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Lo spirito del Welfare: le matrici religiose dei welfare in Europa Bologna 11 Novembre 2011

La Gerusalemme celeste in terra. Le radici del welfare socialdemocratico


Gianni Silei
(bozze prive di note e riferimenti bibliografici da non citare senza il consenso dellautore)

Nel 1951, nella localit costiera di Scarborough nello Yorkshire, Clement Attlee intervenne al Congresso annuale del partito laburista facendo una sorta di bilancio delle profonde riforme in campo economico e sociale sin l attuate dal suo partito, al potere dopo le vittoriose elezioni del 1945, e, nel concludere il suo intervento, indic la strada che il Labour intendeva continuare a percorrere: Let's go forward into this fight in the spirit of William Blake: "I will not cease from mental fight, nor shall the sword sleep in my hand, till we have built Jerusalem in England's green and pleasant land." Attingendo a piene mani alle raccomandazioni contenute nel Rapporto Beveridge redatto in piena seconda guerra mondiale, il programma laburista del 1945 si era effettivamente proposto un obiettivo ambizioso: quello di seguire e prendersi cura dei cittadini britannici come si disse allora dalla culla alla tomba ed edificare quel welfare state che William Temple,

larcivescovo di Canterbury, aveva idealmente contrapposto al warfare delle potenze dellAsse durante il momento pi duro e drammatico del conflitto. Attlee adoperava un lessico evocativo e antico per indicare un percorso nuovo e moderno. Dietro al richiamo al sogno utopistico della new Jerusalem di Blake (che, lo ricordo perch importante anche sul piano simbolico, poi quella delle tetre fabbriche di Satana), si cela lo spirito di quella fase, coincisa con gli anni della immediata ricostruzione dellEuropa post-bellica che Donald Sassoon ha a suo tempo definito la costruzione del socialismo del welfare. A lungo, soprattutto durante la fase espansiva delle politiche di sicurezza sociale nellEuropa della golden age, socialdemocrazia stato sinonimo di unazione pragmatica di interventi volti a tutelare quella che un tempo si chiamava la classe operaia e in generale i settori pi deboli della societ svolgendo, attraverso lintervento dello Stato unazione regolatrice delleconomia di mercato (addomesticando il capitalismo, direbbe oggi uno dei leader della SPD, Peer Steinbrck), operando una redistribuzione della ricchezza e appianando le diseguaglianze attraverso le riforme sociali. Il fatto che il fulcro di queste riforme fosse rappresentato dalle politiche di welfare ha avallato lidea dellesistenza di una sorta di rapporto simbiotico tra queste ultime e il socialismo democratico, qualcosa che potremmo riassumere nella formula socialdemocrazia uguale welfare state. In realt, se si affronta questo tema da una prospettiva temporale pi ampia di quella del trentennio glorioso della ricostruzione e della crescita dellEuropa post seconda guerra mondiale le cose cambiano. Si fanno pi complesse ed articolate. Ad esempio, considerando i valori, cio i principi ispiratori di fondo che sono stati richiamati nel corso delle varie fasi storiche per giustificare ladozione di quelle che oggi chiameremmo politiche di welfare vediamo come, uso le parole di Harold Wilensky,
Essi [abbiano] incluso leguaglianza ([per i] socialdemocratici, [i] socialisti marxisti, [i] liberali moderni), lefficienza, la prosperit economica, leguaglianza dopportunit ([per i] socialisti per lefficienza come i Fabiani), larmonia e la giustizia sociale (sia [per] i socialisti che [per] gli umanisti cattolici), lordine politico, la gerarchia e la prevenzione della rivoluzione ([per] Bismarck e la Chiesa cattolica e cos pure [per] i comunisti al potere).

Wilensky si ferma qua ma lelenco potrebbe continuare (potremmo aggiungere, ad esempio, lo Stato sociale nazionalsocialista o a quello di matrice fascista, questultimo solo in parte catalogabile assieme ai sistemi di protezione sociale di ispirazione conservatrice). Una prima riflessione, dunque: per quanto il welfare state edificato in Europa occidentale allindomani della seconda guerra mondiale sia nato grazie alla pressione esercitata allinterno o allesterno delle rispettive compagini governative da forze di ispirazione e tradizione socialista, in particolare laburista e socialdemocratica, quello che per esigenze di sintesi potremmo chiamare il welfare socialdemocratico (utilizzando unaccezione pi ampia rispetto a quella proposta a suo tempo da Esping-Andersen che invece lo restringeva sostanzialmente a Svezia e Norvegia) ha tuttavia rappresentato soltanto uno dei numerosi approcci alle politiche di protezione sociale sperimentati nel corso delle differenti fasi storiche. Aggiungo per inciso, a proposito delle cautele che occorre utilizzare nel momento in cui si procede in tentativi classificatori stimolanti ma che talvolta inducono ad eccessive generalizzazioni che la stessa definizione di socialismo e socialdemocrazia andrebbe, a ben guardare, declinata al plurale vista la variet e le differenze delle dottrine e delle pratiche, pur nellambito di una comune famiglia politica, riscontrabili tra paese e paese. Quello di affrontare levoluzione delle politiche e dei sistemi di protezione sociale da una prospettiva di lungo periodo, o per onde lunghe come scrisse qualche anno fa Massimo Paci, un approccio che consente di cogliere meglio discontinuit e persistenze, specialmente se questa tiene conto in egual misura del richiamo ai valori, dei riferimenti culturali e ideali (ancor prima che ideologici), e degli aspetti concreti. Quella della path dependence approccio al centro di molte analisi che si propongono di cogliere e spiegare i principali tratti distintivi dei differenti sistemi di welfare. Di path dependence, ad esempio, discutemmo molto ed approfonditamente proprio qui a Bologna in un convegno organizzato nel 2000 da Vera Negri Zamagni nel quale si ricostruivano da prospettive differenti le principali fasi evolutive della storia delle politiche di protezione sociale dal Medioevo ai giorni nostri: la fase iniziale, incentrata prevalentemente sulla carit; la fase intermedia, caratterizzata dallemergere del self-help e della sperimentazione dei primi organismi pubblici in campo
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assistenziale, e una terza epoca coincisa con la nascita del moderno Stato sociale caratterizzata dal ruolo preminente dellintervento pubblico. Oggi, mentre viviamo quella che potremmo definire una quarta fase di sviluppo, una fase transitoria e ancora indistinta ma nella quale quella sorta di pendolo ideale che oscilla tra azione pubblica e iniziativa privata sembra indirizzarsi sia pure in forme differenti rispetto al passato verso questultima direzione, questo approccio acquista una sua ulteriore e accresciuta valenza. Perch produca risultati, tuttavia, questo tipo di sforzo interpretativo impone, per lo storico, una cura particolare sul piano della messa a fuoco delle questioni. Lapprofondimento della dimensione culturale e ideale ad esempio assolutamente rilevante ma deve procedere di pari passo con quella dimensione, altrettanto, preminente che quella economica. Una dimensione che da un lato ricomprende quella che alcuni storici hanno chiamato economia morale, cio quelle forme consuetudinarie di beneficenza e filantropia che affondavano le loro radici nei valori caritatevoli propugnati dalle varie chiese cristiane e nelle ancora pi antiche pratiche di scambio basate sul dono in cambio di deferenza che regolavano le societ arcaiche. Alla economia morale occorre per aggiungere, man mano che si realizzano le profonde trasformazioni determinate dallirrompere del sistema di produzione industriale, quelle disposizioni che nellottocento sarebbero state classificate sotto la voce carit legale e, pi in generale, quelle che, con motivazioni differenti, puntavano a risolvere la cosiddetta questione operaia configurando i tratti del moderno Stato sociale. Occorre inoltre un approccio che da un lato faccia della contestualizzazione la propria stella polare (non cadendo nellerrore di spiegare gli eventi a posteriori) e, dallaltro, non legga la nascita dello Stato sociale, lavvento e poi la crisi del welfare state come il risultato di un processo di sviluppo lineare. Gi allinizio degli anni 60, in uno dei primi (e per la verit ancora pochi) lavori di taglio storico dedicati a questo tema, Asa Briggs metteva in guardia dallidea che la storia del welfare state potesse essere descritta come una sorta di ininterrotta evoluzione di idee illuminate e di progetti di riforma man mano pi moderni e avanzati, non piuttosto, come il risultato di una serie, talvolta casuale di scelte contingenti.
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Il mio contributo e rimando al testo scritto per gli approfondimenti intende soffermarsi non soltanto sul caso italiano ma pi in generale sul ruolo svolto dai partiti di ispirazione socialdemocratica nello sviluppo delle politiche di welfare. Sotto questo aspetto, ribadito che lo Stato sociale e il dunque il welfare state, che ne rappresenta una particolare fase di sviluppo nasce con laffermarsi delleconomia di mercato e lemergere della questione operaia, cercher di individuare alcuni momenti periodizzanti. Il primo quello che coincide con lo spartiacque del 1848 allindomani del quale anche in Italia si assiste alla comparsa delle prime organizzazioni mutualistiche, seguono poi ladozione delle prime prime disposizioni in campo sociale e in materia di legislazione di fabbrica da parte del regno dItalia, ispirate a quelle britanniche di inizio 800, lintroduzione nel 1898, in piena crisi di fine secolo, delle assicurazioni obbligatorie ispirate a quelle bismarckiane e la prima guerra mondiale. In questa fase, nella quale alle tradizionali, collaudate (e paternalistiche) politiche di assistenza di epoca moderna si vanno progressivamente sovrapponendo forme nuove di tutela, soprattutto di impronta volontaristica, latteggiamento delle nascenti organizzazioni socialiste, sia di carattere sindacale che politico, fu ambivalente. Com noto, in molti casi la spinta iniziale al mutuo soccorso e alla cooperazione non giunse direttamente da queste ma da esponenti illuminati del mondo liberale che puntavano a tradurre in pratica quei principi di eguaglianza formulati delle grandi rivoluzioni del Settecento con lobiettivo di svuotare le istanze rivoluzionarie del nascente movimento operaio e tentare di integrare la classe operaia nella societ borghese e da ci che restava di quelle associazioni di mestiere che guarda caso, in quanto corporazioni, avevano avuto un ruolo rilevante nelle forme di assistenza ancien rgime. In un contesto nel quale lapproccio di fondo delle istituzioni pubbliche a questi temi restava rigidamente fedele a quella che, riprendendo Titmuss, potremmo definire una concezione residuale del ruolo delle istituzioni pubbliche e nel quale prevaleva un approccio in termini di difesa dai poveri, piuttosto che di difesa dei poveri, i partiti socialisti, con le loro organizzazioni resistenziali e la loro rete associativa, assunsero un ruolo sempre pi attivo. Il tema del superamento del filantropismo borghese a vantaggio delle organizzazioni di ispirazione socialista rappresenta uno dei temi centrali di molta della pubblicistica del movimento operaio a partire dalla seconda met dellOttocento e uno dei
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motori della diffusione della mutualit operaia. Anche in questo caso, lo sviluppo non fu lineare. Limmagine, a mio avviso calzante, quella richiamata da Maria Grazia Meriggi che parla di un doppio movimento cito fra bisogni economici e sociali dei lavoratori, e dei poveri in quanto lavoratori, tra lapproccio del self help e quello del welfare statale. Molte, insomma, furono le resistenze e i distinguo. A parte la ben nota questione riguardante il riconoscimento giuridico delle Societ di Mutuo Soccorso si pensi alla stessa introduzione di regimi assicurativi obbligatori, attuata com noto dalla Germania di Bismarck negli anni 80 dellOttocento e divenuta una sorta di modello cui fare riferimento, che fu accolta con sospetto da molte organizzazioni socialiste. Per quanto riguarda il caso italiano, ad esempio, la conversione ufficiale e definitiva del sindacato alla tesi dellobbligatoriet del 1911; quella del partito socialista del 1912. In ogni caso, al termine di questo percorso, pur con sfumature e finalit differenti, i socialisti fecero proprio il rifiuto del principio della beneficenza in nome del riconoscimento del diritto allassistenza. La prima guerra mondiale, al pari della seconda, rappresent un momento di svolta decisivo. Lo sforzo bellico provoc infatti una decisa espansione delle politiche sociali (Klausen, a tale proposito, ha giustamente usato la definizione from warfare to welfare) . Se nella fase precedente il principio del risarcimento del salario era di fatto stato al centro di provvedimenti che di fatto costituivano una sorta di educazione al risparmio nei confronti di specifiche (e limitate) categorie di lavoratori del comparto industriale adesso si and facendo strada la concezione, in prospettiva universalistica, di una protezione rivolta a settori pi ampi della popolazione e a tutela di un pi ampio spettro di rischi (su tutti quello della disoccupazione). Per le forze del socialismo democratico che da tempo ormai non operavano pi come forze politiche antisistema si apriva una stagione nuova destinata a concludersi con la fine del secondo conflitto mondiale, e dunque con linizio delledificazione del welfare state. Questa fase, che ebbe nella crisi del 1929 e nel dibattito sul suo superamento, il suo momento cruciale, rappresent per le componenti del socialismo riformista un importante banco di prova. Per esse e per il movimento operaio in generale si tratt di un passaggio epocale: dai miti alla prosa per riprendere una felice definizione di Leo Valiani.
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Il mito, la poesia, rimase come riferimento, ideale, esortazione a coltivare i principi della fratellanza e della solidariet. Come richiamo ad un umanitarismo e ad un lessico politico radicato nellimmaginario collettivo del socialismo: dai Vangeli e i catechismi socialisti ottocenteschi che ebbero vasta diffusione in Francia e in Italia, alle idee dei Christian socialists britannici, da Frederick Denison Maurice fino al George Lansbury dellesperienza del Poplarism (e lelenco potrebbe proseguire). La prosa impose a quelli che un tempo erano stati dei partiti ghetto scelte non facili, non ultima quella si pensi al clima di forti tensioni sociali del primo dopoguerra di rivedere il proprio rapporto con il movimento sindacale che nel frattempo stava vivendo una forte espansione in termini numerici e che manifest un po ovunque la tendenza a scavalcare i partiti socialisti proprio nellambito della rivendicazione e della definizione delle politiche di protezione sociale. La crisi del primo dopoguerra ebbe, com noto, esiti differenti da paese a paese. Se il perseguimento di ideali in grado di coniugare socialismo e la liberaldemocrazia sembr, pur tra mille difficolt, essersi messo in marcia in Inghilterra, nel Nord Europa e in parte in Francia, in Italia, dove il movimento operaio aveva assistito con distacco se non con aperta ostilit al tentativo riformatore del governo Nitti tutto ci fall, aprendo la strada al fascismo. La crisi del 29, come detto, fu lo spartiacque decisivo. Dopo uno sbandamento iniziale, infatti, i partiti socialdemocratici almeno quelli che riuscirono a reggere al drammatico impatto della crisi
grazie alla forza accumulata sul piano organizzativo ed elettorale [divennero] destinatari privilegiati di una domanda sociale nuova [] e [furono gli] interlocutori di unarticolata spinta verso il cambiamento delle politiche economiche e di governo che si sviluppa[va] nella classe operaia, tra i ceti colpiti dalla crisi, ma anche nel mondo delle competenze tecniche ed economiche.

Questa domanda sociale innesc un fecondo ed articolato dibattito che vide fiorire posizioni differenti: dal riformismo statalista in Germania (ben presto cancellato dallavvento al potere di Hitler) al gruppo di Rvolution constructive in Francia, alle riflessioni di Wigforss sulla crisi, fino alle posizioni eretiche di De Man e del Planismo, di Dat e dei Nos, di Oswald Mosley e del suo New Party.

A queste riflessioni si andarono sommando le suggestioni provenienti dal New Deal rooseveltiano e dalla sua social security e, pi in generale, da quelle che attingevano alle formulazioni di Keynes e poi di Beveridge (che tutto erano fuorch esponenti del mondo socialista) imperniate sulluso anticiclico della spesa sociale e dellintervento pubblico. Del resto, agli occhi delle socialdemocrazie la ricetta keynesiana aveva un duplice pregio: nellimmediato consentiva di migliorare le condizioni dei lavoratori e comunque combattere la disoccupazione, mentre sui tempi lunghi non implicava la rinuncia a nessuno dei tradizionali obiettivi, a cominciare da quello delle nazionalizzazioni. Cos, sebbene in ambito ideologico le forze del socialismo democratico fossero ancora chiaramente alla ricerca di una propria identit, sul piano programmatico esse cominciarono ad incamminarsi in direzione di una congiunzione tra politica sociale e politica economica imperniata sullestensione dellintervento dello Stato nel campo della previdenza e dellassistenza sociale, del mercato del lavoro e delle politiche abitative. Il tutto nel quadro di obiettivi anti-ciclici keynesiani. Una prima sperimentazione concreta di questo approccio giunse dalla Svezia: dal programma anticrisi e dalla Folkelmspolitik (la Politica del Focolare) della coalizione rosso-verde di Hansson. Certo, i socialdemocratici svedesi rimasero a lungo una sorta di anomalia in un contesto nel quale restava prevalente un approccio ancora ortodosso e dottrinario a questi temi. Ancora nel 1933, nello scomunicare ufficialmente Dat, Montagnon e gli altri esponenti della componente neosocialista, Lon Blum, che pure di l a poco con il Front Populaire avrebbe tentato di tradurre in pratica i principi della scurit sociale, tenne ad esempio a ribadire che
Dan ltat prsent des choses un socialisme anti-marxiste ne serait plus socialiste et deviendrait rapidement un anti-socialisme.

Insomma e mi accingo a concludere alla vigilia della seconda guerra mondiale, pur avendo definitivamente rotto con il bolscevismo le socialdemocrazie mantenevano, eccettuati forse proprio i casi britannico e in parte scandinavo, una caratterizzazione ideologica marxista. In molti casi, tuttavia, si trattava di un richiamo sempre pi indiretto, attenuato dallormai centrale dibattito attorno al ruolo dello Stato come strumento per appianare le distorsioni e le diseguaglianze prodotte dalleconomia di mercato.
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Il definitivo abbandono di queste posizioni e quella che potremmo definire laccettazione del compromesso si sarebbero realizzati, e anche stavolta non completamente, soltanto dopo la seconda guerra mondiale allorch, di fronte alla necessit della ricostruzione postbellica la politica pro-welfare assunse una funzione strategica fondamentale. Essa costituiva infatti la naturale conseguenza delle motivazioni che erano state allorigine dei movimenti socialisti nella societ industriale: dare cio uno sbocco coerente alle aspirazioni di libert e della domanda di cittadinanza da parte della classe operaia. Certo, almeno fino agli anni che segnarono sul piano ideologicoprogrammatico il definitivo superamento del marxismo (su tutti cito Bad Godesberg, 1959) molti partiti socialisti continuarono a non ritenere che le politiche sociali fossero il fine ultimo della loro azione politica ma solo un elemento di una costellazione di obiettivi che andavano dalle nazionalizzazioni alle cosiddette riforme di struttura. Di fatto per, essi furono tra i pi convinti assertori delle politiche di welfare. Certamente non furono i soli, tuttavia essi assegnarono con convinzione la priorit a politiche tese a realizzare, in maniera gradualistica, una societ pi egualitaria, pi giusta, pi solidale, finalit [appunto] riconducibili [in sintesi] alla filosofia del welfare state. La Gerusalemme celeste in terra, insomma, la si poteva anzi la si doveva costruire non attraverso la rivoluzione ma con le riforme. Riforme che tuttavia intendevano essere talmente incisive da risultare egualmente rivoluzionarie sul piano del mutamento degli equilibri sociali ed economici. Riforme che avevano definitivamente inserito tra gli obiettivi prioritari da raggiungere, ledificazione, il rafforzamento e lespansione dello Stato del benessere.

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