la prima volta l’obi, la fascia che
cinge la vita nel kimono da adulte.
I sette anni anticamente erano una tappa importante, non per motivazioni
simboliche, ma per via dell’alta mortalità infantile: si festeggiava cosí
l’essere riusciti a scampare a gravi malattie.
Per festeggiare e ricordare queste tradizioni si gustano caramelle lunghe e
sottili, di colore cremisi e bianco che sfoggiano il kanji di chitose ,
ovvero «mille anni»: è l’augurio di una lunga vita.
C’è un grande fervore nei santuari da qualche settimana. Attraverso i
lunghi viali alberati che portano agli altari, salgo le scalinate di pietra. I
ciliegi diventano ambra, i ginkgo rubano al sole il giallo squillante.
Una processione di kimono sgargianti e piccole creature dal passo
impercettibilmente incerto. Procedono con una solennità che fatico quasi a
spiegarmi. Ricordo la comunione mia e di mia sorella, l’apprensione eccitata
della famiglia. Ma io ero già piú grande.
La simbologia del colore vuole tinte piú scure per il kimono dei
maschietti e colori piú vivaci per quello delle femminucce. A volte portano
scarpe da ginnastica benché la tradizione vorrebbe ai piedini gli zōri ,
sandali tradizionali di paglia, non facilissimi da calzare. Lungo il viale del
tempio sono circondati da uno stuolo di parenti. Rintuzzati dalle loro
domande, paiono emozionati, intimiditi, eppure orgogliosi dell’attenzione
che cola come oro su di loro.
In questa celebrazione leggo l’augurio di crescere forti, di mettere radici
nel mondo, di amare ed essere amati. Nanatsu mae wa kamino uchi
recita un detto giapponese che spiega come prima dei
sette anni i bambini siano tra le divinità: In the hands of the gods traducono
in inglese, «Nelle mani degli dèi».
Nella distesa di paglia che è Tōkyō, siamo tutti fili. Ci aggrovigliamo,

189
tentiamo di separarci, eppure torniamo a incontrarci e sfiorarci in un punto o
in un altro di questa città.
Tōkyō è la dimostrazione che siamo tutti destinati all’incontro.

Un tempo si diceva che con rittō iniziasse l’inverno. Si conclude


infatti, intorno al 7 del mese, la mitezza autunnale e si inizia ad avvertire il
gelido kogarashi , che è il freddo vento autunnale-invernale, una
sorta di tramontana. L’Agenzia meteorologica definisce con «Kogarashi n.
1» la prima avvisaglia dell’arrivo dell’inverno: si forma la brina, ci si
accorge della stagione che cambia. È tuttavia piú avanti, intorno al 22
novembre, che inizia shōsetsu , un altro dei ventiquattro periodi
stagionali che, nei due caratteri affiancati di «piccolo» e «neve», spiega
come in Giappone inizi a nevicare piano qua e là. A Tōkyō è decisamente di
là da venire, ma i raggi del sole si vanno effettivamente indebolendo e fa
sempre piú freddo.
Lo penso per l’ennesima volta, facendo zapping in tv e notando i numeri
scesi sulla tabella delle previsioni del tempo. Appena finito il servizio, ne
parte subito un altro di intrattenimento. Scopro cosí anche la coppia
dell’anno.
Il doppio uno e il doppio due della data di oggi fanno sí infatti che
l’11/22 sia proprio ii fūfu no hi , ovvero il «giorno della bella
coppia» (in giapponese l’11 può leggersi ii/yoi «buono, bello» e il 22 fūfu
«coppia»). Si celebra la reciproca riconoscenza e l’affetto tra coniugi.
Convinta che in fondo una vita gioiosa la determini piú la volontà
costante che le premesse, colgo ogni scusa per celebrare la vita e, in questo,
il calendario giapponese è un alleato eccezionale.
– Siamo una bellissima coppia anche noi, – sussurro a Ryōsuke prima di
uscire di casa carichi di zainetti, di caschetti e di bimbi.
Nel pomeriggio, dall’università, allungherò il passo fino da KALDI , una
catena di negozi di importazione tra le piú note in Giappone. Stasera
preparerò uno dei piatti preferiti di Ryōsuke, la mia personale declinazione
di «lasagna made in Japan».
In onore della nostra unione, che ha superato il decennio.

L’oscurità nella città illuminata.

190
Il 23 novembre si teneva originariamente una festa per ringraziare il
raccolto agricolo (niiname-sai o shinjō-sai ). Inaugurata nel periodo
Asuka, è tuttora celebrata in alcune zone del paese. Secondo la tradizione,
l’imperatore offriva alla divinità il riso e il sakè prodotti quell’anno,
esprimeva riconoscenza e chiedeva il suo favore per l’anno a venire. Pare
che questa cerimonia abbia luogo ancora adesso nella famiglia imperiale.
Il suo significato rimane anche in altre festività di novembre come tōkan-
ya e i-no-ko, e nei rituali di ringraziamento del raccolto nei matsuri
d’autunno. Ne è testimonianza la musica e danza sacra chiamata shimotsuki-
kagura , letteralmente «la danza del mese della brina», che si rifà
alla stagione in cui le temperature favoriscono la creazione di ghiaccio sulle
piante.
Se niiname-sai divenne festa nazionale nel 1873, e fu fissata al 23
novembre, solo molto piú avanti, nel 1948, fu rinominata kinrōkansha no hi
, «Giorno di riconoscenza per i lavoratori», coinvolgendo
nella celebrazione tutti i mestieri.
Tutto questo però non interessa ai bambini. Quel che li rende allegri è
piuttosto la meta di questo giorno di vacanza: JINDAI-JI . Che è
anche uno dei miei luoghi preferiti di Tōkyō.
Per via dell’autunno evocato dal rosso che ci circonda, un paio di volte in
questa stagione siamo soliti venire a Jindai-ji, un luogo la cui magia è
protetta dalla lontananza dalla ferrovia, dalla fatica da affrontare per
accedervi.
È una pozzanghera di verde, dentro cui si snodano viuzze tempestate di
negozietti di artigianato tradizionale, ristoranti di soba, kissaten dai grandi
parasole rossi e banchetti di legno su cui gustare spiedini di mochi (kushi-
dango ), wagashi di stagione da incidere con bastoncini di legno,
tazze fumanti di maccha, che lasciano sulle labbra scie schiumose come
lumache.
Scendendo dalla scalinata del santuario di Jindai-ji, celebre per la
magnifica festa dei daruma che si tiene ogni anno a gennaio, si accede al
punto di incontro delle due vie principali. La pavimentazione è formata da
grandi blocchi di pietra, e queste si snodano lente, brevi ma dense, lungo un
fiumiciattolo che scorre poco piú giú.
Subito accanto a uno degli ingressi, a tre minuti dalla fermata
dell’autobus – quello cui si accede se si raggiunge la zona da Mitaka – sorge
il cimitero degli animali (Jindai-ji dōbutsu reien ), loculi

191
che esibiscono le fotografie di cani e di gatti, un’alta torre immersa nel
verde dove riposano le ossa di creature molto amate.
Il fascino di Jindai-ji sta nella natura rigogliosa, nell’aspetto tradizionale
che è omogeneo in tutta la zona, nel mulino ad acqua adiacente a un
microscopico ponte, nelle tende noren che esibiscono i kanji dei nomi, il
benvenuto dei ristoranti, il tatami che si intravede spalmarsi oltre gli
ingressi, nelle sale che si affacciano sul piccolo stagno posto nel centro.
Sono tanti anche i chioschi che servono delizie dolci e salate; uno, in
particolare, mi torna sempre alla mente sia per il sapore eccezionale delle
crêpes al maccha e fagioli azuki, scure perché preparate con la farina di
soba, sia perché la kanban-musume , ovvero «la ragazza di
richiamo» o, piú semplicemente, il volto di riferimento del negozio, è una
donna straniera energica, allegra: il suo buonumore trascina.
Dopo una breve passeggiata, ci mettiamo in fila per entrare da YŪSUI
. È uno dei ristoranti piú noti e famosi di Jindai-ji, dove gustare la
soba. Subito fuori dall’ingresso, in prossimità delle panche che spiegano
come l’attesa qui possa essere anche molto lunga, guardiamo oltre la vetrata
che avvolge la stanza dedicata esclusivamente alla preparazione della soba.
L’artigiano stende e taglia la pasta, sul piano di lavoro dove si allarga quel
bellissimo marrone polveroso che è l’origine della pietanza fatta di farina di
grano saraceno, uova e igname. La gusteremo a breve insieme a porzioni di
tenpura saporito e croccante.
Prendo in braccio Emilio che è tutto una smorfia in questi giorni, come
sperimentasse nuove emozioni sulla sua faccia. L’artigiano gli sorride
attraverso il vetro mentre trasforma la pasta in lunghissimi vermicelli.
Ancora qualche minuto ed entreremo nel locale, oltre la gronda sormontata
da una lanterna di bronzo, oltre la porta scorrevole e il piccolo quadrato di
legno in cui lasceremo le scarpe per salire su, al secondo piano del
ristorante, nella stanza del tatami, dove i bambini potranno sedersi e
sdraiarsi in libertà, e ammirare il paesaggio di momiji fiammanti che si
intravede dalle finestre.

La paura è la piú grande attrazione per i bimbi. Paura è perfino meglio di


gioia. Paura equivale ad avventura, brivido e novità.
Per questo i bambini amano i fantasmi, i mostri, gli esseri soprannaturali
che portano la sorpresa e si sottraggono al giudizio del mondo. Sono libertà
al cento per cento, anche libertà di fare del male, di causare terrore e

192
violenza. Ogni età, rifletto, ha la sua soglia di tolleranza (e comprensione)
del male.
Sōsuke ed Emilio adorano gli yōkai , una delle sette meraviglie del
mondo dell’infanzia giapponese: le creature soprannaturali proprie della
tradizione mitologica giapponese. Il mostriciattolo del tōfu, la donna dal
collo chilometrico, il senza-volto, l’ombrello zompettante con un solo
occhio in mezzo alla faccia, la lanterna linguacciuta, e tantissimi altri.
Incontriamo queste e moltissime altre creature da KITARŌ -CHAYA
, un negozio a Jindai-ji completamente dedicato alla memoria di
Mizuki Shigeru , mangaka e straordinario conoscitore di yōkai,
e alla sua opera principale Gegege no Kitarō, reso in italiano come Kitarō
dei cimiteri.
Sōsuke indica tutto eccitato il tetto del negozio, su cui stanno due
mastodontici geta e il corpo di un mostro dai dentoni sporgenti; nel cortile
sono appese lanterne a filo che esibiscono l’occhio di Medama-oyaji
, il padre di Kitarō, il protagonista.
Ci affacciamo dentro Kitarō-chaya e i bambini zompettano ovunque nella
smania di assaggiare i dolci a tema e sfogliare i libri illustrati popolati da
mostri. Sotto la cassa, quando vado a pagare, un opuscolo mi rivela che
esiste in Giappone un esame che certifica il grado di conoscenza degli yōkai.
Si chiama yōkai kentei e le sedi in cui è possibile sostenere gli
esami sono solo due, una a Chōfu e l’altra a Sakai-minato, entrambi i posti
legati al nome di Mizuki Shigeru.
Il suo talento è riconosciuto a livello internazionale e tuttavia rimane nel
mio immaginario non soltanto per lo studio furioso con cui si documentò sul
folklore e per i manga strabilianti che produsse, ma anche per la sua vita,
tormentata da moltissimi alti, certo, ma anche da tantissimi bassi – come
l’esperienza atroce della guerra. Mi ricorda, in qualche modo, che non è solo
il meglio ma anche il peggio a nutrire l’animo di una persona e a farne
l’eccezionalità dell’esistenza. Se il primo sembra ovvio, che le cose positive
insomma facciano bella una vita, il secondo non lo è affatto.
Nella prefettura di Tochigi, a Sakai-minato, nella cittadina in cui Mizuki
è cresciuto, ci sono un imponente museo dedicato, numerosissime statue,
omaggi disseminati qui e là in modo massiccio. Tuttavia anche CHŌFU ,
quartiere a ovest di Tōkyō di cui l’artista è cittadino onorario perché vi abitò
piú di cinquant’anni, è costellato di indizi.
– Che indizi? – domanda Sōsuke curioso.

193
– Lo vedrai tra pochissimo, – replico misteriosa.
Proprio all’uscita di Kitarō-chaya, poco piú avanti, c’è la fermata
dell’autobus. Venti minuti e siamo lí.

Il SANTUARIO FUDATEN JINJA , a breve distanza dalla


stazione di Chōfu, è quello alle cui spalle si diceva ci fosse la dimora di
Kitarō. Lo si intravede in alcune scene dell’anime tratto dal manga, e
attestazione di questo rapporto speciale che il luogo di culto intrattiene con
Gegege no Kitarō è il fatto che qui gli o-mikuji , i biglietti con la
previsione divina, sono decorati a tema.
– Allora bambini, adesso giochiamo a chi trova Kitarō e i suoi amici per
strada. Cose grandi tipo sculture, tombini, insegne.
Emilio punta il dito su prodotti esposti nei negozi, le card di
presentazione scritte a mano, infilate tra i libri.
Sulla via commerciale Tenjin-dōri shōtengai , Sōsuke
individua Nezumi-otoko , ridanciano, su una panchina, vicino a un
sentō Neko-musume , cavalca il mostro Ittan-momen .
Emilio, che guarda sempre piú in alto di sé, dice «guarda» e, alla fine della
linea immaginaria tracciata dal dito, seduto placidamente su una mezzaluna
di acciaio montata all’ingresso della galleria di negozi, c’è Kitarō. Il
bilancio della caccia al tesoro comprende alla fine, oltre alle tre sculture
della via commerciale, tavole di manga attaccate a un palo dell’arcata e sei
tombini decorati.

Confina con Chōfu la città di FUCHŪ dove ogni anno, dal 30 aprile al 6
maggio, regnano le tenebre. In quei giorni infatti si tiene un festival antico,
Kurayami-matsuri , letteralmente il «Festival dell’Oscurità»,
che parte dal principio della sera per allungarsi fino a tardi. Tuttavia è
soprattutto in passato che il buio era preso sul serio quando, dalla
mezzanotte, tutte le case spegnevano le lanterne per far calare Fuchū
nell’ombra.
Ha avuto origine piú di mille anni fa, tra i piú antichi di tutta la regione
del Kantō, ed è uno di quelli protetti sotto l’egida nazionale, inserito nella
lista dei beni intangibili del folklore giapponese del governo metropolitano
di Tōkyō – Intangible Folk Cultural Properties of Tōkyō
. Esistono libri completamente dedicati a
questa festa e nell’ottobre del 2019 è uscito un film che lo vede come

194
sfondo: Kurayami-matsuri no Ogawa-san , «Il
signor Ogawa del Festival dell’Oscurità».
È la suggestione del buio, di una fitta serie di manifestazioni che si
succedono nei sette giorni di celebrazione tra cui la raccolta (il primo
giorno) dell’acqua purificatrice a Shinagawa; le preghiere (il giorno
seguente) rivolte alle divinità che assicurino un cielo asciutto e l’assenza di
incidenti; la cerimonia di purificazione col sale degli otto specchi dei
mikoshi; e le colorate parate musicali e le processioni di adulti e di bambini
negli abiti tradizionali della festa. Poi spettacoli pirotecnici, sfilate di
cavalieri e di carri dei bimbi.
È un festival unico a Tōkyō.
Nella città piú luminosa di tutte, il miracolo è il buio.

In Tōkyō [shinka] ron, ossia «Saggio [sull’evoluzione] di Tōkyō»,


Masuda Etsusuke racconta di come, nascosta all’ombra di eventi finanziari
di piú forte impatto, nell’anno 2008 uscí la consueta classifica delle città-
quartieri piú ambite di Tōkyō.
Vi si poteva intravedere un importante cambiamento di rotta nel gusto
dei giapponesi, nel modo di percepire la vivibilità e la piacevolezza di una
zona anziché di un’altra: quella che era stata per anni la prima in classifica,
l’elegante Jiyūgaoka, venne scalzata dalla piú giovane e scanzonata
KICHIJŌJI .
Dalla predilezione per quartieri chic come Jiyūgaoka, Den-en Chōfu,
Seijō – dove ciò che brilla è la ricchezza manifesta, boutique dalle vetrine
inondate di luce che riflettono i passi di donne eleganti, vite apparecchiate
con gusto e ricercatezza – si passava a preferire zone piú modeste
esteticamente, sobrie nell’allegria di una popolazione sempre borghese ma
non altezzosa, dove si mescolavano villette di famiglie piú o meno
benestanti e appartamenti occupati da studenti sempre in bolletta che si
trasferivano a Kichijōji durante o alla fine dell’università, dopo aver vissuto
in parte nei dormitori che sorgevano in quartieri limitrofi.
Dal 2008, la popolarità di Kichijōji, e piú in generale di Musashino-shi, è
andata crescendo, fino a modificarne lo stesso tessuto sociale e abitativo:
sommerso da sempre nuove richieste, in una speculazione edilizia lievitante
che tendeva a volerle accontentare tutte, il quartiere ha finito per trovarsi in
un divario tra la densità della popolazione e le infrastrutture. Ricordo che la
nostra buca delle lettere collezionava ogni settimana una decina di nuove

195
proposte di grossi complessi in costruzione o appena conclusi, vecchi edifici
rinnovati (rifōmu mashon), terreni in vendita. Ci rendemmo conto di quanto
si stesse abbassando la qualità della vita quando, alla nascita di Sōsuke, ci
trovammo sprovvisti di un nido. Oltre al nostro, altri 104 bambini circa
erano rimasti fuori dalla lista.
Per un quartiere che si proponeva come «familiare», adatto a crescere dei
bambini, ci parve un controsenso. Quel giorno stesso progettammo di
trasferirci altrove.

Gran parte del fascino di Kichijōji sta nel versante del PARCO
INOKASHIRA , nei negozietti che si arroccano su viuzze che, come brevi
cascate, si gettano giú, dove il verde comincia. Il parco risulta infatti
affossato rispetto alla morfologia circostante, e la caduta repentina dello
sguardo è particolarmente affascinante. L’orizzonte appare sospeso, mentre
poggia sul nulla, e tocca chiome di alberi che sono radicati parecchi metri
sotto.
Si alternano botteghe di abbigliamento, chioschi di crêpes, ristoranti di
cucina tailandese e di Okinawa, negozi di articoli di arredamento, ma anche
konbini e caffè di grosse catene giapponesi e straniere. Tuttavia è proprio la
dimensione di questi esercizi commerciali a fare la differenza: tutto appare
in scala ridotta.
Anche ai bambini, che pretendono di correre liberi dalla stretta della
nostra mano, sembra di precipitare improvvisamente nel parco, come se
d’un tratto mancasse la strada sotto i piedi. È nel terriccio, all’ombra dei
vecchissimi ciliegi che vegliano imperturbabili, che ogni passo finisce per
dirigersi.
Sōsuke ed Emilio lo sapranno solo un giorno, che questo è uno dei luoghi
preferiti dai loro genitori, che qui, in anni molto precedenti alla loro venuta
al mondo, al ritmo di passeggiate contemplative e discorsi di storia e
filosofia, si sono innamorati.
Scendiamo lungo uno degli strettissimi sentieri che calano ulteriormente
fino a raggiungere i lati recintati del laghetto del parco. Dal 2014, ogni
anno, quest’ultimo viene bonificato e sul fondo si scopre tutto quanto è stato
gettato dentro di nascosto. Ricordo che quando, dopo ventotto anni, si
procedette al prosciugamento, furono rinvenute piú di duecento biciclette,
insieme a elettrodomestici, tv, cellulari e tanto altro.
Per raccontare questa cosa brutta e insieme stupefacente ai bambini uso

196
una scena della Città incantata di Miyazaki Hayao: lo spirito del fiume
ritratto come un vecchietto che si tuffa nelle terme della maga Yubaba e
viene letteralmente «stappato» dalla piccola eroina protagonista del film,
Chihiro. Con quel gesto lo spirito del fiume si libera dalla montagna di
rifiuti (e pepite d’oro) che ne ingrassavano orribilmente la figura.
L’origine del nome Inokashira , letteralmente «la prima
sorgente», «l’acqua migliore», deriva da una lode di Tokugawa Ieyasu che,
quando si recava nella zona di Mitaka per la caccia con il falcone, si faceva
preparare il tè con l’acqua di quella sorgente che, affermava, era la piú
buona di Edo.
Il laghetto, su cui si rovesciano i rami dei vecchi ciliegi, è oggi
scheggiato di pedalò e di coloratissime barche. Se ne possono affittare di
ogni foggia, anche a forma di cigno, ma servono energici colpi di remi per
scivolare tra le acque. E tuttavia una superstizione fa sí che non tutti
dovrebbero salire a bordo. La presenza di un santuario dedicato al culto
della gelosa dea Benten, nell’isolotto dall’altra parte del ponte NANAI-BASHI
– una lunga saldatura di legno che spezza in due quello che dall’alto
ha una forma uterina –, intima infatti alle coppie di non attraversare insieme
il laghetto prima di essersi sposate, pena la futura separazione. La credenza
tuttavia non sembra aver attecchito poi tanto, perché nei sabati e nelle
domeniche di tempo sereno di coppiette il lago è ricolmo fino a scoppiare. E
ricordo distintamente come anche noi lo tagliammo a zig-zag a bordo di un
pedalò scalcinato almeno un anno prima di sposarci.

Ma ecco che Sōsuke mi tira la mano, ed Emilio si blocca. C’è una voce
che si alza vigorosa. Si apre alla fine del fascio di scale che, costeggiando il
grande magazzino Marui, sfocia nel celeberrimo ristorante di yakitori Iseya
. C’è un uomo dai ricci incredibilmente voluminosi e lunghi, una
fascia bianca a cingergli la testa, gli occhiali dalla montatura ampia e spessa
e gli occhi spiritati. Francamente, a prima vista, pare un pazzo, e invece…
– È un artista. Ci avviciniamo?
A Tōhō Rikimaru, questo il suo nome, è dedicata persino una pagina
Wikipedia. Ha coniato per se stesso una nuova parola: mandoku-ka ,
ovvero «colui che legge a voce alta i manga», il declamatore di manga.
Attore, doppiatore, presentato durante molti programmi televisivi, alcune
guide sui generis lo citano come fosse una specialità della zona, Tōhō si
divide in verità tra Kichijōji e Shimokitazawa, e partecipa a eventi annuali al

197
parco di Yoyogi. Ogni volta che appare ottiene l’attenzione di tutti.
Indossando una T-shirt con il proprio ritratto, spalanca sul leggio le tavole
fitte di manga, impugna una penna rossa e inizia, d’un tratto, come se
scoppiasse una bomba.
Accade anche ora, accade ogni volta. I bambini sono immediatamente
risucchiati dalle movenze sempre inattese dell’uomo. Non capiscono fino in
fondo quello che dice, cosa racconta. Ma sentono come nella voce e nella
gestualità ci sia un costante cambio di scena.
– Che strano! – sussurra Sōsuke ridendo e in quella risata capisco che
«strano» significa «divertente».

Sale l’autunno, come una marea.


Le sere si fanno sempre piú brevi, sembrano ristrette in lavatrice: le infili
che sono comode e te le ritrovi sempre piú piccine, giuste giuste per un
bambolotto. Appena dismesso Halloween arriva Natale. Già da novembre
nei negozi compaiono ghirlande, fiocchi, riproduzioni incerte di un Babbo
Natale che resta nell’immaginario dei bimbi di tutto il mondo. Quasi ci si
sentisse orfani della festa appena passata, ecco che gli spazi che rischiavano
di restar vuoti, subito si fanno pieni di rosso e di barbe, e di renne che
sorridono con un mucchio di denti. Già dal Giorno della Cultura una parte
dei negozi è occupata da oggetti che richiamano slitte e abeti; un negozietto
di artigianato locale ha persino adattato le tecniche tradizionali per la
produzione di bamboline di cartapesta – quelle che dondolano in equilibrio
su lievissime bacchette di bambú – ai simboli e temi del Natale cristiano.
Bloccata in treno al ritorno dal lavoro, mi domando se la percentuale di
suicidi cresca con il ritrarsi anticipato del sole, con l’irrigidirsi delle
temperature. Ogni anno muoiono sotto le rotaie dei treni di Tōkyō centinaia
di persone (1108 secondo i dati del 2018), e l’annuncio del motivo per cui il
treno non si muove o è in ritardo viene dato con la formula vaga di jinshin-
jiko , che tradotta in inglese sugli schermi a bordo dei convogli
oppure in stazione suona cosí: PASSENGER INJURY.
La gente sbuffa, sbuffo anch’io per la stanchezza, dopo i primi mesi di
vita in Giappone in cui invece, non avendo ancora la dolorosa abitudine a
questo tipo di morte, mi prendeva una insana tristezza immedesimandomi in
quella della persona che si era tolta la vita. Adesso, per quanto cinico possa
sembrare, capisco che la percezione di ogni cosa la fa l’abitudine.
Chi muore sotto i treni muore decine di migliaia di volte

198
nell’immaginario di tutti quelli che vorrebbero tornare a casa mentre i loro
treni si accavallano come dune di sabbia, e tuttavia quel qualcuno in loro
non conserva né volto né nome. Anzi, pare che a morire travolta sia sempre
la stessa persona, due linee unite in un punto poco sopra la metà, come
spiega il kanji di «persona»: hito . Un senza-volto, uno yōkai. Una non
persona.

199
DICEMBRE

Il mese dei bonzi affaccendati

Shiwasu
Per il vecchio calendario è il primo mese dell’anno, per il nuovo invece l’ultimo. Il
freddo cresce severo, irrigidisce i corpi e la gente indugia sempre meno per strada:
allora dicembre è kukan , ossia la fatica che il freddo intensifica e accompagna.
È anche harumachi-zuki , «il mese che attende la primavera», e insieme
kureko-zuki , «l’avvento del Capodanno», dicitura usata in contrapposizione
a kureshizuki , che invece intende proprio le celebrazioni di inaugurazione
dell’anno.

I bonzi che si danno da fare evocati nell’antico nome di dicembre si dice che siano
intenti ai preparativi di Capodanno e in particolare alle numerose cerimonie
buddhiste che serve officiare per scavalcare il ciclo dei mesi. Dicembre è tuttavia
anche goku-getsu : il kanji di «mese» è preceduto da «estremo» , il mese
che raggiunge l’estremità, l’ultimo prima del cambio di data. Due le interpretazioni
per l’altro nome rō-getsu , «il mese delle candele»: una ricorda che l’8
dicembre è il giorno in cui Buddha raggiunge il nirvana, l’altra rimanda all’origine
cinese di , carattere della congiunzione. Dicembre, insomma, come limite che
collega il nuovo anno al precedente.

Tempo del riordino e del dono, prima di chiudere.

Dicembre è un mese di chiusura.


Fin dall’antichità si svolgono ō-sōji , ovvero le «grandi pulizie»
per accogliere bene l’anno che arriva. È la preparazione, l’ultima fatica che

200
precede un relativo riposo. Nel pensiero giapponese definire l’inizio e la fine
di ogni cosa aiuta ad affrancarsi dalla confusione emotiva, a dare forma a
quanto è liquido e sfugge a una struttura.
Nello shogunato del periodo Edo (1603-1867) era fissato per il 13
dicembre del vecchio calendario lunare un giorno dedicato alla pulizia del
Castello di Edo: susu-harai no hi . La gente comune, preso
d’esempio il costume virtuoso del bakufu, adottò quell’usanza.
La parola – mi spiega Yuki, figlia del bonzo di un grande santuario nella
prefettura di Yamagata – proviene da susu , che significa «fuliggine»,
«nerofumo», «polvere», e harai , che vuol dire «pulire», «togliere», ed
è assimilata nell’immaginario alla pulizia dei santuari shintoisti e dei templi
buddhisti. È grottesco e divertente osservare i bonzi, nei loro abiti larghi e
pieni di stoffa, le caviglie pelose che emergono dai gonnelloni del saio,
impegnati a raggiungere gli angoli piú ostici da spolverare. Brandiscono
particolari strumenti, i susu-bonten , canne di bambú sulla cui punta
è fissato un mazzetto di paglia o d’altro materiale. Solo a immaginarli viene
allegria e basta recarsi in uno dei tanti santuari del Giappone per vederli in
azione.
Anche se in scala assai piú ridotta, in casa replichiamo l’impegno,
immaginando l’arrivo di un ospite intransigente. Cosí, fino al Capodanno,
ogni domenica mattina di dicembre, porgo ai bambini vecchi spazzolini e
straccetti, li invito a scovare briciole dei loro pasti disordinati, del pane della
mattina, dei biscotti della merenda. – Inseguite lo sporco! – gli dico. – Fate
come Mei e Satsuki, – le piccole protagoniste del film Il mio vicino Totoro
che braccano le palline di fuliggine.
Sōsuke ed Emilio pretendono il fazzoletto in testa come nei cartoni
animati. Osservandoli ricordo quello che mi disse una volta la maestra di
Sōsuke: – La piú grande fortuna dei bambini è essere in grado di rendere
gioco anche le cose piú serie.
Mentre ci affaccendiamo nelle pulizie, alzo gli occhi ai monti fuori della
finestra. Il mondo d’un tratto rallenta.
Come recita un bellissimo kigo di questa stagione, i monti paiono giacere
in un sonno profondo, ricoperti come sono da foglie precipitate sul letargo
degli animali. Yama-nemuru , «le montagne che dormono»: una
parola che fa soprattutto riferimento alle alture modeste e ammantate di
boschi.

201
Dici Shibuya e pensi all’incrocio, ai passi affrettati della gente. Dici
Marunouchi e si staglia il profilo scarlatto e allungato della stazione di
Tōkyō. E quando dici NIHON-BASHI è il lungo e larghissimo viale che unisce
Yaesu a Ningyochō a venire alla mente e, soprattutto, il suo magnifico
ponte, quello che dà il nome alla zona: Nihon-bashi , letteralmente
«il Ponte del Giappone». Ciò nonostante cinquant’anni fa è stato mutilato.
Costruito in legno nel 1603, rinato in pietra nel 1911, per il suo
centenario è diventato anche una stazione fluviale. Era il 2011. È il luogo da
cui partivano le cinque vie principali di Edo e pertanto anche destinazione
verso cui confluivano tutte le merci del paese. La distanza stradale in
chilometri da Tōkyō si calcola ancora oggi a partire da qui.
È impressionante osservare cartoline di un tempo, ripercorrerne il profilo
originario che ora è stravolto, dopo che il ponte venne sormontato da una
sopraelevata per le Olimpiadi del 1964. E tuttavia, da anni si pensa di
riportarlo all’antica bellezza, sbrigando il traffico d’auto e di camion
sottoterra. E sarà proprio dopo le prossime olimpiadi che si concretizzerà il
progetto e si riporterà il ponte ai fasti di un tempo: da un’olimpiade all’altra.
Ricordo che un amico architetto mi raccontò di un movimento di
opinione che enfatizzava l’importanza di avere il cielo sopra di sé, di
vederlo. La contemplazione del cielo veniva considerato un diritto
imprescindibile dell’individuo. Lo trovai meraviglioso.
In questo senso Nihon-bashi è simbolo da un lato del compromesso
urbanistico di una Tōkyō che cercava costantemente di superarsi, dall’altro
del discorso che lo scrittore Tanizaki Junichirō affrontò nelle sue opere, e in
prima persona, ovvero l’incontro-scontro dell’Occidente con il Giappone
della tradizione: quell’elogio dell’ombra che ha tessuto verso la fine e che,
applicato alla capitale, ne svela le trame di luce e di buio, l’equilibrio tra le
sue anime: wa , Giappone, e yō , Occidente.
A lato del ponte, dalla parte di NINGYO-CHŌ , cresce un ciliegio, uno
soltanto, che allarga i suoi rami color ambra in cielo – completamente nudi
in dicembre –, mentre piú giú scorre l’omonimo fiume, Nihon-bashi-gawa
. Da qui parte quasi ogni giorno la crociera che presenta Tōkyō
vista da sotto la gonna, il rovescio delle strade, la visuale affossata e inedita
che si ricava nel guardare la capitale dai letti dei fiumi. Ricordo che quando
salii la prima volta in battello, mi parve d’essere tornata bambina, e di
guardarla dal basso della mia statura ancora da farsi. Lei, Tōkyō, l’adulta.
– Sí, lí a sinistra, – dico allungando la mano. – Basta scendere quella

202
scala per accedere alla stazione fluviale. È affascinante ammirare la parte
sottostante dei ponti, Tōkyō dall’acqua.
I bambini non mi danno ascolto. I marciapiedi sono larghi e bianchissimi
in questa zona, e loro sentono una libertà tutta nuova. Nell’aria frizzantina di
dicembre è difficile contenere le corse. Un attimo e ci ritroviamo dall’altra
parte.
Con il ponte alle spalle, provo sempre un tuffo al cuore nel girarmi verso
Yaesu e assaporare quell’atmosfera strana, che di rado si prova in una città
tanto ampia, nel guardarla cioè come da sotto una gronda, o da sotto una
mano che fa da visiera quando il sole è accecante.
A pensarci, mi dico che vale sempre la pena di guardarsi alle spalle in
Giappone; non per cautela, che anzi non serve, essendo Tōkyō una delle
capitali piú sicure al mondo, ma per cogliere l’inaspettato, qualcosa di
sorprendente appiattito a lato d’una stradina secondaria, o in cima a un
palazzo. Qui, ad esempio, è il colpo d’occhio che si realizza virando da
Ningyo-chō a Nihon-bashi, intrufolandosi diritti nei grandi magazzini di
Mitsukoshi.
Tutto riporta al ponte che dà il nome al quartiere, alla luce che cade tra i
due sensi di marcia dell’autostrada, che corrono paralleli sopra a tutto.
Penso d’un tratto che sarebbe bello raccontare la Nihon-bashi di
Tanizaki, edokko per eccellenza – cioè abitante di Edo doc. La sua
narrazione densa ed elegante si intreccerebbe al racconto del quartiere che
confina con quello in cui sorge la Stazione di Tōkyō, nella produzione
smisurata di romanzi, saggi e racconti in cui si è speso per descrivere la vita
che andava mutando, la capitale stravolta non tanto dalla
«modernizzazione», quanto dall’«occidentalizzazione». Recuperando gli
scorci, la cultura dei salici e dei ciliegi, quel grumo di tradizioni, luoghi e
persone che crepitava come carta su un rogo, si accartocciava di una
bellezza straziante e malinconica.
Sarebbe bello, indubbiamente. E sarebbe, però, il racconto di un
Giappone che non esiste piú.

Risale precisamente a un lontano 21 dicembre l’apertura dei primi grandi


magazzini in Giappone.
Fin dal periodo Edo, nella zona di Nihon-bashi, prosperava un noto
negozio di tessuti per kimono. Si chiamava Echigoya ed era stato
fondato da Mitsui Takatoshi nel 1673. Fu nel 1904, proprio

203
innestandosi su quell’attività, che venne inaugurato il primo grande
magazzino che, dalla fusione dei due nomi, quello del negozio e quello del
suo fondatore, fu chiamato MITSUKOSHI GOFUKUTEN . Tre anni
dopo, vi si sarebbero aggiunti ristoranti e successivamente, nel 1914, furono
installate anche scale mobili e ascensori, venendo via via ad assumere la
forma di un grande magazzino moderno.
Si trattò di un evento importante non solo per la storia dei consumi ma
soprattutto per la relazione chiave che andò a stringersi tra le ferrovie e
questi enormi complessi commerciali, connessione che riveste tuttora una
immensa rilevanza per lo sviluppo della cultura del paese.
Basta allungare un passo dentro Mitsukoshi per ricavare la sensazione di
entrare in un regno fatto di marmo e buone maniere, un universo che mette
al riparo dal freddo esterno e da odori molesti. Ogni spiacevolezza è
intercettata ed eliminata come sotto la mira di un cecchino del comfort. La
temperatura ambientale perfezionata, gli odori esterni soffocati da nuvole
gradevolissime di profumo: precipitiamo nel regno dell’irrealtà,
dell’immacolato, dell’eternamente nuovo e pregevole. Che in fondo è tutto
quanto comunica il lusso.
Nel palazzo della Mitsukoshi, dei sei ascensori installati, i due centrali
hanno una giovane addetta stretta nella sua impeccabile uniforme che aziona
manualmente l’impianto. A ogni piano, la elevator girl spinge la leva, esce
sul piano, con il suo cappellino in tinta e i guanti bianchi, annuncia
graziosamente l’arrivo dell’ascensore e la destinazione. I clienti che hanno
pigiato il bottone di chiamata e si sono allontanati nell’attesa, si affrettano a
fare ritorno. La divisa e la gestualità sono un tuffo negli anni Cinquanta.
Ciò che è antico ha il sapore della ricchezza, dell’esclusività e
Mitsukoshi, che si rivolge soprattutto a clienti di una fascia d’età avanzata e
assai benestante, punta a comunicare questa precisa sensazione alla propria
clientela, quella d’essere in qualche modo speciale, meritevole di diritti
esclusivi. Il settimo piano, non plus ultra del privilegio, è adibito
all’accoglienza riservata a quei clienti che possiedono una speciale cartolina
d’invito.

È abitudine in Giappone, con l’approssimarsi del nuovo anno, fare doni


alle persone verso cui si è maturato un debito di riconoscenza. Anticamente,
si faceva dono delle offerte per il Capodanno alla casa paterna; poi, dopo
una serie di mutamenti nei costumi, si giunse all’attuale forma di o-seibo.

204
Adesso è una immancabile tradizione insieme alla «gemella estiva» di o-
chūgen , che va da inizio luglio a metà agosto.
In origine ci si recava di casa in casa per porgere auguri e doni alle
persone che si volevano ringraziare. Oggi è piú raro.
Al banco la commessa sorride d’ufficio, sia a chi effettivamente fa
acquisti, sia a chi osserva i prodotti con curiosità. Quel garbo, almeno per
me, risulta da sempre invitante quanto le merci. La commessa aiuterà i
clienti a sfogliare l’immenso catalogo, a valutare insieme il regalo piú
adatto, guiderà alla compilazione del foglio di spedizione che racconta come
oggigiorno non ci si rechi piú di persona, ma si demandi alle poste il
compito della consegna. Non è il volto né la presenza: è piuttosto il dono
che veicola il significato e la riconoscenza.

I grandi magazzini, di altro tenore rispetto ai vari outlet e mall, sono


bellissimi da vedere, l’architettura è densa di storia e particolari. Qualche
memoria straordinaria vi rimane sempre appuntata. Come accade anche agli
storici grandi magazzini di TAKASHIMAYA , di cui è un’altra istantanea a
imprimersi definitivamente nel mio immaginario: il bianco e nero di una
fotografia che ritrae un elefante (sí, un elefante!) sul tetto. Era il 1950,
l’elefante si chiamava Takako.
La riguardo, mostrandola a Ryōsuke. Ai bambini no, fraintenderebbero
tutto, urlerebbero: «Che bello!» quando io invece so che non c’è niente di
meraviglioso. Mi ricorda piuttosto l’incipit del romanzo di Ogawa Yōko
Nuotare con un elefante tenendo in braccio un gatto e la dolorosa storia di
Indira: salita da cucciola sulla terrazza, dopo una cerimonia di addio si
scoprí che non entrava piú nell’ascensore e fu costretta a rimanervi bloccata
trentasette anni, con le catene strette alle zampe, fino alla morte.
Takako, cresciuta anche lei eccessivamente, dovette scendere le scale ed
essere condotta allo zoo. Ma rimane comunque qualcosa che l’etica
animalista contemporanea non perdonerebbe.
Quando lo lessi nel romanzo mi parve un perfetto artificio narrativo. Ora
so che la realtà lo contempla.

La grande neve sul tempo che cambia.

È un attimo e sorpassiamo taisetsu , altro periodo stagionale dei

205
ventiquattro del calendario lunare che cade intorno al 7 dicembre e in cui,
come suggeriscono i caratteri di grande ( ) e di neve ( ), i fiocchi cadono
abbondanti soprattutto sul versante del mar del Giappone. Su quello
oceanico, invece, si susseguono giorni di sereno, su cui soffia un vento
gelido e secco. La stanchezza dell’anno accademico inizia a farsi sentire e la
preparazione agli esami finali incalza.
Il 13 dicembre, come si avvertisse una strana accelerazione nell’aria, la
città pare in fermento. In superficie tutto è efficiente e iperattivo: qualcosa
va mutando.
– Oggi iniziano i preparativi di Capodanno, – mi spiega la maestra di
Emilio.
Niente patate da intagliare come si era soliti fare una volta nelle case –
perché con bimbi di quest’età non bastano gli occhi –, ma useremo i piedi:
le piante scalze intinte nel colore. Queste lasceranno impronte disordinate e
festose sull’immenso lenzuolo di carta washi, che hanno srotolato nella sala
comune. Sarà una festa d’arti danzanti e di grida di piccini, di cui resterà
memoria solo nelle tinte mescolate sul foglio che sarà messo ad asciugare,
mentre i bambini si laveranno mani e piedi, mangeranno alla mensa, e
scivoleranno nel riposino pomeridiano. Un ritaglio di questo gigantesco
dipinto diventerà la cartolina augurale che ogni bambino porterà a casa in
dono alla famiglia.
La sensazione di elettricità nell’aria è palpabile. Ovunque i frutti rossi del
vischio, il pruno del solstizio d’inverno cosí come la stella, la rosa e il cactus
di Natale, e i fiori purpurei della cattleya. Cosí anche le primule, i biwa, i
nespoli del Giappone che sono ora in fiore, suggeriscono che è shōgatsu-
koto-hajime , ovvero «l’inizio delle faccende di
Capodanno», in linea generale il 13 dicembre, ma per alcune zone del paese
già l’8. Secondo l’antico calendario lunare, non solo era il giorno in cui
iniziava il rito di recarsi a casa delle persone che si volevano ringraziare, per
porgere auguri e portare doni, ma questo è anche il giorno in cui prendono
avvio le faccende necessarie ad accogliere il nuovo anno. Si fanno le
«grandi pulizie», si preparano i mochi, si scrivono cartoline augurali
chiamate nengajō , si radunano le offerte di Capodanno: da questo
momento si susseguono giornate assai indaffarate.
Bisogna assolutamente fare in modo di concludere tutte le faccende entro
il 28, giorno chiamato go-yō-osame , che sancisce la fine dei
lavori annuali negli uffici pubblici e generalmente anche nelle aziende

206
private, pur con varie eccezioni.
In caso contrario, è indispensabile sospendere il 29 – chiamato, per un
gioco di parole, «il giorno della fatica / della preoccupazione / della
difficoltà / dell’angustia» da ku no hi – e riprendere il 30. Tutto
quanto si finisce per fare il 31 viene chiamato con fastidio ichiya-kazari
, «la notte della decorazione», sottintendendo una notte in
bianco per concludere il lavoro.

Quest’anno abbiamo deciso di farci da soli le nengajō. Seguiamo un


piccolo laboratorio per intagliare la patata dolce, robusta nel sapore e
pastosa a dicembre ma che da cruda pare di legno, e quindi perfetta per
creare uno stampo personalizzato da intingere nell’inchiostro e da pigiare
sulla carta. Anche lí, grazie alle dita esperte della sensei, la parte piú noiosa
e complessa ci è risparmiata. Sōsuke scolpisce una specie di sole (i cui raggi
vengono raddrizzati in due o tre colpi dalla sensei), io un daruma. E a noi
resta il divertimento e l’elaborazione di una memoria.
Come per il discorso sui doni di o-seibo, se una volta le persone erano
solite uscire di casa e recarsi a trovare amici e parenti per porgere gli auguri
del nuovo anno, adesso ci si affida alle poste per l’invio delle cartoline
nengajō.
Prima era costume scriverle il 2 gennaio, giorno di kakizome, «il giorno
della prima scrittura», mentre adesso le si spedisce alla fine dell’anno perché
siano recapitate a Capodanno. Si cerca, comunque, di non superare il 7
gennaio.
Esistono formule tipiche di apertura e di chiusura, valide esclusivamente
in questa occasione, che si stampano insieme a motivi tipici della stagione
(daruma, giocattoli di Capodanno, frecce benauguranti, illustrazioni
dell’animale corrispondente all’anno a venire, bambú, mochi, aquiloni,
origami di carta eccetera). La scrittura, come sempre nelle occasioni
tradizionali, scorre dall’alto verso il basso, da destra a sinistra.
Quest’anno, nel mazzetto che giunge fissato da un elastico fine, ci sarà
recapitata la cartolina del veterinario, dell’asilo di Sōsuke, della mia vecchia
insegnante di giapponese e della famiglia di homestay. Andrea scriverà che
tenta di leggere libri al suo bimbo di un anno, mezzo italiano mezzo
giapponese come i miei, ma che quello lo guarda perplesso. La signora
Kusama ci augurerà un bellissimo anno. I signori Tokuhira, la cui figlia,
dopo anni di reclusione in casa, è sbocciata, si è sposata, ha avuto un figlio,

207
e dalla foto stampata sul retro della cartolina trasparirà tutta la gioia di
esibire quel nipotino dallo sguardo costantemente meravigliato, frutto
dell’affrancamento definitivo dallo stato di hikikomori della figlia. La loro
felicità sarà contagiosa.
Ryōsuke e io leggeremo a una a una le nengajō sparse sul tavolo del
soggiorno, mentre i bimbi giocheranno sotto con gli Ultraman.
Una manciata di parole evocherà il ricordo di ognuno dei mittenti, a
mano a mano che le sfoglieremo. Avvertiremo il tempo che passa. La
stratificazione delle esistenze. A questo servono in fondo le nengajō.

Le strade prendono nuovamente a profumare di pino, la tavola di


mandarino e altri agrumi, le foglie diffondono una fragranza di inizio e di
fine, nell’atmosfera di quella gioia misurata che è il Capodanno in
Giappone, la preghiera, la riflessione su un tempo che cambia. Un altro anno
è passato.
Le pasticcerie sono in grande fermento e con Sōsuke ci fermiamo nella
nostra preferita a salutare Suzuki-san che ci mostra un mochi che supera i
trenta centimetri di raggio. È enorme.
Oggi i mochi si acquistano al negozio, ma un tempo era possibile vedere,
qui e là nel quartiere, persone affaccendate in quello che viene chiamato
mochi-tsuki : si poggiava un grosso mochi cotto al vapore in un
mortaio e lo si pestava in due, con il tipico movimento accompagnato
dall’emissione ritmata della voce – quello di chi dava il tempo a chi
maneggiava il pestello e di chi, nel mortaio, con le mani avvolgeva e
riavvolgeva la pasta di riso. Conservo il ricordo di questa precisa scena che
si svolge sotto i nostri occhi – con mia sorella e suo marito – a Nikkō: un
uomo e una donna, il mortaio e il pestello, intenti a plasmare quella materia
indescrivibile che ha l’aspetto della gomma.
Nel trambusto di dicembre si inserisce anche il Natale, che tanto poco ha
di religioso in questo paese. Romanticismo e consumismo, in un cocktail
fatale. Se lo si ama lo si attende con trepidazione, altrimenti passa
inosservato. Natale qui vuol dire soprattutto scene d’amore, declinate nella
foggia minimal e discreta che vige in Giappone, tantissimi tv drama,
prenotazioni di ristoranti nella sera della vigilia da trascorrere insieme. Pare
un San Valentino anticipato, piú adulto, l’ennesima occasione di subire il
fascino della stagionalità: i menú, il packaging dei prodotti, ogni cosa è un
inno al presente, solo «qui e ora». Appena superato il 25 dicembre, sparirà

208
tutto.
Lo si è introdotto in Giappone a partire dal periodo Meiji (1868-1912)
ma si è diffuso tra la popolazione nel periodo Shōwa. Ha pescato, come da
un catino pieno di stelle, le cose piú belle della celebrazione da tutto il
mondo, assemblandole in un disegno originale. Il Giappone, del resto, fa
sempre cosí. Ecco l’albero di Natale (di origine tedesca) accanto a una
popolare torta di fragole e panna, o decorazioni carine in cui i frutti
diventano corpi e berretti di minuscoli Babbi Natale insieme al dolce
francese Bûche de Noël, e poi le cosce del pollo che terminano con
rivestimenti a forma di cappellini da chef.
Il miscuglio è tale che rinuncio a risalire all’origine di ogni cosa. Pare la
cesta dei giochi dei bimbi: senza capo né coda, ma piena di gioia.

Tracce di fiumi sepolti e di gatti scomparsi.

Una delle mie strade preferite a Tōkyō, da sempre, è CAT STREET: la


scovai per caso un giorno dei miei primi mesi di vita in Giappone.
Passeggiavo, allontanandomi gradualmente dalla stazione di Shibuya, avevo
ventitre anni, frequentavo l’International Christian University come
studentessa ricercatrice e non sospettavo minimamente che non sarei piú
tornata in Europa. Ricordo che quella mattina ero sola e che percorsi Cat
Street immersa in un’animata conversazione al cellulare con quello che,
dopo poco, sarebbe passato da «fidanzato storico» a «ex».
Mi persi, come sempre accade a chi non guarda dove cammina, e ricordo
soprattutto la sovrapposizione stridente, ma bella, tra la spiacevolezza delle
parole pronunciate (e ricevute) e la naturale, evidente meraviglia dei luoghi,
l’irregolarità del paesaggio, i negozi, la moda dirompente dei ragazzi che
immortalavo con la macchina fotografica tenendo il cellulare premuto tra
spalla e orecchio. Senza conoscerne il nome, tentai di ritrovarla piú volte,
quella strada, partendo da Shibuya e da Harajuku, ma invano. Ora invece so
esattamente dov’è e so che tornarvi periodicamente non cancella, nella
stratificazione naturale, i ricordi.
A ritornare nei luoghi piú amati si teme solitamente l’aggiustamento
approssimativo della memoria, la prepotenza che il nuovo paesaggio e il
nuovo sentire esercitano su quello che era, su come esso appariva: l’albero
di Natale che sembrava immenso da bambini, un giardino che si credeva

209
foresta nella casa dei nonni in campagna, certi film entrati nella mitologia
dell’infanzia, cose che spaventavano a morte o rendevano autenticamente
felici.
Tornare nei luoghi di questa città, tuttavia, non elimina i ricordi ma ne
crea di nuovi; si irrobustisce anzi la memoria perché Tōkyō cambia
costantemente, non ti permette quasi mai di fare ritorno, di replicare il passo
in posti dove sei già stato una volta: da un anno a un altro scompaiono caffè
e ristoranti, edifici interi vengono demoliti e ricostruiti diversi, campi
coltivati lasciano il posto a casette a due piani, e le rotaie continuano ad
alzarsi un metro dopo l’altro, sempre piú su, in nuovi tratti sopraelevati.
E allora, Laura, dov’è Cat Street?
Mi piace partire soprattutto da qui, dalla stazione di Harajuku sul viale su
cui stanno ritti i circa centosessanta olmi di Omotesandō. Non è necessario
tenersi a destra perché per individuare l’inizio di Cat Street si può comunque
usare come riferimento sia Kittyland, il parco divertimenti tutto a tema
Hello Kitty che è pochi metri avanti, sia un cavalcavia che si potrà
percorrere a piedi e che condurrà esattamente all’ingresso della via. Una
volta esisteva un ponte analogo all’inizio della discesa di Omotesandō, una
sottile linea azzurra che la fendeva in orizzontale, subito davanti allo spiazzo
del parco di Yoyogi. Ora è sparito, sostituito da una distesa di strisce.
Rimane tuttavia quello piú giú, e sarà proprio lui che ci suggerirà la
presenza di Cat Street. Si chiama JINGŪ-MAE HODŌKYŌ ,
«cavalcavia pedonale di Jingū-mae», come recita la targa a lato dei primi
scalini. È blu, tappezzato di adesivi con accostamenti assurdi che paiono
poesie futuriste, haiku espressionisti, ed è bello salirvi anche solo per
allungare lo sguardo sulla città. Tōkyō è piena di queste passerelle aeree e
per chi ama scendere e salire, e vedere che differenza fanno sette, otto, dieci
metri piú su, quei passaggi sono fonte di continua meraviglia. Soprattutto
nelle città che tendono a interrompere costantemente lo sguardo, a
spezzettarlo in piccolissimi tratti di strada alternati a barriere di cemento di
varia altezza, è bellissimo stiracchiare la vista. Per chi ama fotografare, poi,
lo è forse ancora di piú: dall’alto delle passerelle, si rispetta la privacy delle
persone e insieme risulta facile coglierle nei fotogrammi della loro vita.
Giú, nelle corsie in doppia direzione di OMOTESANDŌ , vedo passare
alcuni taxi multicolori delle tante compagnie attive a Tōkyō; sul
marciapiede invece passano persone sole, donne soprattutto, coppie o
comitive che strusciano le suole su e giú guardando distrattamente le

210
vetrine; sui banchi di un fioraio ecco piante e boccioli d’inverno, narcisi,
cavolo verde fiorito, pruni, oppure fiori come l’adonide o il manryō dalle
bacche rosse che hanno la caratteristica di mantenere nei kanji del proprio
nome significati benauguranti per l’anno che inizia; e poi il piccolo autobus
color arancio sulle cui fiancate sono applicate illustrazioni del cane
Hachikō.
Basta scendere nuovamente sul viale, tornare indietro di qualche passo,
per trovarsi nel punto in cui prende avvio Cat Street. L’armonica silhouette
di Yonderu – scultura con le sembianze di una giovane donna, aggiunta nel
2013 e bella da fotografare soprattutto nel pomeriggio, in controluce, come
fosse di carta – dà il benvenuto alla passeggiata che, in diagonale, collega
Harajuku a Shibuya e sotto cui non tutti sanno che scorre un fiume. Sono
tante le stradine intime e mute di cui si intuisce l’origine di corso d’acqua,
sia per il percorso sinuoso, sia per la superficie sopraelevata di tre, quattro
gradini rispetto al livello del camminamento laterale, nel quale, qui a Cat
Street, si trovano deliziosi negozi, interni a palazzine dall’architettura curata
e originale. C’è The Bingo Brothers, dove assemblare collane uniche al
mondo, o Candy Show Time, che fabbrica originali caramelle davanti agli
occhi avidi e sbalorditi del turista, o il negozietto di takoyaki che espone un
polpo di stoffa dondolante sulla tettoia rossa…

211
212
Perché questo nome, «Cat Street»? Alcuni dicono perché brulicava di
felini, altri perché la sua linea stretta e sinuosa ricorda la silhouette di un
gatto. Con certezza nessuno lo sa e, come capita a certi racconti sospesi, è
affascinante che resti dello spazio da riempire immaginando un ultimo tratto
di storia ognuno per sé. Il ricordo tuttavia che a distanza di anni mi resta
maggiormente impresso di questo posto sono le tantissime biciclette legate
alle sbarre, soprattutto quelle leggere, da corsa, che forse piú di ogni altra
cosa comunicano l’atmosfera giovane e rilassata che appartiene a Cat Street.

Ōmisoka è il termine che in giapponese racconta l’ultima sera


dell’anno: miso significa «30» e fa riferimento al trentesimo giorno, alla
fine del mese, mentre l’ō iniziale significa «grande». Un tempo, quando
di lune ogni mese ne aveva 29 e non 30 o 31, ogni ultimo giorno era
chiamato cosí. Nell’antichità si credeva inoltre che il nuovo giorno iniziasse
dopo il tramonto; la notte di Ōmisoka, pertanto, è davvero anche il principio
del nuovo anno.
Una diversa lettura della stessa parola, tsukigomori , invece, gli
attribuirebbe un diverso significato: «giorno in cui la luna resta nascosta».
Mi fa ridere l’assonanza tra hikikomori e tsukigomori, mi fa pensare a una
luna imbronciata, che si ritira nella propria stanza. Un vassoio pieno di
offerte poggiato fuori dalla porta chiusa.
È generoso di pietanze speciali questo periodo dell’anno. C’è grande
fervore per i preparativi delle celebrazioni del Capodanno: si prepara l’o-
sechi-ryōri, il toshikoshi-soba, si va al tempio per udire i rintocchi della
campana.
Mentre ricapitoliamo a voce alta quanto resta da fare, Sōsuke si intrufola
nella conversazione.
– Io oggi non posso dormire, – esclama all’improvviso. Ha il tono
convinto, e ci allarma entrambi.
– In che senso non puoi dormire?
– Sennò poi divento vecchissimo come nonno e nonna.
Ci guardiamo perplessi. Riusciamo a risolvere parte dell’enigma solo al
ritorno di mia suocera, che ci ricorda come Capodanno coincida
tradizionalmente con yo-fukashi , un’espressione che significa
letteralmente «star svegli fino a notte fonda». Un tempo, per dare il
benvenuto agli dèi dell’anno – toshi-gami , protettori delle cinque
granaglie e coincidenti in buona parte con gli spiriti degli antenati – era

213
costume rimanere svegli tutta la notte. L’usanza di uscire per andare a
rivolgere la prima preghiera al tempio e battere un colpo sulla campana
rituale è traccia di quell’atmosfera. Sarà tuttavia dopo una settimana che
scopriremo l’anello di congiunzione tra la preoccupazione di Sōsuke e
questa tradizione, che stava in una performance di kamishibai cui ha
assistito all’asilo: pare che la maestra abbia raccontato ai bambini la
leggenda per cui, coricandosi troppo presto la notte di Capodanno, si veniva
puniti con un risveglio infestato da rughe e capelli bianchi…

Sulla tavola è un tripudio di forme e colori, scatole laccate traboccanti di


pietanze che non si gustano in nessun altro periodo dell’anno. L’o-sechi
ryōri lo si offriva un tempo alle divinità dell’anno e ancora oggi lo si
prepara fino alla notte di ō-misoka. Nulla è casuale, tanto che esistono
dettagliatissime pubblicazioni sul significato di ogni pietanza, sull’elaborata
preparazione, sulla precisa simbologia legata al nome, alle forme, alle tinte.
Come kazu no ko , uova di aringa per la prosperità della
discendenza, e konbu-maki , involtini di alghe konbu, simbolo di
allegrezza, per via dell’assonanza con il verbo yorokobu «rallegrarsi».
Queste speciali scatole paiono mappe, tanto minuziosamente regolamentata
è la disposizione delle vivande al loro interno. È un puzzle che vive sui
giochi di parole, in questo paese dalla lingua stracolma di assonanze.
La vista supera il gusto, dice mio suocero, che non ama particolarmente
l’o-sechi. – Questi però li attendo ogni anno con trepidazione, – dice
indicando allegro un kuwai (Sagittaria sagittifolia), chiamato anche
«erba saetta», e portandone uno alla bocca. Personalmente amo i grossi
fagioli neri e la frittata dolce di uova. Di questi vassoi se ne possono
ordinare con ampio anticipo anche al konbini, nei supermercati o in
ristoranti tradizionali di cucina giapponese che esibiscono già da novembre
l’offerta, e l’ampia gamma di prezzi. Ai bambini è raro piacciano tutte le
pietanze e succede cosí che ogni famiglia sviluppi le proprie varianti
bambine, la declinazione domestica della festa. A casa Imai-Messina la
risposta è l’oden.
Ci sono tuttavia anche due punti fermi a casa nostra: la soba dell’ultima
notte dell’anno e la zuppa della colazione della prima mattina, o-zōni
.
Anche quando eravamo solo fidanzati, anche quando abbiamo trascorso
il Capodanno in Italia, Ryōsuke ha sempre preparato toshikoshi-soba

214
per noi. Nei suoi kanji ci sono l’«anno» (toshi) e l’azione di
«attraversare» (kosu) il ponte temporale che, simbolicamente, traghetta
all’anno che viene.
– Questa tradizione nasce dal fatto che c’era un gran da fare nelle
famiglie di commercianti alla fine del mese. Finivano di lavorare tardi e si
riunivano la sera tutti insieme per cenare con la soba. Per questo vi era la
tradizione di consumare la sera tardi la soba, chiamata misoka-soba
, ovvero, letteralmente, la soba del trentesimo giorno, l’ultimo
giorno del mese. Torna tutto, no? – domanda mio suocero, sempre felice di
potermi insegnare qualcosa di nuovo.
Questa tradizione si tramanda fin dal periodo Edo e la lunghezza del men
, ovvero dei «vermicelli», simboleggia l’augurio di una vita lunga e
«sottile», nel senso di una vita tranquilla: hosoku nagaku ikiru
, «vivere a lungo conducendo un’esistenza tranquilla».
– Oltretutto, – e qui la voce di mio suocero si abbassa, con tono di
mistero, – un tempo nelle officine degli artigiani dell’oro e dell’argento si
usava la pasta di soba per raccogliere i preziosi frammenti dei materiali che
volavano via. Ed è per questo che si dice che questo piatto speciale porti
ricchezza nell’anno che viene.
A seconda delle zone del Giappone, al posto della soba si possono
mangiare udon, come nella prefettura di Kagawa dove i sanuki-udon
costituiscono una vera e propria specialità, e può variare anche
il giorno in cui la si consuma, come nella provincia di Aizuchi, nella
prefettura di Fukushima, dove è tradizione preparare toshikoshi-soba il
giorno seguente, a ganjitsu , ovvero il 1° gennaio.
I bambini ascoltano il nonno con attenzione. È la sua voce a tenerli fermi.
Il discorso pare appassionarli al punto tale che, quando vedono comparire la
pietanza in tavola, quasi ci rimangono male. E l’oro? E l’argento?
Soba e immaginazione, ecco cosa serve a tramandare una tradizione.

È asprognolo dicembre. Agrumi di yuzu e mandarini ovunque. Ne


teniamo sempre uno sbucciato, in un piccolo contenitore in tasca. Se ai
bimbi venisse fame.
Di dormire stanotte non se ne parla, troppa è l’eccitazione. Neppure il piú
giovane di casa nostra, che a luglio è passato dall’uno ai due anni, cede al
sonno.
Ci dirigiamo a piccoli passi verso il santuario di zona, già pieno di gente

215
che è in fila, bardata in pesanti cappotti, sciarpe, guanti e scarponi.
Riconosciamo buona parte dei volti: vicini di casa, famiglie di compagni
dell’asilo di Sōsuke ed Emilio che non sospettavamo abitassero cosí tanto
nei pressi, gente che di solito incontriamo dall’altra parte di una cassa o di
un bancone, al di là di una scrivania negli uffici.
Quest’anno il Capodanno lo festeggiamo qui, in nessun santuario
famoso, ma nei luoghi di sempre. Un sempre che, mi accorgo una volta di
piú, è profondamente amato. Questa notte è una conferma, che la vita che
abbiamo scelto è la migliore per noi.
– È l’ultima notte dell’anno… – sussurro a Ryōsuke, emozionata come
avessi ancora sei anni. Pare Natale, e in qualche modo lo è. Perché o-
shōgatsu è effettivamente come il Natale in Italia, una celebrazione
tra parenti e intimi amici, un momento di condivisione e, se non proprio di
fede, perlomeno di fiducia. Nei legami, in quei fili che fanno una famiglia.
Joya ritorna, a dodici mesi di distanza ecco di nuovo questa parola
curiosamente familiare che letteralmente significa «la notte ( ) che elimina
( ) l’anno precedente» e che intende Ōmisoka.
– Ciao anno! Ciao Cinghiale! – gridano i bimbi in tutte le lingue che
sanno. Si uniscono altri piccini, ringalluzziti dal freddo: – Benvenuto anno
nuovo! Benvenuto Topino!
Le campane iniziano a battere il ritmo del tempo, dicembre che sta per
finire. Uno, venti, cinquantadue, novantatre… a cavalcioni della
mezzanotte. Prima 107 volte, e poi un’altra volta soltanto, a raggiungere i
108 colpi del rito.
– Centootto come le passioni umane, vero?
L’ultimo tocco di campana si propaga dovunque, spingendo i suoni come
dune di sabbia ai bordi invisibili di questo recinto – la ghiaia sotto le scarpe,
gli auguri che si incrociano in aria, le urla dei bimbi, il fruscio della stoffa
che struscia, il crepitare dei ciocchi dei falò accesi a illuminare come una
bolla di luce e calore il santuario.
È un nuovo anno che inizia. Un’altra Tōkyō un po’ meno bambina che
riprende da capo.
L’ennesimo inizio di una nuova era.

216
Ringraziamenti.

Grazie a Tōkyō, casa mia.


Grazie a tutte quelle persone che mi hanno dato nuove parole per raccontarla.
A Miwa, ai signori Kusama, a Yōko e Yōsuke Imai. A tutti gli incontri piacevoli e
spiacevoli che mi hanno guidata in una parte diversa della città, che me l’hanno stampata
nella memoria. Grazie ai tantissimi maestri, anche involontari, che mi hanno insegnato
questa lingua complessa; se mai scriverò un libro su Tōkyō, mi dicevo, mi dovrò basare solo
su fonti giapponesi. Grazie a loro è stato cosí.
A Laura Sammartino e a Cristina Banella che sono sempre con me, ovunque io sia,
ovunque siano loro. Non è un caso che la prima volta io vi abbia incontrate qui.
A Pina, che Tōkyō la ama profondamente ed è ricambiata, e di lei ne sa sempre una di
piú. Grazie a Paola Scrolavezza per la revisione e l’ascolto; Bologna ormai nella mia mente
sei tu.
Grazie a Maria Cristina Guerra, che non mi ferma ma anzi allarga l’orizzonte delle mie
idee. Caro Raimondo, per la quarta volta in tre anni, eccoci qui.
Grazie a Francesco Guglieri, per l’entusiasmo immediato, che in questi due anni non è
mai venuto meno. È stato bellissimo lavorare con te.
E grazie a Igort, immenso nell’Arte quanto nel sentire. Vedere vicini i nostri nomi è una
gioia che mi dà ancora il batticuore.

Infine un pensiero che è innanzitutto riconoscenza verso mio marito Ryōsuke e verso i
nostri due bimbi, Claudio Sōsuke ed Emilio Kōsuke. Senza di loro questo libro non sarebbe
mai venuto fuori cosí.
I figli monopolizzano il tempo, ogni vita diventa la loro. Per chi scrive poi, il lavoro non
ha confini, scavalca le ore. Le due cose pertanto – i bambini e la scrittura – contrastano
forte. Ci si sente impotenti, si pensa che la maternità diventerà un ostacolo alla creatività.
Eppure è falsa questa credenza. Il tempo è indubbiamente inferiore, ma è anche piú ricco.
Aumentano le ramificazioni del vissuto. La propria esistenza, esattamente come accade nella
lettura, è moltiplicata.
Ecco, a chi ha figli e si sente costretto, e la vita pare restringersi tutta nel vano di una

217
cucina, nel rettangolo di un letto e di una culla, vorrei donare la garanzia che quella stessa
vita poi un giorno si allargherà e che, nel mentre, si maturerà una particolare esperienza del
mondo che non sarebbe mai giunta altrimenti. Nulla, assolutamente nulla sarà in grado di
replicarne l’intensità, fatta di grande sofferenza oltre che di felicità.
Ho potuto provarlo sulla mia pelle, avrei voluto crederci quando me lo accennava
qualcuno, avrei voluto che quel qualcuno avesse avuto parole piú efficaci per convincere
anche una come me, che ha sempre fatto una grande fatica a fidarsi.
Eppure è cosí.
Questo libro l’ho pensato per un decennio ed è arrivato nel periodo esatto della mia vita
in cui avevo meno tempo. In cui i bambini andavano allattati, cambiati di pannolino, in cui
mi facevano dormire niente e avevo il viso scavato dalle occhiaie.
Ecco, ho capito che le cose migliori arrivano tutte cosí. Dopo una grande fatica.
Accompagnati dalla convinzione costante che il tempo non c’è.

218
Note.

La citazione in epigrafe di Marcel Réja, L’art chez les fous (Paris 1907) è riportata in
Walter Benjamin, Opere complete. IX. I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann,
Einaudi, Torino 2000, p. 465.

GENNAIO

Kenkō Hōshi, Ore d’ozio. Tsurezuregusa, a cura A. Boscaro, Marsilio, Venezia 2014, n. 19.
FEBBRAIO

Sei Shōnagon, Note del guanciale, a cura di L. Origlia, Mondadori, Milano 1990, p. 296
nota 4.
Banana Yoshimoto, Un viaggio chiamato vita (2006), traduzione di G. M. Follaco,
Feltrinelli, Milano 2010, p. 11.
MARZO

Marc Augé, Un mondo mobile e illeggibile (2006), traduzione di X. B. Rodriguez, in Id.,


Tra i confini. Città, luoghi, interazioni, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 12.
Raymond Queneau, Zazie nel metrò (1959), traduzione di F. Fortini, Einaudi, Torino 1994,
p. 67.
Emily Dickinson, I doveri del vento sono pochi (1869), in Id., Tutte le poesie, a cura di M.
Bulgheroni, Mondadori, Milano 1997, p. 1173.
APRILE

Murakami Haruki, Norwegian Wood. Tokyo Blues (1987), traduzione di G. Amitrano,


Einaudi, Torino 2013, p. 41.
Martin Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio (1954), in Id., In cammino
verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano 2015, pp. 83 sgg.
AGOSTO

Kenzaburō Ōe, Una famiglia (1995), traduzione di E. Dal Prà, Mondadori, Milano 1997, p.
143.
SETTEMBRE

Sei Shōnagon, Note del guanciale cit., p. 16.


OTTOBRE

219
Kenkō Hōshi, Ore d’ozio cit., n. 202.

220
Il libro

«T ŌKYŌ SEMBRA SEMPRE IN COSTRUZIONE. DA BRUCO A FARFALLA, DA


farfalla a rondine, da rondine a sasso, da sasso a palazzo, da
palazzo a bosco, da bosco a... È in uno stato di infanzia perenne,
come una bambina che a guardarla non pare diversa, ma poi confrontandola
con le fotografie – l’album aperto una domenica sulle ginocchia – emerge
strabiliante nella differenza».

Laura Imai Messina, che ci vive da quindici anni e vi ha ambientato i suoi


romanzi, ci accompagna in una Tōkyō familiare e sconosciuta al viaggiatore
occidentale, quotidiana, fatta di stradine nascoste, riti domestici, abitudini
secolari e tradizioni modernissime. Tōkyō tutto l’anno, arricchito dalle
splendide illustrazioni di Igort, è un viaggio sentimentale, autobiografia in
forma di città, enciclopedica lettera d’amore a una metropoli e ai suoi
abitanti, indimenticabile romanzo di luoghi, personaggi, cibi, leggende, sogni.

«La forma di una città cambia piú veloce di un cuore» diceva Baudelaire.
E forse, tra tutte le città, Tōkyō è quella che cambia piú velocemente se è
vero, come scrive Laura Imai Messina, che l’antica Edo «è in uno stato di
infanzia perenne».
Laura si trasferí a Tōkyō per studiare: pensava sarebbero passati pochi
mesi – quanto bastava per perfezionare il suo giapponese – non che sarebbe
rimasta piú di quindici anni, e che si sarebbe innamorata perdutamente di una
delle città piú affascinanti, labirintiche e seducenti del mondo (oltre che di un
ragazzo che sarebbe diventato suo marito).
Tōkyō non solo è una delle grandi metropoli globali, ma è anche una città
densissima di storie, tradizioni, simboli, «segni»: è la città dove usanze
secolari vivono accanto ai quartieri degli otaku, gli appassionati di manga e
videogame, dove le culture giovanili piú effervescenti del pianeta si muovono
nelle stesse strade su cui si affacciano piccoli locali tipici. È una città in cui i

221
ritmi frenetici del lavoro e del commercio si alternano a quelli cadenzati delle
stagioni e delle festività, dove il rito ha un’importanza fondamentale perché è
il calendario, con le sue feste e la sua memoria, a regolare la vita dei suoi
abitanti.
Laura Imai Messina racconta Tōkyō con uno sguardo unico, a cui la
conoscenza delle usanze e delle strade non ha tolto freschezza e curiosità. Un
viaggio lungo un anno, da Mutsuki, gennaio, «il mese degli affetti», a
Shiwasu, dicembre, «il mese dei bonzi affaccendati», fino al cuore di Tōkyō,
la «città bambina».

222
L’autrice

LAURA IMAI MESSINA è nata a Roma. A ventitre anni, dopo la laurea, si


trasferisce a Tōkyō. Quello che doveva essere un breve soggiorno per
migliorare la lingua è diventato una scelta di vita che dura da quindici anni.
Vi ha conseguito un dottorato in Letteratura, e attualmente insegna italiano
nelle piú prestigiose università della capitale giapponese. È autrice dei
romanzi Tōkyō Orizzontale, Non oso dire la gioia e del saggio Wa. La via
giapponese all’armonia. Nel 2020 pubblica il romanzo Quel che affidiamo al
vento, autentico caso editoriale in corso di traduzione in oltre venti paesi.
Vive tra Kamakura e Tōkyō con il marito, Ryōsuke, e i figli, Claudio
Sōsuke ed Emilio Kōsuke.
Il suo sito è www.lauraimaimessina.com.

223
© 2020 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano
In copertina: illustrazione di Igort.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto,
trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun
altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini
e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge
applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come
l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione
dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo
quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.
Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito,
rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto
dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella
in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere
imposte anche al fruitore successivo.

www.einaudi.it

Ebook ISBN 9788858433935

224

You might also like