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Hobbes e l’Inghilterra dai

Tudor agli Stuart


Il ‘peso’ di Hobbes
Thomas Hobbes è per eccellenza il torico dell’assolutismo.

La sua importanza nella storia del diritto riguarda:


- il diritto penale (la sua teoria ‘assolutistica è alla base di moti
sviluppi della penalistica dell’illuminismo e del liberalismo)
- Il diritto pubblico (anticipa il positivismo giuridico moderno e
pone le basi culturali per la costruzione dello ‘stato moderno’)
Una nuova ‘grande potenza’
• Per comprendere il pensiero di Hobbes, come già per
quello di Machiavelli e poi dei teorici del contrattualismo,
è necessario aver presente il contesto storico.
• Tra XVI e XVII secolo l’Inghilterra conosce un progresso
(economico, demografico, politico) velocissimo e si
impone come una delle principali realtà del continente
europeo
• Data già al 1496 l’Intercursus magnus (si tratta di un
accordo commerciale tra Inghilterra e Olanda che – in
ottica anti-spagnole e anti-francese – assicura privilegi
reciproci ai commercianti dei due Paesi)
I Tudor
I sovrani della famiglia Tudor (la dinastia è fondata da Enrico VII
sul trono dal 1485 al 1509) perseguono una politica di forte
accentramento e di unificazione amministrativa.

In particolare, la politica di Enrico VIII si articola secondo alcune


linee precise:
- Depotenziamento della grande nobiltà clerico-feudale e
collaborazione con la classe intermedia
- Autonomia dal papato e controllo delle chiese nazionali

- Ricorso ampio al potere legislativo e controllo


sull’amministrazione della giustizia
La chiesa anglicana
• Ragioni personali e motivazioni politiche allontanano il cattolico
Enrico da Roma e dal papa.
• Nel 1533 il re afferma di non riconoscere sopra di sé alcun
superiore ad eccezione di Dio e di non essere soggetto alle leggi di
alcuna creatura terrena
• Nel 1534 fonda una chiesa nazionale di cui si proclama capo (il
culto rimane sostanzialmente quello cattolico … contenuti del
Protestantesimo saranno introdotti solo da Edoardo VI e Elisabetta
I)
• Nel 1535 fa decapitare Thomas Moore e nel 1536 sopprime i
monasteri incamerando e rivendendo le terre
La giustizia
Dalle Assise di Clarendon (1166) il sistema di giustizia si
era evoluto con la trasformazione della petty jury da
collegio deputato all’emissione del verdetto (vere dictum)
a strumento di prova. Il ruolo del giudice regio (tenuto ad
eseguire i writs del sovrano) era cresciuto di importanza.
Si erano però anche affermati taluni rimedi contro i
possibili arbitri dei magistrati regi (dalle salvaguardie
fissate nella Magna Charta Libertatum alla progressiva
definizione del principio dell’habeas corpus)
Fine dell’assolutismo ‘costituzionale’
• Sia Enrico VIII (1509-1547) sia Elisabetta I (1558-1603) nei
loro lunghi periodi di regno avevano governato collaborando in
maniera significativa col Parlamento (il cd. King in Parliament)
• Le cose cambiano quando, nel 1603, la dinastia dei Tudor si
estingue e sale sul trono Giacomo I (re di Inghilterra, Scozia e
Irlanda)
• Giacomo volle dare una forte sterzata in senso assolutistico
riducendo il peso del Parlamento.
Carlo I
• Giacomo lascia in eredità al figlio Carlo I (1625) un regno
profondamente diviso. I contrasti religiosi sono ancora forti, le
finanze sono precarie per i debiti accumulati da Elisabetta e da
Giacomo, il Parlamento è in agitazione e pretende maggiore rispetto,
i rapporti con il Continente complicati)
• Il nuovo re si mostra inizialmente favorevole alle richieste dei
‘parlamentaristi’ e sottoscrive la Petition of Rights nel 1628 (ove si
prevede il due process of law) mentre il giurista Edward Coke
consolida il common law.
• Successivamente, però, Carlo riprende la politica del padre e anzi si
mette a perseguitare i puritani (calvinisti), molti dei quali fuggono
nelle colonie americane.
La rivoluzione di Cromwell
La situazione degenera in guerra civile (1642) durante la quale si
impone la figura di Olivier Cromwell inizialmente alleato con i
levellers, assume i pieni poteri dal 1648-1658.

Il re Carlo I – accusato di alto tradimento – viene processato,


condannato e decapitato nel 1649.

Nella sua difesa Carlo contestò la competenza del tribunale: “il mio
potere ha origini divine, solo Dio può giudicarmi”. Inoltre,
rifacendosi alla teoria contrattualistica, Carlo sosteneva che il
popolo, essendo ‘parte’ del contratto, non poteva ergersi a giudice.

Con la decapitazione, Cromwell si sbarazza dei levellers e crea la


repubblica dittatoriale denominata Free Commonwealth
Thomas Hobbes (1588-1679)
Dopo essere stato segretario di Francis Bacon (ministro di
Giacomo I), nel 1642, per via delle sue opinioni politiche, è
costretto a emigrare a Parigi.

In Francia pubblica le sue opere maggiori: il De cive (1642) e il


Leviathan (1651)

Tornato in Inghilterra, per tutta la vita continua a difendersi dagli


attacchi di politici, ecclesiastici e accademici (scrive anche il
Dialogo tra un filosofo e uno studente di Common Law in cui, tra le
altre cose, contesta i fondamenti giurisprudenziali del sistema
giuridico inglese ribadendo il primato della legge come comando
del sovrano)
La natura dell’uomo
L’analisi politica di Hobbes parte dalla contestazione di
Aristotele e dall’osservazione dei caratteri strutturali
dell’uomo. L’individuo si caratterizza per:
A) la capacità di provare sensazioni e la memoria
(caratteristiche innate)
B) la prudenza (figlia dell’esperienza)
C) la ragione (cioè la capacità di prevedere gli effetti
positivi o negativi delle azioni che si compiono)
L’azione politica
L’uomo è mosso dalla paura e dai desideri o passioni (egoismo,
sete di dominio, vanità, ambizioni). La felicità consiste nel
continuo trascorrere del desiderio da un oggetto all’altro (rif.
a Machiavelli).

Il buono e il cattivo, il giusto e l’ingiusto non esistono in


astratto: nello stato di natura sono invece sempre determinati in
conseguenza dell’oggetto di volta in volta desiderato.

Solo quando c’è il potere c’è anche la legge: in assenza di legge


non esiste ‘buono o cattivo’ e quindi nemmeno l’ingiustizia.
La “legge di natura” (i)
Ogni uomo per quanto debole è comunque in grado di minacciare la sicurezza di
un altro uomo.

Questa percezione ‘spiacevole’ – che costringe gli uomini a guardarsi con


diffidenza – caratterizza quindi lo stato di natura: non c’è spirito di collaborazione
né impulso alla civilizzazione ma solo uno stato di guerra latente in cui tutti contro
tutti competono per il conseguimento in via esclusiva dell’oggetto desiderato. [i
due neonati]

Il diritto di natura coincide con la libertà di usare il potere di cui si è dotati per
assicurare la preservazione del bene primario cioè la vita (e perciò vieta all’uomo
di fare ciò che sarebbe lesivo per la sua vita o lo priverebbe dei mezzi necessari
alla sopravvivenza).

La prima “legge di natura” – suggerita dalla ragione – è quindi quella che impone a
ogni uomo di perseguire la pace (e, quando la pace sia impossibile, di usare ogni
mezzo per prevalere nella guerra).
La “legge di natura” (ii)
La legge che impone la sopravvivenza, diviene concreta incarnandosi nel
principio che impone di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse
fatto a te. Da questa regola discende ancora il precetto (già individuato da
Grozio) che obbliga al rispetto degli obblighi assunti.

Finché tuttavia non vi sia una forza capace di imporle, tali regole non
sono propriamente “leggi” (esse sono infatti dettate dalla ragione e però
la pratica dimostra quanto spesso esse siano disattese).

Poiché un simile stato di natura risulta insostenibile, gli uomini furono


indotti dalla ragione ad accordarsi su convenienti articoli di pace: in
sostanza gli uomini accettano di rinunciare al loro diritto di natura e
si impegnano a esercitare contro gli altri uomini solo quella parte di
libertà che essi stessi sono disposti a concedere contro di sé.
Il ‘contratto’ sociale
Gli uomini dunque si accordano per superare lo ‘stato di natura’
passando allo ‘stato civile’. Ciò significa che si accetta ‘per contratto’
la soppressione dell’uso individuale della forza.

Perché tale accordo sia rispettato, vi è però bisogno della presenza di


un sovrano (un singolo o un’assemblea) dotato di forza sufficiente per
sopraffare qualunque tentativo privato di usare la forza: il Leviatano.

È così che nasce la società civile (lo stato) che quindi ha un’origine
artificiale e non naturale come voleva Aristotele

Se un suddito oppone resistenza al Leviatano, viola per ciò stesso il


pactum societatis, è quindi il suddito stesso a rendere inevitabile la
sua punizione.
Pactum subiectionis
Poiché non è mai esistito alcun patto con Dio (Hobbes nega la
storicità del patto biblico), i sudditi non possono invocarlo
contro le azioni del Leviatano.

Nemmeno però possono a loro difesa invocare i termini del


‘contratto’: il sovrano non è infatti parte di un contratto ma
solo il ‘recipiente’ dei diritti che il contratto di tutti con tutti
ha riversato in lui.

È allora un pactum subiectionis (e non un vero contratto)


quello che lega i sudditi al Leviatano
Il patto sociale (i)
Tale patto si concreta in due momenti: si possono infatti
riconoscere un patto di sottomissione e un patto di
autorizzazione (i contraenti si impegnano a riconoscere
come proprie le decisioni del sovrano).

Il sovrano ha solo diritti, mentre i sudditi sono ora privi dei


diritti naturali: hanno solo il dovere di obbedire al sovrano

Il patto invece non vincola il sovrano (sul piano teorico –


dice Hobbes – non ha senso distinguere monarchia da
tirannia – quest’ultima esiste solo nella mente di chi è in
disaccordo col sovrano).
Il patto sociale (ii)

Con l’individuazione del sovrano gli individui perdono


anche la loro dimensione individuale e si trasformano nel
corpo politico.

Il patto è irrevocabile per i sudditi (recedere o disubbidire


al Leviatano equivarrebbe infatti al ritorno allo stato di
natura).

Il patto non vincola invece il sovrano: ogni sua azione è


infatti lecita perché anticipatamente approvata dei sudditi.
Il Leviatano
• Il Leviatano è legislatore e giudice

• Le regole che lui pone sono leggi. Queste hanno la loro


ragion d’essere nel fine dello stato: preservare la pace e
la sicurezza dei singoli.
• Il sovrano impone la proprietà (che dunque non ha
fondamento ‘naturale’) e la suddivide tra i sudditi (ma se
lo ritiene utile, può certo espropriare).
• Il sovrano limita le azioni dei sudditi e pone le sanzioni
per chi viola le regole
Il suddito di fronte allo stato
• Il dovere di obbedire cessa solo di fronte a un comando del
sovrano che mettesse a repentaglio la vita o la sicurezza
personale dei sudditi. Se però il comando è funzionale al fine per
cui è stato creato lo stato, allora l’obbligo di obbedire persiste
(salus reipublicae suprema lex).
• Qualora però lo stato perdesse la forza necessaria a garantire la
sicurezza dei sudditi, questi sarebbero sciolti dal vincolo di
obbedienza.
• Nemmeno in questi casi tuttavia i sudditi potrebbero vantare un
diritto di resistenza. La loro può essere solo una opposizione di
fatto (consapevolmente orientata a distruggere lo stato e, magari,
costituirne un altro)
Tutela del diritto di natura

Altro obiettivo (oltre a quello di assicurare la sicurezza dei


sudditi) che lo stato deve perseguire è quello di far
osservare la legge di natura:

il suddito che non vuol riconoscere i principi razionali del


neminem laedere e del pacta sunt servanda sarebbe per ciò
stesso da individuare come folle e quindi pericoloso.
La proprietà
Come si è accennato, Hobbes non riconosce una origine
naturale della proprietà.

La proprietà è voluta e imposta dal Leviatano per motivi


di utilità

E si concretizza nel diritto di escludere tutti gli altri dal


godimento del bene.

Il proprietario non può tuttavia escludere il sovrano (che


mantiene il diritto di esproprio giustificato da una utilità
più generale)
La legislazione
Ragionando sulla legislazione, Hobbes afferma che:

l’esistenza di più leggi di quel che sia necessario per il


vantaggio dei cittadini e dello stato è contraria al dovere di chi
governa e detiene l’autorità di fare leggi.

È implicita in questa affermazione l’idea che la legge deve essere


ben conosciuta dai sudditi

L’essenza della legge – dice ancora Hobbes – è l’interpretazione:


poiché l’interpretazione dei singoli genera confusione, anche
l’interpretazione non può che essere prerogativa riservata al
sovrano (legislatore)
La pena
• La dottrina penalistica di Hobbes discendere direttamente dalla
sua impostazione politica :
• È reato solo ciò che la legge (cioè il Leviatano) individua come
tale: nullum crimen, nulla poena sine lege (nessun atto è
criminale né può essere punito se non perché indicato come tale
da una legge … nessun precetto divino può essere invocato in tal
senso se non è stato precedentemente recepito dal legislatore)
• Origine della pena è la ‘vendetta’ (principio retributivo). Questa
però è anche razionale nel momento in cui alla pena si prefigge
un fine (una utilità: principio utilitaristico): se il fine è
l’autoconservazione, la pena non può che essere proporzionale
Un bilancio
• Hobbes, pur usando i termini del contrattualismo, libera in
sostanza la politica dallo schema del contratto sociale. Egli offre
la più chiara e coerente definizione dell’assolutismo.
• Anche se in maniera non voluta, Hobbes indica la via per la
laicizzazione dello stato (afferma tra l’altro che la religione può
essere insegnata ma non imposta).
• Si afferma il principio di legalità (la pena ha una funzione
utilitaristica prima che retributiva) e quello della certezza del
diritto (Hobbes – anticipando posizioni che saranno
dell’Illuminismo – critica la sovrabbondanza di leggi ma anche il
ricorso alle consuetudini e all’interpretatio).
Il pessimismo di Hobbes

Il pensiero di Hobbes appare in conclusione caratterizzato


da un pessimismo di fondo:
• “la condizione dell’uomo in questa vita non sarà mai
esente da inconvenienti”
• “è ben difficile che ci sia al mondo uno stato le cui
origini possano, in coscienza, apparire giustificate”

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