You are on page 1of 245

Ernest Cline

Player One

Romanzo

Traduzione Laura Spini


Direzione editoriale: Massimo Coppola
Editor: Mario Bonaldi
Redazione: Antonio Benforte, Linda Fava
Diritti e redazione: Sara Sedehi
Comunicazione: Valentina Ferrara, Giulia Osnaghi
Grafica: Alice Beniero
© 2011 by Dark All Day, Inc.
© 2011 Isbn Edizioni S.r.l., Milano
Titolo originale: Ready Player One

Il mondo è un brutto posto. Wade ha diciotto anni e trascorre le sue giornate in un


universo virtuale chiamato OASIS, dove si fa amicizia, ci si innamora – si fa ciò che ormai
è impossibile fare nel mondo reale, oppresso da guerre e carestie. Ma un giorno James
Halliday, geniale creatore di OASIS, muore senza eredi. L’unico modo per salvare OASIS
da una spietata multinazionale è metterlo in palio tra i suoi abitanti: a ereditarlo sarà il
vincitore della più incredibile gara mai immaginata. Wade risolve quasi per caso il primo
enigma, diventando di colpo, insieme ad alcuni amici, l’unica speranza dell’umanità. Sarà
solo la prima di tante prove: recitare a memoria le battute di Wargames, penetrare nella
Tyrell Corporation di Blade Runner, giocare la partita perfetta a Pac–Man, sfidare
giganteschi robot giapponesi e così via, in una strabiliante rassegna di missioni di ogni
tipo, ambientate nell’immaginario pop degli anni ‘80, a cui OASIS è ispirato. Un romanzo
da leggere tutto d’un fiato, un nuovo classico dell’avventura che presto diventerà un
megafilm prodotto da Warner Bros.
Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un
commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha
sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo
amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come
sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto,
con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa
collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo.
Per Susan e Libby.
Perché non c’è una mappa per il posto in cui stiamo andando.

L’autore
Ernest Cline ha fatto il sottocuoco, ha pulito il pesce, donato il plasma, è stato un
commesso snob di videoteca, e ha svolto lavori di bassa manovalanza tecnologica. Ma ha
sempre trascurato tutte queste promettenti carriere per dedicarsi a tempo pieno al suo
amore per la cultura pop in tutte le sue forme, prima attraverso la poesia orale, poi come
sceneggiatore. Ha scritto un film, Fanboys (2008), che è diventato un fenomeno di culto,
con suo grande stupore. Oggi vive a Austin, Texas, con moglie, figlia e un’immensa
collezione di videogiochi d’epoca. Player One è il suo primo romanzo.

0000
Chiunque abbia la mia età ricorda bene dove si trovava e cosa stava facendo nel preciso
momento in cui, per la prima volta, sentì parlare della gara. Io ero seduto nel mio
nascondiglio e guardavo i cartoni animati quando il notiziario fece irruzione sullo
schermo, annunciando che James Halliday era morto nel corso della notte.
Naturalmente, avevo già sentito parlare di Halliday. Come chiunque, del resto. Era
l’ideatore di videogiochi che aveva creato OASIS, il gioco multiplayer online con milioni di
utenti che si era gradualmente evoluto fino a diventare la realtà virtuale, connessa su scala
globale, che la maggior parte dell’umanità usava ormai quotidianamente. Il successo senza
precedenti di OASIS aveva reso Halliday uno degli uomini più ricchi del mondo.
Sulle prime non riuscivo a capire perché i media avessero tanto a cuore la morte del
miliardario. In fondo, gli abitanti del Pianeta Terra avevano altro a cui pensare.
L’inarrestabile crisi energetica. I catastrofici mutamenti climatici. Le carestie e la fame, la
povertà, le malattie. Una mezza dozzina di guerre. La solita storia: «Cani e gatti che
vivono insieme… isteria di massa!». Generalmente i notiziari non interrompevano mai la
visione di sitcom e soap interattive a meno che non fosse accaduto qualcosa di grosso.
Come lo scoppio di un’epidemia letale o la distruzione di un’altra grande città, inghiottita
da un fungo atomico. Cose così, importanti. Per quanto Halliday fosse importante, la sua
morte avrebbe dovuto guadagnarsi solamente uno spezzoncino durante il telegiornale
della sera, giusto per far sì che le masse scuotessero le loro testoline plebee con invidia,
quando i telecronisti avessero annunciato la quantità vergognosa di denaro che sarebbe
stata elargita agli eredi.
Ma era quello il problema. James Halliday non aveva eredi.
Era morto a sessantasette anni, scapolo, senza parenti e, a quanto dicevano in molti, senza
un solo amico. Aveva trascorso gli ultimi quindici anni della sua vita in un isolamento
autoimposto, durante il quale (se le voci erano attendibili) aveva perso completamente la
ragione.
Perciò la notizia che, quella mattina di gennaio, lasciò tutti a bocca aperta, la notizia che
lasciò, da Toronto a Tokyo, tutti di stucco davanti alla ciotola di cereali, riguardava il
contenuto delle ultime volontà e del testamento di Halliday, e il destino delle sue vaste
fortune.
Halliday aveva preparato un breve videomessaggio, corredato dalla raccomandazione che
fosse distribuito ai media di tutto il mondo al momento della sua morte. Aveva anche fatto
in modo che una copia del video fosse inviata per email a ogni singolo utente OASIS
quella mattina stessa. Ricordo ancora il momento in cui il messaggio raggiunse la mia
casella di posta elettronica e io sentii il trillo a me tanto familiare, pochi secondi dopo aver
visto quel primo notiziario.
Il suo videomessaggio era in realtà un cortometraggio meticolosamente costruito e
intitolato L’invito di Anorak. Notoriamente eccentrico, per tutta la vita Halliday aveva
nutrito un’ossessione per gli anni ottanta, il decennio della sua adolescenza: L’invito di
Anorak era strapieno di riferimenti semisconosciuti alla cultura pop degli anni ottanta,
riferimenti che riuscii a cogliere solo in minima parte quando guardai il filmato per la
prima volta.
L’intero video era poco più lungo di cinque minuti e, durante i giorni e le settimane che
seguirono, sarebbe diventato il segmento più minuziosamente esaminato della storia;
superò addirittura le riprese di Zapruder quanto al numero di scrupolose analisi
fotogramma–per-fotogramma che subì. Tutta la mia generazione finì per imparare a
memoria ogni secondo del messaggio di Halliday.
L’invito di Anorak si apre con un suono di trombe, l’attacco di una vecchia canzone
intitolata Dead Man’s Party.
Il brano va avanti a schermo nero per i primi secondi e il momento in cui alle trombe si
unisce una chitarra è anche quello in cui compare Halliday. Ma non è un sessantasettenne
intaccato dal tempo e dalla malattia. Il suo aspetto è uguale a quello che aveva sulla
copertina del Time nel 2014: un uomo appena quarantenne, alto, magro, in salute,
spettinato, con i suoi tipici occhiali dalla montatura di corno. Inoltre, veste gli stessi abiti
che aveva nella fotografia del Time: jeans scoloriti e una maglietta vintage di Space
Invaders.
Halliday si trova a un ballo del liceo, in una grande palestra. È circondato da adolescenti le
cui capigliature, così come gli abiti e i passi di danza, suggeriscono che ci troviamo alla
fine degli anni ottanta.1 Ma Halliday non ha una compagna per il ballo. Sta, come direbbe
qualcuno, ballando da solo.
Alcune righe di testo appaiono brevemente in basso a sinistra, segnalando il nome del
gruppo, il titolo della canzone, l’etichetta discografica e l’anno di uscita, come si trattasse
di un vecchio video musicale trasmesso da MTV: Dead Man’s Party, Oingo Boingo, MCA
Records, 1985.
Non appena iniziano a cantare, anche Halliday comincia a cantare in playback, sempre
1 Un’attenta analisi della scena rivela che tutti i ragazzini dietro a Halliday sono in realtà comparse digitalmente
ritagliate da teen movie di John Hughes e incollate all’interno del video.
volteggiando: «All dressed up and nowhere to go. Walking with a dead man over my
shoulder. Don’t run away, it’s only me…».
Poi improvvisamente smette di ballare e, con un gesto secco della mano destra, interrompe
la musica. In quello stesso momento, i ragazzi che ballano sullo sfondo, spariscono, così
come la palestra, e la scena cambia all’improvviso.
Ora Halliday si trova davanti a una camera mortuaria, accanto a una bara aperta. 2 Un
altro Halliday, molto più vecchio, giace all’interno della bara, con il corpo emaciato e
devastato dal cancro. Due quarti di dollaro scintillano sulle sue palpebre. 3 Halliday,
quello giovane, osserva dall’alto il suo cadavere invecchiato simulando tristezza, poi si
rivolge ai partecipanti in lutto. 4 Halliday schiocca le dita e nella sua mano destra appare
una pergamena. La apre con ostentazione, e quella si srotola al suolo, lungo il corridoio
davanti a lui. Quindi Halliday rompe la quarta parete: si rivolge agli spettatori e comincia
a leggere.
«Io, James Donovan Halliday, nel pieno possesso delle mie facoltà di intendere e di volere,
con il presente messaggio stabilisco, pubblico e dichiaro che questo documento costituirà
le mie ultime volontà e il mio testamento, e revoco ogni testamento di qualsivoglia natura
redatto da me in precedenza…» Poi continua a leggerlo, sempre più velocemente,
sciorinando molti altri paragrafi in fitto gergo giuridico, finché non arriva a parlare tanto
in fretta che le sue parole diventano incomprensibili. Quindi, si ferma bruscamente.
«Lasciamo stare» dice. «Anche a questa velocità, ci impiegherei un mese a leggere tutta
questa roba. Mi spiace dirlo, ma non ho tanto tempo.» Lascia cadere la pergamena, che
scompare in una pioggia di polvere d’oro. «Facciamo che vi illustro i punti chiave.» La
camera mortuaria scompare e la scena cambia di nuovo. Halliday ora si trova di fronte
all’immensa porta del caveau di una banca. «Tutti i miei beni, compresa la maggioranza
delle azioni della mia compagnia, la Gregarious Simulation Systems, saranno congelati
finché non verrà soddisfatta l’unica condizione che ho imposto nel mio testamento. Il
primo individuo che soddisferà tale condizione erediterà tutte le mie fortune, al momento
valutate per eccesso in duecentoquaranta miliardi di dollari.» La porta si spalanca, e
Halliday entra nel caveau. L’interno è enorme e contiene una smisurata pila di lingotti
d’oro, la cui mole arriva pressapoco a eguagliare quella di una casa piuttosto grossa. «Ecco
la grana che vi metto a disposizione» dice Halliday con un largo sorriso. «Che cavolo. Non
è facile da trasportare, dico bene?» Halliday si appoggia al cumulo di lingotti e
l’inquadratura stringe sul suo volto. «Ora, sono sicuro che vi starete già domandando, cosa
dovete fare per mettere le mani su tutto il gruzzolo? Be’, cari miei, una cosa alla volta. Ci
sto arrivando…» Fa una pausa teatrale e la sua espressione cambia e diventa quella di un
ragazzino che sta per rivelare un gran segreto.
Halliday schiocca di nuovo le dita e il caveau scompare. In quello stesso istante, Halliday
diventa più piccolo e si trasforma in un bambino, con pantaloni in velluto marrone e una
maglietta sbiadita del Muppet Show.5 Il piccolo Halliday si trova in un salotto
disordinato con una moquette arancione scuro, le pareti ricoperte da pannelli di legno, e
un arredamento kitsch fine anni settanta.

2 Ciò che lo circonda in realtà è preso da una scena di Schegge di follia, film del 1989. Pare che Halliday abbia
ricreato digitalmente il set della camera mortuaria e si sia inserito al suo interno.
3 Un’analisi ad alta risoluzione ci rivela che entrambe le monete sono state coniate nel 1984.
4 Questi, di fatto, sono attori e comparse presi da quella stessa scena del funerale di Schegge di follia. Tra gli astanti è
possibile riconoscere chiaramente, seduti in fondo, Winona Ryder e Christian Slater.
5 Halliday ora è identico a come appare in una foto scattata a scuola nel 1980, quando aveva otto anni.
Poco distante, un televisore Zenith a 21 pollici a cui è attaccato un’Atari 2600.
«Questa è la prima console per videogiochi che abbia mai avuto» dice Halliday, con la
voce di un bambino. «È un’Atari 2600. Me l’hanno regalato per Natale, nel 1979.» Si lascia
cadere di fronte all’Atari, raccoglie un joystick e comincia a giocare. «Questo era il mio
gioco preferito» dice, indicando lo schermo del televisore, sul quale un quadratino sta
attraversando una serie di labirinti piuttosto semplici. «Si chiamava Adventure. Come
molti altri vecchi videogiochi, Adventure era stato progettato e programmato da una sola
persona. Ma, al tempo, la Atari si rifiutava di riconoscere i meriti ai propri programmatori,
perciò il nome di chi aveva creato un videogioco non compariva da nessuna parte sulla
confezione.» Sullo schermo, vediamo che Halliday sta usando una spada per uccidere un
drago rosso – anche se, a causa della rudimentale grafica a bassa risoluzione, si ha più
l’impressione che un quadrato stia usando una freccia per pugnalare un’anatra deforme.
«E così, il creatore di Adventure, un tale di nome Warren Robinett, decise di celare il suo
nome direttamente nel gioco. Nascose una chiave all’interno di uno dei labirinti. Una volta
trovata questa chiave, un puntino grigio grande quanto un pixel, potevi usarla per
accedere a una stanza segreta dove Robinett aveva nascosto il proprio nome.» Halliday
conduce il suo protagonista, il quadrato, all’interno della stanza segreta del gioco finché, al
centro dello schermo, non compaiono le parole Creato da Warren Robinett.
«Questo» dice Halliday, indicando lo schermo con sincera venerazione «è stato il primo
Easter Egg nel mondo dei videogiochi. Robinett l’aveva nascosto nel codice del gioco
senza che nessuno ne fosse a conoscenza e la Atari ha prodotto in serie Adventure e l’ha
distribuito in tutto il mondo senza sapere della stanza segreta. Ne rimasero all’oscuro fino
a qualche mese dopo, quando i ragazzini, ovunque, iniziarono a scoprire l’Easter Egg. Io
ero uno di questi ragazzini, e trovare l’Easter Egg di Robinett per la prima volta fu una
delle esperienze più grandiose della mia vita di videogiocatore.» Il giovane Halliday
abbandona il joystick e si rialza. Mentre lo fa, il salotto comincia a scomparire, e la scena
cambia di nuovo. Ora Halliday si trova in una grotta buia, sulle cui pareti umide trema la
luce di alcune torce. Simultaneamente, cambia anche il suo aspetto, Halliday si trasforma
nel famoso avatar che usava su OASIS: Anorak, un mago alto e togato con un volto che è
la versione vagamente più attraente (e senza occhiali) di Halliday da adulto. Anorak
indossa la tipica tunica nera che, su entrambe le maniche, ha ricamato l’emblema del suo
avatar (una grande A ben disegnata).
«Prima di morire» dice quindi Anorak, con un tono molto più cupo «ho creato il mio
personale Easter Egg e l’ho nascosto all’interno del mio videogioco più famoso: OASIS. Il
primo che troverà l’Easter Egg erediterà i miei beni nella loro totalità.» Altra pausa
teatrale.
«È difficile da trovare. Non l’ho semplicemente nascosto da qualche parte, dietro un sasso.
Presumo si possa dire che è chiuso dentro una cassaforte sepolta in una camera segreta
che, a sua volta, è nascosta al centro di un labirinto situato da qualche parte…» Solleva il
braccio a picchiettarsi la fronte. «Qui dentro.»
«Ma non preoccupatevi. Ho lasciato qualche indizio in giro, per mettervi sulla buona
strada. Ecco il primo.» Anorak fa un cenno pomposo con la mano destra e subito
compaiono tre chiavi che roteano in aria, proprio di fronte a lui, e sembrerebbero fatte di
rame, giada e cristallo. Mentre le chiavi continuano a roteare, Anorak comincia a recitare
la strofa di una poesia e ogni verso compare, per pochi istanti, come un sottotitolo
fiammeggiante in fondo allo schermo: Tre chiavi, ognuna una porta aprirà Che il
valor dei viandanti proverà Chi l’ardue prove superar saprà Giunto alla Fine, il
premio otterrà Al concludersi di questi versi, la Chiave di Giada e quella di cristallo
svaniscono; rimane soltanto la Chiave di Rame, ora appesa con una catenina al collo di
Anorak.
La macchina da presa segue Anorak che si volta e continua a camminare lungo la caverna.
Pochi secondi dopo, raggiunge una massiccia porta di legno a due battenti, incassata nella
parete rocciosa.
La porta è rivestita in acciaio e, incisi sulla superficie, appaiono scudi e draghi. «Questo
gioco non ho potuto testarlo, quindi la mia preoccupazione è che potrei aver nascosto il
mio Easter Egg talmente bene da renderlo introvabile. Non lo so per certo. Anche se fosse,
ora è comunque troppo tardi per cambiare qualcosa. Perciò staremo a vedere.» Anorak
spalanca la porta rivelando una smisurata stanza del tesoro, ricolma di monete d’oro
scintillante e calici tempestati di gioielli.6 Poi oltrepassa la soglia e si rivolge agli spettatori,
allargando le braccia per tenere aperta la porta.7 «E quindi, senza altri indugi»
annuncia Anorak «che la caccia all’Easter Egg di Halliday abbia inizio!» Poi scompare in
un lampo di luce, lasciando lo spettatore a guardare gli abbaglianti cumuli di tesori al di là
della porta aperta.
Poi parte una dissolvenza al nero.
Alla fine del video, Halliday aveva allegato un link al suo sito personale, che era cambiato
radicalmente la mattina della sua morte. Per più di un decennio, l’unico elemento presente
sul sito era stata una breve animazione in loop che mostrava il suo avatar, Anorak, seduto
in una biblioteca medievale, ricurvo, intento a mescolare pozioni e concentrato su alcuni
libri di incantesimi sopra un tavolo da lavoro consumato dal tempo. Sulla parete dietro di
lui si vedeva un grande dipinto che raffigurava un drago nero.
Ma ora quell’animazione non c’era più e, al suo posto, si poteva vedere una classifica dei
punteggi più alti, simile a quelle che si trovavano nei vecchi videogiochi a gettone. La lista
presentava dieci posizioni, occupate tutte dalle iniziali JDH – James Donovan Halliday –
seguite da un punteggio a sei zeri. Tale lista fu presto denominata il «Segnapunti».
Sotto il Segnapunti, un’icona rappresentava un libricino rilegato in pelle, che linkava a una
copia, scaricabile gratuitamente, dell’Almanacco di Anorak, una raccolta di centinaia di
annotazioni tratte dal diario di Halliday e prive di data. L’Almanacco consisteva in più di
un migliaio di pagine, ma forniva pochi dettagli sulla vita privata di Halliday o sulle sue
attività quotidiane.
Perlopiù, si trattava di un flusso di coscienza con osservazioni riguardanti numerosi
classici del videogioco, romanzi fantasy e di fantascienza, fumetti, cultura pop degli anni
ottanta; il tutto mescolato con divertenti diatribe che denunciavano qualsiasi cosa, dalle
religioni organizzate alle bibite dietetiche.
La Caccia, come venne ribattezzata la gara, si diffuse in fretta per tutto il mondo. La
possibilità di trovare l’Easter Egg di Halliday divenne una fantasia diffusa, tra gli adulti e
tra i bambini, come quella di vincere alla lotteria. Si trattava di un gioco cui chiunque

6 Un’attenta analisi ci rivela decine di oggetti bizzarri nascosti tra i cumuli di ricchezze. Da segnalare: molti dei primi
personal computer (un Apple IIe, un Commodore 64, un’Atari 800XL, e un TRS-80 Color Computer 2), decine di
controller compatibili con una vasta gamma di sistemi, centinaia di dadi poliedrici, di quelli usati nei vecchi giochi
di ruolo da tavolo.
7 Il fermo-immagine della scena è praticamente identico a un dipinto di Jeff Easley che comparve sulla copertina di
Dungeon Master’s Guide, un libro di regole di Dungeons & Dragons pubblicato nel 1983.
poteva partecipare e, sulle prime, non sembrava ci fosse un approccio giusto o sbagliato.
L’unico indizio che l’Almanacco di Anorak sembrava suggerire era che la conoscenza più
o meno approfondita delle varie ossessioni di Halliday sarebbe stata imprescindibile per la
soluzione dell’enigma. Cosa che portò tutti ad appassionarsi sempre più alla cultura pop
degli anni ottanta. Cinquant’anni dopo, i film, la musica, i giochi e la moda di quel
decennio erano di nuovo all’ultimo grido. Dal 2041, i capelli a punta e i jeans scoloriti in
candeggina erano tornati di moda e le classifiche musicali erano dominate da band
contemporanee che suonavano cover dei successi pop degli ottanta. Tutti coloro che erano
stati ragazzini in quel decennio, ormai prossimi alla vecchiaia, stavano vivendo la strana
esperienza di vedere gli stili e le tendenze della loro giovinezza abbracciati dai nipotini.
Era nata una nuova sottocultura, composta dai milioni di individui che ora impiegavano il
loro tempo libero alla ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Inizialmente venivano definiti,
abbastanza semplicemente, come Egg Hunters, ma presto il soprannome fu contratto in
Gunters.
Durante il primo anno della Caccia, essere un Gunter andava molto di moda e non c’era
utente OASIS che non si fregiasse di quel titolo.
Al primo anniversario della morte di Halliday, però, la frenesia che circondava la Caccia
iniziò ad affievolirsi. Era passato un anno intero, e nessuno aveva trovato nulla. Non una
chiave, non una porta. Parte del problema era legato all’estensione stessa di OASIS. Al suo
interno erano presenti più di mille mondi virtuali e la chiave poteva trovarsi in ognuno di
essi. Un Gunter avrebbe potuto impiegare anni per una ricerca approfondita anche solo in
un mondo.
Al di là di tutti i Gunter cosiddetti «professionisti» che ogni giorno, sui loro blog, si
vantavano di essere vicini a una svolta, la verità divenne via via più evidente: nessuno
aveva idea di cosa stesse cercando, né sapeva da dove cominciare.
Passò un altro anno.
E un altro ancora.
Niente.
Il grande pubblico perse interesse per la gara. Cominciò a diffondersi l’idea che fosse una
bufala inventata da un ricco stravagante. Altri credevano che, anche se l’Egg fosse esistito
veramente, nessuno lo avrebbe mai trovato. Al contrario, OASIS continuava a evolversi e a
diventare sempre più popolare e protetto sia dalle grinfie di coloro che volevano
acquisirne il controllo sia dalle controversie legali, grazie al testamento blindato di
Halliday e all’esercito di avvocati rabbiosi incaricati di occuparsi dei suoi beni.
L’Easter Egg di Halliday entrò lentamente a far parte delle leggende metropolitane e il
popolo dei Gunter, che sempre più si assottigliava, diventò oggetto di scherno. Ogni anno,
nel giorno della morte di Halliday, i telegiornali riportavano, sarcasticamente, la notizia
che non si era giunti ad alcun progresso. E ogni anno che passava, sempre più Gunter
gettavano la spugna, giunti alla conclusione che Halliday avesse davvero reso l’Easter Egg
impossibile da trovare.
E passò un altro anno.
E un altro ancora.
Poi, la sera dell’11 febbraio 2045, il nome di un avatar comparve in cima al Segnapunti, in
bella vista davanti a tutto il mondo. Dopo cinque lunghi anni, la Chiave di Rame era stata
trovata da un diciottenne che viveva in un parcheggio di case mobili alla periferia di
Oklahoma City.
Ero io.
Decine di libri, cartoni animati, film e miniserie hanno cercato di raccontare la storia di
tutto quello che accadde in seguito, ma nessuno l’ha fatto nella maniera giusta. È per
questo che voglio mettere le cose in chiaro, una volta per tutte.

LIVELLO UNO
«La condizione umana è uno schifo, per la maggior parte del tempo.
I videogiochi sono l’unica cosa che rende la vita sopportabile.»
Almanacco di Anorak, Capitolo 91, Versi 1-2

0001
Mi svegliò di soprassalto il rumore di una sparatoria nelle vicinanze. Agli spari seguì
qualche minuto di grida soffocate, poi il silenzio.
Le sparatorie non erano insolite, nel parcheggio, ma ne rimasi comunque scosso. Sapevo
bene che probabilmente non sarei riuscito a riaddormentarmi, perciò decisi di ammazzare
il tempo che mi separava dall’alba rispolverando qualche classico a gettoni. Galaga,
Defender, Asteroids. Questi giochi erano obsoleti dinosauri digitali, ed erano diventati
pezzi da museo già molto tempo prima che io nascessi. Ma ero un Gunter, e per me non si
trattava solo di eccentrici pezzi d’antiquariato a bassa risoluzione. Per me erano reliquie
da venerare. Pilastri del pantheon. Quando giocavo ai classici, lo facevo con risoluta
reverenza.
Ero raggomitolato in un vecchio sacco a pelo, incastrato nello spazio tra il muro e
l’asciugatrice, nell’angolo della minuscola zona lavanderia del container. Mia zia non
gradiva che stessi nella sua stanza, al di là del corridoio, e a me la cosa stava più che bene.
Preferivo in ogni caso sistemarmi nella lavanderia. Lì si stava al calduccio, mi potevo
permettere una quantità discreta di privacy e la ricezione wireless non era troppo debole.
Altro vantaggio, la stanza odorava di detersivo liquido e ammorbidente. Il resto della casa
sapeva di piscio di gatto e povertà totale.
Solitamente, dormivo nel mio nascondiglio. Ma, durante le notti precedenti, la
temperatura era scesa sotto lo zero e, per quanto detestassi stare da mia zia, era comunque
meglio che morire congelati.
Nella casa mobile di mia zia viveva un totale di quindici persone. Lei dormiva nella più
piccola delle tre stanze. I Deppert vivevano nella stanza accanto alla sua e i Miller
occupavano la camera matrimoniale in fondo al corridoio. Erano in sei e pagavano una
grossa fetta dell’affitto. Il nostro trailer non era affollato come altri che si trovavano nel
parcheggio. Era una casa a due blocchi. C’era un mucchio di spazio per tutti.
Tirai fuori il mio computer portatile e lo accesi. Era un bestione ingombrante e
pesantissimo, vecchio di quasi dieci anni. L’avevo trovato in una discarica dietro al centro
commerciale abbandonato, dall’altra parte dell’autostrada. Ero riuscito a riportarlo in vita
rimpiazzando la sua memoria di sistema e reinstallando il suo sistema operativo
primordiale. Per gli standard attuali, il processore era più lento di un bradipo, ma per
quello che mi serviva andava benissimo. Il laptop era la mia biblioteca portatile, la mia
sala giochi, il mio cinema privato. Il disco fisso traboccava di vecchi libri, film, episodi di
serie tv, file musicali e quasi ogni videogioco prodotto nel Ventesimo secolo.
Avviai il mio emulatore e selezionai Robotron: 2084, uno dei miei giochi preferiti di tutti i
tempi. Avevo sempre amato il suo ritmo frenetico, la sua brutale semplicità. Robotron si
basava interamente sull’istinto e sui riflessi. Giocare ai vecchi videogiochi mi permetteva,
ogni volta, di schiarirmi la mente e sentirmi a mio agio. Se ero giù di morale, o mi sentivo
frustrato per la vita che vivevo, dovevo solo dare un colpetto al pulsante Player One, e
tutte le angosce mi abbandonavano, via via che la mente si concentrava sull’incessante
assalto di pixel nello schermo davanti ai miei occhi. La vita era semplice, nell’universo
bidimensionale del gioco: tu contro la macchina, e basta. Ti sposti con la mano sinistra,
spari con la destra, cerchi di sopravvivere più che puoi.
Trascorsi qualche ora a dare addosso a ondate su ondate di Brains, Spheroids, Quarks e
Hulks, nella mia eterna lotta per Salvare l’Ultima Famiglia del Genere Umano! Ma dopo
un po’ le mie dita iniziarono a intorpidirsi e persi il ritmo. Quando arrivavo a questo
punto, la situazione peggiorava in fretta. Bruciai a vuoto tutte le vite che avevo, e sullo
schermo apparvero le due parole che amavo di meno: GAME OVER.
Spensi l’emulatore e cominciai a spulciare tra i miei file video. Nel corso di cinque anni
avevo scaricato ogni singolo film, serie tv e cartone animato che fosse citato
nell’Almanacco di Anorak. Non che li avessi già guardati tutti, naturalmente. Avrei
impiegato decenni.
Selezionai un episodio di Casa Keaton, sitcom degli anni ottanta che parla di una famiglia
borghese dell’Ohio centrale. L’avevo scaricata perché era tra le preferite di Halliday e
pensavo fosse possibile che almeno un episodio contenesse qualche indizio utile per la
Caccia. Mi ero immediatamente appassionato allo show, e avevo ormai guardato più volte
tutti i centottanta episodi. Non me ne stancavo mai.
Seduto al buio, guardando la serie sullo schermo del computer, finivo per immaginare che
fossi proprio io a vivere in quella casa accogliente e ben illuminata, e che tutte quelle
persone sorridenti e comprensive fossero la mia famiglia. Che non ci fosse niente al mondo
di così sbagliato da non poter essere risolto in trenta minuti di episodio (o, al limite, nel
tempo di un episodio in due parti, nel caso di faccende serissime).
La mia vita non aveva mai assomigliato neanche lontanamente a quella ritratta in Casa
Keaton, e questo probabilmente era il motivo per cui la serie mi piaceva tanto. Ero figlio
unico, i miei genitori erano due adolescenti che si erano incontrati nella baraccopoli in cui
ero cresciuto. Mio padre non me lo ricordo. Avevo un paio di mesi quando gli spararono
mentre cercava di derubare una drogheria, durante un blackout. L’unica cosa che sapevo
di lui è che amava i fumetti. Una volta trovai moltissime penne USB in una scatola che
conteneva le sue cose, e al loro interno c’erano serie complete di Amazing Spider–Man, X–
Men e Lanterna Verde. Una volta la mamma mi disse che mio padre aveva deciso di darmi
un nome allitterante – Wade Watts – perché pensava suonasse come quello dell’identità
segreta di un supereroe. Come Peter Parker, come Clark Kent. Scoprirlo mi portò a
pensare che probabilmente era in gamba, nonostante il modo in cui era morto. Mia madre,
Loretta, si era trovata a crescermi da sola. Avevamo vissuto per un po’ in un piccolo
camper, in un’altra parte della baraccopoli. Aveva due lavori a tempo pieno su OASIS:
faceva l’operatrice di telemarketing e l’accompagnatrice in un bordello online. Di notte mi
obbligava a mettere i tappi per le orecchie perché non la sentissi mentre, nella stanza
accanto, diceva zozzerie a tipacci dall’altra parte del mondo. Ma i tappi non funzionavano
bene, perciò io mi sedevo a guardare vecchi film tenendo il volume al massimo.
Feci la conoscenza di OASIS quando ero ancora molto piccolo: mia madre lo usava come
baby–sitter virtuale. Quando crebbi abbastanza da poter indossare un visore e un paio di
guanti aptici, la mamma mi diede una mano a creare il mio primo avatar su OASIS. Poi mi
piazzò in un angolo e se ne tornò al lavoro lasciandomi solo, a esplorare un mondo
completamente nuovo, totalmente diverso da quello che avevo conosciuto fino ad allora.
Da quel momento, a educarmi furono i programmi interattivi pedagogici di OASIS: ogni
bambino poteva accedervi gratis. Passai un bel pezzo della mia infanzia a spassarmela in
una simulazione virtuale di Sesame Street, a cantare insieme a Muppet gentili, a giocare
con programmi interattivi che mi insegnavano a camminare, parlare, sommare e sottrarre,
leggere, scrivere, condividere. Una volta padroneggiate queste abilità, non impiegai molto
tempo a scoprire che OASIS era la biblioteca pubblica più vasta del mondo, un luogo in
cui anche un ragazzino squattrinato come me poteva avere accesso a ogni libro mai scritto,
a ogni canzone mai registrata, a ogni film, serie televisiva, videogioco e opera d’arte che
fosse mai stato creato. Una collezione di tutto il sapere, di tutta l’arte e gli svaghi della
civiltà umana era proprio lì, ad aspettarmi. Ma avere accesso a tutte quelle informazioni si
dimostrò una benedizione soltanto in parte. Perché fu proprio allora che scoprii la verità.
Non saprei, forse avete vissuto un’esperienza diversa dalla mia. Ma, per quanto mi
riguarda, diventare un essere umano adulto sul Pianeta Terra durante il Ventunesimo
secolo è stato un vero e proprio calcio nei denti. Esistenzialmente parlando.
La cosa più brutta, da bambino, è che nessuno voleva dirmi la verità sulla mia situazione.
A pensarci bene, facevano l’esatto contrario. E, come è ovvio, io ci credevo, perché ero
soltanto un bambino e non sapevo cavarmela meglio di così. Gesù, il mio cervello non si
era nemmeno formato del tutto, come diavolo potevo intuire le volte in cui gli adulti mi
stavano prendendo per il culo?
E così, finivo per ingoiare tutte le assurdità da Medioevo che mi propinavano. Passò del
tempo. Divenni un po’ grande e iniziai a rendermi conto che più o meno chiunque mi
aveva mentito su più o meno qualunque cosa dal momento in cui ero spuntato dall’utero
di mia madre.
Fu una rivelazione angosciante.
Mi causò problemi di fiducia, in seguito, nella vita.
Cominciai a scoprire la cruda verità non appena iniziai a esplorare le biblioteche gratuite
di OASIS. Tutte le verità, i fatti comprovati, erano lì ad aspettarmi, nascosti in vecchi libri
scritti da persone che non avevano paura di essere oneste. Artisti, scienziati, filosofi e
poeti, la maggior parte dei quali era morta da molto tempo. Leggendo le parole che
avevano lasciato, iniziai finalmente a comprendere la situazione in prima persona. La mia
situazione. La nostra situazione. Quella che quasi tutti definiscono «la condizione umana».
Nessuna buona notizia.
Vorrei che qualcuno mi avesse detto la verità senza mezzi termini, non appena fossi
cresciuto abbastanza da comprenderla. Vorrei che qualcuno mi avesse detto: «Ecco il
punto della situazione, Wade. Tu sei una cosa chiamata “essere umano”. Si tratta di un
animale molto sveglio. Come tutti gli altri animali del pianeta, discendiamo da un
organismo unicellulare vissuto milioni di anni fa. Il tutto è avvenuto per via di un
processo chiamato evoluzione, ma di questo verrai a sapere più avanti. Comunque,
dammi retta, è il modo in cui siamo arrivati qui. Se ne trovano prove ovunque. E quella
storia che hai sentito? Su come siamo stati tutti creati da un tale superpotente che si
chiama Dio e vive in cielo? Stronzata suprema. Tutta quella storia su Dio in realtà è
un’antica favola che la gente si racconta da migliaia di anni. L’abbiamo inventata noi.
Come Babbo Natale, o il coniglietto pasquale.
«Oh, e per tua informazione… né Babbo Natale né il coniglietto pasquale esistono.
Stronzate anche quelle. Mi dispiace, ragazzo. Fattene una ragione.
«Probabilmente ti starai chiedendo cosa sia successo prima che arrivassi tra noi. Un sacco
di cose, a dir la verità. Quando ci siamo evoluti fino a diventare umani, la storia si è fatta
interessante. Abbiamo capito come coltivare il cibo e addomesticare gli animali, per non
passare tutto il tempo a cacciare. Le nostre tribù si sono ingrandite sempre più, e ci siamo
sparsi sull’intero pianeta in modo inarrestabile, come un virus. Quindi, dopo aver
combattuto gli uni contro gli altri per il territorio, per le risorse, e per i nostri dèi inventati
a tavolino, siamo riusciti a organizzare tutte le nostre tribù in una «civiltà globale».
Comunque, a essere onesti, non era granché organizzata, né civile, e abbiamo continuato a
farci guerra a vicenda. Ma siamo riusciti anche a capire come funzionava la scienza, il che
ci ha aiutato a sviluppare la tecnologia. Se consideri che siamo un mucchio di scimmie
senza pelo, siamo riusciti a inventare roba abbastanza incredibile. I computer. La
medicina. I laser. I forni a microonde. I cuori artificiali. Le bombe atomiche. Abbiamo
mandato anche un paio di tizi sulla luna, e poi li abbiamo riportati a casa. Abbiamo anche
creato una rete globale di comunicazione che ci permette di parlarci in ogni momento, in
qualsiasi parte del mondo ci troviamo. Sorprendente, vero?
«Ma è qui che arrivano le cattive notizie. La nostra civiltà globale ci è costata molto. Per
costruirla, avevamo bisogno di un sacco di energia, e quell’energia siamo riusciti a
ottenerla bruciando i combustibili fossili che derivano dalle piante morte e dagli animali
seppelliti nel terreno, a grande profondità. Abbiamo usato la maggior parte del
combustibile prima che tu arrivassi, e ora che ci sei non ne abbiamo quasi più. Questo vuol
dire che non abbiamo più energia sufficiente per gestire la nostra civiltà come un tempo.
Abbiamo dovuto fare dei tagli. Bel risultato. Noi la chiamiamo crisi energetica globale, e
va avanti ormai da un bel po’.
«In aggiunta, è venuto fuori che tutto quel bruciare combustibili fossili aveva anche effetti
collaterali piuttosto fastidiosi. Per esempio, l’innalzarsi della temperatura del pianeta e il
totale incasinamento dell’ambiente. Le calotte artiche si stanno sciogliendo, i livelli del
mare si innalzano, il clima è un unico grande disastro. Piante e animali si estinguono a
ritmo di record e migliaia di persone sono affamate e senza una casa. E ancora ci facciamo
la guerra a vicenda, usando le poche risorse che ci rimangono.
«In pratica, ragazzo, il significato di tutto questo è che la vita è molto più dura di quanto
non fosse in passato, «nei bei tempi andati», prima che tu nascessi. Le cose allora erano
grandiose, ma oggi sono abbastanza terrificanti. In tutta onestà, non vedo un futuro
troppo roseo. Sei nato in un momento storico piuttosto schifoso. E pare che le cose
vogliano solo peggiorare, ormai. La civiltà umana è in “declino”. C’è chi dice che sta
“collassando” su se stessa».
«Probabilmente ti starai domandando cosa ti succederà. Semplice. A te succederà la stessa
cosa che è successa a ogni altro essere umano che sia mai vissuto. Morirai. Moriamo tutti.
È così che stanno le cose.
«Cosa accade quando muori? Be’, non ne siamo troppo certi. Ma le prove suggeriscono che
non succede niente. Muori e basta, il tuo cervello smette di funzionare, e a quel punto non
vai più in giro a fare domande fastidiose. Ah, e quelle storie che hai sentito sull’andare in
un posto meraviglioso chiamato “paradiso”, dove non c’è dolore o morte e vivi all’infinito
in uno stato di perpetua felicità? Altra stronzata suprema. Come tutta quella roba su Dio.
Non c’è una vera testimonianza del paradiso, e non c’è mai stata. Abbiamo inventato
anche quello. Pensiero positivo. Quindi, d’ora in poi dovrai passare il resto della tua vita
con la certezza che un giorno morirai e scomparirai per sempre.
«Mi spiace.»
D’accordo, a pensarci meglio, forse quella dell’onestà non è la miglior politica. Forse non è
una bella idea dire a un essere umano nuovo di pacca che è nato in un mondo di caos,
dolore e povertà, che è appena in tempo per godersi lo spettacolo del crollo totale. Io ho
scoperto tutto questo nel corso di molti anni e, nonostante la gradualità delle informazioni,
ogni volta sentivo il bisogno di buttarmi da un ponte.
Fortunatamente, ebbi modo di accedere a OASIS, che mi si presentò come la via di fuga
verso una realtà migliore. OASIS mi impedì di impazzire. Diventò il mio campo giochi e la
mia scuola materna, un luogo magico dove tutto era possibile.
È OASIS lo sfondo dei miei ricordi d’infanzia più felici. Quando la mamma non doveva
lavorare, ci collegavamo insieme e giocavamo, o ci imbarcavamo nelle avventure
interattive dei libri di fiabe. Ogni sera, puntualmente, mi obbligava a sconnettermi, dato
che io non volevo mai ritornare nel mondo reale. Perché il mondo reale era uno schifo.
Non ho mai incolpato mia madre dello stato delle cose. Era una vittima del destino e delle
circostanze crudeli, come tutti. La sua generazione aveva vissuto il peggio. Era nata in un
mondo di abbondanza, giusto in tempo per vederselo svanire davanti agli occhi. Mi
ricordo, soprattutto, che ero dispiaciuto per lei. Era costantemente depressa, e la droga era
la sola cosa che riuscisse a tenerla su di morale. Chiaramente, fu quella a ucciderla. Avevo
undici anni, lei si sparò nel braccio una partita scadente di qualcosa e morì in questo
modo, sul nostro logoro divano letto, mentre ascoltava musica dal vecchio lettore mp3 che
avevo riparato e le avevo regalato per Natale.
Fu allora che fui costretto a trasferirmi dalla sorella di mia madre, Alice. La zia Alice non
mi accolse per gentilezza o per un senso di responsabilità familiare. Lo fece per ottenere
dal governo più buoni pasto mensili. Quasi sempre, ero io a dovermi cercare il cibo. In
genere non era un grosso problema, avevo talento nel trovare e aggiustare vecchi
computer e console OASIS rotte, che poi rivendevo al banco dei pegni o scambiavo con
buoni pasto. Guadagnavo abbastanza da non fare la fame: era ben più di quanto potessero
vantare molti dei miei vicini.
L’anno in cui morì la mamma passai molto tempo a crogiolarmi nella disperazione e
nell’autocommiserazione. Cercavo di guardare il lato positivo, di tenere bene a mente che,
orfano o meno, stavo comunque meglio di quasi tutti i bambini dell’Africa. E dell’Asia. E
anche del Nord America. Avevo sempre avuto un tetto sulla testa, avevo cibo a
sufficienza. E avevo OASIS. La mia vita non era poi così male. Se non altro, è quello che
continuavo a ripetermi, in un vano tentativo di alleviare quella tragica solitudine in cui mi
ero trovato immerso.
Poi ebbe inizio la Caccia all’Easter Egg di Halliday. E fu quella a salvarmi, credo.
Improvvisamente, avevo trovato qualcosa che valesse la pena fare. Un sogno da inseguire.
Da cinque anni, la Caccia mi dava uno scopo, un obiettivo. Una ricerca da portare a
termine. Un motivo per alzarmi la mattina. Qualcosa da attendere con ansia.
Fu esattamente quando cominciai a cercare l’Easter Egg che il futuro non mi sembrò più
tanto tetro.
Ero a metà del quarto episodio della mia maratona di Casa Keaton quando la porta della
lavanderia cigolò ed entrò zia Alice, arpia malnutrita in una vestaglia lacera, con in braccio
una cesta di vestiti sporchi. Sembrava più lucida del solito, il che in genere era di per sé
una cattiva notizia. Quando era fatta era molto più gestibile.
Mi lanciò uno sguardo rapido, sdegnoso come al solito, e iniziò a caricare i vestiti nella
lavatrice. Poi la sua espressione mutò, e si mise a sbirciare dietro all’asciugatrice per
osservarmi meglio. Sgranò gli occhi quando mi vide con il portatile. Io lo richiusi
rapidamente e tentai di infilarlo alla meglio nello zaino, ma sapevo che ormai era troppo
tardi.
«Da’ qui, Wade» mi ordinò, cercando di afferrarlo. «Posso impegnarlo. Con i soldi ci
paghiamo un po’ di affitto.»
«No!» gridai cercando di svincolarmi dalla sua presa. «Dài, zia Alice. Ne ho bisogno per la
scuola.»
«L’unica cosa di cui hai veramente bisogno è di mostrare un po’ di gratitudine!» mi abbaiò
contro. «Tutti qui devono pagare l’affitto. Sono stanca di farmi succhiare il sangue da te!»
«Ma tu ti tieni tutti i miei buoni pasto. Con quelli copro abbondantemente la mia quota
d’affitto.»
«Fesserie!» Cercò di sfilarmi il computer di mano, ma io lo tenni stretto. A un certo punto
si voltò e sciabattò verso la sua stanza. Sapevo quale sarebbe stata la sua prossima mossa,
perciò diedi al mio laptop un comando per bloccare la tastiera e cancellare il disco fisso.
Zia Alice tornò qualche secondo più tardi insieme al suo ragazzo, Rick, ancora mezzo
addormentato. Rick era costantemente a torso nudo perché amava sfoggiare la sua
sorprendente collezione di tatuaggi da carcerato. Senza dire una parola, mi si avvicinò e
mi mostrò il pugno minacciosamente. Io trasalii e gli consegnai il laptop. Quindi, lui e zia
Alice se ne andarono, discutendo di quanto il computer avrebbe potuto fruttare al banco
dei pegni.
Perdere il laptop non era poi così grave. Nel mio nascondiglio ne conservavo altri due. Ma
non erano altrettanto veloci, e avrei dovuto trasportare lì il mio intero archivio di file,
salvato su dischi fissi di riserva. Una totale rottura di coglioni. Ma era tutta colpa mia.
Conoscevo bene i rischi che correvo portando cose di valore in quel posto.
La luce blu scuro dell’alba iniziava a trapelare dalla finestra della lavanderia. Decisi che
forse era una buona idea uscire e andare a scuola un po’ prima del solito.
Mi vestii rapidamente e in silenzio, mettendomi addosso un maglione sformato, un
cappotto troppo largo e ciò che rimaneva dei miei pantaloni in velluto: l’intero mio
guardaroba invernale. Misi lo zaino in spalla e mi arrampicai sulla lavatrice. Infilai i guanti
e aprii la finestra ricoperta di brina. L’aria gelida del mattino mi ferì le guance mentre
osservavo, all’esterno, quel mare confuso di tetti prefabbricati.
La casa di mia zia si trovava in cima a una «catasta» di ventidue case mobili, ed era più
alta di un piano o due rispetto alla maggior parte dei caseggiati che la circondava. I
container che si trovavano al livello più basso erano a contatto con il terreno, o poggiavano
su fondamenta in cemento, quelli accatastati sopra erano sospesi su un’impalcatura
componibile rinforzata, un agglomerato di tralicci in metallo che era stato assemblato alla
spicciolata, nel corso degli anni.
Vivevamo nelle cataste di Portland Avenue, nei tentacoli di un alveare brulicante di
scatole di latta scolorite e lasciate ad arrugginire sulle sponde dell’Interstatale 40, a ovest
del centro di Oklahoma City e dei suoi grattacieli in rovina. Era un agglomerato composto
da più di cinquecento singole cataste, connesse l’una all’altra da una rete raffazzonata di
tubature, travi, pilastri e ponticelli. Le cime di una decina di antiche gru (che all’epoca
erano state usate per impilare le case) si ergevano intorno al perimetro esterno
dell’insediamento, che era in continua espansione.
Il piano più alto, il «tetto» dei caseggiati, era ricoperto da un mosaico di vecchi pannelli
solari che fornivano energia integrativa alle case dei livelli più bassi. Un intricato fascio di
tubi di gomma si snodava su e giù per ogni catasta e garantiva acqua a ciascuna
abitazione, oltre a far defluire gli scarichi fognari (un lusso non sempre presente in altre
cataste sparse per la città). Non molta luce raggiungeva il livello più basso (noto anche
come «piano terra»). Nelle vie strette e oscure che si diramavano tra i cumuli di case erano
ammassati gli scheletri di vecchie auto e camion abbandonati, i loro serbatoi svuotati, i
loro sportelli bloccati già da molto tempo.
Il signor Miller, uno dei nostri coinquilini, mi aveva spiegato che i parcheggi come il
nostro consistevano, un tempo, in un paio di decine di case mobili, sistemate sul terreno in
file ordinate. Ma con il crollo del petrolio e l’inizio della crisi energetica, le grandi città
erano state sommerse da rifugiati provenienti dalle aree periferiche e rurali circostanti. Il
tutto aveva provocato un’enorme crisi degli alloggi urbani. I lotti più vicini al centro delle
grandi città avevano raggiunto un valore troppo alto perché ci si potesse permettere case
mobili a un solo piano, e in quell’occasione qualcuno se ne uscì con la brillante idea, come
disse il signor Miller, di «accatastare quelle figlie di puttana» per sfruttare al massimo lo
spazio. L’idea attecchì rapidamente, ottenne un immenso successo e in tutto il paese
parcheggi come il mio si espansero fino a diventare «cataste» come quella in cui vivevo,
un bizzarro ibrido tra le baraccopoli, le abitazioni abusive e i campi profughi. Ormai le
cataste si trovavano ai confini di ogni grande città, e ciascuna brulicava di zotici sradicati
come i miei genitori che, alla ricerca disperata di lavoro, di cibo, di elettricità e di un
accesso stabile a OASIS, avevano lasciato le loro piccole e morenti città d’origine e avevano
usato le ultime scorte di benzina (o le loro bestie da soma) per trascinare le famiglie, i
camper o le case mobili verso la metropoli più vicina.
Tutte le cataste del nostro parcheggio raggiungevano, per altezza, un minimo di quindici
prefabbricati ciascuna (comparivano anche, a dare un tocco di varietà, alcuni occasionali
camper o container da spedizione, roulotte in alluminio o furgoncini Volkswagen). Negli
ultimi anni, le cataste si erano innalzate fino ad arrivare a venti o più unità. Questo fatto
preoccupava molte persone. Spesso le cataste crollavano e, se i ponteggi di supporto si
inclinavano dalla parte sbagliata, l’effetto domino arrivava a coinvolgere quattro o cinque
cataste confinanti.
Casa nostra era situata all’estremità settentrionale del complesso, che raggiungeva un
fatiscente cavalcavia sull’autostrada. Dalla mia posizione strategica, la finestra della
lavanderia, potevo vedere una scia sottile di veicoli elettrici che strisciavano, sull’asfalto
squarciato, per portare in città merci e lavoratori. Osservavo la cupa linea dell’orizzonte,
quando una lama di sole fece capolino in lontananza. Mi dedicai a un esercizio mentale:
ogni volta che vedevo il sole, mi convincevo che stavo solo guardando una stella. Un’unica
stella su cento miliardi e più che appartengono alla nostra galassia. Una galassia che è solo
una su un miliardo di galassie presenti nell’universo osservabile. Questo mi aiutava a
mantenere le cose nella giusta prospettiva. Avevo cominciato a farlo dopo aver visto un
programma scientifico dei primi anni ottanta che si intitolava Cosmo.
Scavalcai la finestra cercando di fare meno rumore possibile e, tenendomi aggrappato al
davanzale, scivolai lungo la parete fredda della casa. La piattaforma in acciaio su cui
poggiava la nostra abitazione era poco più larga e più lunga dell’abitazione stessa. Il
cornicione, quindi, misurava appena una quarantina di centimetri: con attenzione mi calai
finché i miei piedi non lo toccarono, poi sollevai un braccio e richiusi la finestra alle mie
spalle. Afferrai un pezzo di corda che avevo precedentemente fissato in quel punto, ad
altezza della vita, per usarlo come appiglio, poi iniziai a dirigermi, passo dopo passo,
verso l’angolo della piattaforma. Da lì riuscivo a scendere seguendo il profilo dei ponteggi,
che somigliava a quello di una scala. Prendevo quasi sempre questa strada quando uscivo
o rientravo a casa di mia zia. Una scala pericolante era stata fissata su un lato della catasta,
ma traballava e colpiva i ponteggi, quindi non potevo usarla senza tradire la mia presenza.
Brutta cosa. Tra le cataste era meglio evitare di essere uditi o visti, se possibile. In giro si
trovavano persone pericolose e pronte a tutto: gente che avrebbe potuto derubarti,
stuprarti e poi vendere i tuoi organi al mercato nero.
Scendere lungo quella rete di travi metalliche mi ricordava sempre i videogiochi a
piattaforme come Donkey Kong o BurgerTime. L’idea mi era venuta qualche anno prima,
quando avevo progettato il mio primo gioco per Atari 2600 (rito di passaggio per ogni
Gunter, l’equivalente di uno Jedi che costruisce la sua prima spada laser). Il gioco era una
scopiazzatura di Pitfall! e si intitolava The Stacks, «le cataste», lo scopo era navigare in un
labirinto verticale di case mobili, raccogliendo vecchi computer, accumulando Punti Vita
grazie ai buoni pasto, ed evitando i tossici e i pedofili che ti si paravano davanti sulla
strada verso la scuola. Il mio gioco era molto più divertente della realtà.
Durante la discesa, mi fermai accanto alla roulotte Airstream in alluminio che si trovava
tre piani sotto di noi. Al suo interno abitava una mia amica, la signora Gilmore. Era una
dolce vecchina di oltre settant’anni che si svegliava sempre terribilmente presto. Sbirciai
dalla finestra e la vidi armeggiare in cucina. Si stava preparando la colazione. Si accorse
della mia presenza dopo pochi secondi e i suoi occhi si illuminarono.
«Wade!» disse, spalancando la finestra. «Buongiorno, ragazzo mio.»
«Buongiorno signora G.» dissi. «Spero di non averla spaventata.»
«Per nulla» disse. Si strinse addosso la vestaglia per ripararsi dagli spifferi. «Si gela là
fuori. Perché non entri a fare colazione? Ho un po’ di bacon alla soia. E queste uova in
polvere non sono malissimo, se ci metti un bel po’ di sale…»
«Grazie, signora G., ma oggi non posso. Devo andare a scuola.»
«D’accordo. Vale per la prossima volta, comunque.» Mi mandò un bacio e si apprestò a
chiudere la finestra. «Cerca di non spezzarti il collo mentre fai le tue scalate, va bene,
Uomo Ragno?»
«Sarà fatto. A più tardi, signora G.» Le feci un cenno di saluto e continuai a scendere.
La signora Gilmore era assolutamente adorabile. Mi permetteva, quando ne avevo
bisogno, di dormire sul suo divano, anche se per me era difficile per via di tutti i suoi gatti.
La signora G. era estremamente religiosa e passava la maggior parte del suo tempo su
OASIS, seduta nella congregazione di una di quelle gigantesche chiese online. Cantava
inni, ascoltava sermoni, faceva viaggi virtuali in Terra Santa.
Io le sistemavo la sua console antidiluviana tutte le volte che si guastava. In cambio, lei
rispondeva alle mie innumerevoli domande su come fosse stato crescere negli anni
ottanta. Raccontava aneddoti preziosissimi di quel periodo – informazioni che non si
potevano apprendere dai libri o dai film. Inoltre, pregava sempre per me. Cercava in tutti i
modi di salvare la mia anima. Non ebbi mai il cuore di dirle che per me la religione
organizzata era un’idiozia totale. Era una piacevole fantasia che le dava speranza e le
permetteva di andare avanti: esattamente ciò che la Caccia era per me. Per citare
l’Almanacco: «Chi non è nella posizione di giudicare, chiuda quella cazzo di bocca».
Quando raggiunsi il piano terra, saltai giù dai ponteggi e mi lasciai cadere per i pochi
centimetri che mi separavano dal suolo. I miei stivali di gomma scricchiolarono sul fango
ghiacciato. C’era ancora molto buio, lì sotto, così accesi la mia torcia elettrica e mi diressi a
est, facendomi strada attraverso l’oscurità di quel labirinto, cercando con tutte le mie forze
di rendermi invisibile e, al tempo stesso, evitando di incespicare in carrelli della spesa,
monoblocchi o altri tipi di cianfrusaglie disseminati tra i corridoi angusti delle cataste. Solo
di rado vedevo qualcuno a quest’ora del mattino. I furgoncini per i pendolari passavano
solo un paio di volte al giorno, e chi era abbastanza fortunato da avere un lavoro
probabilmente era già alla fermata dell’autobus, sull’autostrada. Quasi tutti lavoravano a
giornata nelle enormi aziende agricole che circondavano la città.
Dopo aver camminato per un chilometro, raggiunsi una montagna di automobili e
camioncini, ammucchiati senza troppa cura lungo il confine settentrionale delle cataste.
Decenni fa, le gru avevano ripulito l’intera area dai veicoli abbandonati, così da lasciare
più spazio per altre cataste. Poi, li avevano ammassati lungo il perimetro
dell’insediamento, formando pile come questa. Alcune pile raggiungevano, in altezza, le
cataste stesse.
Mi arrampicai fino al margine della pila, mi guardai intorno per accertarmi che nessuno
mi stesse osservando o seguendo, poi mi voltai per infilarmi nello spazio tra una carcassa
d’auto e l’altra. Da lì, mi chinai e mi inerpicai nelle profondità della montagna pericolante
di lamiere schiacciate, finché non raggiunsi un piccolo spiazzo sul retro di un furgone.
Soltanto la parte posteriore del furgone era visibile. Il resto era nascosto dagli altri veicoli
accatastati ai lati. Due pick–up giacevano, rovesciati, sul tetto del furgone, ma il loro peso
veniva sostenuto dalle altre auto ammassate ai lati. Si era creata, così, una sorta di arco
protettivo: in tal modo il furgone non poteva essere schiacciato dalle automobili che lo
sovrastavano.
Sfilai la catenina che portavo al collo, alla quale avevo appeso una chiave. La prima volta
che avevo scoperto il furgone, avevo avuto la fortuna di trovare la chiave ancora infilata
nel quadro. Molti veicoli funzionavano ancora quando erano stati abbandonati. I
proprietari non potevano più permettersi la benzina, perciò li avevano parcheggiati da
qualche parte e se n’erano andati per sempre.
Misi in tasca la torcia e aprii lo sportello posteriore del furgone. Si socchiuse quel tanto da
permettermi di entrare. Richiusi il portellone e lo bloccai dall’interno. Sul retro, il furgone
non aveva finestrini, e per un istante rimasi rannicchiato nell’oscurità, finché non tastai la
presa elettrica che avevo montato con il nastro adesivo sul tetto dell’abitacolo. Diedi un
colpetto all’interruttore, e una vecchia lampada da tavolo inondò di luce lo spazio ridotto
in cui mi trovavo.
Il tettuccio verde e ammaccato di un’utilitaria ricopriva per intero lo spazio in cui un
tempo si trovava il parabrezza, ma la parte anteriore del furgone non era ulteriormente
danneggiata. L’interno era rimasto intatto. Qualcuno aveva portato via tutti i sedili
(probabilmente per riciclarli come poltrone da salotto). Quel che restava era una
minuscola «stanza» alta un metro, larga un metro e lunga tre.
Questo era il mio nascondiglio.
L’avevo scoperto quattro anni prima, mentre ero a caccia di componenti di computer. La
prima volta che aprii lo sportello e diedi un’occhiata all’interno buio del furgone, capii
subito che avevo appena trovato una cosa di inestimabile valore: la privacy. Era un luogo
che nessun altro conosceva, in cui non avrei dovuto preoccuparmi degli assilli o delle
sberle di mia zia e di tutti i suoi fidanzati sfigati. Qui potevo tenere le mie cose senza aver
paura che me le rubassero. E, cosa ancora più importante, era un luogo in cui potevo
accedere a OASIS in santa pace.
Il furgone era il mio rifugio. La mia batcaverna. La mia fortezza della solitudine. È qui che
andavo a scuola, facevo i compiti, leggevo libri, guardavo film, giocavo ai videogiochi. È
qui, inoltre, che conducevo la mia ostinata ricerca dell’Easter Egg di Halliday.
Per insonorizzare il furgone, ne avevo ricoperto le pareti, il fondo e il tetto con il polistirolo
delle confezioni di uova e con piccoli ritagli di tappezzeria. In un angolo avevo messo
alcune scatole di cartone che contenevano computer rotti e pezzi di ricambio. Accanto,
giaceva un cesto di vecchie batterie d’auto e una cyclette che avevo ritoccato perché
funzionasse da generatore. L’unico pezzo di arredamento che avevo portato era una sedia
pieghevole.
Mi tolsi lo zaino, mi scrollai di dosso il cappotto e montai sulla cyclette.
L’unico tipo di esercizio fisico che facevo ogni giorno era quello di caricare le batterie.
Pedalai finché il contatore non arrivò al massimo, poi mi spostai sulla sedia e accesi la
piccola stufa elettrica che avevo sistemato ai miei piedi. Mi tolsi i guanti e strofinai le mani
davanti alla serpentina, che si stava colorando di un arancione brillante. Non potevo
lasciare la stufa accesa troppo a lungo per non esaurire la batteria.
Scoperchiai la scatola di metallo a prova di topo in cui conservavo le provviste di cibo:
presi una bottiglia d’acqua e una confezione di latte in polvere. Li mescolai in una
scodella, poi mi versai una generosa porzione di cereali alla frutta. Divorai tutto; dal
cruscotto mezzo rotto del furgone recuperai un cestino per il pranzo di Star Trek. Al suo
interno conservavo tutti gli oggetti che la scuola mi aveva donato: una console OASIS, i
guanti aptici e il visore. Erano le cose più preziose che possedevo. Troppo preziose perché
potessi permettermi di portarle con me dappertutto.
Mi infilai i guanti aptici e mi sgranchii le dita per assicurarmi che tutte le articolazioni
fossero sciolte. Poi presi la console OASIS, una specie di rettangolo nero e piatto grande
quanto un libro tascabile. Benché la console fossa dotata di un’antenna interna per il
wireless, la ricezione all’interno di un furgone seppellito sotto montagne di lamiera faceva
schifo. Avevo, pertanto, improvvisato un’antenna esterna, fissata sul cofano di un’auto in
cima alla pila. Il cavo dell’antenna passava per un foro che avevo ricavato nel pavimento
del furgone. Inserii il cavo in una presa sul lato della console, quindi indossai il visore, che
si adattava perfettamente ai miei occhi come un paio di occhialetti da piscina e impediva
alla luce esterna di penetrare. Sui lati del visore erano collocati piccoli auricolari che si
posizionavano automaticamente nelle mie orecchie. Il visore era dotato anche di due
microfoni vocali interni, con la funzione di recepire tutto ciò che dicevo.
Avviai la console e diedi inizio alla sequenza d’accesso. Un lampo rosso mi balenò negli
occhi mentre il visore eseguiva la scansione delle mie retine. Poi mi schiarii la voce e
pronunciai la mia password di login, articolandola con la massima attenzione: «Crom,
gran Dio dei monti».
La mia frase venne verificata, così come il mio campione vocale. Avevo effettuato
l’accesso. Al centro del display virtuale comparvero queste parole: Verifica identità
completata.
Benvenuto su oasis, Parzival!
Login Effettuato: 07:53:21 OST – 10.2.2045 La frase venne rimpiazzata da un breve
messaggio, di tre parole soltanto. Un messaggio che era stato incluso nella sequenza di
login dallo stesso James Halliday, al tempo in cui aveva progettato OASIS, per omaggiare i
diretti antenati della sua simulazione, ovvero i videogiochi a gettone della sua gioventù.
Queste tre parole erano l’ultima cosa che vedevano gli utenti OASIS prima di lasciare il
mondo reale per entrare nel mondo virtuale: READY PLAYER ONE

0002
Il mio avatar si materializzò di fronte al mio armadietto, al secondo piano del liceo: nello
stesso identico posto dove mi trovavo la sera prima, quando mi ero scollegato da OASIS.
Guardai a destra e a sinistra, lungo il corridoio. L’ambiente virtuale in cui mi trovavo
sembrava quasi (ma non del tutto) reale. Ogni cosa, su OASIS, veniva riprodotta alla
perfezione, in tre dimensioni. A meno che non ci si fermasse a zoomare, esaminando
l’ambiente con minuziosità, era facile dimenticarsi che tutto ciò che si vedeva era generato
da un computer. Persino con la scadente console OASIS che la scuola mi aveva fornito.
Avevo sentito dire che, se avessi preso parte alla simulazione con un tipo di attrezzatura
all’avanguardia, mi sarebbe stato impossibile distinguere OASIS dalla realtà.
Diedi un leggero colpo e la porta dell’armadietto si aprì con uno scatto sommesso.
L’interno era decorato a casaccio. Un’immagine della Principessa Leila che impugnava un
blaster. Una foto di gruppo dei Monty Python, in costume, sul set del Sacro Graal. La
copertina del Time con la foto di Halliday. Allungai un braccio verso lo scaffale più alto
dell’armadietto e diedi un colpetto a una pila di libri, che si dissolse e ricomparve subito
dopo nell’inventario del mio avatar.
Oltre ai libri, il mio avatar possedeva poco altro: una torcia, una spada medievale in ferro,
un piccolo scudo di bronzo e una corazza di cuoio intrecciato. Non erano oggetti magici e,
per giunta, erano di scarsa qualità, ma erano tutto quello che mi potevo permettere. Gli
oggetti, su OASIS, avevano lo stesso valore che avevano nella vita reale (a volte, anzi,
erano più preziosi), e non si potevano comprare con i buoni pasto. I crediti OASIS erano
l’unica moneta del regno e, in tempi bui come questi, si poteva dire con certezza che
fossero anche tra le valute più stabili del mondo.
Nell’armadietto avevo montato un piccolo specchio. Mentre chiudevo lo sportello,
incrociai il mio sguardo. Avevo progettato il volto e il corpo del mio avatar perché
somigliassero, grosso modo, ai miei. Il mio avatar aveva un naso leggermente più piccolo
ed era più alto. E un po’ più magro. E un po’ più muscoloso. E non aveva i brufoli. Al di là
dei dettagli, però, eravamo praticamente identici. Il regolamento della scuola imponeva
che tutti gli avatar degli studenti avessero sembianze umane, che avessero il medesimo
sesso e la stessa età dello studente. Non erano ammessi unicorni demoniaci ermafroditi
giganti con due teste. Non a scuola, ad ogni modo.
Era permesso battezzare il proprio avatar OASIS con qualunque nome, a patto che fosse
unico. In pratica, era d’obbligo scegliere un nome che non fosse già stato preso da qualcun
altro e che sarebbe poi servito come indirizzo email e username per la chat: perciò doveva
essere figo e facile da ricordare. Le celebrità erano disposte a sborsare enormi somme di
denaro per farsi vendere il nome avatar che desideravano dai cybernessuno che l’avevano
già creato.
Quando attivai il mio account OASIS, diedi al mio avatar il nome di Wade_il_Grande. Poi
continuai a cambiarlo di mese in mese, finendo (quasi sempre) per trovare nomi
altrettanto ridicoli. Ma ormai il mio avatar aveva lo stesso nome da più di cinque anni. Il
giorno che la Caccia ebbe inizio, il giorno in cui decisi di diventare un Gunter, chiamai il
mio avatar Parzival, in onore del cavaliere arturiano che aveva trovato il Santo Graal.
Parsifal e Percival, forme più note del nome del cavaliere, erano già state prese da altri
utenti. Ma a me piaceva di più Parzival. Suonava bene.
Solo in pochi usavano il proprio vero nome, online. Quello dell’anonimità era uno dei
benefici principali di OASIS. All’interno della simulazione, nessuno sapeva chi eri, a meno
che non fossi tu a volerlo. E gran parte della popolarità di OASIS derivava proprio da
questo. Ogni account OASIS archiviava i nomi reali delle persone, le impronte digitali, i
campioni retinei, ma la Gregarious Simulation Systems criptava queste informazioni e le
teneva riservate. Persino chi lavorava alla GSS non aveva accesso alla vera identità degli
avatar. Halliday era ancora a capo della compagnia, al tempo in cui una fondamentale
sentenza promulgata dalla Corte suprema concesse il diritto di mantenere privata
l’identità di ogni avatar.
Quando mi iscrissi alla scuola pubblica di OASIS, mi fu chiesto di segnalare il mio nome
reale, il nome del mio avatar, l’indirizzo di posta e il numero di previdenza sociale. Tutte
informazioni memorizzate nel mio profilo studente, alle quali solo il preside poteva
accedere. Nessuno dei miei insegnanti o dei miei compagni di classe sapeva chi fossi, e
viceversa.
Agli studenti non era permesso usare i nomi avatar, a scuola. Era, perlopiù, una maniera
per evitare agli insegnanti l’imbarazzo di dire cose tipo: «Pappone_Viscido, per favore, sta’
attento!» o «UccelloRovente69, puoi venire in cattedra a leggerci la tua relazione sul
libro?». Gli studenti erano tenuti a usare i loro nomi di battesimo seguiti da un numero che
li differenziasse dagli altri studenti con lo stesso nome. Quando mi iscrissi io, c’erano già
altri due studenti che si chiamavano Wade. A me, quindi, era stato dato il nome di Wade3,
che svolazzava sopra la testa del mio avatar quando mi trovavo a scuola.
Suonò la campanella. In un angolo del display comparve un avviso: mi segnalava che
mancavano quaranta minuti all’inizio della lezione. Accompagnai il mio avatar lungo il
corridoio, spostando appena le mani per gestirne le azioni e i movimenti. Quando avevo le
mani impegnate, per muoverlo potevo usare i comandi vocali.
Camminai verso l’aula dove si teneva la lezione di Storia mondiale. Sorridevo e salutavo i
volti familiari che incontravo. Ero certo che tutto questo mi sarebbe mancato, una volta
preso il diploma, di lì a pochi mesi. Non morivo dalla voglia di andarmene da scuola. Non
avevo soldi per il college, nemmeno su OASIS, e i miei voti non erano abbastanza alti da
garantirmi una borsa di studio. L’unico piano che avevo, dopo il diploma, era quello di
diventare un Gunter a tempo pieno. Non che avessi molta scelta. Vincere era l’unica via
d’uscita dalle cataste. A meno che non mi saltasse in mente di sottoscrivere un contratto
quinquennale da recluta con qualche corporation, il che mi allettava quanto l’idea di
rotolarmi in mezzo ai vetri rotti con il vestito buono.
Continuavo a camminare lungo il corridoio, mentre altri studenti si materializzavano di
fronte ai loro armadietti, apparizioni spettrali che rapidamente prendevano forma. Il
chiacchiericcio degli studenti echeggiava nel corridoio. Poco dopo, udii qualcuno che mi
lanciava un insulto.
«Ehi, ehi! Ma quello non è Wade3?» gridava una voce. Mi voltai e vidi Todd13, un avatar
insopportabile che avevo incrociato a lezione di Algebra ii. Era insieme ai suoi amici. «Bel
completo, signorino» mi disse. «Dove li hai trovati quei vestiti così belli?» Il mio avatar
indossava una T–shirt nera e un paio di jeans: una delle combinazioni che si potevano
selezionare gratuitamente una volta creato l’account. Come i suoi amici Cro–Magnon,
l’avatar di Todd13 era vestito di costosissimi capi firmati. Abiti che doveva aver pagato
profumatamente in qualche centro commerciale, su un altro pianeta.
«Me li ha comprati tua madre» replicai, continuando per la mia strada. «Ringraziala da
parte mia, quando passi da casa per ritirare la paghetta e farti la tua poppata.» Risposta
infantile, lo so bene. Ma, che fosse o meno virtuale, eravamo pur sempre a scuola: più un
insulto è infantile, più è efficace.
La mia risposta strappò qualche risata ai suoi amici e agli altri studenti nelle vicinanze.
Todd13 si rabbuiò e arrossì, evidentemente non si era preoccupato di disattivare
l’applicazione che mostrava le emozioni in tempo reale, funzione che permetteva a ogni
avatar di rispecchiare le vere espressioni facciali e il linguaggio del corpo di ciascuno.
Prima che avesse il tempo di rispondermi, gli tolsi l’audio, e quindi non sentii la sua
risposta. Sorrisi, e continuai a camminare.
Una delle cose che preferivo della scuola online era la possibilità di zittire i miei compagni
di scuola togliendo loro l’audio, e lo facevo quasi ogni giorno. Il meglio era che il tutto
veniva notificato a loro, che non potevano farci proprio niente. Non c’erano mai risse, a
scuola. Non lo permettevano. L’intero pianeta di Ludus era un’area non–PvP: non
venivano, cioè, ammessi i combattimenti player–versus-player. Nella mia scuola, le uniche
armi consentite erano le parole: perciò avevo imparato a brandirle con una certa abilità.
Fino alla prima media ero andato a scuola nel mondo reale. Non era stata un’esperienza
troppo piacevole. Ero un bambino tremendamente timido, mi sentivo a disagio, avevo
poca autostima e ancor meno talento nel socializzare, effetto collaterale del fatto che avevo
trascorso quasi tutta la mia infanzia all’interno di OASIS. Non avevo problemi a parlare
con la gente o a fare amicizia online. Ma, nel mondo reale, interagire con altri esseri umani,
e soprattutto con altri ragazzi della mia età, mi trasformava in un rottame di tic e
nervosismi. Non sapevo mai come comportarmi, né cosa dire, e quando raccoglievo il
coraggio per dire una cosa, sembrava sempre che fosse quella sbagliata.
Il mio aspetto era, in parte, il problema. Ero sovrappeso da tempo immemorabile. La
fallimentare dieta a base di zuccheri e amidi che il governo mi somministrava
rappresentava uno dei fattori fondamentali. Oltre a questo, ero anche un OASIS–
dipendente, e per questa ragione l’unica forma di attività fisica che praticavo era scappare
dai bulli, prima e dopo le lezioni. A peggiorare il tutto, il mio limitatissimo guardaroba
consisteva in abiti di taglie improbabili, raccattati in negozi dell’usato o tra gli abiti della
beneficenza, il che a livello sociale era un po’ come avere un bersaglio disegnato in fronte.
In ogni caso, cercavo di adattarmi. Anno dopo anno, i miei occhi scansionavano la mensa
come se fossi un T-1000, in cerca di una compagnia che mi accettasse. Ma persino gli altri
emarginati non volevano avere a che fare con me. Ero strambo anche per gli strambi. E le
ragazze? Rivolgere la parola alle ragazze era fuori questione. Per me erano come una
specie esotica di alieni: bellissime e terrificanti. Ogni volta che mi capitava di trovarmene
una vicino, iniziavo a sudare freddo e perdevo l’abilità di pronunciare frasi di senso
compiuto.
La scuola, per me, era stato un esercizio darwiniano. Un ricettacolo quotidiano di
derisioni, abusi, isolamento. Quando entrai in prima media, iniziai a domandarmi se sarei
riuscito a mantenere la mia salute mentale almeno fino al momento del diploma, di lì a sei
lunghi anni.
Ma poi, quel glorioso giorno, il nostro preside annunciò che ogni studente che avesse una
media sufficiente per la promozione avrebbe potuto fare domanda per il trasferimento sul
nuovissimo sistema scolastico pubblico di OASIS. Il sistema scolastico del mondo reale,
quello gestito dal governo, ormai da decenni era una sovraffollata e inesorabile catastrofe
priva di fondi. Molte scuole versavano in condizioni così disastrose che, a qualsiasi
studente che fosse ancora in grado di intendere e di volere, veniva consigliato di seguire le
lezioni da casa. Rischiai di rompermi l’osso del collo correndo all’ufficio scolastico per
firmare la mia domanda, che fu accettata. Nel semestre successivo mi trasferii alla scuola
pubblica di OASIS numero 1873.
Prima del trasferimento, il mio avatar OASIS era sempre stato su Incipio, il pianeta al
centro del settore 1 in cui gli avatar venivano depositati al momento della loro creazione.
Su Incipio non si faceva molto: si chattava con gli altri novellini o si faceva shopping in
uno dei giganteschi grandi magazzini che affollavano il pianeta. Visitare luoghi più
interessanti significava pagare una tariffa di teletrasporto, che a sua volta significava
spendere soldi reali, che io non avevo. Il mio avatar, quindi, non poteva lasciare Incipio.
Questo finché la mia nuova scuola non mi spedì un buono che copriva il costo del
teletrasporto su Ludus, il pianeta dove si trovavano tutte le scuole pubbliche di OASIS.
Ludus brulicava di campus, centinaia di scuole disseminate su tutta la sua estensione. Le
scuole erano tutte identiche perché lo stesso codice strutturale veniva copincollato nei
luoghi in cui serviva una nuova scuola. E, dal momento che gli edifici erano solo tasselli
del software, i progetti non erano sottoposti a vincoli finanziari o alle leggi della fisica.
Ragion per cui ogni scuola era un grande, sfarzoso palazzo dell’apprendimento, con
corridoi in marmo lavorato, aule simili a cattedrali, palestre a gravità zero e biblioteche
virtuali che contenevano ogni volume che fosse mai stato scritto e approvato dal consiglio
scolastico.
Il primo giorno che passai alla SPO n. 1873, credetti di essere in paradiso. Ogni mattina,
anziché scansare il manipolo di bulli e drogati che avrei dovuto evitare per raggiungere la
scuola, andavo nel mio nascondiglio e ci passavo tutto il giorno. E inoltre, su OASIS
nessuno poteva sapere che ero grasso, che avevo i brufoli o che tutti i giorni portavo gli
stessi miseri vestiti. I bulli non potevano tartassarmi di sputi, tirarmi le mutande fin sopra
la testa, o prendermi a pugni nel parcheggio delle biciclette dopo la scuola. Non potevano
nemmeno toccarmi. Ero, finalmente, al sicuro.
Quando entrai nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale, notai che
molti studenti erano già ai loro posti. I loro avatar sedevano immobili, con gli occhi chiusi.
Questo indicava che erano «occupati», ovvero che al momento erano al telefono,
navigavano in rete o stavano chattando. Non era educato, su OASIS, cercare di conversare
con un avatar occupato: in genere saresti stato ignorato, per poi ricevere un messaggio
automatico che ti invitava a levarti dai piedi.
Mi sedetti al banco e premetti l’icona di «occupato» in cima al display. Le palpebre del mio
avatar si chiusero, ma potevo comunque guardarmi intorno. Premetti un’altra icona per
aprire la grande finestra di un browser, sospesa nell’aria di fronte ai miei occhi. Solo il mio
avatar vedeva queste finestre: così nessuno poteva spiare quello che facevo (a meno che
non attivassi l’opzione che lo consentiva).
La mia homepage predefinita era l’Incubatrice, uno dei forum di Gunter più famosi.
L’interfaccia del sito era stata progettata perché somigliasse e funzionasse come un BBS
dell’era pre–internet, con tanto di accompagnamento musicale (le fastidiose strida di un
modem a 300 baud) durante la sequenza di login. Bellissimo. Per qualche minuto diedi
un’occhiata ai messaggi più recenti, dedicandomi alle ultime notizie e ai pettegolezzi.
Anche se controllavo il forum ogni giorno, scrivevo di rado. Oggi non c’erano notizie
interessanti. Le solite lotte tra esaltati. Discussioni sull’interpretazione «corretta» di alcuni
passaggi criptici dell’Almanacco di Anorak. Avatar di alto livello che si vantavano degli
oggetti magici di cui si erano appena impossessati. Erano anni che queste fesserie
andavano avanti. In assenza di progressi concreti, la sottocultura Gunter aveva iniziato a
perdersi in un pantano di sbruffonate, inutili conflitti interni e stronzate di varia natura.
Era una situazione davvero deprimente.
I miei messaggi preferiti erano quelli in cui si attaccavano i Sixer. «Sixer» era il
soprannome spregiativo che i Gunter avevano affibbiato agli impiegati dell’Innovative
Online Industries. La IOI (pronuncia: eye–oh-eye) era un conglomerato specializzato nelle
comunicazioni globali ed era il più grande internet provider del mondo. Gran parte del
business della IOI consisteva nell’offrire accesso a OASIS e nel vendere beni e servizi
all’interno della simulazione. Per questo motivo, la IOI aveva tentato diverse scalate nei
confronti della Gregarious Simulation Systems. Neanche una era andata a buon fine. Ora
stavano cercando di assumere il controllo della GSS sfruttando qualche falla nel
testamento di Halliday.
Ora la compagnia aveva creato un nuovo dipartimento, che chiamava «Divisione Oologi».
(Un tempo la oologia era «lo studio delle uova deposte dagli uccelli» ma ora aveva assunto
un secondo significato: «la “scienza” della ricerca delle Easter Egg di Halliday».) La
Divisione Oologi della IOI aveva un unico scopo: vincere la gara di Halliday ed entrare in
possesso di tutti i suoi beni, della compagnia e di OASIS.
Come quasi tutti i Gunter, inorridivo al pensiero che OASIS passasse sotto le grinfie della
IOI. L’enorme ingranaggio di pubbliche relazioni della compagnia aveva manifestato le
proprie intenzioni chiaramente. La IOI riteneva che Halliday non avesse mai monetizzato
la propria creazione adeguatamente, e adesso voleva rimediare. Avrebbero iniziato con
l’imposizione di una quota mensile per l’accesso a OASIS. Avrebbero tappezzato di
pubblicità ogni superficie visibile. L’anonimato degli utenti e la libertà di parola sarebbero
diventati parte del passato. Non appena la IOI ne avesse preso il controllo, OASIS avrebbe
smesso di essere l’utopia virtuale in cui ero cresciuto. Sarebbe diventata una distopia
controllata dalle corporation, un costosissimo parco a tema per ricconi elitari.
La IOI imponeva ai suoi cacciatori di uova, gli «Oologi», di dare ai propri avatar OASIS il
numero di matricola che avevano all’interno della compagnia. Erano numeri di sei cifre;
tutti iniziavano con il 6, ed è per questo che chiunque cominciò a chiamarli «Sixer». Anzi,
ormai i Gunter li avevano rinominati «Sux0rz» (perché, sì, facevano schifo).
Per diventare un Sixer, era d’obbligo firmare un contratto che, tra le altre cose, garantisse
all’azienda l’esclusiva proprietà del premio qualora l’Easter Egg fosse stato trovato. In
cambio, la IOI offriva uno stipendio bimestrale, cibo, alloggio, agevolazioni sull’assistenza
sanitaria e un ottimo piano pensionistico. Inoltre, la compagnia forniva a ogni avatar
un’armatura sofisticata, veicoli, armi e copriva il costo di tutti i teletrasporti. Entrare nei
Sixer era un po’ come entrare nell’esercito.
Non era difficile riconoscere un Sixer, erano tutti identici e costretti a usare lo stesso
enorme avatar maschio (indipendentemente dal fatto che il Sixer fosse uomo o donna):
capelli scuri rasati, tratti somatici predefiniti dal sistema. E tutti indossavano la stessa
uniforme blu. Per distinguerli non si poteva fare altro che leggere il numero di matricola
stampato sul petto, a destra, sotto il logo ufficiale della IOI.
Come ogni Gunter, disprezzavo i Sixer, ed ero disgustato dal solo fatto che esistessero.
Assumendo un esercito di cacciatori di uova a contratto, la IOI snaturava lo spirito iniziale
della gara. Naturalmente si sarebbe potuto obiettare che tutti i Gunter aggregati in clan
facevano la stessa cosa. Ormai i clan di Gunter erano centinaia, alcuni composti da
migliaia di membri, che collaboravano tutti tra di loro per trovare l’Egg. Ciascun clan era
vincolato da un accordo legale blindato in virtù del quale se un membro del clan avesse
vinto la gara avrebbe dovuto spartire il premio con tutti gli altri. Ai solitari come me non
importava granché dei clan, eppure li rispettavamo: erano dei Gunter come noi, a
differenza dei Sixer il cui unico scopo era quello di gettare OASIS in pasto a una
multinazionale che aveva tutte le intenzioni di condannarlo alla rovina.
La mia generazione non aveva mai conosciuto un mondo senza OASIS. Per tutti noi era
molto più di un gioco o una piattaforma di intrattenimento. Era stato parte integrante delle
nostre vite sin dai nostri primi ricordi. Il mondo in cui eravamo nati era un postaccio, e
OASIS era la nostra isola felice. L’idea della realtà virtuale privatizzata e omologata dalla
IOI ci terrorizzava; chiunque fosse nato prima dell’avvento di OASIS non poteva
comprendere. Era come se qualcuno minacciasse di portare via il sole, o di imporre una
tassa a chi volesse guardare il cielo.
Tutti i Gunter vedevano nei Sixer un nemico comune, e gettarsi all’attacco dei Sixer era il
passatempo preferito sui forum e sulle chat. Molti Gunter di alto livello seguivano una
rigida politica secondo la quale dovevano uccidere (o cercare di uccidere) ogni Sixer che
incrociassero. C’erano molti siti che si dedicavano a seguire le attività e i movimenti dei
Sixer, e qualche Gunter passava più tempo a cacciare i Sixer di quanto non ne passasse alla
ricerca dell’Egg. I clan più corposi si sfidavano in una gara annuale, dal nome Eighty–six
the Sux0rz,8 con un premio in palio per chi fosse riuscito a uccidere il maggior numero di
Sixer.
Dopo aver controllato un altro paio di forum di Gunter cercai, tra i preferiti, Arty’s
Missives, il blog di una Gunter di nome Art3mis. Lo avevo scoperto tre anni prima, e da
allora ero un lettore fedelissimo. Postava dei meravigliosi e sconclusionati articoli sulla sua
ricerca dell’Egg di Halliday, che chiamava «l’esasperante caccia al MacGuffin».
Scriveva in modo toccante e intelligente, i suoi interventi abbondavano di incisi beffardi e
arguti ed erano intrisi di umorismo autodenigratorio. Lì pubblicava le sue (spassosissime)
interpretazioni dei passaggi dell’Almanacco e rimandava a libri, film, serie tv e musica che

8 To eighty-six» è un’espressione gergale che sta per «fare piazza pulita.» [N.d.T.]
studiava nel corso della ricerca su Halliday. Avevo il sospetto che tutti i post fossero zeppi
di informazioni fuorvianti, se non false, ma li trovavo comunque esilaranti.
Non c’è nemmeno bisogno di dirlo: avevo una devastante cybercotta per Art3mis.
Di tanto in tanto, pubblicava immagini del suo avatar dai capelli corvini, e qualche volta
(sempre) mi capitava di salvarle in una cartella, sul mio disco fisso. Il suo avatar aveva un
volto grazioso, ma non perfetto in maniera innaturale. Su OASIS era facile abituarsi a facce
decisamente troppo belle. I tratti di Art3mis non sembravano tirati fuori da un menu a
tendina nella sezione «estetica» di un programma per la creazione di avatar. Il suo volto
aveva davvero l’aspetto di una persona reale, come se fosse stato scansionato e poi
adattato al suo avatar. Grandi occhi color nocciola, zigomi tondi, mento a punta e un
sorrisetto ironico. Era insopportabilmente affascinante.
Il corpo di Art3mis era altrettanto fuori dal comune. Su OASIS, di solito si incappava
soltanto in un paio di modelli del corpo femminile: il fisico da super modella,
incredibilmente esile ma estremamente in voga, o quello tettuto, vitino di vespa da stellina
del porno, che su OASIS appariva ancora meno naturale di quanto non sembrasse nella
realtà. Ma Art3mis era bassa e rubensiana. Tutta curve.
Ero consapevole che la mia cotta per Art3mis fosse stupida e sconsiderata. Cosa sapevo, in
fondo, di lei? Non aveva certo mai rivelato la sua vera identità. O la sua età, o il luogo in
cui viveva nel mondo reale. Non c’era modo di capire quale fosse il suo vero aspetto.
Poteva essere una quindicenne come una cinquantenne. C’erano Gunter che si chiedevano
se fosse davvero una ragazza, ma io non ero uno di loro. Probabilmente perché non
sopportavo l’idea che una ragazza di cui ero virtualmente innamorato fosse in realtà un
signore di mezza età con i peli sulla schiena e la calvizie incipiente, di nome Chuck.
Quando avevo iniziato a leggerlo, Arty’s Missives stava diventando uno dei blog più
famosi di internet, con diversi milioni di visite al giorno. E Art3mis, ormai, era quasi una
celebrità, se non altro nei circoli di Gunter. Ma la fama non le aveva dato alla testa. Il suo
stile continuava a essere divertente e autoironico. Il suo ultimo post, Il blues di John
Hughes, era un dettagliato approfondimento in cui Art3mis discettava dei suoi sei teen
movie di John Hughes preferiti. Li aveva divisi in due trilogie: la trilogia delle «Fantasie
della liceale sfigata» (Un compleanno da ricordare, Bella in rosa, Un meraviglioso
batticuore) e la trilogia delle «Fantasie del liceale sfigato» (The Breakfast Club, La donna
esplosiva, Una pazza giornata di vacanza).
Avevo appena finito di leggerlo quando sul mio display comparve una finestra di
messaggio istantaneo. Era Aech, il mio migliore amico (bene, d’accordo, se proprio volete
fare i pignoli era il mio unico amico, se non si conta la signora Gilmore).
Aech: Ben svegliato, amigo Parzival: Hola, compadre.
Aech: Che fai?
Parzival: Setaccio la rete. Tu?
Aech: Ho messo online la Cantina. Vieni a trovarmi lì prima di lezione, coglione.
Parzival: Ottimo! Un secondo e sono lì.
Richiusi la finestra dei messaggi istantanei e controllai l’orologio. Avevo ancora una
mezz’ora buona prima della lezione. Sorrisi e premetti la piccola icona a forma di porta in
un angolo del display, poi selezionai, tra i preferiti, la chatroom di Aech.
0003
Dopo aver verificato che fossi incluso nella lista della chat, il sistema mi consentì l’accesso.
L’aula si ridusse a una finestra in miniatura, in basso a destra sul mio display, perché
potessi sempre controllare ciò che succedeva di fronte al mio avatar. Il resto del mio
campo visivo era occupato dall’interno della chatroom di Aech. Il mio avatar si
materializzò all’«ingresso», una porta in cima a una scala ricoperta di moquette. La porta
non conduceva ad altre stanze. Non si apriva nemmeno. Questo perché la Cantina, con i
suoi contenuti, non era parte di OASIS. Le chatroom erano simulazioni a se stanti – spazi
virtuali temporanei cui gli avatar potevano accedere da qualunque luogo di OASIS. Il mio
avatar non era nella chatroom. Sembrava che lo fosse. Wade3/Parzival era ancora seduto a
occhi chiusi nell’aula dove si sarebbe tenuta la lezione di Storia mondiale. Connettersi a
una chatroom era come trovarsi in due luoghi nello stesso momento.
Aech aveva battezzato la sua chatroom la Cantina. L’aveva programmata perché
somigliasse a una tavernetta borghese dei tardi anni ottanta. Ovunque, sulle pareti in
legno, erano appesi vecchi poster di film e fumetti. Al centro della stanza, un vecchio
televisore RCA al quale erano collegati un videoregistratore Betamax, un registratore
laserdisc e diverse console d’annata. Sugli scaffali della parete di fondo erano impilati
giornaletti di giochi di ruolo e numeri arretrati di Dragon.
La gestione di una chatroom non era esattamente una cosa a buon mercato, ma Aech
poteva permetterselo. Aveva raccolto un bel gruzzolo prendendo parte, dopo la scuola e
nei fine settimana, ai combattimenti nelle arene player–versus-player che venivano
trasmessi in tv. Su OASIS, Aech era uno dei combattenti più quotati, sia nei campionati di
Deathmatch che in quelli di Capture the Flag. Era addirittura più famoso di Art3mis.
Nel corso degli ultimi anni, la Cantina era diventata un luogo di ritrovo altamente
esclusivo per i Gunter d’élite. Aech concedeva l’accesso soltanto alle persone che riteneva
meritevoli: essere invitati nella Cantina era un grande onore, tanto più per uno come me,
un signor nessuno di terzo livello.
Scendendo i gradini, vidi una ventina di Gunter che si aggiravano per la stanza, gli avatar
completamente diversi l’uno dall’altro. C’erano umani, cyborg, demoni, elfi oscuri,
vulcaniani, vampiri. Erano quasi tutti accalcati attorno alla pila di vecchi giochi arcade
appoggiata alla parete. Alcuni erano in piedi accanto all’antiquatissimo stereo (che al
momento stava passando, a tutto volume, Wild Boys dei Duran Duran) e sbirciavano tra la
collezione di musicassette di Aech.
Aech era stravaccato su uno dei tre divani della chatroom, disposti a ferro di cavallo
intorno alla tv. L’avatar di Aech era un uomo bianco, alto, con le spalle larghe, i capelli e
gli occhi scuri. Una volta gli chiesi se, nella realtà, somigliasse un po’ al suo avatar e lui,
scherzosamente, mi rispose «Sì. Ma nella vita reale sono ancora più bello.» Mentre mi
avvicinavo, alzò lo sguardo dal gioco a cui stava giocando sull’Intellivision e il volto gli si
aprì nel suo tipico ghigno da Stregatto, da un orecchio all’altro. «Z!» gridò. «Come butta,
amigo?» Allungò la mano destra per darmi il cinque, mentre io mi lasciavo cadere sul
divano, accanto a lui. Aech aveva iniziato a chiamarmi «Z» poco dopo che ci eravamo
conosciuti. Si divertiva a soprannominare la gente con una singola lettera. Il nome del suo
avatar, per esempio, lo pronunciava come la lettera H.
«Come butta, Humperdinck?» gli chiesi. Era un gioco che facevo con lui. Lo chiamavo
sempre con svariati nomi che iniziavano per H: Harry, Hubert, Henry, Hogan. Stavo
cercando di indovinare il suo vero nome che, a quanto mi aveva confessato una volta,
iniziava davvero con la lettera H.
Conoscevo Aech da poco più di tre anni. Anche lui studiava su Ludus, frequentava
l’ultimo anno della SPO n. 1172, che si trovava dalla parte opposta del pianeta rispetto alla
mia scuola. Ci eravamo incontrati su una chatroom pubblica di Gunter durante un fine
settimana e ci eravamo trovati subito, perché avevamo esattamente gli stessi interessi. Che,
in realtà, era un interesse: un’ossessione smodata, divorante, per Halliday e per il suo
Easter Egg. Non parlavamo che da pochi minuti, e sapevo già che Aech era un fuoriclasse,
un Gunter d’élite, una cazzutissima cintura nera della conoscenza. Conosceva alla
perfezione tutto quello che c’era da sapere sugli anni ottanta, non solo le informazioni
canoniche. Era un vero erudito di Halliday. E sembrava aver ritrovato queste stesse qualità
in me, perché mi aveva dato la sua contact card e mi aveva invitato a unirmi alla Cantina
quando volevo. Da allora era il mio migliore amico.
Nel corso degli anni, tra noi aveva preso piede una certa amichevole rivalità. Dicevamo un
sacco di stupidaggini su chi di noi due sarebbe comparso sul Segnapunti. Cercavamo
sempre di spiazzarci con la nostra erudizione da Gunter su argomenti semisconosciuti.
Di tanto in tanto procedevamo fianco a fianco nella nostra ricerca. Il che generalmente
consisteva nel guardare insieme, all’interno della chatroom, film scadenti e serie tv degli
anni ottanta. Naturalmente giocavamo anche ai videogiochi. Io ed Aech perdevamo ore e
ore davanti a classici a due giocatori come Contra, Golden Axe, Heavy Barrel, Smash tv e
Ikari Warriors. Aech era, dopo il sottoscritto, il miglior giocatore che avessi mai incontrato.
Eravamo allo stesso livello in quasi tutti i giochi, ma lui riusciva a battermi in alcuni,
specialmente quando si trattava di sparatutto in prima persona. In fondo, era il suo campo
di competenza.
Non sapevo nulla della vita reale di Aech, ma la mia impressione era che la sua routine
domestica non fosse un granché. Sembrava che, come me, trascorresse ogni momento di
veglia su OASIS. E, anche se non ci eravamo mai incontrati, più di una volta mi aveva
detto che ero il suo migliore amico, dal che deducevo che probabilmente era emarginato
quanto me.
«Cosa hai fatto dopo che te la sei squagliata, ieri sera?» mi chiese, lanciandomi l’altro
controller dell’Intellivision. La sera precedente avevamo passato qualche ora nella sua
chatroom, guardando vecchi film giapponesi di mostri.
«Nada» risposi. «Me ne sono andato a casa e ho dato una ripassata a un paio di giochi a
gettone.»
«Inutile.»
«Sì. Ma ne avevo voglia.» Non gli domandai cosa avesse fatto lui, né lui rivelò dettagli di
sua spontanea volontà. Probabilmente era andato su Gygax, o in qualche posto altrettanto
pazzesco, a finire velocemente qualche missione e a racimolare Punti Esperienza. Solo che
non voleva farmelo pesare. Aech poteva permettersi di passare un po’ di tempo sugli altri
mondi, seguendo tracce e andando in cerca della Chiave di Rame. Ma non mi sfotteva
perché non avevo abbastanza soldi per alcun tipo di teletrasporto e non metteva mai il
dito nella piaga. Né osava mai offendermi prestandomi qualche credito. Era una regola
non scritta tra i Gunter: se eri un solitario, significava che non volevi o non avevi bisogno
dell’aiuto di nessuno. I Gunter che cercavano aiuto si univano a un clan. Sia io che Aech
convenivamo che i clan fossero adatti ai leccaculo e a chi se la tirava. Entrambi ci eravamo
ripromessi che saremmo rimasti Gunter solitari a vita. Di tanto in tanto ci mettevamo a
parlare dell’Egg, ma si trattava sempre di conversazioni prudenti, e ci guardavamo bene
dall’entrare nello specifico.
Sconfissi Aech tre volte a Tron: Deadly Discs, e allora lui buttò il controller e raccolse da
terra una rivista. Era un vecchio numero di Starlog. Riconobbi subito Rutger Hauer sulla
copertina, in una foto promozionale di Ladyhawke.
«Starlog, eh?» dissi, in segno di approvazione.
«Esatto. Ho scaricato tutti i numeri dall’archivio dell’Incubatrice. Li sto ancora passando in
rassegna. Ho appena letto un pezzo grandioso sul Ritorno degli Ewok.»
«Film per la tv uscito nel 1985» iniziai a declamare. Ero specializzato nelle curiosità su
Guerre Stellari. «Orrendo. Uno dei punti più bassi della storia della saga.»
«Questo lo dici tu, stronzetto spocchioso. Ha dei bei momenti.»
«No» dissi, scuotendo la testa. «Non è vero. È addirittura peggio di quel primo film,
L’avventura degli Ewok. Avrebbero dovuto intitolarlo La sventura degli Ewok.» Aech alzò
gli occhi al cielo e si rimise a leggere. Non ci sarebbe cascato. Diedi un’occhiata alla
copertina. «Ehi, posso sfogliarlo un attimo quando hai finito?» Sorrise. «Perché? Vuoi forse
leggere l’articolo su Ladyhawke?»
«Può darsi.»
«Ti piace proprio quella merda, eh amico?»
«Succhiamelo, Aech.»
«Quante volte hai visto quell’inutile stronzata? Di certo so che mi hai obbligato a vederlo
almeno un paio di volte.» Adesso era lui che mi stava punzecchiando. Sapeva che
Ladyhawke era uno dei miei vizi segreti, e sapeva che l’avevo visto più di una ventina di
volte.
«Ti ho fatto un favore, pivello» gli risposi. Infilai un’altra cartuccia nella console
Intellivision e cominciai da solo una partita di Astrosmash. «Un giorno verrai a
ringraziarmi. Aspetta e vedrai. Ladyhawke è puro canone.»
«Canonico» era l’aggettivo con cui classificavamo tutti i film, i libri, i giochi, le canzoni e le
serie tv di cui Halliday era stato fan.
«È chiaro che stai scherzando» disse Aech.
«No, non sto scherzando. E non chiamarmi Shirley.» 9 Spostò la rivista e mi si fece
più vicino. «È escluso che Halliday fosse un fan di Ladyhawke. Te lo garantisco.»
«Dove hai le prove, piccolo idiota?» gli chiesi.
«Lui aveva gusto. Ecco l’unica prova di cui ho bisogno.»
«Allora ti piacerebbe spiegarmi perché aveva due copie di Ladyhawke, una su vhs e una
su laserdisc?» Tra le appendici dell’Almanacco di Anorak era inclusa anche una lista di
tutti i film che Halliday possedeva al momento della sua morte.
9 Citazione da L’aereo più pazzo del mondo. Lo scambio di battute («Can you fly this plane and land it?»
«Surely you can’t be serious»
«I am serious. And don’t call me Shirley»), che si basava sull’assonanza surely-Shirley, non è stato mantenuto nel
doppiaggio italiano («Lei è in grado di fare atterrare quest’aereo?»
«Non sono in grado mi hanno tolto i gradi»
«Glieli restituisco io. Lei è il nuovo capitano»). Per i puristi, abbiamo qui mantenuto la versione originale della battuta.
[N.d.T.]
«Era un miliardario! Aveva migliaia e migliaia di film, ma ne avrà guardata una minima
parte! Possedeva anche i dvd di Krull e Howard… e il destino del mondo. Non vuol dire
che gli piacessero, coglioncello. E, sicuro come la morte, il fatto che siano in lista non li
rende canonici.»
«Non c’è nemmeno da discuterne, Homer» gli dissi. «Ladyhawke è un classico degli anni
ottanta.»
«È penoso, cazzo, ecco cos’è! Le spade sembrano fatte di stagnola. E la colonna sonora è
epicamente penosa. È piena di sintetizzatori e tutta quella merda lì. Per tutti i cazzo di
Alan Parsons Project! È penoserrima! Va oltre il penoso. È penosa ai livelli da Highlander
II.»
«Ehi!» piagnucolai, scagliandogli addosso il controller. «Ora lo dici solo per insultarmi!
Fosse anche solo per il cast, Ladyhawke è canonico! Roy Batty! Ferris Bueller! E quel tizio
che faceva il professor Falken in Wargames.» Cercai di ricordarmi il nome dell’attore.
«John Wood! Lo vediamo ricongiungersi con Matthew Broderick!»
«Il picco più basso delle loro carriere» disse ridendo. Gli piaceva litigare sui vecchi film
quasi più di quanto piaceva a me. Gli altri Gunter della chatroom si stavano raccogliendo
intorno a noi per ascoltarci. Le nostre discussioni erano spesso fonte di intrattenimento.
«Secondo me tu ti droghi» gli urlai. «Il regista di Lady Hawke è Richard Donner cazzo! I
Goonies? Superman? Mi stai forse dicendo che uno come lui è penoso?»
«Non me ne fotterebbe neanche se l’avesse diretto Spielberg. È un filmetto rosa travestito
dasword & sorcery. L’unico film di genere ad avere ancora meno palle è probabilmente…
quel cazzo di Legend. Chiunque apprezzi Ladyhawke è una fighetta macrobiotica!» Risate
da parte della claque. Adesso mi stavo realmente incazzando. Ero un grande fan di
Legend, ed Aech lo sapeva.
«Bene, sono una fighetta? Tu allora sei il feticista degli Ewok!» gli strappai Starlog dalle
mani e lo scagliai contro il muro, su un poster del Ritorno dello Jedi. «Immagino tu creda
che la tua cultura in campo Ewok ti aiuterà nella ricerca dell’Egg.»
«Non ricominciare il discorso sugli Endoriani, amico» disse, ammonendo con l’indice. «Ti
ho avvertito. Ti banno. Giuro.» Sapevo che non si trattava di una minaccia seria, e stavo
per spingere ulteriormente sulla questione Ewok: forse gli avrei rinfacciato il fatto che li
chiamasse «Endoriani». Ma in quel momento un nuovo arrivo si materializzò sulla scala.
Era un lamer chiamato I–r0k. Emisi un gemito. Aech e I–r0k frequentavano la stessa scuola
e seguivano insieme certe lezioni, ma ancora mi domandavo perché Aech gli avesse aperto
l’accesso alla Cantina. I–r0k si credeva un Gunter d’élite, ma in verità era soltanto un
vanitoso arrogante. Ovvio, si teletrasportava in giro per OASIS, portava a compimento
svariate missioni e continuava a far salire di livello il suo avatar, ma non sapeva proprio
niente. E portava sempre con sé un esagerato fucile al plasma, grande quanto una
motoslitta. Anche nelle chatroom, dove era assolutamente inutile. Non aveva il minimo
senso di dignità.
«Non starete ancora discutendo di Guerre Stellari, voi due coglioni?» disse scendendo i
gradini e raggiungendo la folla che si era raccolta attorno a noi. «Quella merda è finita,
yo.» Mi voltai verso Aech. «Se proprio vuoi bannare qualcuno, perché non inizi con questo
buffone?» Premetti reset sull’Intellivision e cominciai una nuova partita.
«Chiudi quel buco di culo, Perci–fallo!» replicò I–r0k, usando la sua storpiatura preferita
del mio nome. «Non mi banna perché sa che sono dell’élite! Dico bene, Aech?»
«No» disse Aech, alzando gli occhi al cielo. «Non dici bene. Sei dell’élite più o meno
quanto la mia bisnonna. Che è morta.»
«Fottiti, Aech! Tu e la tua nonna morta!»
«Cacchio, I–r0k» bofonchiai. «Riesci sempre a elevare il livello della conversazione.
L’intera stanza s’illumina quando entri.»
«Spiacente di averti infastidito, Capitan Zero Crediti» disse I–r0k. «Non dovresti essere su
Incipio a mendicare, in questo momento?» Cercò di afferrare il secondo controller
Intellivision, ma lo lanciai in fretta a Aech.
Mi rivolse uno sguardo cupo. «Cazzone.»
«Poser.»
«Poser? Perci–fallo sta dando del poser a me?» Si voltò per rivolgersi alla piccola folla.
«Questo idiota è così povero che deve scroccare passaggi fino a Greyhawk, dove va a
uccidere i kobold per qualche moneta di rame! E dà del poser a me!» La frase strappò al
pubblico qualche risatina, e io mi sentii arrossire, sotto il visore.
Una volta, l’anno prima, avevo fatto l’errore di chiedere a I–r0k un passaggio su un altro
pianeta, così da racimolare qualche Punto Esperienza. Dopo avermi scaricato in un’area di
Greyhawk con missioni a basso livello, lo stronzo aveva iniziato a seguirmi. Avevo
passato qualche ora a uccidere una piccola banda di kobold, poi avevo aspettato che si
rigenerassero e li avevo uccisi di nuovo, e così via. Il mio avatar era ancora al primo
livello, ai tempi, e questa era l’unica maniera sicura per acquisire punti. I–r0k, quella sera,
aveva immortalato la scena in una serie di screenshot che aveva etichettato «Perci–fallo il
Valoroso Cacciatore di kobold.» Poi aveva postato il tutto nell’Incubatrice. Ogni volta che
poteva, tirava fuori questa storia. Non mi avrebbe mai permesso di dimenticarla.
«È vero, ti ho chiamato poser, poser.» Mi alzai e mi avvicinai pericolosamente al suo volto.
«Sei solo uno sfigatello ignorante. Soltanto perché sei al livello quattordici non significa
che tu sia un Gunter. Dovresti avere un po’ di cultura.»
«Ben detto» disse Aech, dimostrando tutto il suo assenso. Ci battemmo i pugni. Altre
risatine dal pubblico. Dirette, stavolta, verso I–r0k.
I–r0k rimase a guardarci per un momento. «Ok. Vediamo chi di noi è il vero poser» disse.
«Guardate un po’ qui, signorine.» Sorridendo, estrasse dall’inventario un oggetto e ce lo
mostrò. Era un vecchio gioco per Atari 2600, ed era ancora nella confezione.
Intenzionalmente, coprì con la mano il titolo del gioco, ma io riconobbi l’immagine della
copertina. Ritraeva un ragazzo e una ragazza, vestiti da antichi greci. Entrambi
brandivano una spada. Dietro di loro, un minotauro e un uomo barbuto con una benda
sull’occhio. «Lo riconosci, campione?» mi sfidò I–r0k. «Ti do un indizio: è un gioco Atari,
faceva parte di un concorso. Conteneva una serie di enigmi: se li risolvevi, potevi vincere
un premio. Ti suona familiare?» I–r0k cercava sempre di impressionarci con indizi o
notizie su Halliday di cui, scioccamente, credeva di detenere il primato. I Gunter si
divertivano a essere sempre un passo avanti agli altri e, regolarmente, facevano di tutto
per dimostrare di aver acquisito le informazioni più astruse. Ma I–r0k faceva pena.
«Scherzi?» risposi. «Hai scoperto la serie Swordquest solo adesso?» I–r0k si sgonfiò.
«Hai in mano Swordquest: Earthworld» continuai. «È il primo gioco della serie
Swordquest. È uscito nel 1982.» I suoi occhi diventarono due fessure. Non sapeva più cosa
fare. Come ho detto, era un poser assoluto.
«Qualcun altro vuole intervenire?» chiesi, aprendo la domanda anche al pubblico. Tutti i
Gunter si guardarono, ma nessuno osò parlare.
«Fireworld, Waterworld e Airworld» rispose Aech. «Tombola!» gli dissi, e battemmo di
nuovi i pugni. «Anche se Airworld non fu mai finito, perché iniziarono i tempi duri e la
Atari dovette annullare il concorso prima di portarlo a termine.» I–r0k, in silenzio, rimise il
gioco nel suo inventario.
«Dovresti unirti ai Sux0rz, I–r0k» disse Aech ridendo. «A loro farebbe comodo qualcuno
con la tua sconfinata conoscenza.» I–r0k gli mostrò il medio. «Com’è che voi frocetti
sapevate del concorso di Swordquest e non ve ne ho mai sentito parlare?»
«Dài, I–r0k» disse Aech, scuotendo la testa. «Swordquest: Earthworld è stato il seguito non
ufficiale che la Atari ha dato ad Adventure. Ogni Gunter che si rispetti sa del concorso.
Quante altre ovvietà vuoi dirmi?» I–r0k cercò di salvare ciò che rimaneva della sua faccia.
«D’accordo, se siete questi grandi esperti, chi è che programmò tutti i giochi Swordquest?»
«Dan Hitchens e Tod Frye» declamai. «Prova a chiedermi qualcosa di difficile.»
«Io ne ho una» intervenne Aech. «Che premi diede, la Atari, ai vincitori di ogni concorso?»
«Ah» dissi. «Ottima domanda. Vediamo… il premio per Earthworld era il Talismano della
penultima verità. Oro massiccio ricoperto di diamanti. Il ragazzo che lo vinse lo fuse e ci si
pagò il college, se ben ricordo.»
«Sì, sì» mi spronò Aech. «Smetti di cazzeggiare e dimmi quali erano gli altri due.»
«Non cazzeggio. Il premio per Fireworld era il Calice di luce, e il premio per Waterworld
doveva essere la Corona della Vita, che però non fu mai consegnata perché il concorso fu
annullato. Lo stesso vale per il premio di Airworld, che avrebbe dovuto essere la Pietra
Filosofale.» Aech sorrise e mi diede il cinque con entrambe le mani. Poi aggiunse: «E se il
concorso non fosse stato annullato, i vincitori delle quattro serie avrebbero gareggiato per
il premio finale, la Spada della magia massima». Annuii. «I premi erano menzionati nei
libri a fumetti venduti insieme ai giochi. Libri che, tra l’altro, sono visibili all’interno della
stanza del tesoro nella scena finale dell’Invito di Anorak.» La folla esplose in uno scroscio
di applausi. I–r0k abbassò la testa, in segno di vergogna.
Da quando ero un Gunter, mi era sempre parso ovvio che Halliday avesse tratto
ispirazione, per la sua gara, da quella di Swordquest. Non sapevo se avesse anche imitato
gli enigmi di quei giochi, ma per sicurezza li avevo studiati a fondo.
«Bene, avete vinto» disse I–r0k. «Ma è chiaro che dovete farvi una vita.»
«Ed è chiaro che tu» aggiunsi io «debba trovarti un nuovo hobby. Perché ti mancano
l’intelligenza e la dedizione dei Gunter.»
«Senza dubbio» disse Aech. «Prova a fare un po’ di ricerca, tanto per cambiare, I–r0k. Hai
mai sentito parlare di Wikipedia, per esempio? È gratis, mentecatto.» I–r0k si voltò e si
diresse verso le scatole di fumetti accatastate dall’altra parte della stanza, come se avesse
perso interesse nella discussione. «Come volete» disse, sempre di spalle. «Se non passassi
tanto tempo offline, a scopare, probabilmente ne saprei quanto voi due.» Aech lo ignorò e
si rivolse di nuovo a me. «Come si chiamavano i gemelli che comparivano nel fumetto di
Swordquest?»
«Tarra e Torr.»
«Maledizione, Z! Sei il migliore.»
«Grazie, Aech.» Comparve un messaggio sul display: mi segnalava che, in aula, stava
suonando la prima campanella. Sapevo che anche Aech e I–r0k avevano ricevuto lo stesso
messaggio, poiché le nostre scuole avevano gli stessi orari.
«È tempo di dare inizio a un’altra giornata di apprendimento» disse Aech, alzandosi.
«Che sbattimento» disse I–r0k. «Ci vediamo dopo, perdenti.» Ci mostrò ancora una volta il
medio, poi il suo avatar scomparve, mentre lui usciva dalla chatroom. Anche gli altri
Gunter iniziarono a sloggarsi e a scomparire, finché io ed Aech non rimanemmo soli.
«Davvero, Aech» gli dissi. «Perché lasci che quell’imbecille bazzichi da queste parti?»
«Perché mi diverto a batterlo ai videogiochi. E la sua ignoranza mi dà speranza.»
«E perché mai?»
«Perché se gli altri Gunter sono incompetenti quanto I–r0k – e lo sono, per la maggior
parte, credimi – questo vuol dire che io e te abbiamo davvero la possibilità di vincere la
gara.» Scrollai le spalle. «Penso sia un buon modo di vederla.»
«Vuoi tornare qui dopo la scuola, stasera? Intorno alle sette? Ho un paio di faccende da
sbrigare, ma poi voglio affrontare un po’ di roba che ho nella mia lista di cose «da
guardare». Facciamo una maratona di Robotech, magari?»
«Oh diavolo, sì» risposi. «Considerami già qui.» Uscimmo simultaneamente, mentre
l’ultima campanella iniziava a suonare.

0004
Le palpebre del mio avatar si aprirono e mi ritrovai nell’aula di Storia mondiale. Tutti i
banchi intorno al mio erano occupati da altri studenti, e il nostro insegnante, il signor
Avenovich, si stava materializzando davanti ai nostri occhi. L’avatar del signor A
sembrava un professore di college barbuto e corpulento. Aveva un sorrisetto contagioso,
indossava un paio di occhiali con la montatura in metallo e una giacca di tweed con le
toppe ai gomiti. Quando parlava, riusciva sempre ad avere l’aria di qualcuno che sta
leggendo un passaggio di Dickens. Mi piaceva. Era un bravo professore.
Ovviamente non sapevo chi fosse nella realtà, né dove vivesse. Non ci era dato sapere
nemmeno il suo vero nome, o se fosse davvero un uomo. Per quanto ne sapevamo,
avrebbe anche potuto essere una piccola Inuit che viveva ad Anchorage, in Alaska, e che
aveva scelto questo aspetto e questo timbro di voce per mantenere l’attenzione degli
studenti durante le lezioni. Ma, per qualche ragione, sospettavo che l’avatar del signor
Avenovich fosse e parlasse proprio come la persona che l’aveva creato.
Tutti gli insegnanti che avevo erano più o meno fantastici. A differenza dei loro colleghi
del mondo reale, sembrava che agli insegnanti della scuola pubblica di OASIS piacesse
davvero il loro lavoro, e questo probabilmente perché non dovevano sprecare metà del
tempo a fare le balie o i cani da guardia. Era il software OASIS a occuparsi della disciplina,
accertandosi che gli studenti rimanessero ai propri banchi, in silenzio. Tutto ciò che gli
insegnanti dovevano fare era insegnare.
Online, anche tenere alta l’attenzione degli studenti era più semplice perché, su OASIS, le
aule erano come «ponti ologrammi». Ogni giorno, i professori potevano portare gli
studenti in gita virtuale senza nemmeno lasciare la classe.
Durante la lezione di Storia mondiale di quella mattina, il professor Avenovich caricò una
simulazione autonoma di quando alcuni archeologi, nel 1922, scoprirono la tomba di
Tutankhamon. (Il giorno prima eravamo stati in quello stesso punto, ma era il 1334 a.C., e
avevamo visto con i nostri occhi l’impero di Tutankhamon in tutta la sua gloria.) Nel
corso della lezione successiva, biologia, viaggiammo attraverso un cuore umano e lo
osservammo pulsare dall’interno proprio come in quel vecchio film, Viaggio allucinante.
Durante la lezione di storia dell’arte visitammo il Louvre con i nostri avatar, che
indossavano berretti imbarazzanti.
La lezione di astronomia ci catapultò su tutte le lune di Giove. Camminammo sulla
superficie vulcanica di Io mentre l’insegnante ci spiegava come si fosse formata quella
luna. Mentre ci parlava, Giove si stagliò dietro di lei, riempiendo metà della volta celeste,
la Grande Macchia Rossa che le vorticava, lenta, dietro la spalla. Poi la professoressa
schioccò le dita ed eccoci su Europa, a discutere la possibilità di vita extraterrestre sotto la
crosta ghiacciata della luna.
Passai l’ora di pranzo seduto in uno dei parchi che circondavano la scuola. Osservavo il
panorama virtuale sgranocchiando una barretta proteica sotto il mio visore. Era meglio
che stare a guardare le pareti del mio nascondiglio. Ero all’ultimo anno, perciò mi era
permesso di andare su altri mondi durante la pausa pranzo se avessi voluto, ma non
avevo grana da buttare al vento in questo modo.
Accedere a OASIS era gratuito, ma viaggiare nei mondi al suo interno no. Non avevo mai
abbastanza crediti per teletrasportarmi e poi fare ritorno su Ludus. Al suono dell’ultima
campanella, ogni giorno, gli studenti che avevano qualcosa da fare nella vita reale si
scollegavano da OASIS e svanivano. Tutti gli altri si dirigevano verso altri mondi. Molti
ragazzi possedevano un veicolo interplanetario. I parcheggi vicino alle scuole, ovunque su
Ludus, erano pieni di UFO, caccia stellari TIE, Viper come quelli di Battlestar Galactica, e
navicelle create sul modello di tutti i film o serie fantascientifiche cui si possa pensare.
Ogni pomeriggio mi sedevo sul prato di fronte alla scuola e guardavo con invidia queste
astronavi che si ammassavano nel cielo e poi scomparivano per esplorare le possibilità
infinite della simulazione. I ragazzi che non avevano una propria navicella chiedevano un
passaggio agli amici o si affrettavano verso la stazione di teletrasporto più vicina per
raggiungere un altro pianeta e andare a ballare, o in qualche arena di gioco, o a un
concerto rock. Io no. Io non andavo da nessuna parte. Ero confinato su Ludus, il pianeta
più noioso di tutto OASIS.
Era un posto sconfinato, questa Ontologicamente Antropocentrica Simulazione di
Immersione Sensoriale.
Quando era stato inaugurato, OASIS conteneva solo poche centinaia di pianeti da
esplorare, tutti creati da programmatori e artisti della GSS. La gamma degli scenari era
varia: da ambientazioni sword & sorcerya città cyberpunk grandi quanto un intero
pianeta, a deserti postapocalittici popolati da zombie. Alcuni pianeti erano stati progettati
fin nel minimo dettaglio. Altri erano stati generati in maniera casuale da una serie di
template. Tutti i pianeti erano abitati da una varietà di Personaggi Non Giocanti (PNG)
dotati di intelligenza artificiale – esseri umani, animali, mostri, androidi, alieni – con i
quali gli utenti OASIS potevano interagire.
La GSS era riuscita a ottenere la licenza per utilizzare i mondi già ideati da compagnie
concorrenti: su OASIS furono trasferiti contenuti che erano stati creati per giochi come
Everquest e World of Warcraft, e così copie di Norrath e di Azeroth furono aggiunte al
catalogo, in continua espansione, dei mondi di OASIS. Seguirono altri mondi virtuali.
L’universo di Firefly si trovava in un settore adiacente alla galassia di Guerre Stellari,
accanto alla quale era stato ricreato, in dettaglio, l’universo di Star Trek. Gli utenti
potevano teletrasportarsi a loro piacere sui mondi immaginari preferiti: la Terra di Mezzo.
Vulcano. Pern. Arrakis. Magrathea. Ringworld, Riverworld, Discworld. Mondi su mondi.
Per facilitare la zonizzazione e la navigazione, OASIS era stato suddiviso in ventisette
«settori» cubici, di pari estensione, a forma di cubo. Ciascuno includeva centinaia di
pianeti diversi. (La mappa tridimensionale di tutti e ventisette i settori ricordava
chiaramente un giocattolo degli anni ottanta, il Cubo di Rubik. Come gli altri Gunter,
sapevo che non si trattava di una coincidenza.) Ogni settore misurava esattamente dieci
ore luce, o 10.8 miliardi di chilometri. Alla velocità della luce (la massima velocità
raggiungibile dalle navicelle su OASIS), si poteva viaggiare da un lato all’altro di un
settore in dieci ore precise. Viaggi di questo tipo non erano a buon mercato. Navicelle che
viaggiassero alla velocità della luce erano difficili da reperire, e avevano bisogno di
carburante. Poiché OASIS era gratuito, il carburante virtuale a pagamento era una delle
fonti di guadagno della Gregarious Simulation Systems. Ma le entrate più consistenti
provenivano dal teletrasporto. Il teletrasporto era il metodo più veloce per spostarsi, e
anche il più caro.
Viaggiare su OASIS non era soltanto costoso: era anche pericoloso. Ogni settore era diviso
in zone, che variavano per forma e grandezza. Certe zone erano così vaste da includere
svariati pianeti, mentre alcune ricoprivano solo pochi chilometri di superficie in un singolo
mondo. Tutte avevano un proprio sistema di regole e parametri. La magia funzionava in
alcune zone, non in altre. Lo stesso valeva per gli apparati tecnologici. Atterrando in una
zona in cui la tecnologia non era ammessa, i motori si guastavano non appena
attraversava il confine. E in quel caso c’era da ingaggiare un qualche stregone con la barba
strana e una chiatta spaziale magica che riportasse il tuo culo in una zona tecnologica.
Le «Zone Doppie» permettevano l’uso della magia e quello della tecnologia, mentre le
«Zone Zero» non permettevano né l’una né l’altra. C’erano Zone Pacifiste dove non era
ammesso il combattimento player–versus-player, e c’erano poi Zone player–versus-player
dove gli avatar erano soli contro tutto e tutti.
Ogni volta che si entrava in una nuova zona o settore, bisognava stare attenti. Essere
preparati.
Ma, come ho già detto, queste cose non mi riguardavano affatto. Ero bloccato a scuola.
Ludus era stato progettato come luogo di apprendimento, quindi non era stato
contemplato alcun portale per missioni né spazio ricreativo. L’unica cosa che non
mancava, sul pianeta, erano migliaia di campus identici, separati da prati verdi e parchi
perfettamente integrati nel paesaggio, fiumi, boschetti, e distese di foreste derivate da
template generici. Non c’erano castelli, segrete, o fortezze spaziali orbitanti che il mio
avatar potesse assaltare. E non c’erano nemici PNG, né mostri, né alieni da combattere,
perciò non c’erano nemmeno oggetti magici o un bottino di cui depredarli.
Tutto questo era una merda, per un sacco di ragioni.
L’unico modo in cui un avatar di basso livello come il mio poteva guadagnare Punti
Esperienza era completare missioni e combattere contro i PNG. Accumulare Punti
Esperienza era l’unico modo per accrescere il potere, la forza e le abilità del proprio avatar.
Molti utenti OASIS non erano interessati né ad acquisire particolari poteri, né all’aspetto
ludico della simulazione. Si servivano di OASIS per lo svago, gli affari, lo shopping e per
uscire con gli amici. Questa tipologia di utenti si guardava bene dall’entrare nelle zone di
Gioco o di PvP, dove i loro indifesi avatar di primo livello potevano venire attaccati dai
PNG o dagli altri giocatori. Rimanere in zone sicure come Ludus significava non doversi
preoccupare di venire derubati, rapiti o uccisi.
Io invece lo detestavo.
Se volevo trovare l’Egg di Halliday, sapevo che prima o poi avrei dovuto avventurarmi tra
i settori pericolosi di OASIS. E se non avevo abbastanza potere e le armi adeguate per
difendermi, non sarei sopravvissuto a lungo.
Nel corso di cinque anni ero riuscito, con un processo lento e graduale, a raggiungere il
terzo livello. Non era stato facile. Avevo scroccato passaggi dagli studenti (principalmente
da Aech) che si dirigevano su pianeti dove il mio avatar deboluccio avrebbe potuto
sopravvivere. Mi facevo lasciare in zone di gioco per novellini e passavo la sera o l’intero
fine settimana a uccidere orchi, kobold, o altri mostri infimi, troppo deboli per uccidermi.
Per ogni PNG che il mio avatar sconfiggeva, guadagnavo una quota minima di Punti
Esperienza e, di solito, anche un pugno di monete di rame o d’argento appartenute ai
nemici che avevo ucciso. Queste monete venivano subito convertite in crediti, che usavo
per teletrasportarmi di nuovo su Ludus, prima che suonasse l’ultima campanella. Qualche
volta (molto di rado) i PNG che uccidevo perdevano anche un oggetto. Ed è così che avevo
procurato al mio avatar la spada, lo scudo e l’armatura.
Alla fine dell’anno scolastico precedente, avevo smesso di chiedere passaggi a Aech. Il suo
avatar aveva superato il trentesimo livello ed era sempre in viaggio verso pianeti in cui il
mio avatar non sarebbe stato al sicuro. Era contento di darmi uno strappo fino a qualche
mondo da novellini che si trovava sulla strada ma, se non mi procuravo abbastanza crediti
per pagarmi il ritorno su Ludus, finivo per perdere le lezioni, bloccato su qualche pianeta
che non era il mio. E non era una giustificazione valida. Avevo accumulato un numero tale
di assenze ingiustificate che rischiavo di essere espulso. Se fosse successo, avrei dovuto
restituire il visore e la console OASIS che mi erano stati assegnati dalla scuola. Peggio,
sarei dovuto tornare a scuola nel mondo reale per finire l’ultimo anno. Non potevo certo
rischiare.
Perciò lasciavo Ludus molto raramente. Ero confinato lì, al terzo livello. Un avatar di terzo
livello era una vergogna colossale. Nessun Gunter prendeva seriamente chi non avesse
raggiunto almeno il decimo livello. Sebbene fossi un Gunter dal Primo Giorno, tutti mi
consideravano ancora un pivello. Era parecchio frustrante.
Disperato, avevo cercato un lavoro part–time da fare dopo la scuola per guadagnare
abbastanza da riuscire a spostarmi. Avevo inviato decine di domande per lavori di
supporto tecnico e programmazione (soprattutto compiti pesanti non qualificati, la
programmazione di codici per grandi magazzini e uffici), ma era stato del tutto inutile.
Non assumevano nemmeno quei milioni di adulti freschi di college. La Grande Recessione
stava ormai entrando nel suo terzo decennio, e la disoccupazione era ancora all’apice.
Persino i fast food vicino a casa mettevano i candidati in liste d’attesa di due anni.
E così, ero sempre confinato a scuola. Mi sentivo come un bambino che cammina nella sala
giochi più grande del mondo senza un gettone in tasca, impossibilitato a fare qualsiasi
cosa se non guardare gli altri bambini che si divertono.

0005
Dopo pranzo mi avviai verso l’aula del mio corso preferito, Studi avanzati di OASIS. Era
facoltativo e dedicato agli studenti dell’ultimo anno; insegnava la storia di OASIS e dei
suoi creatori. 10 assicurato.
Per cinque anni avevo dedicato il mio tempo libero all’apprendimento di tutto ciò che
c’era da sapere su James Halliday. Ne avevo studiato minuziosamente la vita, le conquiste,
gli interessi. Dal giorno della sua morte, erano state pubblicate più di una dozzina di
biografie su Halliday. Le avevo lette tutte. Ed erano anche stati realizzati diversi
documentari che, naturalmente, avevo analizzato a fondo. Avevo studiato ogni parola mai
scritta da Halliday, avevo giocato a ogni videogioco da lui ideato. Prendevo appunti, mi
scrivevo ogni dettaglio che potesse avere la minima relazione con la Caccia. Era tutto
annotato in un quaderno (che avevo chiamato «il diario del Graal» dopo aver visto il terzo
Indiana Jones).
Più cose imparavo sul conto di Halliday, più lo idolatravo. Era il dio dei nerd, la divinità
somma, al livello di Gygax, Garriott e Wozniak. Finito il liceo, se ne era andato di casa
portando con sé soltanto un gran cervello e l’immaginazione, che aveva impiegato per
raggiungere la fama internazionale e accumulare una fortuna spropositata. Aveva creato
una realtà totalmente nuova che rappresentava, ormai, una fuga per gran parte del genere
umano. E per finire, aveva trasformato il suo testamento nella più grande gara
videogiocabile di tutti i tempi.
Durante la lezione di Studi avanzati di OASIS infastidivo il professor Ciders
tempestandolo di interventi sugli errori che trovavo nei libri, e alzando la mano per
segnalare curiosità su Halliday che io – io soltanto – ritenevo interessanti. Dopo le prime
settimane di lezione, il professor Ciders aveva smesso di interpellarmi, a meno che
nessuno in classe sapesse rispondere alle sue domande.
Oggi ci stava leggendo dei passi da The Egg Man, biografia di successo che io avevo letto
già quattro volte. Durante la lettura, trattenni l’impulso di interromperlo per evidenziare
tutti i dettagli salienti che il libro aveva trascurato e, invece, presi nota mentalmente delle
omissioni. Mentre il professor Ciders ci narrava dell’infanzia di Halliday, io cercai un’altra
volta di carpire tutti i segreti possibili dalla strana vita che Halliday aveva vissuto e dagli
stravaganti indizi che aveva deciso di lasciarci.
James Donovan Halliday era nato il 12 giugno 1972 a Middletown, in Ohio. Era figlio
unico. Suo padre era un operaio alcolizzato, sua madre una cameriera bipolare.
A quanto tutti dicono, James era un ragazzo sveglio ma inadeguato ai rapporti sociali. Per
lui era estremamente faticoso comunicare con gli altri. Nonostante l’indubbia intelligenza,
a scuola i suoi voti non erano alti: la sua attenzione era concentrata su computer, fumetti,
romanzi fantasy e fantascientifici, film e, soprattutto, videogiochi.
Un giorno, durante le elementari, Halliday era in mensa, seduto in disparte, e leggeva un
manuale di Dungeons & Dragons. Il gioco lo affascinava, ma non aveva mai potuto
provarlo perché non aveva amici. Un compagno di classe, Ogden Morrow, vide cosa stava
leggendo e invitò Halliday a una delle sedute settimanali di D&D che teneva a casa sua.
E lì, nella cantina di Morrow, a Halliday venne presentato un gruppo intero di «mega
nerd», proprio come lui. Lo accolsero immediatamente come uno di loro e, per la prima
volta nella sua vita, James Halliday si ritrovò con una cerchia di amici.
Ogden Morrow, in seguito, divenne partner d’affari, collaboratore e migliore amico di
Halliday. In seguito, molti avrebbero accostato l’accoppiata Morrow–Halliday a Jobs–
Wozniak o Lennon–McCartney. Era una collaborazione destinata a cambiare il corso della
storia dell’umanità.
A quindici anni, Halliday creò il suo primo videogioco, La ricerca di Anorak. L’aveva
programmato in BASIC su un TRS-80 Color Computer che aveva ricevuto per Natale nel
1982 (sebbene avesse chiesto ai genitori il Commodore 64, leggermente più costoso). La
ricerca di Anorak era un’avventura grafica ambientata a Chthonia, il mondo fantastico che
Halliday aveva inventato durante il liceo, per la sua campagna di Dungeons & Dragons.
«Anorak» era il soprannome datogli da una ragazza inglese che studiava nella sua stessa
scuola. Il nome Anorak era tanto piaciuto a Halliday da indurlo a battezzare così il suo
personaggio preferito di D&D, il potente mago che poi apparì in moltissimi dei suoi
videogiochi.
Halliday aveva creato La ricerca di Anorak per divertirsi con i suoi amici del circolo di
Dungeons & Dragons. Il gioco era per loro una vera e propria droga, al punto che persero
il conto delle ore che passavano a risolvere i suoi intricati enigmi. Ogden Morrow convinse
Halliday che La ricerca di Anorak valeva più della maggior parte dei giochi per computer
che si trovavano allora sul mercato e lo incoraggiò a venderlo. Aiutò Halliday a elaborare
una copertina per il gioco e, insieme, copiarono La ricerca di Anorak su decine di floppy
da 5 pollici che poi infilarono in sottili buste di plastica richiudibili, accompagnati da un
foglio di istruzioni fotocopiato. Cominciarono a esporre il gioco sullo scaffale dei software,
in un negozio di computer del quartiere. In breve tempo, non riuscivano a riprodurre
abbastanza copie da soddisfare la domanda.
Morrow e Halliday decisero di avviare una società di videogiochi, la Gregarious Games,
che agli inizi aveva sede nella cantina di Morrow. Halliday programmò una nuova
versione della Ricerca di Anorak per l’Atari 800XL, l’Apple ii e il Commodore 64; Morrow
iniziò a inserire la pubblicità del gioco su molte riviste per computer. Tempo sei mesi e La
ricerca di Anorak era già un successo nazionale.
Halliday e Morrow rischiarono di non diplomarsi perché avevano trascorso l’ultimo anno
del liceo a progettare La ricerca di Anorak II. Poi, decisero di non iscriversi al college per
concentrarsi sulla nuova società, che aveva assunto una dimensione tale da non poter
essere gestita tra le mura della cantina di Morrow. Nel 1990, la Gregarious Games si
trasferì nel suo primo, vero ufficio, in un centro commerciale fatiscente a Columbus, Ohio.
Per tutto il decennio seguente, la piccola compagnia tenne le redini dell’intera industria
dei videogiochi, pubblicando giochi d’azione e avventure grafiche che impiegavano un
motore grafico all’avanguardia inventato da Halliday e che diventavano immediatamente
dei bestseller. La Gregarious Games innalzò vertiginosamente il livello qualitativo dei
giochi immersivi, e ogni nuovo titolo messo sul mercato implementava le possibilità degli
hardware dell’epoca.
Il paffuto Ogden Morrow era dotato di un carisma naturale e si occupava delle pubbliche
relazioni e di tutte le questioni finanziarie legate alla società. A ogni conferenza stampa
della Gregarious Games, Morrow sorrideva in maniera contagiosa dietro alla sua barba
selvaggia e ai suoi occhiali in metallo e sfruttava il dono innato per l’iperbole e per
l’iperpubblicizzazione. Halliday era l’estremo opposto di Morrow, sotto tutti gli aspetti.
Era alto, gracile, estremamente timido e non amava essere al centro dell’attenzione.
Le persone che al tempo lavoravano alla Gregarious Games dicono che Halliday si
chiudeva in ufficio molto spesso, e lì si metteva a programmare senza sosta, talvolta
continuando per giorni o settimane senza mangiare, dormire o vedere un singolo essere
umano.
Le poche volte che Halliday accettava di essere intervistato, i suoi comportamenti erano
bizzarri anche per gli standard da genio del computer. Era ipercinetico, scostante e
socialmente inadeguato a un punto tale che gli intervistatori se ne andavano con
l’impressione di aver parlato con un malato di mente. Halliday parlava così velocemente
che le sue parole erano spesso incomprensibili; aveva una risata acuta e inquietante,
soprattutto per il fatto che, il più delle volte, era lui l’unico a sapere di cosa stesse ridendo.
Se Halliday si annoiava durante un’intervista (o una conversazione), si alzava e se ne
andava senza dire una parola.
Le molte ossessioni di Halliday erano ben note ai più. Celebri erano quelle per i
videogiochi classici, i romanzi fantasy e di fantascienza, i film di qualunque genere. Aveva
anche una fissazione per gli anni ottanta, il decennio della sua adolescenza. Halliday
sembrava aspettarsi che tutti quelli che lo circondavano condividessero le sue ossessioni e,
spesso, diventava aggressivo nei confronti di chi non lo faceva.
Non di rado aveva licenziato dipendenti storici solo perché non avevano riconosciuto
qualche astrusa citazione di film o perché aveva scoperto che non conoscevano a fondo i
cartoni, i fumetti o i videogiochi che amava (poi Ogden Morrow riassumeva i dipendenti,
senza che Halliday se ne accorgesse).
Via via che gli anni passavano, la capacità relazionale già limitata di Halliday sembrò
deteriorarsi sempre di più. (In seguito alla morte di Halliday furono condotti svariati studi
psicologici sulla sua personalità: sia la sua ossessiva fedeltà alla routine sia la sua
fissazione per aree di interesse estremamente specifiche avevano portato gli psicologi alla
conclusione che Halliday soffrisse della Sindrome di Asperger o di qualche altro tipo di
autismo «ad alto funzionamento».) Al di là della sua eccentricità, nessuno aveva mai
messo in dubbio il genio di Halliday. I giochi che aveva ideato creavano dipendenza, e
avevano un successo incontrollabile. Alla fine del Ventesimo secolo, Halliday era
comunemente visto come il più grande ideatore di videogiochi della sua generazione e –
osavano dire alcuni – di tutti i tempi.
Anche Ogden Morrow era un programmatore brillante, ma il suo vero talento era il fiuto
per gli affari. Oltre a collaborare alla creazione dei giochi della compagnia, era stato la
mente di tutte le prime campagne di marketing e distribuzione dello shareware,
conseguendo risultati sorprendenti. Quando la Gregarious Games aprì le porte al
pubblico, i suoi prodotti erano già lanciati nella stratosfera.
A trent’anni appena compiuti, Halliday e Morrow erano multimiliardari. Comprarono due
ville nella stessa via. Morrow acquistò una Lamborghini, si prese delle ferie prolungate e
iniziò a viaggiare per il mondo. Halliday comprò e restaurò una delle DeLorean usate nei
film di Ritorno al futuro, continuò a passare il tempo ancorato alla tastiera del computer e
impiegò il suo denaro per accumulare quella che in seguito sarebbe diventata la più
grande collezione privata di videogiochi classici, modellini dei personaggi di Guerre
Stellari, cestini da pranzo vintage, albi a fumetti.
Proprio al culmine del successo, sembrò che la Gregarious Games fosse precipitata
nell’inattività. Per molti anni non uscirono nuovi giochi. Morrow rilasciava comunicati
sibillini, sosteneva che la compagnia fosse al lavoro su un progetto ambizioso grazie al
quale avrebbe imboccato una direzione completamente nuova. Iniziò a circolare la voce
che la Gregarious Games stesse sviluppando un nuovo hardware di gioco e che questo
progetto segreto stava rapidamente esaurendo le considerevoli risorse finanziarie della
società. Si aveva il sospetto fondato che Halliday e Morrow stessero investendo tutto nella
nuova impresa della compagnia. Si diceva che la Gregarious Games fosse sull’orlo della
bancarotta.
Quand’ecco, nel dicembre del 2012, che la Gregarious Games si diede un nuovo nome,
Gregarious Simulation Systems, e lanciò la sua ammiraglia – l’unica, in effetti, cui la GSS
avrebbe dato luce: OASIS – l’Ontologicamente Antropocentrica Simulazione di
Immersione Sensoriale.
OASIS avrebbe cambiato il modo di vivere, lavorare e comunicare in tutto il mondo.
Avrebbe rivoluzionato l’intrattenimento, il social networking e persino la politica globale.
Sebbene all’inizio venisse pubblicizzato come un nuovo tipo di multiplayer di massa,
OASIS si trovò presto a evolversi in un nuovo stile di vita.
Prima di OASIS, i giochi Massively Multiplayer Online (o MMO) erano stati i primi mondi
sintetici condivisi. Davano a migliaia di giocatori la possibilità di coesistere,
simultaneamente, in un mondo virtuale a cui si connettevano via internet. Si trattava di
paesaggi relativamente poco articolati: un solo mondo o una dozzina di piccoli pianeti. I
giocatori dei MMO potevano esplorare questi mondi soltanto attraverso una finestra
bidimensionale – il monitor del computer – e potevano interagire usando tastiera, mouse o
altri dispositivi rudimentali.
La Gregarious Simulation Systems elevò il concetto su cui si basava il MMO a un livello
completamente nuovo. OASIS non confinava i suoi utenti in un pianeta solo, e nemmeno
in una dozzina. OASIS includeva centinaia (e successivamente migliaia) di mondi da
esplorare: tridimensionali, ad alta risoluzione, meticolosamente curati in ogni dettaglio
grafico, dagli insetti ai fili d’erba, dal vento alle condizioni meteorologiche. Gli utenti
potevano circumnavigare qualunque pianeta senza imbattersi nello stesso tipo di terreno
per più di una volta. Anche nella sua prima incarnazione, la portata di tale simulazione
era impressionante.
Halliday e Morrow parlavano di OASIS come di una «realtà open–source», un universo
online malleabile cui chiunque poteva accedere, usando un computer o una console per
videogiochi. Giusto il tempo del login, e poi via: scappare dalle fatiche della vita
quotidiana. Era possibile cucirsi addosso un personaggio assolutamente nuovo e avere il
controllo totale del proprio aspetto e della propria voce. Su OASIS, i grassi potevano
diventare magri, i brutti belli, i timidi estroversi. O anche l’opposto. Si poteva cambiare
nome, età, sesso, etnia, altezza, peso, voce, colore dei capelli, struttura ossea. O si poteva,
di punto in bianco, abbandonare la propria essenza umana e diventare un elfo, un orco, un
alieno, o una qualsiasi altra creatura della letteratura, del cinema, della mitologia.
Su OASIS diventavi quello che volevi senza mai dover rivelare la tua vera identità, perché
l’anonimato era garantito.
Gli utenti potevano modificare i contenuti dei mondi virtuali di OASIS o crearne di nuovi.
La presenza online delle persone non si limitava più a un singolo sito o profilo. Su OASIS
chiunque poteva creare il proprio pianeta privato e costruirsi una villa virtuale,
arredandola e dipingendola a piacimento, per poi invitare giusto quel migliaio di amici
per festeggiare. E quegli amici potevano venire da ogni parte del mondo, potevano
trovarsi in luoghi dai fusi orari differenti.
La chiave del successo di OASIS consisteva nelle due nuove componenti dell’interfaccia
hardware introdotte dalla GSS, senza le quali non era possibile accedere alla simulazione:
il visore OASIS e i guanti aptici.
Il visore OASIS, taglia unica e senza fili, era poco più grande di un normale paio di
occhiali. Con l’ausilio di laser a bassa potenza disegnava i paesaggi sbalorditivamente reali
di OASIS sulle retine dell’utente, immergendo l’intero campo visivo nel mondo virtuale.
Il visore era anni luce più avanti dei goffi gingilli da realtà virtuale che erano circolati fino
ad allora, e rappresentava un mutamento paradigmatico nei dispositivi da realtà virtuale.
Lo stesso valeva per i sottilissimi guanti aptici, grazie ai quali gli utenti, controllando
direttamente le mani del proprio avatar, interagivano con il mondo virtuale proprio come
vi si trovassero dentro. Quando raccoglievi un oggetto, quando aprivi una porta, quando
guidavi un veicolo, i guanti aptici ti facevano sentire ogni superficie come se la stessi
toccando davvero. I guanti permettevano – così recitava lo spot pubblicitario – di
«allungare una mano e toccare OASIS». Insieme, il visore e i guanti avevano reso l’entrata
in OASIS un’esperienza senza precedenti e, dopo il primo assaggio, nessuno tornava a
essere quello di prima.
Il software alla base della simulazione, il nuovissimo Motore della Realtà OASIS creato da
Halliday, rappresentava anch’esso un’incredibile innovazione tecnologica. Aveva superato
i limiti da cui erano vessate le altre simulazioni. I MMO precedenti erano stati costretti,
oltre che a contenere le dimensioni dei mondi, a limitare le proprie comunità virtuali a
poche migliaia di utenti per server. Se troppe persone erano connesse nello stesso
momento, la simulazione rallentava fino a fermarsi e gli avatar si bloccavano, congelati,
mentre il sistema cercava di riprendersi. Ma OASIS utilizzava uno schieramento di server,
con alta tolleranza agli errori, che traevano ulteriore potenza di processamento dai
computer connessi. Quando fu inaugurato, OASIS riusciva a sostenere il peso di cinque
miliardi di utenti simultanei, senza latenza percepibile né la possibilità di un crash del
sistema.
Il lancio di OASIS venne sponsorizzato da un’enorme campagna di marketing. Le
dilaganti pubblicità in televisione, sui cartelloni e su internet mostravano un’«oasi»
lussureggiante, con tanto di palme su uno specchio d’acqua azzurra, circondata su tutti i
lati dal più arido deserto.
La nuova impresa della GSS ebbe un successo devastante sin dal primo giorno. OASIS era
ciò che tutti sognavano da decenni. La «realtà virtuale» a lungo promessa era arrivata,
finalmente, ed era anche meglio di quello che ci si immaginava. OASIS era un’utopia della
rete. Un ponte ologrammi domestico. E qual era il suo più grande punto di forza? Il fatto
che fosse gratis.
I giochi online, al tempo, generavano introiti facendo pagare a ogni utente un’iscrizione
mensile. La GSS faceva pagare una quota di iscrizione di venticinque centesimi in cambio
di un account OASIS a vita. Le pubblicità sbandieravano tutte lo stesso slogan: OASIS – Il
più grande videogioco mai creato per un solo quarto di dollaro.
In un momento di forte tensione sociale e culturale, mentre una buona parte della
popolazione mondiale cercava una fuga dalla realtà, fu proprio OASIS a fornirla, in forma
legale, sicura, conveniente a livello economico e che non creava dipendenza (comprovato
dai medici). La crisi energetica contribuì in grande misura alla travolgente popolarità di
OASIS. Il prezzo del petrolio, in continua e vertiginosa ascesa, rendeva i viaggi in auto e in
aereo poco abbordabili per il cittadino medio, e OASIS divenne l’unica via di fuga che tutti
potevano permettersi. L’era dell’energia abbondante, a buon mercato, stava per chiudersi;
la povertà e il malcontento si diffondevano come un virus. Di giorno in giorno, sempre più
persone avevano motivi per cercare conforto nell’utopia virtuale di Halliday e Morrow.
Ogni impresa che volesse aprire un negozio su OASIS doveva affittare o acquistare dalla
GSS un immobile che era allo stesso tempo reale e virtuale (Morrow le aveva subito
chiamate «proprietà surreali»). In quest’ottica, la società aveva destinato al Settore 1
l’intera area degli affari e iniziò immediatamente a vendere e affittare milioni di isolati di
proprietà surreali. Centri commerciali grandi come città furono innalzati in un batter
d’occhio, e le vetrine si diffusero sui pianeti come muffa che divora un’arancia al ritmo di
una sequenza fotografica. Lo sviluppo urbano non era mai stato così facile.
Oltre ai miliardi di dollari che la GSS accumulò vendendo lotti inesistenti nella realtà, la
vendita di oggetti e veicoli virtuali riuscì altrettanto bene. OASIS divenne una parte
talmente integrante della vita sociale quotidiana che gli utenti erano più che disposti a
sganciare soldi veri per comprare accessori ai propri avatar: abiti, mobili, case, auto
volanti, spade magiche, mitragliatrici. In sostanza, non si trattava di altro che una sfilza di
zero e di uno salvati sui server di OASIS, ma erano anche degli status symbol. Nella
maggior parte dei casi costavano soltanto pochi crediti, ma il costo della manifattura era
nullo per la GSS e ciò significava un unico, grande profitto. Pur in piena recessione
economica, OASIS concedeva agli americani la possibilità di continuare a dedicarsi al loro
passatempo preferito: lo shopping.
OASIS presto fu la ragione principale per connettersi a internet, a tal punto che,
gradualmente, «OASIS» e «internet» divennero sinonimi. E OASIS os, tridimensionale,
incredibilmente semplice da usare e offerto gratuitamente dalla GSS, divenne il sistema
operativo più famoso della Terra.
Nell’arco di pochissimo tempo, miliardi di persone in tutto il mondo lavoravano e
giocavano quotidianamente su OASIS. Ci si incontrava, ci si innamorava, ci si sposava
senza aver mai messo piede nello stesso continente. I confini tra la vera identità di un
individuo e quella del suo avatar iniziarono a confondersi.
Era l’alba di una nuova era, un’era in cui il genere umano avrebbe trascorso la maggior
parte del tempo libero all’interno di un videogioco.

0006
Il resto della giornata passò in fretta fino all’ultima lezione, quella di latino.
Gli studenti, di solito, studiavano una lingua straniera che un giorno sarebbe potuta
tornare utile: il mandarino, l’hindi, lo spagnolo. Io avevo scelto il latino perché James
Halliday aveva studiato latino. E, di tanto in tanto, nelle sue prime avventure grafiche,
impiegava parole o frasi in latino. Purtroppo, nonostante le possibilità illimitate che OASIS
le metteva a disposizione, la professoressa Rank faceva una gran fatica a rendere
interessanti le lezioni di latino. Iniziò con il ripasso di una serie di verbi che io avevo già
imparato a memoria; la mia attenzione, quindi, vagò altrove quasi subito.
OASIS impediva agli studenti di accedere, durante le lezioni, a dati o programmi non
autorizzati dall’insegnante, così da evitare che la classe si distraesse guardando film,
giocando o chattando anziché seguire le spiegazioni. Per mia fortuna, durante l’anno
precedente avevo scoperto un bug nel software della biblioteca della scuola e,
sfruttandolo, riuscivo ad accedere a qualunque libro, compreso l’Almanacco di Anorak.
Quando mi annoiavo (come in quel momento) lo mettevo su una finestra del mio display
e, per passare il tempo, rileggevo i miei passaggi preferiti.
In quei cinque anni, l’Almanacco era diventato la mia Bibbia. Come quasi tutti i libri, era
accessibile solo in formato elettronico. Ma, poiché volevo leggerlo durante il giorno, la
notte e anche durante le interruzioni di corrente – troppo frequenti nelle cataste –, avevo
rimesso in sesto una vecchia stampante laser e me l’ero stampato su carta. Poi ne avevo
inserito le pagine in un raccoglitore a tre anelli che tenevo nello zaino e avevo studiato
l’Almanacco fino a conoscerne a memoria ogni parola.
L’Almanacco era pieno di riferimenti a libri, serie tv, film, canzoni, graphic novel,
videogiochi, molti dei quali avevano più di quarant’anni ed erano quindi scaricabili
gratuitamente su OASIS. Se qualcosa non era disponibile in maniera legale e gratuita,
riuscivo quasi sempre a procurarmela su Guntorrent, un programma di file sharing usato
dai Gunter di tutto il mondo.
Nella mia ricerca non prendevo mai scorciatoie facili. Per cinque lunghi anni avevo
studiato a fondo tutte le letture imprescindibili per un Gunter. Douglas Adams. Kurt
Vonnegut. Neal Stephenson. Richard K. Morgan. Stephen King. Orson Scott Card. Terry
Pratchett. Terry Brooks. Bester, Bradbury, Haldeman, Heinlein, Tolkien, Vance, Gibson,
Gaiman, Scalzi, Zelazny. Avevo letto tutti i romanzi di tutti gli autori preferiti di Halliday.
E non mi ero fermato lì.
Avevo anche guardato ogni film citato nell’Almanacco. Quanto ai suoi preferiti, come
Wargames, Ghostbusters, Scuola di geni, Sapore di hamburger, La rivincita dei nerds, li
rivedevo finché non ne ricordavo ogni scena a memoria.
Avevo divorato tutte quelle che Halliday chiamava le «Trilogie Sacre»: Guerre Stellari (i
film originali e i prequel, esattamente in quest’ordine), Il Signore degli anelli, Matrix, Mad
Max, Ritorno al futuro e Indiana Jones (Halliday aveva detto, una volta, che faceva finta
che gli altri film di Indiana Jones, dal Regno del teschio di cristallo in poi, non esistessero.
Io, tendenzialmente, ero d’accordo).
Avevo anche assimilato le intere filmografie dei suoi registi preferiti. Cameron, Gilliam,
Jackson, Fincher, Kubrick, Lucas, Spieberg, Tarantino. E, naturalmente, Kevin Smith.
Per tre mesi avevo studiato tutti i teen movie di John Hughes e avevo memorizzato le parti
di dialogo fondamentali.
Soccombono i deboli. I forti sopravvivono.
Si può proprio dire che avessi fatto il mio dovere.
Avevo studiato i Monty Python. E non solamente il Sacro Graal. Ogni loro film, disco,
libro; ogni episodio delle serie andate in onda sulla BBC. (Sì, compresi i due episodi
«perduti» che avevano girato per la televisione tedesca.) Non avevo intenzione di
cavarmela con poco.
E non volevo farmi sfuggire qualcosa di palese.
Così, a un certo punto, chissà quando, iniziai a perdere la testa.
In effetti, è possibile che avessi già cominciato a impazzire.
Guardai tutti gli episodi di Ralph supermaxieroe, Airwolf, A–Team, Supercar, Misfits of
Science e anche del Muppet Show.
E i Simpson, mi domanderete?
Conoscevo Springfield meglio della mia città.
Star Trek? Oh, i compiti li avevo fatti. La serie originale, TNG, DS9. E poi Voyager ed
Enterprise. Li avevo guardati tutti in ordine cronologico. Film inclusi. Phaser puntati
sull’obiettivo.
Mi ero immerso in un corso intensivo di cartoni anni ottanta del sabato mattina.
Imparai il nome di ogni Transformer e Gobot.
Land of the Lost, Thundarr il barbaro, He–man, Schoolhouse Rock!, G.I. Joe… Li
conoscevo tutti. Perché la conoscenza è metà della battaglia.
Chi mi era amico quando le cose si mettevano male? H.R. Pufnstuf.
Ma il Giappone? Mi ero occupato del Giappone?
Sì. E non poco. Anime, live action. Godzilla, Gamera, Star Blazers, Space Giants,
Gatchaman. Superauto Mach 5!
Non ero un dilettante qualunque.
Non cazzeggiavo.
Quanto alla musica? Be’, con la musica le cose si complicavano.
Ci misi un po’.
Gli anni ottanta erano stati un decennio lungo (dieci anni) e Halliday non aveva un gusto
selettivo. Ascoltava qualsiasi cosa. E, di conseguenza, anch’io. Pop, rock, new wave, punk,
heavy metal. Police e Journey, R.E.M. e Clash. Me li ero procurati tutti.
Macinai l’intera discografia dei They Might Be Giants in meno di due settimane. I Devo mi
richiesero un po’ di più.
Su YouTube guardai una serie di video di ragazze carine e occhialute che, con l’ukulele,
suonavano cover di pezzi anni ottanta. Tecnicamente parlando, non faceva parte della
ricerca, ma soffrivo di un grave feticismo nei confronti delle ragazze carine e occhialute
che suonavano l’ukulele: non posso spiegarlo né giustificarlo.
Imparai i testi. Testi idioti di band con nomi quali Van Halen, Bon Jovi, Def Leppard, Pink
Floyd.
Continuai imperterrito.
Trascorsi intere notti in bianco, al lume della mia lanterna.
Lo sapevate, a proposito di lanterne, che una band australiana si chiamava davvero
Midnight Oil, e nel 1987 fece uscire un singolo intitolato Beds Are Burning?
Ero ossessionato. Non riuscivo a smettere. I voti scolastici ne risentivano. Non
m’importava.
Lessi ogni numero di ogni fumetto che Halliday aveva nella sua collezione.
Non avrei mai lasciato che qualcuno mettesse in dubbio la mia dedizione.
Soprattutto nel campo dei videogiochi.
I videogiochi erano la mia area di specializzazione.
La mia specializzazione a doppia arma.
La mia scelta ideale al Rischiatutto.
Avevo scaricato tutti i giochi accennati o citati nell’Almanacco, da Akalabeth a Zaxxon.
Consumavo ogni gioco fino a diventarne esperto, poi passavo al successivo. Vi
meravigliereste a scoprire quanta ricerca una persona possa fare, in mancanza di un
qualsiasi tipo di vita. Dodici ore al giorno, sette giorni su sette: un sacco di tempo da
dedicare allo studio.
Avevo esaminato a fondo ogni genere e piattaforma. Videogiochi a gettone, per pc, per
console, per console portatile. Avventure testuali, sparatutto in prima persona, RPG in
terza persona. Antichissimi classici da 8, 16 e 32 bit, tutti scritti nel secolo precedente. Più
difficile era un gioco, più mi piaceva. E, via via che giocavo con queste reliquie digitali,
notte dopo notte, anno dopo anno, scoprii di avere un talento. Completavo i giochi
d’azione in poche ore, e non c’era avventura grafica o videogioco di ruolo che non riuscissi
a risolvere. Non avevo mai bisogno di soluzioni o trucchi. Tutto si incastrava
perfettamente. Ed ero ancora più bravo con i vecchi arcade. Di fronte a classici ad alta
velocità come Defender ero un’aquila in volo, mi sentivo come si deve sentire uno squalo
mentre scandaglia il fondo di un oceano. Per la prima volta nella mia vita, sapevo cosa
significasse avere un talento innato. Un dono.
Ma non fu la mia ricerca sistematica tra i film, i fumetti e i videogiochi a procurarmi il
primo vero indizio. Questo mi giunse mentre studiavo la storia dei vecchi giochi di ruolo,
quelli fatti di carta e penna.
Sulla prima pagina dell’Almanacco erano stampati i quattro versi in rima che Anorak
aveva declamato nell’Invito.
Tre chiavi, ognuna una porta aprirà.
Che il valor dei viandanti proverà.
Chi l’ardue prove superar saprà.
Giunto alla Fine, il premio otterrà.
A un primo sguardo, sembrava l’unico accenno esplicito alla gara contenuto
nell’Almanacco.
Ma, seppellito sotto a quella serie di annotazioni deliranti e saggi sulla cultura pop, trovai
un messaggio nascosto.
All’interno dell’Almanacco, disseminate nel testo, c’erano alcune lettere marcate. Ciascuna
era contrassegnata da una minuscola «tacca», quasi invisibile, che ne spezzava il contorno.
La prima volta che avevo notato le tacche, era passato un anno dalla morte di Halliday.
Stavo leggendo la mia copia cartacea dell’Almanacco, e mi ero convinto che le tacche non
fossero altro che trascurabili difetti di stampa dovuti probabilmente al tipo di carta o alla
stampante, troppo antiquata, che avevo usato. Ma, quando controllai sul sito di Halliday
la versione digitale del libro, trovai le stesse tacche sulle medesime lettere. Ingrandendo
una singola lettera, le tacche erano chiare come il sole.
Le aveva messe Halliday. Aveva marcato le lettere per un motivo.
Scoprii che, sparse per il libro, si trovavano centodiciotto lettere «intaccate». Le trascrissi
nell’ordine in cui erano disposte, e fu allora che comparve una scritta che aveva un senso.
Mentre trascrivevo il tutto nel diario del Graal, ci mancò poco che non rimanessi secco per
l’emozione.
Quella Chiave di Rame, o esploratori,
È in una tomba ricolma d’orrori,
Ma molto c’è da imparare,
Se un posto vuoi guadagnare,
Nella schiera dei punteggi migliori.
Ovviamente, anche altri Gunter avevano scoperto il messaggio nascosto, ma furono
abbastanza avveduti da non rivelarlo. Se non altro, per qualche tempo. A sei mesi dalla
mia scoperta, venne trovato anche da una matricola spaccona del MIT. Si chiamava Steven
Pendergast e decise di guadagnarsi i suoi quindici minuti di celebrità condividendo con i
media la sua «scoperta». Per un mese, i telegiornali mandarono in onda continuamente
interviste con quel coglioncello, benché non avesse nemmeno un indizio legato al
significato del messaggio. Da allora, rivelare al pubblico un indizio venne chiamato «fare
un Pendergast».
Una volta che il messaggio fu di pubblico dominio, i Gunters lo rinominarono «il
limerick». Erano ormai quattro anni che il mondo intero ne era a conoscenza, ma nessuno
comprendeva il suo vero significato, e la Chiave di Rame non era ancora stata trovata.
Sapevo che Halliday aveva inserito indovinelli simili in molte delle sue prime avventure
grafiche, e ogni indovinello aveva un senso, nel contesto del gioco. Perciò dedicai
un’intera sezione del mio diario del Graal alla decifrazione del limerick verso per verso.
Quella Chiave di Rame, o esploratori Il verso era piuttosto chiaro. Nessun significato
nascosto da rilevare.
È in una tomba ricolma d’orrori Questo verso era più complicato. Preso alla lettera,
sembrava indicare che la chiave fosse nascosta da qualche parte, in una tomba piena di
roba spaventosa. Ma durante la mia ricerca scoprii che un vecchio supplemento di
Dungeons & Dragons, pubblicato nel 1981, si intitolava La tomba degli orrori. Dal
momento in cui vidi il titolo, fui certo che il secondo verso del limerick facesse riferimento
proprio a quello. Per tutto il liceo, Halliday e Morrow avevano giocato ad Advanced
Dungeons & Dragons, insieme ad altri giochi di ruolo da tavolo come GURPS, Champions,
Car Wars e Rolemaster.
La tomba degli orrori era un libretto che veniva chiamato «modulo». Includeva mappe
dettagliate e descrizioni delle stanze di un labirinto sotterraneo, infestato di creature non–
morte, che i giocatori potevano esplorare con ciascun personaggio. Il Dungeon Master
leggeva il modulo e guidava gli altri giocatori nel corso della storia, descrivendo tutto ciò
che vedevano e incontravano lungo il percorso.
Più apprendevo sul conto di questi vecchi giochi di ruolo, più mi rendevo conto che un
modulo di D&D era l’equivalente primitivo delle missioni su OASIS. E i personaggi di
D&D erano, in fondo, gli avatar. In un certo senso, i primi GDR erano stati anche le prime
simulazioni virtuali, ben prima che i computer fossero abbastanza potenti da
permetterselo. A quei tempi, se volevi rifugiarti in un mondo alternativo, dovevi creartelo
con la tua testa, qualche foglio di carta, matite, dadi e un regolamento. Questa
consapevolezza mi lasciò stordito. Cambiò il mio punto di vista sulla caccia all’Easter Egg
di Halliday. Da quel momento in poi, vidi la Caccia come un elaboratissimo modulo di
Dungeons & Dragons. Chiaramente, Halliday era il Dungeon Master, anche se controllava
il gioco dal fondo della sua bara.
Nei meandri polverosi di un vecchio archivio FTP trovai una copia digitale dell’ormai
cinquantenne Tomba degli orrori. Studiandola, cominciai a formulare una teoria: da
qualche parte, su OASIS, Halliday aveva ricreato la Tomba degli orrori, dentro la quale
aveva nascosto la Chiave di Rame. Trascorsi i mesi successivi ad approfondire il mio
studio del modulo, memorizzandone le mappe e le descrizioni di ogni stanza, per
prepararmi al giorno in cui avrei finalmente capito dove si trovasse. Ecco il problema: il
limerick non dava alcun suggerimento riguardo al luogo in cui Halliday potesse aver
nascosto la maledetta chiave. L’unico indizio sembrava essere «Ma molto c’è da imparare
se un posto vuoi guadagnare nella schiera dei punteggi migliori».
Quelle parole mi risuonarono in testa così a lungo che mi venne voglia di gridare dalla
frustrazione. Molto c’è da imparare. Sì, ok, benissimo. Ma devo imparare cosa?
OASIS era popolato da migliaia di pianeti, e Halliday poteva aver nascosto la sua
ricostruzione della Tomba degli orrori su uno qualsiasi di questi mondi. Setacciarli tutti,
uno per uno, avrebbe richiesto un’eternità. Anche se avessi avuto le risorse per farlo.
Il luogo ovvio da cui iniziare la ricerca era un pianeta di nome Gygax, all’interno del
Settore 2. Halliday stesso aveva scritto i codici per quel pianeta, che aveva così battezzato
in omaggio a Gary Gygax, uno dei creatori di Dungeons & Dragons e autore della Tomba
degli orrori. Secondo la Gunterpedia (la wiki dei Gunter), il pianeta Gygax era disseminato
di riproduzioni di moduli ripresi da D&D, ma non c’era traccia della Tomba degli orrori. E
sembrava che non fosse presente in nessun altro dei mondi OASIS a tema D&D. I Gunter
avevano ispezionato quei pianeti da cima a fondo, avevano battuto ogni centimetro
quadrato di terreno: se ci fosse stata una riproduzione della Tomba degli orrori,
l’avrebbero scovata già da tempo.
Perciò la tomba doveva essere nascosta da qualche altra parte. E non avevo la minima idea
di dove. Ma mi ripetevo che, persistendo nella mia ricerca, avrei infine scoperto ciò di cui
avevo bisogno per capire dove si trovasse. A pensarci bene, era probabilmente ciò che
Halliday intendeva con «Ma molto c’è da imparare se un posto vuoi guadagnare nella
schiera dei punteggi migliori».
Quand’anche gli altri Gunter avessero condiviso la mia interpretazione del limerick,
sarebbero stati abbastanza furbi da non rivelarlo. Sui forum di Gunter non mi era mai
capitato di trovare post che riguardassero la Tomba degli orrori. D’altra parte, chi poteva
garantirmi che ciò non fosse da imputare al fatto che era la mia teoria sul modulo di D&D
a essere stupida e sbagliata?
E così continuai a guardare, leggere, ascoltare e studiare, preparandomi al giorno in cui,
finalmente, mi sarei imbattuto nell’indizio che mi avrebbe condotto alla Chiave di Rame.
E poi accadde. Mentre ero seduto a fantasticare, durante la lezione di latino.

0007
La professoressa Rank era in piedi, di fronte all’intera classe, e coniugava lentamente voci
verbali. Prima le pronunciava in inglese, poi in latino e, mentre parlava, ogni verbo
compariva automaticamente sulla lavagna dietro di lei. Tutte le volte che sprofondavamo
nel tedio della coniugazione verbale, non riuscivo a togliermi dalla testa una vecchia
canzone di Schoolhouse Rock! To run, to go, to get, to give. Verb! You’re what’s
happenin’!
La stavo canticchiando tra me e me quando la professoressa Rank cominciò a coniugare il
verbo imparare. «Imparare. Discere» disse. «Questo dovrebbe essere facile da ricordare,
perché somiglia al verbo inglese discern, che significa anche imparare».
Sentirla ripetere il termine imparare mi ricordò subito il limerick. Ma molto c’è da
imparare se un posto vuoi guadagnare nella schiera dei punteggi migliori.
La professoressa Rank continuò, inserendo il verbo in una frase. «Andiamo a lezione per
imparare» disse. «Petimus scholam ut litteras discamus.» E proprio allora quel pensiero mi
colpì. Come un’incudine dal cielo, direttamente sulla mia scatola cranica. Guardai i miei
compagni di classe. Che gruppo di persone ha «molto da imparare»?
Gli studenti. Gli studenti del liceo.
Mi trovavo su un pianeta brulicante di studenti, studenti che avevano «molto da
imparare».
E se il limerick avesse inteso che la tomba si trovava proprio qui, su Ludus, lo stesso
pianeta su cui mi ero rigirato i pollici per cinque anni?
Poi mi ricordai che anche Ludus era un termine latino e significava «scuola». Aprii il
dizionario di latino per ricontrollare la definizione, e fu allora che mi accorsi che la parola
aveva più di un significato. Ludus poteva significare scuola, ma voleva dire anche sport, o
gioco.
Gioco.
Caddi dalla sedia pieghevole e atterrai con un tonfo sordo sul pavimento del mio
nascondiglio. La console OASIS percepì il movimento e lo trasmise al mio avatar
rischiando di farlo finire sul pavimento dell’aula, ma il software disciplinare scolastico lo
bloccò e sul mio display si illuminò un messaggio d’avviso: Resta seduto durante la
lezione, per favore!
Cercai di contenere l’emozione. Forse ero saltato alle conclusioni un po’ troppo in fretta.
Del resto, su altri pianeti di OASIS vi erano centinaia di scuole private e università. Il
limerick poteva riferirsi a quelle. Ma non ne ero così convinto. Ludus aveva più senso.
James Halliday aveva donato miliardi di dollari per finanziare la creazione del servizio
scolastico pubblico così da dimostrare l’enorme potenziale di OASIS come strumento
educativo. E, prima di morire, Halliday aveva messo in piedi una fondazione per
assicurarsi che la scuola pubblica di OASIS avesse sempre fondi sufficienti per andare
avanti. La Fondazione Apprendimento Halliday garantiva ai bambini poveri del mondo
l’hardware OASIS e una connessione internet per poter seguire le lezioni.
Erano stati proprio i programmatori della GSS a progettare e costruire Ludus e le sue
scuole, perciò era plausibile che Halliday stesso avesse dato il nome al pianeta. Non solo:
aveva accesso al codice sorgente del mondo, qualora volesse nascondervi qualcosa.
Queste illuminazioni cominciarono a detonare nel mio cervello come bombe atomiche che
esplodevano a catena.
Secondo ciò che veniva detto nel modulo di D&D, l’ingresso alla Tomba degli orrori era
nascosto vicino a una «collinetta, bassa e smussata, meno di trecento metri in lunghezza e
poco più di duecento in larghezza». La cima della collina era ricoperta di grosse pietre
nere, sistemate in maniera tale che, viste dall’alto, raffigurassero le orbite, le narici e i denti
di un teschio umano.
Ma se su Ludus ci fosse stata una collina simile, non era forse impossibile che fosse stata
ignorata finora?
Forse no. Ludus era disseminato di foreste, che ricoprivano gli ampi spazi liberi tra le
migliaia di campus. Alcune foreste erano tanto vaste da estendersi per decine e decine di
chilometri quadrati. Pochi studenti vi si erano avventurati, perché non c’era nulla di
interessante da fare o vedere. Come i campi, i fiumi e i laghi, le foreste di Ludus non erano
altro che paesaggi generati automaticamente e inseriti per riempire gli spazi vuoti.
Naturalmente, nella lunga permanenza che il mio avatar aveva dovuto scontare su Ludus,
avevo esplorato, per noia, qualche foresta vicino alla mia scuola. Ma non avevo trovato
altro che alberi e pochi uccelli, conigli e scoiattoli (uccidere queste creaturine non
garantiva alcun punto esperienza. Avevo provato anche questo).
Perciò non si poteva escludere che, da qualche parte, nascosta in una delle vaste e
inesplorate macchie di Ludus, sorgesse una collina ricoperta di pietre raffiguranti un
teschio umano.
Cercai di aprire una mappa di Ludus sul display, ma non ci riuscii. Era il sistema a
impedirmelo, dato che la lezione non era ancora finita. L’espediente che usavo per
accedere alla libreria della scuola non funzionava per il programma Mappe di OASIS.
«Cazzo!» mi lasciai sfuggire, irritato. Il software disciplinare filtrò l’imprecazione: né i miei
compagni né la professoressa Rank la sentirono. Ma un altro messaggio di avviso mi
lampeggiò sul display: Volgarità rimossa – Avviso cattiva condotta!
Guardai l’ora sul display. Mancavano esattamente diciassette minuti e venti secondi alla
fine delle lezioni. Rimasi seduto, digrignando i denti, e contai i secondi, la mente ancora in
subbuglio.
Ludus non era un mondo che riscuotesse particolare attenzione, nel Settore 1. Non ci si
aspettava che contenesse altro che scuole, perciò era l’ultimo posto in cui un Gunter
avrebbe pensato di cercare la Chiave di Rame. Di certo era l’ultimo posto in cui io avevo
pensato di cercare e ciò, di per sé, provava che era un nascondiglio perfetto. Ma perché
Halliday avrebbe deciso di nascondere qui la Chiave di Rame? A meno che… Non volesse
che fosse trovata da uno studente.
Ero ancora immerso nelle implicazioni che quel pensiero comportava quando suonò la
campanella. Tutt’intorno a me, gli altri studenti uscivano ordinatamente dalla classe o
scomparivano, seduti nei loro banchi. Anche l’avatar della professoressa Rank scomparve
e, poco dopo, ero da solo nell’aula.
Aprii una mappa di Ludus sul display: un mappamondo tridimensionale galleggiava
davanti ai miei occhi. Lo ruotai con la mano. Per gli standard di OASIS, Ludus era un
pianeta relativamente piccolo, un terzo della Luna, una circonferenza di mille chilometri
esatti. Un unico continente ne ricopriva la superficie. Non c’erano oceani, solo qualche
decina di vasti laghi qui e là. I pianeti di OASIS non erano reali, motivo per cui non
dovevano obbedire ad alcuna legge della natura. Su Ludus era sempre giorno,
indipendentemente dal punto in cui ci si trovava, e il cielo era sempre di un blu terso,
privo di nubi. Il sole immobile che ci sovrastava non era altro che una fonte di luce
virtuale, programmata in un cielo immaginario.
Sulla mappa, i campus erano dei rettangoli, identici e numerati, che punteggiavano la
superficie del pianeta. L’uno era separato dall’altro da piccole vallate, fiumi, rilievi
montuosi e foreste. Le foreste erano tutte di diversa forma e grandezza, e molte di esse
delimitavano le scuole. Aprii il modulo della Tomba degli orrori accanto alla mappa.
Conteneva un’illustrazione, grezza e approssimativa, della collina sotto cui giaceva la
tomba. Feci una foto alla schermata che conteneva l’illustrazione e la piazzai su un angolo
del display.
Freneticamente, setacciai i miei siti pirata preferiti finché non trovai un sofisticato plug–in
di riconoscimento immagini per le mappe di OASIS. Una volta scaricato il software da
Guntorrent, mi presi qualche minuto per capire come esaminare l’intera superficie di
Ludus in cerca di una collina le cui pietre nere fossero sistemate nella forma di un teschio.
Una che avesse l’aspetto, le dimensioni e la sagoma dell’illustrazione presente nel modulo
della Tomba degli orrori.
Dopo dieci minuti di ricerca, il software mi segnalò un risultato che poteva coincidere.
Trattenni il fiato e accostai l’ingrandimento della mappa di Ludus all’illustrazione del
modulo. La forma della collina e del teschio tracciato dalle pietre combaciavano alla
perfezione con il disegno.
Ridussi l’ingrandimento della mappa per avere conferma che l’estremità nord della collina
terminasse in un dirupo di sabbia e ghiaia friabile. Proprio come nel modulo di Dungeons
& Dragons.
Lanciai un grido trionfale che riecheggiò nell’aula deserta e rimbalzò sulle pareti del mio
minuscolo nascondiglio. Ce l’avevo fatta. Avevo trovato la Tomba degli orrori!
Quando, finalmente, riuscii a calmarmi, feci un paio di rapidi calcoli. La collina si trovava
al centro di un’ampia foresta informe sul lato opposto di Ludus, a più di quattrocento
chilometri dalla mia scuola. Il mio avatar riusciva a correre a una velocità massima di
cinque chilometri all’ora, perciò avrei impiegato più di tre giorni a raggiungerla a piedi,
correndo senza fermarmi mai. Se avessi potuto teletrasportarmi, sarei arrivato lì in tre
minuti. Per un distanza così ravvicinata, il costo non sarebbe stato alto, probabilmente
qualche centinaio di crediti. Purtroppo, però, era comunque più del mio saldo OASIS
attuale, che corrispondeva a un grosso, ingombrante zero.
Valutai le mie possibilità. Aech avrebbe potuto prestarmi i soldi per pagare la tratta, ma
non volevo chiedergli aiuto. Se non ero in grado di raggiungere la tomba con le mie
risorse, non meritavo nemmeno di raggiungerla. Inoltre, avrei dovuto mentire a Aech
sullo scopo del denaro e, non avendogli mai chiesto un prestito prima d’allora, qualsiasi
scusa avessi addotto lo avrebbe insospettito.
Pensando a Aech, non potevo che sorridere. Sarebbe andato fuori di testa quando lo
avrebbe scoperto. La tomba era nascosta a meno di settanta chilometri dalla sua scuola!
Era praticamente nel suo giardino.
Questo pensiero scatenò nella mia mente un’idea che mi fece balzare in piedi. Corsi fuori
dalla classe, lungo il corridoio.
Non solo avevo trovato una soluzione per raggiungere il lato opposto di Ludus, ma
sapevo come far sì che la scuola mi pagasse il teletrasporto.
Tutte le scuole pubbliche di OASIS si dotavano di diverse squadre sportive: c’era il
wrestling, il calcio, il football americano, il baseball, la pallavolo, e una serie di altri sport
che non si potevano praticare nel mondo reale, come il Quidditch o il rubabandiera a
gravità zero. Gli studenti che appartenevano alle squadre andavano in trasferta come nelle
scuole del mondo reale e giocavano usando un’attrezzatura sportiva aptica che richiedeva
a ognuno di correre davvero, saltare, tirar calci, placcare, e così via. Le squadre si
allenavano la sera, festeggiavano prima delle partite e si recavano in altre scuole su Ludus
per giocare. La nostra scuola regalava buoni per il teletrasporto a tutti gli studenti che
volessero assistere a una partita fuori casa, affinché potessero sedersi sugli spalti a fare il
tifo per la vecchia SPO n. 1873. Io avevo sfruttato l’offerta soltanto una volta, quando la
nostra squadra di rubabandiera aveva giocato contro la scuola di Aech nei campionati
della SPO.
Giunto nell’ufficio scolastico, diedi una scorsa al programma delle attività e trovai
immediatamente ciò che cercavo. Quella sera stessa, la nostra squadra di football avrebbe
giocato fuori casa contro la SPO n. 0571, che si trovava più o meno a un’ora di corsa dalla
foresta dove era nascosta la tomba.
Allungai una mano e selezionai la partita: un buono teletrasporto, valido per andata e
ritorno dalla SPO n. 0571, apparve subito nell’inventario del mio avatar.
Mi fermai un istante davanti al mio armadietto, giusto il tempo di lasciare i libri e
raccogliere la torcia, la spada, lo scudo e l’armatura. Poi corsi fuori dall’entrata principale,
lungo il prato davanti alla scuola. Quando raggiunsi la linea rossa che ne delimitava i
confini, mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno mi stesse osservando. Poi la
oltrepassai. La scritta Wade3 che mi fluttuava sulla testa si trasformò in Parzival. Ora che
non mi trovavo più nell’area scolastica, potevo riprendere il nome del mio avatar. Potevo
anche oscurarlo del tutto, ed è quello che feci: volevo viaggiare in incognito.
La stazione di teletrasporto più vicina si trovava a pochi passi dalla scuola, in fondo a un
sentiero di ciottoli. Era un ampio padiglione a cupola sostenuto da una dozzina di colonne
in avorio. Ogni colonna era contrassegnata da un’icona di teletrasporto OASIS, una T
maiuscola al centro di un esagono blu. L’ultima lezione si era conclusa da pochi minuti,
perciò un flusso regolare di avatar si ammassava nella stazione. All’interno, c’erano
lunghe file di cabine blu, la cui forma e colore mi ricordavano il TARDIS (tempo e relativa
dimensione nello spazio) del Doctor Who. Mi infilai nella prima cabina libera che trovai e
le porte si chiusero automaticamente dietro di me. Non c’era bisogno che inserissi la
destinazione sullo schermo tattile perché era già inclusa nel mio buono. Mi limitai a
inserire il buono in una fessura e, sullo schermo, apparve una mappa di Ludus che mi
mostrava il tracciato dalla mia posizione attuale alla destinazione, un punto verde che
lampeggiava accanto alla SPO n. 0571. La cabina calcolò istantaneamente la distanza che
avrei percorso (462 chilometri) e il totale che la mia scuola avrebbe dovuto pagare per il
trasporto (103 crediti). Venne verificato il buono, la tratta fu segnalata come pagata. Poi il
mio avatar si smaterializzò.
Riapparvi immediatamente in una cabina identica, all’interno di una stazione identica, sul
lato opposto del pianeta. Correndo fuori dalla struttura vidi, a sud, la SPO n. 0571. Era la
copia precisa della mia scuola, solo il paesaggio circostante variava. Notai anche alcuni
miei compagni di scuola che camminavano verso lo stadio di football lì vicino, per vedere
la partita e tifare per la nostra squadra. Mi chiedevo perché si prendessero un tale
disturbo. Avrebbero potuto vederla su un canale video, e i sedili vuoti sarebbero stati
riempiti da PNG che avrebbero scolato bibite virtuali, trangugiato hot dog e tifato
scompostamente. Di tanto in tanto, avrebbero persino fatto la ola.
Correvo già nella direzione opposta, lungo una collinetta che si innalzava proprio dietro la
scuola. Una piccola catena montuosa si profilava all’orizzonte e, alle sue pendici, potevo
già vedere la foresta informe.
Attivai la corsa automatica per il mio avatar, poi aprii l’inventario e selezionai tre oggetti.
Sul mio corpo apparve l’armatura; lo scudo comparve su una fascia appesa alla mia
schiena e la spada, nel suo fodero, pendeva al mio fianco.
Stavo raggiungendo i margini della foresta quando sentii squillare il telefono. Il display
diceva che era Aech. Probabilmente telefonava per chiedermi perché non mi fossi ancora
fatto vivo nella Cantina. Ma, se avessi risposto, gli sarebbe arrivato un video in diretta del
mio avatar che correva per i campi alla massima velocità, con la SPO n. 0571 che si
rimpiccioliva alle mie spalle. Avrei potuto rispondere aprendo solo il canale audio, così da
nascondere la mia posizione, ma si sarebbe insospettito. Lasciai che la chiamata passasse
sulla segreteria video. Il volto di Aech comparve in una piccola finestra del display.
Chiamava da una qualche arena PvP.
Dietro di lui, decine di avatar erano intrecciati in combattimento su un campo di battaglia
a più livelli.
«Ehi, Z! Che stai facendo? Ti fai le seghe davanti a Ladyhawke?» Mi lanciò il suo ghigno
da Stregatto. «Fatti sentire. Penso ancora di armarmi di popcorn e buttarmi in una
maratona di Robotech. Sei dei nostri?» Riattaccò e la sua immagine scomparve.
Con un messaggio di solo testo gli risposi che avevo troppi compiti da fare e che non sarei
riuscito a passare. Poi aprii di nuovo il modulo della Tomba degli orrori e cominciai a
rileggerlo, pagina per pagina. Lo feci lentamente, con attenzione, poiché ero sicuro che
contenesse una descrizione dettagliata di tutto ciò che avrei incontrato di lì a poco.
In un angolo disperso del mondo, sotto una collina solitaria e deserta, recitava
l’introduzione del modulo, giace la lugubre Tomba degli orrori. Questa cripta labirintica è
piena di trappole, mostri arcani e feroci, tesori magici e sfarzosi e lì, da qualche parte,
riposa il malefico Demilich.
Quest’ultima parte mi preoccupava. Un lich era una creatura non–morta: si trattava
generalmente di un mago o di un re straordinariamente potente che si era servito della
magia nera per legare la sua volontà al suo stesso cadavere tornato in vita, guadagnando
così una forma anomala di immortalità. Giocando a innumerevoli videogiochi e leggendo
romanzi fantasy, più volte mi ero imbattuto nei lich. Erano creature da evitare a tutti i
costi.
Studiai la mappa della tomba e le descrizioni delle stanze. L’entrata alla tomba era sepolta
nel fianco di un dirupo dissestato. Un cunicolo poi ti conduceva a un labirinto di trentatré
fra camere e sale, ognuna ribollente di una gran varietà di mostri assetati di sangue,
trappole letali, tesori (perlopiù maledetti). Avresti potuto raggiungere la Cripta di
Acererak e il Demilich, soltanto se fossi riuscito a sopravvivere alle trappole e a trovare la
strada all’interno del labirinto. La stanza era disseminata di tesori ma, toccandoli, Re
Acererak, il non–morto, sarebbe apparso e ti avrebbe fatto il culo. Se, per qualche
miracolo, fossi riuscito a sconfiggere il lich, avresti potuto portarti via il suo tesoro e
andartene dalla cripta. Missione compiuta, enigma risolto.
Se Halliday aveva riprodotto la Tomba degli orrori nella maniera descritta dal modulo, mi
trovavo in un bel guaio. Il mio avatar era una femminuccia di Terzo Livello: nessuna arma
magica, ventisette miseri Punti Vita. Quasi tutte le trappole e i mostri descritti avrebbero
potuto uccidermi con facilità. E anche se fossi riuscito, in qualche modo, a superarli e a
raggiungere la cripta, il lich superpotente avrebbe fatto fuori il mio avatar in pochi
secondi, anche solo guardandolo.
Ma avevo un paio di punti a mio favore. Prima di tutto, non avevo poi così tanto da
perdere. Se il mio avatar fosse stato ucciso avrei perso la spada, lo scudo e l’armatura in
pelle, insieme ai tre livelli che ero riuscito a racimolare in quegli anni. Avrei dovuto creare
un nuovo avatar di primo livello, che si sarebbe generato nell’ultimo luogo in cui avevo
effettuato l’accesso, davanti al mio armadietto, a scuola. Dopodiché avrei potuto tornare
alla tomba e riprovare. Ancora, e ancora, ogni sera, raccogliendo Punti Esperienza e
salendo di livello finché non avessi capito dove trovare la Chiave di Rame. (Non c’erano
avatar di riserva. Gli utenti OASIS potevano avere un solo avatar alla volta. Gli hacker
riuscivano a usare visori modificati per falsificare i propri campioni retinei e crearsi un
altro account ma, se venivano scoperti, erano esclusi a vita da OASIS ed erano squalificati
dalla gara di Halliday. Nessun Gunter avrebbe mai corso un tale rischio).
L’altro mio vantaggio (o così speravo) era che sapevo esattamente cosa aspettarmi una
volta entrato nella tomba, dato che il modulo mi offriva una mappa dettagliata del
labirinto. In più, segnalava tutti i punti in cui si trovavano le trappole, oltre al modo in cui
evitarle o disinnescarle. Sapevo anche quali erano le stanze in cui avrei trovato i mostri e
dove fossero nascoste le armi e i tesori. A meno che, ovviamente, Halliday non avesse
cambiato qualcosa. In tal caso ero fottuto. Ma in quel momento ero troppo emozionato per
preoccuparmene. Dopotutto, avevo appena fatto la scoperta più grande e importante della
mia vita. Mi trovavo a qualche minuto di distanza dal nascondiglio della Chiave di Rame!
Finalmente, raggiunsi il margine della foresta e mi ci addentrai, correndo. Ero in mezzo ad
aceri, querce, abeti e larici, tutti rifiniti in maniera meticolosa. Sembravano alberi generati
e piazzati lì con dei template generici OASIS, ma i dettagli erano impressionanti. Mi
fermai per esaminarne uno, e vidi una fila di formiche che strisciava lungo le venature
della corteccia. Lo interpretai come il segno che ero sulla strada giusta.
All’interno della foresta non c’erano sentieri, perciò tenni aperta la mappa in un angolo del
display e la seguii fino a raggiungere la collina del teschio che indicava l’entrata della
tomba. Si trovava proprio nel punto indicato dalla mappa, in un’ampia radura nel bel
mezzo della foresta. Quando la raggiunsi, sembrava che il mio cuore volesse sgusciarmi
fuori dalla cassa toracica a forza di battiti.
Mi arrampicai fino alla cima della collina e fu come entrare in un’illustrazione del modulo
di D&D. Halliday aveva riprodotto tutto alla lettera. Dodici imponenti pietre nere erano
sistemate sulla cima in quella forma che ricordava i tratti di un teschio umano.
Raggiunsi l’estremità a nord e discesi dove il suolo rovinava e si sfaldava.
Consultando la mappa del modulo, trovai il punto esatto del dirupo dove avrebbe dovuto
essere nascosta l’entrata della tomba. Poi, usando il mio scudo come pala, cominciai a
scavare. In pochi minuti avevo scoperto la bocca del cunicolo, che conduceva in un oscuro
corridoio sotterraneo. Il pavimento del corridoio era un mosaico di pietre colorate tra le
quali serpeggiava un sentiero fatto di tasselli rossi. Rispecchiava, ancora una volta, il
modulo di D&D.
Spostai la mappa della Tomba degli orrori nell’angolo destro del display e ne aumentai la
trasparenza. Quindi mi legai lo scudo alla schiena ed estrassi la torcia. Mi guardai intorno
ancora una volta per essere sicuro che nessuno mi stesse spiando. Poi, afferrando la spada,
entrai nella Tomba degli orrori.

0008
Le pareti del corridoio che conduceva alla tomba erano ricoperte di strani affreschi che
raffiguravano uomini, orchi, elfi e altre creature ridotte in schiavitù. Ogni
rappresentazione si trovava nel punto esatto descritto nel modulo di D&D. Sapevo che,
nascoste sotto i mosaici del pavimento, si trovavano molte botole a scatto. Se ci camminavi
sopra, si spalancavano e precipitavi in una fossa piena di spuntoni avvelenati. Ma la
posizione di tutte le botole era segnalata con chiarezza sulla mappa che avevo con me,
perciò riuscii a evitarle.
Finora, tutto aveva seguito alla lettera il modulo originario. Se ciò fosse valso anche per il
resto del percorso, sarei riuscito a sopravvivere abbastanza a lungo da localizzare la
Chiave di Rame. Soltanto quattro mostri si annidavano nei sotterranei: un gargoyle, uno
zombie, una mummia e il perfido Demilich Acererak. Poiché la mappa mi indicava il
punto esatto in cui ciascuno era nascosto, avrei potuto evitare di affrontarli. A meno che,
ovviamente, uno di loro non fosse stato messo a guardia della Chiave di Rame. E potevo
già immaginarmi a chi spettasse l’onore.
Cercai di muovermi con prudenza, come se non sapessi cosa aspettarmi.
Dopo aver evitato la Sfera di annientamento in fondo al corridoio, individuai una porta
nascosta accanto all’ultima trappola. Si affacciava su un piccolo cunicolo in pendenza. La
luce della torcia, che guizzava sulle pareti di pietra umida, mi precedette nell’oscurità. Mi
sentivo come in un filmetto sword & sorcery di serie B, che ne so, La spada di Hok o Kaan
principe guerriero. Iniziai a farmi strada per i sotterranei, stanza dopo stanza. Benché
sapessi esattamente dove si trovavano le trappole, per evitarle dovevo comunque
muovermi con cautela. In una camera buia e inospitale che portava il nome di Cappella
del male trovai, nascoste tra i banchi, migliaia di monete d’oro e d’argento. Esattamente
dove avrebbero dovuto essere. Era più denaro di quanto il mio avatar riuscisse a
trasportare, anche con l’aiuto dalla Borsa conservante che avevo trovato. Raccolsi tutte le
monete d’oro che potevo e queste apparvero subito nell’inventario. La valuta venne
convertita automaticamente e il contatore balzò a più di ventimila, senza dubbio la più
grande somma di denaro che avessi mai avuto. Oltre ai crediti, il mio avatar ricevette un
numero equivalente di Punti Esperienza per essersi impossessato delle monete.
Via via che mi inoltravo nella tomba, entrai in possesso di svariati oggetti magici. Una
Spada fiammeggiante +1. Una Gemma della visione. Un Anello di protezione +1. Trovai
addirittura un’Armatura completa a placche. Erano i primi oggetti magici che il mio avatar
avesse mai avuto, e mi sentivo inarrestabile.
Quando indossai l’armatura magica, questa si restrinse per assumere la forma del mio
avatar. Le cromature scintillanti mi ricordavano l’armatura spaccaculi che indossavano i
cavalieri di Excalibur. Anzi, per un istante passai alla visione in terza persona soltanto per
ammirare la figaggine del mio avatar che la indossava.
Più andavo avanti, più ero sicuro di me. La pianta della tomba, e così i suoi contenuti,
continuavano a rispecchiare esattamente la descrizione del modulo, fino all’ultimo
dettaglio. Questo finché non raggiunsi la Sala del trono e dei pilastri.
Era una grande camera quadrata dall’alto soffitto, dalle imponenti colonne in pietra. In
fondo alla sala torreggiava un’enorme pedana rialzata sulla quale era piazzato un trono in
ossidiana intarsiato di teschi d’argento e avorio.
Tutto ciò combaciava con la descrizione del modulo, ma c’era una vistosa differenza. Il
trono avrebbe dovuto essere vuoto, e non lo era. Acererak, il Demi–lich, vi era seduto
sopra e mi osservava trucemente, in silenzio. Sul suo capo avvizzito luccicava una corona
d’oro impolverata. Rispecchiava esattamente l’immagine che c’era sulla copertina del
modulo. Ma secondo la descrizione, Acererak non avrebbe dovuto essere lì. Avrebbe
dovuto trovarsi in una camera funeraria, nel profondo del sotterraneo, in attesa.
Pensai di fuggire, ma decisi di non farlo. Se Halliday aveva messo il lich in questa sala,
forse ci aveva nascosto anche la Chiave di Rame. Dovevo scoprirlo.
Attraversai la camera fino a raggiungere la base della pedana. Da qui riuscivo a vedere il
lich chiaramente. I suoi denti erano due file di diamanti a punta, dispiegati in un sorriso
senza labbra, nelle orbite deigli occhi era incastrato un rubino.
Per la prima volta da quando ero entrato nella tomba, non sapevo quale sarebbe stata la
mia prossima mossa.
Le possibilità che avevo di sopravvivere a un combattimento uno–contro-uno erano nulle,
affrontando un Demilich. Il mio scarsissimo spadino +1 non lo avrebbe neanche sfiorato, e
i rubini magici nelle sue orbite avevano il potere di succhiare la forza vitale dal mio avatar,
uccidendomi all’istante. Anche uno schieramento di sei o sette avatar di alto livello
avrebbe avuto difficoltà a sconfiggerlo.
Dentro di me sperai (non per l’ultima volta) che OASIS fosse una vecchia avventura
grafica e che potessi salvare la mia posizione. Ma non lo era. Non potevo farlo. Se il mio
avatar fosse morto qui, avrei dovuto ricominciare da capo, senza niente. Ma non aveva
senso esitare, ormai. Se il lich mi avesse ucciso, sarei tornato la sera successiva e avrei
riprovato. L’intero sotterraneo avrebbe dovuto resettarsi non appena fosse scoccata la
mezzanotte sull’orologio del server di OASIS. In quel caso, tutte le trappole nascoste che
avevo disinnescato si sarebbero resettate e i tesori e gli oggetti magici che avevo raccolto
sarebbero riapparsi.
Toccai, sul bordo del display, l’icona «registra», in modo che, qualsiasi cosa fosse successa,
avrei potuto conservarla in un file video che in seguito avrei potuto rivedere e studiare.
Ma, quando la toccai, comparve un messaggio d’avviso che diceva registrazione non
consentita. A quanto pareva, Halliday aveva disattivato le registrazioni all’interno della
tomba.
Feci un respiro profondo, sguainai la spada, e misi un piede sull’ultimo gradino della
pedana. Mentre lo facevo, udii uno scricchiolio d’ossa e un fruscio di pelli: Acererak stava
sollevando lentamente la testa. I rubini all’interno delle sue orbite iniziarono a brillare di
un’intensa luce rossa. Arretrai a grandi passi, aspettandomi che saltasse giù e mi
attaccasse. Ma non si alzò dal trono. Al contrario, riabbassò la testa e mi fissò con il suo
sguardo agghiacciante. «Salute, Parzival» disse, con voce stridente. «Di cosa siete in
cerca?» Mi colse di sorpresa. Secondo il modulo, il lich non avrebbe dovuto parlare.
Avrebbe dovuto soltanto attaccare, lasciandomi con due sole possibilità: ucciderlo o
scappare via a gambe levate.
«Cerco la Chiave di Rame» risposi. Poi ricordai che stavo rivolgendomi a un re e chinai
rapidamente la testa, mi misi in ginocchio e aggiunsi «Vostra Maestà».
«Ovvio» disse Acererak, facendomi cenno di rialzarmi. «E siete nel posto giusto.» Si alzò,
la sua pelle mummificata che si crepava come cuoio vecchio a ogni movimento. Impugnai
la spada con più forza, sempre aspettandomi il suo attacco.
«Come posso sapere se siete degno di entrare in possesso della Chiave di Rame?»
domandò.
Porca puttana! Come diavolo avrei dovuto rispondere a questo? E se gli avessi dato la
risposta sbagliata? Mi avrebbe succhiato via l’anima e poi mi avrebbe incenerito?
Mi tormentai il cervello in cerca di una risposta accettabile. Il meglio che riuscii a mettere
insieme fu: «Permettetemi di provare il mio valore, nobile Acererak».
Il lich scoppiò in una lunga, inquietante risata che echeggiò sui muri di pietra della camera
ardente.
«Molto bene!» disse. «Proverete il vostro valore affrontandomi in una giostra».
Non avevo mai sentito parlare di re lich non–morti che sfidavano gente in una giostra.
Soprattutto non in una camera funeraria nel sottosuolo. «D’accordo» dissi, incerto. «Ma
non avremmo bisogno di cavalli?»
«Nessun cavallo» rispose, allontanandosi dal trono. «Uccelli.» Indicò il trono con la mano
scheletrica. Ci fu un lampo di luce improvviso, accompagnato da un effetto sonoro di
trasformazione (ero quasi certo che fosse stato preso in prestito dal vecchio cartone dei
Superamici). Il trono si squagliò e si trasformò in un vecchio cabinato per videogiochi
arcade a gettone. Dal pannello di controllo sporgevano due joystick, uno giallo e uno blu.
Non riuscii a trattenere un sorriso quando lessi il logo luminoso del gioco: JOUST, la
giostra. Williams Electronics, 1982.
«A chi vince due partite su tre» stridette Acererak. «Se sarete voi a vincere, vi donerò ciò
che state cercando.»
«E cosa succede se sarete voi a vincere?» domandai, conoscendo già la risposta.
«Se sarò io a uscirne vittorioso» disse il lich, i rubini nelle sue orbite incendiati di un rosso
ancora più acceso «Voi morirete!». Una sfera turbinosa di fiamme gialle comparve nella
sua mano destra. La sollevò con aria minacciosa.
«Chiaro» dissi io. «Era quello che immaginavo. Volevo solo averne conferma.» La sfera di
fuoco nella mano di Acererak scomparve. Allungò verso di me il palmo mummificato, su
cui ora giacevano due monete scintillanti. «Offro io le partite» disse. Salì i gradini e infilò
entrambe le monete nella fessura sinistra della macchina. Il gioco trillò due volte e il
contatore passò da zero a due.
Acererak si impossessò del joystick giallo, a sinistra del pannello di controllo, e vi strinse
attorno le sue dita ossute. «Siete pronto?» gracchiò.
«Va bene» dissi, facendo un respiro profondo. Scrocchiai le dita e afferrai il joystick del
Giocatore Due con la mano sinistra, la mano destra fissa sul pulsante «Flap».
Acererak dondolò la testa da sinistra a destra, sciogliendosi i muscoli del collo. Il suo gesto
risuonò come il rumore di rami spezzati. Poi schiacciò il pulsante «Due giocatori» e la
giostra ebbe inizio.
Joust era un classico arcade anni ottanta con una premessa bizzarra. Ogni giocatore
controlla un cavaliere armato di lancia. Il Giocatore Uno monta uno struzzo, il Giocatore
Due, invece, una cicogna. È necessario battere le ali, «Flap», per volare lungo la schermata
e «giostrare» contro l’altro giocatore e contro altri cavalieri nemici, azionati dal computer,
tutti a cavallo di poiane. Se ti scontri con uno dei tuoi avversari, chi ha la lancia più alta
vince la giostra. Il perdente muore e perde una vita. Quando si uccidono i cavalieri nemici,
le poiane cacano fuori un uovo verde che, se non viene subito raccolto, si schiude e dà vita
a un altro cavaliere nemico. Di tanto in tanto uno pterodattilo dalle grandi ali appare per
creare scompiglio.
Da più di un anno non giocavo a Joust. Era uno dei giochi preferiti di Aech, e per un
periodo aveva tenuto nella chatroom un cabinato del gioco. Ogni volta che voleva mettere
fine a un diverbio o a una qualche stupida lite sulla cultura pop, mi sfidava a una partita.
Per qualche mese giocammo quasi tutti i giorni. All’inizio Aech era più bravo di me e
aveva l’abitudine di gongolare delle sue vittorie. Mi infastidiva terribilmente, perciò avevo
iniziato a esercitarmi da solo, giocando un paio di volte a sera contro un avversario
virtuale. Limai e cesellai la mia abilità fino a essere in grado di battere Aech, stracciandolo
ripetutamente. Allora fui io a gongolare al posto suo, gustandomi il sapore della rivincita.
L’ultima volta che ci eravamo sfidati, avevo infierito sulla sua sconfitta così spietatamente
che lui aveva dato di matto e aveva giurato che non avrebbe mai più giocato con me. Da
quel momento avevamo usato Street Fighter II per sistemare le dispute.
La mia tecnica a Joust era più arrugginita di quanto immaginassi. Trascorsi i primi cinque
minuti di gioco cercando di rilassarmi e familiarizzare di nuovo con i comandi e con il
ritmo della partita. Durante questo tempo Acererak riuscì a uccidermi due volte, senza
pietà, sparando in traiettoria perfetta il suo cavallo alato contro il mio. Controllava il gioco
con la precisione calcolata di una macchina. Del resto, era esattamente questo. Intelligenza
artificiale PNG perfetta, programmata da Halliday stesso.
Alla fine della prima partita, stavo riprendendo dimestichezza con le mosse e le strategie
che avevo imparato durante le mie maratone con Aech. Ma Acererak non aveva bisogno di
alcun tipo di riscaldamento. Era in forma perfetta sin dall’inizio, e non sarei mai riuscito a
compensare i miei primi minuti di debolezza. Ammazzò il mio ultimo omino prima
ancora che avessi raggiunto i 30 000 punti. Imbarazzante.
«Una partita è andata, Parzival» disse, contraendo le fauci in una smorfia ghignante.
«Dovete solo perderne un’altra.» Non sprecò tempo a finire la sua partita, lasciandomi a
osservarlo. Si allungò e trovò l’interruttore, sul retro della macchina. Lo spense e lo
riaccese, resettando il gioco. Dopo che lo schermo fu attraversato dalla colorata sequenza
d’avvio della Williams Electronics, fece comparire dal nulla due gettoni e li infilò nella
macchina.
«Siete pronto?» domandò nuovamente, chinandosi sul pannello di controllo.
Per un momento esitai, poi dissi: «In effetti, vi spiacerebbe se ci scambiassimo di posto?
Sono abituato a giocare a sinistra».
Era vero. Quando io ed Aech ci sfidavamo nella Cantina, prendevo sempre il posto dello
struzzo. Trovarmi a destra, durante la prima partita, aveva scombinato i miei ritmi.
Per un istante Acererak prese in considerazione la mia richiesta. Poi annuì. «Certamente»
disse. Fece un passo indietro e ci scambiammo i posti. Improvvisamente mi resi conto di
quanto fosse assurda la scena: un tizio con un’armatura e un re lich non–morto, l’uno
accanto all’altro, entrambi ingobbiti sui comandi di un vecchio arcade. Era l’immagine
surreale che uno si sarebbe aspettato di vedere sulla copertina di un vecchio numero di
Heavy Metal o di Dragon.
Acererak premette il pulsante dei «Due giocatori» e io incollai gli occhi allo schermo.
La seconda partita cominciò male, per me. I movimenti del mio avversario erano
implacabili e precisi e durante le prime ondate cercai solamente di schivarlo. A distrarmi
era anche il continuo schiocco del suo indice scheletrico che premeva il pulsante «Flap».
Rilassai la mascella e feci chiarezza tra i miei pensieri, obbligandomi a non pensare a dove
mi trovassi, contro chi stessi gareggiando, o cosa ci fosse in palio. Cercai di convincermi
che ero ancora nella Cantina, a giocare contro Aech.
Funzionò. Mi calai nella parte e la corrente si mosse a mio favore. Iniziai a capire quali
fossero i difetti nello stile del lich, le falle nella sua programmazione. Era una cosa che
avevo imparato nel corso degli anni, studiando centinaia di videogiochi. C’era sempre un
trucco per battere un avversario controllato dal computer. In un gioco come questo, un
giocatore umano abbastanza dotato avrebbe potuto trionfare sull’intelligenza artificiale,
perché il software non poteva improvvisare. Poteva reagire casualmente o in un numero
limitato di modi predeterminati, basato su un numero finito di condizioni
preprogrammate. Era un assioma dei videogiochi, e lo sarebbe stato fino a che gli umani
non avessero inventato una vera intelligenza artificiale.
La seconda partita si era quasi trasformata in un testa–a-testa, ma verso la fine avevo
individuato lo schema della tecnica di gioco del lich. Cambiando la direzione dello struzzo
in certi momenti, lo costringevo ad andare a sbattere contro le poiane che gli si paravano
davanti. Ripetendo la mossa, riuscii a soffiargli tutte le vite, una dopo l’altra. Nel processo
morii anch’io diverse volte, ma alla fine, durante la terza ondata, senza più una sola vita
per salvarmi, lo abbattei.
Mi allontanai dalla macchina e sospirai, sollevato. Sentivo rivoli di sudore che mi colavano
sulla fronte e sulla montatura del visore. Mi asciugai la faccia con la manica della camicia e
l’avatar mimò il mio movimento.
«Bella partita» disse Acererak. Quindi, con mia sorpresa, mi porse l’ artiglio avvizzito che
era la sua mano. La strinsi, ridacchiando nervosamente.
«Sì» risposi. «Bella partita, amico.» Mi resi conto che, in una certa strana maniera, stavo
giocando contro Halliday. Cercai in fretta di scacciare quel pensiero dalla mia mente,
terrorizzato dalla possibilità di perdere il controllo.
Acererak fece comparire altri due gettoni e li lasciò cadere nella fessura della macchina di
Joust. «Chi vince questa vince tutto» disse. «Siete pronto?» Annuii. Questa volta, mi presi
la libertà di premere io il pulsante dei «Due giocatori».
La nostra partita di spareggio durò più delle altre due messe insieme. Durante l’ultima
ondata, le poiane che riempivano lo schermo erano così tante che era difficile muoversi
senza venirne polverizzati. Io e il lich ci scontrammo un’ultima volta, nel punto più alto
del campo di gioco, premendo entrambi, freneticamente, i pulsanti «Flap» mentre
sbattevamo i joystick a destra e a sinistra. Acererak fece un’ultima, disperata mossa per
evitare la mia carica e cadde un micrometro troppo in basso. Il suo ultimo destriero morì
in una minuscola esplosione di pixel.
La scritta player two game over comparve sullo schermo e il lich si lasciò sfuggire un
lungo ululato da far gelare il sangue. Diede un colpo rabbioso alla fiancata del cabinato,
fracassandolo in mille pixel che rimbalzarono e si sparsero al suolo. Poi si voltò verso di
me.
«Congratulazioni, Parzival» disse inchinandosi. «Avete giocato bene.»
«Grazie, nobile Acererak» replicai, resistendo all’istinto di saltare e fare un balletto
mostrandogli il mio vittoriosissimo culo. Al contrario, risposi solennemente al suo inchino.
Lo stavo facendo, quando il lich si trasformò in un mago: era alto, indossava una lunga
veste nera. Lo riconobbi immediatamente. Era l’avatar di Halliday, Anorak.
Lo fissai, totalmente inebetito. Da anni i Gunter facevano congetture sostenendo che
Anorak vagasse ancora per OASIS come PNG autonomo. Il fantasma di Halliday dentro la
macchina.
«E ora» disse il mago, parlando con la voce di Halliday, a me ben familiare. «La tua
ricompensa.» La camera si riempì del suono di un’orchestra al completo. Una sezione
d’archi si unì subito ai corni trionfali. Riconoscevo la musica. Era l’ultimo brano della
colonna sonora che John Williams aveva composto per Guerre Stellari, e corrispondeva
alla scena in cui la Pricipessa Leila consegnava le medaglie a Luke e Han (e Chewbacca,
come ricorderete, rimane a bocca asciutta).
Con la musica che si intensificava nel crescendo, Anorak allungò la mano destra. Lì, nel
suo palmo aperto, giaceva la Chiave di Rame, l’oggetto che milioni di persone avevano
cercato per cinque lunghi anni. Mentre me la passava, la musica si affievolì, e nello stesso
istante udii un trillo. Avevo appena guadagnato cinquantamila Punti Esperienza,
abbastanza da portare il mio avatar al decimo livello.
«Addio, sir Parzival» disse Anorak. «Ti auguro buona fortuna nella tua ricerca.» E prima
che potessi chiedergli cosa avrei dovuto fare adesso, o dove avrei potuto trovare la Prima
Porta, il suo avatar svanì in un lampo di luce, con un effetto sonoro di teletrasporto che
sapevo provenire dal vecchio cartone di Dungeons & Dragons.
Mi trovai solo, sulla pedana vuota. Abbassai lo sguardo sulla Chiave di Rame, chiusa nella
mia mano, e mi sentii sopraffatto dalla meraviglia e dall’euforia. Era identica a quella
dell’Invito di Anorak: una semplice chiave di rame d’antiquariato la cui impugnatura era
decorata con il numero romano I, in rilievo. La rigirai tra le mani del mio avatar e fu allora
che notai, illuminati dalla luce della torcia, due versi incisi nel metallo. Inclinai la chiave
verso la luce e li lessi ad alta voce: Ciò che cerchi è nascosto nel trash Nel più
profondo di Daggorath Non c’era bisogno che lo rileggessi. Ne avevo colto
immediatamente il significato. Sapevo esattamente dove andare e cosa avrei dovuto fare,
una volta lì.
«Nascosto nel trash» era un riferimento alla vecchia linea di computer TRS-80, che Tandy e
Radio Shack avevano prodotto negli anni settanta e ottanta. Gli utenti dell’epoca avevano
dato al TRS-80 il soprannome spregiativo di Trash 80.
Ciò che cerchi è nascosto nel trash.
Il primo computer di Halliday era un TRS-80, con un’impressionante memoria RAM di
16k. E sapevo esattamente dove avrei trovato una riproduzione di quel computer su
OASIS. Tutti i Gunter lo sapevano.
Nei primi giorni di esistenza di OASIS, Halliday aveva creato un piccolo pianeta nel
Settore 7 e l’aveva chiamato Middletown, come la sua città natale in Ohio. Il pianeta era
una meticolosa ricostruzione della città alla fine degli anni ottanta. Non c’è mica un
proverbio che dice che non si riesce mai a tornare davvero a casa? Halliday un modo
l’aveva trovato. Middletown era una delle sue ossessioni, e aveva passato anni a
perfezionarla e programmarla. Ed era risaputo (tra i Gunter, se non altro) che tra le
riproduzioni più accurate e dettagliate del mondo di Middletown c’era quella della casa
del giovane Halliday.
Non ero mai riuscito a visitarla, ma avevo visto centinaia di fotografie e filmati del luogo
virtuale. In camera di Halliday si trovava una copia del suo primo computer, un TRS-80
Color Computer 2. Ero quasi sicuro che quello fosse il luogo in cui aveva nascosto la Prima
Porta. E il secondo verso inciso sulla Chiave di Rame mi spiegava come raggiungerlo: Nel
più profondo di Daggorath.
Dagorath era una parola in Sindarin, la lingua elfica creata da J.R.R. Tolkien nel Signore
degli Anelli. La parola Dagorath significava «battaglia», ma Tolkien la scriveva con una G,
non due. Daggorath, con due G, poteva riferirsi soltanto a una cosa: un gioco per
computer, sconosciuto ai più, che si intitolava Dungeons of Daggorath e che era stato
messo sul mercato nel 1982. Il gioco era stato progettato unicamente per una piattaforma,
il TRS-80 Color Computer.
Nell’Almanacco di Anorak, Halliday scriveva che Dungeons of Daggorath era il gioco che
l’aveva portato a decidere di diventare un programmatore di videogiochi.
E Dungeons of Daggorath era uno dei giochi impilati nella scatola di scarpe accanto al
TRS-80, nella riproduzione della cameretta di Halliday.
Ricapitolando, dovevo soltanto teletrasportarmi fino a Middletown, entrare in casa di
Halliday, mettermi al TRS-80, giocare, raggiungere il livello più profondo del sotterraneo
e… lì avrei trovato la Prima Porta.
O meglio, questa era la mia interpretazione.
Middletown si trovava nel Settore 7, ben lontana da Ludus. Ma avevo abbastanza oro e
denaro per pagarmi il teletrasporto. Rispetto agli standard abituali del mio avatar, ormai
ero ricco da far schifo.
Guardai l’ora. Erano le 11.03 di sera dell’OST (OASIS Server Time, che coincideva con
l’Eastern Standard Time). Avevo otto ore prima di dover tornare a scuola. Sembrava
abbastanza. Potevo andarci subito. Correre come un matto, su dai cunicoli della tomba
fino alla superficie, e poi di nuovo raggiungere la prima stazione di teletrasporto a tutta
velocità. Da lì avrei potuto teletrasportarmi direttamente su Middletown. Se me ne fossi
andato subito, in meno di un’ora avrei potuto raggiungere il TRS-80 di Halliday.
Sapevo che prima avrei dovuto dormire un po’. Ero su OASIS da quindici ore buone. E il
giorno dopo sarebbe stato venerdì. Avrei potuto teletrasportarmi su Middletown dopo la
scuola e poi avrei avuto l’intero fine settimana per agguantare la Prima Porta.
Ma chi stavo prendendo in giro? Non sarei mai riuscito a dormire, né sarei riuscito a
starmene buono buono a scuola. Dovevo andare ora.
Iniziai a correre verso l’uscita, ma mi bloccai a metà della sala. Vidi, al di là della porta,
una lunga ombra che si stagliava sul muro, accompagnata dall’eco di passi in
avvicinamento.
Pochi secondi dopo, il profilo di un avatar apparve sulla soglia. Stavo per sguainare la
spada, quando mi resi conto che avevo ancora in mano la Chiave di Rame. La infilai in una
tasca della cintura e, maldestramente, estrassi la spada dal fodero. Stavo per sollevarla,
quando l’avatar mi parlò.
0009
«Chi diavolo sei?» pretese di sapere l’ombra. La voce sembrava provenire da una giovane
donna. Una che non vedeva l’ora di combattere.
Non fui in grado di rispondere. Allora, un avatar femmina cicciotto uscì dall’ombra e
venne illuminato dalle luci tremolanti delle fiaccole. Aveva i capelli corvini, tagliati corti,
alla Giovanna d’Arco, e sembrava appena ventenne. Più si avvicinava, più mi rendevo
conto di conoscerla. Non ci eravamo mai incontrati, ma la riconobbi dalle decine di
screenshot che aveva postato sul suo blog, nel corso degli anni.
Era Art3mis.
Indossava un’armatura a scaglie blu metallizzate, più da fantascienza che da fantasy. Due
pistole blaster facilmente estraibili pendevano ai suoi fianchi da un paio di fondine e
teneva una spada elfica ricurva in un fodero, che portava appeso alle spalle. Indossava
guanti da corsa tagliati all’altezza delle dita, in pieno stile Guerriero della strada, e un paio
di occhiali da sole Ray–Ban. Nell’insieme, sembrava ricercare uno stile da ragazza
cyberpunk della porta accanto in uno scenario postapocalittico da metà anni ottanta. E su
di me aveva avuto un certo effetto, davvero. In una parola: sexy.
Mentre camminava verso di me, i tacchi dei suoi anfibi borchiati da combattimento
battevano sul pavimento di pietra. Si fermò a distanza di sicurezza dalla mia spada, ma
non estrasse la sua. Invece, sollevò gli occhiali sulla fronte del suo avatar – mossa
superflua e sfacciata, dal momento che gli occhiali da sole non ostacolavano la vista dei
giocatori – e mi squadrò dalla testa ai piedi, in modo plateale.
Ero troppo emozionato per parlare. Per spezzare la paralisi in cui mi trovavo, cercai di
convincermi nuovamente che la persona ai comandi dell’avatar di fronte a me avrebbe
potuto non essere una donna. Questa «ragazza», di cui ero stato virtualmente innamorato
per tre anni, avrebbe potuto essere un obeso di nome Chuck, con le nocche ricoperte di
peli. Una volta messa insieme quest’immagine ridimensionante, riuscii a concentrarmi
sulla situazione in cui mi trovavo, e sulla domanda da porsi: Cosa ci faceva lei qui? Dopo
cinque anni di ricerche, pensavo fosse altamente improbabile che avessimo trovato il
nascondiglio della Chiave di Rame la stessa sera. Era una coincidenza un po’ troppo
vistosa.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua?» domandò. «Ho detto: Chi. Diavolo. Sei?» La targhetta
con il mio nome, come la sua, era disattivata. Era chiaro che volevo rimanere anonimo,
soprattutto date le circostanze. Non ci arrivava da sola?
«Salute» dissi, accennando un inchino. «Sono Juan Sánchez Villa–Lobos RamÍrez.» Lei fece
un sorrisetto. «Maestro d’armi di Re Carlo V di Spagna?»
«Al vostro servizio» risposi, soddisfatto. Aveva colto la mia macchinosissima citazione da
Highlander e aveva risposto per le rime. Era Art3mis, d’altra parte.
«Carino.» Diede un’occhiata alla pedana, vuota, dietro alle mie spalle, poi mi fissò di
nuovo. «Va bene, vuota il sacco. Come è andata?»
«Andata cosa?»
«La giostra contro Acererak?» disse, come se fosse scontato.
Improvvisamente capii. Non era la prima volta che veniva qui. Non ero il primo Gunter ad
aver decifrato il limerick e ad aver trovato la Tomba degli orrori.
Art3mis mi aveva battuto. E, dato che sapeva di Joust, di sicuro doveva aver già incontrato
il lich. Ma se fosse già stata in possesso della Chiave di Rame, non avrebbe mai dovuto
ritornare qui. Era chiaro, quindi, che non aveva ancora la chiave. Aveva fronteggiato il lich
a Joust e lui l’aveva battuta. Era tornata per riprovare. Per quanto ne sapevo, avrebbe
potuto anche essere il suo ottavo o nono tentativo. E naturalmente dava per scontato che il
lich avesse battuto anche me.
«Toc toc?» disse, battendo il piede con impazienza. «Sono in attesa?» Valutai la possibilità
di tagliare la corda. Lasciarla lì e correre, attraverso il labirinto, fino all’esterno, alla
superficie. Ma se mi fossi messo a correre, avrebbe potuto sospettare che avevo la chiave, e
avrebbe potuto decidere di uccidermi per impossessarsene. (Questo avvenne prima che
scoprissi che le chiavi non erano trasferibili. Non si potevano perdere, né passare a un
altro avatar. E le chiavi scomparivano insieme al corpo di ciascun avatar, in caso di
uccisione.) La superficie di Ludus era chiaramente segnalata come zona sicura, nella
mappa di OASIS, e nessun tipo di combattimento player–versus-player era ammesso. Ma
non potevo sapere se ciò valesse anche per la tomba, dal momento che si trovava
sottoterra e non appariva nella mappa del pianeta.
Art3mis sembrava un’avversaria spaventosa. Armatura. Blaster. E quella spada elfica che
aveva con sé poteva essere una spada vorpal. E, se anche solo la metà delle imprese di cui
parlava nel blog fosse stata vera, il suo avatar doveva essere, come minimo, al
cinquantesimo livello. O ancora più su. Nel caso, quaggiù, i combattimenti PvP fossero
stati ammessi, avrebbe fatto il culo ai miei dieci miseri livelli.
Dovevo usare tutta la mia nonchalance. Decisi di mentire.
«Mi ha distrutto» dissi. «Joust non fa proprio per me.» Rilassò i muscoli quasi
impercettibilmente. A quanto pare, era la risposta che voleva sentire. «Vero, stessa cosa»
disse in tono di commiserazione. «Halliday ha dotato il vecchio Acererak di una bella fetta
di intelligenza artificiale, sbaglio? È difficilissimo batterlo.» Diede un’occhiata alla mia
spada, che stavo ancora brandendo per difendermi. «Mettila via. Non mordo.» Continuai a
tenerla alta. «La tomba è una zona PvP?»
«Non saprei. Sei il primo avatar che incontro quaggiù.» Inclinò la testa e sorrise.
«Immagino ci sia un solo modo per scoprirlo.» Estrasse la sua spada, veloce come un
fulmine, e fece una giravolta in senso orario, roteando attorno a me la lama lucente sino a
puntarmela contro, tutto in un singolo, velocissimo, movimento indistinto. Solo all’ultimo
riuscii a sollevare la mia, di lama, per rispondere goffamente all’attacco. Ma le nostre
spade si bloccarono entrambe a mezz’aria, a pochi centimetri di distanza, trattenute da
una qualche forza invisibile. Un messaggio mi apparve sul display: combattimento
player–versus-player non ammesso in questa zona!
«Be’, eccoti la risposta» disse, ghignando. «Siamo in zona non–PvP.» Con un volteggio
descrisse un otto con la spada, poi, senza difficoltà, la infilò nuovamente nella guaina che
portava sulla schiena. Bella esibizione.
Anch’io la ringuainai, evitando mosse sofisticate. «Evidentemente Halliday non voleva che
si duellasse per il diritto di giostrare contro il re» dissi.
«Sì» ribatté, sorridendo. «Ti è andata bene.»
«Mi è andata bene?» risposi, incrociando le braccia. «Come ti viene in mente?» Indicò la
pedana vuota, dietro di me. «Probabilmente muori dalla voglia di ottenere Punti Vita,
dopo aver combattuto contro Acererak.» Allora era così… se Acererak vinceva a Joust,
dovevi batterti con lui. Fortuna che ho vinto, pensai. Altrimenti a quest’ora starei creando
un nuovo avatar.
«Ho Punti Vita da vendere» finsi. «Quel lich era una mezza calzetta.»
«Oh, ma dai?» disse con sospetto. «Io sono al cinquantaduesimo livello, e ci mancava poco
che mi ammazzasse tutte le volte che l’ho affrontato. Devo fare scorta di pozioni mediche
ogni volta che scendo quaggiù.» Mi squadrò per un attimo, quindi disse: «E poi riconosco
la spada e l’armatura che hai. Le hai prese qui, nei sotterranei, e questo sembra dire che
sono meglio di qualsiasi altra cosa il tuo avatar avesse prima. Mi sembri un cacasotto di
bassissimo livello, Juan RamÍrez. E credo che tu mi stia nascondendo qualcosa».
Ora che sapevo che non avrebbe potuto attaccarmi, pensai di confessarle la verità. Perché
non tirare fuori la Chiave di Rame e mostrargliela? Ma ci ripensai La mossa intelligente, a
questo punto, era di svignarmela e andare dritto a Middletown, finché avevo del
vantaggio. Per il momento, lei non aveva ancora la chiave, e forse non se ne sarebbe
impossessata prima di molti giorni. Se non avessi avuto tutte quelle ore di pratica di Joust,
dio solo sa quanti tentativi avrei dovuto fare prima di battere Acererak.
«Pensala come ti pare, She–Ra» dissi, passandole accanto. «Magari ci incontreremo su
qualche altro pianeta. Lì potremo risolvere la questione.» Le feci un breve cenno di saluto
con la mano. «Ci vediamo, eh.»
«Dove credi di andare?» disse, seguendomi.
«A casa» replicai io, continuando a camminare.
«Ma il lich? E la Chiave di Rame?» Indicò la pedana vuota. «Si rigenererà in un paio di
minuti. Non appena l’orologio del server di OASIS tocca la mezzanotte, tutta la tomba si
resetta. Se rimani qui ad aspettare, puoi riprovare a batterlo, senza dover affrontare
un’altra volta tutte quelle trappole. È per questo che arrivo sempre prima di mezzanotte,
un giorno sì e un giorno no. Così posso fare due tentativi. Di fila.» Furba. Se non ci fossi
riuscito al primo colpo, mi domandavo quanto tempo avrei impiegato prima di escogitare
una soluzione simile. «Pensavo che magari potremmo fare a turno nel cercare di batterlo»
dissi. «Io ci ho appena provato, perciò a mezzanotte è il tuo turno, d’accordo? Io tornerò
dopo la mezzanotte di domani. Possiamo alternarci di giorno finché uno di noi due non lo
batte. È abbastanza leale?»
«Credo di sì» disse, studiandomi. «Ma dovresti comunque rimanere qui. Potrebbe
accadere qualcosa di diverso se due avatar sono presenti, a mezzanotte. Anorak si doveva
essere preparato a quest’eventualità. Forse appariranno due emanazioni del lich, una per
ciascuno di noi? O magari…»
«Preferisco giocare da solo» la interruppi. «Facciamo a turno e basta, va bene?» Avevo
quasi raggiunto l’uscita quando mi si piazzò davanti, bloccandomi il cammino.
«Dài, fermati un secondo» disse, con la voce che si addolciva. «Per favore.» Avrei potuto
continuare a camminare, oltrepassare il suo avatar. Ma non lo feci. Ero pronto a tutto pur
di raggiungere Middletown e trovare la Prima Porta, ma mi trovavo anche di fronte alla
celebre Art3mis, che per anni avevo sognato di incontrare. E di persona era ancora più
attraente di quanto immaginassi. Morivo dalla voglia di passare più tempo con lei. Volevo,
come avrebbe detto Howard Jones, poeta degli anni ottanta, conoscerla più a fondo. Se me
ne fossi andato ora, forse non l’avrei mai più incontrata.
«Senti» disse, guardandosi le scarpe. «Mi spiace di averti dato del cacasotto di basso
livello. Non è stata una bella cosa. Ti ho insultato.»
«Non importa. Hai ragione in realtà. Sono soltanto al decimo livello. Ed ero fermo al terzo
fino a poche ore fa.»
«In ogni caso, sei un compagno Gunter. E sei anche intelligente, altrimenti non saresti qui.
Voglio che tu sappia che ti rispetto e che riconosco la tua abilità. E mi spiace per tutte le
stronzate che ho detto.»
«Scuse accettate. Non ti preoccupare.»
«Benissimo.» Sembrava sollevata. Le espressioni del suo avatar erano estremamente
realistiche, il che, di solito, significava che erano sincronizzate con quelle dell’utente a cui
appartenevano, e non erano controllate dal software. Probabilmente usava un’attrezzatura
costosa. «Mi sono solo spaventata che fossi qui» disse «Cioè, sapevo che qualcuno prima o
poi avrebbe trovato questo posto. Ma non così in fretta. È da un po’ che ho questa tomba
tutta per me.»
«Da quanto?» chiesi, pur non aspettandomi una risposta.
Esitò. Poi iniziò a parlare a ruota. «Tre settimane!» disse, esasperata. «Sono tre
maledettissime settimane che vengo qui e cerco di battere quello stupido lich a
quell’insulso gioco! E la sua intelligenza artificiale è assurda! Cioè, ti rendi conto. Non
avevo mai giocato a Joust prima, e ora mi sta mandando fuori di testa! Giuro che ero a
tanto così dal fargli il culo, pochi giorni fa, ma poi…» Si passò le dita tra i capelli,
amareggiata. «Argh! Non dormo. Non mangio. I miei voti sono in caduta libera perché
salto la scuola per esercitarmi a Joust…» Stavo per chiederle se andasse a scuola qui, su
Ludus, ma continuò a parlare, sempre più veloce, come se, nel suo cervello, si fosse aperta
una diga. Le parole si riversavano fuori dalla sua bocca. Si fermava a malapena per
respirare.
«… e stasera sono venuta qui, pensando che sarebbe stata la volta buona che, finalmente,
avrei battuto quel bastardo e avrei preso la Chiave di Rame, ma quando sono arrivata ho
visto che qualcuno aveva già scoperchiato l’entrata. E in quel momento mi sono resa conto
che la mia peggiore paura si era concretizzata. Qualcun altro aveva trovato la tomba.
Quindi sono corsa qui, completamente fuori di me. Cioè, non ero troppo preoccupata,
perché non pensavo che qualcuno potesse battere Acererak al primo tentativo, eppure…»
Si fermò e trasse un profondo respiro; poi tacque di colpo.
«Scusa» disse dopo un istante. «Straparlo quando sono agitata. O emozionata. E in questo
momento sono tipo tutte e due le cose, perché morivo dalla voglia di parlare con qualcuno
di tutto questo, ma ovviamente non potevo dirlo ad anima viva, no? Non è che durante
una conversazione normale uno vada a dire…» Si interruppe di nuovo. «Cavoli, sono una
macchinetta. Che lagna, mi sembro lo squalo Jabber. Sono petulante.» Fece il gesto di
cucirsi le labbra, serrarle, e poi buttare via la chiave immaginaria. Senza pensarci, mimai il
gesto di prendere la chiave al volo e schiuderle le labbra. Lei rise di una risata onesta,
sincera, che includeva una buona quantità di grugniti, il che fece ridere anche me.
Era talmente incantevole. Il suo fare da geek e la sua parlantina sfrenata mi ricordavano
quelli di Jordan, il mio personaggio preferito di Scuola di geni. Non avevo mai sentito un
legame tanto immediato con un’altra persona, nel mondo reale o su OASIS. Non era
successo nemmeno con Aech. Ero in preda alle vertigini.
Quando, infine, riuscì a controllare le risate, disse: «Dovrei davvero installare un filtro per
censurare la mia risata».
«No, non farlo» dissi io. «È una risata davvero bella.» Sussultavo a ogni parola che
fuoriusciva dalla mia bocca. «Anch’io ho una risata un po’ da imbranato.» Bravo, Wade,
pensai. Hai appena detto che ha una risata «imbranata». Vai così.
Ma mi lanciò un sorriso imbarazzato e con le labbra formò la parola grazie.
Sentii l’improvviso desiderio di baciarla. Virtuale o no, non m’importava. Stavo
racimolando il coraggio per chiederle la sua contact card, quando mi porse la mano.
«Mi sono dimenticata di presentarmi» disse. «Mi chiamo Art3mis.»
«Lo so» dissi, stringendole la mano. «In verità adoro il tuo blog. Lo seguo ogni giorno da
anni.»
«Dici sul serio?» Sembrava che il suo avatar stesse arrossendo davvero.
Annuii. «È un onore incontrarti» dissi. «Io sono Parzival.» Mi resi conto che stavo ancora
tenendole la mano, e mi costrinsi a lasciarla.
«Parzival, eh?» inclinò lievemente la testa. «In onore del cavaliere della Tavola Rotonda
che trovò il Graal, vero? Grandioso.» Annuii, sempre più cotto. Il più delle volte ero
costretto a spiegare il mio nome. «E Artemide era la dea greca della caccia, giusto?»
«Esatto! Ma lo spelling normale era già stato preso, e così ho dovuto scriverlo in leet, con il
3 al posto della E.»
«Lo so» dissi. «Ne hai parlato, una volta, sul blog. Due anni fa.» Stavo per segnalarle la
data del post, quando mi resi conto che così sarei sembrato ancora di più uno stalker
virtuale superinquietante.
«È vero» disse, sorridendomi. «L’ho scritto.» Allungò la mano, ancora protetta dal guanto,
e mi porse la sua contact card. Ognuno poteva progettarne una a piacimento. Art3mis
aveva disegnato la sua in modo che fosse identica a un’action figure di Guerre Stellari
prodotta dalla Kenner e ancora nella confezione. Il personaggio era una rudimentale
riproduzione in plastica del suo avatar: stesso volto, stessi capelli, stessi indumenti. La
confezione includeva minuscole riproduzioni delle sue pistole e della sua spada. I suoi
dati personali erano stampati sopra all’action figure: Art3mis Guerriero/Mago di
52mo livello (Veicolo venduto separatamente) Sul retro erano indicati il link al suo
blog, l’indirizzo email e il suo numero di telefono.
Non solo era la prima volta che una ragazza mi dava la sua card, era anche la card più
straordinaria che avessi mai visto.
«Questa è, in assoluto, la card più straordinaria che abbia mai visto» dissi. «Grazie!» Le
porsi una delle mie card, che riproduceva una cartuccia originale di Adventure per Atari
2600, con i miei dati personali stampati sull’etichetta:
Parzival
Guerriero di 10mo livello
(Da usare con joystick)
«È favoloso!» disse, rigirandoselo tra le mani. «Idea pazzesca!»
«Grazie» dissi, arrossendo sotto il visore. Volevo chiederle di sposarmi.
Passai la sua card nell’inventario, e comparve nella lista dei miei oggetti, proprio sotto la
Chiave di Rame. Vedere la chiave in lista mi riportò alla realtà. Perché diavolo ero qui, a
parlare del più e del meno con una ragazza, quando la Prima Porta era là ad aspettarmi?
Controllai l’ora. Meno di cinque minuti a mezzanotte.
«Senti, Art3mis» dissi. «Incontrarti è stato fantastico. Ma devo avviarmi. Tra poco il server
si resetterà, e io voglio svignarmela prima che tutti quei non–morti e quelle trappole si
rigenerino.»
«Oh… d’accordo.» Sembrava realmente delusa! «Io comunque dovrei prepararmi alla
partita di Joust. Ma aspetta, prima di andare lascia che pronunci la formula magica Cura
Gravi Ferite.» Prima che potessi protestare, poggiò una mano sul petto del mio avatar e
mormorò una serie di parole arcane. Il mio contatore di Punti Vita era già al massimo,
perciò l’incantesimo non sortì alcun effetto. Ma Art3mis non poteva saperlo. Era ancora
convinta che avessi combattuto contro il lich.
«Ecco fatto» disse, indietreggiando di qualche passo.
«Grazie» risposi. «Ma non avresti dovuto. Sai bene che siamo in competizione.»
«Lo so. Ma possiamo comunque essere amici, no?»
«Lo spero.»
«E inoltre, la Terza Porta è ancora lontana. Cioè, noi due abbiamo impiegato cinque anni
per arrivare fino a qui. E, se conosco la strategia di game design di Halliday, le cose non
potranno che diventare più difficili da qui in poi.» Abbassò la voce. «Senti, sei sicuro che
non vuoi rimanere? Scommetto che possiamo giocare entrambi contemporaneamente.
Possiamo darci consigli su Joust. Comincio a notare qualche difetto nella tecnica del re…»
Iniziavo a sentirmi uno stronzo per averle mentito. «È un’offerta molto gentile. Ma devo
andare.» Cercai di pensare a una scusa plausibile. «Ho scuola domattina.» Lei annuì, ma la
sua espressione tornò sospettosa. Poi sgranò gli occhi, come se un’idea le avesse appena
attraversato la mente. Le sue pupille iniziarono a scrutare il vuoto, concentrate sullo
spazio di fronte a lei, e capii che stava cercando qualcosa su una finestra del browser.
Pochi istanti dopo, il suo volto fu stravolto dalla rabbia.
«Schifoso bugiardo!» gridò. «Disonesto sacco di merda!» Rese visibile la finestra che aveva
appena aperto e la girò verso di me. Mostrava il Segnapunti, sul sito di Halliday. Nel
mezzo di tutte quelle emozioni mi ero dimenticato di controllarlo.
Era esattamente come era stato per cinque anni, con una variazione. Il nome del mio
avatar ora si trovava in cima alla lista, al primo posto, e accanto a esso comparivano i
10.000 punti. Gli altri nove posti continuavano a contenere le iniziali di Halliday, JDH,
seguite da molti zero.
«Oh cazzo» mormorai. Nell’attimo in cui Anorak mi aveva consegnato la Chiave di Rame,
ero diventato il primo Gunter della storia a guadagnare punti nella gara. E – mi resi conto
– dal momento che il Segnapunti era visibile al mondo intero, il mio avatar era appena
diventato famoso.
Controllai le prime pagine per accertarmene. Ogni singolo feed di notizie portava il nome
del mio avatar. Roba come: il misterioso avatar «parzival» fa la storia, o parzival trova la
chiave di rame.
Rimasi lì, imbambolato, costringendomi a non respirare. Poi Art3mis mi diede uno
spintone che, naturalmente, non sentii nemmeno. Eppure scagliò il mio avatar all’indietro
di qualche centimetro. «L’hai battuto al primo tentativo?» gridò.
Annuii. «Ha vinto la prima partita, ma io ho vinto le altre due. Di poco, però.»
«Cazzo!» urlò, serrando i pugni. «Ma come diavolo hai fatto a batterlo al primo tentativo?»
Ebbi la netta impressione che volesse tirarmi un cazzotto in faccia.
«È stata solo fortuna» dissi. «Giocavo sempre a Joust con un amico, è per questo che ero
preparatissimo. Scommetto che se anche tu avessi fatto tutto quell’esercizio…»
«Per piacere!» ringhiò, sollevando una mano. «Non mi trattare con condiscendenza,
d’accordo?» Si lasciò sfuggire quello che potrei descrivere solo come un ululato di
sconforto. «Non ci credo! Ti rendi conto che sono cinque cazzo di settimane che cerco di
batterlo?»
«Ma un minuto fa hai detto che erano tre settimane!»
«E non m’interrompere!» Mi diede un altro spintone. «È da più di un mese che mi esercito
a Joust ininterrottamente! Mentre dormo mi appaiono dei cazzo di struzzi volanti!»
«Non dev’essere bello.»
«E tu arrivi qui e fai centro al primo tentativo!» Iniziò a battersi il pugno contro la fronte, e
capii che era incazzata con se stessa, non con me.
«Ascoltami» le dissi. «È stata davvero fortuna. Ho una passione per i vecchi arcade. Sono
la mia specialità.» Scrollai le spalle. «Smetti di prenderti a pugni come Rain Man, ok?» Si
fermò e mi guardò. Dopo un istante, emise un lungo sospiro. «Perché non Centipede? O
Ms. Pac–Man? O Burgertime? A quest’ora avrei già risolto la Prima Porta!»
«Be’, non ne sarei così sicuro» dissi.
Mi fissò per un attimo, poi mi rivolse un sorriso diabolico. Si voltò verso l’uscita e sussurrò
formule magiche accompagnate da una serie di gesti elaborati.
«Ehi» le dissi. «Ferma un attimo. Cosa stai facendo?» Ma lo sapevo già. Non appena
pronunciò le ultime parole, comparve un enorme muro di pietra che bloccava
completamente l’unica uscita. Cazzo! Aveva appena fatto un incantesimo di Barriera. Ero
intrappolato nella sala.
«Oh, dài, per favore!» gridai. «Perché l’hai fatto?»
«Mi sembrava avessi proprio fretta di andartene. Immagino che, quando Anorak ti ha
consegnato la Chiave di Rame, ti abbia anche dato qualche tipo di indizio su dove trovare
la Prima Porta. Giusto? È lì che ti stai dirigendo, o sbaglio?»
«Sì» risposi. Pensai di negare tutto, ma che senso aveva ormai?
«Quindi, sempre che tu non possa annullare il mio incantesimo – e scommetto che non
puoi, signor Guerriero di decimo livello – la barriera ti terrà qui fino a dopo mezzanotte,
quando il server si resetterà. Tutte le trappole che hai disattivato scendendo fin qui si
resetteranno. Questo dovrebbe rallentare considerevolmente la tua uscita.»
«Sì» dissi. «Infatti.»
«E mentre tu sarai indaffarato nel cercare di raggiungere la superficie, io cercherò di
sconfiggere Acererak. E questa volta sì che lo distruggo. Poi sarò dietro di te, bello.»
Incrociai le braccia. «Se il re ti sta facendo il culo nero da cinque settimane, cosa ti fa
pensare che stasera vincerai?»
«La competizione mi fa dare il meglio di me» rispose. «Da sempre. E qui c’è della
competizione bella pesante.» Diedi un’occhiata alla barriera magica che aveva creato.
Art3mis aveva superato il cinquantesimo livello, perciò l’incantesimo avrebbe raggiunto la
sua durata massima: quindici minuti. Potevo solo starmene lì, in attesa che si concludesse
il tutto. «Sei malvagia, lo sai?» dissi.
Sorrise e scosse la testa. «Caotica neutrale, tesoro.» Ricambiai il sorriso. «Arriverò
comunque prima di te alla Prima Porta.»
«È probabile» disse. «Ma questo non è che l’inizio. Dovrai comunque superarla. E poi ci
sono altre due chiavi da trovare, e altre due porte da togliere di mezzo. Ho molto tempo
per raggiungerti e per farti mangiare la polvere, campione.»
«Vedremo, vedremo, mia signora.» Con un cenno indicò la finestra che mostrava il
Segnapunti. «Ora sei famoso» disse. «Sai cosa significa, vero?»
«Non ho avuto molto tempo per pensarci.»
«Be’, io sì. È da cinque settimane che ci penso. Il tuo nome sul Segnapunti cambierà tutto.
La gara tornerà a ossessionare il pubblico, come agli inizi. I media stanno già impazzendo.
Tempo un giorno e sarai celebre.» L’idea mi inquietò un poco.
«Potresti diventare famoso anche nel mondo reale» disse «se riveli la tua vera identità ai
media.»
«Non sono un idiota.»
«Bene. Perché ci sono in ballo miliardi di dollari, e tutti ormai penseranno che sai come e
dove trovare l’Egg. In molti ucciderebbero per questo tipo di informazioni.»
«Lo so» le risposi «e ti ringrazio per la preoccupazione. Ma starò bene.» Ma non stavo
bene. Non avevo considerato nulla di tutto ciò, probabilmente perché non credevo che mi
sarei mai trovato in questa posizione.
Restammo lì, in piedi, in silenzio. Guardavamo l’orologio e aspettavamo. «Che cosa faresti
se vincessi?» chiese all’improvviso. «Come spenderesti tutti quei soldi?» A questo avevo
pensato molte volte. Era una cosa su cui fantasticavo continuamente. Io ed Aech stilavamo
liste assurde di cose che avremmo fatto e comprato se avessimo vinto il premio.
«Non so» dissi. «Il solito, credo. Mi trasferirei in una villa. Mi comprerei un sacco di cose
fighe. Eviterei di essere povero.»
«Wow. Che sognatore» disse lei. «E dopo che ti sei comprato la villa e le “cose fighe” cosa
farai con i centotrenta miliardi che ti avanzeranno?» Poiché non volevo che mi giudicasse
un idiota superficiale, d’impulso le spiattellai ciò che davvero sognavo di fare se avessi
vinto. Una cosa che non avevo mai detto a nessuno.
«Farei costruire nell’orbita terrestre un’astronave interstellare a energia nucleare» dissi.
«La farei caricare con una riserva a vita di cibo e acqua, una biosfera autosufficiente, un
supercomputer carico di tutti i film, i libri, le canzoni, i videogiochi, le opere d’arte che la
civiltà umana abbia mai creato, insieme a una copia autonoma di OASIS. Inviterei a bordo
i miei amici più cari, un team di dottori e scienziati, e poi finalmente porteremo il culo
fuori da Dodge.10 Lasceremmo il sistema solare e andremmo alla ricerca di un pianeta
extrasolare simile alla Terra.» Non avevo pensato al piano in modo approfondito,

10 Il riferimento è a Dodge City, nel Kansas, città di bestiame e meta-tipo di innumerevoli film western. La frase «Get
the hell out of Dodge» ricorre in Gunsmoke, serie tv western trasmessa dalla CBS per vent’anni, dal 1955 al 1975.
[N.d.T.]
ovviamente. C’erano ancora molti dettagli su cui lavorare.
Lei sollevò un sopracciglio. «Piuttosto ambizioso» disse. «Ma ti rendi conto, vero, che
quasi metà delle persone su questo pianeta sta morendo di fame?» Non percepii alcun
sarcasmo nel tono della sua voce. Era come se credesse sinceramente che io non fossi
consapevole di questo fatto.
«Sì, lo so» dissi, tenendomi sulla difensiva. «Il motivo per cui così tante persone muoiono
di fame è che abbiamo devastato il pianeta. La Terra sta per morire, lo sai? È ora di
andarsene.»
«È una prospettiva piuttosto pessimista» disse. «Se lo vinco io, il gruzzolo, mi assicurerò
che tutti, su questo pianeta, abbiano abbastanza da mangiare. Una volta affrontata la fame
nel mondo, potremo concentrarci su come sistemare le condizioni ambientali e risolvere la
crisi energetica.» Alzai gli occhi al cielo. «D’accordo» dissi. «E una volta compiuto quel
miracolo, potrai creare geneticamente un mucchio di Puffi e di unicorni e farli scorrazzare
nel nuovo mondo perfetto che hai appena creato.»
«Ero seria» disse.
«Credi davvero che sia così semplice?» dissi. «Credi che firmare un assegno da
centoquaranta miliardi di dollari possa risolvere tutti i problemi del mondo?»
«Non so. Forse no. Ma un tentativo voglio farlo.»
«Se vinci.»
«Giusto. Se vinco.» In quell’istante, l’orologio del server di OASIS batté la mezzanotte. Lo
capimmo subito entrambi perché il trono riapparve in cima alla pedana, e con lui
Acererak. Sedeva lì, immobile, esattamente identico a come l’avevo trovato la prima volta
che ero entrato nella sala.
Art3mis gli lanciò un’occhiata, poi guardò di nuovo me. Sorrise e mi salutò. «Ci vediamo
in giro, Parzival.»
«Sì» risposi. «A presto.» Lei si voltò è s’incamminò verso la pedana. Io la chiamai. «Ehi,
Art3mis?» Si voltò. Per qualche ragione mi sentivo obbligato ad aiutarla, anche se sapevo
che non avrei dovuto. «Prova a giocare sulla sinistra» le dissi. «Io ho vinto così. Forse è più
facile batterlo se usa la cicogna.» Lei mi fissò per un attimo, forse valutando la possibilità
che stessi cercando di confonderla. Poi annuì e salì sulla pedana. Acererak prese vita non
appena lei mise piede sul primo gradino.
«Salute, Art3mis» rimbombò la sua voce. «Di cosa siete in cerca?» Non udii le risposte, ma
pochi istanti dopo il trono si tramutò nel gioco Joust, esattamente come prima. Art3mis
disse qualcosa al lich, i due si scambiarono di posto e lei si piazzò a sinistra. Poi iniziarono
a giocare.
Li osservai a distanza per qualche minuto, fino a quando l’incantesimo non si dissolse.
Lanciai un ultimo sguardo ad Art3mis, poi spalancai la porta e cominciai a farmi strada
per raggiungere la superficie.

0010
Mi ci volle poco più di un’ora per ripercorrere la strada del sotterraneo fino all’uscita. Non
appena strisciai in superficie, sul display iniziò a lampeggiare la spia dei «messaggi in
attesa». In quel momento mi resi conto che Halliday aveva piazzato la tomba in una zona
preclusa alle comunicazioni con il mondo esterno, dove non si potevano ricevere chiamate,
messaggi o email. È probabile l’avesse fatto per evitare che i Gunter chiedessero consigli o
aiuto. Il Segnapunti era visualizzabile, tutti gli altri siti erano bloccati.
Controllai i messaggi e vidi che Aech aveva cercato di contattarmi sin dal momento in cui
il mio nome era comparso sul Segnapunti. Aveva chiamato più di dieci volte, mi aveva
mandato svariati sms chiedendomi cosa stesse succedendo, in nome di Dio, e gridandomi
in CAPS LOCK di richiamarlo IMMEDIATAMENTE. Avevo appena finito di cancellare
tutti i messaggi quando mi arrivò una chiamata. Era ancora Aech che cercava di
contattarmi. Decisi di non rispondere. Gli mandai, invece, un breve messaggio di testo in
cui gli promettevo che mi sarei fatto vivo appena possibile.
Mentre correvo fuori dalla foresta, tenevo il Segnapunti aperto in un angolo del display,
per sapere subito se Art3mis avesse vinto la partita a Joust e avesse ricevuto la chiave.
Quando, finalmente, raggiunsi la stazione di teletrasporto e mi infilai nella cabina più
vicina, erano appena passate le due del mattino.
Inserii la destinazione sullo schermo tattile e sul display comparve una mappa di
Middletown. Mi veniva richiesto di scegliere, come punto d’arrivo, una tra le
duecentocinquantasei stazioni di teletrasporto del pianeta.
Quando Halliday aveva creato Middletown, non aveva inserito una sola riproduzione
della sua città natale. Ne aveva create duecentocinquantasei copie identiche, disposte
ordinatamente su tutta la superficie del pianeta. Non pensavo avrebbe fatto differenza se
ne avessi scelta una piuttosto che un’altra, perciò ne selezionai una a caso, vicina
all’Equatore. Schiacciai Conferma per pagare la tratta e il mio avatar svanì.
Un millisecondo più tardi mi trovavo in una cabina telefonica anni ottanta, dentro una
stazione di bus Greyhound. Aprii lo sportello e feci qualche passo in là. Fu come uscire da
una macchina del tempo. Intorno a me si aggiravano moltissimi PNG, tutti abbigliati in
stile metà anni ottanta. Una donna con una gigantesca pettinatura fora–ozono muoveva la
testa al ritmo del pezzo che ascoltava su uno walkman di dimensioni esagerate. Un
ragazzino con una giacchetta grigia Members Only se ne stava appoggiato a un muro, alle
prese con un cubo di Rubik. Un punk con la cresta sedeva su uno sgabello di plastica, di
fronte a un televisore a gettoni, e guardava una replica di Riptide.
Dopo averla individuata, mi diressi verso l’uscita della stazione, brandendo la spada.
L’intera superficie di Middletown era zona PvP, e dovevo procedere con cautela.
Dall’inizio della Caccia, questo pianeta era diventato un porto di mare e le 256 copie della
città che aveva dato i natali a Halliday erano state battute e rovistate da un’infinità di
Gunter in cerca di indizi e chiavi. La teoria più gettonata, sui forum, era che Halliday
avesse creato molteplici copie della sua città cosìcché molti avatar potessero condurre le
loro ricerche allo stesso tempo, senza essere costretti a litigarsi un singolo luogo.
Naturalmente, tutte queste ricerche non avevano prodotto assolutamente nulla. Non una
chiave. Non un indizio. Nessun Egg. Da allora, l’interesse nei confronti del pianeta era
scemato considerevolmente. Ma era probabile che alcuni Gunter ci andassero ancora, di
tanto in tanto.
Il mio piano, se avessi trovato un altro Gunter nella casa di Halliday, era di levare le tende,
rubare un’auto, spostarmi di quaranta chilometri (in qualsiasi direzione) fino a
raggiungere un’altra copia di Middletown. E poi spostarmi ancora, fino a trovare una casa
di Halliday che non fosse già occupata.
Fuori dalla stazione degli autobus era una splendida giornata da Midwest. Il sole
rossoarancio era basso nel cielo. Anche se non ci ero mai stato, avevo fatto ricerche e
sapevo che Halliday aveva programmato Middletown in modo che, indipendentemente
da dove ti trovassi o dall’ora in cui visitassi il pianeta, fosse sempre un perfetto
pomeriggio tardo–autunnale, intorno al 1986.
Aprii una mappa della città e segnai un tracciato dalla mia posizione attuale alla casa di
Halliday. Si trovava a poco più di un chilometro a nord. Direzionai il mio avatar e iniziai a
correre. Guardandomi intorno, ero sconvolto dalla minuziosa attenzione al dettaglio.
Avevo letto che Halliday si era occupato da solo di tutti i codici, ripescando dai suoi
ricordi, per ricreare la città esattamente com’era stata durante la sua infanzia. Aveva fatto
riferimento a vecchi stradari, elenchi telefonici, fotografie e video perché i risultati fossero
più autentici e accurati possibile.
Mi ricordava molto la città di Footloose. Piccola, rurale, scarsamente popolata. Le case
sembravano incredibilmente grandi ed erano collocate a una distanza assurda l’una
dall’altra. Mi sconvolgeva l’idea che, cinquant’anni prima, anche le famiglie con un
reddito basso potessero permettersi una casa propria. Gli abitanti PNG sembravano
comparse di un video di John Cougar Mellencamp. Vedevo persone che rastrellavano le
foglie, portavano a spasso il cane, sedevano all’ombra delle loro verande. Per curiosità
provai a salutarne alcune, e loro ricambiarono amichevolmente.
Le tracce dell’epoca storica erano ovunque. Su e giù per le strade ombreggiate, auto e
camioncini guidati da PNG viaggiavano lentamente; erano tutte anticaglie che
tracannavano benzina: Pontiac Firebird, Dodge Omni, Chevrolet, Camaro e Chrysler.
Passai davanti a una stazione di servizio; un’insegna indicava il prezzo della benzina:
soltanto ventiquattro centesimi al litro.
Stavo per svoltare nella via di Halliday quando udii un tripudio di trombe. Il mio sguardo
si precipitò sulla finestra del Segnapunti, che gravitava ancora in un angolo del display.
Art3mis ce l’aveva fatta.
Il suo nome era comparso subito sotto il mio, con un punteggio di 9000 punti: mille meno
di me. Evidentemente, avevo ricevuto un bonus per essere stato il primo avatar a ottenere
la Chiave di Rame.
Per la prima volta, mi furono chiare le conseguenze dell’esistenza del Segnapunti.
Da allora in poi non solo avrebbe permesso ai Gunter di controllare a vicenda i progressi
degli avversari. Avrebbe anche mostrato al mondo intero i favoriti del momento e li
avrebbe trasformati in celebrità (e bersagli) istantanei.
Sapevo che in quel momento Art3mis stava osservando la sua copia della Chiave di Rame,
leggendone l’indizio inciso sulla superficie. Ero certo che per decifrarlo non avrebbe
impiegato più di quanto avessi impiegato io. Probabilmente, anzi, era già diretta a
Middletown.
Il pensiero mi rimise in moto. Avevo soltanto un’ora di vantaggio su di lei. Forse meno.
Quando raggiunsi Cleveland Avenue, la via in cui Halliday era cresciuto, mi precipitai dal
marciapiedi pieno di crepe ai gradini davanti alla porta di casa sua. Era proprio identica
alle foto che avevo visto: una modesta casa coloniale a due piani con le facciate in vinile
rosso. Due berline Ford fine anni settanta erano parcheggiate nel vialetto, e una poggiava
su blocchi di cemento.
Osservando la riproduzione della vecchia casa di Halliday, cercai di immaginarmi cosa
avesse significato, per lui, crescere lì. Avevo letto che nella vera Middletown, in Ohio, le
strade di questa via erano state tutte demolite alla fine degli anni novanta per lasciare
spazio a un grande magazzino. Ma qui, su OASIS, Halliday aveva conservato per sempre
la sua gioventù.
Corsi su per le scale ed entrai dalla porta d’ingresso, che affacciava sul salotto. Conoscevo
bene questa stanza perché l’avevo vista nell’Invito di Anorak. Riconobbi le pareti in legno,
la moquette arancione scuro, i mobili sgargianti che sembravano raccattati da un rigattiere
discotecaro.
La casa era vuota. Per qualche ragione, Halliday aveva deciso di non inserire riproduzioni
PNG di se stesso o dei suoi genitori morti. Forse sarebbe stato un pelo troppo inquietante
anche per lui. Riconobbi, comunque, una foto di famiglia sulla parete del salotto. Era un
ritratto scattato nel 1984 al Kmart del quartiere, ma il signore e la signora Halliday
avevano indosso abiti da fine anni settanta. Jimmy, dodicenne, era in piedi tra i due
genitori. Con i suoi occhiali spessi, guardava torvo l’obiettivo della macchina fotografica.
Gli Halliday erano una tipica famigliola americana. Niente sembrava indicare che il
distinto signore con il completo marrone fosse un alcolizzato violento, né che la donna
sorridente con il tailleur pantalone a trama floreale fosse bipolare, o che il ragazzino con la
maglietta sdrucita di Asteroids avrebbe creato, un giorno, un universo completamente
nuovo.
Guardandomi intorno, iniziai a chiedermi le ragioni per cui Halliday, che aveva sempre
sostenuto di aver vissuto un’infanzia infelice, ne avesse avuto tanta nostalgia. Io sapevo
che, quando e se mai fossi riuscito a lasciarmi alle spalle le cataste, non avrei mai ripensato
al passato. E di certo non avrei mai creato una simulazione dettagliata di quel posto.
Lanciai un’occhiata all’ingombrante televisore Zenith e all’Atari 2600 che vi era collegato.
La trama del legno riprodotta sulla custodia di plastica dell’Atari si abbinava
perfettamente a quella dell’armadietto del televisore e delle pareti del salotto. Accanto
all’Atari trovai una scatola di scarpe che conteneva nove cartucce di videogiochi: Combat,
Space Invaders, Pitfall!, Kaboom!, Star Raiders, L’impero colpisce ancora, Yar’s Revenge
ed E.T. I Gunter avevano cercato di spiegarsi il significato dell’assenza di Adventure, cui
Halliday giocava con quella stessa Atari, alla fine dell’Invito di Anorak. Avevano messo
sottosopra Middletown cercandone una copia, ma non se n’era trovata in tutto il pianeta.
Avevano portato copie di Adventure da altri pianeti. Queste, però, non avevano mai
funzionato sull’Atari di Halliday. Finora nessuno sapeva spiegarsi perché.
Setacciai velocemente il resto della casa e mi assicurai che nessun altro avatar fosse
presente. Poi aprii la porta della camera di James Halliday. Era vuota. Entrai e sbarrai la
porta. Da anni circolavano screenshot e simcap della stanza, che avevo studiato
attentamente. Ma era la prima volta che me la trovavo davanti nella «realtà». Avevo i
brividi.
Il tappeto era di un orrendo color senape. Stesso discorso per la carta da parati. Ma le
pareti erano ricoperte di poster di film e band: Scuola di geni, Wargames, Tron, i Pink
Floyd, i Devo, i Rush. All’entrata si trovava uno scaffale stipato di tascabili fantasy e
fantascientifici (tutti titoli che avevo già letto, ovviamente). Un secondo scaffale, accanto al
letto, straripava di vecchie riviste informatiche e regolamenti di Dungeons & Dragons.
Lungo le pareti erano accatastati diversi scatoloni di fumetti, ciascuno etichettato a dovere.
E poi, nell’angolo, sul tavolo in legno tutto ammaccato, si trovava il primo computer di
James Halliday.
Come molte macchine dell’epoca, tastiera e computer si trovavano nello stesso corpo.
Sopra ai tasti, era stampata un’etichetta con scritto TRS-80 color computer 2, 16k RAM. Sul
retro del computer serpeggiavano i fili, che raggiungevano un registratore di
audiocassette, un piccolo televisore a colori, una stampante a matrice di punti e un modem
a 300 baud. Incollata al tavolo, accanto al modem, una lunga lista di numeri telefonici per
Bullettin Board System.
Mi sedetti e cercai l’interruttore del computer e della tv. Si udì un crepitio di elettricità
statica, poi un brusio basso e continuo, mentre la tv si riscaldava. Un istante più tardi,
apparve la schermata verde di avvio del TRS-80, e lessi le seguenti parole: EXTENDED
COLOR BASIC 1.1 COPYRIGHT © 1982 BY TANDY OK.
Appena sotto, un cursore lampeggiava, percorrendo tutti i colori dello spettro. Digitai
hello e poi premetti il tasto Invio.
Un errore di sintassi apparve nella riga seguente. «Hello» non era un comando valido su
BASIC, l’unico linguaggio che quel vecchio computer capiva.
Dalle mie ricerche sapevo che il registratore di cassette funzionava da «lettore».
Memorizzava in modo analogico i dati, sotto forma di suoni, su nastro magnetico. Quando
Halliday, da bambino, aveva cominciato a scrivere i suoi primi codici, il poveretto non
aveva accesso nemmeno a un’unità per floppy disk. Era costretto a salvare tutti i suoi
codici su cassette. Accanto al lettore giaceva una scatola di scarpe piena di cassette. Erano,
perlopiù, avventure testuali: Raku–tu, Bedlam, Pyramid e Madness and the Minotaur.
C’era anche qualche cartuccia ROM, da inserire nel lato del computer. Rovistai nella
scatola finché non trovai una cartuccia con un’etichetta rossa sbiadita su cui era scritto, in
caratteri gialli storti e imprecisi, Dungeons of Daggorath. L’immagine del gioco
riproduceva un’inquadratura del corridoio di un sotterraneo, bloccato da un gigante blu
che trasportava una grossa ascia di pietra.
La prima volta che era comparsa la lista dei giochi della stanza di Halliday, li avevo
scaricati e studiati tutti a fondo. Avevo già risolto Dungeons of Daggorath un paio di anni
prima. Avevo impiegato quasi un intero fine settimana. La grafica era estremamente
rudimentale ma, anche così, il gioco era divertente e creava una vera e propria
dipendenza.
Sui forum avevo letto che, durante quei cinque anni, in molti avevano giocato a Dungeons
of Daggorath, completandolo proprio sul TRS-80 di Halliday. C’era chi giocava a ogni
gioco della scatola soltanto per scoprire se sarebbe venuto a capo di qualcosa. Niente. Ma
nessuno di quei Gunter aveva con sé la Chiave di Rame.
Le mani mi tremavano lievemente mentre spegnevo il TRS-80 e inserivo la cartuccia di
Dungeons of Daggorath. Quando lo riaccesi, lo schermo si colorò di nero e, accompagnata
da effetti sonori minacciosi, comparve l’immagine grossolana di un mago. Reggeva un
bastone in una mano. Sotto di lui, scritta in lettere maiuscole, la legenda: Vi sfido a entrare
nei… sotterranei di Daggorath!
Piazzai le dita sulla tastiera e cominciai la partita. In quel momento, uno stereo sul comò di
Halliday si accese da solo e iniziò a sparare una musica familiare. Era la colonna sonora
che Basil Poledouris aveva composto per Conan il barbaro.
Dev’essere il modo in cui Anorak mi fa sapere che sono sulla buona strada, pensai.
Ben presto persi ogni cognizione del tempo. Mi dimenticai che il mio avatar era seduto
nella camera di Halliday e che io, in realtà, me ne stavo seduto nel mio nascondiglio,
rannicchiato accanto alla stufa elettrica, a tastare l’aria di fronte a me, inviando comandi
con una tastiera immaginaria. Tutti gli strati intermedi scivolarono via, e mi persi
completamente nel gioco dentro al gioco.
In Dungeons of Daggorath, si controlla il proprio avatar digitando comandi come gira a
sinistra o prendi la torcia, orientandosi attraverso un labirinto di corridoi a grafica
vettoriale, combattendo ragni, giganti di pietra, blob, spettri, mano a mano che si scende
sempre più giù, attraverso i cinque livelli a difficoltà crescente dei sotterranei. Per un
attimo cercai di prendere nuovamente familiarità con i comandi e con le peculiarità del
gioco ma, una volta fatto, Dungeons of Daggorath non era poi così difficile da risolvere. La
possibilità di salvare la mia posizione in qualsiasi momento mi dava, in pratica, vite
infinite. (Ciononostante caricare i giochi dal lettore di cassette si dimostrò un processo
lento e tedioso. A volte richiedeva diversi tentativi e smanettamenti con la manopola del
volume sulla piastra di registrazione.) Mentre giocavo, la musica di Conan il barbaro finì
e lo stereo scattò di nuovo, e iniziò a riprodurre il lato B del nastro, proponendomi la
colonna sonora, carica di sintetizzatori, di Ladyhawke. Non vedevo l’ora di sbatterlo in
faccia a Aech.
Intorno alle quattro del mattino raggiunsi l’ultimo livello del sotterraneo e mi scontrai
contro il Malefico Mago di Daggorath. Dopo essere morto e aver ricaricato la partita due
volte, riuscii a sconfiggerlo usando una Spada Elfica e un Anello di Ghiaccio. Completai il
gioco raccogliendo l’anello magico e impossessandomene. Non appena lo feci, sullo
schermo apparve un’immagine che mostrava un mago con una stella luminosa in cima al
bastone e sulla veste. Il testo, in basso, recitava: evviva! il destino attende la mano di un
nuovo mago!
Rimasi in attesa di ciò che sarebbe accaduto. In un primo momento non accadde proprio
nulla. Ma poi la vecchissima stampante di Halliday si risvegliò e, rumorosamente,
produsse un’unica riga di testo. Il rullo ad aghi sbobinò la pagina fuori dalla stampante.
Strappai il foglio e lessi la frase: congratulazioni! hai aperto la prima porta!
Mi guardai intorno e vidi, incassato nella parete della camera, un cancello in ferro battuto,
nel punto esatto in cui, un istante prima, era attaccato il poster di Wargames. Al centro del
cancello c’era un chiavistello di rame con una serratura.
Mi arrampicai sulla scrivania di Halliday per raggiungere il chiavistello, poi feci scivolare
la Chiave di Rame nella serratura e la girai. Il cancello fu investito da un bagliore
incandescente, come se il metallo si fosse surriscaldato, e i due battenti si spalancarono,
rivelando una distesa di stelle. Aveva tutta l’aria di essere un portale verso lo spazio
profondo.
Udii una voce incorporea che diceva: «Mio Dio, è pieno di stelle». Lo riconobbi, doveva
essere un estratto da 2010 – L’anno del contatto. Poi udii un ronzio basso, minaccioso,
seguito da un brano tratto dalla colonna sonora del film Così parlò Zarathustra, di Richard
Strauss.
Mi sporsi per guardare attraverso il portale. Guardai a destra, a sinistra, su e giù.
Nient’altro che una distesa di stelle, in tutte le direzioni. Strizzando gli occhi riuscivo a
distinguere, in lontananza, anche qualche piccola galassia e nebulosa.
Non esitai. Saltai attraverso il cancello spalancato. Mi risucchiò all’interno, e cominciai a
cadere. Ma non precipitavo, cadevo in avanti, e sembrava che le stelle cadessero insieme a
me.

0011
Mi ritrovai a giocare a Galaga in una vecchia sala giochi.
La partita era già cominciata. Disponevo di navicelle doppie e di un punteggio di 41 780.
Abbassai lo sguardo e vidi che le mie mani erano già sui comandi. Dopo un paio di
secondi di disorientamento, cominciai a giocare d’impulso, spostando il joystick a sinistra,
appena in tempo per evitare di perdere una delle navicelle.
Tenendo un occhio sul gioco, cercai di farmi un’idea di ciò che mi circondava. Nella
visione periferica riconoscevo, alla mia sinistra, un cabinato con Dig–Dug, e alla mia
destra una macchina con Zaxxon. Udivo, alle mie spalle, cacofonie di combattimenti
digitali che provenivano da decine di altri giochi arcade d’annata. Infine, quando riuscii a
sgominare un’ondata su Galaga, notai il mio riflesso sullo schermo del gioco. Ma non ci
vidi il volto del mio avatar. La faccia era quella di Matthew Broderick. Un Matthew
Broderick giovane, pre–Pazza giornata di vacanza e pre–Ladyhawke.
In quel momento capii dove mi trovavo. E capii chi ero.
Ero David Lightman, il personaggio interpretato da Matthew Broderick in Wargames.
Questa era la prima scena che aveva nel film.
Ero dentro al film.
Mi guardai intorno rapidamente e vidi una riproduzione dettagliata del 20 Grand Palace,
la pizzeria–sala giochi del film. Attorno a ciascun gioco sciamavano ragazzini con
vaporose capigliature anni ottanta. Gli altri erano seduti nei séparé, mangiavano pizza e
bevevano bibite. Da un jukebox nell’angolo rimbombava «Video Fever» dei Beepers. I
suoni e le immagini erano identici a quelli del film. Halliday aveva copiato ogni singolo
dettaglio e lo aveva riportato in vita come simulazione interattiva.
Porca puttana.
Avevo passato anni a immaginarmi che sfide mi attendessero al di là della Prima Porta. E
mai avrei immaginato questo. Ma forse avrei dovuto aspettarmelo. Wargames era uno dei
film in assoluto più amati da Halliday, ed era per questo che l’avevo guardato più di una
trentina di volte. Oltre al fatto che era assolutamente stupendo, con un hacker adolescente
vecchia maniera come protagonista. A quanto sembrava, stavo per essere ripagato di tutte
quelle ore di studio.
Poi udii un bip elettronico ripetuto. Proveniva dalla tasca destra dei jeans che indossavo.
Tenendo sempre la sinistra sul joystick, frugai nella tasca e ne tirai fuori un orologio
digitale. Il quadrante diceva che erano le 7 e 45 del mattino. Quando premetti un pulsante
per zittire il segnale, al centro del mio display comparve un avviso: farai tardi a scuola!
Usai il comando vocale per aprire la mappa OASIS, sperando di capire dove mi avesse
condotto la Porta. Ma scoprii che non ero più su Middletown, e non ero nemmeno su
OASIS. La mia icona di localizzazione si trovava in mezzo a una schermata vuota, il che
significava che mi trovavo FDM, Fuori dalla Mappa. Quando mi ero avventurato
all’interno della Porta, il mio avatar era stato trasportato in una simulazione autonoma, un
luogo virtuale totalmente separato da OASIS. L’unico modo per ritornare indietro
consisteva probabilmente nel superare la Porta completando la missione. Ma se ero dentro
un videogioco, come dovevo giocarlo? Se questa era una missione, qual era il mio
obiettivo? Continuai a giocare a Galaga rimuginando su questi dubbi. Un istante dopo, un
bambinetto entrò nella sala giochi e si avvicinò a me.
«Ciao David!» disse, fissando la partita.
Lo avevo visto nel film. Si chiamava Howie. Nel film, Matthew Broderick passa a Howie i
comandi di Galaga e corre a scuola.
«Ciao David!» ripeté il ragazzino, col medesimo tono di voce. Questa volta, quando parlò,
le sue parole apparvero in sovraimpressione, alla base del display, come fossero dei
sottotitoli. Poco più in basso, lampeggiarono in rosso le parole ultimo avviso dialogo!
Cominciai a capire. La simulazione mi stava avvertendo che questa era la mia ultima
possibilità di recitare la battuta seguente del film. Se non avessi pronunciato la battuta,
potevo immaginare cosa sarebbe successo.game over.
Ma non mi agitai, perché conoscevo la battuta seguente. Avevo visto Wargames tante
volte che ricordavo l’intero film a memoria.
«Ciao Howie!» dissi. Ma la voce trasmessa dagli auricolari non era la mia. Era la voce di
Matthew Broderick. Mentre recitavo la battuta, l’avviso sul display scomparve e apparve
in alto, in sovrimpressione, un punteggio di 100 punti.
Mi scervellai cercando di ripercorrere mentalmente il resto della sequenza. Mi ricordai la
battuta successiva: «Come va?» dissi, e il mio punteggio schizzò a 200.
«Benone» rispose Howie.
Iniziai a sentirmi in preda alle vertigini. Era tutto incredibile. Ero proprio dentro al film.
Halliday aveva trasformato un film ormai cinquantenne in un videogioco interattivo in
tempo reale. Mi domandai quanto avesse impiegato a programmarlo.
Un nuovo avviso cominciò a lampeggiare sul display: farai tardi a scuola! sbrigati!
Feci qualche passo indietro, abbandonando il gioco. «Vuoi continuare tu?» domandai a
Howie. «Certo» rispose, impossessandosi dei comandi. «Grazie!» Sul pavimento della sala
giochi comparve un sentiero verde che conduceva fino all’uscita. Cominciai a seguirlo, poi
mi ricordai di correre a prendere il blocco degli appunti che avevo lasciato sul Dig–Dug, il
mobile accanto al mio, esattamente come David nel film. Quando lo feci, il punteggio salì
di 100 punti e sul display apparve la scritta bonus azione!
«Ciao, David!» gridò Howie.
«Ciao!» gli risposi. Altri 100 punti. Era così semplice!
Seguii il sentiero verde fin fuori dal 20 Grand Palace e poi lungo la strada affollata, per un
paio di isolati. Stavo correndo in una strada alberata di periferia. Svoltai l’angolo e vidi che
il sentiero conduceva direttamente a un grande edificio di mattoni. L’insegna sulla porta
diceva «Snohomish High School»: era la scuola di David, e l’ambientazione delle scene
seguenti del film.
Mentre entravo, correndo, la mia testa si affollava di pensieri. Se tutto ciò che dovevo fare
era ripetere le battute di Wargames per le prossime due ore, sarebbe stato un gioco da
ragazzi. Senza volerlo, ero fin troppo preparato. Conoscevo Wargames persino meglio di
Scuola di geni o Sapore di hamburger.
Stavo ancora correndo per i corridoi della scuola, quando sul display lampeggiò un nuovo
avviso: sei in ritardo per la lezione di biologia!
Continuai a percorrere, più in fretta che potevo, il sentiero, che aveva cominciato a pulsare
di un verde acceso. Giunsi, infine, di fronte alla porta di un’aula del secondo piano. Dal
vetro riuscivo a vedere che la lezione era già cominciata. L’insegnante era accanto alla
lavagna. Vidi il mio banco, l’unico banco vuoto di tutta l’aula.
Era proprio dietro Ally Sheedy.
Aprii la porta e entrai nella classe in punta di piedi, ma l’insegnante mi notò
immediatamente.
«Ah, David! Sei carino a unirti a noi!» Raggiungere la fine del film si rivelò molto più
difficile di quanto avessi preventivato. Mi ci vollero solo quindici minuti per capire le
«regole» del gioco, e per capire come funzionasse il sistema di punteggio. Mi si richiedeva
molto più della mera ripetizione del dialogo. Dovevo anche riprodurre tutte le azioni che
il personaggio di Broderick compie nel film, in maniera esatta e nel momento giusto. Era
come essere obbligati a recitare da protagonista in un dramma teatrale visto molte volte,
ma mai provato.
Per gran parte della prima ora del film fui in preda al nervosismo, cercavo costantemente
di anticipare le battute che avrei dovuto dire. Ogni volta che sbagliavo una battuta o non
compivo un’azione al momento giusto, il mio punteggio scendeva e sul display compariva
un avviso. Quando facevo due errori di seguito, compariva un «ultimo avviso». Non ero
certo di cosa sarebbe successo se avessi sbagliato tre volte di seguito, ma immaginavo che
sarei stato espulso dalla Porta o, più semplicemente, il mio avatar sarebbe stato ucciso.
Non ero proprio impaziente di scoprire quale sorte mi sarebbe toccata.
Dopo sette azioni giuste in sequenza o dopo sette frasi esatte, il gioco mi assegnava un
bonus «Suggerimento–Battuta», che potevo selezionare ogni volta che stavo per fare scena
muta: in questo modo, l’azione corretta o la linea di dialogo che mi sfuggiva sarebbero
comparse sul display, come se fosse una sorta di gobbo.
Nelle parti che non coinvolgevano il mio personaggio, la simulazione passava a una
prospettiva passiva, in terza persona, durante la quale non dovevo far altro che osservare
gli sviluppi, come nella scena animata di un vecchio videogioco. Nel corso di queste scene,
potevo rilassarmi fino al momento in cui il mio personaggio non fosse tornato sullo
schermo. In una pausa, cercai di accedere alla copia del film che conservavo nel disco fisso
della console, con l’intenzione di riprodurlo, in una finestra del display, per tenerlo come
punto di riferimento. Ma il sistema non me lo permise. Scoprii, anzi, che non potevo aprire
alcuna finestra mentre mi trovavo all’interno della Porta. Quando ci provai, mi fu inviato
un avviso: barare non è ammesso. prova a barare ancora una volta ed è game over!
Ma, fortunatamente, alla fine non ebbi bisogno di alcun aiuto. Una volta raccolto il
massimo di cinque bonus Suggerimento–Battuta mi rilassai, e il gioco divenne addirittura
divertente. Non era difficile divertirsi all’interno di uno dei miei film preferiti. Dopo un
po’ scoprii che potevo guadagnare punti extra se pronunciavo una battuta con l’esatto
tono e la stessa inflessione del protagonista.
Ancora non lo sapevo, ma ero la prima persona a giocare a un tipo di videogioco
assolutamente nuovo. Non molto tempo dopo la GSS sarebbe venuta a conoscenza della
simulazione di Wargames inclusa nella Prima Porta. Avrebbe brevettato in fretta l’idea e
avrebbe comprato i diritti di vecchi film e serie tv per conventirli in giochi interattivi, che
sarebbero stati chiamati Sincrofilm. I Sincrofilm sarebbero diventati estremamente
popolari. Si sarebbe aperto un nuovo, vastissimo mercato di giochi che permettevano, a
chi lo volesse, di recitare da protagonista nel proprio film o serie tv preferiti.
Giunto alle scene finali del film, iniziai a sentirmi spossato. Ero sveglio da più di
ventiquattr’ore e non avevo mai fatto una pausa. L’ultima azione che mi toccò fu ordinare
al supercomputerWOPR di «giocare contro se stesso» a Tris. Poiché ogni partita giocata
dal WOPR finiva pari, l’intelligenza artificiale apprese che anche una Guerra
Termonucleare Globale sarebbe stata un gioco in cui «l’unica mossa vincente è non
giocare». Ciò avrebbe impedito alWOPR di lanciare tutti gli ICBM degli Stati Uniti contro
l’Unione Sovietica.
Io, David Lightman, giovane appassionato di computer della periferia di Seattle, da solo
avevo evitato la fine dell’umanità.
Il centro di comando NORAD esplose in un grande festeggiamento, e io attesi che
scorressero i titoli di coda del film. Ma non accadde. No, tutti i personaggi intorno a me
scomparvero, lasciandomi solo nell’enorme quartier generale. Controllai il riflesso del mio
avatar sullo schermo di un computer, e vidi che non avevo più il volto di Matthew
Broderick. Ero di nuovo Parzival.
Scrutai nel vuoto del centro di comando NORAD, domandandomi cosa dovessi fare. Tutto
a un tratto, i giganteschi schermi che avevo di fronte si azzerarono e apparvero quattro
righe di testo, in verde acceso. Era un nuovo indovinello: La Chiave di Giada il capitano
ha celata In una dimora da tempo abbandonata Ma nel fischietto soffiar tu potrai Se
dei trofei la raccolta farai Per un attimo fissai i versi inebetito, in silenzio. Poi mi riscossi
dallo stordimento e fotografai più volte il testo. Mentre lo facevo, su una parete vicina a
me riapparve la Porta di Rame: era aperta e riuscivo a vedere, al di là, la camera di
Halliday. Era l’uscita. La porta di ritorno.
Ce l’avevo fatta. Avevo superato la Prima Porta.
Riguardai l’indovinello sugli schermi. Mi ci erano voluti anni per decifrare il limerick e
riuscire a trovare la Chiave di Rame. A prima vista, sembrava che il nuovo indovinello
sulla Chiave di Giada avrebbe richiesto altrettanto tempo. Non ne capivo una parola. Ma
ero stanco morto, e non ero certo nelle condizioni di risolvere un altro enigma. A stento
riuscivo a tenere gli occhi aperti.
Saltai attraverso l’uscita e atterrai, con un tonfo, sul pavimento della stanza di Halliday.
Quando mi voltai e guardai la parete, non c’era più traccia della porta, il poster di
Wargames era ritornato al suo posto.
Controllai le statistiche del mio avatar e notai che avevo guadagnato centinaia di migliaia
di Punti Esperienza per aver superato la Porta, abbastanza per condurre il mio avatar dal
decimo al ventesimo livello in un solo colpo. Poi controllai il Segnapunti:
PUNTEGGI:
1. Parzival 110.000
2. Art3mis 9.000
3. JDH 0000000
4. JDH 0000000
5. JDH 0000000
6. JDH 0000000
7. JDH 0000000
8. JDH 0000000
9. JDH 0000000
10. JDH 0000000
Il mio punteggio era aumentato di centomila punti e, accanto al mio nome, compariva ora
un cancello color rame. I media (e chiunque altro) probabilmente avevano tenuto sotto
controllo il Segnapunti per tutta la notte perciò, ormai, il mondo intero sapeva che avevo
risolto la Prima Porta.
Ero troppo distrutto per provare a pensare a ciò che questo implicava. Non pensavo che a
dormire.
Scesi di corsa le scale e andai in cucina. Le chiavi dell’auto degli Halliday erano appese in
una bacheca accanto al frigorifero. Le afferrai e corsi fuori. L’auto (quella che non era
piazzata sui blocchi di cemento) era una Ford Thunderbird dell’82. Al secondo tentativo il
motore si accese. Uscii dal vialetto e guidai fino alla stazione degli autobus.
Una volta lì, mi teletrasportai nella stazione accanto alla mia scuola, su Ludus. Poi
raggiunsi il mio armadietto e vi lasciai tutto ciò che il mio avatar aveva raccolto: tesoro,
armatura, armi. Quindi uscii da OASIS.
Quando mi tolsi il visore, erano le 6 e 17 del mattino. Mi sfregai gli occhi arrossati, e
scrutai l’interno del mio nascondiglio, cercando di farmi un’idea di tutto ciò che era
appena successo.
All’improvviso avvertii il freddo che avvolgeva il furgone. La stufetta elettrica era rimasta
accesa per tutta la notte, e la batteria era ormai prosciugata. Ero troppo stanco per salire
sulla cyclette e ricaricarla. E non avevo abbastanza energie per ritornare fino a casa di mia
zia. Ma il sole sarebbe sorto a breve e avrei potuto fermarmi nel nascondiglio senza
preoccuparmi di morire congelato.
Scivolai giù dalla sedia e mi raggomitolai nel sacco a pelo, sul pavimento. Chiudendo gli
occhi, iniziai a rimuginare sull’indovinello della Chiave di Giada. Ma il sonno mi risucchiò
dopo pochi istanti.
Feci un sogno. Ero solo, al centro di una terra di nessuno, con moltissimi eserciti schierati
contro di me. Di fronte, una milizia di Sixer; al mio fianco, interi clan di Gunter che
brandivano spade, pistole e potenti armi magiche.
Abbassai gli occhi per guardare il mio corpo. Non era quello di Parzival; era proprio il
mio. E indossavo un’armatura di carta. La mia mano destra reggeva una spada di plastica,
la sinistra un grande uovo di vetro. Era identico all’uovo di vetro che provoca tutti quei
dispiaceri a Tom Cruise in Risky Business. Ma in qualche modo sapevo che, nel mio
sogno, era l’Easter Egg di Halliday.
E io ero lì, davanti a tutti, e lo mostravo a tutto il mondo.
All’unisono, gli eserciti nemici lanciarono un violento grido di battaglia e caricarono.
Convergevano tutti verso di me, mostrandomi i denti e gli occhi iniettati di sangue.
Venivano a prendersi l’uovo, e non potevo fare niente per fermarli.
Sapevo che stavo sognando, e mi aspettavo di svegliarmi prima che mi raggiungessero.
Ma no, non mi svegliai. Il sogno continuò, mi strapparono l’uovo dalle mani, e sentii che
mi facevano a pezzi.

0012
Dormii per più di dodici ore, saltando del tutto le lezioni.
Quando finalmente mi svegliai, mi strofinai gli occhi e per un attimo rimasi sdraiato in
silenzio, cercando di autoconvincermi che gli eventi del giorno precedente erano davvero
accaduti. Mi sembrava un sogno, era tutto sin troppo bello per essere vero. Infine,
riafferrai il visore e mi collegai alla rete per accertarmene.
Ogni singolo feed di notizie mostrava la schermata del Segnapunti. E il nome del mio
avatar era lì, in cima, al primo posto. Art3mis era ancora seconda, ma il punteggio, accanto
al suo nome, aveva raggiunto 109 000, era a soli mille punti di distanza da me. Come nel
mio caso, anche di fianco al suo punteggio campeggiava un cancello color rame.
Ce l’aveva fatta, allora. Era riuscita a decifrare l’iscrizione sulla Chiave di Rame mentre
dormivo. Poi aveva raggiunto Middletown, aveva trovato la porta ed era riuscita a uscire
illesa da Wargames, soltanto poche ore dopo di me.
Non mi sentivo più così compiaciuto di me stesso.
Cambiai canale ancora un paio di volte prima di soffermarmi su uno dei principali
network di notizie, in cui vidi due uomini seduti davanti a una schermata del Segnapunti.
L’uomo a sinistra, un intellettualoide di mezza età annunciato come «Edgar Nash, esperto
di Gunter» stava spiegando i punteggi al presentatore accanto a lui.
«… pare che l’avatar chiamato Parzival abbia ricevuto qualche punto in più per essere
stato il primo a trovare la Chiave di Rame» disse Nash, indicando il Segnapunti. «E poi,
questa mattina, il punteggio di Parzival è aumentato di altri centomila punti e un’icona a
forma di Porta di Rame è comparsa accanto al suo punteggio. Lo stesso cambiamento si è
verificato nel caso di Art3mis, qualche ora dopo. Questo sembra indicarci che entrambi
siano riusciti a superare la prima delle tre porte.»
«Le celebri Tre Porte di cui James Halliday parlava nel video dell’Invito di Anorak?»
chiese il presentatore.
«Precisamente.»
«Ma, signor Nash, dopo cinque anni, com’è possibile che due avatar siano riusciti in
quest’impresa a poche ore di distanza l’uno dall’altro?»
«Be’, credo che ci sia una sola risposta plausibile. Queste due persone, Parzival e Art3mis,
probabilmente lavorano insieme. Devono essere entrambi membri di una di quelle
istituzioni note come “clan di Gunter”. Sono gruppi di cacciatori che…» Mi rabbuiai e
cambiai canale, saltando di feed in feed, finché non vidi un giornalista sovreccitato che
intervistava via satellite Ogden Morrow. Quell’Ogden Morrow.
«… in diretta dalla sua casa, in Oregon. Grazie di essere qui con noi oggi, signor Morrow!»
«Si figuri» rispose Morrow. Erano passati quasi sei anni dall’ultima volta che Morrow
aveva parlato ai media, ma non sembrava invecchiato di un solo giorno. I suoi capelli,
grigi e indomabili, e la lunga barba lo facevano sembrare un incrocio tra Albert Einstein e
Babbo Natale. Il paragone descriveva bene anche la sua personalità.
Il cronista si schiarì la voce, comprensibilmente agitato. «Vorrei cominciare chiedendole la
sua reazione agli eventi delle ultime ventiquattr’ore. Si è sorpreso nel vedere quei nomi
comparire sul Segnapunti di Halliday?»
«Sorpreso? Be’, sì, un po’. Ma direi che il termine migliore sia “entusiasmato”. Come
chiunque altro, monitoravo la situazione e non aspettavo altro che ciò accadesse.
Ovviamente, non ero sicuro che sarei stato ancora vivo quando sarebbe successo! Ma sono
felice di esserlo. È molto emozionante, non trova?»
«Crede che questi due Gunter, Parzival e Art3mis, stiano lavorando in coppia?»
«Non ne ho idea. Immagino che non sia da escludere.»
«Come lei sa, la Gregarious Simulation Systems mantiene confidenziali i dati di tutti gli
utenti, perciò non abbiamo modo di conoscere le loro identità. Pensa che uno dei due si
farà avanti e si rivelerà al pubblico?»
«No, se sono intelligenti» disse Morrow, sistemandosi sul naso i celebri occhiali con la
montatura in metallo. «Se fossi in loro, farei di tutto per mantenere l’anonimato.»
«Perché dice questo?»
«Perché se il mondo scoprisse chi sono veramente, non avrebbero un momento di
tranquillità. Se tutti iniziassero a pensare che potrebbero aiutarli a cercare l’Egg di
Halliday, non li lascerebbero mai in pace. Si fidi, lo so per esperienza.»
«Sì. Immagino.» Il giornalista fece un sorriso tirato. «In ogni caso, il nostro network ha
contattato per email sia Parzival che Art3mis, e abbiamo proposto loro generose offerte in
denaro in cambio di un’intervista esclusiva, su OASIS o nel mondo reale.»
«Sono certo che stiano ricevendo molte offerte di questo genere. Ma dubito che
accetteranno» disse Morrow. Poi guardò in macchina, e mi sentii come se si stesse
rivolgendo direttamente a me. «Chiunque sia abbastanza intelligente da ottenere quello
che loro hanno appena ottenuto dovrebbe guardarsi bene dal parlare con quegli avvoltoi
dei media.» Il giornalista ridacchiò, imbarazzato. «Ah, signor Morrow… non penso che
questa ce la meritassimo.» Morrow fece spallucce. «Peccato. Io sì.» Il giornalista si schiarì
nuovamente la voce. «D’accordo, parlando d’altro… ha dei pronostici riguardo a eventuali
cambiamenti che potremmo vedere sul Segnapunti, nelle prossime settimane?»
«Scommetto che gli otto spazi che restano si riempiranno piuttosto in fretta.»
«Cosa glielo fa pensare?»
«Una persona sa tenere un segreto, due no» rispose, ritornando a guardare in macchina.
«Magari mi sbaglio. Non saprei. Ma di una cosa sono sicuro. I Sixer si serviranno di
qualsiasi sporco mezzo per scoprire dove si trovano la Chiave di Rame e la Prima Porta.»
«Sta parlando dei dipendenti della Innovative Online Industries?»
«Sì. IOI. I Sixer. Il loro unico scopo è quello di sfruttare le falle nel regolamento della gara
per sovvertire il senso del testamento di Jim. Qui c’è in ballo l’anima stessa di OASIS.
L’ultima cosa che Jim avrebbe voluto è che la sua creazione cadesse nelle mani di una
multinazionale fascista come la IOI.»
«Signor Morrow, questo network appartiene alla IOI…»
«Ma è ovvio!» esplose Morrow, gioioso. «Tutto, praticamente, appartiene a loro! Te
compreso, mio caro ragazzo! Non è che ti hanno tatuato un codice a barre sul culo quando
sei stato assunto per sederti qui a far propaganda per loro?» Il giornalista iniziò a
balbettare, fissando nervoso un punto al di là della telecamera.
«Presto!» disse Morrow. «Tagliatemi, prima che dica altro!» Scoppiò in una risata, mentre
la rete televisiva troncava la connessione.
Il giornalista si prese un paio di secondi per raccogliere le idee e poi disse: «La ringrazio
nuovamente per essere stato qui oggi, signor Morrow! Purtroppo, abbiamo esaurito il
tempo a disposizione. E adesso torniamo a Judy, che si trova con un gruppo di rinomati
studiosi di Halliday…».
Sorrisi e chiusi la finestra, ripensando alle parole del vecchio. Da sempre sospettavo che
sapesse della gara molto più di quanto non desse a vedere.
Morrow e Halliday erano cresciuti insieme, avevano fondato insieme una società, insieme
avevano cambiato il mondo. Ma la vita di Morrow era stata ben diversa da quella di
Halliday, era stata una vita con un legame ben più marcato con gli altri esseri umani. E con
molte più tragedie.
Nella metà degli anni novanta, quando la Gregarious Simulation Systems era ancora
soltanto la Gregarious Games, Morrow aveva sposato la sua fidanzata del liceo, Kira
Underwood. Kira era nata a Londra, dov’era anche cresciuta. (In realtà si chiamava Karen,
ma da quando aveva visto The Dark Crystal insisteva perché tutti la chiamassero Kira.)
Morrow l’aveva incontrata a scuola, quando lei vi si era trasferita, da Londra, per il
penultimo anno di liceo. Nella sua autobiografia, Morrow scrive che era la «quintessenza
della ragazza geek», con una sfrenata ossessione per i Monty Python, i fumetti, i romanzi
fantasy e i videogiochi. Lei e Morrow seguivano insieme alcune lezioni, e Morrow si prese
una cotta quasi subito. La invitò alle sue sedute di Dungeons & Dragons (come aveva fatto
con Halliday, qualche anno prima) e, con grande sorpresa di Morrow, lei accettò.
«Divenne l’unica ragazza nel nostro gruppo settimanale di gioco» scrive Morrow. «E
ognuno di noi se ne innamorò perdutamente, Jim compreso. Fu proprio lei a dare a
Halliday il soprannome di “Anorak”, termine in slang britannico per indicare un nerd
ossessivo. Credo che Jim abbia battezzato così il suo personaggio di D&D proprio per fare
colpo su di lei. O forse era il suo modo di farle capire che sapeva stare allo scherzo. Il
gentil sesso mandava Jim in uno stato di ansia totale, e Kira è l’unica ragazza con cui l’ho
visto parlare in maniera rilassata. Questo perché si “calava nella parte”, era Anorak, nel
corso delle nostre sedute. E si rivolgeva a lei solo come “Leucosia”, che era il nome del
personaggio di Kira in D&D.» Ogden e Kira iniziarono a frequentarsi. Alla fine dell’anno
scolastico, proprio quando lei doveva tornare a Londra, i due si dichiararono. Nel corso
dell’ultimo anno di scuola si tennero in contatto scambiandosi quotidianamente email,
usando un BBS pre–internet che si chiamava FidoNet. Quando entrambi si diplomarono,
Kira tornò negli Stati Uniti, andò a vivere con Morrow, e divenne una dei primi
dipendenti della Gregarious Games. (Per due anni lei costituì il loro intero dipartimento
artistico). Si fidanzarono qualche anno dopo il lancio di OASIS. Un anno dopo si
sposarono, e Kira si dimise dal suo posto di direttrice artistica alla GSS. (Anche lei, con le
sue quote azionarie, era ormai miliardaria.) Morrow rimase alla GSS per altri cinque anni.
E poi, nell’estate del 2022, annunciò che avrebbe lasciato la società. Al tempo sosteneva che
fosse per «ragioni personali». Ma, anni dopo, Morrow scrisse nella sua autobiografia che
aveva lasciato la GSS perché «non eravamo più nel business dei videogiochi» e perché
sentiva che OASIS si stava trasformando in qualcosa di orribile. «Era diventata una
prigione autoimposta per l’intera umanità» scrive. «Un luogo piacevole in cui sottrarsi ai
problemi del mondo, mentre la civiltà collassava lentamente su se stessa,
fondamentalmente perché era stata abbandonata.» Correva anche voce che Morrow avesse
scelto di andarsene perché aveva litigato furiosamente con Halliday. Nessuno dei due
confermò né smentì; nessuno sapeva che cosa avesse spezzato un’amicizia durata una vita.
Ma fonti interne alla società dissero che, al tempo delle dimissioni di Morrow, lui e
Halliday non si parlavano già da diversi anni. Nonostante questo, quando Morrow lasciò,
vendette tutte le sue azioni GSS direttamente a Halliday, per una somma che non fu mai
rivelata.
Ogden e Kira «si ritirarono» nella loro casa in Oregon e avviarono una compagnia di
software didattici no profit, la Halcydonia Interactive, che creava avventure grafiche
gratuite per ragazzi. Io avevo passato la mia infanzia su questi giochi, tutti ambientati nel
magico Regno di Halcydonia. Le avventure di Morrow avevano il potere di trasportare
me, ragazzino cresciuto tra le cataste, fuori da quell’ambiente tetro. In un certo senso, i
Morrow erano stati i miei primi insegnanti.
Per il decennio successivo Ogden e Kira condussero un’esistenza pacifica e gioiosa,
vivendo e lavorando in relativo isolamento. Cercarono di avere dei figli, ma
evidentemente non era destino. Iniziarono a pensare all’adozione ma, nell’inverno del
2034, Kira perse la vita in un incidente automobilistico su una strada di montagna
ghiacciata, a pochi chilometri da casa sua.
In seguito, Ogden continuò a gestire la Halcydonia Interactive da solo. Riuscì a tenersi
lontano dai riflettori fino alla mattina della morte di Halliday, quando casa sua fu
assediata dai media. Poiché un tempo era stato il più grande amico di Halliday, tutti si
aspettavano che potesse spiegare perché il miliardario appena deceduto avesse messo in
palio tutte le sue fortune. Morrow decise di indire una conferenza stampa, per levarseli
tutti di dosso. Quella era stata l’ultima volta che aveva parlato ai media, fino alla scoperta
della Chiave. Avevo riguardato il video di quella sua prima conferenza molte, molte volte.
Morrow aveva esordito leggendo una breve dichiarazione in cui diceva che da più di un
decennio non vedeva Halliday né gli parlava. «Abbiamo litigato» aveva detto «e mi
rifiuterò sempre di affrontare questo argomento, ora e in futuro. Vi basti sapere che non
comunicavo con James Halliday da più di dieci anni.»
«E allora perché Halliday le avrebbe lasciato la sua enorme collezione di videogiochi a
gettone?» aveva chiesto un giornalista. «Tutti gli altri suoi beni saranno messi all’asta. Se
non eravate più amici, perché lei è l’unica persona a cui abbia lasciato qualcosa?»
«Non ne ho la minima idea» aveva risposto semplicemente Morrow.
Un altro giornalista aveva chiesto a Morrow se avrebbe cercato l’Easter Egg di Halliday:
conoscendo Halliday così bene, avrebbe avuto più probabilità di trovarlo di chiunque
altro. Morrow, a quel punto, aveva sottolineato che, nel testamento di Halliday, era
contenuta una regola imprescindibile: nessuno che avesse lavorato alla GSS né alcuno dei
suoi familiari avrebbe avuto diritto di partecipare alla gara.
«Aveva idea di ciò a cui Halliday stava lavorando in tutti i suoi anni di isolamento?»
«No. Sospettavo stesse lavorando a qualche nuovo gioco. Jim stava sempre lavorando a un
nuovo gioco. Per lui, creare videogiochi era necessario quanto lo è respirare. Ma non ho
mai pensato che stesse lavorando a qualcosa… di questa portata.»
«In qualità di persona che conosceva Halliday meglio di chiunque altro ha qualche
consiglio da dare ai milioni di individui che ora stanno cercando l’Easter Egg? Da dove
pensa che dovrebbero iniziare?»
«Credo che Jim l’abbia spiegato in maniera abbastanza plateale» rispose Morrow
picchiettandosi la fronte, proprio come aveva fatto Halliday nell’Invito di Anorak. «Jim ha
sempre voluto che tutti condividessero le sue ossessioni, amassero le cose che lui amava.
Penso che questa gara sia il suo modo di dare al mondo un incentivo per farlo.» Chiusi il
mio file su Morrow e controllai la posta. Il sistema mi avvisò che avevo ricevuto più di due
milioni di messaggi. Erano tutti ordinati in una cartella a parte, perciò avrei potuto
controllarli più tardi. Solo due messaggi erano stati inviati dai miei contatti autorizzati.
Uno era di Aech. L’altro era di Art3mis.
Iniziai aprendo il messaggio di Aech. Era un messaggio video, e il volto del suo avatar
comparve in una finestra. «Porca troia!» gridò. «Non ci credo! Hai superato la Prima
strafottutissima Porta e ancora non mi hai chiamato? Chiamami, pezzo di stronzo! Ora!
Subito, appena ricevi questo messaggio!» Pensai di aspettare qualche giorno prima di
richiamarlo, ma abbandonai immediatamente l’idea. Avevo bisogno di parlare con
qualcuno di tutto quello che mi era successo, ed Aech era il mio migliore amico. Se c’era
qualcuno di cui mi potevo fidare, quel qualcuno era lui.
Rispose al primo squillo, e il suo avatar comparve in una nuova finestra, davanti ai miei
occhi. «Bastardo!» gridò. «Geniale, sociopatico, astuto bastardo!»
«Ehi, Aech» dissi, cercando di fare l’impassibile. «Novità?»
«Novità? Novità? Intendi a parte aver visto, sai, il nome del mio migliore amico comparire
in cima al Segnapunti? Intendi a parte questo, sì?» Si avvicinò, in modo che la bocca
riempisse tutto il campo visivo della finestra video, poi urlò: «A parte questo non molto!
Davvero, calma piatta!».
Risi. «Scusa se ci ho messo un po’ a richiamarti. Ho fatto un po’ tardi.»
«No, ma davvero, hai fatto tardi!» disse. «Ma guardati! Come fai a stare così calmo! Ti
rendi conto, sì, di quello che significa? È una cosa enorme! Va oltre al leggendario! Cioè…
tante fottute congratulazioni, amico!» Iniziò a inchinarsi a ripetizione. «Non sono degno!»
«Finiamola qui, ok? Non è poi questa gran cosa. Non è che abbia vinto niente, per ora…»
«Non è una gran cosa!» si lagnò «Non–è-una–gran-cosa? Stai scherzando? Ormai sei una
leggenda! Sei un dio, da questo momento in poi! Ma non te ne rendi conto, idiota?»
«No, davvero, smettila. Sto già dando abbastanza di matto.»
«Hai dato un’occhiata alle notizie? Tutto il mondo sta dando di matto! E tutti sui forum
dei Gunter sono incazzati come scimmie! E parlano tutti di te, amigo.»
«Lo so. Senti, spero che tu non sia arrabbiato perché ti ho tenuto all’oscuro. Mi sono sentito
in colpa per non aver risposto alle tue chiamate e non averti detto cosa stavo facendo…»
«Oh, per favore!» alzò gli occhi in maniera sprezzante. «Lo sai fin troppo bene che se fossi
stato in te avrei fatto la stessa cosa. È così che va il gioco. Ma…» si fece più serio. «Sono
curioso di sapere, invece, come quella tipa, Art3mis, sia riuscita a trovare la Chiave di
Rame e a superare la porta subito dopo di te. Tutti sono convinti che voi siate una squadra,
ma so che è una stronzata. Che cos’è successo, allora? Ti pedinava, tipo?» Scossi la testa.
«No, aveva trovato il nascondiglio della chiave prima di me. Un mese fa, a quanto mi ha
detto. Solo, non era riuscita a ottenere la chiave fino a ora.» Rimasi in silenzio per un
istante. «Non posso dirti tutti i dettagli senza che, sai…» Aech sollevò entrambe le mani.
«Nessun problema. Capisco perfettamente. Non vorrei mai che ti lasciassi sfuggire qualche
indizio.» Mi rivolse il suo tipico ghigno da Stregatto, e sembrò che i suoi denti bianchi
occupassero metà della finestra. «In realtà dovrei farti sapere dove mi trovo in questo
momento…» Sistemò la videocamera in modo che non riprendesse solo il primo piano del
suo volto, e passò a un’inquadratura allargata che mi rivelò dove si trovava – era accanto
alla collinetta, appena fuori dalla Tomba degli orrori.
Rimasi a bocca aperta. «Come diavolo…»
«Be’, quando ho visto il tuo nome su tutti i feed, ieri sera, mi è venuto in mente che, da
quando ti conosco, non hai mai avuto il gruzzolo necessario per fare dei grandi viaggi.
Veramente neanche per fare dei viaggi in generale. Perciò ho pensato che, se avevi trovato
il nascondiglio della Chiave di Rame, probabilmente doveva essere da qualche parte
vicino a Ludus. O magari persino su Ludus.»
«Ottimo lavoro» dissi, e dicevo sul serio.
«Non molto. Ho passato ore a sfiancare la nocciolina di cervello che mi ritrovo, prima di
pensare che dovevo cercare sulla mappa di Ludus un terreno che somigliasse a quello
descritto nel modulo della Tomba degli orrori. Ma una volta che l’ho capito, tutto si è
sistemato. Ed eccomi qui.»
«Congratulazioni.»
«Sì, be’, è stato piuttosto facile dopo che mi hai indicato la direzione.» Diede un’occhiata
alla tomba, dietro di sé. «È da anni che cerco questo posto, e per tutto il tempo si trovava a
due passi dalla mia scuola! Mi sento un coglione totale per non averlo capito da solo.»
«Non sei un coglione» dissi. «Hai decifrato il limerick per conto tuo, altrimenti non
sapresti nemmeno della Tomba degli orrori, no?»
«Non sei incazzato, quindi?» chiese. «Che abbia approfittato delle informazioni riservate
che avevo?» Scossi la testa. «Per nulla. Avrei fatto lo stesso.»
«Be’, in qualsiasi caso, ti devo un favore. E non me ne dimenticherò.» Indicai la tomba,
dietro di lui. «Sei già entrato?»
«Sì. Sto aspettando che il server si resetti, a mezzanotte. La tomba è vuota, al momento,
perché la tua amichetta Art3mis ci aveva già fatto una visitina.»
«Non siamo amici» dissi. «È comparsa qui poco dopo che avevo preso la chiave.»
«Avete combattuto?»
«No. La tomba è in una zona non–PvP.» Guardai l’orologio. «Sembra proprio che tu debba
ammazzare ancora un po’ di tempo prima di mezzanotte.»
«Sì, mi stavo studiando il modulo di D&D per prepararmi» disse. «Ti va di darmi qualche
consiglio?» Sorrisi. «No. Proprio no.»
«Infatti, me lo immaginavo.» Rimase in silenzio per qualche istante. «Senti, devo farti una
domanda» disse. «C’è qualcuno a scuola che conosce il nome del tuo avatar?»
«No, ho badato che rimanesse un segreto. Nessuno sa che mi chiamo Parzival. Nemmeno
gli insegnanti.»
«Bene» disse. «Io ho preso la stessa precauzione. Purtroppo, però, molti dei Gunter che
vengono alla Cantina sanno che andiamo entrambi a scuola su Ludus, perciò potrebbero
ricomporre facilmente il puzzle. Uno in particolare mi spaventa…» Fui investito da
un’ondata di panico. «I–r0k?» Aech annuì. «Mi chiama incessantemente da quando il tuo
nome è comparso sul Segnapunti, per chiedermi che cosa so. Io ho fatto finta di niente, e
lui c’è cascato. Ma se sul Segnapunti compare anche il mio nome, inizierà a vantarsi di
conoscerci. E quando comincerà a dire ai Gunter che siamo entrambi studenti su Ludus…»
«Cazzo!» imprecai. «A quel punto tutti i Gunter del mondo verranno qui a cercare la
Chiave di Rame.»
«Esatto» disse Aech. «E in un batter d’occhio la posizione della tomba sarà di dominio
pubblico.» Sospirai. «Be’, sbrigati a prendere la chiave prima che succeda.»
«Farò del mio meglio.» Sollevò una copia del modulo della Tomba degli orrori. «Ora, se
vuoi scusarmi, mi rileggo questo per la centesima volta.»
«Buona fortuna, Aech» dissi. «Fatti sentire quando superi la porta.»
«Se supero la porta…»
«Ce la farai» dissi. «E una volta che l’avrai fatto, dovremmo incontrarci nella Cantina per
parlare.»
«Ottimo, amigo.» Mi fece un cenno di saluto e stava per chiudere la chiamata quando
intervenni. «Ehi, Aech?»
«Sì?»
«Magari ti va di dare una spolveratina alle tue abilità di “giostrante”» dissi. «Prima di
mezzanotte.» Mi sembrò perplesso, per un momento, poi un sorriso d’intesa gli si allargò
sul volto. «Capito» disse. «Grazie, amico mio.»
«Buona fortuna.» Mentre la sua finestra si chiudeva, iniziai a chiedermi come avremmo
potuto rimanere amici nonostante tutto ciò che ci aspettava. Nessuno di noi due voleva
lavorare in squadra, e da questo momento in poi saremmo stati in competizione, l’uno
contro l’altro. Mi sarei pentito di averlo aiutato, oggi? Avrei rimpianto di averlo
involontariamente condotto al nascondiglio della Chiave di Rame?
Cercai di togliermi questi pensieri dalla testa e aprii l’email di Art3mis. Era un messaggio
di testo, in vecchio stile.
Caro Parzival, Congratulazioni! Visto? Ora sei famoso, come ti avevo detto. Anche se
sembra che siamo stati gettati entrambi sotto i riflettori. Spaventoso, eh?
Grazie di avermi consigliato di giocare a sinistra. Avevi ragione. Non so come, ma ha
funzionato. Però ora non pensare che ti debba chissà quale favore, capo:-) La Prima
Porta è stata un casino, vero? Non me l’aspettavo neanche lontanamente così. Sarebbe
stato bello se Halliday mi avesse dato la possibilità di giocare come Ally Sheedy, ma in
fondo uno cosa ci può fare?
Il nuovo indovinello è un bel mistero, no? Spero che non ci vogliano altri cinque anni per
decifrarlo.
Comunque, volevo solo dirti che è stato un onore incontrarti. Spero che le nostre strade si
incrocino ancora, prima o poi.
Cordialmente, Art3mis P.S. Goditi il primo posto finché puoi, amico. Non durerà a
lungo.
Lessi e rilessi il suo messaggio, sorridendo come un ragazzino inebetito. Poi scrissi la mia
risposta: Cara Art3mis, Congratulazioni anche a te. Non stavi scherzando. La
competizione tira fuori davvero il meglio di te.
Per quanto riguarda il consiglio sul giocare a sinistra, prego. Eccome se me lo devi un
favore, ora.
Il nuovo indovinello è una sciocchezza. Credo di averlo già risolto, in realtà. Su cos’è che
hai dubbi?
È stato un onore per me incontrarti. Se ti va di vederci in una chatroom, qualche volta,
fammelo sapere.
Che la forza sia con te, Parzival P.S. Non mi starai mica sfidando? Preparati a soffrire,
donna.
Dopo avere riscritto il messaggio una ventina di volte, premetti Invio. Poi aprii la
schermata con l’indovinello della Chiave di Giada e cominciai a studiarlo, sillaba per
sillaba. Ma non riuscivo a concentrarmi. Per quanto ci provassi, i miei pensieri
continuavano a naufragare verso Art3mis.

0013
Aech superò la Prima Porta la mattina del giorno dopo.
Il suo nome comparve sul Segnapunti al terzo posto, con un punteggio che ammontava a
108 000. Il valore della Chiave di Rame era sceso di altri mille punti, ma il valore della
Prima Porta rimaneva immutato, a 100.000 punti.
Tornai a scuola quella mattina stessa. Avevo pensato di darmi malato, ma temevo che la
mia assenza avrebbe destato qualche sospetto. Quando arrivai, capii che non avevo
motivo di preoccuparmi. Dato il rinnovato interesse per la Caccia, più di metà del corpo
studentesco (e qualche insegnante) non si diede la pena di presentarsi. E poiché tutti, a
scuola, conoscevano il mio avatar con il nome di Wade3, nessuno mi prestò grande
attenzione. Vagando per i corridoi, inosservato, decisi che la mia identità segreta mi
piaceva. Mi sentivo come Clark Kent o Peter Parker. Pensai che, probabilmente, mio padre
avrebbe apprezzato.
Quel pomeriggio, I–r0k mandò delle email a me e a Aech, cercando di ricattarci. Disse che,
se non gli avessimo spiegato come trovare la Chiave di Rame e la Prima Porta, avrebbe
postato, in ogni forum di Gunter che avesse trovato, tutto ciò che sapeva sul nostro conto.
Quando ci rifiutammo, tenne fede alla sua minaccia e cominciò a dire a chiunque gli
prestasse un minimo di attenzione che Aech e io studiavamo entrambi su Ludus.
Naturalmente, non aveva modo di provare di conoscerci davvero, e ormai centinaia di
Gunter sostenevano di essere nostri amici intimi, perciò io ed Aech speravamo che i suoi
post sarebbero stati ignorati. Ma no, ovviamente nessuno li ignorò. Due altri Gunter
furono abbastanza scaltri da unire le tessere del puzzle tra Ludus, il limerick e la Tomba
degli orrori. Il giorno dopo che I–r0k ebbe vuotato il sacco, al quarto posto del Segnapunti
comparve un nome: Daito. Meno di quindici minuti dopo, al quinto posto comparve un
altro nome, Shoto. In qualche modo erano riusciti a impossessarsi di due copie della
Chiave di Rame nello stesso giorno, senza dover aspettare che il server si resettasse, a
mezzanotte. E poi, poche ore dopo, Daito e Shoto portarono a termine la missione della
Prima Porta.
Nessuno aveva sentito nominare questi avatar prima d’ora, ma i loro nomi sembravano
indicare che lavorassero insieme, in coppia o come parte di un clan. Shoto e daito erano i
nomi giapponesi che indicavano le spade, a lama lunga e a lama corta, usate dai samurai.
Portate insieme, le due spade venivano chiamate daisho ed è così che, in breve tempo, fu
soprannominato il duo.
Erano passati soltanto quattro giorni da quando il mio nome era apparso sul Segnapunti, e
ogni giorno si era aggiunto un nuovo nome, sotto al mio. Il segreto era stato ormai rivelato
e la Caccia era ripartita in quarta.
Per tutta la settimana, non riuscii a concentrarmi su nulla di ciò che i miei professori
dicevano. Fortunatamente, non mi restavano che due mesi di scuola e avevo accumulato
abbastanza crediti per diplomarmi, anche se avessi saltato le lezioni da lì alla fine
dell’anno. Perciò, mi lasciavo trasportare da una lezione all’altra, completamente stordito,
ponendomi domande sull’indovinello della Chiave di Giada, ripetendolo incessantemente
fra me e me.
La Chiave di Giada il capitano ha celata In una dimora da tempo abbandonata Ma
nel fischietto soffiar tu potrai Se dei trofei la raccolta farai A quanto diceva il mio
libro di letteratura inglese, una poesia di quattro versi con uno schema a rima alternata si
chiamava «quartina», e fu così che soprannominai l’indovinello. Tutte le sere, dopo scuola,
uscivo da OASIS e riempivo le pagine vuote del mio diario del Graal con ogni possibile
interpretazione della quartina.
A quale «capitano» si riferiva Anorak? Captian America? Captain Kangaroo? Capitan
Rogers nel 25° secolo?
E dove diavolo poteva trovarsi la «dimora abbandonata»? Quella parte dell’indovinello
sembrava oltremodo vaga. La casa d’infanzia di Halliday, a Middletown, non poteva
essere definita «abbandonata», ma forse pensava a un’altra casa della sua città? Mi
sembrava troppo semplice, e troppo vicina al nascondiglio della Prima Porta.
Sulle prime, pensai che con la «dimora abbandonata» facesse riferimento alla Rivincita dei
nerds, uno dei suoi film preferiti. Nel film, i nerd del titolo affittano una casa fatiscente e la
rimettono in sesto (in un tipico montaggio accompagnato da musica anni ottanta). Sul
pianeta Skolnick visitai una riproduzione della casa della Rivincita dei nerds e passai un
giorno a setacciarla, a vuoto.
Gli ultimi due versi della quartina erano altrettanto misteriosi. Sembravano annunciare
che chi avesse trovato la dimora avrebbe dovuto raccogliere una serie di «trofei», e poi
suonare un qualche fischietto. O forse l’espressione fare una soffiata doveva essere inteso
nel senso colloquiale, e cioè «rivelare un segreto, mettere in guardia contro un reato»? In
ogni caso, non ne coglievo il senso. Ma continuai a ripassare ogni verso, parola per parola,
finché il mio cervello non iniziò ad assumere la consistenza del dentifricio Aquafresh.
Dopo scuola, quel venerdì, il venerdì in cui Daito e Shoto superarono la Prima Porta, ero
seduto in un luogo appartato, a qualche chilometro dalla mia scuola, una collina scoscesa
con un albero solitario sulla cima. Mi piaceva stare lì a leggere, a fare i compiti o
semplicemente a godermi la vista dei campi verdi circostanti. Nel mondo reale non avevo
accesso a un simile panorama.
All’ombra dell’albero, spulciai i milioni di messaggi che intasavano la mia casella email.
Era tutta la settimana che li passavo in rassegna. Avevo ricevuto messaggi da tutto il
mondo. Lettere di congratulazioni. Richieste d’aiuto. Minacce di morte. Proposte
d’interviste. Svariati monologhi, lunghi e incoerenti, da parte di Gunter che erano senza
dubbio impazziti durante la ricerca dell’Egg. Avevo anche ricevuto l’invito a unirmi a
quattro dei più grandi clan di Gunter, gli Oviraptor, il Clan Destiny, i Maestri della
Chiave, e il Team Banzai. A tutti e quattro scrissi grazie, ma no.
Quando mi stancai dei «messaggi dei fan», selezionai i messaggi etichettati come «affari» e
iniziai a leggerli. Scoprii che avevo ricevuto numerose offerte da parte di case di
produzione cinematografiche e case editrici, tutte intenzionate a comprare i diritti della
storia della mia vita. Li cancellai, perché avevo deciso che non avrei mai rivelato al mondo
la mia identità. O meglio, senza dubbio non l’avrei fatto fino a che non avessi trovato
l’Egg.
Avevo ricevuto anche diverse offerte pubblicitarie da parte di aziende che volevano usare
il nome e il volto di Parzival per vendere i propri servizi e prodotti. Un marchio di
elettronica avrebbe voluto usare il mio avatar per promuovere la sua linea di hardware
immersivo OASIS, così da vendere accessori aptici, guanti e visori «approvati da
Parzival». Ricevetti anche offerte da una catena di pizza a domicilio, una casa produttrice
di scarpe, e un negozio online che vendeva skin personalizzate per gli avatar. Mi aveva
scritto persino una compagnia di giocattoli che voleva produrre una linea di cestini per il
pranzo e action figure di Parzival. Offrivano tutte di pagarmi in crediti OASIS, che
sarebbero stati trasferiti direttamente sull’account del mio avatar.
Non potevo credere alla fortuna che avevo.
Risposi a ogni singola richiesta, aggiungendo che avrei accettato le offerte alle seguenti
condizioni: che non avrei dovuto rivelare la mia identità e che avrei condotto gli affari solo
tramite il mio avatar OASIS.
In meno di un’ora iniziai a ricevere alcune risposte, con relativi contratti allegati. Non
potevo permettermi un avvocato che li controllasse, ma scadevano tutti di lì a un anno,
perciò li firmai per via telematica e li rispedii al mittente, allegando un modello
tridimensionale del mio avatar, perché venisse usato nelle pubblicità. Mi chiesero anche
registrazioni audio della voce di Parzival, perciò mandai loro una clip sintetizzata e
baritonale che mi faceva sembrare uno di quei tizi che fanno la voce fuori campo nei trailer
dei film.
Una volta ricevuto il tutto, gli sponsor del mio avatar mi informarono che avrebbero
spedito al mio account OASIS il primo giro di pagamenti entro quarantotto ore. La somma
di denaro che stavo per ricevere non era abbastanza per farmi diventare ricco. Neanche
lontanamente. Ma a un ragazzino cresciuto senza nulla, sembrava una piccola fortuna.
Feci un rapido calcolo. Se avessi vissuto con parsimonia, avrei avuto abbastanza denaro
per andarmene dalle cataste e affittare un piccolo monolocale da qualche parte. Per un
anno, se non altro. Il solo pensiero mi riempì di un nervoso entusiasmo. Da sempre
sognavo di andarmene dalle cataste e sembrava proprio che quel sogno si sarebbe presto
realizzato.
Dopo essermi occupato degli affari, continuai a controllare le email. Quando sistemai i
messaggi in ordine di mittente, scoprii che avevo ricevuto più di cinquemila email dalla
Innovative Online Industries. Era tutta la settimana, da quando il mio nome era apparso
sul Segnapunti, che mi spedivano lo stesso messaggio. E continuavano a rispedirlo, una
volta al minuto.
I Sixer mi stavano bombardando di email per assicurarsi di attirare la mia attenzione.
Le email erano marcate priorità massima, e l’oggetto di tutte era: proposta d’affari urgente
– per favore leggere subito!
Nell’istante in cui ne aprii una a caso, la IOI ricevette una conferma di lettura con la quale
veniva informata che avevo finalmente letto il messaggio. Di lì in poi, smisero di
rispedirlo.
Caro Parzival,
Innanzitutto, lascia che ti faccia le congratulazioni per i tuoi risultati che, qui alla
Innovative Online Industries, teniamo in massima considerazione.
Per conto di tutta la ioi, ti presento qui una proposta d’affari assai vantaggiosa, i cui
dettagli possiamo discutere in una chatlink privata. Ti prego di usare la contact card
allegata per contattarmi al più presto, a prescindere dal giorno e dall’ora.
Considerata la nostra reputazione all’interno della comunità dei Gunter, posso capire la
tua esitazione nel volermi parlare. In ogni caso, sappi che qualora tu decidessi di non
accettare la nostra proposta, abbiamo intenzione di contattare tutti i tuoi avversari. Se non
altro, ci auguriamo che ci concederai l’onore di essere il primo a valutare la nostra
generosa offerta. Che cosa hai da perdere?
Grazie per l’attenzione. Spero di parlarti presto.
Cordialmente, Nolan Sorrento
Capo delle operazioni Innovative
Online Industries
Nonostante il tono pacato, la minaccia che il messaggio celava era evidente. I Sixer
volevano reclutarmi. O volevano pagarmi perché spiegassi loro come trovare la Chiave di
Rame e superare la Prima Porta. E, se mi fossi rifiutato, si sarebbero rivolti ad Art3mis, e
poi a Aech, a Daito, a Shoto e a qualsiasi altro Gunter fosse comparso sul Segnapunti.
Quegli schifosi leccapiedi aziendali non si sarebbero fermati finché non avessero trovato
qualcuno che fosse tanto stupido o disperato da vendergli le informazioni che cercavano.
Il mio primo istinto fu quello di cancellare ogni singola copia dell’email e fingere di non
averla mai ricevuta, ma poi cambiai idea. Volevo sapere esattamente ciò che la IOI mi
avrebbe offerto. E non potevo lasciarmi sfuggire la possibilità di incontrare Nolan
Sorrento, il famigerato capo dei Sixer. Non c’era pericolo nell’incontrarlo tramite chatlink,
se avessi soppesato ogni parola.
Valutai l’idea di teletrasportarmi su Incipio prima del «colloquio» per acquistare una
nuova skin per il mio avatar. Magari un abito su misura. Qualcosa di appariscente e
costoso. Ma poi ci ripensai. Non dovevo dimostrare niente a quello sfigato d’azienda.
Dopotutto, ero ormai famoso. Mi sarei presentato con la mia skin predefinita e un
atteggiamento strafottente. Avrei ascoltato la loro offerta, poi gli avrei detto di baciare il
mio virtualissimo culo. Magari avrei potuto registrare il tutto e caricarlo su YouTube.
Mi preparai alla riunione aprendo un motore di ricerca e scoprendo tutto il possibile sul
conto di Nolan Sorrento. Aveva un dottorato in Informatica. Prima di diventare Capo delle
operazioni IOI, era stato un valido progettista di videogiochi e aveva supervisionato la
creazione di alcuni RPG a contratto attivi su OASIS. Avevo giocato a tutti i suoi giochi, e
c’è da dire che erano piuttosto interessanti. Era stato un buon programmatore, prima di
vendersi l’anima. I motivi per cui la IOI l’aveva assunto come capo di tutti i lacché erano
ovvi. Si immaginavano che un designer di videogiochi avrebbe avuto maggiori probabilità
di risolvere il maestoso puzzle videoludico di Halliday. Ma Sorrento e i Sixer ci si erano
impegnati per cinque anni e non avevano niente in mano che dimostrasse i loro sforzi. E
ora che i nomi dei Gunter apparivano sul Segnapunti da tutte le parti, probabilmente ai
piani alti della IOI stavano dando di matto e Sorrento stava subendo ogni tipo di pressione
da parte dei suoi superiori. Mi chiesi se fosse stata un’idea di Sorrento, quella di cercare di
reclutarmi, o se gli fosse stato ordinato.
Una volta fatti i miei compiti su Sorrento, mi sentii pronto per sedermi davanti al diavolo.
Aprii la contact card allegata e premetti, sul fondo dell’email, l’icona di invito alla chatlink.

0014
Non appena la connessione alla chat fu attivata, il mio avatar si materializzò su una vasta
piattaforma d’osservazione, con vista – una sbalorditiva vista – su più di una dozzina di
mondi OASIS sospesi nello spazio buio, al di là della vetrata curva. Non ero in grado di
capire se mi trovassi in una stazione spaziale o su una grande nave da trasporto.
Le chatlink funzionavano in maniera diversa rispetto alle chatroom ed erano molto più
costose. Aprendo una chatlink, una copia immateriale del tuo avatar veniva proiettata su
un altro luogo di OASIS. Il tuo avatar non si trovava realmente lì, e gli altri avatar lo
visualizzavano come un’apparizione trasparente. Potevi comunque interagire con
l’ambiente, seppure in modo limitato: potevi sederti, varcare soglie e così via. Le chatlink
venivano utilizzate soprattutto per gli affari, quando una società aveva intenzione di
tenere una riunione in un punto specifico di OASIS senza spendere tempo e denaro per
teletrasportarvi tutti gli avatar. Era la prima volta che ne usavo una.
Mi voltai e vidi che il mio avatar si trovava di fronte a un grande banco d’accettazione a
forma di C sopra al quale gravitava, a grandi lettere metallizzate alte sei metri, il logo della
IOI.
Mentre raggiungevo il banco, una receptionist esageratamente bella e bionda mi diede il
benvenuto. «Signor Parzival» disse, accennando un inchino. «Benvenuto alla Innovative
Online Industries! Attenda solo un momento. Il signor Sorrento sta venendo ad
accoglierla.» Non capivo come potesse saperlo già, dato che non li avevo avvertiti che sarei
arrivato. Nell’attesa, cercai di attivare il registratore video del mio avatar, ma la IOI aveva
bloccato le registrazioni per questa chatlink. Ovviamente, non volevano che avessi prove
video di ciò che sarebbe successo. Tanti saluti al mio piano di caricare il colloquio su
YouTube.
Meno di un minuto dopo, apparve un avatar da una serie di porte automatiche sull’altro
lato della piattaforma. Si diresse subito verso di me, il pavimento lucido rimbombava al
suono dei suoi stivaletti. Era Sorrento. Lo riconobbi perché non usava uno degli avatar
standard dei Sixer. Il volto del suo avatar combaciava con le foto che lo ritraevano e che
avevo trovato in rete. Capelli biondi e occhi scuri, il naso un po’ aquilino. Indossava, però,
l’abito tradizionale dei Sixer: un’uniforme blu scuro con spalline dorate e, sul petto, il logo
in argento della IOI, sotto al quale si leggeva il suo numero di matricola: 655321.
«Finalmente!» disse avvicinandosi a me con un sorriso da iena. «Il famosissimo Parzival ci
onora della sua presenza!» Mi porse una mano guantata. «Nolan Sorrento, Capo delle
operazioni. È un onore incontrarla.»
«Già» dissi, cercando con tutte le forze di sembrare distaccato. «Stessa cosa per me,
immagino.» Pur essendo una proiezione da chatlink, il mio avatar avrebbe potuto
stringere la mano che mi porgeva. Invece rimasi a fissarla, come se stesse offrendomi un
topo morto. Dopo un paio di secondi Sorrento la ritrasse, ma il suo sorriso non vacillò
neanche per un attimo. Anzi, si allargò.
«La prego di seguirmi.» Mi condusse all’altro capo della piattaforma, al di là delle porte
automatiche, che si aprirono e rivelarono una rampa di lancio. Conteneva una navicella
interplanetaria, blasonata con il logo della IOI. Sorrento stava già salendo a bordo, ma io
rimasi immobile ai piedi della rampa.
«Perché mai portarmi qui via chatlink?» chiesi, indicando la stanza in cui ci trovavamo.
«Non avreste potuto propinarmi il vostro discorsetto da imbonitori su una chatroom
qualsiasi?»
«La prego di accontentarmi» disse. «Questa chatlink fa parte del nostro discorsetto.
Vogliamo offrirle la stessa esperienza che vivrebbe se visitasse di persona il nostro quartier
generale.» Certo, pensai. Se fossi venuto di persona, a quest’ora il mio avatar sarebbe
circondato da migliaia di Sixer e mi avreste in pugno.
Lo raggiunsi dentro allo shuttle. La rampa si chiuse e fummo lanciati fuori. Dalla vetrata
panoramica della navicella vidi che stavamo lasciando una delle stazioni orbitali dei Sixer.
Di fronte a noi incombeva il pianeta IOI-1, una gigantesca palla cromata. Mi ricordava le
sfere assassine di Fantasmi. I Gunter definivano IOI-1 il «pianeta madre dei Sixer». La
compagnia lo aveva costruito poco dopo l’inizio della gara, per renderlo la base online
delle operazioni IOI.
La nostra navicella, guidata dal pilota automatico, raggiunse in breve tempo il pianeta e ne
sfiorò la superficie rilucente. Dalla vetrata osservai la navicella che descriveva un’orbita
completa attorno al pianeta. Per quanto ne sapevo, a nessun Gunter era stata mai concessa
una gitarella del genere.
IOI-1 era ricoperto da polo a polo di arsenali, bunker, magazzini, hangar per veicoli.
Disseminati su tutta la superficie c’erano anche aeroporti sulle cui piste erano allineati
aerei d’assalto, navicelle e carri armati automatizzati, pronti all’azione. Sorrento non disse
nulla, mentre passavamo in rassegna l’armata dei Sixer. Lasciò che mi godessi lo
spettacolo.
Avevo già visto screenshot della superficie di IOI-1, ma erano in bassa risoluzione, scattati
a grande distanza, oltre l’impressionante griglia di difesa del pianeta. Da molti anni i clan
di Gunter numericamente più consistenti stavano apertamente pianificando la distruzione
nucleare del Complesso operazioni dei Sixer, ma non erano mai riusciti a oltrepassare la
griglia di difesa, né a raggiungere la superficie del pianeta.
Una volta completata l’orbita, davanti a noi comparve il Complesso operazioni della IOI.
Era composto da tre torri in vetro riflettente: due grattacieli rettangolari affiancavano, su
entrambi i lati, un grattacielo circolare. Dall’alto, i tre edifici formavano il logo della IOI.
La navicella rallentò e rimase sospesa sulla torre a forma di O, poi atterrò su una piccola
piattaforma sul tetto. «Bel posticino, non crede?» disse infine Sorrento, rompendo il
silenzio, mentre toccavamo il suolo e la rampa si abbassava.
«Non male.» Ero orgoglioso della calma nella mia voce. In realtà, ero ancora esaltato per
tutto ciò che avevo appena visto. «È una riproduzione OASIS delle vere torri IOI, che si
trovano nel centro di Columbus, vero?» chiesi.
Sorrento annuì. «Sì, il complesso a Columbus è il quartier generale della società. La
maggior parte della mia squadra lavora nella torre centrale. La nostra vicinanza alla GSS
elimina ogni possibilità di ritardi nel sistema. E ovviamente Columbus non risente dei
blackout che appestano le altre grandi città d’America.» Stava dicendo banalità. La
Gregarious Simulation Systems aveva sede a Columbus, così come il principale deposito
di server OASIS. In tutto il mondo erano stati collocati dei server paralleli, ma erano tutti
collegati al nodo principale di Columbus. Questo era il motivo per cui, nei decenni
successivi al lancio della simulazione, la città era diventata una specie di Mecca dell’alta
tecnologia. Columbus era il luogo in cui un utente trovava la connessione più veloce e
affidabile all’interno di OASIS. Quasi tutti i Gunter sognavano di trasferircisi un giorno,
me compreso.
Seguii Sorrento giù dallo shuttle fino a un ascensore situato accanto alla pista
d’atterraggio. «In questi ultimi giorni è diventato una vera celebrità» disse, mentre
scendevamo. «Dev’essere una grande emozione, per lei. Dev’essere anche piuttosto
spaventoso, eh? Sapere che possiedi informazioni per cui milioni di persone
ucciderebbero.» Mi aspettavo che avrebbe detto qualcosa del genere, perciò mi ero già
preparato una risposta. «Le dispiace saltare la parte della strategia della paura e dei
giochetti mentali? Mi illustri solo i dettagli della vostra offerta. Ho altre faccende a cui
dedicarmi.» Mi sorrise come a un bambino prodigio. «Sì, ne sono certo» disse. «Ma la
prego di non saltare subito alle conclusioni riguardo alla nostra offerta. Credo che ne sarà
piuttosto sorpreso.» Poi il suo tono subì uno slancio di fermezza e aggiunse: «A dire il
vero, ne sono sicuro».
Facendo del mio meglio per nascondere il timore, con un tono di sufficienza dissi: «Va
bene, va bene».
Quando raggiungemmo il centoseiesimo piano si udì un segnale e le porte dell’ascensore
si spalancarono. Sorrento mi precedette passando davanti a un’altra receptionist, lungo il
corridoio illuminato. L’arredamento sembrava preso direttamente da un film di
fantascienza utopistica. Immacolato e all’avanguardia. Camminando superammo molti
altri avatar Sixer, e ognuno di loro, alla vista di Sorrento, si metteva sull’attenti e gli
rivolgeva un saluto militare, come se fosse un generale di alto rango. Sorrento non
rispondeva ai saluti, né dimostrava di avvertire la presenza dei subalterni.
Mi condusse, infine, in uno stanzone che occupava quasi l’intero piano. Conteneva un
mare di cubicoli, cinti da muri altissimi, ciascuno dei quali era occupato da una persona
allacciata a un’attrezzatura immersiva di alto livello.
«Benvenuto alla Divisione Oologi della IOI» disse Sorrento, con evidente orgoglio.
«Il Centro Supremo dei Sux0rz, quindi, eh?» dissi, guardandomi intorno.
«Non c’è bisogno di essere volgari» disse Sorrento. «Potrebbe diventare la sua squadra.»
«Avrei un mio cubicolo?»
«No. Avrebbe un ufficio personale, con una bella vista.» Sorrise. «Non che passerebbe
molto tempo a contemplarla.» Indicai una delle nuove attrezzature immersive Habashaw.
«Bell’arnese» dissi. E lo era davvero. Avanguardia pura.
«Sì, è veramente bello, non trova?» replicò. «Le nostre attrezzature immersive sono
altamente modificate e sono tutte connesse tra loro. I nostri sistemi consentono a
molteplici operatori di controllare qualunque avatar dei nostri oologi. E così, in base agli
ostacoli che un avatar deve affrontare nel corso delle missioni, i comandi vengono
trasferiti istantaneamente al membro della squadra con le maggiori competenze per
gestire la situazione.»
«D’accordo, ma questo si chiama barare» dissi.
«Oh, per favore» disse, alzando gli occhi al cielo. «Non funziona in questo modo. La gara
di Halliday non contempla alcuna regola. Ed è uno degli errori colossali che ha fatto quel
vecchio idiota.» Prima che potessi ribattere, Sorrento riprese a camminare, facendosi
strada attraverso il labirinto di cubicoli. «Tutti i nostri oologi sono connessi vocalmente a
una squadra di supporto» proseguì «che comprende studiosi di Halliday, esperti di
videogiochi, storici della cultura pop, crittologi. Lavorano insieme per aiutare i nostri
avatar a superare ogni sfida e a risolvere ogni enigma che incontrano.» Si voltò e mi sorrise
di nuovo. «Come vede, abbiamo pensato a tutto, Parzival. Ed è per questo che vinceremo.»
«Vero» dissi. «Per ora avete proprio fatto un lavoro coi fiocchi. Complimenti. Ma, un
momento… di cos’è che stavamo parlando? Oh, certo. Voi non avete idea di dove sia la
Chiave di Rame, e avete bisogno del mio aiuto per trovarla.» Sorrento socchiuse gli occhi,
poi cominciò a ridere. «Mi piaci, ragazzino» disse, sogghignando. «Sei brillante. E hai le
palle. Due qualità che ammiro molto.» Proseguimmo. Qualche minuto più tardi,
raggiungemmo l’enorme ufficio di Sorrento. Le finestre offrivano una formidabile vista
della «città» circostante. Il cielo era pieno di auto spaziali e navicelle e il sole virtuale del
pianeta stava giusto cominciando a tramontare. Sorrento si sedette alla sua scrivania e mi
indicò la sedia di fronte a lui.
Eccoci mi dissi, sedendomi. Sangue freddo, Wade.
«Vengo al punto» disse. «La IOI vuole reclutarti. Come consulente, per assisterci nella
ricerca dell’Easter Egg di Halliday. Avrai a disposizione tutte le ampie risorse della
società. Denaro, armi, oggetti magici, navicelle, manufatti. Quello che vuoi.»
«Che qualifica avrei?»
«Capo Oologo» rispose. «Saresti a capo dell’intera divisione, secondo soltanto a me. E
parlo di cinquemila avatar altamente addestrati e pronti a combattere. Tutti ai tuoi ordini
diretti.»
«Mica male» dissi, sforzandomi di simulare una certa nonchalance.
«Infatti. Ma c’è di più. In cambio dei tuoi servizi, abbiamo intenzione di pagarti due
milioni di dollari all’anno, con un anticipo di un milione di dollari. E, se e quando ci
aiuterai a trovare l’Egg, avrai un bonus di venticinque milioni di dollari.» Finsi di
sommare le cifre con le dita. «Wow» dissi, ostentando stupore. «E posso lavorare da casa?»
Sorrento aveva l’aria di non capire se stessi scherzando. «No» disse. «Purtroppo no.
Dovresti trasferirti qui, a Columbus. Ma ti forniremmo un appartamento prestigioso
all’interno dell’edificio. E un ufficio privato, naturalmente. E un set immersivo
all’avanguardia…»
«Alt» dissi, alzando una mano. «Vuole dirmi che dovrei vivere nel grattacielo della IOI?
Con lei? E con tutti gli altri Sux… oologi?»
«Soltanto finché non ci avrai aiutato a trovare l’Egg.» Trattenni a stento la nausea. «Che mi
dice dei vantaggi? Mi garantite l’assistenza sanitaria? Dentale? Oculistica? Le chiavi del
gabinetto dei dirigenti? Merda del genere?»
«Ovviamente.» Il suo tono iniziava a diventare impaziente. «E allora? Cosa dici?»
«Posso prendermi qualche giorno per pensarci?»
«Purtroppo no» rispose. «Potrebbe essere tutto finito entro qualche giorno. Abbiamo
bisogno della tua risposta ora.» Mi appoggiai allo schienale e cominciai a fissare il soffitto,
fingendo di considerare l’offerta. Sorrento attese, osservandomi. Ero sul punto di dargli la
risposta che mi ero preparato, quando sollevò la mano.
«Ascoltami un attimo, prima di rispondere» disse Sorrento. «So che praticamente tutti i
Gunter sono attaccati a quest’idea assurda che la IOI sia malvagia. E che i Sixer siano
parassiti aziendali senza scrupoli, senza onore, e senza rispetto per il “vero spirito” della
gara. Che siamo tutti dei venduti. Dico bene?» Annuii, resistendo a malapena alla
tentazione di aggiungere: «E questo è soltanto un eufemismo».
«Be’, tutto ciò è ridicolo» disse, lanciandomi un sorriso condiscendente che sospettai
filtrato da un qualche software di buone maniere. «I Sixer in realtà non sono diversi da un
clan di Gunter, pur con una maggiore disponibilità economica. Abbiamo tutti le stesse
ossessioni dei Gunter. E abbiamo lo stesso obiettivo.» E che obiettivo sarebbe? avrei voluto
urlargli contro. Rovinare OASIS per sempre? Corrompere e inquinare l’unica cosa che
abbia mai reso vivibili le nostre vite?
Sorrento interpretò il mio silenzio come un incitamento a continuare. «Sai, contrariamente
a quanto si pensa, OASIS non cambierà drasticamente quando la IOI ne assumerà il
controllo. Certo, dovremo iniziare a richiedere un abbonamento mensile. E far leva sulle
entrate che ci verranno dalla pubblicità. Ma abbiamo anche intenzione di apportare molte
migliorie. Filtri di contenuto per gli avatar. Una più rigorosa normativa per le costruzioni.
Renderemo OASIS un posto migliore.» No, pensai. Lo trasformerete in un parco a tema
fascista dove non rimarrà un briciolo di libertà ai pochi che potranno ancora permettersi il
prezzo d’entrata.
Avevo sentito tutto ciò che potevo sopportare del discorsetto di quello stronzo.
«Ok» dissi. «Contate su di me. Assumetemi. O qualsiasi sia la parola che usate. Sono dei
vostri.» Sorrento era sorpreso. Non era, evidentemente, la risposta che si aspettava. Fece
un largo sorriso e stava per porgermi la mano, quando lo interruppi.
«Ma a tre condizioni, di poco conto» dissi. «Innanzitutto, quando troverò l’Egg, voglio un
bonus di cinquanta milioni di dollari. Non venticinque. È fattibile?» Non esitò nemmeno.
«Fatto. Quali sono le altre condizioni?»
«Non voglio essere secondo al comando» risposi. «Voglio il tuo posto, Sorrento. Voglio
essere a capo di tutta la baracca. Capo delle operazioni. El Numero Uno. Oh, e voglio
anche che tutti mi chiamino El Numero Uno. È possibile?» Era come se la mia bocca
procedesse slegata dal cervello. Non riuscivo a fermarmi.
Il sorriso di Sorrento era scomparso. «Che altro?»
«Non voglio lavorare con te» gli puntai il dito contro. «Mi dài i brividi. Ma se i tuoi
superiori sono disposti a licenziare la tua brutta faccia e a darmi il tuo posto, sono dei
vostri. Affare fatto.» Silenzio. Il volto di Sorrento era una maschera di stoicismo.
Probabilmente il suo software di riconoscimento facciale filtrava alcune emozioni, come la
rabbia o la collera.
«Puoi chiedere ai tuoi capi e farmi sapere se l’accordo è preso?» domandai. «O ci stanno
osservando, in questo momento? Scommetto di sì.» Feci ciao alle telecamere invisibili.
«Ciao amici! Che ne dite?» Ci fu un lungo silenzio durante il quale Sorrento si limitò a
guardarmi trucemente. «È ovvio che ci stanno monitorando» disse, infine. «E mi hanno
appena informato che sono disposti ad accordarti tutte le richieste.» Non sembrava poi
troppo turbato.
«Ma davvero?» dissi. «Grandioso! Quando comincio? E, cosa ancora più importante,
quando te ne andrai?»
«Immediatamente» rispose. «La società ti preparerà un contratto e lo spedirà al tuo
avvocato per l’approvazione. Poi ti manderem – manderanno un aereo che ti porterà qui a
Columbus a firmare le scartoffie e a chiudere il contratto.» Si alzò. «E con questo
dovremmo avere chiuso…»
«In realtà…» lo interruppi di nuovo con la mano. «Ho passato gli ultimi due secondi a
ripensarci un po’ più a fondo, e penso che passerò. Preferisco cercare l’Egg per conto mio,
grazie.» Mi alzai. «Tu e gli altri Sux0rz potete andare a farvi fottere, uno dopo l’altro.»
Sorrento cominciò a ridere. Era una risata lunga, sincera, che trovai più che inquietante.
«Oh, sei bravo! È stato grande! Ci avevi davvero convinto, ragazzino!» Quando la risata si
affievolì, aggiunse: «Questa è la risposta che mi aspettavo. Quindi, ora, lascia che ti
esponga la nostra seconda proposta».
«C’è dell’altro?» tornai a sedere e poggiai i piedi sulla sua scrivania. «Ok. Spara.»
«Trasferiamo cinque milioni di dollari direttamente sul tuo account OASIS, in questo
momento, in cambio della soluzione fino alla Prima Porta. Ed è tutto. Non devi fare altro
che darci istruzioni dettagliate, passo dopo passo, su come fare ciò che tu hai già fatto. Da
quel momento in poi, prenderemo in mano la situazione e tu sarai libero di cercare l’Egg
per conto tuo. E la nostra transazione rimarrà segreta. Nessuno ne saprà mai niente.» Lo
ammetto, per un istante considerai l’offerta. Cinque milioni di dollari mi avrebbero
sistemato a vita. E anche se avessi aiutato i Sixer a superare la Prima Porta, in fin dei conti
non era detto che sarebbero riusciti a superare le altre due. Non ero nemmeno sicuro che ci
sarei riuscito io.
«Dammi retta, figliolo» disse Sorrento. «Dovresti approfittare di quest’offerta. Finché
puoi.» Il suo atteggiamento paternalistico mi irritò terribilmente e mi aiutò a prendere la
decisione. Non potevo vendermi ai Sixer. Se lo avessi fatto e, in qualche modo, loro
avessero vinto la gara, mi sarei sentito responsabile. Non avrei mai potuto convivere con
una consapevolezza simile. Speravo solo che Aech, Art3mis e gli altri Gunters avrebbero
avuto i miei stessi scrupoli.
«Passo» dissi. Tolsi i piedi dalla sua scrivania e mi alzai. «Grazie per il tuo tempo.»
Sorrento mi rivolse uno sguardo triste, poi mi fece cenno di sedermi nuovamente. «In
realtà non abbiamo finito. Abbiamo un’ultima proposta, Parzival. Avevo tenuto la
migliore per ultima.»
«Non hai ancora capito? Non mi faccio comprare. Perciò fuori dai coglioni. Adios. Ciao
ciao.»
«Siediti, Wade.» Mi raggelai. Sbaglio o aveva appena usato il mio vero nome?
«Esatto» mi abbaiò contro Sorrento. «Sappiamo chi sei. Wade Owen Watts. Nato il 12
agosto 2024. Genitori morti. E sappiamo anche dove vivi. Stai con tua zia, in un
parcheggio di case mobili al 700 di Portland Avenue, a Oklahoma City. Per l’esattezza,
nell’Unità 56-K. A quanto sappiamo dalle nostre squadre di sorveglianza, l’ultima volta
che sei stato visto entrare nel container di tua zia è stata tre giorni fa, e da allora non ti sei
mosso. Il che significa che al momento sei ancora lì.» Alle sue spalle, si aprì una finestra
video che mostrava una ripresa in tempo reale delle cataste in cui vivevo. Era una veduta
dall’alto, presa da un aereo o da un satellite. Da una simile angolazione, potevano
monitorare soltanto le due uscite principali dell’abitazione. Non potevano vedermi uscire
dalla finestra della lavanderia ogni mattina, né vedermi tornare ogni sera. Non sapevano
che in questo momento ero nel mio nascondiglio.
«Ecco qui» disse Sorrento. Era tornato al suo tono amichevole e condiscendente. «Dovresti
uscire di più, Wade. Non è sano passare tutto questo tempo in casa.» L’immagine si
ingrandì, zoomata sulla casa di mia zia. Poi passò alla visione termografica, e potevo
vedere i profili incandescenti di più di una dozzina di persone, bambini e adulti, sedute
all’interno. Quasi tutti erano immobili – probabilmente erano connessi a OASIS.
Ero troppo sbalordito per dire una sola parola. Come avevano fatto a trovarmi? Le
informazioni degli account OASIS avrebbero dovuto essere inaccessibili a chiunque. E il
mio indirizzo non era nemmeno segnalato nel mio account OASIS. Non era obbligatorio
fornirlo, per la creazione di un avatar. Erano sufficienti un nome e un campione della
retina. Come avevano fatto, quindi, a scoprire dove vivevo?
Dovevano avere avuto accesso all’archivio scolastico. Ma come avevano scoperto che ero
uno studente di Ludus?
«Il tuo primo impulso, ora, potrebbe essere quello di scollegarti e darti alla fuga» disse
Sorrento. «Ti consiglio di non fare quest’errore. La tua casa, al momento, è circondata da
una grande quantità di esplosivo.» Dalla tasca estrasse qualcosa che somigliava molto a un
telecomando, e me lo mostrò. «E il mio dito è sul detonatore. Se ti scolleghi da questa
chatlink, morirai in pochi secondi. Capisci quello che ti sto dicendo, signor Watts?»
Lentamente annuii, cercando disperatamente di venire a capo della situazione.
Stava bluffando. Stava per forza bluffando. E anche se non stava bluffando, non sapeva
che in realtà ero a più di mezzo chilometro di distanza, nel mio nascondiglio. Sorrento
supponeva che io fossi uno dei piccoli profili termografici colorati sul display.
Se fosse davvero esplosa una bomba in casa di mia zia, sarei stato al sicuro, qui, sotto a
tutte queste carcasse di automobili. O no?
«Come…?» fu tutto quello che riuscii a dire.
«Come abbiamo scoperto chi sei? E dove vivi?» ghignò. «Semplice. Hai mandato tutto a
puttane, ragazzino. Quando ti sei iscritto alla scuola pubblica di OASIS, hai dato il tuo
nome e indirizzo. Perché potessero spedirti le pagelle, immagino.» Aveva ragione. Il nome
del mio avatar, il mio vero nome e il mio indirizzo venivano conservati in un file privato,
cui poteva accedere solo il preside. Era stato uno stupido errore, ma mi ero iscritto un
anno prima che la gara avesse inizio. Prima che diventassi un Gunter. Prima che imparassi
a nascondere la mia reale identità.
«Come hai scoperto che vado a scuola in rete?»
«Sui forum di Gunter, negli ultimi giorni, ha iniziato a diffondersi questa voce secondo cui
tu e il tuo amico Aech andate entrambi a scuola su Ludus. Quando l’abbiamo saputo,
abbiamo deciso di contattare un paio di presidi della SPO e abbiamo offerto loro un
piccolo incentivo. Hai idea di quanto sia bassa la paga annuale di un preside, Wade? È
scandaloso. Uno di loro è stato così gentile da cercare il nome Parzival nel database
studentesco, e indovina cos’è successo?» Accanto al video delle cataste, comparve una
nuova finestra. Mostrava il mio intero profilo studente. Il mio vero nome, il nome del mio
avatar, il mio nome da studente (Wade3), la data di nascita, il numero della previdenza
sociale, e l’indirizzo. Le pagelle. C’era tutto, compresa una vecchia foto d’annuario che mi
era stata fatta più di cinque anni prima, quando non mi ero ancora trasferito alla scuola di
OASIS.
«Abbiamo anche informazioni relative al tuo amico Aech. Ma quando si è iscritto è stato
abbastanza furbo da fornire un nome e un indirizzo falsi. Perciò trovarlo richiederà un po’
più di tempo.» Si interruppe per lasciarmi rispondere, ma io rimasi in silenzio. Le mie
pulsazioni erano impazzite e dovevo ricordarmi di continuare a respirare.
«Il che ci porta alla mia ultima offerta.» Sorrento si sfregò le mani, entusiasta, come un
bambino che sta per scartare un regalo. «Dicci come raggiungere la Prima Porta. Ora. O ti
uccidiamo. Ora.»
«Stai bluffando» mi sentii rispondere. Ma non lo pensavo. Proprio per niente.
«No, Wade. Non sto bluffando. Pensaci. Con tutto quello che succede nel mondo, credi che
a qualcuno importerà di un’esplosione in una sporca topaia di Oklahoma City?
Penseranno che sia stata causata da qualche incidente in uno di quei laboratori dove
sintetizzano le droghe. O magari che una cellula terroristica stava cercando di costruire
una bomba fatta in casa. Comunque, vorrà dire che ci sarà qualche centinaio di scarafaggi
umani in meno, nel mondo, ad arraffare buoni pasto e sprecare prezioso ossigeno. A
nessuno importerà. E le autorità non batteranno ciglio.» Aveva ragione, e lo sapevo. Cercai
di prendere tempo, per capire cosa avrei potuto fare. «Mi uccideresti?» chiesi. «Per vincere
a un videogioco?»
«Non fare l’ingenuo, Wade» disse Sorrento. «Qui ci sono in palio miliardi di dollari, il
controllo di una delle società più lucrative al mondo e di OASIS stesso. È ben più di un
videogioco. E lo è sempre stato.» Mi si avvicinò. «Ma puoi uscirne comunque da vincitore,
ragazzino. Se ci aiuti, ti daremo lo stesso i cinque milioni. Puoi andare in pensione a
diciott’anni e vivere il resto dei tuoi giorni da re. O puoi morire tra pochi istanti. Decidi tu.
Ma prima chiediti questo: se tua madre fosse ancora viva, cosa vorrebbe che facessi?» Non
fossi stato così spaventato, l’ultima domanda mi avrebbe davvero fatto incazzare. «Cosa vi
impedisce di ammazzarmi dopo che vi avrò dato quello che volete?» domandai.
«Che tu ci creda o no, non vogliamo uccidere nessuno, a meno che non sia strettamente
necessario. E poi ci sono altre due porte, no?» Alzò le spalle. «Potremmo avere bisogno di
te per risolvere anche quelle. Personalmente, ne dubito. Ma i miei superiori la pensano
diversamente. In ogni caso, non è che tu abbia scelta a questo punto, no?» Abbassò la voce,
come se stesse per rivelarmi un segreto. «Quindi, ecco cosa sta per accadere. Mi darai
istruzioni passo dopo passo su come ottenere la Chiave di Rame e superare la Prima Porta.
E rimarrai collegato a questa chatlink finché non avremo verificato tutto quello che ci hai
detto. Scollegati prima che io ti dia il via libera e tutto il tuo mondo, boom, scompare.
Capito? E ora inizia a parlare.» Valutai la possibilità di dargli ciò che voleva. Davvero. Ma
poi ci pensai a fondo, e non riuscivo a trovare un singolo valido motivo per cui mi
avrebbero lasciato vivere, anche se li avessi aiutati a superare la Prima Porta. L’unica
mossa che poteva avere un senso era quella di uccidermi, escludendomi così dalla gara. E,
sicuro come la morte, non mi avrebbero mai dato quei cinque milioni, né mi avrebbero
tenuto in vita perché andassi a raccontare ai media di come la IOI mi avesse ricattato.
Soprattutto nel caso che, nel mio container, ci fosse davvero stata una bomba
telecomandata, a costituire una prova.
No. Per come la vedevo io, c’erano solo due possibilità. O stavano bluffando, o mi
avrebbero ucciso, sia che li avessi aiutati sia che non l’avessi fatto.
Presi una decisione e raccolsi tutto il coraggio che avevo.
«Sorrento» dissi, cercando di nascondere il terrore nella mia voce «voglio che tu e i tuoi
capi sappiate una cosa. Non troverete mai l’Egg. Sapete perché? Perché Halliday era più
intelligente di tutti voi messi insieme. Non importa quanti soldi avete o chi cercate di
ricattare. Perderete.» Premetti l’icona di logout e il mio avatar cominciò a smaterializzarsi
di fronte ai suoi occhi. Non sembrava sorpreso. Si limitò a guardarmi con tristezza e poi
scosse la testa. «Mossa stupida, ragazzino» disse, prima che il mio visore si oscurasse.
Rimasi seduto nel buio del mio nascondiglio, rabbrividendo, in attesa della detonazione.
Ma passò un minuto intero e niente accadde.
Con le mani che tremavano, mi tirai il visore sulla fronte e mi tolsi guanti. Mentre i miei
occhi iniziavano ad abituarsi all’oscurità, mi lasciai sfuggire un esitante sospiro di sollievo.
Era un bluff, allora. Sorrento mi aveva messo alla prova con un sofisticato giochetto
psicologico. Che aveva avuto il suo effetto, tra l’altro.
Tracannando acqua da una bottiglia, mi resi conto che avrei dovuto collegarmi di nuovo e
avvertire Aech e Art3mis. Loro erano i prossimi obiettivi dei Sixer.
Mi stavo rinfilando i guanti quando udii l’esplosione.
L’onda d’urto mi raggiunse una frazione di secondo dopo che udii la detonazione, e
d’istinto mi gettai a terra, nel nascondiglio, coprendomi la testa con le braccia. Lontano,
sentivo il suono del metallo lacerato, mentre i container iniziavano a crollare al suolo,
sganciandosi dalle impalcature e rovinando l’uno sull’altro, come giganteschi tasselli di
domino. Il rumore, agghiacciante, andò avanti per un tempo che mi sembrò infinito. Poi,
di nuovo, silenzio.
Riuscii a vincere la paralisi che mi attanagliava e aprii il portellone posteriore del furgone.
Stordito, come in un incubo, raggiunsi l’estremità della pila di rottami e, da lì, vidi
un’enorme colonna di fumo e fiamme che si innalzava dall’altro lato delle cataste.
Seguii il flusso di persone che stava già correndo in quella direzione, lungo il perimetro
nord delle cataste. La catasta in cui si trovava la casa di mia zia era ormai una rovina
fumosa e ardente, e la stessa sorte era toccata alle cataste adiacenti. Non rimaneva altro
che un’enorme pila di lamiere ritorte e in fiamme.
Mi tenni a distanza, ma una gran folla di persone si era già riunita davanti a me,
avvicinandosi all’incendio il più possibile. Nessuno si preoccupò di cercare dei
sopravvissuti tra le macerie. Era chiaro che non ce n’erano.
Una vecchia cisterna di propano fissata a uno dei container schiacciati causò una piccola
esplosione e spinse la folla a disperdersi e cercare riparo. Poi altre cisterne esplosero in
rapida successione. Dopodiché, tutti i curiosi indietreggiarono e si mantennero a debita
distanza.
Gli abitanti delle cataste vicine sapevano che, se il fuoco si fosse diffuso, sarebbero stati
guai. Per questo motivo, in molti stavano già cercando di contrastare l’incendio usando
tubi da giardino, secchi, bicchieroni da fast food e qualsiasi altro recipiente riuscissero a
trovare. In poco tempo le fiamme vennero contenute e l’incendio si affievolì.
Mentre osservavo, in silenzio, sentivo già le persone attorno a me mormorare che si
trattava probabilmente di un’altra esplosione in un laboratorio di metanfetamine, o di
qualche idiota che aveva provato a costruirsi una bomba in casa. Esattamente come aveva
previsto Sorrento.
Il pensiero mi risvegliò dallo stordimento. Ma cosa avevo in testa? I Sixer avevano appena
cercato di uccidermi. Probabilmente c’erano ancora degli agenti tra le cataste, incaricati di
controllare che fossi davvero morto. E, da completo idiota, io me ne stavo lì, allo scoperto.
Lentamente mi allontanai dalla folla e corsi di nuovo al mio nascondiglio, procedendo
lentamente, guardandomi sempre le spalle per assicurarmi che nessuno mi stesse
seguendo. Una volta tornato nel furgone, sbattei la portiera e la chiusi a chiave, poi mi
raggomitolai, tremante, in un angolo. Rimasi così a lungo.
Dopo un po’, lo shock iniziò a svanire e la realtà di ciò che era appena successo cominciò a
farsi strada. Mia zia Alice e il suo fidanzato, Rick, erano morti, con tutte le persone che
avevano vissuto insieme a noi e nei prefabbricati sotto e attorno al nostro. Compresa la
cara, vecchia signora Gilmore. E, se fossi stato a casa, anch’io sarei morto.
Ero fatto di adrenalina, non sapevo più come agire, annichilito da un miscuglio
paralizzante di paura e rabbia. Pensai di collegarmi a OASIS e chiamare la polizia, ma poi
mi chiesi come avrebbero reagito, ascoltando la mia storia. Avrebbero pensato che fossi un
mitomane. E se avessi chiamato i media, avrebbero reagito allo stesso modo. Era da
escludere che qualcuno credesse alla mia storia. A meno che non avessi rivelato di essere
Parzival, e forse neanche in quel caso sarei stato preso sul serio. Non avevo uno straccio di
prova contro Sorrento e i Sixer. Tutte le tracce della bomba che avevano innescato erano
probabilmente già disciolte tra le macerie.
Rivelare al mondo la mia identità così da poter accusare di ricatto e omicidio una delle
imprese più potenti sulla Terra non sembrava una mossa furba. Nessuno mi avrebbe
creduto. A stento ci credevo io. La IOI aveva davvero provato a uccidermi. Per evitare che
vincessi a un videogioco. Era una cosa folle.
Il mio nascondiglio, al momento, era piuttosto sicuro, ma sapevo che non avrei potuto
rimanere ancora a lungo tra le cataste. Non appena i Sixer avessero scoperto che ero
ancora vivo, sarebbero tornati a cercarmi. Dovevo davvero portare il culo fuori da Dodge.
Ma non avrei potuto farlo finché non avessi avuto un po’ di denaro, e i primi assegni delle
pubblicità non sarebbero stati depositati prima di un giorno o due. Fino ad allora, avrei
dovuto restare nell’ombra. Ma in quel momento dovevo contattare Aech per avvertirlo che
sarebbe stato il prossimo sulla lista nera dei Sixer.
E avevo bisogno di vedere un volto amico.

0015
Afferrai la console OASIS e la accesi, poi mi infilai il visore e i guanti. Una volta effettuato
l’accesso, il mio avatar ricomparve su Ludus, in cima alla collina dove sedevo prima di
incontrare Sorrento via chatlink. Nel momento in cui l’audio si attivò, udii un boato
assordante di motori che proveniva dal cielo. Mi alzai da dove ero seduto, sotto l’albero, e
guardai in alto. Vidi una squadriglia di navicelle d’assalto Sixer che volavano in
formazione da sud, a bassa altitudine, i sensori che setacciavano la superficie del pianeta.
Stavo per nascondermi nuovamente sotto l’albero, fuori dal loro campo visivo, quando mi
ricordai che Ludus era zona non–PvP. I Sixer non avrebbero potuto toccarmi, lì.
Ciononostante, avevo i nervi a fior di pelle. Continuai a osservare il cielo e, poco dopo,
notai altre due flotte Sixer sulla linea dell’orizzonte, a est. Un attimo dopo, altre
squadriglie le raggiunsero da nord e da ovest. Sembrava un’invasione aliena.
Sul mio display comparve un’icona che mi segnalava un nuovo messaggio di testo da
parte di Aech: Dove diavolo sei? Chiamami subito, cazzo!
Premetti il suo nome sulla lista dei contatti, lui rispose al primo squillo. Il volto del suo
avatar comparve nella finestra video. Aveva un’espressione tetra.
«Hai sentito la novità?» chiese.
«Che novità?»
«I Sixer sono su Ludus. A migliaia. Ne arrivano sempre di più ogni minuto. Stanno
perlustrando il pianeta in cerca della tomba.»
«Sì, sono qui. Ci sono navicelle d’assalto ovunque.» Aech aggrottò la fronte. «Appena
trovo I–r0k lo uccido. Lentamente. E poi, quando creerà un nuovo avatar, lo inseguirò e lo
ucciderò di nuovo. Se quel cretino avesse tenuto la bocca chiusa, i Sixer non avrebbero mai
pensato di venire qui a cercare.»
«Già. Sono stati i suoi post sui forum a dar loro l’idea. L’ha detto Sorrento.»
«Sorrento? Vuoi dire Nolan Sorrento?» Gli raccontai tutto quello che era successo nelle
ultime ore.
«Ti hanno fatto esplodere la casa?»
«A dire il vero era un container» dissi. «In un parcheggio di case mobili. Hanno ucciso
molte persone, Aech. Probabilmente la notizia è già arrivata ai telegiornali.» Feci un
respiro profondo. «Sto impazzendo. Ho una paura fottuta.»
«Ci credo» disse. «Grazie al cielo non eri in casa quando è successo…» Annuii. «Non mi
collego quasi mai da casa. Fortuna che i Sixer non lo sapevano.»
«E la tua famiglia?»
«Era casa di mia zia. È morta, credo. Non… non ci volevamo troppo bene.» Era un enorme
eufemismo, ovviamente. Mia zia Alice non mi aveva mai dimostrato un grande affetto, ma
non meritava di morire. Il lancinante senso di colpa che provavo era rivolto soprattutto
alla signora Gilmore, e alla consapevolezza che le mie azioni l’avevano uccisa. Era una
delle persone più dolci che avessi mai conosciuto.
Mi resi conto che stavo singhiozzando. Tolsi l’audio perché Aech non sentisse, poi feci
qualche respiro per riprendere il controllo.
«Non ci posso credere!» ringhiò Aech. «Quelle merde. La pagheranno, Z. Contaci. Gliela
faremo pagare.» Non capivo come avremmo potuto fargliela pagare, ma non mi fermai a
discutere. Sapevo che stava solo cercando di farmi sentire meglio.
«Dove sei ora?» chiese Aech. «Hai bisogno di aiuto? Hai bisogno di un posto dove stare,
cose così? Posso spedirti dei soldi se ne hai bisogno.»
«No, sto bene» dissi. «Comunque grazie, amico. Apprezzo l’offerta.»
«De nada, amigo.»
«Senti. I Sixer hanno mandato anche a te la stessa email che hanno mandato a me?»
«Sì. Ne hanno mandate a migliaia. Ma ho deciso che sarebbe stato meglio ignorarle.»
Aggrottai la fronte. «Vorrei essere stato intelligente come te.»
«Ehi, amico, non potevi sapere che avrebbero cercato di ucciderti! E poi avevano già il tuo
indirizzo. Se li avessi ignorati, probabilmente avrebbero fatto saltare la bomba
comunque.»
«Senti, Aech… Sorrento ha detto che il tuo dossier, a scuola, conteneva un indirizzo falso,
e non sapevano come trovarti. Ma può darsi che stesse mentendo. Dovresti andartene da
casa. Mettiti al sicuro da qualche parte. Più in fretta che puoi.»
«Non preoccuparti per me, Z. Mi tengo in movimento. Quei bastardi non mi troveranno
mai.»
«Se lo dici tu» risposi, domandandomi cosa intendesse. «Ma devo avvertire anche
Art3mis. E Daito e Shoto, se riesco a contattarli in qualche modo. È probabile che i Sixer
stiano facendo tutto il possibile per scoprire anche le loro identità.»
«Questo mi fa venire un’idea» disse. «Invitiamoli nella Cantina per stasera. Facciamo
intorno a mezzanotte? Una sessione di chat privata. Solo noi cinque.» Di fronte alla
prospettiva di rivedere Art3mis, il mio umore si rischiarò. «Credi che verranno?»
«Sì, se li informiamo che è una questione di vita o di morte.» Fece un sorrisetto
compiaciuto. «E ci sarebbero i cinque Gunter migliori del mondo in una sola chatroom.
Chi se lo perderebbe?» Mandai ad Art3mis un breve messaggio, chiedendole di
incontrarci nella chat privata di Aech a mezzanotte. Rispose pochi minuti più tardi,
promettendomi che sarebbe venuta. Aech mi disse che era riuscito a contattare Daito e
Shoto, ed entrambi avevano accettato di raggiungerci. L’incontro era sistemato. Non
volevo stare solo, perciò mi collegai alla Cantina un’ora prima. Aech era già lì che
controllava le notizie sul vecchio televisore RCA. Senza dire una parola, si alzò e mi
abbracciò. Anche se non potevo sentire veramente il suo abbraccio, lo trovai
sorprendentemente consolatorio. Poi ci sedemmo entrambi e guardammo il telegiornale,
in attesa che gli altri arrivassero.
Tutti i canali trasmettevano filmati OASIS che mostravano le orde di navicelle spaziali dei
Sixer e le truppe che stavano arrivando su Ludus in quel momento. Era facile immaginare
il motivo per cui fossero lì, e ormai ogni Gunter del mondo era diretto su Ludus. Le
stazioni di teletrasporto di tutto il pianeta erano intasate di avatar diretti lì.
«Ciao ciao, segreto» dissi, scuotendo la testa.
«Prima o poi l’avrebbero scoperto comunque» disse Aech, spegnendo la tv. «Soltanto, non
pensavo che sarebbe successo così in fretta.» Entrambi udimmo un trillo che segnalava
l’accesso di un avatar e Art3mis si materializzò in cima alla scalinata. Indossava gli stessi
abiti che le avevo visto la sera in cui ci eravamo incontrati. Mi salutò con la mano
scendendo i gradini. Ricambiai il saluto, poi la presentai a Aech.
«Aech, questa è Art3mis. Art3mis, questo è il mio migliore amico, Aech.»
«È un piacere» disse Art3mis, porgendogli la mano destra.
Aech la strinse. «Anche per me.» Sorrise con il suo ghigno da Stregatto. «Grazie di essere
venuta.»
«Scherzi? Come avrei potuto perdermelo? Il primo incontro dei Cinque Grandi.»
«I Cinque Grandi?»
«Già» disse Aech. «È così che ci chiamano su tutti i forum, ormai. Siamo i primi cinque del
Segnapunti. Siamo i Cinque Grandi.»
«Almeno per il momento» dissi.
Di rimando, Art3mis sorrise, poi si voltò e iniziò ad aggirarsi per la Cantina, apprezzando
l’arredamento anni ottanta. «Aech, questa è, senza dubbio, la chatroom più fica che abbia
mai visto.»
«Grazie.» Piegò la testa in un inchino. «È gentile da parte tua.» Art3mis si fermò a
spulciare i giornaletti dei giochi di ruolo sullo scaffale. «Hai riprodotto perfettamente la
taverna di Morrow. Fino all’ultimo dettaglio. Io qui vorrei viverci.»
«Hai un posto riservato nella lista degli ospiti. Vieni quando vuoi.»
«Davvero?» chiese, visibilmente rallegrata. «Grazie! Lo farò. Sei il migliore, Aech.»
«Sì» disse, sorridendo. «È vero. Sono il migliore.» Sembrava che andassero proprio
d’accordo, il che mi rendeva follemente geloso. Non volevo che ad Art3mis piacesse Aech,
e viceversa. La volevo tutta per me.
Daito e Shoto si collegarono pochi istanti più tardi e apparvero contemporaneamente in
cima alla scalinata. Daito era il più alto e sembrava poco più che un adolescente. Shoto era
più basso di una trentina di centimetri e sembrava ancora più giovane. Poteva avere sui
tredici anni. I due avatar sembravano giapponesi, e l’uno somigliava all’altro, come se
fossero istantanee di una stessa persona scattate a cinque anni di distanza. Indossavano
completi coordinati da Samurai, ed entrambi avevano, legate alla schiena, una wakizashi
corta e una katana più lunga.
«Salute» disse il Samurai più alto. «Io mi chiamo Daito. E questo è mio fratello minore,
Shoto. Grazie per l’invito. Siamo onorati di potervi incontrare tutti e tre.» Si inchinarono
simultaneamente. Aech e Art3mis risposero con un inchino, e subito io li imitai. Mentre ci
presentavamo, Daito e Shoto si inchinarono ancora una volta, e un’altra volta noi
rispondemmo con un inchino.
«Bene» disse Aech, una volta concluso tutto quell’inchinarsi. «Diamo inizio alla festa.
Immagino abbiate saputo le novità. I Sixer si stanno riversando in massa su Ludus. A
migliaia. Stanno scandagliando l’intera superficie del pianeta. Anche se non sanno
esattamente cosa cercano, non ci metteranno molto a trovare l’ingresso della tomba…»
«A dire il vero» lo interruppe Art3mis, «l’hanno già trovato. Più di mezz’ora fa.» Tutti ci
voltammo a fissarla.
«La notizia non è ancora stata trasmessa» disse Daito. «Ne sei sicura?» Lei annuì.
«Purtroppo sì. Questa mattina, quando ho saputo dei Sixer, ho deciso di nascondere una
telecamera tra gli alberi vicino all’entrata della tomba, per tenere d’occhio la zona.» Aprì
una finestra video a mezz’aria di fronte a lei, e la ruotò per mostrarcela. Era un campo
lungo della collina e della radura che la circondava, ripreso dall’alto. Da
quell’angolazione, era facile vedere le grosse pietre nere, in cima alla collina, sistemate a
forma di teschio. E potevamo vedere altrettanto chiaramente che l’intera zona brulicava di
Sixer, e sembrava che ne arrivassero sempre di più ogni istante che passava.
Ma la cosa più inquietante fu l’enorme e trasparente cupola d’energia che ricopriva l’intera
collina.
«Figli di puttana» disse Aech. «È quello che credo che sia?» Art3mis annuì. «Un campo di
forza. I primi Sixer che sono arrivati l’hanno installato. E quindi…»
«E quindi, d’ora in avanti» disse Daito «ogni Gunter che troverà la tomba non potrà
entrarci. A meno che non riesca, in qualche modo, ad attraversare il campo di forza.»
«In verità hanno montato due campi di forza» disse Art3mis. «Uno piccolo sovrastato da
uno più grande. Li disattivano in sequenza, quando vogliono fare entrare altri Sixer nella
tomba. È come una camera d’equilibrio.» Indicò la finestra. «Guardate, lo stanno facendo
proprio ora.» Uno squadrone di Sixer scendeva dalla rampa di carico di un’astronave
parcheggiata lì vicino. Trasportavano l’attrezzatura in grandi casse. Appena lo
raggiunsero, il campo di forza esterno scomparve, svelando una cupola più piccola al suo
interno. Quando lo squadrone fu di fronte alla parete del campo di forza interno, il campo
esterno riapparve. Un secondo più tardi, il campo interno venne disattivato, permettendo
ai Sixer l’accesso alla tomba.
Per un lungo istante di silenzio contemplammo i nuovi sviluppi.
«Credo che potrebbe andare peggio» disse infine Aech. «Se la tomba si trovasse in area
PvP, quei coglioni avrebbero già montato cannoni laser e sentinelle robot ovunque, per
vaporizzare chiunque si avvicinasse alla zona.» Aveva ragione. Dato che Ludus era in una
zona sicura, i Sixer non avrebbero potuto fare del male ai Gunter che si avvicinavano alla
tomba. Ma nulla gli impediva di costruire un campo di forza per tenerli a distanza. Perciò,
avevano fatto esattamente questo.
«È chiaro che i Sixer pianificavano questo momento da un bel po’» disse Art3mis,
chiudendo la finestra video.
«Non riusciranno a tenere tutti fuori per molto tempo» disse Aech. «Quando i clan lo
scopriranno, sarà la guerra totale. Migliaia di Gunter attaccheranno il campo di forza con
tutto quello che hanno. Lanciarazzi. Sfere infuocate. Bombe a grappolo. Testate nucleari. I
Sixer se la vedranno brutta. Trasformeranno questa foresta in un deserto.»
«Sì, ma nel frattempo i Sixer avranno una riserva di Chiavi di Rame e staranno mandando
i loro avatar alla Prima Porta, uno dopo l’altro, in fila, in uno stramaledetto trenino.»
«Ma come possono farlo?» chiese Shoto, la sua giovane voce traboccante di rabbia. Guardò
suo fratello. «Non è giusto. Non giocano pulito.»
«Non devono. Non ci sono leggi su OASIS, fratellino» disse Daito. «I Sixer possono fare ciò
che vogliono. Non si fermeranno finché qualcuno non li fermerà.»
«I Sixer non hanno onore» disse Shoto, rabbuiandosi.
«E voi ragazzi non ne sapete ancora niente» disse Aech. «È per questo che io e Parzival vi
abbiamo invitati qui.» Si voltò verso di me. «Z, vuoi raccontare quello che è successo?»
Annuii e mi rivolsi agli altri. Innanzitutto, raccontai loro dell’email che avevo ricevuto
dalla IOI. Avevano ricevuto tutti lo stesso invito, ma saggiamente lo avevano ignorato. Poi
illustrai nei dettagli la mia sessione chat con Sorrento, facendo del mio meglio per non
tralasciare nulla. Infine, raccontai di come si fosse conclusa la nostra conversazione: con
una bomba che esplodeva in casa mia. Quando finii, i loro avatar avevano un’espressione
stordita e incredula.
«Mio Dio» mormorò Art3mis. «Non scherzi? Hanno cercato di ucciderti?»
«Esatto. E ci sarebbero riusciti, se fossi stato in casa. Ho solo avuto fortuna.»
«Ora sapete tutti fin dove i Sixer si spingeranno per impedirci di batterli nella Caccia»
disse Aech. «Se riescono a trovarci, siamo cibo per i vermi.» Annuii. «Perciò dovreste
prendere precauzioni per proteggere voi stessi e le vostre identità. Se non lo avete già
fatto.» Tutti fecero sì con la testa. Seguì un altro lungo silenzio.
«C’è ancora una cosa che non riesco a capire» disse Art3mis, poco dopo. «Come hanno
fatto i Sixer a capire che avrebbero dovuto cercare la tomba su Ludus? Hanno ricevuto
suggerimenti da qualcuno?» Ci guardò tutti, ma il suo tono non era accusatorio.
«Avranno letto le voci su Parzival ed Aech che circolano nei forum di Gunter» disse Shoto.
«È così che noi abbiamo capito dove cercare.» Daito fece una smorfia, poi colpì suo fratello
sulla spalla. «Non ti avevo detto di startene zitto, chiacchierone?» gli sibilò contro. Shoto
sembrò imbarazzato e ammutolì.
«Che voci?» chiese Art3mis. Mi guardò. «Di cosa sta parlando? Non ho avuto tempo di
controllare i forum in questi giorni.»
«Molti Gunter hanno postato sui forum sostenendo di conoscere Aech e Parzival e dicendo
che entrambi studiavano su Ludus.» Si voltò verso di me ed Aech. «Io e mio fratello
abbiamo passato gli ultimi due anni in cerca della Tomba degli orrori. Abbiamo battuto
decine di mondi. Ma non abbiamo mai pensato di cercarla su Ludus. Finché non abbiamo
saputo che andavate a scuola qui.»
«Non ho mai pensato che fosse importante nascondere il fatto che andassi a scuola su
Ludus» dissi. «Perciò non l’ho mai fatto.»
«Sì, e meno male che non l’hai fatto» disse Aech. Poi si rivolse agli altri. «Parzival ha
involontariamente indirizzato verso il luogo della tomba anche me. Non avevo mai
pensato di cercarla su Ludus, finché il suo nome non è comparso sul Segnapunti.» Daito
diede un colpetto a suo fratello ed entrambi si rivolsero a me e si inchinarono. «Sei stato il
primo a trovare il nascondiglio della tomba, perciò ti dobbiamo tutta la nostra gratitudine
per averci condotto fin lì.» Mi inchinai a mia volta. «Grazie ragazzi. Ma in realtà è stata
Art3mis a trovare per prima la tomba. E da sola. Un mese prima che la trovassi io.»
«Non è che mi sia servito granché» intervenne Art3mis. «Non riuscivo a sconfiggere il lich
a Joust. Ci provavo da settimane, e poi è arrivato questo sprovveduto e ce l’ha fatta al
primo tentativo.» Raccontò di come ci eravamo incontrati e di come, il giorno seguente,
dopo il reset di mezzanotte, fosse finalmente riuscita a sconfiggere il re.
«Io devo ringraziare Aech per la mia abilità a Joust» dissi. «Ci giocavamo sempre, qui,
nella Cantina. È solo per questo che sono riuscito a battere il re al primo tentativo.»
«Vale anche per me» disse Aech. Poi allungò una mano e ci battemmo i pugni.
Daito e Shoto sorrisero. «È andata così anche per noi» disse Daito. «È da anni che io e mio
fratello ci sfidiamo a Joust, perché se ne parla nell’Almanacco di Anorak.»
«Grandioso» disse Art3mis, sollevando le braccia. «Buon per voi ragazzi. Eravate tutti
preparati. Sono contenta per voi. Congratulazioni.» Ci dedicò un applausino sarcastico che
fece ridere tutti. «E ora, possiamo aggiornare la seduta della Società di Ammirazione
Reciproca e tornare all’ordine del giorno?»
«Certo» disse Aech, sorrideva. «E qual era l’ordine del giorno?»
«I Sixer?» suggerì Art3mis.
«Giusto! Ma certo!» Aech si massaggiò la nuca mordendosi il labbro inferiore, cosa che
faceva sempre quando cercava di mettere insieme i pensieri. «Hai detto che hanno trovato
la tomba meno di un’ora fa, giusto? Perciò tra pochissimo raggiungeranno la sala del trono
e si scontreranno con il lich. Ma cosa credi che possa succedere se più avatar entrano
contemporaneamente nella camera mortuaria?» Mi rivolsi a Daito e a Shoto. «I vostri nomi
sono apparsi sul Segnapunti lo stesso giorno, a pochi minuti di distanza. Siete entrati nella
sala del trono insieme, vero?» Daito annuì. «Sì, e quando siamo entrati, due copie del re
sono comparse sulla pedana, una per ciascuno.»
«Fantastico» disse Art3mis. «Perciò è possibile che centinaia di Sixer cerchino, nello stesso
momento, di impossessarsi della Chiave di Rame. Potrebbero essercene migliaia.»
«Sì» disse Shoto. «Ma per ottenere la chiave, ogni Sixer deve battere il lich a Joust, e tutti
noi sappiamo che non è semplice.»
«I Sixer usano un’attrezzatura modificata» dissi. «Sorrento se ne è vantato con me.
Funziona in modo tale che utenti diversi possono controllare le azioni di tutti i loro avatar.
Quindi possono passare i comandi degli avatar ai più esperti giocatori di Joust, durante la
partita contro Acererak. Uno dopo l’altro.»
«Bastardi imbroglioni» ripeté Aech.
«I Sixer non conoscono l’onore» disse Daito, scuotendo la testa.
«Puoi dirlo forte» disse Art3mis, alzando gli occhi al cielo.
«E c’è di peggio» dissi. «Ogni Sixer ha una squadra di supporto composta da studiosi di
Halliday, esperti di videogiochi, crittologi, che sono lì apposta per aiutarli a vincere ogni
sfida e a risolvere ogni enigma che si trovano ad affrontare. Per loro, la simulazione di
Wargames sarà un gioco da ragazzi. Qualcuno li imbeccherà con le battute.»
«Incredibile» brontolò Aech. «E come potremmo mai competere con tutto ciò?»
«Non possiamo» disse Art3mis. «Non appena troveranno la Chiave di Rame,
probabilmente localizzeranno la Prima Porta in breve tempo, come noi. E non ci
metteranno molto a raggiungerci. E una volta trovato l’indovinello della Chiave di Giada,
spremeranno le loro teste d’uovo ventiquattr’ore su ventiquattro per riuscire a decifrarlo.»
«E se scoprono il nascondiglio della Chiave di Giada prima di noi, sbarreranno anche
quello» dissi. «E noi cinque ci troveremo nella stessa barca con tutti gli altri.» Art3mis
annuì. Scoraggiato, Aech diede un calcio al tavolino. «Non è giusto per un cavolo» disse.
«I Sixer hanno un vantaggio enorme su tutti noi. Hanno un’infinita scorta di denaro, armi,
astronavi e avatar. Ce ne sono migliaia, e lavorano tutti insieme.»
«Giusto» dissi. «E noi tutti lavoriamo da soli. Be’, fatta eccezione per voi due» indicai
Daito e Shoto. «Ma capite cosa intendo. Ci schiacciano, quanto a numero e a munizioni, e
non credo che la situazione cambierà.»
«Cosa ci stai proponendo?» chiese Daito. Improvvisamente sembrava preoccupato.
«Niente» dissi. «Dico solo come stanno le cose, per come la vedo io.»
«Bene» disse Daito. «Perché mi sembrava che volessi proporre una specie di alleanza tra
noi cinque.» Aech lo studiò attentamente. «E se fosse? Sarebbe un’idea così terribile?»
«Assolutamente sì» disse Daito seccamente. «Io e mio fratello cacciamo da soli. Non
vogliamo né abbiamo bisogno del vostro aiuto.»
«Oh, ma davvero?» disse Aech. «Un minuto fa avete ammesso di aver avuto bisogno
dell’aiuto di Parzival per trovare la Tomba degli orrori.» Daito socchiuse le palpebre.
«L’avremmo trovata da soli, prima o poi.»
«Ah, giusto» disse Aech. «Probabilmente ci avreste messo altri cinque anni.»
«Dài, Aech» dissi, mettendomi in mezzo. «Tutto questo non serve a niente.» Aech e Daito
si fissarono in cagnesco, silenziosi, con Shoto che guardava suo fratello, incerto sul da
farsi. Art3mis si era fatta da parte e osservava la scena, quasi divertita.
«Non siamo venuti qui per essere insultati» disse infine Daito. «Ce ne andiamo.»
«Aspetta, Daito» dissi io. «Aspetta soltanto un momento. Parliamone. Non dovremmo
lasciarci da nemici. Siamo tutti dalla stessa parte, qui dentro.»
«No» disse Daito. «Non è vero. Siete tutti sconosciuti, per noi. Per quanto ne sappiamo,
chiunque tra voi potrebbe essere una spia Sixer.» Nel sentirlo, Art3mis rise a squarciagola,
poi si coprì la bocca. Daito la ignorò. «Non ha senso» disse. «Solo una persona può essere
trovare l’Egg per prima e vincere il premio. E quella persona sarò io, o sarà mio fratello.» E
con quest’ultima frase, Daito e Shoto si scollegarono bruscamente.
«Be’, non poteva andare meglio» concluse Art3mis, una volta che i loro avatar erano
svaniti.
Annuii. «Come no, è filato tutto liscio, Aech. Bravo, è così che ci si fa degli alleati.»
«Ma cosa ho fatto?» disse, tenendosi sulla difensiva. «Daito si stava comportando da
perfetto stronzo! E poi, non è che gli stessimo chiedendo di unirsi a noi. Io sono un solista
per scelta. E anche tu. E Art3mis, anche lei mi sembra un lupo solitario.»
«Mi hai scoperta» disse lei, sorridendo. «Comunque sia, vale la pena di discutere se
formare o no un’alleanza contro i Sixer.»
«Forse» disse Aech. «Ma pensaci un istante. Se trovassi la Chiave di Giada prima di noi
due, saresti generosa e verresti a dirci dov’è?» Art3mis gli lanciò un sorrisetto.
«Ovviamente no.»
«Neanch’io» disse Aech. «Perciò non ha senso discutere di un’alleanza.» Art3mis fece
spallucce. «Be’, allora a quanto pare la riunione è chiusa. Credo che dovrei andarmene.»
Mi fece l’occhiolino. «Il tempo corre veloce. Non è vero, ragazzi?»
«Tic tac» dissi io.
«Buona fortuna, compari.» Ci salutò entrambi. «Ci vediamo in giro.»
«Ci vediamo» rispondemmo all’unisono.
Guardai il suo avatar scomparire lentamente, poi mi voltai verso Aech, che mi sorrideva.
«Cos’hai da sorridere?» gli domandai.
«Sei cotto di lei, non è vero?»
«Che? Di Art3mis? No…»
«Non negarlo, Z. Le hai fatto gli occhi dolci per tutto il tempo che è rimasta qui.» Cercò di
imitarmi, portandosi le mani al petto e sbattendo le ciglia come una star del cinema muto.
«Ho registrato tutta la chat. Vuoi che te la faccia rivedere, così puoi capire quanto
sembravi stupido?»
«Smettila di fare lo stronzo.»
«È comprensibile, amico» disse Aech. «Quella ragazza è ultracarina.»
«Allora, hai fatto progressi con il nuovo indovinello?» dissi, cambiando deliberatamente
argomento. «La quartina della Chiave di Giada?»
«La quartina?»
«Una poesia o strofa con quattro versi e uno schema a rime alternate o baciate» ripetei. «Si
dice quartina.» Aech alzò gli occhi al cielo. «Quante ne sai, eh, amico.»
«Che c’è? È la definizione esatta, cazzoncello.»
«È soltanto un indovinello, amico. E no. Nessun passo avanti.»
«Neanch’io» gli risposi. «Perciò non dovremmo star qui a girarci i pollici e blaterarci
addosso. È ora di metterci al lavoro.»
«Concordo» disse. «Ma…» In quel momento, un mucchio di fumetti, al lato opposto della
stanza, scivolò giù dal tavolo su cui era stato impilato e crollò al suolo, come se qualcosa li
avesse urtati. Io ed Aech sobbalzammo, poi ci scambiammo uno sguardo confuso.
«Che diavolo è stato?» chiesi.
«Non saprei.» Aech si avvicinò ed esaminò i fumetti, sparsi al suolo. «Forse un problema
del software o qualcosa di simile?»
«Non ho mai visto niente di simile, in chat.» Dissi, scrutando la stanza vuota. «È possibile
che ci sia qualcuno? Un avatar invisibile che origlia la nostra conversazione?» Aech alzò
gli occhi al cielo. «Non è possibile, Z. Stai diventando un po’ troppo paranoico. È una
chatroom privata e criptata. Nessuno può entrare senza il mio permesso. E lo sai bene.»
«D’accordo» dissi, ancora inquieto.
«Rilassati, è stato un problema tecnico.» Mi poggiò una mano sulla spalla. «Senti.
Dimmelo, se cambi idea su quel prestito. O se hai bisogno di un posto dove stare. Ok?»
«Starò bene» gli dissi. «Ma grazie lo stesso, amigo.» Ci battemmo i pugni un’altra volta,
come i Wonder Twins quando attivano i loro poteri.
«Ci sentiamo dopo. Buona fortuna, Z.»
«Buona fortuna a te, Aech.»

0016
Poche ore dopo, le caselle vuote del Segnapunti iniziarono a riempirsi, una dopo l’altra, in
rapida successione. Non erano nomi di avatar, ma numeri di matricola dei dipendenti IOI.
Comparivano tutti con cinquemila punti (che era ormai il valore fisso della Chiave di
Rame) e, un paio d’ore più tardi, il punteggio di ciascuno schizzava su di altri centomila
punti, segno che quel Sixer aveva superato la Prima Porta. Alla fine della giornata, la
situazione sul Segnapunti era questa:
PUNTEGGI:
1. Parzival 110.000
2. Art3mis 109.000
3. Aech 108.000
4. Daito 107.000
5. Shoto 106.000
6. IOI-655321 105.000
7. IOI-643187 105.000
8. IOI-621671 105.000
9. IOI-678324 105.000
10. IOI-637330 105.000
Riconobbi subito il primo numero di matricola perché lo avevo visto stampato
sull’uniforme di Sorrento. Probabilmente Sorrento aveva fatto sì che il suo avatar fosse il
primo a ottenere la Chiave di Rame e a superare la Prima Porta. Dubitavo che ce l’avesse
fatta da solo. Non era possibile che fosse così bravo a Joust. O che conoscesse Wargames a
memoria. Ma sapevo che non avrebbe avuto bisogno di tali competenze. Quando si
trovava di fronte a una sfida che non era in grado di gestire, come vincere a Joust, poteva
passare i comandi del suo avatar a uno dei suoi sottoposti. E durante il sincrofilm di
Wargames, probabilmente qualcuno gli aveva suggerito le battute, una per una.
Quando tutte le caselle furono piene, il Segnapunti iniziò ad allungarsi, per lasciare spazio
alle posizioni inferiori alla decima. In breve tempo, sul Segnapunti comparvero venti
avatar. Poi trenta. In altre ventiquattr’ore, più di sessanta Sixer avevano superato la Prima
Porta.
Nel frattempo, Ludus era diventata la destinazione più popolare di tutto OASIS. Le
stazioni di teletrasporto sputavano fuori un flusso di Gunter che poi si sparpagliavano per
tutto il pianeta, portando il caos e interrompendo le lezioni in ogni campus. Il Consiglio
della scuola pubblica di OASIS colse il presagio e prese in fretta la decisione di evacuare
Ludus e trasportare tutte le scuole in una nuova sede. Ludus II, una copia identica del
pianeta, fu creato nello stesso settore, a breve distanza dall’originale. A tutti gli studenti
venne dato un giorno libero, mentre il codice sorgente del pianeta originario veniva
copiato sulla nuova area (eccezion fatta per il codice della Tomba degli orrori, che
Halliday aveva aggiunto in segreto). Il giorno successivo le lezioni ripresero su Ludus II, e
Ludus venne lasciato in balìa dei Gunter e dei Sixer.
Presto si diffuse la notizia che i Sixer si erano accampati intorno a una collinetta dalla cima
smussata, al centro di una foresta lontana. Quella sera, sui forum, venne segnalato il luogo
esatto in cui si trovava la tomba, corredato da screenshot che mostravano il campo di forza
montato dai Sixer per tenere lontani gli altri. Gli screenshot mostravano, altrettanto
chiaramente, il teschio che le pietre disegnavano in cima alla collina. In poche ore, il
collegamento con il modulo della Tomba degli orrori fu postato su tutti i forum di Gunter.
Poi raggiunse i media.
Tutti i più estesi clan di Gunter si riunirono per distruggere o eludere, con un assalto su
tutti i fronti, il campo di forza dei Sixer. I Sixer avevano installato dispositivi che
impedissero il teletrasporto con mezzi tecnologici all’interno del campo di forza.
Tutt’intorno alla tomba, avevano appostato una squadra di maghi di alto livello che
gettavano incessantemente incantesimi per mantenere l’area incapsulata in una zona a
zero–magia. Ciò impediva che i campi di forza venissero aggirati con strumenti magici.
I clan cominciarono a bombardare il campo di forza esterno con razzi, missili, testate
nucleari e insulti. Tennero la tomba sotto assedio per tutta la notte ma, la mattina
seguente, entrambi i campi di forza erano ancora intatti.
Estenuati, i clan decisero di sfoderare l’artiglieria pesante. Unirono le proprie risorse e
comprarono su eBay due bombe d’antimateria molto costose e molto potenti. Le fecero
esplodere in sequenza, a pochi secondi l’una dall’altra. La prima bomba distrusse lo scudo
esterno, la seconda bomba finì il lavoro. Nell’istante in cui il secondo campo di forza
crollò, migliaia di Gunter (tutti usciti indenni dall’esplosione, trovandosi in zona non–PvP)
si infilarono nella tomba e intasarono i corridoi del sotterraneo. Ben presto, migliaia di
Gunter (e Sixer) si ammassarono nella camera mortuaria, pronti a sfidare il re lich a Joust.
Comparvero molteplici copie del re, una per ciascun avatar che metteva piede sulla
pedana. Il novantacinque per cento dei Gunter che lo sfidarono perse e fu ucciso. Ma
alcuni Gunter ne uscirono vittoriosi e, in fondo al Segnapunti, sotto ai Cinque Grandi e
alle decine di numeri di matricola IOI, cominciarono ad apparire nuovi nomi di avatar. In
pochi giorni, la lista degli avatar sul Segnapunti aveva superato i cento nomi.
Ora che la zona era piena di Gunter, ai Sixer risultò impossibile ripristinare il campo di
forza. I Gunter avevano iniziato ad attaccarli e a distruggere le loro astronavi e tutto ciò
che era possibile distruggere. E così, i Sixer riunciarono alla loro barricata, ma
continuarono a mandare avatar nella Tomba degli orrori perché si accaparrassero sempre
più copie della Chiave di Rame. Nessuno poteva fare niente per fermarli.
Il giorno dopo l’esplosione tra le cataste, comparve un breve articolo sui feed di
notizie della mia città. C’era un filmato di volontari che setacciavano le rovine in cerca di
resti umani. Ciò che trovarono non poté essere identificato.
A quanto pareva, i Sixer avevano piazzato sulla scena del crimine sostanze e attrezzature
per raffinare la droga, perché sembrasse che un laboratorio di metanfetamine fosse esploso
in uno dei prefabbricati. Funzionò a meraviglia. La polizia non si preoccupò di condurre
ulteriori indagini. Le cataste rimaste in piedi intorno alla pila di container carbonizzati e
schiacciati erano così numerose che sarebbe stato troppo pericoloso eliminare le macerie
con una delle vecchie gru. Lasciarono le rovine lì dov’erano, al suolo, ad arrugginire
lentamente.
Non appena arrivò il mio primo pagamento per le pubblicità, comprai un biglietto solo
andata per Columbus, in Ohio. Il pullman sarebbe partito alle otto, la mattina seguente.
Spesi qualche soldo in più per avere un posto in prima classe, che includeva un sedile più
comodo e una connessione a banda larga. Volevo trascorrere il mio lungo viaggio verso
Est collegato a OASIS.
Una volta prenotato il viaggio, feci l’inventario di tutto ciò che avevo nel nascondiglio e
infilai quello che volevo portare in un vecchio zaino. La mia console OASIS, il visore, i
guanti. La mia copia cartacea, tutta spiegazzata, dell’Almanacco di Anorak. Il diario del
Graal. Qualche vestito. Il mio portatile. Tutto il resto lo lasciai.
Quando si fece buio, mi arrampicai fuori dal furgone, lo richiusi e gettai la chiave nella
pila di rottami. Poi mi caricai lo zaino sulle spalle e uscii dalle cataste per l’ultima volta.
Non mi guardai indietro.
Mi tenni sulle vie più affollate e riuscii a evitare di essere rapinato sulla strada per la
stazione degli autobus. Proprio accanto all’ingresso si trovava uno sportello di servizio
clienti ammaccato che, dopo una breve scansione della mia retina, sputò fuori il mio
biglietto. Mi sedetti alla fermata e lessi la mia copia dell’Almanacco finché non fu ora di
salire sul pullman.
Era a due piani, corazzato, con vetri antiproiettile e pannelli solari sul tetto. Era una
fortezza su ruote. Il mio sedile era accanto al finestrino, a due file dall’autista, che guidava
incastrato in un cubicolo di plexiglas antiproiettile. Al piano superiore, una squadra di sei
guardie armate fino ai denti avrebbe protetto il veicolo e i suoi passeggeri in caso di
dirottamento da parte di banditi o sciacalli: possibilità concreta, una volta che ci fossimo
avventurati nei deserti senza legge che erano andate formandosi al di fuori delle grandi
città.
I sedili del pullman erano tutti occupati. Quasi tutti i passeggeri indossarono i loro visori
non appena si sedettero. Io, comunque, aspettai un po’ prima di metterlo. Abbastanza per
osservare la mia città natale svanire, sulla strada che ci lasciavamo alle spalle, mentre ci
addentravamo nel mare di turbine eoliche che la circondavano.
Il motore elettrico raggiungeva una velocità massima di sessantacinque chilometri all’ora
ma, a causa del deterioramento del manto autostradale e delle numerose fermate che il
pullman doveva fare alle stazioni di ricarica, lungo la strada, mi ci vollero molti giorni per
raggiungere la destinazione. Passai quasi tutto il tempo connesso a OASIS, preparandomi
a iniziare una nuova vita.
La cosa più importante era crearmi una nuova identità. Non era difficile, ora che avevo
qualche soldo. Su OASIS potevi comprare qualsiasi tipo di informazione, se sapevi dove
cercarla e a chi chiedere, e se non ti dispiaceva infrangere la legge. Il mondo pullulava di
individui che lavoravano per il governo (e per le grandi corporation), corrotti e pronti a
tutto, che spesso vendevano informazioni sul mercato nero di OASIS.
La mia nuova posizione di Gunter di fama internazionale mi conferiva grande credibilità
nel mondo della malavita, il che mi consentì l’accesso alL33T haxorz warezhaus, sito
altamente esclusivo di aste di dati; per una somma sorprendentemente ridotta, riuscii a
comprare una serie di procedure d’accesso e password dell’USCR (il Registro dei Cittadini
degli Stati Uniti), grazie alle quali riuscii ad accedere al database e al profilo che era stato
creato quando mi ero iscritto a scuola. Cancellai le mie impronte digitali e i campioni
retinei e li rimpiazzai con quelli di un morto (mio padre). Poi inserii le mie impronte e i
miei campioni retinei in un nuovo profilo che avevo creato sotto il nome di Bryce Lynch. Il
mio Bryce aveva ventidue anni e gli diedi un numero di previdenza sociale nuovo di
zecca, un’impeccabile affidabilità creditizia e una laurea in Informatica. Quando avessi
voluto ritornare me stesso, non avrei dovuto far altro che cancellare l’identità di Lynch e
copiare di nuovo le mie vere impronte e campioni retinei sul vecchio file.
Una volta creata la mia nuova identità, cominciai a cercare tra gli annunci economici di
Columbus un appartamento adeguato, e trovai una stanza relativamente economica in un
vecchio hotel–grattacielo, un’antica reliquia dei tempi in cui la gente viaggiava ancora, per
diletto o per affari. Le stanze erano state tutte riconvertite in monolocali, e ogni
appartamento era stato ristrutturato per venire incontro ai bisogni dei Gunter a tempo
pieno. Aveva tutto ciò che mi serviva. Un affitto basso, un buon sistema di sorveglianza e
l’accesso garantito alla porzione di elettricità che potevo permettermi. E, ancora più
importante, offriva una connessione in fibra ottica al server principale di OASIS, che si
trovava a pochi chilometri di distanza. Si trattava della connessione internet più veloce e
sicura sulla piazza e, poiché non era fornita dalla IOI o da una delle sue consociate, non
avrei avuto paranoie sulla possibilità che stessero monitorando la mia connessione o che
stessero cercando di rintracciarmi. Sarei stato al sicuro.
Chattai con un agente immobiliare che mi mostrò un modello virtuale del mio nuovo
alloggio. Sembrava perfetto. Affittai la stanza con il nuovo nome e pagai sei mesi di
anticipo. Dopodiché, l’agente non ritenne necessario fare altre domande.
Di tanto in tanto, a notte fonda, quando il pullman ronzava lentamente sulla strada
sgretolata, mi toglievo il visore e guardavo fuori dal finestrino. Non ero mai uscito da
Oklahoma City, ed ero curioso di sapere come fosse il resto del Paese. Ma il paesaggio era
sempre desolato e ogni città decadente e sovraffollata somigliava all’ultima che avevamo
passato.
E infine, quando sembrava che avessimo strisciato lungo l’autostrada per mesi, il profilo
della città di Columbus apparve all’orizzonte, scintillante come Oz in fondo alla strada di
mattoni gialli. Arrivammo al tramonto, e nella città splendevano già più luci elettriche di
quante ne avessi mai viste insieme. Avevo letto che in tutta la città erano stati piazzati
enormi pannelli solari e due centrali solari in periferia. Per tutto il giorno si bevevano
l’energia del sole, la conservavano e, ogni notte, la risputavano fuori.
Quando accostammo nella stazione degli autobus di Columbus, la mia connessione OASIS
cadde. Mentre mi toglievo il visore e mi mettevo in fila, con gli altri passeggeri, per
scendere dal pullman, iniziai a percepire la situazione nella sua brutale concretezza. Ero
diventato un fuggitivo e vivevo sotto falso nome. C’erano persone potenti che mi stavano
cercando. Persone che mi volevano morto.
Scendendo dal pullman, mi sentii come schiacciato da un peso insormontabile. Facevo
fatica a respirare. Forse stavo per avere un attacco di panico. Mi obbligai a fare dei respiri
profondi e cercai di calmarmi. Dovevo soltanto raggiungere il mio nuovo appartamento,
sistemare l’attrezzatura e ricollegarmi a OASIS. Poi tutto si sarebbe sistemato. Mi sarei
trovato in un ambiente familiare. Sarei stato al sicuro.
Chiamai un taxi automatico e inserii sullo schermo tattile il mio nuovo indirizzo. La voce
elettronica mi disse che il viaggio avrebbe richiesto all’incirca trentadue minuti, nelle
attuali condizioni di traffico. Durante la corsa, guardai dal finestrino le strade buie della
città. Mi sentivo ancora nervoso e stordito. Continuavo a guardare il tassametro, per capire
quanta strada avevamo ancora da fare. Poi, il taxi accostò di fronte al mio nuovo
condominio, un monolite in ardesia sulla riva dello Scioto, proprio al confine con il ghetto
di Twin Rivers. Sulla facciata notai una sagoma scolorita dove, ai tempi in cui l’edificio era
ancora un hotel, campeggiava l’insegna dell’Hilton.
Con il pollice inviai il mio pagamento e poi scesi dal taxi. Diedi un’ultima occhiata in giro,
inalai un’ultima boccata d’aria fresca, e trasportai il mio zaino oltre la porta principale,
fino all’atrio. Quando entrai nella gabbia di controllo, mi scansionarono la retina e le
impronte digitali, e il mio nuovo nome comparve sul monitor. Una luce verde si accese e
l’ingresso della gabbia si aprì, permettendomi di proseguire fino all’ascensore.
Il mio appartamento si trovava al quarantaduesimo piano, al numero 4211. La serratura di
sicurezza fuori dalla porta richiedeva un’altra scansione della retina. Poi la porta si
spalancò e le luci si accesero. Nella stanza cuboidale non c’erano mobili, e c’era solo una
finestra. Entrai, mi richiusi la porta alle spalle e la serrai. Poi feci giuramento, in silenzio,
che non sarei uscito finché non avessi completato la missione. Finché non avessi trovato
l’Egg avrei abbandonato completamente il mondo reale.

LIVELLO DUE
«Non è che vada pazzo per la realtà, ma rimane
l’unico posto dove mangiare un pasto decente.»
Groucho Marx
0017
Art3mis: Ci sei?
Parzival: Sì! Ciao! Non posso crederci, finalmente hai risposto a una delle mie richieste di
chat.
Art3mis: Solo per chiederti di smetterla. Non è una buona idea iniziare a chattare.
Parzival: Perché? Pensavo fossimo amici.
Art3mis: Mi sembri un bravo ragazzo. Ma siamo in concorrenza. Siamo Gunter rivali.
Nemici giurati. Sai come vanno queste cose.
Parzival: Ma non dobbiamo per forza parlare di qualcosa che sia legato alla Caccia…
Art3mis: Tutto è legato alla Caccia.
Parzival: Dài, per piacere. Facciamo una prova, almeno. Ricomincio. Ciao Art3mis, come te
la passi?
Art3mis: Bene. Grazie. Tu?
Parzival: A meraviglia. Senti, perché usiamo quest’antidiluviana interfaccia solo testo?
Posso permettermi una stanza tutta per noi.
Art3mis: Preferisco così.
Parzival: Perché?
Art3mis: Come ricorderai, dal vivo tendo a parlare a vanvera. Quando mi tocca scrivere
quello che voglio dire, ne esco meno petulante.
Parzival: Non penso che tu sia petulante. Sei incantevole.
Art3mis: Hai appena usato il termine «incantevole»?
Parzival: Quello che ho scritto ce l’hai di fronte, no?
Art3mis: Sei molto gentile. Ma dici una marea di stronzate.
Parzival: Sono totalmente, assolutamente serio.
Art3mis: E allora? Come va la vita in vetta al Segnapunti, pezzo grosso? Ti sei già stancato
di essere famoso?
Parzival: Non mi sento famoso.
Art3mis: Scherzi? Tutto il mondo muore dalla voglia di scoprire chi sei. Sei una rockstar,
amico mio.
Parzival: Tu sei famosa quanto me. E se è vero che sono una rockstar, com’è che i media
mi ritraggono sempre come un nerd puzzone che non esce mai di casa?
Art3mis: Immagino, allora, tu abbia visto quello sketch su di noi che hanno fatto al
Saturday Night Live.
Parzival: Sì. Perché tutti credono che io sia uno squilibrato asociale?
Art3mis: Non sei asociale?
Parzival: No! Forse un po’. Ok, sì. Ma la mia igiene personale è impeccabile.
Art3mis: Se non altro, nel tuo caso hanno imbroccato il sesso. Tutti sono convinti che io sia
un uomo, nel mondo reale.
Parzival: Questo perché quasi tutti i Gunter sono maschi e non accettano l’idea che una
donna li abbia battuti o si sia dimostrata più intelligente di loro.
Art3mis: Lo so. Sono dei Neanderthal.
Parzival: Con questo, in definitiva, mi vuoi dire che nella vita vera sei una femmina?
Art3mis: Avresti già dovuto capirlo un po’ di tempo fa, Clouseau.
Parzival: L’avevo fatto. L’ho fatto.
Art3mis: Ah sì?
Parzival: Sì. Dopo aver analizzato tutti i dati a disposizione, sono giunto alla conclusione
che devi essere una femmina.
Art3mis: E perché dovrei?
Parzival: Perché non voglio scoprire di avere una cotta per un tizio di 130 chili che si
chiama Chuck e vive nel seminterrato di sua madre alla periferia di Detroit.
Art3mis: Hai una cotta per me?
Parzival: Avresti già dovuto capirlo un po’ di tempo fa, Clouseau.
Art3mis: E se fossi una tizia di 130 chili che si chiama Charlene e vive nel seminterrato di
sua madre alla periferia di Detroit? Avresti comunque una cotta per me?
Parzival: Non lo so. Vivi nel seminterrato di tua madre?
Art3mis: No.
Parzival: Sì. Allora, probabilmente, continuerei ad avere una cotta per te.
Art3mis: E quindi dovrei credere che sei una di quelle creature mitologiche alle quali
interessa solo la personalità di una donna e non la confezione in cui è servita?
Parzival: Cosa ti fa pensare che io sia un uomo?
Art3mis: Dài. È ovvio. Non mi mandi che vibrazioni maschili.
Parzival: Vibrazioni maschili? In che modo? Uso strutture sintattiche virili?
Art3mis: Non cambiare argomento. Dicevi di avere una cotta per me?
Parzival: Ho una cotta per te da prima che ci incontrassimo. Da quando ho iniziato a
leggere il tuo blog e ad apprezzare il tuo modo di pensare. È da anni che sono il tuo stalker
virtuale.
Art3mis: Ma non sai quasi niente di me. O della mia vera personalità.
Parzival: Questo è OASIS. Non siamo altro che nuda personalità, qui.
Art3mis: Mi permetto di dissentire. Tutto, delle nostre personalità online, viene filtrato dai
nostri avatar, il che ci permette di controllare il nostro aspetto e la nostra voce quando
siamo a contatto con gli altri. OASIS ti permette di essere chi vuoi essere. È per questo che
è diventato una droga per chiunque.
Parzival: Quindi nella vita reale non sei neanche lontanamente simile alla persona che ho
incontrato quella sera nella tomba?
Art3mis: Quello era solo uno dei miei lati. Il lato che ho scelto di mostrarti.
Parzival: Be’, quel lato mi è piaciuto. E, se mi mostrassi anche gli altri, sono sicuro che mi
piacerebbero altrettanto.
Art3mis: Lo dici così. Ma sai come funzionano queste cose. Prima o poi mi chiederai di
vedere una fotografia della vera me.
Parzival: Non sono uno che avanza troppe richieste. E poi, di sicuro non ti mostrerò una
mia foto.
Art3mis: Perché? Sei orrendo?
Parzival: Che ipocrita!
Art3mis: Quindi? Rispondi alla mia domanda, Claire. 11Sei brutto?
Parzival: Così pare.
Art3mis: Perché?
Parzival: Le femmine della mia specie mi hanno sempre trovato repellente.
Art3mis: Io non ti trovo repellente.
Parzival: Ovvio. Perché sei un obeso di nome Chuck e ti piace adescare i ragazzini su
internet.
Art3mis: Sei un ragazzino, quindi?
Parzival: Relativamente.
Art3mis: Relativamente a cosa?
Parzival: A un cinquantatreenne come te, Chuck. Tua mamma te lo fa pagare, l’affitto del
seminterrato, o che?
Art3mis: Hai davvero questa opinione di me?
Parzival: Se l’avessi, non starei chattando con te in questo momento.
Art3mis: Come ti immagini che sia, allora?
Parzival: Come il tuo avatar, credo. A parte… sai, l’armatura, le pistole, e la spada
luccicante… Art3mis: Scherzi, vero? Questa è la prima regola delle relazioni amorose
online, amico: nessuno somiglia mai al proprio avatar.
Parzival: Avremo una relazione amorosa online? <incrocia le dita> Art3mis: No
davvero, campione. Spiacente.
Parzival: Perché no?
Art3mis: Non c’è tempo per l’amore, dottor Jones. 12 La mia ossessione per il cyberporno mi
prende quasi tutto il tempo libero. E la ricerca della Chiave di Giada si prende il resto.
Anzi, ora che ci penso, in questo momento dovrei dedicarmi proprio a quella.
Parzival: Sì. Anch’io. Ma parlare con te è più divertente.
Art3mis: E tu?
Parzival: E io cosa?
Art3mis: Tempo per una relazione amorosa online ce l’hai?
Parzival: Ho tempo per te.

11 Citazione da Breakfast Club di John Hughes (1985). [N.d.T.]


12 Citazione da Indiana Jones e il tempio maledetto (1984). [N.d.T.]
Art3mis: Esagerato.
Parzival: E non sto nemmeno calcando la mano, per ora.
Art3mis: Hai un lavoro? O vai ancora a scuola?
Parzival: Liceo. Settimana prossima mi diplomo.
Art3mis: Non dovresti rivelarmi roba del genere. Potrei essere una spia Sixer che vuole
schedarti.
Parzival: I Sixer mi hanno già schedato, dimentichi? Mi hanno fatto saltare in aria la casa.
Anzi, era un container. Ma l’hanno fatto saltare comunque.
Art3mis: Lo so. Sono ancora sconvolta. Non riesco a immaginare come puoi sentirti.
Parzival: La vendetta è un piatto che va servito freddo.
Art3mis: Bon appétit. Cosa fai quando non cacci?
Parzival: Mi rifiuto di rispondere ad altre domande finché non cominci anche tu a
ricambiare.
Art3mis: Bene. Do ut des, dottor Lecter. Facciamo a turno con le domande. Comincia tu.
Parzival: Lavori o vai a scuola?
Art3mis: College.
Parzival: Cosa studi?
Art3mis: È il mio turno. Cosa fai quando non cacci?
Parzival: Niente. Cacciare è l’unica cosa che faccio. Sto facendolo anche in questo
momento, in realtà. Multi–tasking a piene mani.
Art3mis: Vale anche per me.
Parzival: Davvero? Allora terrò d’occhio il Segnapunti. Per sicurezza.
Art3mis: D’accordo, campione.
Parzival: Cosa studi al college?
Art3mis: Poesia e scrittura creativa.
Parzival: Tutto torna. Scrivi in modo fenomenale.
Art3mis: Grazie del complimento. Quanti anni hai?
Parzival: Ne ho compiuti diciotto il mese scorso. Tu?
Art3mis: Non credi che stiamo andando un po’ troppo sul personale?
Parzival: Neanche alla lontana.
Art3mis: 19.
Parzival: Ah. Una donna più grande. Sexy.
Art3mis: Sempre che io sia una donna.
Parzival: Sei una donna?
Art3mis: Non è il tuo turno.
Parzival: Hai ragione.
Art3mis: Da quanto conosci Aech?
Parzival: È il mio migliore amico da cinque anni. Ora sputa il rospo. Sei una donna? E con
questo intendo una femmina umana che non abbia mai subito un’operazione di cambio di
sesso.
Art3mis: Piuttosto specifico.
Parzival: Rispondi alla mia domanda, Claire.
Art3mis: Sono e sono sempre stata una femmina umana. Hai mai incontrato Aech nella
vita reale?
Parzival: No. Hai fratelli?
Art3mis: No. E tu?
Parzival: Nah. Hai i genitori?
Art3mis: Morti. Influenza. Sono cresciuta con i nonni. Tu, genitori?
Parzival: No, morti anche i miei.
Art3mis: È un po’ una merda, vero? Non avere i genitori.
Parzival: Sì. Ma c’è chi sta peggio di me.
Art3mis: È la stessa cosa che cerco sempre di ripetermi. Ma… tu ed Aech lavorate in
coppia?
Parzival: Oh, rieccoci.
Art3mis: Be’? Sì o no?
Parzival: Mi ha fatto la stessa domanda su di te, sai. Perché hai superato la Prima Porta a
poche ore di distanza da me.
Art3mis: Il che mi fa venire in mente una cosa: perché mi hai dato quel consiglio? Sul
cambiare lato, a Joust?
Parzival: Volevo darti una mano.
Art3mis: Be’, non dovresti rifare quell’errore. Perché sarò io a vincere. Lo sai, vero?
Parzival: Sì, sì. Vedremo.
Art3mis: Ti stai facendo fregare, scemotto. Sei indietro tipo di cinque domande.
Parzival: Brava. Di che colore hai i capelli? Nella vita reale.
Art3mis: Castani.
Parzival: Gli occhi?
Art3mis: Azzurri.
Parzival: Come il tuo avatar, eh? Hai anche la stessa faccia e lo stesso corpo?
Art3mis: Per quanto ti riguarda, sì.
Parzival: Ok. Film preferito? In assoluto?
Art3mis: Cambia sempre. In questo momento? Forse Highlander.
Parzival: Ha dei gran bei gusti, signorina.
Art3mis: Lo so. Ho un debole per i pelatoni malefici. Kurgan è troppo sexy.
Parzival: Vado a rasarmi i capelli. Già che ci sono comincio a mettermi vestiti di pelle.
Art3mis: Poi mandami le foto. Senti, tra poco devo andarmene, Romeo. Puoi farmi
un’ultima domanda. Poi devo dormire un po’.
Parzival: Quando possiamo chattare di nuovo?
Art3mis: Dopo che uno di noi due avrà trovato l’Egg.
Parzival: Ma potremmo metterci anni.
Art3mis: E sia.
Parzival: Posso comunque continuare a mandarti delle email?
Art3mis: Non è una bella idea.
Parzival: Non puoi impedirmi di mandarti email.
Art3mis: In realtà sì. Posso bloccarti nella mia lista di contatti.
Parzival: Però non lo faresti, vero?
Art3mis: Non se non mi costringi.
Parzival: Acida. Non ce n’era bisogno.
Art3mis: Buona notte, Parzival.
Parzival: Addio, Art3mis. Sogni d’oro. fine chatlog. 27.2.2045 – 02:51:38 OST
Cominciai a mandarle delle email. Sulle prime lo feci con moderazione, e le scrissi solo
una volta a settimana. Con mia sorpresa, non mancò mai di rispondere. In genere solo con
una frase, dicendo che era troppo impegnata per scrivermi. Ma poi le sue risposte si
allungarono ed ebbe inizio una vera e propria corrispondenza. Dapprima, un paio di volte
a settimana. Poi, via via che le nostre email si allungavano e diventavano sempre più
personali, iniziammo a scriverci almeno una volta al giorno. Spesso anche di più. Quando
ricevevo una sua email, abbandonavo tutto quello che stavo facendo per leggerla.
In breve tempo iniziammo a incontrarci quotidianamente in sessioni private di chat.
Giocavamo a vecchi giochi da tavolo, guardavamo film, ascoltavamo musica. Parlavamo
per ore. Facevamo lunghe conversazioni deliranti su qualsiasi argomento. Passare il tempo
insieme a lei era per me una droga. Avevamo tante di quelle cose in comune. Gli stessi
interessi. Lo stesso obiettivo. Capiva tutte le mie battute. Mi faceva riflettere. Mi faceva
vedere il mondo in maniera diversa. Non avevo mai avuto un legame così forte e
immediato con un altro essere umano prima d’allora. Neanche con Aech.
Non ero più preoccupato del fatto che, in teoria, fossimo rivali, e sembrava che lei la
vedesse allo stesso modo. Iniziammo a scambiarci i dettagli della nostra ricerca. Ci
confidavamo i titoli dei film che guardavamo e dei libri che leggevamo. Iniziammo
persino a scambiarci teorie, a discutere delle nostre interpretazioni di determinati passaggi
dell’Almanacco. Non riuscivo a essere cauto, con lei. Una flebile voce nella mia testa
continuava a ripetermi che ogni parola che lei mi diceva avrebbe potuto essere
disinformazione, che era possibile che lei si stesse approfittando di me. Ma non ci credevo.
Mi fidavo di lei, anche se avevo tutte le ragioni per diffidare.
I primi giorni di giugno mi diplomai. Non andai alla cerimonia di diploma. Avevo smesso
di seguire le lezioni quando ero fuggito dalle cataste. Per quanto ne sapevo, i Sixer
pensavano che fossi morto, e non volevo riportarli sulla buona strada presentandomi a
scuola durante le ultime settimane. Perdermi gli esami finali non aveva troppa
importanza, dato che avevo già accumulato crediti a sufficienza per il diploma. La scuola
me ne inviò una copia per email. Una copia cartacea fu mandata al vecchio indirizzo, alle
cataste, un indirizzo che non esisteva più. Non so che fine fece.
Una volta diplomato, avevo intenzione di dedicarmi anima e corpo alla Caccia. Ma in
realtà non desideravo far altro che passare il mio tempo con Art3mis.
Quando non ero insieme alla mia nuova pseudo–cyber-ragazza, trascorrevo le giornate a
salire di livello. I Gunter la chiamavano «la scalata al novantanovesimo», perché il
novantanovesimo livello era il massimo cui un avatar potesse aspirare. Art3mis ed Aech ce
l’avevano fatta, di recente, e io mi sentivo obbligato a raggiungerli. Non mi ci volle troppo.
Ormai ero pieno di tempo libero, e avevo denaro e risorse a sufficienza per esplorare
OASIS in lungo e in largo. Perciò iniziai a completare tutte le missioni che riuscivo a
trovare, talvolta facendo un salto di cinque o sei livelli al giorno. Via via che aumentavo le
mie statistiche, affinai le abilità magiche e di combattimento procurandomi, nel contempo,
una vasta gamma di armi potenti, oggetti magici e veicoli.
Durante qualche missione io e Art3mis ci muovevamo in coppia. Visitammo il pianeta
Goondocks e portammo a termine l’intera missione Goonies in un giorno. Arty giocava
usando Stef, il personaggio interpretato da Martha Plimpton, io giocavo con Mikey,
interpretato da Sean Astin. Ci spaccammo dalle risate.
Ma non passavo tutto il tempo a cazzeggiare. Tentavo di tenermi concentrato sul gioco.
Davvero. Almeno una volta al giorno, aprivo la quartina e provavo, ancora una volta, a
decifrarne il significato.
La Chiave di Giada il capitano ha celata,
In una dimora da tempo abbandonata,
Ma nel fischietto soffiar tu potrai,
Se dei trofei la raccolta farai.
Per un po’ fui convinto che il «fischietto» del terzo verso facesse riferimento a una serie tv
giapponese di fine anni sessanta. Si intitolava The Space Giants ed era stata doppiata in
inglese e trasmessa negli Stati Uniti tra gli anni settanta e gli anni ottanta. The Space
Giants (titolo originale Maguma Taishi) parlava di una famiglia di robot trasformabili che
vivevano dentro un vulcano e combattevano contro Rodak, un alieno malvagio. Halliday
lo citava più volte, nell’Almanacco di Anorak, come uno dei preferiti della sua infanzia.
Uno dei personaggi principali della serie era un ragazzino di nome Miko, che suonava un
fischietto speciale per chiamare in aiuto i robot. Avevo guardato tutti e cinquantadue gli
episodi di quella roba trash, da capo a fondo, prendendo appunti e ingozzandomi di
patatine al mais. Ma, quando la maratona finì, non avevo ancora colto il significato della
quartina. Avevo imboccato l’ennesimo vicolo cieco. Decisi che Halliday si stava riferendo
a un altro fischietto. E poi, un sabato mattina, ebbi una piccola rivelazione. Stavo
guardando una serie di vecchi spot anni ottanta sui cereali, ma mi fermai a chiedermi
perché, dopo di allora, i produttori di cereali avessero smesso di includere una sorpresa
nelle scatole. Per me fu una tragedia. L’ennesimo segno che la civiltà stava andando a
rotoli. Rimuginavo su questo, quando una vecchia pubblicità comparve sullo schermo e fu
allora che collegai il primo e il terzo verso della quartina. La Chiave di Giada il capitano ha
celata… Ma nel fischietto soffiar tu potrai… Halliday alludeva a John Draper, famoso
hacker degli anni settanta, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Captain Crunch.
Draper era stato uno dei primi phone phreaks: era noto per aver scoperto che i fischietti di
plastica in regalo nelle scatole di cereali Cap’n Crunch potevano essere usati per fare
telefonate interurbane gratuite, dato che emettevano un segnale con una frequenza di 2600
hertz che ingannava il vecchio sistema telefonico analogico permettendo quindi l’accesso
gratuito alla linea.
La Chiave di Giada il capitano ha celata.
Dovevo esserci. «Il capitano» era Cap’n Crunch, e «il fischietto» era il rinomato fischietto
di plastica, tanto celebre tra i phone phreaks.
Forse la Chiave di Giada era camuffata da fischietto di plastica, ed era nascosta in una
scatola di cereali Cap’n Crunch… Ma dov’era nascosta la scatola di cereali?
In una dimora da tempo abbandonata.
Riproduzioni della casa della Famiglia Addams, la baracca abbandonata della trilogia di
Evil Dead, la stamberga di Tyler Durden in Fight Club e la fattoria dei Lars su Tattooine.
La Chiava di Giada non era in nessuno di questi posti. Un altro vicolo cieco.
Ma nel fischietto soffiar tu potrai Se dei trofei la raccolta farai E non avevo ancora
decifrato il significato dell’ultimo verso. Quali trofei avrei dovuto raccogliere? Che fosse
una specie di subdola metafora? Ci doveva essere qualche legame che stavo trascurando,
un qualche sottile riferimento che non coglievo perché non ero ancora abbastanza
intelligente o preparato.
Da quel punto in poi non riuscii più a fare progressi. La mia perenne infatuazione per
Art3mis minava la mia capacità di concentrarmi e, ogni volta che rivedevo la quartina,
dopo qualche minuto di lavoro, richiudevo il diario del Graal e la chiamavo per chiederle
se le andasse di uscire. E quasi sempre rispondeva di sì.
Mi convinsi che fosse giusto riposarmi sugli allori per un po’, dato che nessun altro stava
facendo progressi nella ricerca della Chiave di Giada. Il Segnapunti rimaneva immutato.
Gli altri procedevano nel mio stesso pantano.
Passavano le settimane e io trascorrevo sempre più tempo con Art3mis. Anche quando i
nostri avatar avevano altro da fare, ci scambiavamo mail e messaggi istantanei.
Chiacchieravamo sempre, eravamo un fiume in piena.
La cosa che più desideravo era di incontrarla nel mondo reale. Faccia a faccia. Ma non
glielo confessai. Ero certo che provasse qualcosa per me, eppure mi teneva a una certa
distanza. Indipendentemente da quanto le rivelassi di me – e finii per dirle quasi tutto,
compreso il mio vero nome – lei, irremovibile, continuava a rifiutarsi di rivelare dettagli
sulla sua vita. Sapevo soltanto che aveva diciannove anni e viveva da qualche parte nel
Nordovest degli Stati Uniti. E questo è quanto era disposta a dirmi.
L’immagine di lei che mi creai in testa era la più ovvia. La immaginavo come la
manifestazione fisica del suo avatar. Lo stesso volto, gli stessi occhi, gli stessi capelli, lo
stesso corpo. Nonostante continuasse a ripetermi che nella realtà non somigliava al suo
avatar e che di persona non fosse attraente nemmeno la metà.
Quando iniziai a trascorrere così tanto tempo con Art3mis, io ed Aech cominciammo ad
allontanarci. Invece che vederci più volte a settimana, chattavamo pochi giorni al mese.
Aech sapeva che mi stavo innamorando di Art3mis, ma non ne fece mai un dramma,
anche quando gli davo buca soltanto per uscire con lei. Si limitava a scrollare le spalle, mi
ricordava di stare attento e mi diceva: «Spero proprio che tu sappia quello che fai, Z».
E ovviamente non lo sapevo. La mia relazione con Art3mis era una sfida al buonsenso. Ma
non riuscivo a smettere di innamorarmene. E, in qualche modo, senza rendermene conto,
la mia ossessione per la ricerca dell’Egg di Halliday era stata gradualmente soppiantata
dall’ossessione per Art3mis. Dopo qualche tempo, iniziammo a darci degli
«appuntamenti», visitando i locali esotici ed esclusivi di OASIS. Sulle prime, Art3mis se ne
lamentò. Ripeteva che dovevo tenermi nell’ombra: non appena il mio avatar fosse stato
notato a un evento pubblico, i Sixer avrebbero scoperto che il loro tentativo di uccidermi
non era andato a buon fine e io sarei tornato in cima alla lista nera. Le dissi che non mi
importava più. Mi stavo già nascondendo dai Sixer nel mondo reale, e mi rifiutavo di fare
il fuggitivo anche su OASIS. E, inoltre, ormai avevo un avatar di novantanovesimo livello.
Mi sentivo praticamente invincibile.
Forse stavo solo cercando di far colpo su Art3mis mostrandomi incurante del pericolo. Ad
ogni modo, secondo me funzionò.
Certo, prima di uscire camuffavamo i nostri avatar perché sapevamo che i tabloid
avrebbero dato di matto se Parzival e Art3mis avessero iniziato a farsi vedere in pubblico
insieme. Ma ci fu un’eccezione. Una sera, Art3mis mi portò sul pianeta Transsexual a
vedere il Rocky Horror Picture Show in un cinema grande quanto uno stadio, nel quale
ormai la proiezione settimanale del film era un’istituzione e richiamava il pubblico più
ampio di tutto OASIS. Migliaia di avatar accorrevano a ogni spettacolo, per sedersi in
platea e per godersi la partecipazione attiva del pubblico allo spettacolo. Infatti, ai membri
del Rocky Horror Fan Club era permesso salire sul palco e recitare il film, questo soltanto
dopo aver superato una serie di estenuanti provini. Ma Art3mis sfruttò la sua popolarità
per oliare qualche ingranaggio e sia io che lei fummo ammessi al cast di quella serata.
L’intero pianeta si trovava in zona non–PvP, perciò non temevo che i Sixer mi tendessero
un’imboscata. Ma, quando lo spettacolo cominciò, mi ritrovai in preda all’ansia da
palcoscenico.
Art3mis era Columbia, intonatissima, e io avevo l’onore di recitare nel ruolo del suo
amante non–morto, Eddie. Mutai il mio avatar per assumere esattamente l’aspetto che
aveva Meat Loaf nel film, ma la mia recitazione e il mio playback facevano comunque
pena. Fortunatamente, il pubblico chiuse un occhio perché ero il famoso Gunter Parzival,
ed era chiaro che me la stavo spassando.
Quella fu la serata più divertente della mia vita, credo. Lo dissi ad Art3mis e fu allora che
lei mi si avvicinò e, per la prima volta, mi diede un bacio. Non che potessi sentire
qualcosa. Ma il mio cuore schizzò a mille comunque.
Dei cliché sui pericoli dell’innamorarsi di qualcuno incontrato solamente su internet avevo
già sentito parlare, ma li ignorai bellamente. Decisi che, chiunque fosse davvero Art3mis,
io la amavo. Era una cosa che sentivo, nel profondo e molliccio centro caramelloso del mio
essere.
E poi una sera, come un vero idiota, glielo confessai.

0018
Era venerdì sera, un’altra serata di ricerche solitarie, e stavo studiando tutti gli episodi di
Ragazzi del computer, serie tv dei primi anni ottanta su un giovane hacker che sfrutta la
sua abilità al computer per risolvere i crimini. Avevo appena finito l’episodio «Chiave
d’accesso» (un incrocio con Simon & Simon) quando ricevetti un’email. Era di Ogden
Morrow. L’oggetto era il seguente: We Can Dance If We Want To.
Il messaggio non conteneva testo, ma soltanto un allegato: l’invito a uno dei raduni più
esclusivi di OASIS. La festa di compleanno di Ogden Morrow. Nel mondo reale, Morrow
non faceva quasi mai apparizioni pubbliche e, su OASIS, usciva allo scoperto solamente
una volta all’anno, in quest’occasione.
L’invito includeva una fotografia del famosissimo avatar di Morrow, il Grande e Potente
Og. Il mago e la sua barba grigia erano chini su un elaboratissimo mixer da dj. Una cuffia
premuta all’orecchio, Og si mordeva il labbro in un impeto di estasi uditiva, mentre le sue
dita scratchavano vecchi vinili su un paio di piatti argentati. Sulla scatola dei dischi erano
attaccati un adesivo con su scritto don’t panic e uno stemma anti-Sixer: un cerchio rosso
barrato intorno a un 6 giallo. Il testo, in basso, diceva: Il party anni ottanta di Ogden
Morrow Per celebrare il suo 73simo compleanno!
Stasera alle 10 ost al Distracted Globe ingresso valido per una persona Ero sbalordito.
Ogden Morrow si era davvero preso la briga di invitarmi alla sua festa di compleanno. Era
il più grande onore che avessi mai ricevuto.
Chiamai Art3mis e lei mi confermò di aver ricevuto la stessa email. Disse che, nonostante i
rischi evidenti, non avrebbe mai potuto ignorare un invito che proveniva direttamente da
Og. Perciò, le dissi che ci saremmo incontrati al club. Era l’unico modo in cui avrei evitato
di sembrare una mezzasega.
Sapevo che, se Og ci aveva invitati entrambi, doveva avere invitato anche gli altri membri
dei Cinque Grandi. Ma era probabile che Aech non si sarebbe fatto vedere dal momento
che, come ogni venerdì sera, avrebbe gareggiato in un’arena di deathmatch e il
combattimento sarebbe stato trasmesso a livello globale. E Shoto e Daito non entravano
mai in una zona PvP, a meno che non fosse assolutamente necessario.
Il Distracted Globe era una famosa discoteca a gravità zero, sul pianeta Neonoir, nel
Settore 16. Era stato lo stesso Ogden Morrow a scrivere il codice del pianeta, decenni
prima, e ne era ancora l’unico proprietario. Non ero mai stato al Globe, fino ad allora. Non
ero un tipo da discoteca e non mi allettava l’idea di dover socializzare con i leccapiedi
ultrasfigati aspiranti Gunter che, a quanto si diceva, frequentavano quel posto. Ma la festa
di Og era un evento speciale e i clienti abituali erano banditi. E quella sera il club sarebbe
stato strapieno di celebrità: stelle del cinema, musicisti e almeno due dei Cinque Grandi.
Passai più di un’ora a sistemare i capelli del mio avatar e a provare decine di skin diverse
da indossare. Alla fine optai per un abbigliamento classico anni ottanta: un completo
grigio chiaro, esattamente identico a quello che Peter Weller aveva nelle avventure di
Buckaroo Banzai nella quarta dimensione, con tanto di papillon rosso e un paio e stivaletti
Adidas bianchi. Caricai l’inventario con la mia migliore armatura e un intero arsenale di
armi. Tra le ragioni per cui il Globe era un luogo così esclusivo e alla moda c’era il fatto
che si trovava in zona PvP, dove sia la magia che le attrezzature tecnologiche
funzionavano. Era pericolosissimo andarci. Specialmente per un Gunter famoso come me.
OASIS era disseminato di mondi a tema cyberpunk, ma Neonoir era uno dei più grandi e
antichi. Visto dallo spazio, il pianeta era un’onice splendente, ricoperto da una ragnatela
di luci pulsanti. Su Neonoir era sempre notte, e l’intera superficie del pianeta era una
griglia ininterrotta di città collegate tra loro, affollate di grattacieli spaventosamente alti. I
cieli del pianeta erano un flusso continuo di veicoli in volo che solcavano i paesaggi
verticali delle città; le strade, a terra, brulicavano di png vestiti di pelle e avatar con
occhiali a specchio, tutti indaffarati con le loro armi sofisticate e i loro impianti
sottocutanei, mentre biascicavano cityspeak preso direttamente da Neuromante.
Il Distracted Globe si trovava nell’emisfero Ovest, all’incrocio tra il Boulevard e l’Avenue,
due strade intensamente illuminate che percorrevano l’intero pianeta, l’una lungo
l’equatore, l’altra lungo il meridiano zero. Il club era una gigantesca sfera blu cobalto con
un diametro di tre chilometri, sospesa a trenta metri dal suolo. Una scalinata di cristallo
fluttuante conduceva all’unico ingresso del club, un’apertura circolare sul fondo della
sfera.
Feci un ingresso trionfale guidando la mia DeLorean volante, di cui mi ero impossessato
completando una missione Ritorno al futuro sul pianeta Zemeckis. La DeLorean era dotata
di un Flusso Canalizzatore (non funzionante), ma avevo apportato delle modifiche alla
carrozzeria e alle dotazioni. Innanzitutto, nel cruscotto avevo installato un computer di
bordo di nome kitt, con tanto di scanner rosso da Supercar sul radiatore. Poi avevo dotato
l’auto di un propulsore di oscillazioni, dispositivo che le permetteva di viaggiare
attraverso la materia. Infine, per completare il mio superveicolo anni ottanta, avevo
schiaffato, su entrambe le portiere ad ala della DeLorean, uno stemma dei Ghostbusters;
avevo aggiunto anche una targa personalizzata, con su scritto ecto-88.
Ce l’avevo soltanto da un paio di settimane, ma il mio avatar iniziava a farsi notare
proprio per la mia supercar DeLorean acchiappafantasmi che viaggiava attraverso la
materia.
Sapevo che parcheggiare la mia macchinina in zona PvP era un plateale invito a nozze per
qualunque stronzo volesse portarsela via. La DeLorean era dotata di svariati sistemi
antifurto e il sistema di accensione era completo di un ordigno esplosivo, in perfetto stile
Max Rockatansky, per cui se qualsiasi altro avatar avesse cercato di accendere il motore,
nella camera di plutonio si sarebbe innescata una piccola esplosione termonucleare. Ma
tenere l’auto al sicuro non sarebbe stato un problema, su Neonoir. Quando scesi dall’auto
attivai un incantesimo, riducendola alle dimensioni di una macchinina giocattolo. Poi mi
infilai la DeLorean in tasca. Le zone magiche hanno i loro vantaggi.
Migliaia di avatar si accalcavano contro i cordoni in velluto, in realtà campi di forza che
tenevano lontano chiunque non avesse un invito. Mentre camminavo verso l’entrata, la
folla mi assalì con un misto di insulti, richieste di autografi, minacce di morte e
dichiarazioni disperate di amore eterno. Avevo attivato lo scudo corporale ma,
sorprendentemente, nessuno tentò di fare nulla. Mostrai al buttafuori cyborg il mio invito,
poi iniziai a salire la lunga scalinata di cristallo che conduceva al club.
Entrare nel Distracted Globe era più che disorientante. Al suo interno, la sfera gigante era
completamente cava e la superficie ricurva fungeva da bar e area lounge. Nel momento in
cui si varcava l’ingresso, le leggi di gravità mutavano. Indipendentemente da dove si
camminasse, i piedi degli avatar aderivano sempre alla superficie interna della sfera,
perciò si poteva camminare in linea retta fino al «soffitto» del locale, e poi di nuovo
scendere dall’altro lato, per tornare esattamente al punto di partenza. Il vasto spazio
sgombro al centro della sfera era la «pista da ballo» a gravità zero. Si raggiungeva
semplicemente spiccando un salto, come Superman quando prende il volo, e poi nuotando
nell’aria fino alla «zona del ritmo» sferica. Una volta entrato, guardai in alto – o nella
direzione che in quel momento era, per me, l’«alto». Il locale era strapieno. Centinaia di
avatar vi affluivano, come formiche che si trascinano lente dentro un enorme palloncino.
Altri erano già in pista – volteggiavano, volavano, si avvitavano e facevano acrobazie a
tempo di musica, sparata da altoparlanti sferici che levitavano per tutto il club. I ballerini
erano sovrastati da una bolla, grande e trasparente, sospesa nello spazio, esattamente al
centro del locale. Era la «cabina» in cui si trovava il dj, circondato da piatti, mixer, deck e
pulsanti. Lì nel mezzo, il dj d’apertura, R2-D2, usava le sue numerose braccia robotiche
per scratchare. Riconobbi subito la canzone che aveva messo: era il remix dell’88 di Blue
Monday dei New Order, mescolato a campioni musicali presi dai droidi di Guerre Stellari.
Mentre cercavo di raggiungere il bar, gli avatar che incrociavo si fermavano a osservarmi e
mi indicavano. Non me ne curai molto, perché ero troppo impegnato a scandagliare il club
in cerca di Art3mis. Quando finalmente raggiunsi il bar, ordinai alla barista Klingon un
Grog Esplosivo Pangalattico e me ne scolai mezzo. Poi sorrisi, non appena udii l’altro
classico anni ottanta che R2 aveva messo. «Union of the Snake» ripetei, per abitudine.
«Duran Duran. Millenovecentottantatré.»
«Non male, campione» disse una voce familiare, abbastanza forte perché la sentissi
nonostante la musica. Mi voltai e vidi Art3mis in piedi, alle mie spalle. Indossava il suo
abito da sera: un vestito blu metallizzato che sembrava colorato con la vernice spray.
Aveva un’acconciatura da paggio che incorniciava perfettamente il suo viso stupendo. Era
una bomba.
Gridò alla barista: «Glenmorangie. Con ghiaccio».
Sorrisi tra me e me. Era il drink preferito di Connor MacLeod. Diamine, se l’amavo.
Mi strizzò l’occhio quando comparve il suo drink. Poi alzò il suo bicchiere alla mia salute e
lo scolò tutto in un sorso. Il chiacchiericcio degli avatar intorno a noi si fece più intenso. La
voce che Parzival e Art3mis erano proprio lì, e stavano chiacchierando al bar, iniziava a
spargersi in tutto il club.
Art3mis diede un rapido sguardo alla pista da ballo, poi a me. «Cosa ne dici, Percy?»
chiese. «Ci scateniamo? Te la senti?» La guardai accigliato. «Non se continui a chiamarmi
“Percy”.» Rise. In quel momento finì la canzone e nel locale calò il silenzio. Tutti gli occhi
guizzarono verso l’alto, verso la cabina del dj: R2-D2 si stava dissolvendo in una pioggia
di luce, come nei teletrasporti del primo Star Trek. Un grido di acclamazione si diffuse non
appena un avatar molto familiare, dalla barba grigia, si materializzò dietro la console in un
fascio di luce. Era Og.
Centinaia di finestre vidfeed apparvero a mezz’aria, dappertutto nel Globe. Ciascuna
mostrava in tempo reale un primo piano di Og nella cabina, così che tutti potessero
vederlo chiaramente. Il vecchio mago indossava un paio di jeans larghi, dei sandali e una
maglietta sbiadita di Star Trek: The Next Generation. Salutò la folla, poi fece partire il
primo brano, un remix dance di Rebel Yell di Billy Idol.
Un’ondata di esultanza animò la pista.
«Adoro questa canzone!» gridò Art3mis. I suoi occhi si fiondarono in pista. La squadrai,
incerto sul da farsi. «Che c’è?» chiese con falsa compassione. «Il signorino non sa ballare?»
Di colpo iniziò a seguire il ritmo, muovendo la testa a tempo, roteando i fianchi. Poi si
diede uno slancio da terra con entrambi i piedi e iniziò a volteggiare verso l’alto, nella
zona del ritmo. Per un istante la fissai, congelato, pietrificato nel tentativo di raccogliere il
coraggio.
«Va bene, va bene» mormorai tra me e me. «Che cavolo.» Piegai le ginocchia e mi diedi
una spinta, staccandomi di colpo dal pavimento. Il mio avatar prese il volo, e lasciandosi
trasportare si affiancò ad Art3mis. Gli avatar che si trovavano già in pista si fecero da parte
per aprirci un varco verso il centro. Vedevo Og che si librava nella sua bolla, poco distante
da noi. Roteava come un derviscio, remixava i pezzi in volo e, nello stesso tempo,
ricalibrava il vortice di gravità della pista: riusciva così a far girare l’intero locale, come se
fosse un vecchio vinile.
Art3mis mi strizzò l’occhio, poi le sue gambe si fusero insieme a formare la coda di una
sirena. Si slanciò, con la coda, molto più avanti di me, ondeggiando e spingendosi a tempo
con il ritmo indiavolato, mentre nuotava nell’aria. Poi fece una giravolta e tornò a
guardarmi, sospesa, sorridendomi e allungando una mano, invitandomi a unirmi a lei.
I suoi capelli le formavano un’aureola attorno alla testa, quasi fosse sott’acqua.
Quando la raggiunsi, mi prese la mano. In quel momento la coda da sirena svanì e lasciò
posto alle sue gambe, che turbinavano e sforbiciavano a tempo.
Non fidandomi dei miei riflessi, caricai un software di ballo ad alto livello chiamato
Travoltra, che avevo scaricato e provato qualche ora prima. Il programma prese il
controllo dei movimenti di Parzival, sincronizzandoli con la musica, e i miei quattro arti si
trasformarono in onde sinusoidali. Tutt’a un tratto, ero diventato un idiota che sapeva
ballare.
Art3mis si illuminò per la sorpresa e per la gioia, e iniziò a imitare i miei movimenti; ci
orbitavamo attorno l’un l’altra come elettroni accelerati. Poi Art3mis cominciò a cambiare
forma. Il suo avatar, abbandonati i tratti umani, si dissolse in un blob amorfo che pulsava e
cambiava dimensioni e colore a tempo con la musica. Selezionai, nel software di ballo,
l’opzione imita il partner e iniziai a fare lo stesso. Gli arti e il busto del mio avatar
vibravano e ondeggiavano come fossero un budino, abbracciando Art3mis, mentre strane
forme colorate mi scorrevano sotto la pelle. Sembravo Plastic Man, sotto lsd. In quel
momento anche tutti gli altri avatar che erano in pista iniziarono a cambiare forma,
trasformandosi in blob di luce cangiante. Ben presto il centro del locale iniziò a sembrare
una di quelle lampade di lava.
Quando la canzone si concluse, Og fece un inchino, poi mise su un lento. Time After Time
di Cyndi Lauper. Tutti gli avatar intorno a noi si cercarono un partner.
Rivolsi ad Art3mis un inchino galante, poi le porsi la mano. Lei la prese sorridendo. La
avvicinai a me e iniziammo a farci trasportare insieme. Og ricalibrò la gravità della pista in
senso antiorario, facendo ruotare i nostri avatar lentamente, lungo l’invisibile asse centrale
del club, come granelli di polvere in una sfera di neve.
E poi, prima che riuscissi a fermarmi, le parole mi uscirono di bocca.
«Sono innamorato di te, Arty.» Lei dapprima non reagì. Si limitò a guardarmi come sotto
shock, mentre i nostri avatar continuavano a orbitare l’uno intorno all’altro, muovendosi
col pilota automatico. Poi passò a un canale vocale privato, perché nessuno potesse
origliare la nostra conversazione.
«Non sei innamorato di me, Z» disse. «Non mi conosci nemmeno.»
«Invece sì» insistetti io. «Ti conosco meglio di chiunque abbia mai conosciuto in tutta la
mia vita.»
«Ma conosci solo quello che io voglio che tu conosca. Vedi solo quello che io voglio che tu
veda.» Si mise una mano sul petto. «Questo non è il mio vero corpo, Wade. Questa non è
la mia vera faccia.»
«Non importa! Sono innamorato della tua testa – sono innamorato della persona che sei.
Non me ne potrebbe fregare di meno del contenitore.»
«Lo dici tanto per dire» mi rispose. La sua voce aveva un che di insicuro. «Fidati. Se
lasciassi che tu mi vedessi dal vivo, saresti disgustato.»
«Perché continui a dirlo?»
«Perché sono mostruosamente deforme. O sono paraplegica. O in realtà ho 63 anni. Scegli
tu.»
«Non mi importerebbe nemmeno se fossi tutte e tre le cose insieme. Dimmi dove ti posso
incontrare e te lo proverò. Salgo su un aereo in questo momento e ti raggiungo. Sai che lo
farei.» Scosse la testa. «Tu non vivi nel mondo reale, Z. A quanto mi hai detto, non credo
che tu ci abbia mai vissuto. Sei tale e quale a me. Vivi in questa illusione.» Indicò
l’ambiente virtuale in cui ci trovavamo. «È impossibile che tu sappia cos’è l’amore vero.»
«Non dirlo!» Stavo per piangere, e non mi importava che se ne accorgesse. «È perché ti ho
detto che non ho mai avuto una ragazza? E che sono vergine? Perché…»
«Certo che no» mi interruppe. «Non è di questo che parlo. Per niente.»
«E allora di cos’è che parli? Dimmelo. Ti prego.»
«Della Caccia. Lo sai. Abbiamo trascurato le missioni per uscire insieme. In questo
momento dovremmo cercare la Chiave di Giada. Scommetto che Sorrento e i Sixer lo
stanno facendo, in questo preciso istante. E tutti gli altri…»
«Al diavolo la Gara! E l’Egg!» gridai. «Non hai sentito quello che ho appena detto? Sono
innamorato di te! E voglio stare con te. Più di qualsiasi altra cosa.» Lei si limitò a fissarmi.
O meglio, il suo avatar fissò il mio con uno sguardo vuoto. Poi mi disse: «Mi spiace, Z. È
tutta colpa mia. La situazione mi è sfuggita di mano. Dobbiamo chiuderla qui».
«Cosa intendi? Cos’è che dobbiamo chiudere?»
«Penso che dovremmo prenderci una pausa. Smettere di passare così tanto tempo
insieme.» Era come se mi avessero appena dato un pugno in gola. «Mi stai lasciando?»
«No, Z» rispose fermamente. «Non ti sto lasciando. Sarebbe impossibile, perché noi non
stiamo insieme.» Di colpo la sua voce si fece velenosa. «Non ci siamo neanche mai
incontrati!»
«E quindi… vuoi smettere di… parlarmi e basta?»
«Sì, mi sa che è la cosa migliore.»
«Per quanto tempo?»
«Fino alla fine della Caccia.»
«Ma, Arty… potrebbero volerci anni.»
«Lo so. Me ne rendo conto. E mi dispiace. Ma è l’unica possibilità.»
«Vincere quei soldi per te è più importante di me?»
«Non si tratta dei soldi. Si tratta di quello che potrei farci.»
«Ah, certo. Giusto. Salvare il mondo. Sei proprio nobile, cazzo.»
«Non fare lo stronzo» mi disse. «È da più di cinque anni che cerco l’Egg. E lo stesso vale
per te. E adesso ci siamo più vicini che mai. Non posso buttare via una possibilità del
genere.»
«Non è quello che ti sto chiedendo.»
«Sì, invece. Anche se non te ne rendi conto.» Il pezzo di Cyndi Lauper terminò e Og mise
un altro brano dance, James Brown is Dead degli L.A. Style. L’intero club scoppiò in un
applauso.
Era come se nel petto mi avessero conficcato un gigantesco paletto di legno.
Art3mis stava per dirmi qualcos’altro – addio, credo – quando udimmo un’esplosione
fragorosa provenire da sopra le nostre teste. Sulle prime pensai fosse Og che si lanciava in
un nuovo pezzo dance. Ma poi alzai lo sguardo e vidi grossi calcinacci che rovinavano
pericolosamente sulla pista da ballo, mentre gli avatar correvano via, sparpagliandosi. Sul
soffitto del club, vicino alla cima della sfera, si era appena creato un grosso buco da cui si
stava riversando un drappello di Sixer: sciamavano nel club con i loro jet pack e sparavano
con i blaster.
Esplose il caos. Metà degli avatar presenti si accalcò verso l’uscita, l’altra metà estrasse le
pistole o iniziò a fare incantesimi – sparavano raggi laser, proiettili e sfere infuocate contro
gli invasori. Contai più di cento Sixer, tutti quanti armati fino ai denti.
Non riuscivo a capacitarmi della sfacciataggine dei Sixer. Perché erano così idioti da
attaccare una stanza piena di Gunter di alto livello, per giunta sul loro territorio?
Avrebbero potuto ucciderne qualcuno, ma nel farlo avrebbero perso parte dei loro avatar,
se non tutti. E per cosa?
Poi capii che il fuoco dei Sixer era diretto, perlopiù, a me e Art3mis. Erano lì per ucciderci
entrambi.
La notizia che io e Art3mis eravamo nel club doveva essere già stata pubblicata. E, quando
Sorrento era venuto a sapere che due dei Cinque Grandi se la stavano spassando in zona
PvP, doveva aver pensato che fosse un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Era l’opportunità, per i Sixer, di far fuori due dei loro maggiori avversari in un colpo solo.
Valeva la pena di sacrificare un centinaio di avatar di alto livello.
Sapevo che era stata la mia avventatezza a portarceli direttamente in casa. Mi maledissi
per essere stato così stupido. Poi tirai fuori i miei blaster e iniziai a scaricarli sul manipolo
di Sixer più vicino a me, facendo il possibile per schivare i loro colpi. Mi voltai verso
Art3mis in tempo per vederla incenerire una dozzina di Sixer in cinque secondi, usando
sfere di plasma blu che sparava dai palmi delle mani, mentre ignorava il flusso di laser e
missili magici che le rimbalzavano sull’armatura trasparente. Anch’io le stavo prendendo
di brutto. Per il momento l’armatura resisteva, ma non sarebbe durata a lungo. Avvisi di
guasto mi lampeggiavano sul display, e la mia barra di Punti Vita cominciava a precipitare
verso il basso.
In pochi secondi, la situazione degenerò nello scontro più duro cui avessi mai assistito. Ed
era chiaro che io e Art3mis saremmo finiti dalla parte degli sconfitti.
Mi accorsi che la musica non si era fermata.
Diedi uno sguardo alla cabina del dj, giusto in tempo per vederla mentre si spalancava,
lasciando emergere il Grande e Potente Og. Sembrava davvero incazzato.
«Voialtri coglioni credete di potervi imbucare alla mia festa di compleanno?» urlò.
Indossava ancora un microfono, perciò la sua voce risuonò in tutti gli altoparlanti del
locale, rimbombando, quasi fosse la voce di Dio. La mischia si interruppe per un breve
istante, mentre tutti gli occhi erano rivolti verso Og, sospeso al centro della pista. Lui
allungò le mani, voltandosi ad affrontare l’offensiva dei Sixer.
Dalle dita di Og esplose una decina di fulmini rossi, che si dipartirono in tutte le direzioni.
Ogni fulmine colpì al cuore un avatar Sixer, schivando e lasciando illesi tutti gli altri.
Tempo un millisecondo, ogni singolo Sixer del locale era stato completamente
vaporizzato. I loro avatar si congelarono e si colorarono, per pochi secondi, di una luce
rossa. Poi svanirono.
Ero sbalordito. Era la più incredibile dimostrazione di potere da parte di un avatar che
avessi mai visto.
«Nessuno si presenta al mio locale senza invito!» tuonò Og – la sua voce echeggiava in
tutto il club, in un silenzio attonito. Gli avatar che erano rimasti (quelli che non erano
scappati via spaventati o che non erano morti durante la rapida battaglia) si
abbandonarono a un grido di vittoria. Og volò di nuovo nella sua cabina da dj, che si
richiuse attorno a lui come un bozzolo trasparente. «Ricominciamo la festa, ok?» disse,
lasciando ricadere la puntina su un remix techno di Atomic di Blondie. Ci volle un attimo
perché si scrollassero lo shock di dosso, ma poi tutti ripresero a ballare.
Cercai Art3mis dappertutto, ma era sparita. Poi vidi il suo avatar volare fuori dall’uscita
creata dall’attacco dei Sixer. Si fermò e rimase sospesa lì fuori per un istante, giusto il
tempo di ricambiare il mio sguardo.

0019
Il computer mi svegliò appena prima del tramonto, e cominciai il mio rituale quotidiano.
«Sono sveglio!» gridai al buio. Da quando Art3mis mi aveva lasciato, qualche settimana
prima, facevo fatica ad alzarmi dal letto, la mattina. Così, avevo disattivato l’allarme
automatico della sveglia e avevo dato istruzione al computer di sparare Wake Me Up
Before You Go-Go degli Wham! Odiavo quella canzone con ogni fibra del mio corpo e
l’unico modo che avevo per metterla a tacere era alzarmi. Non era l’ideale per cominciare
la giornata ma, se non altro, mi smuoveva.
La canzone si troncò bruscamente, la poltrona aptica riprese la corretta direzione e
posizione assumendo di nuovo, da letto che era, il suo aspetto da poltrona: mi ritrovai
seduto. Il computer riaccese gradualmente le luci, lasciando ai miei occhi il tempo di
abituarsi. Nel mio appartamento non penetrava mai la luce esterna. L’unica finestra offriva
una vista dei grattacieli di Columbus, ma l’avevo verniciata di nero pochi giorni dopo
essermi trasferito. Ero convinto che tutto ciò che si trovava fuori da quella finestra
costituisse una distrazione dalla mia missione, e non potevo perdere tempo a osservarlo.
Allo stesso modo, avrei voluto non ascoltare il mondo esterno, ma non ero riuscito a
ottimizzare l’insonorizzazione dell’appartamento, perciò ero costretto a convivere con i
suoni smorzati della pioggia, del vento e del traffico aereo. Anche questi riuscivano a
distrarmi. A volte precipitavo in una sorta di trance, seduto a occhi chiusi, dimentico del
passare del tempo, mentre ascoltavo i suoni del mondo fuori dalla mia stanza.
Avevo apportato, per sicurezza e per comodità, molte altre modifiche all’appartamento.
Innanzitutto, avevo rimpiazzato la porta, poco resistente, con una nuova WarDoor,
ermetica, rinforzata e a compressione. Ogni qualvolta avevo bisogno di qualcosa – cibo,
carta igienica, nuova attrezzatura – lo ordinavo online e qualcuno me lo portava proprio
davanti alla porta di casa. Le consegne funzionavano così: per prima cosa, lo scanner
installato nel corridoio verificava l’identità del fattorino e il mio computer confermava che
stesse consegnando ciò che avevo davvero ordinato. Poi la porta esterna si sbloccava e si
apriva su una camera stagna rinforzata in acciaio, grande quanto un vano doccia. Qui, il
fattorino posava il pacco, la pizza, o quant’altro, e faceva un passo indietro. La porta
esterna si richiudeva e si sbarrava con un sibilo, poi il pacco veniva scansionato e
sottoposto a un diluvio di raggi X e a ogni tipo possibile di analisi. Una volta accertato il
contenuto, veniva inviata una conferma di consegna. A quel punto io, uscendo con
cautela, aprivo la porta interna e mi appropriavo dei miei beni. Il capitalismo avanzava a
piccoli passi, senza che dovessi interagire faccia a faccia con un altro essere umano. Il che
era esattamente ciò che volevo, grazie tante.
La stanza in sé non era così eccezionale a una prima occhiata, e andava benissimo così,
perché passavo il minor tempo possibile a guardarla. Era, in pratica, un cubo di dieci metri
per lato. Una doccia componibile e un’unità wc erano state montate su una parete, al lato
opposto di una piccola cucina ergonomica. Non che avessi mai usato la cucina per
prepararmi qualcosa da mangiare. Tutti i miei pasti erano surgelati o consegnati a
domicilio. I brownies al microonde erano, per me, il concetto più vicino al cucinare.
Il resto della stanza era dominato dal Set d’Immersione OASIS. Avevo investito sino
all’ultimo centesimo per acquistarlo. Sul mercato uscivano componenti sempre più veloci,
versatili e all’avanguardia, perciò io spendevo regolarmente gran parte del mio esiguo
salario per gli aggiornamenti.
La perla dell’attrezzatura era, naturalmente, la console OASIS customizzata, il computer
che dava vita al mio mondo. L’avevo costruita io, pezzo dopo pezzo, dentro un telaio
sferico Odinware modificato e nero come la pece. Aveva un processore nuovo
overclockato talmente veloce che la sua velocità sfiorava la precognizione. E l’hard disk
interno aveva tanta memoria da poter contenere tre copie digitali di Tutto Ciò Che
Esisteva.
Passavo la maggior parte del tempo seduto sulla mia poltrona aptica regolabile hc5000
della Shaptic Technologies. Era sospesa su due bracci robotici snodabili fissati alle pareti e
al soffitto dell’appartamento. I bracci ruotavano la poltrona su tutti e quattro gli assi
perciò, quando ero allacciato, poteva capovolgersi, ruotare o scuotermi e darmi la
sensazione che stessi cadendo, volando, o di essere seduto su una slitta-razzo a energia
nucleare che sfreccia a velocità Mach 2 lungo un canyon sulla quarta luna di Altair vi.
La poltrona funzionava inzieme alla Shaptic Bootsuit, una tuta di feedback aptico che
ricopriva interamente il mio corpo, dal collo in giù, ed era dotata di fessure piuttosto
discrete perché potessi espletare i miei bisogni senza dover rimuovere l’intero apparato.
L’esterno della tuta era rivestito da un elaborato esoscheletro, una rete di tendini e
giunture artificiali che potevano sia percepire sia inibire i miei movimenti. All’interno
della tuta si trovava una rete (una sorta di ragnatela) di attuatori in miniatura, a contatto
con la mia pelle; ce n’era uno ogni paio di centimetri. Venivano attivati a gruppi, composti
da un numero variabile di elementi, per la stimolazione tattile – affinché la mia pelle
percepisse cose che in realtà non esistevano. Riproducevano in modo convincente la
sensazione di un colpetto sulla spalla, un calcio nello stinco o una pallottola nel petto (il
software di sicurezza incorporato, però, impediva che l’aggeggio mi causasse dolore,
perciò uno sparo virtuale somigliava più a un cazzotto poco convinto). Un’identica tuta di
riserva era appesa nell’unità lavanderia MoshWash, in un angolo della stanza. Le due tute
aptiche costituivano il mio intero guardaroba. I miei vecchi vestiti erano seppelliti da
qualche parte, nello sgabuzzino, a prendere polvere.
Indossavo un paio di guanti aptici Okagami IdleHands. Entrambi i palmi erano ricoperti
di cuscinetti di feedback tattile, grazie ai quali i guanti creavano l’illusione che stessi
toccando oggetti e superfici che non esistevano per davvero.
Il visore era un nuovo, fiammante WreckSpex Dinatro rlr-7800, con un display retineo
virtuale unico nel suo genere. Il visore mi trasportava OASIS direttamente sulle retine, alla
più alta risoluzione e frequenza di fotogrammi percepibile da occhio umano. Il mondo
reale, al confronto, sembrava sbiadito e sfocato. L’rlr-7800 era un prototipo non ancora
disponibile per le masse, ma avevo un accordo pubblicitario con la Dinatro, che mi aveva
inviato l’attrezzatura gratis (attraverso una serie di spedizioni a catena, di cui mi servivo
per mantenere l’anonimato).
Il mio sistema AboundSound consisteva in un set di altoparlanti ultrapiatti montati sulle
pareti, sul pavimento e sul soffitto dell’appartamento, e offriva trecentosessanta gradi di
perfetta riproduzione sonora, fino all’ultimo ronzio di mosca. E il subwoofer Mjolnur era
così potente da farmi vibrare i molari.
La torre odorifera Olfatrix, in un angolo, riusciva a generare più di duemila odori distinti.
Un roseto, il vento salato dell’oceano, cordite in fiamme: la torre li ricreava tutti in maniera
convincente. Funzionava anche come climatizzatore/depuratore ad uso industriale, e lo
usavo principalmente per questo. Molti simpaticoni si divertivano a programmare odori
insopportabili nelle loro simulazioni soltanto per prendersi gioco di chi, in casa, aveva una
torre come la mia, perciò solitamente disabilitavo il generatore degli odori, a meno che
non mi trovassi in una zona di OASIS dove annusare l’ambiente avrebbe potuto tornarmi
utile.
Sul pavimento, proprio sotto la mia poltrona aptica sospesa, si trovava il tapis roulant
Runaround multidirezionale Okagami («Non importa dove vai, sei già arrivato» era lo
slogan della casa produttrice). Il tapis roulant era lungo circa due metri e alto sei
centimetri. Quando lo attivavo, potevo correre in ogni direzione a velocità massima senza
mai raggiungere l’estremità della piattaforma. Se mi voltavo, il tapis roulant lo percepiva,
e la sua superficie iniziava a scorrere nella mia stessa direzione, mantenendo il mio corpo
sempre al centro della piattaforma. Nel mio modello erano incorporate anche le salite e
una superficie amorfa, per simulare pendii e scalinate.
Sul mercato si trovavano anche le baap (Bambole Aptiche Anatomicamente Precise), per
chi volesse avere incontri più «intimi» su OASIS. I modelli di baap erano maschili,
femminili, a duplice sesso, ed erano disponibili in un’ampia gamma di opzioni. Realistica
pelle in lattice. Endoscheletri a servomotore. Muscolatura perfettamente riprodotta. E tutte
le relative appendici e gli orifizi che uno si immagina.
Spinto dalla solitudine, dalla curiosità, e dai miei ormoni adolescenziali infuriati, qualche
settimana dopo che Art3mis aveva deciso di non parlarmi più, avevo acquistato una baap
di qualità media, una ÜberBetty della Shaptic. Dopo aver trascorso intere giornate
improduttive in una simulazione autonoma di bordello chiamata Il Tempio del piacere, mi
ero sbarazzato della bambola, in un misto di vergogna e istinto di autoconservazione.
Avevo buttato migliaia di crediti, avevo perso una settimana di lavoro ed ero sul punto di
abbandonare completamente la mia ricerca dell’Egg, quando mi ero trovato di fronte alla
consapevolezza che il sesso virtuale, per quanto fosse realistico, non era altro che
masturbazione sdoganata e assistita dal computer. In fin dei conti, ero sempre un ragazzo
vergine, solo, in una stanza buia, che si sbatteva un robot ben lubrificato. Perciò mi
sbarazzai della baap e tornai a menarmelo alla vecchia maniera.
Non mi vergognavo affatto di masturbarmi. Grazie all’Almanacco di Anorak, vedevo la
masturbazione alla stregua di una funzione fisiologica come un’altra, necessaria e naturale
come dormire o mangiare.
AA 241:87 – Sostengo che la masturbazione sia l’adattamento più importante dell’animale
uomo. La pietra angolare della civiltà tecnologica. Le nostre mani si sono evolute per
stringere tutti gli attrezzi – compreso il nostro. Il fatto è che gli studiosi, gli inventori e gli
scienziati in genere sono degli sfigati, e gli sfigati incontrano più difficoltà di chiunque
altro quando si tratta di scopare. Senza la valvola di rilascio sessuale incorporata che ci
fornisce la masturbazione, è improbabile che i primi umani si sarebbero impossessati dei
segreti del fuoco o avrebbero scoperto la ruota. E, potete scommetterci, Galileo, Newton e
Einstein non avrebbero mai fatto le scoperte che hanno fatto se prima non fossero riusciti a
schiarirsi le idee dando una manata al salame (o «buttando giù qualche protone dal
vecchio atomo di idrogeno»). Lo stesso vale per Marie Curie. Prima che scoprisse il radio,
state pur certi che aveva scoperto l’omino nella sua canoa.
Non era una delle teorie più popolari di Halliday, ma mi piaceva.
Mentre mi trascinavo fino al gabinetto, si accese un grande monitor a schermo piatto
appeso alla parete, e il sorriso di Max, il mio system agent software, apparve sul monitor.
Avevo programmato Max perché si avviasse qualche minuto dopo aver acceso le luci, così
da darmi il tempo di svegliarmi un po’, prima che cominciasse a rovesciarmi addosso tutte
le sue chiacchiere.
«B-b-buon giorno, Wade!» tartagliò allegramente Max. «Il m-m-m-mattino ha l’oro in
bocca!» Avere un system agent software era un po’ come avere un assistente personale
virtuale – uno che funzionava anche da interfaccia a comando vocale con il computer. Il
system agent software era altamente configurabile, con centinaia di personalità
preprogrammate tra cui scegliere. Io avevo programmato il mio perché somigliasse,
parlasse e si comportasse come Max Headroom, la star (apparentemente) computerizzata
di un talk show anni ottanta, di un’innovativa serie cyberpunk e di un’infinita serie di
pubblicità della Coca-Cola.
«Buongiorno, Max» risposi intontito.
«Vuoi dire buonasera, Tremotino. 7 e 18 pm o-o-orario OASIS. Mercoledì 30 dicembre.»
Max era programmato per parlare con una lieve balbuzie elettronica. A metà degli anni
ottanta, quando il personaggio di Max Headroom era stato creato, i computer non erano
ancora abbastanza potenti da poter ricreare una figura umana, perciò Max era interpretato
da un attore (il grande Matt Frewer), ricoperto di trucco e gomma perché sembrasse
generato dal computer. Ma la versione di Max che mi sorrideva dallo schermo era puro
software, con la migliore intelligenza artificiale e la migliore funzione di riconoscimento
vocale che il denaro potesse comprare.
Era da qualche settimana che usavo questa versione altamente customizzata del
MaxHeadroom v3.4.1. Prima, il mio system agent software era modellato sull’attrice Erin
Gray (quella di Buck Rogers e Il mio amico Ricky). Ma mi distraeva troppo, perciò ero
passato a Max. Di tanto in tanto era fastidioso, ma mi faceva ridere da matti. Ed era anche
bravo a evitare che morissi di solitudine.
Mentre incespicavo fino al cubicolo del bagno e svuotavo la vescica, Max continuava a
rivolgersi a me attraverso un piccolo monitor montato sopra lo specchio. «Oh-oh! Hai un
rubi-rubine-rubinetto che perde» disse.
«Trova una battuta nuova» gli dissi. «Novità che dovrei sapere?»
«Il solito. Guerre, rivolte, carestie. Niente che ti interessi.»
«Messaggi?» Alzò gli occhi al cielo. «Qualcuno. Ma per rispondere alla tua vera domanda,
no. Art3mis non ha chiamato e non ti ha risposto, Casanova.»
«Ti ho già avvertito. Non chiamarmi così, Max. Vuoi proprio che ti disattivi.»
«Come siamo nervosetti. Davvero, Wade. Quand’è che sei diventato così s-s-suscettibile?»
«Ti cancello, Max. dico davvero. Continua così e torno a usare Wilma Deering. O magari è
la volta che provo la voce di Majel Barrett.» Max si rabbuiò e mi diede le spalle, con la
faccia rivolta alla carta da parati digitale che mutava dietro di lui, una trama di linee
vettoriali multicolore. Max faceva sempre così. Darmi il tormento faceva parte della sua
personalità preprogrammata. Era una cosa che, in fondo, mi divertiva, perché mi
ricordava quando uscivo con Aech. E mi mancava uscire con Aech. Tantissimo.
Gli occhi si posarono sullo specchio del bagno, ma quello che vidi nel riflesso non mi
piacque, perciò chiusi gli occhi finché non finii di fare pipì. Mi domandai (e non era la
prima volta) perché non avessi dipinto di nero anche lo specchio, quando avevo fatto la
finestra.
L’ora successiva al risveglio era la parte che odiavo di più della giornata, perché la
trascorrevo nel mondo reale. Era il momento in cui dovevo occuparmi del tedio di lavare il
mio corpo e fargli fare un po’ di esercizio. Detestavo questa fase perché ogni cosa
contraddiceva l’altra mia vita. La mia vita vera, quella su OASIS. La vista del mio
minuscolo monolocale, il set da immersione, il mio riflesso nello specchio: era tutto un
duro promemoria del fatto che il mondo in cui passavo le mie giornate non era, in realtà,
quello vero.
«Ritirare poltrona» dissi, uscendo dal bagno. La poltrona aptica si distese di nuovo,
istantaneamente, e poi si ritirò contro la parete, lasciando un grande spazio vuoto al centro
della stanza. Mi infilai il visore e caricai La Palestra, una simulazione autonoma.
Mi trovavo, ora, in una grande palestra con attrezzature all’avanguardia e macchine per i
pesi, che potevano essere tutte riprodotte dalla mia tuta aptica. Cominciai il mio esercizio
quotidiano. Addominali, flessioni, aerobica, pesi. Di tanto in tanto, Max mi gridava parole
d’incoraggiamento. «Su le gambe, ra-ra-ragazzina! Brucia quei grassi!» Anche quando ero
collegato a OASIS facevo un po’ di esercizio, ingaggiando combattimenti o correndo
attraverso i paesaggi virtuali, sul mio tapis roulant. Ma avevo l’abitudine di ingozzarmi di
cibo quando mi sentivo frustrato o depresso, ovvero per la maggior parte del tempo. Di
conseguenza, avevo messo su qualche chilo. Se già prima non ero un figurino, ora facevo
fatica a sedermi comodamente nella poltrona aptica e a strizzarmi nella mia tuta
extralarge. Presto avrei dovuto comprarmi un’attrezzatura nuova, con componenti della
linea Husky.
Sapevo che, se non avessi tenuto il peso sotto controllo, sarei probabilmente morto di
accidia prima di trovare l’Egg. Non potevo permettere che succedesse. Perciò presi la
decisione di petto e abilitai il software volontario di blocco OASIS basato sul fitness. Me ne
pentii quasi subito.
Da quell’istante, il computer iniziò a monitorare i miei segni vitali e a tenere traccia del
numero esatto di calorie che bruciavo durante il giorno. Se non soddisfacevo la richiesta di
esercizio quotidiana, il sistema mi impediva di collegarmi al mio account OASIS. Questo
significava che non potevo andare a lavorare, continuare la mia ricerca e, a conti fatti,
vivere la mia vita. Una volta attivato, per due mesi era impossibile disabililitare il blocco.
E, poiché il software era legato al mio account OASIS, non avrei potuto comprare un
nuovo computer o affittare una cabina pubblica in un OASIS café. Se volevo collegarmi,
l’unica era fare ginnastica, prima. Si dimostrò l’unico tipo di spinta motivazionale di cui
avessi bisogno.
Il software di blocco controllava anche la mia dieta. Ogni giorno, mi consentiva di
scegliere i pasti da un menu predefinito di cibi sani, a basso apporto calorico. Il software
ordinava i pasti online, e questi mi venivano recapitati a casa. Dato che non lasciavo mai
l’appartamento, era semplice per il programma prendere nota di tutto quello che
mangiavo. Quando ordinavo del cibo in più, aumentava il tempo da dedicare alla
ginnastica, per pareggiare il consumo di calorie aggiuntive. Era un software parecchio
sadico.
Ma funzionò. I chili di troppo iniziarono a dissolversi e, pochi mesi dopo, ero quasi in
piena forma. Per la prima volta nella mia vita avevo la pancia piatta e i muscoli. Avevo
anche il doppio delle energie e mi ammalavo molto meno. Alla fine di quei due mesi,
quando avrei avuto la possibilità di disabilitare il blocco fitness, decisi invece di
mantenerlo. La ginnastica era diventata, ormai, parte del mio rituale quotidiano.
Quando ebbi finito coi pesi, salii sul tapis roulant. «Cominciare corsa mattutina» dissi a
Max. «Percorso Bifrost.» La palestra virtuale scomparve. Mi trovavo su una pista da corsa
semitrasparente, un nastro ricurvo e ciclico sospeso in una nebulosa di stelle. Nello spazio
attorno a me erano sospese lune di colori cangianti e giganteschi pianeti circondati da
anelli. La pista si stendeva di fronte a me, saliva, ricadeva, e di tanto in tanto si avvolgeva
su se stessa, formando un’elica. Una barriera invisibile mi impediva di cadere, per errore,
dai margini della pista e di precipitare nell’abisso di stelle. Il percorso Bifrost era un’altra
simulazione autonoma, uno dei migliaia di percorsi conservati nel disco fisso della mia
console.
Non appena cominciai a correre, Max lanciò la mia playlist di musica anni ottanta.
Quando iniziò il primo pezzo, in fretta recitai a memoria titolo, artista, album e anno di
pubblicazione: A Million Miles Away, The Plimsouls, «Everywhere at Once», 1983. Presi a
cantarla, parola per parola. Ricordarmi il testo del giusto pezzo anni ottanta avrebbe
potuto salvare la vita al mio avatar, prima o poi.
Finito il percorso, mi sfilai il visore e iniziai a rimuovere la tuta aptica. Era un processo da
fare lentamente, per evitare di danneggiare i componenti della tuta. Mentre me la staccavo
di dosso, gli attuatori schioccavano quando si staccavano dalla mia pelle, lasciandomi
segni circolari su tutto il corpo. Una volta sfilata la tuta, la misi nell’unità lavanderia e
posai la tuta pulita sul pavimento.
Max aveva già aperto i rubinetti della doccia, portando l’acqua alla mia temperatura
ideale. Mentre saltavo nel box, avvolto dal vapore, Max cambiò playlist per passare ai miei
successi da doccia. Riconobbi subito il riff d’apertura di Change di John Waite. Colonna
sonora di Crazy for You. Geffen Records, 1985.
La doccia funzionava un po’ come gli autolavaggi di un tempo. Io non dovevo far altro che
stare lì, in piedi, mentre lei faceva il resto del lavoro, sparandomi addosso, da tutti gli
angoli, spruzzi di acqua insaponata per poi risciacquarmi. Non dovevo lavarmi i capelli,
perché la doccia sparava una soluzione non tossica di depilazione, che mi strofinavo sul
corpo e sulla testa. Questa soluzione eliminava la necessità di rasarmi o tagliarmi i capelli,
fastidi di cui non avevo bisogno. Una pelle liscia favoriva anche l’aderenza della tuta
aptica. Ero un po’ grottesco, senza sopracciglia, ma mi ci abituai.
Quando i getti di risciacquo si interrompevano, partivano gli asciugatori, che mi
soffiavano via l’umidità dalla pelle nel giro di pochi secondi. Andai in cucina e presi una
lattina di Sludge, una bevanda ad alto contenuto proteico e vitaminico che andava a
compensare la privazione del sole grazie alla vitamina D. Mentre la tracannavo, i sensori
del computer, silenziosamente, prendevano nota, scansionando il codice a barre e
aggiungendo il numero di calorie al mio totale quotidiano. Sbarazzatomi della colazione,
mi infilai la tuta aptica pulita. Era meno complicato che togliersela di dosso, ma richiedeva
comunque un po’ di tempo.
Una volta indossata la tuta, ordinai alla poltrona aptica di stendersi. Poi mi fermai un
attimo e passai un momento a osservare il mio Set d’Immersione. Ero così fiero di tutto
questo apparato altamente tecnologico, quando lo avevo acquistato. Ma, negli ultimi mesi,
avevo iniziato a vedere tutta l’attrezzatura per quello che era veramente: un elaborato
congegno nato per ingannare i miei sensi, per permettermi di vivere in un mondo di
finzione. Ogni componente del mio set era una sbarra della cella in cui avevo deciso di
rinchiudermi.
Lì, sotto le cupe luci fluorescenti del mio minuscolo monolocale, non c’era modo di
sfuggire alla verità. Nella vita reale, non ero altro che un eremita asociale. Un recluso. Un
nerd con una carnagione cadaverica e un’ossessione per la cultura pop. Ero soltanto
un’altra anima perduta, triste, solitaria, che sprecava la sua vita su un videogioco osannato
da tutti.
Ma non su OASIS. Lì, ero il grande Parzival. Gunter famoso in tutto il mondo, celebrità
internazionale. La gente mi chiedeva l’autografo. Avevo un fan club. A dire il vero ne
avevo molti. Mi riconoscevano ovunque andassi (e soltanto quando volevo essere
riconosciuto). Mi pagavano per sponsorizzare i prodotti. La gente mi ammirava e si
ispirava a me. Mi invitavano alle feste più esclusive. Andavo nei locali alla moda e non
dovevo mai fare la fila. Ero un’icona della cultura pop, una rockstar della realtà virtuale.
Tra i circoli di Gunter, ero una leggenda. Che dico, un dio.
Mi sedetti e mi infilai i guanti e il visore. Una volta verificata la mia identità, davanti ai
miei occhi comparve il logo della Gregarious Simulation Systems, seguito dal prompt di
login.
Saluti, Parzival.
Per favore pronuncia la frase d’accesso.
Mi schiarii la gola e declamai la mia frase d’accesso. Ogni parola compariva sul display
non appena la pronunciavo: «Nessuno ottiene mai quello che vuole, in questo mondo. E
questo è bello».
Una breve pausa. Mi sfuggì un involontario sospiro di sollievo, mentre OASIS avvolgeva
tutto il mondo intorno a me.

0020
Il mio avatar si materializzò nel centro di comando della mia fortezza, davanti al pannello
di controllo: l’esatto punto in cui ero seduto la sera prima, immerso nel mio rituale
notturno, a fissare la quartina in modo assente, finché non mi ero abbandonato al sonno e
il sistema non mi aveva scollegato. Erano quasi sei mesi che fissavo quella maledetta
quartina, e non ero ancora riuscito a decifrarla. E così nessun altro. Ognuno aveva le
proprie teorie, ovviamente, ma la Chiave di Giada rimaneva nascosta e i punteggi del
Segnapunti immutati.
Il mio centro di comando si trovava sotto una cupola corazzata, incassata nella superficie
rocciosa del mio asteroide privato. Da qui avevo una vista completa del paesaggio che mi
circondava, crateri che si estendevano all’orizzonte a trecentosessanta gradi. Il resto della
fortezza si trovava sotto la superficie, in un enorme complesso sotterraneo che
raggiungeva il nucleo dell’asteroide. Ero stato io, poco dopo essermi trasferito a
Columbus, a programmare il tutto. Il mio avatar aveva bisogno di una roccaforte e non
volevo avere dei vicini, perciò mi ero comprato il planetoide più economico che ero
riuscito a trovare, un brullo, minuscolo asteroide nel Settore 14. Il suo codice era S14A316,
ma io l’avevo rinominato Falco, in onore del rapper austriaco. (Non che fossi un grande
fan di Falco. Ma il nome era fico).
Falco copriva una superficie di pochi chilometri quadrati, eppure mi era costato una bella
sommetta. Ma ne era valsa la pena. Chi possedeva un mondo proprio poteva costruirci
qualsiasi cosa. E nessuno poteva visitare Falco a meno che io non ne autorizzassi l’accesso,
cosa che non facevo mai. La mia fortezza era la mia casa su OASIS. Il santuario del mio
avatar. Era l’unico luogo dell’intera simulazione in cui mi trovavo veramente al sicuro.
Non appena la sequenza di login si concluse, una finestra sul display mi informò che, quel
giorno, ci sarebbero state le elezioni. Avendo compiuto diciott’anni, potevo votare sia per
le elezioni di OASIS sia per quelle del governo degli Stati Uniti. Di queste ultime non mi
preoccupai perché non ne vedevo il senso. A parte il nome, il Paese, un tempo glorioso, in
cui ero nato non aveva conservato nulla di ciò che era stato. Non importava chi ci fosse al
governo: era solo gente che si limitava a risistemare le sdraio sul Titanic, e questo lo
sapevano tutti. Inoltre ora che, attraverso OASIS, si poteva votare da casa, i favoriti alle
elezioni erano stelle del cinema, personaggi dei reality show o predicatori televisivi.
Invece, votai alle elezioni di OASIS, perché l’esito mi avrebbe coinvolto in prima persona.
Il processo richiese pochi minuti, perché conoscevo già bene le questioni che la gss aveva
messo al voto. Bisognava anche eleggere il Presidente e il Vicepresidente del Consiglio
Utenti OASIS, ma quello lo feci a occhi chiusi. Come quasi tutti gli altri Gunter, votai per
rieleggere Cory Doctorow e Wil Wheaton (un’altra volta). Il mandato non aveva limiti ed
era più di dieci anni che quelle due vecchie volpi facevano un lavoro con i controcazzi per
proteggere i diritti degli utenti.
Dopo aver votato, sistemai la poltrona aptica e studiai il pannello di comandi che si
trovava di fronte ai miei occhi. Era pieno di leve, bottoni, tastiere, joystick e display. Alla
mia sinistra, una schiera di monitor di sicurezza mostrava le riprese delle telecamere
virtuali, all’esterno e all’interno della mia roccaforte. Alla mia destra, un’altra schiera di
monitor passava in rassegna tutti i miei canali video di notizie e intrattenimento. Tra
questi, anche il mio canale personale: Parzival tv – Trasmettiamo astrusa robaccia eclettica
24 ore al giorno, 7 giorni su 7, 365 giorni l’anno.
Sempre quell’anno, la gss aveva aggiunto una nuova caratteristica agli account utente,
ovvero un canale vpo (Vidfeed Personale OASIS). Permetteva a chiunque pagasse una
quota mensile di trasmettere in streaming il proprio network televisivo. Chiunque fosse
connesso poteva sintonizzarsi e guardare un canale vpo, da qualsiasi parte del mondo. E
spettava a ciascun proprietario scegliere cosa trasmettere e decidere chi poteva
visualizzarlo. La maggior parte degli utenti sceglieva per sé un «canale voyeur», che era
un po’ come essere la star del proprio reality show, 24 ore al giorno. Telecamere virtuali
seguivano gli avatar in giro per OASIS, mentre svolgevano le loro attività quotidiane.
L’accesso al canale poteva essere limitato, in modo che solo gli amici potessero
sintonizzarsi; in alternativa, si poteva far pagare un prezzo orario a chi volesse accedere al
vpo. Moltissime pornostar e celebrità di basso livello lo facevano vendendo, per una quota
al minuto, le proprie vite virtuali.
Alcuni usavano i vpo per trasmettere filmati della loro vita reale, dei loro cani, dei loro
figli. Altri non programmavano che vecchi cartoni. Le possibilità erano infinite e la varietà
di materiale disponibile diventava sempre più articolata, giorno dopo giorno. Video per
feticisti di piedi trasmessi dall’Europa dell’Est ventiquattr’ore al giorno. Porno amatoriali
con madri di famiglia vogliose del Minnesota. Sparate una cosa a caso, c’era anche quella.
Qualsiasi stramberia che la psiche umana riuscisse a escogitare veniva filmata e poi
trasmessa online. L’infinita terra desolata della programmazione tv aveva raggiunto infine
il suo zenit, e l’individuo medio non era più limitato a quindici minuti di fama. Ormai
chiunque poteva andare in tv, ogni secondo di ogni giorno, indipendentemente dal fatto
che ci fossero o meno spettatori.
Parzival tv non era un canale per voyeur. Anzi, non mostravo mai sul canale il volto del
mio avatar. Avevo messo in palinsesto una serie di programmi anni ottanta, vecchie
pubblicità, cartoni animati, videoclip e film. Un sacco di film. Durante i weekend, in
programmazione c’erano filmetti giapponesi di mostri e vecchi anime, o qualsiasi capriccio
avessi. Non importava poi tanto cosa mandassi in onda. Il mio avatar rimaneva uno dei
Cinque Grandi, perciò il vidfeed richiamava, ogni giorno, milioni di visitatori, a
prescindere dalla programmazione. Tutto ciò mi permetteva di vendere spazi pubblicitari
ai miei sponsor.
I visitatori abituali di Parzival tv erano, nella maggior parte dei casi, Gunter che
monitoravano il mio canale nella speranza che facessi trapelare involontariamente qualche
informazione essenziale sulla Chiave di Giada o sull’Egg. Ovviamente, non capitava mai.
Al momento, Parzival tv stava concludendo una maratona di Jinzo ningen Kikaider durata
due giorni. Kikaider era una serie di azione della fine dei settanta su un androide rosso e
blu che, in ogni episodio, spaccava il culo a mostri vestiti di gomma. Avevo un debole per
i kaiju e i tokusatsu d’annata, per serie come Spectreman, gli Space Giants e Supaidaman.
Aprii il palinsesto e feci qualche cambiamento all’agenda della serata. Eliminai gli episodi
di Riptide e Misfits che avevo messo in programmazione e aggiunsi una serie di film con
Gamera, la mia tartaruga volante preferita. Sapevo che avrebbero riscosso un vero
successo di pubblico. Poi, per finire la giornata, aggiunsi un paio di episodi delMio amico
Ricky.
Anche Art3mis aveva un suo canale vidfeed: uno dei miei monitor era perennemente
sintonizzato su Art3mivision. In quel momento stava mandando in onda il solito menu del
lunedì sera: un episodio di Zero in condotta. Poi sarebbe stato il turno di Electra Woman
and Dyna Girl, seguito a ruota da alcuni episodi di Isis e Wonder Woman. Era da secoli
che non cambiava il palinsesto. Ma non faceva differenza. Aveva comunque degli ascolti
bomba. Da poco, aveva anche lanciato una linea d’abiti femminili per avatar dalle forme
generose. La collezione si chiamava Art3Miss. Direi che se la stava cavando piuttosto bene.
Dopo la serata al Distracted Globe, Art3mis aveva troncato ogni tipo di contatto con me.
Aveva bloccato le mie email, le mie telefonate, le mie richieste di chat. Aveva anche
smesso di scrivere sul blog.
Le avevo provate tutte per contattarla. Avevo mandato dei fiori al suo avatar. Avevo
viaggiato fino alla sua roccaforte, un palazzo supercorazzato su Benatar, la piccola luna di
sua proprietà. Dallo spazio avevo lanciato sul palazzo messaggi e mixtape, come se fossero
bombe d’amore. Una volta, in preda alla disperazione, ero rimasto per due ore intere fuori
dal cancello, con uno stereo sulla spalla, sparando a massimo volume In Your Eyes di
Peter Gabriel.
Non era uscita. Non sapevo nemmeno se era in casa.
Ormai vivevo a Columbus da più di cinque mesi ed erano passate otto lunghe, strazianti
settimane dall’ultima volta che avevo parlato con Art3mis. Ma quel tempo non lo avevo
passato a piangermi addosso, in preda alla depressione. Be’, non tutto il tempo, se non
altro. Avevo provato a godermi la mia «nuova vita» da avatar famoso in tutto il mondo
che vola di settore in settore. Anche se il mio avatar aveva raggiunto il massimo livello,
continuavo a portare a termine il maggior numero possibile di missioni per aggiungere
conquiste alla mia collezione, già sorprendente, di oggetti magici, armi e veicoli, che
tenevo in un caveau nelle viscere della mia fortezza. Le missioni mi tenevano impegnato
ed erano un’efficace distrazione dalla solitudine e dal crescente isolamento da cui mi
sentivo avvolto.
Subito dopo essere stato scaricato da Art3mis, cercai di legare nuovamente con Aech, ma
le cose non erano più come prima. Ci eravamo allontanati, e sapevo che la colpa era mia.
Le nostre conversazioni, ormai, erano formali e schive, come se entrambi avessimo paura
di rivelare informazioni cruciali che l’altro sarebbe riuscito a sfruttare. Era chiaro che non
si fidava più di me. E, mentre io ero impegnato a ossessionarmi con il pensiero di Art3mis,
Aech – a quanto pareva – era ossessionato dall’idea di diventare il primo Gunter a trovare
la Chiave di Giada. Ma erano ormai passati quasi sei mesi da quando avevamo superato la
Prima Porta, e la posizione della Chiave di Giada continuava a rimanere un mistero.
Non parlavo con Aech da quasi un mese. L’ultima conversazione che avevamo avuto si
era ridotta a una gara a chi urlava di più e si era conclusa bruscamente quando gli avevo
ricordato che lui «non avrebbe trovato nemmeno la Chiave di Rame» se io non ce lo avessi
condotto per mano. Mi aveva guardato, freddo, per un istante. Poi era uscito dalla
chatroom. Il mio orgoglio ostinato mi aveva impedito di richiamarlo subito per scusarmi, e
più il tempo passava, più mi sembrava che fosse ormai troppo tardi.
Già. Mi andava tutto di lusso. In meno di sei mesi, ero riuscito a distruggere le mie due
uniche amicizie.
Passai al canale di Aech, che lui aveva intitolato L’H-Feed. Stava trasmettendo un incontro
di wrestling dei tardi anni ottanta, tra Hulk Hogan e André the Giant. Non mi presi
nemmeno la briga di controllare il canale di Daito e Shoto, perché sapevo che stavano
mandando in onda qualche vecchio film di samurai. Non trasmettevano altro.
Pochi mesi dopo il nostro scontro nella Cantina di Aech, ero riuscito a stabilire un saldo
legame di amicizia con Daito e Shoto, quando tutti e tre ci eravamo uniti per completare
una lunga missione nel Settore 22. Era stata una mia idea. Mi sentivo in colpa per come si
era concluso il nostro primo incontro e stavo aspettando l’occasione per porgere ai due
samurai un ramo di ulivo. E l’occasione si presentò quando scoprii una missione nascosta
di alto livello chiamata Shodai Urutoraman, sul pianeta Tokusatsu. Nel colophon della
missione era indicata la sua data di creazione: era stata lanciata molti anni prima della
morte di Halliday, il che significava che non era legata alla Gara. Inoltre, era una missione
in giapponese, creata dalla divisione della gss a Hokkaido. Avrei potuto cercare di
risolverla da solo con il Mandarax, un software di traduzione in tempo reale di cui tutti gli
account OASIS erano dotati. Ma avrebbe potuto essere rischioso. Mandarax spesso
travisava o ingarbugliava le istruzioni delle missioni e questo poteva condurre a errori
fatali.
Daito e Shoto vivevano in Giappone (lì erano stati elevati a eroi nazionali) e sapevo che
entrambi parlavano giapponese e inglese in maniera fluente. Perciò li contattai, chiedendo
se fossero interessati a fare squadra con me per una singola missione. Dapprima erano
scettici ma, dopo aver descritto l’eccezionalità della missione e ciò che credevo fosse la
ricompensa qualora l’avessimo risolta, i due accettarono. Ci incontrammo fuori dalla porta
della missione, su Tokusatsu, ed entrammo insieme.
La missione era una riproduzione di tutti e trentanove gli episodi della serie originale di
Ultraman, che era andata in onda sulla tv giapponese dal 1966 al 1967. La trama gravitava
intorno a un umano di nome Hayata, membro della Pattuglia Scientifica,
un’organizzazione specializzata nel combattere le orde di mostri godzilloidi che
attaccavano di continuo la Terra e minacciavano la civiltà. Ogni volta che la Pattuglia
Scientifica incappava in una minaccia che non era in grado di affrontare, Hayata usava un
dispositivo alieno chiamato «Capsula Beta» per trasformarsi in una supercreatura aliena:
Ultraman. Poi iniziava subito a prendere a calci nel culo il mostro della settimana, usando
qualsiasi attacco di energia e mossa di kung fu possibile e immaginabile.
Se avessi varcato la porta da solo, avrei automaticamente giocato l’intera storia nel ruolo di
Hayata. Ma, entrando insieme a Shoto e a Daito, ci fu concesso di scegliere il membro della
Pattuglia Scientifica preferito. Avremmo potuto scambiarci i personaggi a ogni livello o
«episodio». Facemmo a turno giocando nel ruolo di Hayata e dei suoi compagni della
Pattuglia Scientifica, Hoshino e Arashi. Come in molte missioni OASIS, giocare in squadra
rendeva più semplice sconfiggere i nemici e completare i livelli.
Impiegammo una settimana, spesso giocando per più di sedici ore al giorno, ma
finalmente ci riuscimmo. E, quando mettemmo piede fuori dalla porta della missione, i
nostri avatar ricevettero un’enorme quantità di Punti Esperienza e diverse migliaia di
crediti. Ma il vero premio per aver completato la missione era un artefatto incredibilmente
raro: la Capsula Beta di Hayata. Il piccolo cilindro di metallo concedeva all’avatar che ne
era in possesso di trasformarsi in Ultraman una volta al giorno, per tre minuti.
Dal momento che eravamo in tre, discutemmo su chi avrebbe dovuto conservare il
prezioso oggetto. «Dovrebbe tenerlo Parzival» aveva detto Shoto, rivolgendosi al fratello
maggiore. «Ha trovato lui questa missione. Non ne avremmo mai saputo niente, non fosse
stato per lui.» Naturalmente, Daito si era mostrato in disaccordo. «E lui non sarebbe
riuscito a completare la missione senza il nostro aiuto!» Disse che l’unica cosa leale da fare
sarebbe stata mettere la Capsula Beta all’asta e poi dividersi il ricavato. Ma non potevo
permetterlo. Era troppo preziosa per venderla, e sapevo che sarebbe caduta nelle mani dei
Sixer, perché arraffavano qualsiasi oggetto magico venisse messo all’asta. La vedevo anche
come un’opportunità per entrare nelle grazie dei Daisho.
«Penso che dovreste tenerla voi» dissi. «Urutoraman è il più grande supereroe del
Giappone. I suoi poteri dovrebbero rimanere nelle mani dei giapponesi.» Entrambi furono
colpiti dalla mia generosità. Daito in particolare. «Grazie, Parzival-san» disse, facendo un
ampio inchino. «Sei un uomo d’onore.» Dopodiché, ci lasciammo da amici, se non
addirittura alleati, e la considerai una grande ricompensa per i miei sforzi.
Un trillo risuonò nelle mie orecchie. Controllai l’ora. Erano quasi le otto. L’ora di portare a
casa la pagnotta.
Ero quasi sempre a corto di contanti, a prescindere da quanto frugalmente cercassi di
vivere. Ogni mese dovevo pagare molte bollette piuttosto care, sia nel mondo reale sia su
OASIS. Le mie spese del mondo reale erano le solite. Affitto, Elettricità, Vitto, Acqua. Le
riparazioni dell’hardware e qualche aggiornamento. Le spese del mio avatar erano, invece,
molto più stravaganti. Riparazioni alle navicelle. Tariffe di teletrasporto. Unità di energia.
Munizioni: le compravo all’ingrosso, ma non erano esattamente a buon mercato. E le mie
spese mensili di teletrasporto raggiungevano spesso cifre astronomiche. La ricerca
dell’Egg richiedeva viaggi frequenti e la gss continuava ad alzare le tariffe del
teletrasporto.
Avevo ormai già speso tutto il gruzzolo messo da parte con la pubblicità. Quasi tutto era
andato a coprire le spese per l’equipaggiamento e per l’acquisto di un asteroide privato.
Ogni mese guadagnavo discretamente vendendo spazi pubblicitari sul mio canale vpo e
mettendo all’asta oggetti magici, armature o armi che avevo ottenuto durante i viaggi e di
cui non avevo bisogno. Ma la mia fonte primaria di entrate era il lavoro a tempo pieno
come supporto tecnico OASIS.
Quando avevo creato la mia nuova identità da Bryce Lynch, mi ero assegnato una laurea e
una serie di certificati tecnici, oltre a un impeccabile e lunghissimo dossier lavorativo come
programmatore OASIS e sviluppatore di applicazioni. Malgrado il mio falso curriculum
impeccabile, l’unico lavoro che ero riuscito ad accaparrarmi era quello di Rappresentante
Supporto Tecnico di Primo Livello presso la Helpful Helpdesk Inc., una delle società che la
gss usava per il servizio di gestione e supporto clienti. Lavoravo quaranta ore a settimana,
aiutando i soliti bambocci a riavviare le loro console OASIS e aggiornare i driver dei
guanti aptici. Era un lavoro estenuante, ma mi pagava le bollette.
Chiusi il mio account OASIS e usai l’attrezzatura per collegarmi con un altro account che
mi era stato assegnato per il lavoro. Il processo di login terminò e presi i comandi del mio
avatar di lavoro, un bambolotto alla Ken fatto con lo stampino che mi serviva a rispondere
alle chiamate per il supporto tecnico. Il mio avatar comparve in un call center virtuale
enorme, nel mio cubicolo virtuale, seduto a una scrivania virtuale, di fronte a un computer
virtuale, con un set di cuffie e un microfono virtuale.
Quel luogo, per come la vedevo io, era il mio inferno privato virtuale.
La Helpful Helpdesk Inc. rispondeva a milioni di chiamate al giorno, da tutte le parti del
mondo. Ventiquattr’ore su ventiquattro. Trecentosessantacinque giorni l’anno. Cretini
confusi e incazzati come se piovesse. Non c’era pausa tra una chiamata e l’altra, perché
c’erano sempre centinaia di sfigati in linea, tutti pronti ad attendere per ore un tecnico che
gli tenesse la mano mentre risolveva il problema. Perché prendersi la briga di cercare la
soluzione online? Perché anche solo cercare di risolvere il problema, quando si può
trovare qualcuno che ci pensa al posto tuo?
Come al solito, il mio turno di dieci ore passò lentamente. Ma avevo trovato dei modi per
ingannare il tempo. Il mio account di lavoro era fatto in modo tale che non potessi visitare
siti esterni, ma avevo modificato il visore per poter ascoltare la musica o vedere film in
streaming dal disco fisso, mentre rispondevo alle chiamate.
Quando, finalmente, il mio turno finì e mi scollegai, mi ricollegai subito con il mio account
OASIS. Avevo ricevuto migliaia di nuovi messaggi e capii, anche solo leggendo l’oggetto
delle email, che cosa fosse successo mentre lavoravo.
Art3mis aveva trovato la Chiave di Giada.

0021
Come tutti gli altri Gunter sparsi per il globo, ero terrorizzato all’idea di un cambiamento
sul Segnapunti, perché sapevo che avrebbe dato ai Sixer un vantaggio sleale.
Pochi mesi dopo che tutti avevano superato la Prima Porta, un avatar anonimo aveva
messo all’asta un oggetto superpotente. Si chiamava laTavoletta di Ricerca di Fyndoro ed
era dotata di poteri incredibili che concedevano a chi la possedeva un vantaggio inaudito
nella caccia all’Easter Egg di Halliday.
Praticamente tutti gli oggetti virtuali di OASIS venivano generati dal sistema in maniera
casuale e «cadevano a terra» ogni qualvolta si uccideva un png o si completava una
missione. I più rari erano gli artefatti, oggetti magici superpotenti che conferivano abilità
eccezionali. Esistevano solo poche centinaia di artefatti, che risalivano tutti ai primi giorni
di OASIS, quando era ancora, principalmente, un gioco mmo. Ciascun artefatto era unico,
il che significava che ne esisteva soltanto una copia nell’intera simulazione. In genere, per
ottenere un artefatto, era necessario portare a termine missioni di alto livello affrontando
prove come annientare mostri finali praticamente onnipotenti. Con un po’ di fortuna il
malvagio, una volta morto, avrebbe lasciato un artefatto.
Gli artefatti si potevano ottenere anche uccidendo un avatar che ne possedeva uno nel
proprio inventario, o comprandoli nelle aste online. Poiché gli artefatti erano così rari, il
fatto che anche uno soltanto venisse messo all’asta costituiva una notizia eclatante. Alcuni
erano stati venduti per centinaia di migliaia di crediti, a seconda dei loro poteri. Il record
era stato raggiunto tre anni prima, quando era stato battuto un artefatto chiamato il
Cataclizzatore. A quanto diceva il listino dell’asta, il Cataclizzatore era una sorta di bomba
magica che poteva essere usata una volta sola. Quando veniva innescato, uccideva ogni
singolo avatar e png presente nel settore, incluso il suo stesso proprietario. Non c’era
modo di difendersi. Se avevi la sfortuna di trovarti in quel settore quando esplodeva, eri
spacciato, a prescindere da quanto fossi potente o ben corazzato.
Il Cataclizzatore era stato venduto a un offerente anonimo per poco più di un milione di
crediti. Non era stato ancora fatto esplodere, il che significava che il nuovo possessore lo
custodiva da qualche parte, in attesa del momento giusto per usarlo. Era ormai diventato
una specie di battuta ricorrente. Quando una Gunter femmina si trovava circondata da
Gunter maschi che non le piacevano, se ne veniva fuori dicendo di avere il Cataclizzatore
nell’inventario e minacciava di farlo esplodere. Ma perlopiù si temeva che fosse caduto
nelle mani dei Sixer, così come altri potentissimi artefatti.
La Tavoletta di ricerca di Fyndoro finì per essere venduta a una cifra più alta di quella del
Cataclizzatore. Secondo la descrizione dell’asta, la tavoletta era un cerchio piatto di pietra
nera lavorata e aveva un potere molto semplice. Una volta al giorno, il possessore poteva
scrivere sulla superficie della pietra il nome di un avatar qualsiasi, e la tavoletta avrebbe
indicato la posizione dell’avatar in quel preciso istante. In ogni caso, questo potere aveva
limiti di portata: se ti trovavi in un settore OASIS diverso da quello dell’avatar che volevi
rintracciare, la tavoletta non poteva rivelare altro che il settore in cui il tuo obiettivo era
situato. Se, invece, ti capitava di essere nel medesimo settore, la tavoletta segnalava il
pianeta in cui si trovava l’obiettivo (o quello più vicino, qualora l’avatar stesse navigando
nello spazio). Se, quando avessi usato la tavoletta, ti fossi ritrovato sullo stesso pianeta
dell’obiettivo, le coordinate esatte sarebbero apparse su una mappa.
Come il venditore dell’artefatto si preoccupò di specificare nel listino dell’asta, la tavoletta
si trasformava in uno degli oggetti più preziosi di OASIS, qualora il suo potere fosse stato
usato congiuntamente al Segnapunti. Non bisognava fare altro che osservare il Segnapunti
e aspettare che il punteggio di qualcuno aumentasse. Nell’istante in cui fosse successo,
scrivere il nome di quell’avatar sulla tavoletta avrebbe segnalato la sua posizione,
rivelando così il punto in cui si trovava la chiave che era appena stata scoperta, o la porta
che era appena stata superata. A causa della portata limitata dell’artefatto, trovare la
posizione esatta dell’avatar avrebbe potuto richiedere due o tre tentativi ma era pur
sempre un’informazione per cui moltissime persone avrebbero ucciso.
Quando la Tavoletta di ricerca di Fyndoro fu messa all’asta, scoppiò una competizione
feroce tra molti dei più numerosi clan di Gunter. Ma quando l’asta si concluse, la tavoletta
finì nelle mani dei Sixer, per quasi due milioni di crediti. Era stato proprio Sorrento a fare
l’offerta con il suo account. Aveva atteso gli ultimi secondi dell’asta per rilanciare su tutti
gli altri. Avrebbe potuto puntare da anonimo ma, ovviamente, voleva che il mondo
sapesse in quali mani era l’artefatto. Questo era anche il suo modo di informare i Cinque
Grandi che, da quel momento in poi, non appena avessimo trovato una chiave o superato
una porta, i Sixer ci avrebbero rintracciati. E che non potevamo farci niente.
Dapprima, temevo che i Sixer avrebbero usato la tavoletta per trovarci, uno per uno, e
ucciderci. Ma localizzare i nostri avatar non poteva tornargli utile, a meno che non ci
trovassimo in una zona PvP e fossimo così stupidi da rimanerci fino a che i Sixer non ci
avessero raggiunti. E, dato che la tavoletta poteva essere usata soltanto una volta al giorno,
avrebbero rischiato di perdere la loro opportunità, qualora la situazione sul Segnapunti
fosse variata proprio nel giorno in cui avessero usato la tavoletta per rintracciarci. Non
corsero il rischio. Misero da parte l’artefatto e attesero il loro momento.
Meno di mezz’ora dopo l’aumento del punteggio di Art3mis, l’intera flotta dei Sixer fu
vista convergere sul Settore 7. Nel momento in cui il Segnapunti era cambiato, i Sixer
avevano senza dubbio usato la Tavoletta di ricerca di Fyndoro per rintracciare la posizione
di Art3mis. Fortunatamente, l’avatar Sixer che stava usando la tavoletta (probabilmente lo
stesso Sorrento) si trovava in un settore diverso da quello di Art3mis, perciò la tavoletta
non rivelò il pianeta esatto in cui lei si trovava. Svelò ai Sixer soltanto il settore. E così,
l’intera flotta dei Sixer si fiondò in tutta fretta al Settore 7.
Grazie alla loro totale mancanza di discrezione, tutti, ormai, sapevano che la Chiave di
Giada doveva essere nascosta da qualche parte in quel settore. Naturalmente, migliaia di
Gunter vi si erano diretti subito. I Sixer avevano ridotto l’area di ricerca per chiunque.
Fortunatamente, il Settore 7 contenteva migliaia di pianeti, lune e altri mondi, e la Chiave
di Giada avrebbe potuto essere ovunque.
Passai le ore successive in uno stato di shock, sconvolto dal fatto che ero appena stato
spodestato. Che è esattamente come la misero i titoli delle news: parzival spodestato!
art3mis nuova gunter numero 1! I sixer si avvicinano!
Quando riuscii a darmi una calmata, aprii il Segnapunti e mi costrinsi a osservarlo per
dieci minuti buoni, rimproverandomi in silenzio.
PUNTEGGI:
1. Art3mis 129.000
2. Parzival 110.000
3. Aech 108.000
4. Daito 107.000
5. Shoto 106.000
6. IOI-655321 105.000
7. IOI-643187 105.000
8. IOI-621671 105.000
9. IOI-678324 105.000
10. IOI-637330 105.000
Non puoi dar la colpa a nessun altro all’infuori di te, mi ripetevo. Hai lasciato che il
successo ti desse alla testa. Ti sei rammollito anziché impegnarti nella ricerca. Eh? Credevi
che quel lampo di genio ti avrebbe colpito per due volte di fila? Credevi che prima o poi ti
saresti imbattuto per caso nell’indizio di cui avevi bisogno per trovare la Chiave di Giada?
Essere al primo posto per tutto quel tempo ti ha dato un falso senso di sicurezza. Ma non
hai più quel problema, no, testina di cazzo? No, perché anziché metterti sotto e
concentrarti sulla ricerca come avresti dovuto, hai buttato nel cesso il primato. Hai
sprecato sei mesi a cazzeggiare e a sospirare per una ragazzetta che non hai nemmeno mai
visto. La ragazzetta che ti ha scaricato. La stessa che finirà per stracciarti.
E ora… rimettiti a pensare al gioco, sfigato. E trova quella chiave.
Improvvisamente, ero più motivato a vincere la gara di quanto non lo fossi mai stato. E
non soltanto per i soldi. Volevo dimostrare qualcosa ad Art3mis. E volevo che la Caccia si
concludesse, così lei avrebbe ripreso a parlarmi. Così avrei potuto finalmente incontrarla,
vedere il suo vero volto, cercare di capire cosa provavo per lei.
Tolsi il Segnapunti dal display e aprii il diario del Graal, che era ormai diventato una
montagna di dati, con ogni straccio di informazione che avessi raccolto dall’inizio della
gara. Era un guazzabuglio di finestre a cascata sospese davanti ai miei occhi, con testi,
mappe, foto, file audio e video, pieni di rimandi dall’uno all’altro, tutti classificati, tutti
pulsanti di vita.
Tenevo la quartina sott’occhio in una finestra sempre aperta in primo piano. Quattro versi.
Ventisei parole. Quarantasei sillabe. Le avevo fissate così spesso, così a lungo, che avevano
praticamente perso ogni significato. Riguardandole, in quel momento, dovetti resistere
all’impulso di urlare dalla rabbia e dalla frustrazione.
La Chiave di Giada il capitano ha celata,
In una dimora da tempo abbandonata,
Ma nel fischietto soffiar tu potrai,
Se dei trofei la raccolta farai.
Sapevo di avere la risposta davanti agli occhi. Art3mis l’aveva già scoperta.
Rilessi i miei appunti su John Draper, alias Captain Crunch, e sul fischietto di plastica che
gli aveva fatto guadagnare un posto di rilievo negli annali degli hacker. Ero ancora
dell’idea che fossero quelli, il «capitano» e il «fischietto» cui Halliday alludeva. Ma le altre
parti della quartina restavano avvolte nel mistero.
Tuttavia, possedevo una nuova informazione: la chiave era da qualche parte nel Settore 7.
Perciò aprii le mappe di OASIS e mi misi alla ricerca di pianeti con un nome che potesse
essere in qualche modo legato alla quartina. Alcuni mondi, come Woz e Mitnick, erano
intitolati a hacker famosi, ma non ne trovai nessuno dedicato a John Draper. Il Settore 7
conteneva, inoltre, centinaia di mondi battezzati in onore di vecchi newsgroup usenet. Su
uno di essi, il pianeta alt.phreaking, si trovava una statua di Draper, con un vecchio
telefono a disco in una mano e un fischietto della Cap’n Crunch nell’altra. Ma la statua era
stata eretta tre anni dopo la morte di Halliday, quindi sapevo che sarebbe stato un vicolo
cieco.
Rilessi, ancora una volta, la quartina. Questa volta gli ultimi due versi mi colpirono:
Ma nel fischietto soffiar tu potrai,
Se dei trofei la raccolta farai.
Trofei. In qualche punto del Settore 7. Devo trovare una collezione di trofei nel Settore 7.
Feci una breve ricerca tra i file che avevo su Halliday. A quanto ne sapevo, gli unici trofei
che avesse mai ricevuto erano i cinque premi di Game Designer dell’Anno che aveva vinto
al volgere del secolo. I trofei erano ancora esposti nel Museo gss di Columbus, ma se ne
potevano ammirare delle copie all’interno di OASIS, su un pianeta chiamato Archaide.
E Archaide si trovava nel Settore 7.
Il collegamento poteva essere labile, ma volevo comunque tentare. Alla peggio, avrei fatto
qualcosa di produttivo per un paio d’ore. Lanciai un’occhiata a Max, che ballava la samba
in uno dei monitor del centro di comando. «Max, prepara il Vonnegutal decollo. Se non sei
troppo impegnato.» Max smise di ballare e mi rivolse un sorrisetto. «Agli ordini, El
Comanchero!» Mi alzai e raggiunsi l’ascensore della fortezza, che avevo progettato sul
modello del turbo ascensore del primo Star Trek. Scesi per quattro piani, fino all’Arsenale,
un caveau pieno di mensole per lo stoccaggio, vetrinette e scaffali di armi. Aprii il display
dell’inventario: aveva la forma di una bambolina di carta con l’aspetto del mio avatar, e
potevo trascinarci gli oggetti e l’attrezzatura che volevo.
Archaide era situato in zona PvP, perciò decisi di potenziare l’equipaggiamento e
indossare il vestito buono. Mi infilai la scintillante armatura rinforzata Hale Mail +10, poi
allacciai alla cintura il mio set preferito di blaster e mi misi in spalla un fucile a pompa con
impugnatura a pistola, insieme a una cazzutissima spada vorpal +5. Agguantai anche una
manciata di altri oggetti essenziali. Un paio di stivali antigravità in più. Un Anello della
resistenza magica. Un Amuleto protettivo. Diverse paia di Guanti della forza del gigante.
Odiavo l’idea di ritrovarmi senza qualcosa di cui avrei potuto aver bisogno, e per questo
finivo per attrezzarmi più di quanto sarebbe bastato per tre Gunter. Quando esaurivo lo
spazio sul mio avatar, infilavo il rimanente nel mio Zaino conservante.
Non appena fui equipaggiato a dovere, saltai di nuovo nell’ascensore e, pochi secondi
dopo, raggiunsi l’entrata dell’hangar, al livello più profondo della fortezza. Strisce di luci
blu lampeggiavano sulla pista di decollo, che correva lungo il centro dell’hangar fino a
raggiungere un imponente portellone rinforzato, sul fondo. Il portellone si apriva su un
tunnel di lancio, che conduceva a un altro portellone identico e altrettanto rinforzato, sulla
superficie dell’asteroide.
A sinistra della pista, c’era il mio X-wing. Parcheggiata sulla destra, la DeLorean. In mezzo
alla pista c’era la navicella che usavo più spesso, il Vonnegut. Max aveva già avviato i
motori, che emettevano un sommesso, costante ruggito che echeggiava per tutto l’hangar.
Il Vonnegut era una nave trasportatrice, ampiamente modificata, di classe Firefly, sul
modello della Serenity di Firefly, la vecchia serie tv. Quando me ne ero impadronito, la
nave si chiamava Kaylee, ma l’avevo subito ribattezzata in onore di uno dei miei scrittori
preferiti del Ventesimo secolo. Il nome era stampato sul fianco dello scafo, grigio e
ammaccato.
Avevo sequestrato il Vonnegut a quelli del clan degli Oviraptor che avevano scioccamente
cercato di impadronirsi del mio X-wing mentre stavo viaggiando attraverso un gruppo di
mondi del Settore 11, noto come lo «Whedonverso». Gli Oviraptor erano bastardelli
arroganti e non sapevano con chi avevano a che fare. Ero di pessimo umore già prima che
aprissero il fuoco contro di me. Fosse stato un altro giorno, probabilmente mi sarei limitato
a seminarli accelerando alla velocità della luce. Ma quel giorno decisi di prenderla sul
personale.
Le astronavi erano come tutti gli altri oggetti di OASIS. Ognuna aveva le proprie
caratteristiche, le proprie armi, la propria velocità. Il mio X-wing era molto più
manovrabile dell’enorme nave da trasporto degli Oviraptor, e così non ebbi problemi a
evitare lo sbarramento creato dalle loro armi da rigattiere mentre li bombardavo con raggi
laser e siluri di protoni. Dopo aver messo fuori uso i motori, saltai sulla loro nave e uccisi
tutti gli avatar che trovavo. Il capitano, una volta capito chi fossi, cercò di scusarsi, ma non
ero dell’umore giusto per il perdono. Dopo essermi occupato dell’equipaggio, parcheggiai
l’X-wing nel deposito e filai a casa con la mia nuova navicella.
Non appena mi avvicinai al Vonnegut, la rampa di carico si abbassò fino a toccare il
pavimento dell’hangar. Quando raggiunsi la cabina di pilotaggio, l’astronave si stava già
alzando dal suolo. Mentre mi sedevo ai comandi, udii il rumore del carrello che si ritirava.
«Max, chiudi tutto e prepara la rotta per Archaide.»
«Sissignore, C-c-capitano» balbettò Max da uno dei monitor dell’abitacolo. I portelloni
dell’hangar si spalancarono e il Vonnegut schizzò fuori dal tunnel di lancio, nel cielo
stellato. L’astronave si era appena sollevata e i portelloni del tunnel si stavano già
richiudendo.
Notai molte navicelle che campeggiavano in orbita intorno a Falco. I soliti sospetti: fan
sfegatati, discepoli smaniosi e aspiranti cacciatori di taglie. Alcuni di loro, quelli che
stavano facendo manovra per inseguirmi, erano Tag-a-long: gente che passava la maggior
parte del tempo a inseguire Gunter di spicco per raccogliere informazioni sui loro
movimenti e, in seguito, rivenderle. Riuscivo sempre a seminarli saltando alla velocità
della luce. E per loro era una fortuna: ogni volta che non riuscivo a seminare uno stalker,
non avevo altra scelta che ucciderlo.
Quando il Vonnegutfece il salto alla velocità della luce, tutti i pianeti proiettati sullo
schermo divennero un’unica scia luminosa. «V-v-velocità della luce attivata, Capitano»
riferì Max. «Il tempo di arrivo a destinazione per Archaide è di cinquantatré minuti.
Quindici, se preferisci usare lo Stargate più vicino.» Gli Stargate avevano posizioni
strategiche in ciascun settore. Erano dei teletrasportatori enormi, grandi quanto
un’astronave. Ma, dato che le tariffe si basavano sulla massa della navicella e sulla
distanza da percorrere, venivano usati soprattutto dalle corporazioni o da avatar così
ricchi da divertirsi a buttare via dei crediti. Non ero nessuna delle due cose, ma le
circostanze mi spinsero a sperperare un po’.
«Prendiamo lo stargate, Max. Siamo piuttosto di fretta.»

0022
Il Vonnegut abbandonò la velocità della luce e Archaide riempì d’improvviso lo schermo
nell’abitacolo. Spiccava, tra gli altri pianeti della zona, perché non era stato programmato
per sembrare reale. Tutti i pianeti vicini erano riprodotti alla perfezione, con nubi,
continenti, crateri che ne ricoprivano la superficie sferica. Ma Archaide non era così,
perché ospitava il più grande museo di videogiochi di tutto OASIS, e la sua conformazione
era progettata in omaggio ai giochi in grafica vettoriale creati a cavallo tra gli anni settanta
e ottanta. L’unica caratteristica della superficie era una rete di punti verdi luminosi che
somigliavano alle luci della pista di un aeroporto. Erano distribuiti uniformemente sul
pianeta e formavano una griglia perfetta che, dall’alto, dava ad Archaide l’aspetto della
Morte Nera nel gioco Atari di Guerre Stellari del 1983.
Mentre Max cercava di far atterrare il Vonnegut, mi preparai all’eventualità di un
combattimento caricando l’armatura e riempiendomi di pozioni e nano-pack. Archaide
non era soltanto una zona PvP, era anche una zona di caos, il che significava che sia la
tecnologia sia la magia avrebbero funzionato. Perciò mi premurai di caricare tutte le
risorse macro da combattimento.
La rampa in metallo del Vonnegut, graficamente perfetta, si abbassò al suolo, spiccando
nel contrasto con il buio digitale della superficie di Archaide. Scendendo dalla rampa,
diedi un colpetto a un tastierino che avevo sul polso destro. La rampa si ritirò, e udii il
ronzio metallico del sistema di sicurezza della nave che veniva attivato. Uno scudo blu
trasparente apparve intorno allo scafo del Vonnegut.
Osservai l’orizzonte, una linea vettoriale frastagliata a indicare un terreno montuoso. In
superficie, il paesaggio di Archaide era esattamente uguale a quello di Battlezone, un altro
classico videogioco vettoriale Atari, del 1981. Lontano, un vulcano triangolare
sputacchiava pixel di lava verde. Si sarebbe potuto correre verso il vulcano per giorni
senza mai raggiungerlo. Rimaneva sempre fermo all’orizzonte. Come in un vecchio
videogioco, lo scenario di Archaide non cambiava mai, neanche se circumnavigavi il
pianeta.
Seguendo le istruzioni che gli avevo impartito, Max aveva fatto scendere il Vonnegut in
un’area di atterraggio vicino all’equatore, nell’emisfero orientale. Il terreno era libero e
l’area circostante sembrava deserta. Mi diressi verso il punto verde più vicino.
Avvicinandomi, notai che in realtà era l’imboccatura di un tunnel, un cerchio verde al
neon, dieci metri di diametro, che conduceva sottoterra. Archaide era un pianeta
disabitato, e l’area espositiva del museo si trovava sottoterra.
Raggiunta l’entrata del tunnel più vicino, udii la musica, a massimo volume, che
proveniva dal sottosuolo. Riconobbi la canzone, Pour Some Sugar on Me dei Def Leppard,
tratta dall’album «Hysteria» (Epic Records, 1987). Raggiunsi il bordo del cerchio
verdebrillante e ci saltai dentro. Mentre il mio avatar precipitava giù, nel museo, la grafica
vettoriale verde scomparve e mi ritrovai in un ambiente a colori ad alta risoluzione. Tutto,
intorno a me, sembrava nuovamente reale.
Nei sotterranei, Archaide ospitava migliaia di sale giochi, ciascuna delle quali era
un’amorevole riproduzione di una sala giochi realmente esistita da qualche parte, nel
mondo reale. Dagli albori di OASIS, migliaia degli utenti più anziani erano giunti sul
pianeta e avevano diligentemente trascritto i codici per riproduzioni virtuali delle sale
giochi che ricordavano dai tempi dell’infanzia, rendendole così parte integrante del
museo. E tutte quelle sale giochi, sale da bowling, pizzerie virtuali, erano strapiene di
videogiochi classici. C’era almeno una copia di ogni videogioco a gettone che fosse mai
stato creato. Le ROM originarie dei giochi erano conservate nel codice OASIS del pianeta,
e ciascuno dei mobili arcade in truciolato era stato programmato per somigliare
all’originale. Sparse per tutto il museo vi erano innumerevoli teche e oggetti esposti
dedicati a molti programmatori e case di produzione di videogiochi.
I vari piani del museo comprendevano immense caverne, collegate tra loro da una serie di
strade sotterranee, e poi tunnel, scalinate, ascensori, scale mobili, scale a pioli, scivoli,
botole e passaggi segreti. Era come uno sterminato labirinto sotterraneo a più livelli.
Questa configurazione rendeva estremamente facile perdersi, perciò tenni una mappa
olografica tridimensionale sul display. La posizione attuale del mio avatar era indicata da
un puntino blu lampeggiante. Entrato nel museo, a pochi metri dalla superficie, mi trovai
accanto un vecchio arcade chiamato Aladdin’s Castle. Toccai un punto della mappa, vicino
al centro del pianeta, che indicava la mia destinazione, e il software calcolò il percorso più
rapido per arrivarci: seguendolo, iniziai a correre.
Il museo era strutturato su diversi livelli. Qui, vicino alla superficie del pianeta, si
potevano trovare gli ultimi esemplari di videogiochi a gettone, risalenti ai primi decenni
del Ventunesimo secolo. Si trattava perlopiù di simulatori con attrezzatura aptica di prima
generazione: poltrone che vibravano e piattaforme idrauliche oscillanti. Moltissime Stock-
car connesse tra loro, che permettevano di gareggiare l’uno contro l’altro. Questi giochi
erano gli ultimi del loro genere. A quel tempo, le console domestiche avevano già reso
obsoleti i giochi a gettone. Dopo che OASIS fu messo online, la produzione fu sospesa di
colpo.
Man mano che ci si avventurava nelle profondità del museo, i giochi che si incontravano
erano sempre più vecchi e arcaici. Giochi a gettone di fine secolo. Picchiaduro con goffi
personaggi a poligoni che si facevano il culo a vicenda su grandi monitor piatti. Sparatutto
con rudimentali pistole ottiche. Videogiochi musicali. E, una volta raggiunto il livello
sottostante, i giochi iniziavano a somigliarsi tutti. Ognuno aveva la sua scatola di legno
rettangolare, il suo tubo catodico e un grossolano set di comandi montato sulla parte
anteriore. Per giocare si usavano gli occhi e le mani (e, di tanto in tanto, le gambe). Nulla
di aptico. Questo tipo di giochi non faceva percepire nulla. Più scendevo, più le grafiche si
facevano rudimentali.
L’ultimo livello del museo, situato al centro del pianeta, era una stanza sferica con un
altare dedicato al primo videogioco in assoluto, Tennis for Two, ideato da William
Higinbotham nel 1958. Il gioco girava su un antichissimo computer analogico e si giocava
su un minuscolo oscilloscopio, non più di 12 centimetri di diametro. Accanto, c’era la
riproduzione di un PDP-1, su cui era visibile una copia di Spacewar!, il secondo
videogioco mai creato, ideato nel 1962 da un gruppo di studenti del MIT.
Come quasi tutti i Gunter, avevo già visitato Archaide altre volte. Ero arrivato fino al
centro del pianeta e avevo giocato a Tennis for Two e a Spacewar! fino a conoscerli a
memoria. Poi mi ero aggirato per gli altri piani del museo, fermandomi a giocare e
cercando indizi che Halliday potesse aver sparso in giro. Ma non avevo mai trovato nulla.
Continuai a correre, sempre più giù, finché non raggiunsi il museo GSS, situato pochi
livelli sopra il centro del pianeta. Ero già stato anche lì, perciò mi orientavo piuttosto bene.
C’erano esposizioni dedicate a tutti i videogiochi più famosi della GSS, comprese alcune
riedizioni di titoli pubblicati per personal computer e console. Non mi ci volle molto per
trovare l’area dove erano stati esposti i cinque trofei di Halliday, accanto a una statua in
bronzo che lo ritraeva.
Era passato soltanto qualche minuto, e già sapevo che stavo sprecando il mio tempo.
L’esposizione della GSS era stata programmata perché fosse impossibile rimuovere gli
oggetti in mostra, perciò i trofei non potevano essere «raccolti». Persi qualche minuto
cercando, invano, di separare un trofeo dal suo piedistallo con l’aiuto di una torcia a
saldatura laser. Poi gettai la spugna.
Sempre e solo vicoli ciechi. Il mio viaggio era stato un’enorme perdita di tempo. Mi
guardai attorno un’ultima volta e poi mi diressi all’uscita, cercando di evitare che la
frustrazione prendesse il sopravvento.
Decisi di percorrere una strada alternativa per ritornare in superficie, attraversando una
sezione del museo che non avevo mai ispezionato durante le visite precedenti. Vagai per
una serie di tunnel che mi condussero in una gigantesca sala cavernosa. Conteneva una
sorta di città sotterranea composta interamente da pizzerie, sale da bowling, minimarket e,
ovviamente, sale giochi. Gironzolai nel labirinto di strade deserte, poi imboccai un
tortuoso vicolo secondario che terminava di fronte all’ingresso di una pizzeria.
Mi si gelò il sangue quando vidi il nome del locale.
Si chiamava Happytime Pizza, ed era la copia di una piccola pizzeria a conduzione
familiare realmente esistita nella cittadina di Halliday a metà degli anni ottanta. A quanto
pareva, Halliday aveva trascritto il codice della Happytime Pizza dalla simulazione di
Middletown e ne aveva nascosto un duplicato proprio dentro il museo di Archaide.
Che diavolo ci faceva qui? La sua esistenza non era mai stata menzionata in alcun forum
di Gunter né in alcuna guida strategica. Possibile che nessuno l’avesse notata fino ad
allora?
Halliday citava spesso la Happytime Pizza, nell’Almanacco, perciò sapevo che conservava
un bel ricordo del posto. Ci andava spesso dopo la scuola, per non dover tornare a casa.
L’interno riproduceva, con un’appassionata cura per il dettaglio, l’atmosfera di una tipica
pizzeria o sala giochi anni ottanta. Dietro al bancone, svariati camerieri PNG impastavano
farina e tagliavano fette di torta. (Attivai la torre Olfatrix e scoprii che potevo davvero
sentire l’odore del sugo di pomodoro.) Il locale era diviso in due, la sala giochi e la sala da
pranzo. I videogiochi, comunque, si trovavano anche nella sala da pranzo: tutti i tavoli
ricoperti di vetro erano in realtà mobili arcade tipo «tavolino da cocktail». Si poteva
giocare a Donkey Kong e intanto mangiare una pizza.
Se avessi avuto fame, avrei potuto ordinare una vera fetta di pizza al bancone. L’ordine
sarebbe stato inoltrato a una pizzeria vicina al mio appartamento, quella che avevo
indicato nella lista delle preferenze nel servizio cibo del mio account OASIS. Avrebbero
consegnato la fetta di pizza direttamente a casa mia in pochi minuti, e il costo (mancia
compresa) sarebbe stato detratto dal bilancio del mio account.
Mentre entravo nella sala giochi, un pezzo di Bryan Adams veniva sparato a tutto volume
dalle casse, montate sulle pareti rivestite di moquette. Bryan cantava di come, ovunque
andasse, i ragazzi volessero rockeggiare. Premetti il pollice sul cambiamonete e comprai
un gettone. Lo estrassi dalla vaschetta in acciaio inossidabile e mi diressi in fondo alla sala
giochi, godendomi tutti i dettagli della simulazione. Notai un messaggio scritto a mano sul
marquee in cima al cabinato di Defender. C’era scritto: BATTI IL PUNTEGGIO DEL
PROPRIETARIO E VINCI UNA PIZZA GIGANTE!
Un cabinato di Robotronmostrava la lista dei punteggi. Robotron consentiva ai giocatori
con il miglior punteggio di scriverci accanto, anziché le proprie iniziali, una frase intera, e
il geniaccio in cima alla classifica aveva impiegato il suo prezioso spazio per annunciare
che il vicepreside rundberg è una sega totale!
Continuai ad addentrarmi in quell’ampia caverna elettronica e raggiunsi un cabinato di
Pac-Man, in fondo alla stanza, incastrato tra Galaga e Dig-Dug. Il mobile, nero e giallo, era
ricoperto di graffi e pezzi di patatine, e gli sgargianti adesivi laterali si stavano scollando.
Sul monitor, completamente nero, era incollata una scritta: FUORI USO. Perché Halliday
avrebbe dovuto inserire all’interno della sua simulazione un gioco rotto? Che fosse
l’ennesimo dettaglio d’atmosfera? Incuriosito, decisi di investigare.
Spostai il mobile dal muro e notai che la spina era staccata. La inserii nella presa e attesi
che il gioco si caricasse. Sembrava funzionare più che bene.
Spingendo nuovamente il mobile contro il muro, notai qualcosa. In cima alla macchina,
appoggiato alla barra metallica che sosteneva il vetro del marquee, c’era un quarto di
dollaro. La data sulla moneta era il 1981: l’anno d’uscita di Pac-Man.
Sapevo che negli anni ottanta mettere un gettone sul marquee del gioco era il modo per
prenotarsi la partita successiva. Ma, quando cercai di prendere la moneta, non riuscii a
smuoverla. Era come se l’avessero saldata lì sopra.
Strano.
Spostai la scritta FUORI USO sul mobile di Galaga, lì accanto, e guardai la schermata
d’accensione, che elencava i malefici fantasmini del gioco: Inky, Blinky, Pinky e Clyde. Il
punteggio massimo, in cima allo schermo, era di 3 333 350 punti.
Molto di tutto questo era bizzarro. Nel mondo reale, i cabinati di Pac-Man non salvavano i
punteggi quando erano scollegati. E il contatore avrebbe dovuto azzerarsi raggiunto il
milione di punti. Ma questa macchina mostrava un punteggio di 3 333 350: soltanto dieci
punti in meno del punteggio massimo raggiungibile.
L’unico modo di battere un punteggio simile era giocare una partita perfetta.
Sentii il battito accelerare. Avevo appena scoperto qualcosa. Una sorta di Easter Egg
nascosto in un vecchio videogioco a gettoni. Non era quell ‘Easter Egg. Era soltanto un
Easter Egg. Una specie di sfida, o un piccolo enigma che, ne ero quasi certo, aveva ideato e
messo qui Halliday stesso. Non sapevo se avesse qualcosa a che fare con la Chiave di
Giada. Avrebbe potuto non essere legato all’Egg. Ma c’era solo un modo di scoprirlo.
Avrei dovuto giocare una partita perfetta a Pac-Man.
Non era un’impresa facile. Bisognava giocare in modo impeccabile tutti e 256 i livelli, fino
allo split screen finale. E bisognava mangiare ogni singolo pallino, pillola, frutto e
fantasma che si incontrava sulla via, senza mai perdere una vita. Nei sessant’anni di storia
del gioco, erano documentate meno di venti partite perfette. La partita più veloce mai
registrata era stata giocata da James Halliday in meno di quattro ore. Aveva conseguito il
record su una vera macchina di Pac-Man, nella sala caffè della Gregarious Games.
Poiché sapevo che Halliday amava quel gioco, ero già ben preparato su Pac-Man. Ma non
ero mai riuscito a giocare una partita perfetta. C’è da aggiungere che non mi ci ero mai
messo sul serio. Fino ad allora, non avevo avuto ragioni per farlo.
Aprii il diario del Graal e ne tirai fuori tutti i dati legati a Pac-Man che avevo raccolto. Il
codice originario del gioco. La biografia integrale del programmatore, Toru Iwatani. Ogni
guida strategica che fosse mai stata scritta su Pac-Man. E, ovviamente, gli schemi di gioco.
Avevo diagrammi e schemi di gioco da vendere, oltre a centinaia di ore di registrazioni
video dei migliori giocatori di Pac-Man della storia. Avevo già studiato gran parte di tutto
questo, ma diedi una scorsa veloce al mio raccolto per rinfrescarmi la memoria. Poi
richiusi il diario del Graal e studiai il mobile di Pac-Man che avevo di fronte, come un
pistolero che studia il suo nemico.
Stirai le braccia, sciolsi i muscoli del collo e mi scrocchiai le dita. Quando infilai la moneta
nella fessura di sinistra, il gioco emise quel familiare bii-wup! elettronico. Pigiai il pulsante
player One e, sullo schermo, comparve il primo labirinto.
Avvolsi le dita intorno al joystick e cominciai a giocare, guidando il mio eroe a forma di
pizza da un labirinto all’altro. Wakka-wakka-wakka-wakka.
L’ambiente virtuale che mi circondava scomparve, via via che mi concentravo e mi
perdevo nell’antica realtà bidimensionale del gioco. Come con Dungeons of Daggorath,
stavo giocando a una simulazione dentro una simulazione. Un gioco dentro un gioco.
Fui costretto a un paio di false partenze. Giocavo per un’ora, a volte due, poi facevo un
minuscolo errore e dovevo riavviare la macchina e ricominciare. Ma ero giunto all’ottavo
tentativo, e stavo giocando da sei ore filate. Ero un drago. Ero stato lucido e infallibile
come l’Uomo Ghiaccio. Duecentocinquantacinque schermate e non avevo ancora fatto il
minimo errore. Ero riuscito a far secchi i quattro fantasmi con ogni singola pillola (fino al
diciottesimo livello, quando smettono di diventare blu) e mi ero accaparrato, senza mai
morire, ogni frutto, uccello, campana e chiave che fossero apparsi.
Stavo giocando la partita migliore di tutta la mia vita. Era lei. Lo sentivo. Ogni cosa stava
andando al proprio posto. Ero in stato di grazia.
In ogni labirinto c’era un punto, appena sopra la posizione iniziale, dove si poteva tenere
nascosto il proprio Pac-Man fino a quindici minuti. Lì, i fantasmi non riuscivano a
raggiungerlo. Grazie a questo trucchetto, ero riuscito a fare due pause pranzo e una pipì
nel corso delle sei ore.
Mentre mi mangiavo la 255ma schermata a grandi bocconi, lo stereo della zona gioco
cominciò a sparare ad altissimo volume una canzone: Pac-Man Fever. Un largo sorriso si
impossessò del mio volto. Sapevo che doveva essere il modo in cui Halliday si levava il
cappello dinnanzi ai miei progressi.
Mantenendomi, un’ultima volta, sulla mia linea già testata e provata, diedi un colpo di
joystick a destra, mi infilai nella porta segreta e uscii dal lato opposto e poi scesi giù per
racimolare gli ultimi pallini rimasti e liberare del tutto la schermata. Trassi un lungo
respiro, mentre i contorni blu del labirinto cominciavano a lampeggiare di bianco. E poi lo
vidi, proprio davanti ai miei occhi. Il leggendario split screen. La fine del gioco.
In quel momento, con il peggior tempismo immaginabile, pochi secondi dopo che avevo
cominciato l’ultima schermata, sul display comparve un avviso del Segnapunti.
Sovraimpresse alla schermata di Pac-Man mi apparvero le prime dieci posizioni. Diedi un
rapido sguardo, giusto in tempo per vedere che Aech era stato il secondo a trovare la
Chiave di Giada. Il suo punteggio era aumentato di 19 000 punti, lanciandolo in seconda
posizione, e relegando me alla terza.
Per chissà quale miracolo, riuscii a non impazzire. Rimasi concentrato sulla partita.
Strinsi ancora più forte il joystick, impedendo che la mia concentrazione venisse guastata
dagli eventi. Avevo praticamente finito! Non mi rimaneva che spremere i 6760 punti finali
dall’ultimo, contorto labirinto e poi avrei raggiunto il punteggio massimo.
Il mio cuore batteva a tempo con la musica, mentre liberavo l’immacolata parte sinistra
dello schermo. Poi mi avventurai sul terreno tortuoso, guidando Pac-Man verso le rovine
di pixel e quel che restava della parte destra dello schermo. Nascoste sotto la grafica
ingarbugliata e i pezzi di spiritelli c’erano nove altre palline che valevano dieci punti l’una.
Non riuscivo a vederle, ma avevo memorizzato la loro posizione. Le trovai in fretta e le
mangiai tutte e nove, guadagnando novanta punti. Poi mi voltai e corsi verso il fantasma
più vicino – Clyde – e commisi un Pacicidio, morendo per la prima volta in tutta la partita.
Pac-Man si bloccò e si spense nel nulla, con un lungo biiiiwup.
Ogni volta che Pac-Man moriva in questo labirinto finale, le nove palline nascoste
ricomparivano nella metà deformata dello schermo. Perciò, per raggiungere il punteggio
massimo realizzabile, dovevo trovare e mangiare le palline per altre cinque volte, una per
ciascuna delle cinque vite che mi restavano.
Facevo di tutto per non pensare a Aech, che in quel momento stava sicuramente
stringendo tra le mani la Chiave di Giada e, probabilmente, stava già leggendo l’indizio
inciso sulla superficie.
Puntai il joystick a destra, avvicinandomi un’ultima volta alle macerie digitali. Ormai sarei
riuscito a farlo bendato. Aggirai Pinky per afferrare le due palline in fondo, poi le altre tre
al centro e, infine, le ultime quattro, in cima.
Ce l’avevo fatta. Avevo il nuovo miglior punteggio. 3 333 360 punti. Una partita perfetta.
Staccai le mani dai comandi e osservai i quattro fantasmini che si dirigevano verso Pac-
Man. La scritta GAME OVER lampeggiò al centro del labirinto.
Attesi. Non accadde nulla. Dopo qualche secondo, riapparve la schermata d’apertura del
gioco, con i quattro fantasmi, i loro nomi e soprannomi.
I miei occhi corsero subito alla moneta sull’orlo del marquee. Prima era quasi saldata al
sostegno, irremovibile. Ma in quel momento si mosse e cadde, rotolando direttamente in
mano al mio avatar. Poi svanì, e sul display comparve un messaggio che mi informava che
la moneta era stata aggiunta automaticamente al mio inventario. Quando cercai di tirarla
fuori per esaminarla più attentamente, scoprii che non potevo. L’icona del quarto di
dollaro non si spostava dal mio inventario. Non potevo estrarla o lasciarla da qualche
parte.
Se anche la moneta avesse avuto proprietà magiche, queste non venivano rivelate nella
descrizione dell’oggetto, che era inesistente. Per scoprirne di più, avrei dovuto lanciare
una serie di elaboratissime formule magiche di divinazione. Ci sarebbero voluti giorni, e
l’incantesimo avrebbe richiesto molte componenti costose e, anche in quel caso, non c’era
garanzia che avrei avuto una risposta.
Ma in quel momento faticavo a interessarmi del mistero del quarto di dollaro irremovibile.
Riuscivo a pensare solo al fatto che sia Art3mis sia Aech erano riusciti a battermi nella
scoperta della Chiave di Giada. Ed era chiaro che ottenere il punteggio massimo a una
partita di Pac-Man su Archaide non mi aveva fatto fare alcun passo avanti in proposito.
Avevo davvero perso tempo.
Mi diressi verso la superficie del pianeta. Mi stavo sedendo nella cabina di pilotaggio
delVonnegut quando ricevetti un’email. Veniva da Aech. Sentii il cuore battere a mille
quando lessi l’oggetto: Tempo di ripagare i debiti.
Trattenendo il fiato, aprii il messaggio e lo lessi: Caro Parzival, Siamo pari ora, capito? Da
questo momento in poi, considero pienamente estinto il mio debito nei tuoi confronti.
Farai meglio a sbrigarti. I Sixer saranno già sulla strada.
Buona fortuna, Aech Sotto la firma, allegata al messaggio, c’era un’immagine. Era
una scansione ad alta risoluzione della copertina del manuale d’istruzioni relativo
all’avventura testuale Zork – la versione prodotta nel 1980 dal Personal Software per il
TRS-80 Modello III.
Avevo giocato e portato a termine Zork soltanto una volta, molto tempo prima, durante il
primo anno della Caccia. Ma nel corso di quell’anno avevo giocato ad altri classici testuali,
compresi i sequel di Zork, perciò i dettagli del gioco erano un ricordo sbiadito. La maggior
parte delle avventure testuali si spiegavano da sé, e così non avevo mai dovuto leggere il
manuale d’istruzioni di Zork. E in quel momento capii che era stato un errore madornale.
Sulla copertina del manuale si poteva vedere un dipinto che ritraeva una scena del gioco.
Un impavido avventuriero indossava un’armatura e un elmo alato e brandiva, alta sopra
la testa, una spada scintillante di blu, mentre si accingeva a colpire un troll, rannicchiato ai
suoi piedi. Con il braccio libero, l’avventuriero reggeva svariati tesori; e altri giacevano a
terra, sparsi tra ossa umane. Alle spalle dell’eroe, una creatura oscura, dalle grandi zanne,
lo fissava ostile.
Tutto ciò avveniva in primo piano, ma i miei occhi si fissarono immediatamente sullo
sfondo: una grande casa bianca, porte e finestre inchiodate con assi di legno.
In una dimora da tempo abbandonata.
Fissai l’immagine per qualche secondo, maledicendomi per non aver fatto il collegamento
mesi prima, da solo. Poi accesi i motori del Vonnegute preparai la rotta per un altro
pianeta del Settore 7, non distante da Archaide. Era un piccolo mondo chiamato Frobozz,
che ospitava una riproduzione dettagliata di Zork.
Era anche, ora lo sapevo, il nascondiglio della Chiave di Giada.

0023
Frobozz era posizionato in un gruppo di centinaia di mondi poco visitati noto come
L’Ammasso XYZZY. Tali pianeti risalivano ai primi giorni di OASIS e ciascuno
riproduceva gli ambienti delle vecchie avventure testuali o dei MUD (Multi-User
Dungeon). Ognuno era un santuario – un omaggio interattivo ai remoti progenitori di
OASIS.
Le avventure testuali (definite «Interactive Fiction» da molti studiosi moderni) si
servivano del testo per ricreare l’ambiente virtuale in cui il giocatore si sarebbe mosso. Il
gioco forniva una semplice descrizione scritta dell’ambiente virtuale, il giocatore digitava
comandi di testo, comunicando al gioco ciò che voleva che l’avatar facesse. Le istruzioni
dovevano essere semplici, composte da non più di due o tre parole, come «vai a sud» o
«prendi spada». Se un ordine era troppo complesso, l’elaboratore di comandi non era in
grado di capirlo. Leggendo e scrivendo testi, ci si avventurava per il mondo virtuale
raccogliendo tesori, sconfiggendo mostri, schivando trappole e risolvendo enigmi, per poi
raggiungere la fine del gioco.
La prima avventura testuale cui avessi mai giocato si intitolava Colossal Cave e, sulle
prime, l’interfaccia solo testo mi era sembrata incredibilmente semplice e grossolana. Ma
dopo qualche minuto, mi ero immerso nella realtà creata dalle parole sullo schermo. In
qualche modo, quelle due semplici frasi che descrivevano ogni stanza erano in grado di
evocare immagini vivide nella mia testa.
Zork era una delle prime e più famose avventure testuali. Secondo il diario del Graal,
avevo completato il gioco soltanto una volta, in un solo giorno, più di quattro anni prima.
Da allora, con un’imperdonabile dimostrazione di ignoranza, avevo dimenticato due
dettagli essenziali del gioco: 1. Zork si apriva con il protagonista di fronte a una casa
bianca con porte e finestre sbarrate.
2. Nel salotto di quella stessa casa c’era una teca con molti trofei.
Per completare il gioco, ogni tesoro raccolto doveva essere riportato in quel salotto e
piazzato in quella teca.
Il resto della quartina aveva finalmente un significato.
La Chiave di Giada il capitano ha celata,
In una dimora da tempo abbandonata,
Ma nel fischietto soffiar tu potrai,
Se dei trofei la raccolta farai.
Decenni prima, i diritti di Zork e dei suoi sequel erano stati comprati e riprodotti su OASIS
come stupefacenti simulazioni tridimensionali, tutte situate su Frobozz, pianeta che
prendeva il nome, non a caso, da uno dei personaggi dell’universo Zork. E così la dimora
da tempo abbandonata, quella stessa che avevo cercato per sei mesi, era sempre stata su
Frobozz, in bella vista. Nascosta all’aria aperta.
Controllai il navigatore. Viaggiando alla velocità della luce, non avrei impiegato più di
quindici minuti per raggiungere Frobozz. C’erano buone probabilità che i Sixer lo avessero
raggiunto prima di me. In tal caso, probabilmente avrei incontrato, una volta abbandonata
la velocità della luce, una piccola armata di navicelle d’assalto Sixer schierata in orbita
intorno al pianeta. Avrei dovuto farmi strada con la forza per raggiungere la superficie del
pianeta, e poi non avrei avuto altra scelta che seminarli o cercare la Chiave di Giada con il
loro fiato sul collo. Non proprio una bella prospettiva.
Fortunatamente, avevo un piano di riserva: l’Anello di teletrasporto. Era uno degli oggetti
magici più preziosi nel mio inventario, saccheggiato dal bottino di un drago rosso che
avevo ucciso su Gygax. L’anello permetteva al mio avatar di teletrasportarsi una volta al
mese su qualsiasi luogo di OASIS. Lo avevo usato solo in caso di emergenza, come ultima
via di fuga, o quando avevo avuto bisogno di raggiungere qualche posto nel minor tempo
possibile. Come in quel momento.
Programmai velocemente il computer di bordo del Vonnegutsul pilota automaticoperché
portasse la nave verso Frobozz. Gli diedi istruzioni di attivare il dispositivo di
occultamento non appena fosse uscito dall’iperspazio, di individuare la mia posizione sul
pianeta e atterrare lì vicino. Con un po’ di fortuna, i Sixer non avrebbero intercettato la mia
navicella e non l’avrebbero fatta saltare in aria prima che mi avesse raggiunto. Altrimenti,
sarei rimasto confinato su Frobozz, senza possibilità di andarmene, circondato dall’intera
armata Sixer.
Innestai il pilota automatico del Vonnegut e attivai l’Anello di teletrasporto pronunciando
la parola chiave: Brundell. Non appena l’anello cominciò a brillare, dissi il nome del
pianeta su cui volevo teletrasportarmi. Comparve sul display una mappa di Frobozz. Era
un mondo vastissimo e, come Middletown, la superficie era disseminata di centinaia di
copie identiche della stessa simulazione: in questo caso, si trattava di riproduzioni del
campo di gioco di Zork. Per l’esattezza, ce n’erano 512 copie, il che significava che ci
sarebbero state anche 512 case bianche, disposte uniformemente sulla superficie del
pianeta. Era probabile che avrei potuto ottenere la Chiave di Giada in una qualsiasi di
esse, perciò, senza pensarci troppo, selezionai una copia a caso sulla mappa. L’anello
produsse un lampo di luce accecante e, un secondo dopo, il mio avatar era lì, sulla
superficie di Frobozz.
Aprii il diario del Graal e trovai le pagine su cui avevo appuntato i modi in cui risolvere
Zork. Poi aprii una mappa dello scenario del gioco e la piazzai in un angolo del display.
Scrutando il cielo, non vidi traccia dei Sixer. Ma ciò non significava necessariamente che
non fossero già arrivati. Sorrento e i suoi tirapiedi si erano probabilmente già
teletrasportati su un altro campo di gioco. Chiunque sapeva che i Sixer erano accampati
fuori dal Settore 7 da giorni, aspettando soltanto questo momento. Quando avevano visto
aumentare il punteggio di Aech, dovevano aver usato la Tavoletta di ricerca di Fyndoro e
scoperto che si trovava su Frobozz. Ciò significava che l’intera armata Sixer era già in
arrivo. Dovevo raggiungere la chiave nel minor tempo possibile e poi portare il culo via da
Dodge.
Mi guardai in giro. L’ambiente mi era inquietantemente familiare.
Il testo della descrizione d’apertura, in Zork, recita: OVEST CASA Ti trovi in un campo a
ovest di una casa bianca con la porta sbarrata. C’è una piccola cassetta delle lettere.
Il mio avatar si trovava proprio in quel campo, a ovest della casa bianca. La porta
d’ingresso della villa vittoriana era sbarrata con assi di legno e, a pochi metri da me, in
fondo al vialetto che conduceva alla casa, c’era una cassetta delle lettere. La casa era
circondata da un fitto bosco, oltre al quale potevo vedere le cime frastagliate dei monti.
Voltandomi a sinistra, notai un sentiero che conduceva a nord, proprio dove mi aspettavo
che fosse.
Corsi sul retro della casa. Trovai una piccola finestra, socchiusa. La spalancai e mi ci infilai
dentro. Come avevo previsto, mi trovai in cucina. Al centro della stanza c’era un tavolo di
legno su cui giacevano un sacco marrone e una bottiglia d’acqua. Poco distante, vidi un
camino e una scalinata che conduceva in soffitta. Il corridoio alla mia sinistra portava al
salotto. Proprio come nel gioco.
Ma la cucina conteneva oggetti che non venivano menzionati nel testo descrittivo del
gioco. Un forno, un frigorifero, molte sedie di legno, un lavandino e file di credenze. Aprii
il frigo. Straripava di porcherie. Pizze fossilizzate, budini monodose, carne in scatola e
un’ampia scelta di salse in busta. Controllai le credenze. Erano ricolme di cibo in scatola e
liofilizzato. Riso, pasta, zuppe.
E cereali.
Un’intera credenza era stipata con vecchie scatole di cereali, la produzione dei quali, per la
maggior parte, era stata sospesa prima che nascessi. Fruit Loops, Honeycombs, Lucky
Charms, Count Chocula, Quisp, Frosted Flakes. E poi, nascosta sul fondo, ecco una scatola
solitaria di Cap’N Crunch sulla quale, a chiare lettere, si poteva leggere la frase
FISCHIETTO IN OMAGGIO IN OGNI SCATOLA.
La Chiave di Giada il capitano ha celata.
Iniziai a scavare nella scatola, spargendo pepite dorate e croccanti dappertutto, sul
bancone. E poi lo vidi: un piccolo fischietto di plastica in una busta di cellofan trasparente.
Strappai il cellofan e tenni il fischietto tra le mani. Era giallo, con la faccia di Cap’n Crunch
impressa su un lato, e quella di un cane impressa sull’altro. Su entrambi i lati, si leggeva la
scritta Cap’n Crunch Bo’sun Whistle.
Portai il fischietto alle labbra del mio avatar e soffiai. Ma non emise alcun suono. Non
accadde niente.
Ma nel fischietto soffiar tu potrai se dei trofei la raccolta farai.
Mi misi il fischietto in tasca e aprii il sacco che si trovava sul tavolo della cucina: raccolsi
uno spicchio d’aglio e lo inserii nell’inventario. Poi corsi a ovest, verso il salotto. Il
pavimento era ricoperto da un grande tappeto orientale. Tutta la stanza era arredata con
mobili antichi, del tipo che avevo visto nei film degli anni quaranta. Sulla parete a ovest
c’era una porta con strani caratteri incisi in superficie. Sulla parete opposta, una bellissima
teca di vetro. Era vuota. Una lanterna elettrica era poggiata sulla teca e, poco sopra, una
spada scintillante era fissata alla parete.
Presi la spada e la lanterna, poi arrotolai il tappeto, svelando la botola che sapevo essere
nascosta lì sotto. La aprii, e notai una scalinata che conduceva in una cantina buia. Accesi
la lanterna. Mentre scendevo i gradini, la spada iniziò a brillare.
Continuai a basarmi sul diario del Graal e sui consigli che vi avevo appuntato, che mi
suggerivano la tecnica esatta per attraversare il labirinto di stanze, corridoi ed enigmi del
gioco. Via via che proseguivo, raccolsi tutti i diciannove tesori del gioco, ritornando
continuamente nel salotto della casa bianca per rimetterli nella teca, pochi alla volta. Sulla
strada, dovetti affrontare numerosi PNG: un troll, un Ciclope, un ladro fastidiosissimo.
Quanto al leggendario Grue, che mi aspettava nel buio per pasteggiare a carne umana, mi
limitai a evitarlo.
A parte il fischietto Cap’n Crunch nascosto in cucina, non trovai sorprese o deviazioni dal
gioco originale. Per risolvere questa versione, immersiva e tridimensionale, di Zork, non
dovevo far altro che compiere esattamente le stesse azioni che la versione testuale mi
richiedeva. Correndo a più non posso, senza mai fermarmi ad ammirare il paesaggio o a
pensarci due volte, riuscii a completare il gioco in ventidue minuti.
Dopo aver raccolto un piccolo medaglione in ottone, l’ultimo dei diciannove tesori, sul
mio display apparve una notifica che mi informava che il Vonnegut mi attendeva fuori
dalla casa. Il pilota automatico aveva fatto atterrare la nave sul campo a ovest della casa
bianca. Il dispositivo di occultamento era ancora attivo e gli scudi erano funzionanti.
Speravo che, se erano già lì, in orbita intorno al pianeta, i Sixer non avessero notato la
nave.
Corsi di nuovo nel salotto della casa bianca, ancora una volta, e posai l’ultimo tesoro nella
teca. Come nel gioco originale, dentro la teca apparve una mappa che mi indicava la
posizione di un carretto nascosto, raggiunto il quale il gioco finiva. Ma la mappa non mi
interessava particolarmente, né avevo intenzione di finire Zork. Tutti i «trofei» erano
«raccolti», nella loro teca, perciò estrassi di tasca il fischietto Cap’n Crunch. Aveva tre fori.
Coprii il terzo con un dito, per generare quel suono da 2600 hertz che aveva fatto entrare il
fischietto negli annali degli hacker. Poi soffiai, emettendo una distinta nota stridente.
Il fischietto si trasformò in una piccola chiave e il mio punteggio sul Segnapunti salì di 18
000 punti.
Ero di nuovo al secondo posto, precedevo Aech di soli mille punti.
Un istante dopo, l’intera simulazione di Zork si resettò. I diciannove tesori della teca
svanirono, ritornando ai loro posti, e il resto della casa, così come l’intero campo di gioco,
ritornarono esattamente come li avevo trovati.
Osservando la chiave che stringevo in mano, avvertii una fitta di panico. La chiave era
d’argento, non aveva il colore verde pallido della giada. Ma quando la girai per
esaminarla attentamente, notai che era avvolta da un incarto color argento, quasi fosse una
gomma da masticare o una barretta di cioccolato. Con cautela, lo scartai e mi trovai in
mano una chiave in pietra verde lavorata.
La Chiave di Giada.
E, come nel caso della Chiave di Rame, notai che c’era un indizio inciso sulla superficie: La
missione continuerai se il test affronterai Lo lessi e rilessi, ma non mi rivelò alcun
significato nascosto, perciò spostai la chiave nell’inventario ed esaminai l’incarto. Un lato
era argentato, l’altro era di carta bianca. Non si notava alcun segno.
Proprio in quell’istante udii il rombo attutito di una nave in arrivo e capii che dovevano
essere i Sixer. Sembrava fossero arrivati con tanto di rinforzi.
Mi misi in tasca l’incarto e corsi via dalla casa. Sopra la mia testa, migliaia di navicelle
d’assalto Sixer riempivano il cielo, come uno sciame rabbioso di vespe metalliche.
Atterrando, le navicelle si separavano in gruppetti, dirigendosi in punti diversi, come se
volessero coprire l’intera superficie del pianeta.
Non pensavo che i Sixer fossero così stupidi da voler circondare tutte le cinquecentododici
riproduzioni della casa bianca. La strategia aveva funzionato su Ludus, ma solo per
qualche ora, e in quel caso non avevano che un luogo da presidiare. L’intero pianeta di
Frobozz era in zona PvP e sia la magia sia la tecnologia funzionavano, perciò non
avrebbero avuto molte possibilità. Presto sarebbero arrivati interi eserciti di Gunter, armati
fino ai denti, e se i Sixer avessero cercato di contenerli si sarebbe scatenata una guerra, di
una portata mai vista prima nella storia di OASIS.
Mentre continuavo a correre per il campo, fino alla rampa di carico della mia nave, notai
uno squadrone di un centinaio di navi da guerra che scendeva dal cielo, diretto proprio
verso di me. Stavano venendo a prendermi.
Max aveva già riscaldato i motori del Vonnegut, perciò gli gridai di decollare non appena
fossi salito a bordo. Quando raggiunsi il pannello di comando dell’abitacolo, aprii le
valvole al massimo e le navi Sixer che sciamavano giù dal cielo furono costrette a
effettuare una difficile manovra per inseguirmi. Mentre la mia nave si lanciava verso il
cielo, iniziai a sentire il fuoco nemico che arrivava da ogni direzione. Ma ebbi fortuna. La
mia navicella era veloce, i miei scudi erano di ultima generazione e tennero duro
abbastanza da farmi raggiungere l’orbita. Ma si guastarono pochi istanti dopo e lo scafo
del Vonnegut subì seri danni nella manciata di secondi che impiegai per schizzare alla
velocità della luce.
Ci era mancato pochissimo. Quei bastardi mi avevano quasi preso.
La mia navicella era in pessime condizioni e, anziché ritornare alla fortezza, mi diressi
verso il Garage di Joe, un’astronave orbitale adibita ad autofficina nel Settore 10. Quella di
Joe era un’impresa onesta, a conduzione-png, con prezzi ragionevoli e un servizio più
veloce della luce. Mi recavo da loro ogni volta che il Vonnegutaveva bisogno di
riparazioni o modifiche.
Mentre Joe e i suoi ragazzi sistemavano la mia astronave, mandai a Aech un breve
messaggio per ringraziarlo. Gli dissi che qualsiasi tipo di debito sentisse di avere nei miei
confronti, l’aveva ripagato appieno. Inoltre, confessai di essere stato un coglione
insensibile ed egocentrico e lo pregai di perdonarmi.
Non appena la mia nave fu pronta per ripartire, mi diressi alla fortezza. Trascorsi la
giornata incollato ai feed di notizie. Si era sparsa la voce, e ogni Gunter che ne avesse la
possibilità si era già teletrasportato su Frobozz. Migliaia di Gunter arrivavano con le loro
astronavi ogni minuto, per affrontare i Sixer e accaparrarsi una copia della Chiave di
Giada.
I feed di notizie trasmettevano in diretta i combattimenti su larga scala che scoppiavano
dappertutto su Frobozz, accanto a tutte le riproduzioni della «dimora da tempo
abbandonata». I clan di Gunter più ampi si erano uniti ancora una volta per sferrare un
attacco coordinato sulle forze Sixer. Erano le prime avvisaglie di quella che sarebbe stata
chiamata la «Battaglia di Frobozz», e le vittime iniziavano a moltiplicarsi da ambo le parti.
Tenni un occhio sul Segnapunti, aspettandomi di vedere apparire i primi Sixer che si
fossero impossessati della Chiave di Giada, mentre le loro truppe tenevano a bada la
resistenza. Come temevo, il primo punteggio ad aumentare fu quello che si trovava
accanto al numero di matricola IOIdi Sorrento. Arrivò a 17 000 punti, e fu catapultato in
quarta posizione.
Ora che i Sixer sapevano esattamente come e dove trovare la Chiave di Giada, mi
aspettavo di vedere i loro punteggi alzarsi esponenzialmente, via via che i tirapiedi di
Sorrento seguivano il capo. Ma, con mia grande sorpresa, il primo a ottenere la Chiave di
Giada non fu altri che Shoto. Solo venti minuti dopo Sorrento.
In qualche modo Shoto era riuscito a sfuggire alle orde di Sixer che infestavano il pianeta,
era entrato in una delle case bianche, aveva raccolto tutti e diciannove i tesori e si era
impossessato di una copia della chiave.
Continuai a seguire la situazione sul Segnapunti, aspettandomi di vedere aumentare
anche il punteggio di suo fratello Daito. Ma questo non accadde.
Al contrario, pochi minuti dopo che Shoto ebbe ottenuto la sua copia della chiave, il nome
di Daito scomparve del tutto dal Segnapunti. C’era una sola spiegazione plausibile: Daito
era stato ucciso.
0024
Nelle ventiquattr’ore successive, su Frobozz regnò il caos, mentre ogni Gunter di OASIS
cercava di raggiungere il pianeta per unirsi alla battaglia.
I Sixer avevano appostato il loro esercito su tutto il globo, in uno sfrontato tentativo di
cingere in blocco tutte le 512 copie del campo di gioco di Zork. Ma le loro forze, pur
sterminate e ben equipaggiate, erano disposte su un territorio troppo vasto. Quel giorno,
solo sette dei loro avatar riuscirono a impossessarsi della Chiave di Giada. E quando i clan
di Gunter diedero inizio all’attacco coordinato alle truppe Sixer, i babbei in uniforme
cominciarono a risentire delle perdite e furono costretti a ritirarsi.
Dopo qualche ora, l’alto comando Sixer decise di adottare una nuova strategia. Era ovvio
che non sarebbero riusciti a mantenere stabili più di cinquecento posti di blocco, né a
respingere l’enorme affluenza di Gunter. Pertanto, decisero di raggruppare tutte le forze
su dieci copie di Zork confinanti, vicino al polo sud del pianeta. Installarono dei
potentissimi campi di forza e, sul perimetro delle barriere-scudo, posizionarono
battaglioni corazzati.
La nuova strategia a scala ridotta funzionò, e le forze Sixer si dimostrarono adeguate a
mantenere le dieci posizioni e a impedire a ogni altro Gunter di entrare (del resto, non
c’era motivo di rischiare, dal momento che oltre cinquecento copie restanti di Zork
attendevano, indifese). Ora che i Sixer potevano operare indisturbati formarono dieci file
di avatar all’esterno di ogni casa, e li spedirono, uno dopo l’altro, a cercare la Chiave di
Giada. Chiunque poteva vedere cosa stavano facendo perché, sul Segnapunti, i numeri
accanto a ogni matricola IOI iniziarono ad aumentare di 15 000 punti.
Allo stesso tempo, anche il punteggio di centinaia di Gunter era aumentato. Ora che la
posizione della Chiave di Giada era di pubblico dominio, decifrare la quartina e scoprire
come impossessarsi della chiave era relativamente facile. Era lì, in attesa di chiunque
avesse già superato la Prima Porta.
Mentre la battaglia di Frobozz volgeva al termine, la situazione sul Segnapunti era la
seguente:
PUNTEGGI:
1. Art3mis 129.000
2. Parzival 128.000
3. Aech 127.000
4. IOI-655321 122.000
5. Shoto 122.000
6. IOI-643187 120.000
7. IOI-621671 120.000
8. IOI-678324 120.000
9. IOI-637330 120.000
10. IOI-699423 120.000
Benché Shoto avesse lo stesso punteggio di Sorrento, Sorrento aveva totalizzato i 122.000
punti per primo e questa probabilmente era la ragione per cui gli spettava una posizione
più alta sul Segnapunti. I punti bonus relativamente scarsi che io, Art3mis, Aech e Shoto
avevamo ricevuto per essere stati i primi a raggiungere le due chiavi era ciò che
continuava a mantenerci tra i Cinque Grandi. Anche Sorrento si era impossessato di uno
dei bonus. Vedere il suo numero di matricola sopra il nome di Shoto mi fece rabbrividire.
Scorrendo il Segnapunti, notai che la lista aveva raggiunto più di cinquemila nomi e
aumentava di ora in ora, via via che nuovi avatar riuscivano a sconfiggere Acererak a
Joust e a ottenere una copia della Chiave di Rame.
Nessuno, sui forum, sapeva cosa fosse successo a Daito, ma l’ipotesi condivisa era che
fosse stato ucciso dai Sixer durante i primi minuti della battaglia di Frobozz. Le dicerie su
come fosse morto impazzavano, ma nessuno aveva assistito alla sua fine. A parte, forse,
Shoto, che era scomparso. Gli mandai un paio di richieste di chat, ma non ebbi risposta.
Immaginai che, come me, stesse concentrando tutte le sue energie per trovare la Seconda
Porta prima dei Sixer.
Sedevo nella mia fortezza, fissando la Chiave di Giada e le parole incise sul dorso,
ripetendole all’infinito, come un mantra esasperante.
La missione continuerai se il test affronterai
La missione continuerai se il test affronterai
La missione continuerai se il test affronterai
Ok, ma quale test? Che test avrei dovuto affrontare? La Kobayashi Maru? Il test della
Pepsi? In che modo avrebbe potuto essere più vago, l’indizio?
Mi cercai gli occhi sotto il visore, e li sfregai per la frustrazione. Decisi che avevo bisogno
di una pausa, di dormire un po’. Aprii l’inventario del mio avatar e ci chiusi dentro la
Chiave di Giada. Nel farlo notai, accanto al suo spazio nell’inventario, l’involucro di carta
argentata che avvolgeva la Chiave di Giada quando mi era apparsa in mano.
Sapevo che il segreto per decifrare l’indovinello doveva coinvolgere, in qualche modo,
anche l’incarto, ma non capivo come. Mi chiesi se potesse essere un riferimento a Willy
Wonka e la fabbrica di cioccolato, ma decisi che non lo era. Nell’incarto non c’era alcun
biglietto d’oro. Doveva avere qualche altro scopo o significato.
Osservai la carta argentata rimuginandoci, finché non riuscii più a tenere gli occhi aperti.
Poi mi scollegai e andai a dormire.
Qualche ora dopo, alle 6:12 dell’OST, fui svegliato di soprassalto dall’allarme
rimescolaviscere del Segnapunti: mi avvisava che uno dei punteggi più alti era cambiato
di nuovo.
Assalito da un senso di terrore crescente, mi collegai e aprii il Segnapunti, incerto su cosa
aspettarmi. Che Art3mis fosse riuscita a superare la Seconda Porta? O forse erano stati
Aech o Shoto ad avere l’onore.
Ma i loro punteggi rimanevano immutati. Con mio grande orrore, notai che era il
punteggio di Sorrento ad essere aumentato di 200 000 punti. Accanto al punteggio
comparivano due icone a forma di porta.
Sorrento era stata la prima persona a trovare e superare la Seconda Porta. Come
conseguenza, il suo avatar si era insediato al primo posto, in cima al Segnapunti.
Rimasi lì seduto, raggelato, a osservare il numero di matricola di Sorrento, valutando in
silenzio le ripercussioni di ciò che era appena successo.
Dopo essere uscito dalla porta, Sorrento doveva aver ricevuto un indizio sulla posizione
della Chiave di Cristallo. La chiave che avrebbe splancato la terza e ultima porta. E così, i
Sixer erano gli unici ad avere quell’indizio. Ciò significava che erano più vicini all’Easter
Egg di chiunque altro.
Improvvisamente mi sentii male e feci fatica a respirare. Capii che probabilmente era un
attacco di panico, o qualcosa di simile. Un collasso mentale. Un tracollo psichico.
Chiamatelo come volete. Diedi un tantino di matto.
Cercai di chiamare Aech, ma non mi rispose. Forse era ancora arrabbiato, forse aveva
faccende più urgenti di cui occuparsi. Stavo per chiamare Shoto quando mi ricordai che
l’avatar di suo fratello era appena stato ucciso. Non doveva essere esattamente di ottimo
umore.
Valutai la possibilità di andare su Benatar per cercare di convincere Art3mis a parlarmi,
ma poi tornai in me. Aveva la Chiave di Giada tra le mani da giorni, eppure non era
ancora riuscita a superare la Seconda Porta. Scoprire che i Sixer ce l’avevano fatta in meno
di ventiquattr’ore l’aveva sicuramente gettata in una rabbia psicotica. O, forse, in un
torpore catatonico. Era probabile che non volesse rivolgere la parola a nessuno, tantomeno
a me.
Cercai comunque di chiamarla. Come al solito, non rispose.
Avevo un bisogno pazzesco di sentire una voce familiare, perciò rimediai parlando con
Max. Nello stato in cui mi trovavo, anche il suo piglio loquace computerizzato mi sarebbe
stato di conforto. Ma non ci volle molto prima che Max esaurisse le risposte
preprogrammate e, quando cominciò a ripetersi, l’illusione di dialogare con un’altra
persona andò in mille pezzi e mi sentii ancora più solo. Sai di esserti incasinato la vita
quando tutto il tuo mondo finisce in merda e l’unica persona con cui puoi parlare è il tuo
system agent software.
Non sarei riuscito a riaddormentarmi, perciò rimasi sveglio, guardando i feed di notizie e
setacciando i forum dei Gunter. L’armata Sixer rimaneva stabile su Frobozz, e i suoi avatar
continuavano a fare incetta di Chiavi di Giada.
Sorrento doveva aver imparato dal suo errore. Poiché i Sixer erano gli unici a conoscere la
posizione della Seconda Porta, non sarebbero stati così stupidi da renderla pubblica
cercando di accerchiarla con il loro esercito. Ma non smisero di trarre vantaggio dalla
situazione. Nel corso della giornata, i Sixer continuarono a far attraversare la Seconda
Porta ai loro avatar. Dopo Sorrento, altri dieci Sixer la superarono nel giro di
ventiquattr’ore. E ogni volta che il punteggio di un Sixer aumentava di 200 000 punti, io,
Art3mis, Aech e Shoto scendevamo in classifica, finché non fummo scalzati del tutto dalla
top ten e la pagina principale del Segnapunti non mostrò altro che numeri di matricola di
dipendenti IOI.
I Sixer avevano preso il comando.
E poi, proprio quando mi convinsi che le cose non avrebbero potuto peggiorare,
peggiorarono. E parecchio anche. Due giorni dopo la Seconda Porta, il punteggio di
Sorrento balzò in avanti di altri 30 000 punti, rivelando che si era appena impossessato
della Chiave di Cristallo.
Sedevo nella mia fortezza, con gli occhi fissi sui monitor e, immobilizzato dall’orrore,
osservavo la situazione schiudermisi davanti. Era impossibile negare l’evidenza. La gara si
sarebbe conclusa presto. E non nel modo che avevo sempre pensato, con un Gunter nobile
e valoroso che trovava l’Egg e vinceva il premio. Per cinque anni e mezzo avevo vissuto
solo di illusioni. E, come me, tutti gli altri. La storia non avrebbe avuto un lieto fine. A
vincere sarebbero stati i cattivi.
Passai le ventiquattr’ore successive in preda al terrore, controllando il Segnapunti ogni
cinque secondi, in maniera ossessiva, aspettandomi la parola FINE da un momento
all’altro.
Sorrento, o uno dei suoi numerosi «esperti di Halliday» era indubbiamente riuscito a
decifrare l’enigma della Seconda Porta e poi a trovarla. Ma, anche se la prova era sul
Segnapunti, non riuscivo a crederci. Fino ad allora, gli unici progressi dei Sixer erano
dipesi da me, Art3mis o Aech. Come avevano fatto quei cazzoni incapaci a trovare la
Seconda Porta da soli? Forse avevano avuto fortuna. O forse avevano scoperto un modo
nuovo di barare. Come avevano fatto, altrimenti, a risolvere l’indovinello in così poco
tempo, quando Art3mis non ci era riuscita pur avendo un vantaggio di molti giorni?
Il mio cervello si era trasformato in pongo calpestato. Non riuscivo a trovare un senso
all’indizio impresso sulla Chiave di Giada. Avevo esaurito tutte le idee, anche le più
penose. Non riuscivo a immaginarmi che cosa fare, o dove cercare.
La notte passò, e i Sixer continuarono a procurarsi copie della Chiave di Cristallo. Ogni
volta che uno dei punteggi aumentava, era come se un pugnale mi trapassasse il cuore. Ma
non riuscivo a smettere di guardare il Segnapunti. Ero completamente pietrificato.
Mi sentii scivolare nella disperazione più totale. I miei sforzi di cinque anni non erano
serviti a niente. Avevo scioccamente sottovalutato Sorrento e i Sixer. E avrei pagato un
prezzo altissimo per la mia presunzione. Quei lacchè senz’anima stavano già accerchiando
l’Egg. Lo sentivo con ogni fibra del mio corpo.
Avevo perso Art3mis e avrei perso anche la gara.
Avevo già deciso cosa avrei fatto quando fosse successo. Innanzitutto, avrei individuato
una ragazzina tra quelle del mio fan club ufficiale, una che non avesse soldi e avesse un
avatar di primo livello. Le avrei consegnato ogni mio oggetto. Poi avrei attivato la
sequenza di autodistruzione della mia fortezza e sarei rimasto seduto al centro di
comando mentre tutto veniva disintegrato dall’enorme esplosione termonucleare. Il mio
avatar sarebbe morto e al centro del display sarebbe apparsa la scritta GAME OVER.
Poi mi sarei strappato il visore di dosso e avrei lasciato l’appartamento, per la prima volta
dopo sei mesi. Sarei salito fino al tetto con l’ascensore. Forse avrei persino preso le scale,
per fare un po’ di esercizio.
Il tetto dell’edificio in cui abitavo era ricoperto da un giardino botanico. Non ci ero mai
andato, ma avevo guardato le foto e mi ero goduto la vista in webcam. Sul cornicione era
stata fissata una barriera in plexiglas traparente per evitare che la gente si buttasse, ma era
ridicola. Da quando mi ero trasferito, almeno tre persone erano riuscite a scavalcare.
Mi sarei seduto lì e avrei respirato un po’ dell’aria di città non filtrata, sentendo il vento
sulla pelle. Poi avrei scavalcato la barriera e mi sarei buttato di sotto.
Questo era il piano che avevo in mente.
Stavo decidendo la canzone da fischiettare mentre precipitavo verso la morte, quando
squillò il telefono. Era Shoto. Non ero dell’umore adatto per parlare, perciò lasciai che la
sua chiamata passasse alla segreteria video, e osservai Shoto mentre registrava il suo
messaggio. Fu molto breve. Disse che doveva raggiungermi alla fortezza per consegnarmi
qualcosa. Qualcosa che Daito aveva lasciato per me nel suo testamento.
Quando risposi alla sua chiamata per organizzare un incontro, capii subito che Shoto era
un fascio di nervi. La sua voce pacata era colma di dolore, e la profondità della sua
disperazione si coglieva nei tratti del volto del suo avatar. Sembrava completamente a
terra. Era addirittura messo peggio di me.
Domandai a Shoto la ragione per cui suo fratello si fosse preoccupato di stilare un
«testamento» per il suo avatar, anziché lasciare tutti i suoi beni a Shoto. Poi Daito avrebbe
potuto semplicemente creare un nuovo avatar e reclamare gli oggetti che suo fratello
teneva per lui. Ma Shoto mi disse che suo fratello non avrebbe creato un nuovo avatar, né
allora né mai. Quando gli chiesi il perché, mi promise che me lo avrebbe spiegato di
persona.

0025
Un’ora dopo, Max mi avvisò dell’arrivo di Shoto. Concessi alla sua navicella
l’autorizzazione a entrare nello spazio aereo di Falco e gli dissi di parcheggiare nel mio
hangar.
L’astronave di Shoto era un enorme peschereccio che si chiamava Kurosawaed era ispirato
al Bebop, una navicella dell’anime Cowboy Bebop. Sin da quando li avevo conosciuti,
Daito e Shoto lo avevano sempre usato come base mobile per le operazioni. La nave era
talmente grande che a stento riuscì a passare attraverso l’entrata del mio hangar.
Quando Shoto emerse dal Kurosawa, io ero già sulla pista a dargli il benvenuto. Indossava
un abito nero da funerale, e il suo volto tradiva la stessa espressione inconsolabile che gli
avevo visto quando avevamo parlato per telefono.
«Parzival-san» disse, con un lungo inchino.
«Shoto-san» risposi all’inchino rispettosamente, poi gli mostrai il palmo di una mano,
gesto che lui riconobbe dai tempi che avevamo passato a fare missioni insieme.
Sorridendo, allungò la sua mano e mi diede il cinque. Subito dopo, però, riaffiorò la sua
espressione cupa. Non vedevo Shoto da quando avevamo condiviso la missione su
Tokusatsu (fatta eccezione per le volte che avevo visto lui e suo fratello apparire nelle
pubblicità della «bevanda energetica Daisho») e il suo avatar mi sembrava più alto di
qualche centimetro.
Lo condussi ai piani superiori della mia fortezza, in una delle stanze che non usavo quasi
mai, una riproduzione del salotto di Casa Keaton. Shoto riconobbe l’arredamento e
approvò con un cenno silenzioso. Poi, non badando ai mobili, si sedette al centro del
pavimento. Si sedette in seiza, piegando le gambe sotto le cosce. Lo imitai, posizionandomi
in modo che i nostri avatar si trovassero faccia a faccia. Sedemmo in silenzio per un attimo.
Quando Shoto fu pronto a parlare, tenne gli occhi fissi sul pavimento.
«Ieri sera i Sixer hanno ucciso mio fratello» disse, quasi sussurrando.
Sulle prime ero troppo sconvolto per rispondere. «Vuoi dire che hanno ucciso il suo
avatar?» chiesi, pur sapendo già che non era ciò che intendeva.
Shoto scosse la testa. «No. Sono entrati nel suo appartamento, l’hanno strappato dalla
poltrona aptica e l’hanno lanciato giù dalla finestra. Viveva al quarantatreesimo piano.» In
aria, di fronte a noi, Shoto aprì una finestra di browser. Mostrava l’articolo di un newsfeed
giapponese. Lo premetti con l’indice e il software Mandarax tradusse il testo in inglese. Il
titolo era «Un altro suicidio di otaku». Il breve articolo diceva che un ragazzo, Toshiro
Yoshiaki, 22 anni, aveva trovato la morte saltando dal suo appartamento, al
quarantatreesimo piano di un hotel riconvertito nel quartiere di Shinjuku, a Tokyo, dove
viveva da solo. Accanto all’articolo vidi una foto di Toshiro presa dall’annuario scolastico.
Era un ragazzetto giapponese coi capelli lunghi spettinati e la pelle butterata. Non
somigliava per niente al suo avatar OASIS.
Quando Shoto vide che avevo finito di leggere, chiuse la finestra. Esitai un momento, poi
gli chiesi: «Sei davvero sicuro che non si sia suicidato? Magari perché il suo avatar era
stato ucciso?».
«No» disse Shoto. «Daito non ha fatto seppuku. Ne sono sicuro. I Sixer sono entrati nel suo
appartamento mentre stavamo combattendo su Frobozz. È così che sono riusciti a
sconfiggere il suo avatar: uccidendolo nel mondo reale.»
«Mi dispiace, Shoto.» Non sapevo che altro aggiungere. Sapevo che mi stava dicendo la
verità.
«Il mio vero nome è Akihide» disse. «Voglio che tu sappia il mio vero nome.» Sorrisi, poi
mi inchinai, toccando per un attimo il pavimento con la fronte. «Sono felice che tu mi
abbia accordato tanta fiducia» dissi. «Il mio vero nome è Wade.» Non aveva più senso
tenere dei segreti.
«Grazie Wade» disse Shoto, ricambiando l’inchino.
«Non c’è di che, Akihide.» Rimase in silenzio per un istante, poi si schiarì la voce e
cominciò a parlare di Daito. Le parole scorrevano come un fiume in piena. Era chiaro che
avesse bisogno di qualcuno con cui parlare di quello che era successo. Di cosa aveva
appena perso.
«Il vero nome di Daito era Toshiro Yoshiaki. Non lo sapevo nemmeno, prima di ieri sera,
prima di leggere l’articolo.»
«Ma… credevo che fosse tuo fratello.» Avevo sempre pensato che Daito e Shoto vivessero
insieme. Che fossero coinquilini, cose così.
«La mia relazione con Daito è difficile da spiegare.» Si interruppe per schiarirsi la voce.
«Non eravamo fratelli. Non nella vita reale. Soltanto su OASIS. Capisci? Ci conoscevamo
soltanto online. Non l’avevo mai incontrato.» Sollevò gli occhi lentamente, per incontrare
il mio sguardo e capire se lo stessi giudicando.
Gli poggiai una mano sulla spalla. «Credimi, Shoto. Ti capisco. Aech e Art3mis sono i miei
migliori amici e non li ho mai incontrati nella vita reale. A pensarci bene, anche tu sei uno
dei miei più cari amici.» Fece un piccolo inchino con la testa. «Grazie.» Dalla voce capii che
stava piangendo.
«Siamo Gunter» dissi, cercando di riempire il silenzio imbarazzato. «Viviamo qui su
OASIS. Per noi è l’unica realtà che abbia un qualche significato.» Akihide annuì. Qualche
attimo dopo, ricominciò a parlare.
Mi raccontò di quando aveva incontrato Toshiro, sei anni prima, poiché entrambi erano
iscritti su OASIS a un gruppo di supporto per gli hikikomori, i giovani che si erano
allontanati dalla società e avevano deciso di vivere in totale isolamento. Gli hikikomori si
chiudevano in camera, leggevano i manga e giravano per OASIS tutto il giorno,
aspettando che i familiari gli portassero del cibo. Gli hikikomori erano diffusi in Giappone
da prima del nuovo secolo, ma il numero era cresciuto vertiginosamente dopo l’inizio
della Caccia. Milioni di ragazzi e ragazze in tutta la nazione avevano chiuso le porte al
mondo. Di tanto in tanto venivano chiamati «i milioni scomparsi».
Akihide e Toshiro erano diventati grandi amici e avevano iniziato a trascorrere tutti i
giorni insieme, su OASIS. Quando la Caccia di Halliday era cominciata, avevano deciso di
unire le forze e cercare l’Easter Egg. Insieme, erano una squadra perfetta: Toshiro era un
prodigio dei videogiochi e Akihide, molto più giovane, era portato per la cultura pop
americana. La nonna di Akihide era stata a scuola negli Stati Uniti, ed entrambi i suoi
genitori erano nati lì, perciò Akihide era cresciuto con i film e la televisione americana e
aveva imparato a parlare l’inglese con la stessa fluidità del giapponese.
L’amore che Akihide e Toshiro condividevano per i film di samurai è stato d’ispirazione
per il nome e l’aspetto dei loro avatar. Shoto e Daito erano uniti come fratelli: perciò,
quando avevano creato le loro nuove identità Gunter, avevano deciso che su OASIS, da
quel momento in poi, sarebbero stati fratelli.
Dopo che Shoto e Daito avevano superato la Prima Porta ed erano diventati famosi,
avevano rilasciato molte interviste. Le loro identità rimanevano segrete, ma i due avevano
rivelato di essere giapponesi, il che, immediatamente, li aveva resi delle celebrità in
Giappone. Avevano cominciato a sponsorizzare prodotti giapponesi; un cartone e una
serie live action si basavano sulle loro imprese. All’apice del successo, Shoto aveva
suggerito a Daito che forse era ora di incontrarsi di persona. Daito aveva attaccato Shoto
rabbiosamente e aveva smesso di parlargli per giorni interi. Dopo quell’episodio, Shoto
non aveva più fatto riferimento all’idea.
Infine, Shoto arrivò a dirmi come l’avatar di Daito fosse morto. Entrambi erano a bordo
del Kurosawa e viaggiavano tra i pianeti del Settore 7, quando il Segnapunti li aveva
informati che Aech si era impossessato della Chiave di Giada. A quel punto, sapevano che
i Sixer avrebbero usato la Tavoletta di ricerca di Fyndoro per individuare la posizione
esatta di Aech, e sapevano che le navi Sixer si sarebbero subito fiondate lì.
Per prepararsi all’evento, Daito e Shoto avevano trascorso un paio di settimane a piazzare
dei localizzatori sugli scafi di ogni nave Sixer che erano riusciti a trovare. Grazie a questi
dispositivi, avevano potuto seguire le navi d’assalto nel momento in cui avevano cambiato
rotta e si erano dirette su Frobozz.
Non appena Shoto e Daito avevano scoperto che era Frobozz la destinazione dei Sixer, non
impiegarono molto a decifrare la quartina. E quando raggiungero Frobozz, pochi minuti
dopo, avevano già capito cosa dovessero fare per ottenere la Chiave di Giada.
Avevano fatto atterrare il Kurosawa accanto a una copia della casa bianca quando ancora
non c’era nessuno in vista. Shoto era corso dentro a raccogliere i diciannove tesori e la
chiave; Daito, invece, era rimasto fuori, di guardia. Shoto aveva fatto in fretta, e non gli
mancavano che due tesori quando Daito lo aveva informato via comlink che dieci navi
d’assalto Sixer li stavano accerchiando. Aveva detto al fratello di sbrigarsi e gli aveva
promesso che avrebbe tenuto lontano il nemico finché Shoto non fosse entrato in possesso
della Chiave di Giada. Nessuno dei due sapeva se avrebbero avuto un’altra possibilità di
raggiungerla.
Mentre si precipitava a recuperare gli ultimi due tesori e a infilarli nella teca, Shoto aveva
attivato a distanza una delle telecamere esterne del Kurosawa per registrare un video dello
scontro tra Daito e i Sixer in rapido avvicinamento. Shoto aprì una finestra e mi mostrò la
clip. Ma distolse lo sguardo finché non fu finita. Comprensibilmente, non aveva alcun
desiderio di riguardarla.
Nel filmato vidi Daito solo, nel campo dietro la casa bianca. Una piccola flotta di navicelle
d’assalto Sixer stava scendendo dal cielo e, non appena si trovò a tiro, iniziò a sparare
raffiche di laser dai cannoni. Una grandinata di dardi fiammanti iniziò a cadere intorno a
Daito. Lontano, alle sue spalle, vedevo atterrare altre navi Sixer: ognuna scaricava
squadroni di truppe di fanteria cariche di armi. Daito era circondato.
Evidentemente i Sixer avevano notato il Kurosawa mentre atterrava sulla superficie del
pianeta, e si erano dati come priorità l’uccisione dei due samurai.
Daito non esitò a usare il suo asso nella manica. Tirò fuori la Capsula Beta, la tenne alta
nella mano destra e la attivò. Il suo avatar si trasformò immediatamente in Ultraman, un
supereroe alieno rossoargento dagli occhi incandescenti. Via via che il suo avatar si
trasformava, raggiunse un’altezza di quarantasette metri.
La fanteria dei Sixer che lo stava accerchiando si immobilizzò, sorpresa e spaventata nel
vedere Daito-Ultraman che afferrava due navicelle d’assalto dal cielo e le schiacciava una
contro l’altra, come un bambino gigantesco che si diverte con due giocattolini di latta. Fece
cadere al suolo i rottami in fiamme, e cominciò a scacciare via altre navi come fossero
mosche fastidiose. Le navicelle che sfuggirono alla sua stretta mortale si raggrupparono
intorno a lui e lo bombardarono a colpi di laser e mitragliatrici, ma la sua corazza aliena
deviava tutti i colpi. Daito si lasciò sfuggire una risata fragorosa che echeggiò per tutti i
campi. Poi piegò le braccia, incrociandole all’altezza dei polsi. Un raggio di energia si
liberò dalle sue mani, vaporizzando mezza dozzina di navi che avevano avuto la sfortuna
di trovarsi alla sua portata. Daito si voltò e diresse il raggio verso le forze di terra che lo
circondavano, friggendole come formiche terrorizzate sotto una lente d’ingrandimento.
Sembrava che Daito se la stesse spassando enormemente. A tal punto che non si
preoccupò troppo della luce d’allarme che si trovava in mezzo al suo petto e che aveva
cominciato a lampeggiare di un rosso accecante. Era il segnale che i suoi tre minuti da
Ultraman stavano per scadere e che il suo potere era ormai quasi del tutto esaurito. Il
limite di tempo era la debolezza principale di Ultraman. Se Daito non fosse riuscito a
disattivare la Capsula Beta e a riprendere forma umana prima dello scadere dei tre minuti,
il suo avatar sarebbe morto. Ma era chiaro che se si fosse trasformato nel bel mezzo del
massacro sarebbe comunque stato ucciso all’istante. E Shoto non avrebbe mai raggiunto la
navicella.
Vedevo le truppe Sixer intorno a Daito chiedere rinforzi via comlink, mentre altre navi
d’assalto arrivavano numerose. Daito le distruggeva una alla volta, con i colpi perfetti del
suo raggio Specium. Ad ogni colpo che sparava, la luce d’allarme sul suo petto pulsava
più velocemente.
Poi Shoto emerse dalla casa bianca e disse a suo fratello via comlink che aveva la Chiave di
Giada. In quell’istante, la fanteria Sixer individuò Shoto e, fiutando un obiettivo molto più
semplice da distruggere, diresse il fuoco verso di lui.
Shoto corse all’impazzata verso il Kurosawa. Non appena attivò gli Stivali della velocità
che indossava, il suo avatar diventò una macchia a malapena visibile che filava lungo il
campo. Mentre Shoto correva, Daito spostò il suo corpo gigante in cerca della maggior
copertura possibile. Continuando a sparare raffiche d’energia, riusciva a tenere sotto
controllo i Sixer.
Poi la voce di Daito irruppe nel comlink. «Shoto!» gridò. «C’è qualcuno qui! Qualcuno è
nel…» La sua voce si interruppe. In quello stesso momento, il suo avatar si fermò, come se
si fosse tramutato in pietra, e sulla sua testa comparve un’icona di disconnessione.
Disconnettersi dall’account OASIS durante un combattimento equivaleva a suicidarsi.
Durante la sequenza di logout, l’avatar rimaneva immobile per sessanta secondi, durante i
quali era privo di difese e suscettibile all’attacco. La sequenza di logout era stata
progettata in questo modo per evitare che gli avatar se ne servissero come scappatoia per
sfuggire a una battaglia.
Prima di disconnettersi, bisognava tener duro o ritirarsi in un luogo sicuro.
La sequenza di logout di Daito era stata attivata nel peggior momento possibile.
Nell’istante in cui si congelò, il suo avatar cominciò a essere colpito da proiettili e laser
sparati da qualsiasi direzione. La luce rossa d’allarme sul suo petto lampeggiò sempre più
veloce, finché non rimase fissa. A quel punto, il gigante Daito si piegò su se stesso e crollò
a terra. Cadendo, per poco non disintegrò Shoto e il Kurosawa. Quando colpì il suolo, il
corpo del suo avatar si rimpicciolì e riprese le sembianze normali. Poi cominciò a
scomparire, la sua esistenza che si dissolveva un poco alla volta. Quando l’avatar di Daito
svanì completamente, lasciò un mucchietto di oggetti che roteavano al suolo: tutto ciò che
aveva nell’inventario, Capsula Beta compresa. Era morto.
Nella finestra video notai un’altra macchia che si muoveva: era Shoto che correva a
raccogliere gli oggetti di Daito. Poi si girò e corse di nuovo a bordo del Kurosawa. La nave
decollò e fu sparata in orbita mentre continuava a essere bersagliata dal fuoco nemico, e
mi ricordò la mia fuga disperata da Frobozz. La fortuna di Shoto fu che suo fratello aveva
spazzato via quasi tutte le navi Sixer nelle vicinanze, e che i rinforzi non erano ancora
arrivati.
Shoto riuscì a entrare in orbita e fuggire saltando alla velocità della luce. Per un pelo.
Il video terminò e Shoto chiuse la finestra.
«Come pensi che i Sixer abbiano scoperto dove viveva?» gli domandai.
«Non lo so» rispose Shoto. «Daito era molto attento. Copriva le sue tracce.»
«Se hanno trovato lui, potrebbero riuscire a trovare anche te» gli dissi.
«Lo so. Ho preso qualche precauzione.»
«Ottimo.» Shoto prese la Capsula Beta dal suo inventario e me la porse. «Daito avrebbe
voluto che l’avessi tu.» Sollevai una mano. «No, penso che dovresti tenerla tu. Potresti
averne bisogno.» Shoto scosse la testa. «Ho tutti gli altri oggetti che gli appartenevano»
disse. «Non ho bisogno di questa. E non la voglio.» Mi porse di nuovo la Capsula, con
insistenza.
Presi l’artefatto e lo esaminai. Era un piccolo cilindro di latta, color argento e nero, con un
pulsante rosso d’attivazione su un lato. La forma e la grandezza ricordavano le mie spade
laser. Ma una spada laser valeva pochi spiccioli. Ne avevo più di cinquanta nella mia
collezione. Invece, c’era soltanto una Capsula Beta, ed era un’arma ben più potente.
Sollevai la Capsula con entrambe le mani e mi inchinai. «Grazie, Shoto-san.»
«Grazie a te, Parzival» disse, ricambiando l’inchino. «Grazie per avermi ascoltato.»
Lentamente, si alzò. Tutto, nei suoi movimenti, indicava una sconfitta.
«Non hai ancora gettato la spugna, vero?»
«Ovviamente no.» Raddrizzò la schiena e mi rivolse un sorriso cupo. «Ma trovare l’Egg
non è più lo scopo. Ho una nuova missione. Ed è ben più importante.»
«E sarebbe?»
«La vendetta.» Annuii. Poi mi avvicinai a una parete e raccolsi una delle spade da samurai
che avevo appeso al muro. La porsi a Shoto. «Ti prego» dissi «accetta questo dono. Per
aiutarti nella tua nuova missione.» Shoto la prese ed estrasse di qualche centimetro la lama
ornata. «Una Masamune?» chiese, osservando rapito la lama.
Annuii. «Sì. Ed è anche una vorpal +5.» Shoto si inchinò nuovamente, in segno di
gratitudine. «Arigato.» In silenzio, entrammo nell’ascensore per tornare all’hangar. Prima
di salire a bordo della nave, Shoto si voltò verso di me. «Quanto ci metteranno i Sixer a
superare la Terza Porta, secondo te?» chiese.
«Non lo so» risposi. «Spero che saremo più veloci noi a raggiungerli.»
«Mai fasciarsi la testa prima del tempo, giusto?» Annuii. «Non è finita finché non è finita.
E non è ancora finita.»

0026
Quella sera, poche ore dopo che Shoto se ne era andato, capii tutto.
Ero seduto al centro di comando, tenevo in una mano la Chiave di Giada e ripetevo
all’infinito l’indizio che vi era impresso: La missione continuerai se il test affronterai.
Nell’altra mano mi rigiravo la carta argentata. I miei occhi oscillavano tra la chiave e
l’incarto e poi di nuovo alla chiave, ripetutamente, mentre cercavo di stabilire un
collegamento tra i due oggetti. Lo stavo facendo da ore, e non ero giunto ad alcuna
conclusione.
Sospirai e rimisi via la chiave, poi appoggiai l’incarto sul pannello di controllo di fronte a
me. Con cura, lisciai le piegature e le grinze. Era di forma quadrata e ogni lato misurava
quindici centimetri. Carta argentata da un lato, semplice carta bianca dall’altro.
Aprii un software di analisi immagini e feci una scansione ad alta risoluzione di entrambi i
lati. Poi ingrandii le immagini sul mio display ed esaminai attentamente ogni singolo
micrometro. Non trovai alcun segno o scritta. Stavo mangiando patatine di mais, perciò
usai i comandi vocali per gestire il software di analisi. Diedi istruzione di rimpicciolire la
scansione e centrare l’immagine sul display. Nel farlo, mi ricordai la scena di Blade
Runner in cui Deckard, il personaggio interpretato da Harrison Ford, usa uno scanner a
controllo vocale per analizzare una fotografia.
Sollevai l’incarto e lo fissai di nuovo. Mentre la luce virtuale si rifletteva sulla superficie
della stagnola, pensai di farne un aeroplanino e di lanciarlo per tutta la stanza. Il mio
pensiero andò agli origami, che mi rimandarono a un altro momento di Blade Runner.
Una delle scene finali del film.
Fu allora che capii.
«L’unicorno» mormorai.
Nel momento in cui pronunciai la parola «unicorno», l’incarto cominciò a piegarsi da solo,
nel palmo della mia mano. Il quadrato di stagnola si piegò diagonalmente, creando un
triangolo d’argento. Continuò a piegarsi e a richiudersi in triangoli e rombi sempre più
piccoli, finché non formò una figura a quattro zampe a cui crebbero una coda, una testa e,
infine, un corno.
L’incarto era giunto a formare un origami argentato a forma di unicorno. Una delle
immagini-chiave di Blade Runner.
Ero già sull’ascensore, diretto verso l’hangar, e gridavo a Max di preparare il Vonnegut al
decollo.
La missione continuerai se il test affronterai.
Sapevo esattamente a quale «test» si riferisse il verso e dove avrei dovuto andare per
affrontarlo. L’origami a forma di unicorno mi aveva appena rivelato tutto.
L’Almanacco di Anorak citava Blade Runner nientemeno che quattordici volte. Era uno
dei dieci film preferiti di Halliday. Ed era tratto da un romanzo di Philip K. Dick, uno
degli autori preferiti di Halliday. Per tutti questi motivi, avevo visto Blade Runner più di
una cinquantina di volte e ricordavo a memoria ogni battuta e ogni fotogramma del film.
Mentre il Vonnegutfilava attraverso l’iperspazio aprii il director’s cut di Blade Runner in
una finestra del display e mandai avanti veloce per guardare due scene in particolare.
Il film, uscito nel 1982, è ambientato nella Los Angeles del 2019, in un futuro in espansione
ipertecnologica che non sarebbe mai arrivato. Segue la storia di un tale, Rick Deckard,
interpretato da Harrison Ford. Deckard è un «Blade Runner», un agente speciale che
insegue ed elimina i replicanti – esseri artificiali quasi indistinguibili dai veri esseri umani.
In effetti, i replicanti si comportano e assomigliano a tal punto agli esseri umani che
l’unico modo di individuarli, per un Blade Runner, è di sottoporli al test Voight-Kampff,
che prende il nome da un dispositivo simile a una macchina della verità.
La missione continuerai se il test affronterai.
Gli apparecchi Voight-Kampff compaiono in due sole scene del film. Entrambe hanno
luogo nel Tyrell Building, un’enorme struttura a doppia piramide che ospita la Tyrell
Corporation, la fabbrica che produce i replicanti.
Le riproduzioni del Tyrell Building erano tra le strutture più comuni su OASIS. Se ne
trovavano delle copie in centinaia di pianeti diversi, sparsi in tutti e ventisette i settori.
Questo perché il codice dell’edificio era incluso tra i template gratuiti nel software di
costruzione World Builder (insieme a centinaia di altri edifici presi in prestito da svariati
film e serie di fantascienza). Perciò, negli ultimi venticinque anni, chiunque avesse usato il
software World Builder per creare un nuovo pianeta su OASIS, avrebbe potuto selezionare
il Tyrell Building da un menu a tendina e inserirne una copia nella propria simulazione,
per iniziare ad agghindare il profilo della propria città futuristica o del paesaggio che
stava programmando. Di conseguenza, alcuni mondi avevano dozzine di Tyrell Building
sparsi sulla propria superficie. E io, in quel momento, stavo filando alla velocità della luce
sul più vicino di questi mondi, un pianeta a tema cyberpunk nel Settore 22: Axrenox.
Se il mio sospetto era fondato, ogni copia del Tyrell Building su Axrenox conteneva
un’entrata segreta alla Seconda Porta, attraverso i Voight-Kampff che si trovavano al suo
interno. Non temevo di imbattermi nei Sixer, perché escludevo che avessero preso
d’assedio la Seconda Porta. Non con migliaia di copie del Tyrell Building su centinaia di
mondi diversi.
Quando raggiunsi Axrenox, non ci misi più di un paio di minuti a trovare una copia del
Tyrell Building. Era impossibile non vederlo. Un enorme edificio a forma di piramide che,
alla base, occupava decine di chilometri quadrati e torreggiava su quasi tutte le strutture
che lo circondavano.
Individuai la prima copia dell’edificio e mi ci fiondai. Il dispositivo di occultamento della
mia navicella era già attivato e decisi di mantenerlo quando atterrai con il Vonnegutsu una
delle piattaforme del Tyrell Building. Quindi richiusi la navicella e attivai tutti i sistemi di
sicurezza, augurandomi che fossero sufficienti a evitarne il furto fino al mio ritorno. Sul
pianeta, la magia non funzionava, perciò non potevo rimpicciolire la nave e infilarmela in
tasca. Lasciare una navicella parcheggiata in bella vista su un mondo cyberpunk chiamato
Axrenox, invece, era un po’ come pregare che te la rubassero. Il Vonnegut sarebbe stato
l’obiettivo ideale della prima gang di sbandati vestiti di pelle che l’avesse notato.
Aprii una mappa del layout predefinito del Tyrell Building e me ne servii per localizzare
un ascensore che raggiungesse il tetto e fosse vicino alla piattaforma su cui ero atterrato.
Quando fui nell’ascensore, pigiai il codice di sicurezza predefinito sul tastierino numerico
e incrociai le dita. Ebbi fortuna. Le porte si spalancarono con un sibilo. Chiunque avesse
creato questa sezione di Axrenox non si era preoccupato di resettare i codici di sicurezza
del template. Lo presi come un buon segno. Probabilmente anche il resto era rimasto
predefinito.
Scendendo con l’ascensore fino al 440° piano, attivai l’armatura ed estrassi le armi. Tra
l’ascensore e la stanza che dovevo raggiungere mi sarei imbattuto in cinque posti di
controllo. A meno che il template non fosse stato modificato, tra me e la mia destinazione
avrei incontrato cinquanta PNG, tutte guardie di sicurezza replicanti Tyrell.
La sparatoria ebbe inizio non appena le porte dell’ascensore si aprirono. Dovetti uccidere
sette «lavori in pelle» prima ancora di uscire dalla cabina ed entrare nel corridoio.
I dieci minuti che seguirono furono come la scena madre di un film di John Woo. Uno di
quelli con Chow Yun Fat, come Hard Boiled o The Killer. Attivai il fuoco automatico su
entrambe le pistole, e tenni premuti i grilletti spostandomi di stanza in stanza,
massacrando tutti i png che incontravo sulla mia strada. Le guardie rispondevano al
fuoco, ma i loro proiettili rimbalzavano sulla mia armatura senza provocare alcun danno.
Non finivo mai le munizioni, perché, ogni volta che le esaurivo, nuovi proiettili venivano
teletrasportati nel caricatore.
La spesa per le munizioni, quel mese, sarebbe stata pazzesca.
Quando infine giunsi a destinazione, inserii un nuovo codice e sbarrai la porta alle mie
spalle. Sapevo di non avere molto tempo. In tutto l’edificio ululavano sirene di allarme, e
le migliaia di guardie PNG appostate ai piani inferiori probabilmente si stavano già
preparando a raggiungermi.
Quando entrai nella stanza, i miei passi risuonarono sul pavimento. Non c’era anima viva,
fatta eccezione per un grosso gufo appollaiato su un trespolo d’oro. Batté gli occhi in
silenzio, osservandomi mentre attraversavo quella stanza grande come una cattedrale. Era
una copia perfetta dell’ufficio di Eldon Tyrell, fondatore della Tyrell Corporation. Ogni
dettaglio del film era stato riprodotto fedelmente. Pavimenti in marmo lucido. Colonne
massicce di marmo. Una gigantesca vetrata occupava l’intera parete occidentale, dal
pavimento al soffitto, e offriva una vista mozzafiato della città.
Un lungo tavolo da riunione era posto di fronte alla finestra. Su di esso, c’era un
apparecchio Voight-Kampff. Aveva le dimensioni di una ventiquattrore, con una fila di
pulsanti senza nome, accanto a tre piccoli monitor.
Quando mi avvicinai, la macchina si accese automaticamente. Un sottile braccio robotico
allungò un dispositivo circolare che somigliava a uno scanner della retina, puntandolo
esattamente all’altezza della mia pupilla destra. Sul lato della macchina era inserito un
piccolo mantice che cominciò a gonfiarsi e sgonfiarsi, dando l’impressione che
l’apparecchio respirasse.
Mi guardai intorno, chiedendomi se un PNG di Harrison Ford sarebbe apparso per pormi
le stesse domande che aveva posto, nel film, a Sean Young. Avevo imparato a memoria
tutte le sue risposte, casomai fosse servito. Ma attesi qualche secondo e non accadde nulla.
Il soffietto continuava a gonfiarsi e sgonfiarsi. In lontananza, le sirene continuavano a
squillare.
Estrassi la Chiave di Giada. Nel momento in cui lo feci, nella parte superiore del Voight-
Kampff si aprì un pannello che scoprì il buco di una serratura. Rapidamente inserii la
Chiave di Giada e diedi una mandata. La macchina e la chiave svanirono e, al loro posto,
comparve la Seconda Porta. Questo portale aveva la forma di una normalissima porta, ed
era proprio sopra al tavolo delle conferenze. Il profilo brillava del pallido color giada della
chiave e, come nel caso della Prima Porta, sembrava condurre a una vasta distesa di stelle.
Mi arrampicai sul tavolo e vi saltai dentro.
Mi ritrovai all’entrata di una squallida sala da bowling, arredata in stile disco anni
settanta. La moquette era un turbinio sgargiante insieme di macchie verdi e marroni, e le
sedie in plastica modellata erano di un arancione sbiadito. Le piste da bowling erano
vuote e non illuminate. L’intera sala era deserta. Non c’erano png dietro al bancone di
accoglienza, o nel bar. Non ero sicuro di sapere dove fossi finché non lessi Middletown
Lanes, stampato a grandi lettere sul muro che sovrastava le piste da bowling.
Dapprima, l’unico suono che udii fu il ronzio sommesso delle luci fluorescenti sopra la
mia testa. Ma poi sentii una serie di lievi cinguettii elettronici alla mia sinistra. Guardai in
quella direzione e vidi una nicchia buia, al di là del bar. Sopra a quell’entrata da caverna
vidi un’insegna. Dieci rosse lettere al neon formavano le parole SALA GIOCHI.
Seguì una violenta raffica di vento, e il rombo di quello che sembrò un uragano che
sradicava l’intera sala da bowling. I miei piedi scivolarono sul tappeto e capii che il mio
avatar veniva trascinato verso la sala giochi, come se un buco nero si fosse spalancato lì, da
qualche parte.
Mentre il vortice mi risucchiava attraverso l’entrata della sala giochi, notai una dozzina di
videogiochi, tutti risalenti alla seconda metà degli anni ottanta. Crime Fighters, Heavy
Barrel, Vigilante, Smash TV. Ma poi capii che il mio avatar veniva trascinato verso un
gioco in particolare, un gioco isolato in fondo alla stanza.
Black Tiger. Capcom. 1987.
Un vortice turbinoso si era aperto in mezzo al monitor e risucchiava rifiuti, tazze di carta,
scarpe da bowling – tutto ciò che non era fissato al pavimento o alle pareti. Me compreso.
Via via che il mio avatar si avvicinava sempre di più, allungai una mano e, di riflesso,
afferrai il joystick di un cabinato di Time Pilot. I miei piedi si sollevarono dal suolo, mentre
il vortice continuava ad attirare, inesorabilmente, il mio avatar verso di sé.
A questo punto, mi stavo già pregustando ciò che sarebbe avvenuto. Ero pronto a darmi
una robusta pacca sulla spalla, perché avevo appreso l’arte di Black Tiger molto tempo
prima, nel corso del primo anno della Caccia.
Negli anni che avevano preceduto la morte di Halliday, quelli in cui aveva vissuto da
recluso, l’unica cosa che aveva postato sul suo sito era una breve animazione in loop.
Mostrava il suo avatar, Anorak, seduto nella biblioteca del suo castello, intento a
mescolare pozioni e concentrato su alcuni libri di incantesimi. Quel filmato aveva
continuato a ripetersi per più di un decennio, fino a quando non era stato rimpiazzato dal
Segnapunti, la mattina della morte di Halliday. Nel video, appeso alla parete alle spalle di
Anorak, si poteva vedere un grande dipinto con un drago nero.
I Gunter avevano inondato i forum di discussione interrogandosi sul significato del
dipinto, la valenza simbolica del drago nero e la possibilità che non significasse proprio
nulla. Ma, sin dall’inizio, io ero certo del suo significato.
In una delle prime annotazioni dell’Almanacco di Anorak, Halliday aveva scritto che, ogni
volta che i suoi genitori cominciavano a urlarsi contro, era sua abitudine andarsene
furtivamente di casa e pedalare fino alla sala da bowling per giocare a Black Tiger, perché
era un gioco che riusciva a completare con un singolo quarto di dollaro. AA 23.234: Per un
misero quarto di dollaro, Black Tiger mi concede la fuga dalla mia esistenza marcia per tre
gloriosissime ore. Scambio vantaggioso.
Black Tiger era uscito in Giappone con il titolo originale, Burakku Doragon. Black Dragon.
Il gioco era poi stato reintitolato Black Tiger per l’edizione americana. Avevo dedotto che
il dipinto del drago nero sul muro dello studio di Anorak potesse alludere al fatto che
Burakku Doragon avrebbe giocato un ruolo chiave nella Caccia. Perciò mi ero studiato il
gioco fino a che, come Halliday, non ero stato in grado di completarlo con un solo gettone.
Poi, avevo deciso di riprenderlo in mano una volta ogni due mesi, per non arrugginirmi.
A quanto pare sarei stato ripagato della mia lungimiranza e dedizione.
Riuscii a reggermi al joystick di Time Pilot per pochi secondi. Poi mollai la presa e il mio
avatar fu risucchiato nel monitor di Black Tiger.
Per un istante vidi solo nero. Poi mi ritrovai in un ambiente surreale.
Ero nello stretto corridoio di un sotterraneo. Alla mia sinistra c’era un muro di ciottoli sul
quale era appeso il teschio di un enorme drago. Il muro saliva e saliva, fino a svanire
nell’oscurità sopra di me. Non riuscivo a vedere il soffitto. Il pavimento del sotterraneo era
fatto di piattaforme circolari fluttuanti e disposte, da un’estremità all’altra, in una lunga
fila che raggiungeva l’oscurità di fronte a me. Alla mia destra, oltre i margini delle
piattaforme, non c’era nulla: soltanto un buio vuoto e infinito.
Mi voltai, ma non vidi alcuna uscita. Soltanto un altro muro di ciottoli, che raggiungeva il
nero fitto al di sopra della mia testa.
Guardai il corpo del mio avatar. Avevo assunto le sembianze del protagonista di Black
Tiger, un guerriero barbaro muscoloso e seminudo, in perizoma rinforzato ed elmo
munito di corna. Il mio braccio destro scompariva in un bizzarro guanto di metallo da cui
pendeva una catena retrattile a un capo della quale era legata una palla piena di spuntoni
di ferro. La mano destra reggeva abilmente tre coltelli da lancio. Quando li lanciai nel buio
alla mia destra, tre coltelli identici ricomparvero nella mia mano. Quando provai a saltare,
scoprii che riuscivo a fare balzi di una decina di metri e a riatterrare su tutti e due i piedi
con grazia felina.
Finalmente capivo. Dovevo giocare a Black Tiger, d’accordo. Ma non alla versione
bidimensionale, quella di cinquantadue anni fa a scorrimento orizzontale, che avevo
imparato a memoria. Ero nel mezzo di una nuova versione del gioco, immersiva e
tridimensionale, creata da Halliday.
La mia conoscenza della meccanica del gioco, dei suoi livelli e dei nemici mi avrebbe di
certo aiutato, ma la giocabilità sarebbe cambiata radicalmente e avrebbe richiesto delle
abilità completamente diverse.
La Prima Porta mi aveva catapultato in uno dei film preferiti di Halliday e la Seconda
Porta mi aveva immerso in uno dei suoi videogiochi preferiti. Mentre rimuginavo sulle
implicazioni di questo schema, sul display lampeggiò un messaggio: GO!
Mi guardai intorno. Una freccia incisa nel muro di pietra alla mia sinistra mi indicava la
strada, in avanti. Stirai braccia e gambe, scrocchiai le dita e trassi un respiro profondo. Poi,
preparando le armi, corsi in avanti, saltando da una piattaforma all’altra, per affrontare i
miei primi avversari.
Halliday aveva ricreato fedelmente ciascun dettaglio del sotterraneo dell’ottavo livello di
Black Tiger.
Cominciai male e persi una vita senza nemmeno essermi scontrato con il primo mostro
finale. Ma presi confidenza quasi subito con le tre dimensioni del gioco (la prospettiva era
in prima persona). Poco dopo, trovai il ritmo giusto.
Avanzai con decisione, saltando di piattaforma in piattaforma, colpendo a mezz’aria,
schivando gli incessanti attacchi di blob, scheletri, serpenti, mummie, minotauri e – sì –
ninja. Ogni nemico che sconfiggevo si polverizzava in una pila di «monete Zenny», che in
seguito usavo per comprare armature, armi, pozioni dai vari Saggi barbuti sparsi in ogni
livello. (A quanto pare questi Saggi pensavano che mettere su un negozietto nel mezzo di
un sotterraneo infestato dai mostri fosse una buona idea.) Non c’erano pause, e non
avevo modo di stoppare il gioco. Una volta attraversata una porta, non era possibile
fermarsi e disconnettersi. Il sistema non lo permetteva. Anche chi si fosse tolto il visore
sarebbe rimasto connesso. L’unico modo di uscire da una porta era attraversarla
interamente. O morire.
Riuscii a superare tutti e otto i livelli del gioco in poco meno di tre ore. Sfiorai la morte
durante il combattimento con il mostro finale, il drago nero che, naturalmente, era identico
alla creatura ritratta nello studio di Anorak. Avevo usato tutte le vite a disposizione, e la
barra della salute stava per raggiungere lo zero, ma riuscii a proseguire e a ripararmi
dall’alito ardente del drago mentre, lentamente, riducevo i suoi Punti Vita con un costante
lancio di coltelli. Quando gli diedi il colpo di grazia, il drago si sbriciolò davanti ai miei
occhi in granelli di polvere digitale.
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo profondo ed esausto.
E poi, senza transizione alcuna, mi ritrovai nella sala giochi della pista da bowling, davanti
al cabinato di Black Tiger. Di fronte a me, sul monitor del gioco, il mio barbaro in armatura
aveva assunto una posa eroica. Sotto di lui, apparvero le seguenti parole:
HAI RIPORTATO LA PACE E LA PROSPERITÀ
NELLA NOSTRA NAZIONE.
GRAZIE, BLACK TIGER!
CONGRATULAZIONI PER LA TUA FORZA E PER LA TUA SAGGEZZA!
Poi accadde qualcosa di strano – qualcosa che non era mai successo quando avevo
completato il gioco originale. Uno dei Saggi dei sotterranei comparve sullo schermo,
accompagnato da una nuvoletta che diceva: «Grazie. Sono in debito con te. Ti prego,
accetta un robot gigante come ricompensa».
Sotto al Saggio apparve una lunga fila di icone a forma di robot, che attraversavano lo
schermo orizzontalmente. Scoprii che, muovendo il joystick a destra o a sinistra, potevo
scorrere una selezione di un centinaio di «robot giganti» diversi. Quando uno dei robot era
evidenziato, una lista dettagliata delle sue caratteristiche e delle sue armi compariva sullo
schermo, in basso.
Non riconobbi molti dei robot, ma la maggior parte mi era familiare. Vidi Gigantor,
Mazinga Z, il Gigante di Ferro, Jet Jaguar, il robot gigante con la testa a forma di sfinge di
Giant Robot, i cinque robot che formavano Voltron, l’intera linea di giocattoli Shogun
Warriors e molti dei robot di Macross e Gundam. Undici delle icone erano grigie ed erano
coperte da una X rossa e i robot non potevano essere identificati o selezionati. Erano
certamente quelli presi da Sorrento e dagli altri Sixer che avevano superato la porta prima
di me.
Con tutta probabilità mi sarebbe stata data in premio una riproduzione, reale e
funzionante, del robot che avrei scelto, perciò studiai con attenzione tutte le opzioni che
avevo, cercando il robot che ritenevo più potente e con un’artiglieria migliore. Ma mi
immobilizzai quando vidi Leopardon, il gigantesco robot trasformer usato da
Supaidaman, l’incarnazione dell’Uomo Ragno che comparve alla fine degli anni settanta
sulla tv giapponese. Avevo scoperto Supaidaman nel corso delle mie ricerche e ne ero in
un certo qual modo ossessionato. Perciò non mi importava se Leopardon fosse davvero il
robot più potente. Dovevo averlo a prescindere.
Selezionai l’icona e premetti il pulsante di sparo. Una copia di trenta centimetri di
Leopardon comparve sul mobile di Black Tiger. La afferrai e la infilai nell’inventario. Non
c’erano istruzioni, e la descrizione era completamente vuota. Mi dissi che l’avrei esaminato
dopo, al mio rientro nella fortezza.
Nel frattempo, sul monitor di Black Tiger, i titoli di coda del gioco avevano cominciato a
scorrere sull’immagine dell’eroe, seduto sul trono con una smilza principessa al suo
fianco. Rispettosamente, lessi i nomi di tutti i programmatori. Erano giapponesi, salvo
l’ultima riga dei titoli, che diceva: PORT OASIS DI J.D. HALLIDAY.
Quando i titoli finirono, il monitor si oscurò per un istante. Poi, al centro dello schermo,
cominciò lentamente ad apparire un simbolo: un cerchio rosso brillante con una stella a
cinque punte all’interno. Le punte della stella si estendevano oltre al cerchio. Un secondo
più tardi, apparve un’immagine della Chiave di Cristallo, roteando lentamente al centro
della stella rossa.
Fui investito da una scarica di adrenalina, perché riconobbi il simbolo, e sapevo dove mi
avrebbe condotto. Scattai una serie di foto dello schermo, per sicurezza. Un istante dopo, il
monitor si oscurò e il cabinato di Black Tiger si dissolse, trasformandosi in un portale che
aveva la forma di una normalissima porta, con il profilo color giada brillante. L’uscita.
Lanciai un grido trionfale e ci saltai dentro.
0027
Quando riemersi dalla porta, il mio avatar si ritrovò nell’ufficio di Tyrell. Il Voight-Kampff
era riapparso al suo posto, sul tavolo accanto a me. Guardai l’orologio. Erano passate più
di tre ore da quando avevo attraversato la porta. Tranne per il gufo, la stanza era deserta, e
le sirene di sicurezza avevano smesso di suonare. Le guardie PNG avevano probabilmente
fatto irruzione e perquisito la stanza mentre io ero ancora dentro la porta, perché
sembrava che non mi stessero più cercando. Campo libero.
Senza spiacevoli incidenti, ripercorsi la strada fino all’ascensore e su, fino alla piattaforma
di atterraggio. E, rendiamo grazie a Crom, trovai il Vonnegut nel punto esatto in cui lo
avevo parcheggiato, con il dispositivo di occultamento ancora attivo. Corsi a bordo e me
ne andai da Axrenox, spingendomi alla velocità della luce appena entrai in orbita.
Mentre il Vonnegut filava per l’iperspazio, diretto verso lo stargate più vicino, aprii una
delle foto che avevo scattato al simbolo della stella rossa. Poi estrassi il diario del Graal e
aprii la sottocartella che avevo dedicato ai Rush, leggendario gruppo rock canadese.
I Rush erano stati uno dei gruppi preferiti di Halliday dall’adolescenza in avanti. Una
volta in un’intervista rivelò che aveva programmato ogni singolo gioco (OASIS compreso)
ascoltando esclusivamente album dei Rush. Spesso si riferiva ai tre membri dei Rush, Neil
Peart, Alex Lifeson e Geddy Lee, come alla «Santa Trinità» o agli «dèi del Nord».
Nel diario del Graal conservavo ogni canzone, disco, bootleg e video che i Rush avessero
mai realizzato. Avevo scansioni ad alta risoluzione di tutti i loro libretti e delle copertine.
Ogni fotogramma registrato ai concerti che fosse mai esistito. Ogni intervista che il gruppo
avesse mai rilasciato in radio o in televisione. Biografie integrali di ciascun membro della
band, con tanto di copie dei loro progetti e di quelli solisti. Aprii la discografia della band
e selezionai il disco che stavo cercando: «2112», il concept album dei Rush a tema
fantascientifico.
Sul display apparve una scansione ad alta risoluzione della copertina del disco. Il nome
della band e il titolo dell’album erano stampati su una distesa di stelle e, poco più in basso,
come se fosse il riflesso della superficie increspata di un lago, c’era il simbolo che avevo
visto sul monitor di Black Tiger: una stella rossa a cinque punte, racchiusa in un cerchio.
Quando accostai la copertina del disco alla foto del monitor, notai che i due simboli
combaciavano perfettamente.
2112, il pezzo che ha dato il titolo all’album, è un brano epico in sette parti e dura più di
venti minuti. La canzone racconta la storia di un ribelle anonimo che vive nell’anno 2112,
in un’era in cui la creatività e la libertà d’espressione sono state messe fuori legge. La stella
rossa in copertina è il simbolo della «Solar Federation», l’opprimente società interstellare
di cui si parla nel testo. La Solar Federation è controllata da un gruppo di «sacerdoti» che
viene descritto nella seconda parte della canzone, intitolata The Temples of Syrinx. Il testo
mi rivelò esattamente dove fosse nascosta la Chiave di Cristallo: We are the Priests of the
Temples of Syrinx Our great computers fill the hallowed halls.
We are the Priests of the Temples of Syrinx
All the gifts of life are held within our walls.13
Nel Settore 21 c’era un pianeta chiamato Syrinx. Era lì che stavo andando.

13 «Siamo i sacerdoti dei Templi di Syrinx / I nostri computer ne riempiono i gloriosi atrii / Siamo i sacerdoti dei
Templi di Syrinx / I doni della vita tratteniamo in queste mura.» [N.d.T.]
Le mappe OASIS descrivevano Syrinx come «un mondo desolato dal terreno roccioso,
privo di abitanti PNG». Quando controllai il copyright del pianeta, vidi che il creatore di
Syrinx era indicato come «Anonimo». Ma sapevo che i codici del pianeta erano stati scritti
da Halliday perché l’intera progettazione rispecchiava il mondo descritto nel libretto di
«2112».
«2112» uscì nel 1976, ai tempi in cui la musica si vendeva su dischi in vinile da dodici
pollici. I dischi erano protetti da copertine in cartone illustrate su cui era stampata anche la
tracklist. Alcune copertine si aprivano come libri e includevano altre immagini e un vero e
proprio libretto, con tanto di testi e informazioni sulla band. Quando aprii una scansione
del libretto di «2112», trovai al suo interno una seconda immagine del simbolo della stella
rossa. Ritraeva un uomo nudo, raggomitolato davanti alla stella, con entrambe le braccia
protese come a proteggersi per il terrore.
Sulla quarta di copertina si trovavano i testi di tutte e sette le parti della suite di 2112.
Ciascuno era preceduto da un paragrafo in prosa che intensificava il potenziale narrativo
delle canzoni. Queste brevi scene erano raccontate dal punto di vista del protagonista
anonimo di 2112.
Il paragrafo che segue precedeva il testo della prima parte: Sono sveglio, sdraiato, e
osservo la desolazione di Megadon. Cielo e città diventano una cosa sola, si confondono in
un unico piano, un vasto mare di grigi ininterrotti. Le Lune Gemelle due pallide orbite che
compiono il loro percorso nel cielo di piombo.
Quando la nave raggiunse Syrinx vidi le lune gemelle, By-Tor e Snow Dog, orbitare
intorno al pianeta. I nomi erano tratti da un altro classico dei Rush. E più giù, sulla grigia
superficie desolata del pianeta, si trovavano esattamente 1024 copie di Megadon, la città
sotto la cupola descritta nel libretto. Erano il doppio delle copie di Zorksu Frobozz, perciò
sapevo che i Sixer non avrebbero potuto sorvegliarle tutte.
Attivato il dispositivo di occultamento, selezionai la copia più vicina e atterrai con il
Vonnegutappena fuori dalle mura, controllando che non ci fossero altre navi.
Megadon era ancorata alla cima di un altopiano roccioso, sul margine estremo di un
profondo dirupo. La città era in rovina. L’enorme cupola trasparente era venata da un
reticolo ininterrotto di crepe e sembrava sul punto di crollare da un momento all’altro.
Riuscii a entrare in città infilandomi in una delle crepe più grandi, alla base della cupola.
La città di Megadon mi ricordava la copertina di un qualsiasi tascabile di fantascienza anni
cinquanta che ritraeva le rovine di una civiltà un tempo tecnologicamente avanzata. Al
centro esatto della città mi imbattei in un tempio a forma di obelisco i cui muri erano stati
erosi dal vento. Sull’ingresso campeggiava la grande stella rossa della Solar Federation.
Ero di fronte al Tempio di Syrinx.
Non era protetto da un campo di forza né era circondato da un distaccamento di Sixer.
Non c’era anima viva.
Estrassi le pistole e camminai fino all’entrata del tempio.
All’interno, supercomputer a forma di obelisco si susseguivano in lunghe file e
riempivano il tempio, grande quanto una cattedrale. Mi aggirai tra le file, ascoltando il
sordo ronzio delle macchine, finché non raggiunsi il centro del tempio.
Lì, trovai un altare sopraelevato, la stella rossa a cinque punte incisa nella pietra. Quando
salii sull’altare, il ronzio dei computer cessò di colpo e la sala fu immersa nel silenzio.
Avevo come l’impressione di dover piazzare qualcosa sull’altare, a mo’ di offerta al
Tempio di Syrinx. Ma cosa?
Il robot Leopardondi trenta centimetri che avevo guadagnato superando la Seconda Porta
non sembrava adatto. Provai a mettere il robot sull’altare, ma non accadde nulla. Lo rimisi
nell’inventario e per un attimo mi fermai a pensare. Poi mi ricordai un altro particolare del
libretto di «2112». Lo aprii di nuovo e lo scorsi. La mia risposta era lì, nel paragrafo che
precedeva la terza parte: Discovery.
Dietro la mia adorata cascata, nella piccola stanza nascosta sotto la caverna, la trovai.
Scostai la polvere depositata negli anni e la raccolsi, tenendola tra le mani con reverenza.
Non avevo idea di cosa potesse essere, ma era sublime. Appresi a mettere le dita sui fili, a
girare le chiavi per emettere suoni diversi. E colpendo i fili con l’altra mano, produssi i
miei primi suoni armonici e poi, ben presto, la mia musica!
Trovai la cascata all’estremità meridionale della città, dentro la parete ricurva della cupola
atmosferica. Non appena la vidi, attivai i razzi dei miei stivali e volai fino al fiume di
schiuma e vapore formato dalla cascata, e poi lo attraversai. La tuta aptica fece del suo
meglio per simulare la sensazione dei rivoli d’acqua che sferzavano il mio corpo, ma
sembrò più che altro che qualcuno mi colpisse la testa, le spalle e la schiena con un fascio
di rametti. Una volta giunto dall’altra parte della cascata, trovai l’apertura di una caverna
e vi entrai. La caverna si restringeva fino a formare un lungo tunnel che si apriva in una
stanza buia e angusta.
Mi guardai intorno e scoprii che una delle stalagmiti che si innalzavano dal suolo era
piuttosto consumata sulla punta. La afferrai e la tirai verso di me, ma non si smosse.
Provai dunque a spingerla e cedette, piegandosi come fosse attaccata a un perno nascosto,
una leva o qualcosa di simile. Sentii un rumore di pietre alle mie spalle, mi voltai e vidi, al
suolo, una botola aperta. In cima alla caverna si era formata un’apertura che inondava con
un fascio di luce la botola e la minuscola camera che era appena stata svelata lì sotto.
Dall’inventario presi un oggetto, una bacchetta magica in grado di localizzare trappole
nascoste, magiche e non. La usai per assicurarmi che l’area fosse pulita, poi saltai nella
botola e atterrai sul suolo polveroso della camera nascosta. Era una stanza minuscola, a
forma di cubo, con una grande pietra grezza addossata alla parete settentrionale.
Incastrata nella pietra, dalla parte del manico, c’era una chitarra elettrica. Avevo già visto
quel modello nei filmati del tour di «2112» che avevo ripassato durante il viaggio sul
Vonnegut. Era una Gibson Les Paul del ‘74, la chitarra che Alex Lifeson aveva usato nel
tour di «2112».
Sogghignai davanti a quell’assurda immagine arturiana della chitarra nella roccia. Come
ogni Gunter, avevo visto Excalibur, di John Boorman, un numero infinito di volte, perciò
mi fu subito chiaro ciò che avrei dovuto fare. Allungai la mano destra, afferrai il manico
della chitarra e tirai. La chitarra si staccò dalla roccia con un lungo shhingggg! metallico.
Tenni la chitarra alta sopra la testa, e il tintinnio metallico si trasformò in un accordo di
quinta che riecheggiò in tutta la caverna. Fissai per un istante la chitarra e stavo già
attivando i razzi degli stivali per risalire dalla botola e uscire dalla caverna, quando fui
colto da un’idea e mi fermai.
Durante il liceo, James Halliday aveva preso qualche lezione di chitarra. Era ciò che mi
aveva spinto a imparare a suonarla. Non avevo mai tenuto in mano una chitarra vera, ma
con quelle virtuali spaccavo.
Rovistai nell’inventario e trovai un plettro. Poi aprii il diario del Graal ed estrassi gli
spartiti di «2112», insieme alle tablature di Discovery, che descrive la scoperta, da parte
dell’eroe, di una chitarra in una stanza nascosta dietro una cascata. Quando iniziai a
suonare, il suono della chitarra rimbombò tra i muri della camera e risalì per la caverna,
nonostante l’assenza di elettricità o amplificatori.
Appena ebbi suonato la prima battuta di Discovery, comparve un messaggio, scolpito
nella roccia da cui avevo estratto la chitarra.
La prima forgiata in rosso metallo,
La seconda in pietra verde,
La terza è del più limpido cristallo,
Ma ad aprirla da soli si perde.
Pochi secondi dopo, le parole iniziarono a dissolversi, svanendo insieme al riverbero
dell’ultima nota che avevo suonato. Rapidamente, scattai una foto alla schermata con
l’enigma, cercando già di decifrarne il significato. Parlava, chiaramente, della Terza Porta.
E di come non si potesse «aprirla da soli».
Che i Sixer avessero suonato la canzone e trovato il messaggio? Ne dubitavo fortemente. Si
sarebbero limitati a estrarre la chitarra dalla roccia e a riportarla al tempio.
In quel caso, probabilmente non sapevano che c’era un trucchetto per aprire la Terza
Porta. E questo spiegava perché non fossero ancora arrivati all’Egg.
Ritornai al tempio e posai la chitarra sull’altare. Quando lo feci, i computer a forma di
obelisco che mi sovrastavano cominciarono a emettere una cacofonia di suoni, come
un’intera orchestra in fase di accordatura. Il rumore si intensificò in un crescendo
assordante e poi s’interruppe di colpo. Quindi, l’altare fu avvolto da un lampo di luce e la
chitarra si trasformò nella Chiave di Cristallo. Quando mi avvicinai per raccogliere la
chiave, udii un trillo e il mio punteggio sul Segnapunti aumentò di 25 000 punti. Sommati
ai 200 000 che avevo guadagnato superando la Seconda Porta, portavano il mio totale a 353
000 punti, mille in più di Sorrento. Ero di nuovo al primo posto.
Ma sapevo che non era il momento di festeggiare. Esaminai in fretta la Chiave di Cristallo,
inclinandola alla luce per studiarne la superficie luccicante e sfaccettata. Non c’erano
parole incise, ma notai un piccolo monogramma al centro dell’impugnatura di cristallo,
una singola A, ben disegnata, che riconobbi subito.
Quella stessa A compariva nella casella «simbolo del personaggio» della prima scheda che
James Halliday avesse mai compilato su Dungeons & Dragons. Era il monogramma che si
vedeva sulla tunica nera del suo leggendario avatar OASIS: Anorak. E sapevo che lo stesso
emblema adornava il cancello di Castle Anorak, la fortezza inespugnabile dell’avatar.
Durante i primi anni della Caccia, i Gunter si erano avventati come insetti affamati su
qualsiasi località OASIS che sembrasse un buon nascondiglio per le tre chiavi; in
particolare, sui pianeti i cui codici erano stati scritti dallo stesso Halliday. Principale
destinazione era Chthonia, una minuziosa riproduzione del mondo che Halliday aveva
creato al liceo per la sua campagna di Dungeons & Dragons e che era stata anche
l’ambientazione di molti dei suoi primi videogiochi. Chthonia era diventato la Mecca dei
Gunter.
Come chiunque altro, mi ero sentito in dovere di fare un breve pellegrinaggio sul pianeta
per visitare Castle Anorak. Ma il castello era inespugnabile e lo era sempre stato. Nessun
avatar, se non Anorak stesso, poteva varcarne la soglia.
Ma ora sapevo che ci doveva essere un modo per entrare a Castle Anorak. Perché la Terza
Porta era lì dentro.
Quando tornai sulla nave, decollai e stabilii la rotta verso Chthonia, nel Settore 10.
Poi iniziai a scorrere i feed di notizie, per le reazioni esaltate dei media alla notizia del del
mio ritorno al primo posto. Ma il mio punteggio non era la notizia del giorno. No, la
grande notizia, quel pomeriggio, era che il nascondiglio dell’Easter Egg di Halliday era
stato infine rivelato al mondo. Si trovava, disse il giornalista, da qualche parte sul pianeta
Chthonia, all’interno di Castle Anorak. E lo si era saputo perché l’intero esercito Sixer si
era accampato intorno al castello.
Erano arrivati quel giorno, in mattinata, dopo che avevo superato la Seconda Porta.
Un tempismo simile non poteva essere una coincidenza. I miei progressi dovevano aver
spinto i Sixer a smettere di celare i loro tentativi per superare la Terza Porta e a rendere
pubblico il luogo in cui si trovava, sbarrandone l’accesso prima che io, o chiunque altro,
potessi raggiungerlo.
Pochi minuti dopo essere giunto su Chthonia, volai, con il dispositivo d’occultamento
attivato, intorno al castello per valutare la situazione. Era anche peggio di quanto avessi
immaginato.
I Sixer avevano installato un qualche scudo magico intorno a Castle Anorak, una cupola
semitrasparente che racchiudeva completamente il castello e l’area circostante. Accampato
entro i confini dello scudo, c’era l’intero esercito Sixer. Un vasto schieramento di truppe,
carri armati, armi e veicoli, circondava il castello da tutti i lati.
Svariati clan di Gunter si erano già presentati sulla scena e si giocavano le prime carte
tentando di distruggere lo scudo con testate ad alto rendimento. A ogni detonazione
seguiva un breve spettacolo di luci atomiche, poi il colpo si disperdeva, senza intaccare lo
scudo.
Gli attacchi continuarono per un altro paio d’ore, via via che la notizia si diffondeva e un
numero sempre maggiore di Gunter giungeva su Chthonia. I clan lanciarono contro lo
scudo ogni tipo d’arma immaginabile, ma senza ottenere il minimo effetto. Testate
nucleari, sfere di fuoco, missili magici: nulla. Infine, una squadra di Gunter cercò di
scavare un tunnel sotto i confini della cupola, e fu allora che si scoprì che a circondare il
castello non era in realtà una cupola ma una sfera, che circondava il castello sia al di sopra
del suolo sia sottoterra.
Più tardi, quella sera, molti maghi Gunter di alto livello completarono i loro incantesimi
divinatori e annunciarono sui forum che lo scudo intorno al castello era generato da un
artefatto molto potente noto come La Sfera di Osuvox, che poteva essere attivato soltanto
da un mago di novantanovesimo livello. Secondo la descrizione, l’artefatto era in grado di
crearsi intorno uno scudo sferico, con una circonferenza che poteva raggiungere mezzo
chilometro. Lo scudo era impenetrabile e indistruttibile e poteva vaporizzare qualsiasi
cosa lo toccasse. Inoltre, poteva essere mantenuto a tempo indeterminato, a patto che il
mago che aveva attivato la sfera rimanesse immobile e tenesse entrambe le mani ferme
sull’artefatto. Nei giorni che seguirono, i Gunter cercarono in tutti i modi di penetrare al di
là dello scudo. Magia. Tecnologia. Teletrasporto. Controincantesimi. Altri artefatti. Non
funzionarono. Non c’era modo di entrare.
Rapidamente, in tutta la comunità Gunter si diffuse un’atmosfera di disperazione. Solitari
e membri dei clan erano pronti a gettare la spugna. I Sixer avevano la Chiave di Cristallo e
un accesso esclusivo alla Terza Porta. Tutti concordavano che la fine fosse vicina, che fosse
finito tutto, tranne le lacrime.
Nel corso di tutti questi sviluppi riuscii, in qualche modo, a mantenere la calma. C’era la
possibilità che i Sixer non avessero nemmeno capito come aprire la Terza Porta.
Naturalmente, avrebbero avuto un sacco di tempo a disposizione. Potevano permettersi di
essere lenti e metodici. Prima o poi, si sarebbero imbattuti nella soluzione.
Ma non mi volevo arrendere. Finché un avatar non raggiungeva l’Easter Egg, tutto era
possibile.
Come in ogni videogioco classico, la Caccia era semplicemente passata a un livello nuovo,
più difficile. E un nuovo livello, spesso, richiedeva una strategia completamente nuova.
Cominciai a elaborare un piano. Un piano audace, stravagante, che avrebbe richiesto una
quantità mitologica di fortuna. Misi in atto la prima parte del piano mandando un’email
ad Art3mis, Aech e Shoto. Il messaggio spiegava dove avrebbero trovato la Seconda Porta
e come avrebbero potuto ottenere la Chiave di Cristallo. Quando fui certo che tutti e tre
avevano ricevuto il mio messaggio, diedi inizio alla fase successiva del piano. Questa era
la parte che mi terrorizzava di più, perché sapevo che c’erano buone probabilità che mi
uccidessero. Ma a quel punto, non mi importava più.
Avrei raggiunto la Terza Porta, o sarei morto provandoci.

LIVELLO TRE
«Uscire di casa è altamente sopravvalutato.»
Almanacco di Anorak, Capitolo 17, Verso 32

0028
Quando la polizia della IOI venne ad arrestarmi, ero nel bel mezzo di Explorers, film del
1985 diretto da Joe Dante. Parla di tre ragazzini che costruiscono un’astronave in giardino
e poi volano via e vanno a incontrare gli alieni. Probabilmente uno dei più grandiosi film
per ragazzi mai realizzato. Per abitudine, lo riguardavo almeno una volta al mese. Mi
aiutava a distendere i nervi.
Una miniatura in fondo al display mi offriva la ripresa della telecamera di sicurezza
esterna del palazzo, perciò vidi il Veicolo di Recupero Schiavi Reclutati accostare di fronte
all’edificio, a sirene spiegate e luci lampeggianti. Saltarono fuori quattro agenti, in stivali
militari ed elmetti antisommossa, e corsero nell’edificio seguiti da un tale che indossava
giacca e cravatta. Continuai a osservarli sulla telecamera dell’atrio, mentre sventolavano i
loro distintivi IOI, oltrepassavano il posto di controllo e si infilavano nell’ascensore.
Stavano salendo al mio piano.
«Max» mormorai, avvertendo il tono spaventato della mia stessa voce. «Esegui macro di
sicurezza numero uno: Crom, gran dio dei monti.» Questo comando vocale faceva
eseguire al computer una lunga sequenza di azioni preprogrammate, sia online sia nel
mondo reale.
«P-p-prontissimo, capo!» replicò Max allegramente e, in un secondo, il sistema di
sicurezza dell’appartamento passò in modalità blocco. La WarDoor rinforzata in titanio
calò dal soffitto, sbattendo e unendosi alla porta di sicurezza incassata nel muro
dell’appartamento.
Dalla telecamera di sicurezza montata nel corridoio fuori dall’appartamento, osservai i
quattro agenti uscire dall’ascensore e fiondarsi nel corridoio, fino a raggiungere la mia
porta. I due davanti impugnavano saldatrici al plasma. Gli altri due avevano pistole a
impulsi elettrici VoltJolt a potenza industriale. Il tizio con il completo, dietro di loro, aveva
con sé un bloc-notes digitale.
Non fui sorpreso di vederli. Sapevo perché erano arrivati. Erano arrivati per forzare
l’appartamento e tirarmi fuori, come se dovessero estrarre un pezzo di carne da un
barattolo.
Quando arrivarono alla porta, lo scanner li ispezionò e le loro identità mi comparvero sul
display, informandomi che tutti e cinque erano ufficiali della IOI con un mandato
d’arresto valido per Bryce Lynch, l’inquilino dell’appartamento. Perciò, nel rispetto della
legge locale, statale e federale, il sistema di sorveglianza del condominio aprì entrambe le
porte di sicurezza per garantirgli l’accesso. Ma la WarDoor che avevo appena azionato li
lasciò fuori.
Naturalmente, gli agenti si aspettavano che avessi qualche sistema di sicurezza
supplementare, ed è per questo che si erano portati le saldatrici al plasma.
Il parassita IOI in giacca e cravatta si infilò tra gli altri agenti e piazzò cautamente il pollice
sul citofono. Sul mio display comparve il suo nome e il suo ruolo nella società: Michael
Wilson, Divisione Crediti e Riscossioni IOI, Impiegato # IOI-481231.
Wilson guardò su, dritto nell’obiettivo della telecamera nel corridoio, e sorrise affabile.
«Signor Lynch» disse, alzando la voce perché lo sentissi nonostante le saldatrici. «Mi
chiamo Michael Wilson e faccio parte della Divisione Crediti e Riscossioni della Innovative
Online Industries.» Consultò il bloc-notes. «Sono qui perché non ha effettuato gli ultimi tre
pagamenti sulla sua carta Visa IOI, le cui pendenze ammontano a ventimila dollari. I
nostri dossier ci segnalano che al momento lei non ha un impiego, ed è stato quindi
classificato come indigente. Per la legge federale, lei è idoneo al reclutamento forzato
causa insolvenza. Rimarrà con noi finché non avrà estinto il suo debito con la compagnia,
inclusi gli interessi applicabili, le multe per il ritardo e per la procedura, e ogni altra spesa
o ammenda che contrarrà d’ora in avanti.» Wilson indicò gli agenti. «Questi signori sono
qui per aiutarmi a prenderla in custodia e scortarla al suo nuovo posto di lavoro. Le
chiediamo di aprire la porta e garantirci l’accesso al suo alloggio. Ci tengo a informarla che
siamo autorizzati a confiscare i suoi effetti personali. Il valore degli oggetti, ovviamente,
sarà detratto dalle sue insolvenze.» A quanto riuscii a sentire, Wilson recitò tutta la
formula senza fermarsi a respirare, parlando con il tono piatto di chi è costretto a ripetere
le stesse frasi per tutto il giorno.
Dopo una breve pausa, risposi al citofono: «Certo, ragazzi. Datemi un minuto per infilarmi
i pantaloni. Esco subito».
Wilson aggrottò la fronte. «Signor Lynch, se non ci garantisce accesso entro dieci secondi,
siamo autorizzati a sfondare la porta. L’importo di ogni danno causato dall’irruzione dei
nostri agenti, compreso il danno alla proprietà e i costi della riparazione, si andranno a
sommare al suo debito. Grazie.» Wilson si allontanò dal citofono e fece un cenno agli altri.
Uno degli agenti accese immediatamente la saldatrice e, quando la punta si colorò di un
rosso incandescente, cominciò a incidere il rinforzo in titanio della WarDoor. L’altro con la
saldatrice si scostò di qualche centimetro e iniziò a perforare la parete. Questi tizi avevano
accesso alle specifiche di sorveglianza di tutto l’edificio, perciò sapevano che i muri degli
appartamenti erano dotati di una lamina in acciaio e di uno strato di cemento, che poteva
essere tagliato molto più rapidamente della WarDoor in titanio.
Ovviamente avevo preso le mie precauzioni: avevo rinforzato pareti, pavimento e soffitto
con una SageCage in lega di titanio, montata da me pezzo per pezzo. Una volta perforato
il muro, avrebbero dovuto passare attraverso la gabbia. Ma questo mi avrebbe concesso al
massimo cinque o sei minuti di vantaggio, nella migliore delle ipotesi. Poi sarebbero
entrati.
Sapevo che gli agenti avevano un soprannome per questa procedura – tirare fuori le
reclute da un appartamento fortificato per arrestarle. La chiamavano fare un cesareo.
Ingoiai senz’acqua due dei calmanti che avevo ordinato, per prepararmi all’evento. Ne
avevo già presi due prima, in mattinata, ma non avevano avuto alcun effetto. Su OASIS,
chiusi tutte le finestre del display e alzai al massimo il livello di sicurezza del mio account.
Poi aprii il Segnapunti per controllarlo un’ultima volta e rilassarmi, scoprendo che nulla
era cambiato e i Sixer non avevano ancora vinto. La top ten era ferma ormai da parecchi
giorni.
PUNTEGGI:
1. Art3mis 354.000
2. Parzival 353.000
3. IOI-655321 352.000
4. Aech 352.000
5. IOI-643187 349.000
6. IOI-621671 348.000
7. IOI-678324 347.000
8. Shoto 347.000
9. IOI-637330 346.000
10. IOI-699423 346.000
Art3mis, Aech e Shoto avevano superato la Seconda Porta e si erano impossessati della
Chiave di Cristallo entro quarantott’ore dalla mia email. Art3mis era balzata di nuovo in
vetta dopo aver ricevuto i 25 000 punti della Chiave di Cristallo, grazie al bonus che aveva
ottenuto per essere stata la prima a trovare la Chiave di Giada e la seconda a trovare quella
di Rame.
Dopo aver ricevuto la mia email, Art3mis, Aech e Shoto avevano cercato di contattarmi,
ma non avevo mai risposto alle email e alle richieste di chat. Non vedevo la ragione di
spiegare ciò che avevo in mente. Non avrebbero potuto fare nulla per aiutarmi, e
probabilmente avrebbero soltanto cercato di dissuadermi.
Comunque, ormai non potevo tornare indietro.
Chiusi il Segnapunti e diedi uno sguardo alla mia fortezza, chiedendomi se sarebbe stata
l’ultima volta. Poi trassi molti respiri profondi, come un sub che si prepara all’immersione,
e cliccai sull’icona di logout sul display. OASIS svanì e il mio avatar riapparve nel suo
ufficio virtuale. Aprii una finestra della console e digitai il comando per attivare la
sequenza di autodistruzione del computer: tempesta di merda.
Sul display comparve una barra di avanzamento: mi indicava che il disco fisso si stava
azzerando e stava per essere ripulito.
«Ciao ciao, Max» sussurrai.
«Adios, Wade» disse Max, pochi secondi prima di essere cancellato.
Seduto nella poltrona aptica, sentivo già il calore che proveniva dal lato opposto della
stanza. Quando mi sfilai il visore, vidi del fumo entrare dai fori che si stavano formando
nella porta e nel muro. La situazione stava diventando difficile da gestire per i depuratori
d’aria della stanza. Cominciai a tossire. L’agente alla porta finì il lavoro. Il cerchio di
metallo fumante cadde a terra con un potente boom metallico che mi fece sobbalzare nella
poltrona.
Il saldatore fece un passo indietro. Un altro agente si avvicinò e usò un piccolo barattolo
per spruzzare una sorta di schiuma congelante sui margini del foro, raffreddando il
metallo per non scottarsi quando fossero entrati. Cosa che stavano per fare.
«Via libera!» gridò uno di loro dal corridoio. «Nessuna arma in vista!» Il primo a entrare
dal buco fu uno degli agenti con le pistole a impulsi elettrici. All’improvviso era lì, in piedi
davanti a me, con l’arma puntata sulla mia faccia.
«Non ti muovere!» gridò. «O finisci secco. Capito?» Annuii che sì, avevo capito. Mi resi
conto che questo agente era il primo ospite entrato in casa mia, da quando avevo
cominciato a vivere lì.
Il secondo agente che scivolò nell’appartamento non fu così gentile. Senza dire una parola
camminò verso di me e mi ficcò in bocca una ball-gag. Era una procedura standard,
volevano evitare che dessi ulteriori istruzioni al computer. Non avrebbero dovuto
preoccuparsi. Nel momento in cui il primo agente era penetrato nell’appartamento, un
dispositivo incendiario era già esploso nel computer, che si stava sciogliendo in un blob.
Quando l’agente finì di imbavagliarmi, afferrò l’esoscheletro della mia tuta aptica, mi
strappò dalla poltrona come se fossi una bambola di pezza e mi scagliò sul pavimento. Il
primo agente spinse l’interruttore di sicurezza che apriva la WarDoor e gli ultimi due
agenti entrarono in fretta e furia, seguiti da quel tale in giacca e cravatta, Wilson.
Mi raggomitolai a terra e chiusi gli occhi. Cominciai a tremare senza riuscire a
controllarmi. Cercai di prepararmi a ciò che, sapevo, sarebbe successo.
Stavano per portarmi fuori.
«Signor Lynch» disse Wilson, sorridendo. «La dichiaro in arresto in nome della
Corporation.» Si rivolse agli agenti: «Dite pure alla squadra di recupero di salire e ripulire
questo posto». Diede un’occhiata in giro e notò la sottile striscia di fumo che usciva dal
computer. Mi guardò e scosse la testa. «Mossa stupida. Avremmo potuto vendere il
computer per aiutarla a pagare il debito.» Soffocato dalla pallina, non potevo rispondere,
perciò feci spallucce e poi gli mostrai il dito medio.
Mi strapparono di dosso la tuta aptica e la lasciarono lì, per la squadra di recupero. Senza,
ero completamente nudo. Mi diedero una tuta grigionera, con scarpe di plastica intonate.
La tuta mi raschiava la pelle come carta vetrata, e non appena la infilai cominciai a essere
percorso da un insopportabile prurito. Ero ammanettato, perciò grattarmi non era facile.
Mi trascinarono fino all’entrata. Le lampade fluorescenti succhiavano via il colore da
qualsiasi cosa, e tutto sembrava come in un vecchio film in bianco e nero. Scendendo con
l’ascensore, canticchiai, più forte che potevo, la musichetta d’attesa per mostrare che non
avevo paura. Quando uno degli agenti mi sventolò in faccia la pistola elettrica, mi zittii.
Nell’atrio mi fecero indossare un cappotto con cappuccio. Non volevano che prendessi la
polmonite, ora che ero proprietà della società. Una risorsa umana. Poi mi condussero fuori
e, per la prima volta in più di sei mesi, la luce del sole mi colpì il viso.
Nevicava, e ogni cosa era ricoperta di un sottile strato di ghiaccio grigio e nevischio. Non
sapevo che temperatura ci fosse, ma non ricordavo di aver mai sentito tanto freddo. Il
vento mi entrava nelle ossa.
Mi caricarono sul furgone. Due nuove reclute erano già nel retro, legate ai sedili di
plastica; entrambe indossavano un visore. Gente che era stata arrestata quella mattina
stessa. Gli agenti erano come i netturbini, facevano ronde giornaliere.
La recluta alla mia destra era un tizio alto e magro e aveva probabilmente qualche anno
più di me. Sembrava proprio malnutrito. L’altra persona era obesa e non riuscivo a capire
se fosse maschio o femmina. Decisi di immaginarmelo maschio. Il suo volto era oscurato
da una massa di sporchi capelli biondi, e qualcosa di molto simile a una maschera antigas
gli copriva la bocca. Dalla maschera partiva uno spesso tubo che arrivava fino a una
valvola a terra. Non riuscivo a capire a cosa servisse, finché la recluta non si piegò in
avanti, facendo tendere le manette, e vomitò nella maschera. Udii un aspiratore attivarsi e
risucchiare gli Oreo rigurgitati della recluta nel tubo, fino a terra. Mi domandai se li
avrebbero conservati in un serbatoio o se si sarebbero limitati a scaricarli per strada. Forse
nel serbatoio. La IOI probabilmente avrebbe analizzato il vomito e ne avrebbe conservato i
risultati in una cartella.
«Ti senti male?» domandò un agente mentre mi toglieva la pallina dalla bocca. «Se ti senti
male dimmelo ora e ti metto una maschera.»
«Sto da dio» dissi, poco convinto.
«Ok. Ma se poi mi tocca pulire il tuo vomito te ne pentirai.» Mi lanciarono dentro e mi
legarono di fronte al tizio magrolino. Due agenti salirono sul retro insieme a noi,
riponendo le saldatrici al plasma in un armadietto. Gli altri due richiusero, sbattendole, le
porte posteriori del furgone e salirono davanti.
Mentre ci allontanavamo dal mio condominio, allungai il collo per guardare, dai finestrini
oscurati nel retro del furgone, l’edificio in cui avevo vissuto quell’anno. Riuscii a
individuare la mia finestra, al quarantaduesimo piano, per via del vetro colorato di nero.
La squadra di recupero doveva essere ormai salita. Stavano smontando, classificando,
etichettando, inscatolando tutta la mia attrezzatura, e preparandola per un’asta. Una volta
finito di svuotare l’appartamento, dei robot di servizio l’avrebbero rimesso a lucido e
disinfettato. Un gruppo di riparatori avrebbe sistemato il muro esterno e poi avrebbe
sostituito la porta. Il conto sarebbe stato inviato alla IOI, che lo avrebbe sommato alle mie
pendenze.
Prima di sera, un Gunter fortunato, il primo nella lista d’attesa, avrebbe ricevuto un
messaggio in cui lo informavano che si era liberato un posto: entro sera, il nuovo inquilino
si sarebbe trasferito. Prima che il sole tramontasse, ogni prova della mia presenza in quel
luogo sarebbe stata completamente cancellata.
Mentre il furgone sobbalzava su High Street, udii le gomme schiacciare i grani di sale che
ricoprivano l’asfalto ghiacciato. Uno degli agenti mi si avvicinò e mi schiaffò un visore in
faccia. Mi ritrovai seduto su una spiaggia bianca, guardavo il tramonto mentre le onde si
infrangevano davanti ai miei occhi. Doveva essere una simulazione per tenere tranquille le
reclute durante il viaggio in città. Usando la mano ammanettata, sollevai il visore sulla
fronte. Non sembrava che agli agenti importasse. Perciò allungai nuovamente la testa per
guardare fuori dal finestrino. Mancavo dal mondo reale da molto tempo, e volevo vedere
cos’era cambiato.

0029
Una spessa patina di trascuratezza ricopriva tutto ciò che vedevo. Strade, edifici, persone.
Persino la neve sembrava sporca. Scendeva in fiocchi grigi, come cenere dopo un’eruzione
vulcanica. Il numero dei senzatetto sembrava cresciuto drasticamente. Tende e ripari di
cartone fiancheggiavano le strade e ogni parco pubblico che vedevo era stato riconvertito
in campo profughi. Mentre il furgone si inoltrava nel cuore della città, tra i suoi grattacieli,
vedevo gruppi di persone a ogni angolo di strada, in ogni spazio libero, raccolte intorno a
barili in fiamme e stufe elettriche portatili. Altre erano in fila alle stazioni di ricarica solare
gratuita e indossavano visori e guanti ingombranti e obsoleti. Muovevano le mani in gesti
piccoli, spettrali, mentre interagivano con una realtà molto più piacevole, quella di OASIS,
tramite gli accessi wireless gratuiti della GSS.
Infine arrivammo al 101 della IOI Plaza, nel cuore della città.
Osservai preoccupato, in silenzio, comparire il quartier generale delle Innovative Oline
Industries Inc: due grattacieli rettangolari ne affiancavano uno circolare formando il logo
della IOI. I grattacieli IOI erano i più alti della città, massicce torri di acciaio congiunte
l’una all’altra da una dozzina di passerelle e ascensori. La cima di ogni torre scompariva
nella nuvola densa di sodio che la sovrastava. Gli edifici erano identici al quartier generale
di IOI-1, su OASIS, ma nel mondo reale sembravano molto più spaventosi.
Il furgone scivolò in un garage alla base della torre circolare e percorse una serie di rampe
in cemento, finché non raggiungemmo un’area aperta che somigliava a una zona di carico.
Una scritta, sopra una fila di portelloni, diceva: CENTRO INDUZIONE IMPIEGATI
RECLUTA IOI.
Io e le altre reclute fummo spinti fuori dal furgone, dove una squadra di guardie di
sicurezza armate di pistole a impulsi elettrici ci aspettava per prenderci in custodia. Ci
tolsero le manette, poi una guardia ci esaminò con uno scanner di retine manuale.
Trattenni il fiato mentre me lo passava davanti agli occhi. Un istante dopo, il dispositivo
emise un bip e la guardia lesse le informazioni sul display. «Lynch, Bryce. 19 anni. Piena
cittadinanza americana. Nessun precedente. Reclutamento per inadempienza crediti.»
Annuì con il corpo e premette una serie di icone sul suo bloc-notes. Quindi mi
trasportarono in una stanza, calda e ben illuminata, insieme a centinaia di altre reclute. Si
stavano tutte trascinando lungo un labirinto di funi da carico, come bambini troppo
cresciuti in un luna park inquietante. Sembrava che ci fosse lo stesso numero di maschi e
femmine, ma era difficile distinguerli perché quasi tutti erano pallidi come me e
completamente glabri, e tutti indossavamo la stessa tuta grigia e le stesse scarpe di plastica
grigie. Sembravamo comparse uscite daTHX1138.
Al primo posto di controllo, ogni recluta subiva una scansione approfondita con un
Metadetector nuovo di zecca perché la IOI verificasse che nessuno stesse occultando
dispositivi elettronici. Mentre aspettavo il mio turno, vidi moltissime persone allontanate
dalla fila quando lo scanner trovava un minicomputer sottocutaneo o un telefono a
controllo vocale camuffato da impianto dentale. Li trasportavano in un’altra stanza e i loro
dispositivi venivano rimossi. Un tale davanti a me aveva una minuscola console OASIS
Sinatro nascosta in una protesi di testicolo. Tanto per parlare di palle.
Dopo aver superato altri punti di controllo, fui scortato nell’area dei test, un’enorme
stanza con centinaia di minuscoli cubicoli insonorizzati: in uno di questi mi fecero sedere e
mi consegnarono un visore scadente e un paio di guanti aptici ancora più scadenti. Roba
che non mi permetteva di accedere a OASIS, ma che mi diede un po’ di conforto, quando
la indossai.
Quindi fui sottoposto a una serie di test attitudinali a difficoltà crescente, per misurare la
mia conoscenza e le mie abilità in ogni campo che, plausibilmente, avrebbe potuto tornare
utile al mio nuovo datore di lavoro. Questi test, naturalmente, si riferivano alla falsa
istruzione e ai precedenti lavorativi fasulli che avevo assegnato al mio alter ego Bryce
Lynch.
Padroneggiai tutti i test su software, hardware e networking OASIS ma, intenzionalmente,
totalizzai il minimo nei test progettati per valutare le mie conoscenze su James Halliday e
l’Easter Egg. Non volevo certo finire nella Divisione Oologi della IOI. Avrei potuto
imbattermi in Sorrento. Non pensavo che mi avrebbe riconosciuto – non ci eravamo mai
incontrati di persona, e ormai avevo poco a che fare con la mia vecchia foto dell’annuario –
ma non volevo rischiare. Stavo già sfidando il destino più di quanto avrebbe fatto qualsiasi
persona sana di mente.
Ore dopo, quando finalmente terminai l’ultimo esame, mi inserirono in una chatroom per
incontrare una consulente per il reclutamento. Si chiamava Nancy e, con un tono di una
piattezza ipnotica, mi informò che, in ragione dei miei risultati esemplari e del mio
curriculum stupefacente, mi ero «guadagnato» un posto da Rappresentante di secondo
livello addetto al supporto tecnico OASIS. Mi avrebbero pagato 28 500 dollari l’anno,
meno i costi di alloggio, vitto, tasse, assistenza sanitaria, oculistica, dentistica e servizi
ricreativi: il tutto sarebbe stato automaticamente detratto dal mio stipendio. Quello che
restava (se pure qualcosa fosse rimasto) sarebbe andato a coprire il debito che avevo con la
società. Una volta estinto il debito, sarei stato rilasciato. A quel punto, in base a come me la
sarei cavata, la IOI avrebbe potuto offrirmi un posto permanente.
Era tutta una gran cazzata, ovviamente. Le reclute non riuscivano mai a pagare i loro
debiti e a guadagnarsi il rilascio. Anche quando la IOI aveva finito di vessarti con
detrazioni, multe per ritardi e interessi, finiva sempre che il tuo debito con loro
aumentava, anziché diminuire. Se commettevi l’errore di farti reclutare, finivi per
rimanere recluta a vita. A molti sembrava non importasse, però. Pensavano fosse un
lavoro sicuro. E che non sarebbero morti di fame o di freddo in mezzo a una strada.
Il mio «contratto di reclutamento» comparve in una finestra del display. Conteneva una
lunga lista di condizioni e clausole sui diritti (o meglio, sulla mancanza di diritti) che
avevo, come «impiegato recluta». Nancy mi disse di leggerlo, firmarlo e procedere fino al
«trattamento reclute». Poi uscì dalla chatroom. Feci scorrere il contratto fino in fondo
senza preoccuparmi di leggerlo. Era lungo più di seicento pagine. Firmai con il nome di
Bryce Lynch, poi confermai la mia firma con una scansione della rete.
Mi domandai se il contratto avrebbe potuto essere vincolante anche se ero sotto falso
nome. Non ne ero sicuro, e non mi importava molto. Faceva tutto parte del mio piano.
Mi condussero lungo un altro corridoio, fino all’«area di trattamento reclute». Mi
piazzarono su un nastro trasportatore che mi trascinò da una stazione all’altra. Per prima
cosa, mi presero la tuta e le scarpe e le incenerirono. Poi mi fecero passare attraverso una
specie di autolavaggio per umani: una serie di macchine che mi insaponarono,
strofinarono, disinfettarono, risciacquarono, asciugarono e spidocchiarono. Dopodiché mi
consegnarono una nuova tuta grigia e un altro paio di ciabatte di plastica.
Alla stazione successiva, una fila di macchine mi fece un esame fisico completo, inclusa
una serie di esami del sangue. (Fortunatamente, la Legge per la Privacy Genetica impediva
alla IOI di estrarre campioni del mio dna.) Poi fui sottoposto a una serie di iniezioni, con
una gamma di pistole ad ago automatiche che mi sparavano, simultaneamente, sulle spalle
e sulle chiappe.
Mentre avanzavo sul nastro trasportatore, dei monitor a schermo piatto, montati sopra la
mia testa, continuavano a trasmettere lo stesso video di dieci minuti in un loop infinito:
«Reclutamento Forzato: La tua corsia preferenziale dai debiti al successo!». Il cast era
costituito da stelline della tv di serie D che sbrodolavano gioiosamente propaganda
aziendale mentre illustravano le minuzie della politica reclutamenti della IOI. Dopo averlo
visto cinque volte avevo memorizzato ogni stracazzo di battuta. Alla decima visione,
recitavo le parole all’unisono con gli attori.
«Cosa mi devo aspettare una volta completato il processo iniziale, quando otterrò il mio
posto permanente?» chiedeva Johnny, il protagonista del video d’addestramento.
Aspettati di passare il resto della tua vita da schiavo della compagnia, Johnny, pensai. Ma
continuai a guardarlo mentre, ancora una volta, l’amichevole rappresentante del
dipartimento di Risorse Umane IOI raccontava a Johnny tutto sulla vita quotidiana di una
recluta.
Giunsi infine all’ultima stazione, dove una macchina mi applicò una cavigliera di
sicurezza – una banda di metallo imbottita che si chiuse poco sopra la caviglia. A quanto
diceva il video, il dispositivo monitorava la mia posizione e mi garantiva o negava
l’accesso alle diverse aree del complesso IOI. Se avessi cercato di fuggire, togliermi la
cavigliera o se avessi causato problemi di qualsiasi tipo, il dispositivo avrebbe rilasciato
una scossa elettrica paralizzante. Se necessario, avrebbe potuto iniettarmi un sedativo con
effetto immediato direttamente nelle vene.
Dopo che la cavigliera fu installata, un’altra macchina mi impiantò un piccolo dispositivo
elettronico sul lobo destro dell’orecchio, bucandolo in due punti. Sussultai per il dolore e
gridai una serie di bestemmie. Dal filmino avevo appreso che mi era appena stata
assegnata una TOC. TOC stava per Targhetta d’Osservazione e Comunicazione. Ma le
reclute la chiamavano, più semplicemente, l’orecchino. Mi ricordava le targhette che gli
ambientalisti applicavano agli animali in via d’estinzione per controllare i loro movimenti
quando venivano liberati. L’orecchino conteneva un minuscolo comlink che permetteva al
computer principale delle Risorse Umane IOI di fare annunci o impartire ordini
direttamente nel mio orecchio. Includeva anche una microscopica telecamera, puntata
davanti a me, che permetteva ai supervisori IOI di vedere ciò che avevo di fronte. In ogni
stanza del complesso erano installate telecamere di sicurezza, ma a quanto sembrava non
era abbastanza. Si erano sentiti in dovere di installare una telecamera anche sulla testa di
ogni recluta.
Pochi secondi dopo che il mio orecchino fu installato e attivato, iniziai a sentire il placido
tono del mainframe delle Risorse Umane che impartiva istruzioni e altre informazioni.
Sulle prime quella voce mi mandava fuori di testa ma, a poco a poco, mi ci abituai. Non
che avessi scelta.
Quando scesi dal nastro trasportatore, il computer delle Risorse Umane mi guidò a una
mensa vicina che sembrava presa da uno di quei vecchi film ambientati in carcere.
Ricevetti un vassoio verde acceso, un hamburger alla soia, insapore, una pallottola di purè
acquoso e, per dolce, una sorta di pasticcio dalla forma indistinguibile. Divorai tutto in un
paio di minuti. Il computer delle Risorse Umane si complimentò per il mio sano appetito.
Poi mi informò che avevo il permesso di effettuare una visita di cinque minuti al bagno.
Quando ne uscii, mi guidò a un ascensore che non aveva né pulsanti né un display con il
numero del piano. Appena le porte si riaprirono, impressa sul muro vidi la scritta:
ALLOGGI RECLUTE – BLOCCO 05 – RAPPR. SUPPORTO TEC. Mi trascinai fuori
dall’ascensore e mi incamminai sulla moquette del corridoio. Tutto era buio e silenzioso.
L’unica forma di illuminazione proveniva dal sentiero di luci fisse sul pavimento. Avevo
perso la cognizione del tempo. Sembrava che fossero passati giorni da quando ero stato
strappato al mio appartamento. Ero distrutto.
«Il tuo primo turno di Supporto Tecnico inizia tra sette ore» ronzò sommessamente al mio
orecchio il computer delle Risorse Umane. «Fino ad allora puoi dormire. Gira a destra
all’incrocio davanti a te e procedi fino all’Unità abitativa che ti è stata assegnata, numero
42G.» Continuai a fare ciò che mi dicevano. Pensai che me la stavo cavando bene. Il
Quartiere alloggi ricordava un mausoleo. Era una rete di corridoi a volta, ciascuno pieno
di capsule-letto a forma di bara, file su file, accatastate l’una sull’altra fino al soffitto, alto
tre metri. Ogni colonna era numerata, e la porta di ogni capsula era contraddistinta una
lettera, dalla A alla J. La capsule A erano situate a livello del pavimento.
Raggiunsi, finalmente, la mia unità, vicino alla cima della colonna numero 42. Mentre mi
avvicinavo, con un sibilo il portello si aprì a iride e una luce blu soffusa si accese
all’interno. Mi arrampicai sulla stretta scala di accesso che era montata tra le file adiacenti
di capsule e poi salii sulla piattaforma sotto il portello che conduceva alla mia unità.
Quando mi arrampicai all’interno della capsula, la piattaforma si ritirò e il portello si
richiuse ai miei piedi.
L’interno della mia unità era una bara di plastica stampata a iniezione e bianca come un
guscio d’uovo, alta un metro e larga un metro, lunga due. Sul pavimento c’erano un
materasso e un cuscino in gommapiuma gelatinosa. Odoravano di gomma bruciata, perciò
immaginai fossero nuovi.
Oltre alla telecamera installata a lato della mia testa, ce n’era anche una montata sopra il
portello della mia unità abitativa. La compagnia non si era preoccupata di nasconderla.
Voleva che le reclute sapessero che erano sotto osservazione.
Il solo svago dell’unità era la console-divertimenti: uno schermo tattile piatto fissato alla
parete. Un visore senza fili era chiuso in un supporto lì accanto. Premetti lo schermo e
attivai la console. In cima al display apparvero il mio nuovo numero di matricola e il mio
ruolo: Lynch, Bryce T. – RAPPR. TEC. II– Impiegato IOI n. 338645.
Sotto comparve un menu che elencava la programmazione cui potevo accedere. Mi ci
vollero solo pochi secondi per studiarmi le limitate opzioni. Potevo visualizzare un solo
canale: ioi-n – il network di notizie dell’azienda. Offriva un flusso di notizie ininterrotto
ventiquattr’ore su ventiquattro e propaganda legate all’azienda. La console mi garantiva
anche accesso a una libreria di filmati e simulazioni d’addestramento, la maggior parte dei
quali si focalizzavano sul mio ruolo come Rappresentante supporto tecnico OASIS.
Quando provai ad accedere a una delle altre librerie d’intrattenimento, Vintage Movies, il
sistema mi informò che non mi sarebbe stato consentito l’accesso a una più ampia
selezione di divertimenti finché non avessi ricevuto un giudizio positivo in tre valutazioni
consecutive della mia performance lavorativa. Poi il sistema mi chiese se desideravo
maggiori informazioni sul Programma di Ricompensa Divertimenti degli Impiegati. Ma
no, non ne volevo.
L’unica serie tv che mi era concessa era una sitcom prodotta da loro e intitolata Tommy
Queue. La sinossi la descriveva come una «situation comedy strampalata che racconta le
disavventure di Tommy, un Rappresentante Tecnico OASIS fresco di recluta che si
affaccenda per riuscire nel suo obiettivo di indipendenza finanziaria ed eccellenza sul
lavoro!» Selezionai il primo episodio di Tommy Queue, poi liberai il visore dal supporto e
me lo infilai. Come prevedevo, la serie non era che un filmino d’addestramento con le
risate fuori campo. Non avrebbe potuto interessarmi di meno. Volevo solo dormire. Ma
sapevo che qualcuno mi stava osservando e che ogni mia mossa veniva studiata e
annotata. Perciò rimasi sveglio più che potevo, ignorando un episodio di Tommy Queue
dopo l’altro.
Nonostante i miei sforzi, i miei pensieri tornavano ad Art3mis. Benché continuassi a
ripetermi il contrario, sapevo bene che era lei la ragione per cui avevo deciso di affrontare
questo piano demenziale. Che diavolo stavo facendo? C’erano ottime probabilità che non
sarei mai più riuscito a uscire da questo posto. Mi sentivo sepolto da una valanga di
dubbi. Che la mia duplice ossessione per l’Egg e per Art3mis mi avesse fatto uscire di testa
del tutto? Perché mai correre un rischio così idiota per conquistare qualcuno che non
avevo mai incontrato? Qualcuno che a quanto pare non voleva neanche più rivolgermi la
parola?
Dov’era, lei, in quel momento? Le mancavo? Che avesse finalmente cercato di contattarmi?
Continuai a tormentarmi finché non crollai, addormentato.

0030
Il call center del Supporto Tecnico IOI occupava tre piani interi della torre orientale a
forma di I. Ciascun piano era un labirinto di cubicoli numerati. Il mio cubicolo era infilato
in un angolo remoto, lontano da qualsiasi finestra. Era completamente vuoto, a eccezione
di una sedia da ufficio regolabile e saldata al pavimento. Molti dei cubicoli che
circondavano il mio erano deserti e attendevano l’arrivo di nuove reclute.
Non mi era permesso decorare il mio cubicolo in alcun modo, perché non mi ero ancora
meritato quel privilegio. Se avessi ottenuto un numero adeguato di «punti incentivo» per
l’alta produttività e i giudizi positivi dei clienti, avrei potuto «spenderli» per comprarmi il
privilegio di decorare il mio cubo, magari con una piantina o il poster di un gattino appeso
a una corda per il bucato dal quale poter trarre ispirazione.
Quando raggiunsi la mia scrivania, raccolsi il visore e i guanti dell’azienda dallo scaffale,
sulla parete nuda, e me li infilai. Poi sprofondai nella sedia. Il computer dell’ufficio era
fissato alla base circolare della sedia e, appena mi sedetti, si attivò. La mia identità venne
verificata e fui collegato automaticamente all’account del lavoro, sull’intranet della IOI.
L’accesso esterno a OASIS non era consentito, potevo leggere solo email di lavoro,
visualizzare documenti di supporto e manuali di procedura e controllare le mie statistiche
di chiamata. Fine. Ogni mia mossa sull’intranet veniva monitorata, controllata e annotata
con cura.
Mi inserii nella coda delle chiamate e iniziai il mio turno da dodici ore. Ero una recluta da
soli otto giorni, ma era come se fossi stato in quella prigione per anni.
L’avatar del primo cliente mi apparve nella chatroom di supporto. Comparvero anche il
suo nome e le sue statistiche, sospese nel vuoto sopra di lui. Portava il nome
sorprendentemente acuto di «CazzoBollente007».
Era chiaro che sarebbe stata un’altra favolosa giornata.
CazzoBollente007 era un gigantesco barbaro calvo, con un’armatura in pelle nera
borchiata; le sue braccia e il suo viso erano cosparsi di tatuaggi di demoni. Portava con sé
un’assurda spada gigante, lunga due volte il suo avatar.
«Buon giorno, signor CazzoBollente007» recitai con il mio tono da macchinetta. «Grazie
per aver chiamato il supporto tecnico. Sono il Rappr. Tecnico numero 338645. Come posso
aiutarla?» Il software di cortesia filtrava la mia voce, modificando intonazione e inflessione
perché sembrassi sempre smagliante e gioioso.
«Oh, ok…» cominciò CazzoBollente007. «È che ho appena comprato questa spada
cazzutissima e non riesco a usarla! Non ci combatto neanche. Che cavolo gli è preso a
questa stronza? Si è rotta?»
«Signore, l’unico problema qui è che lei è un coglione del cazzo» dissi.
Udii un segnale acustico familiare e sul display mi comparve un messaggio:
VIOLAZIONE DI CORTESIA – SEGNALAZIONI: COGLIONE, CAZZO
RISPOSTA NON CONCESSA – VIOLAZIONE REGISTRATA
Il software di cortesia brevettato dalla IOI aveva individuato la natura inappropriata della
mia risposta e l’aveva annullata, perciò il cliente non aveva sentito ciò che gli avevo detto.
Il software avrebbe anche registrato la «violazione di cortesia» e l’avrebbe inoltrata a
Trevor, il supervisore della mia sezione, perché ne fosse informato e ne potesse discutere
durante la riunione bisettimanale sulla mia performance lavorativa.
«Signore, ha comprato la spada in un’asta online?»
«Già» rispose CazzoBollente007. «E ho pagato una cifra della madonna.»
«Mi conceda, signore, di esaminare l’oggetto per un istante.» Sapevo già che problema
avesse, ma dovevo accertarmene prima di comunicarglielo o mi sarebbe arrivata una
multa.
Con l’indice premetti la spada, selezionandola. Si aprì una finestrella che mostrava le
proprietà dell’oggetto. La risposta era proprio lì, alla prima riga. Quella spada magica
poteva essere usata soltanto da un avatar che avesse raggiunto il decimo livello. E il signor
CazzoBollente007 era al settimo. Glielo spiegai in fretta.
«Cosa?! Non è mica giusto! Il tipo che me l’ha venduta non mi aveva detto niente!»
«Signore, è sempre raccomandabile accertarsi che il proprio avatar possa usare un oggetto,
prima di comprarlo.»
«Eccheccazzo» gridò. «E ora cosa ci devo fare?»
«Potrebbe infilarsela su per il culo e far finta di essere uno spiedino.»
VIOLAZIONE DI CORTESIA – RISPOSTA NON CONCESSA – VIOLAZIONE
REGISTRATA
Riprovai. «Signore, potrebbe tenere l’oggetto nell’inventario finché il suo avatar non avrà
raggiunto il decimo livello. O rimetterlo all’asta e usare i proventi per acquistare un’arma
simile. Una che abbia un potere adeguato a quello del suo avatar.»
«Uh?» rispose CazzoBollente007. «Cosa vuol dire?»
«La tenga o la venda.»
«Oh.»
«Posso aiutarla in qualcos’altro, signore?»
«Mi sa di no…»
«Ottimo. Grazie per aver chiamato il supporto tecnico. Buona giornata.» Premetti l’icona
di disconnessione sul display e CazzoBollente007 svanì. Tempo di chiamata: 2.07. Mentre
appariva l’avatar del nuovo cliente – Vartaxxx, una tettona aliena con la pelle rossa – sul
display comparve il «voto soddisfazione cliente» che CazzoBollente007 mi aveva appena
dato. Era 6 su 10. Il sistema, allora, mi ricordò gentilmente che dovevo mantenere una
media superiore a 8.5 se avessi voluto un aumento dopo la prossima riunione.
Fare supporto tecnico lì non era come lavorare da casa. Non avevo un accesso
incontrollato a OASIS, perciò non potevo guardare film, giocare o ascoltare musica mentre
rispondevo al flusso infinito di chiamate ridicole. L’unica distrazione era guardare
l’orologio. (O il tabellone borsa valori della IOI, sempre in cima al display di ogni recluta.
Non c’era modo di sbarazzarsene.) Durante il turno, mi venivano concesse tre pause
bagno da cinque minuti l’una. Il pranzo era di trenta. Di solito mangiavo nel cubicolo,
anziché andare in mensa, per non dover ascoltare gli altri rappresentanti tecnici lagnarsi
delle chiamate che ricevevano o bullarsi dei punti incentivo che si erano guadagnati.
Avevo imparato a disprezzare le altre reclute almeno quanto disprezzavo i clienti.
Durante il turno mi addormentai cinque volte. Ogni volta, non appena il sistema capiva
che mi ero appisolato, faceva partire, nel mio orecchio, una sirena d’allarme, svegliandomi
di soprassalto. Poi annotava l’infrazione nel mio dossier impiegatizio. Nel corso della
prima settimana la mia narcolessia era diventata un problema tanto evidente che, ogni
giorno, mi somministravano due pillole rosse per stare sveglio. E le prendevo. Ma non
prima di aver staccato dal lavoro.
La sera, quando il turno finì, mi strappai di dosso le cuffie e il visore e ritornai nella mia
unità più in fretta possibile. Era l’unico momento in cui avevo fretta di arrivare da qualche
parte. Quando raggiunsi la mia piccola bara di plastica, ci strisciai dentro e collassai sul
materasso, a pancia in giù, nella posizione della sera prima. E della sera prima ancora.
Rimasi sdraiato per qualche secondo, a guardare l’ora sulla console- divertimenti con la
coda dell’occhio. Quando furono le 7.07, mi voltai e mi sedetti.
«Luci» dissi piano. In una settimana, era diventata la mia parola preferita. Era diventata,
nella mia mente, sinonimo di «libertà».
Le luci installate nel guscio dell’unità abitativa si spensero, facendo sprofondare il piccolo
scompartimento nell’oscurità. Se qualcuno stava guardando i miei video di sorveglianza,
avrebbe visto un rapido lampo di luce, mentre le telecamere passavano alla visione
notturna. Subito dopo, tornavo visibile sui loro monitor. Ma, in quel momento, le
telecamere dell’unità e il mio orecchino non stavano più eseguendo le loro funzioni. Per la
prima volta, quel giorno, nessuno mi stava guardando.
Ciò significava che era il momento di spassarsela.
Premetti lo schermo della console-divertimenti. Si illuminò e mi offrì le scelte che mi aveva
offerto la prima sera: una manciata di simulazioni e filmati d’addestramento e l’intera
serie di Tommy Queue.
Se qualcuno avesse controllato i registri di accesso alla console-divertimenti, avrebbe
dedotto che, ogni notte, prima di dormire, guardavo Tommy Queue e, dopo aver macinato
tutti e sedici gli episodi, ricominciavo da capo. I log avrebbero anche mostrato che mi
addormentavo più o meno alla stessa ora ogni notte (ma nonesattamente alla stessa ora) e
dormivo come un sasso fino alla mattina seguente, quando suonava la sveglia.
Ovviamente non guardavo la loro shit-com idiota ogni sera. Non dormivo nemmeno. Da
una settimana andavo avanti a due ore di sonno per notte, e la cosa cominciava ad avere il
suo peso.
Ma ogni volta che le luci della mia unità si spegnevano, mi sentivo sveglio, pieno di
energie. La mia spossatezza svaniva mentre navigavo a memoria tra i menu della console-
divertimenti, le dita della mia mano destra che danzavano rapidamente sullo schermo.
Sette mesi prima mi ero impossessato di un set di password intranet della IOI sul mercato
nero L33T HAXORZ WAREZHAUS, che mi avevano permesso di crearmi una nuova
identità. Tenevo d’occhio tutti i siti di mercato nero perché non si poteva mai sapere cosa
potevano vendere: exploit del server OASIS, scorciatoie per entrare nei bamcomat, video
porno di celebrità. Ditene una a caso. Stavo sfogliando la lista d’aste del L33T HAXORZ
WAREZHAUS quando l’occhio mi era caduto su un’asta in particolare: Pass d’accesso
all’intranet IOI, backdoor ed exploit di sistema. Il venditore sosteneva di offrire materiale
riservato sull’architettura intranet della IOI, oltre a una serie di codici d’accesso
amministrativi ed exploit di sistema, che «danno all’utente carta bianca all’interno del
network della compagnia».
Se non le avessero messe all’asta su un sito tanto rispettato, avrei pensato che le
informazioni fossero false. Il venditore, anonimo, sosteneva di essere stato un
programmatore a contratto per la IOI e uno dei principali architetti dell’intranet
dell’azienda. Probabilmente era un voltagabbana: un programmatore che aveva
intenzionalmente codificato delle backdoor e delle falle nel sistema per poi venderle al
mercato nero. Ciò gli permetteva di essere pagato due volte per lo stesso lavoro e di
sentirsi meno in colpa per il fatto che, in fondo, stava lavorando per una multinazionale
demoniaca come la IOI.
Il problema ovvio, che il venditore non si era preoccupato di segnalare nella descrizione
dell’oggetto all’asta, era che tali codici erano inutili se non si possedeva già l’accesso
all’intranet della società. L’intranet IOI era un network autonomo superprotetto e non
aveva una connessione diretta a OASIS. L’unico modo per accedervi era diventare un
impiegato legittimo (il che era difficile e richiedeva molto tempo). O entrare a far parte
della schiera di reclute che si ingigantiva ogni giorno di più.
Avevo comunque deciso di fare un’offerta per i codici d’accesso IOI, potevano sempre
servire. Poiché non c’era modo di verificare l’autenticità dei dati, nessuno aveva puntato
una grande somma e io ero riuscito a vincere l’asta con poche migliaia di crediti. Qualche
minuto dopo la conclusione dell’asta, avevo ricevuto i codici via email. Una volta
decriptati i dati, li avevo esaminati attentamente. Sembravano a posto, e così avevo messo
tutto da parte per i tempi bui e me ne ero dimenticato – fino a sei mesi più tardi, quando
avevo visto i Sixer sbarrare ogni accesso a Castle Anorak. La prima cosa cui avevo pensato
erano stati i codici d’accesso IOI. Poi gli ingranaggi del mio cervello si erano messi in moto
e il piano aveva cominciato a prendere forma: avrei modificato la posizione debitoria di
Bryce Lynch, l’identità fasulla che mi ero creato, e mi sarei fatto arrestare per
inadempienza dalla IOI. Una volta nell’edificio e dopo aver superato il firewall della
compagnia, avrei usato la password intranet per infiltrarmi nel database privato dei Sixer
e trovare un modo per distruggere lo scudo che avevano eretto intorno al castello di
Anorak.
Pensavo che nessuno potesse prevedere una simile mossa, perché era troppo platealmente
squilibrata.
Non provai le password IOI fino alla seconda sera del mio reclutamento. Ero
comprensibilmente nervoso perché, se saltava fuori che mi avevano venduto dati falsi e
che nessuna delle password funzionava correttamente, mi sarei autocondannato alla
schiavitù a vita.
Tenendo la telecamera dell’orecchino puntata dritta, lontana dallo schermo, aprii il menu
strumenti della console, il che mi permise di apportare modifiche agli output video e
audio del display. Volume e bilanciamento, luminosità e contrasto. Spinsi ogni opzione al
massimo, poi cliccai tre volte il pulsante Applica in fondo allo schermo. Settai volume e
luminosità al minimo e cliccai nuovamente Applica. Al centro dello schermo comparve
una piccola finestra che mi richiedeva un numero di matricola da tecnico della
manutenzione e una password d’accesso. Rapidamente inserii le cifre e la lunga password
alfanumerica che avevo memorizzato. Con la coda dell’occhio controllai se avessi fatto
errori, poi premetti ok. Il sistema si fermò per un tempo che mi sembrò infinito. Poi, con
mio grande sollievo, apparve questo messaggio: PANNELLO DI CONTROLLO
MANUTENZIONE – ACCESSO EFFETTUATO Avevo accesso a un account di
manutenzione progettato per permettere ai tecnici di testare ed eliminare i bug dalle varie
componenti della console-divertimenti. Ero dentro come tecnico, ma il mio accesso a
intranet rimaneva piuttosto limitato. Ciononostante, mi lasciava tutta la libertà d’azione di
cui avevo bisogno. Usando l’exploit che uno dei programmatori aveva lasciato, riuscii a
creare un falso account da amministratore. Una volta sistemato quello, praticamente,
ottenni l’accesso a tutto.
La priorità era un po’ di privacy.
Navigai velocemente tra i vari sottomenu finché non trovai il pannello di controllo del
Sistema Monitoraggio Reclute. Quando inserii il mio numero di matricola, sul display
apparve il mio profilo recluta, insieme a una foto segnaletica che mi avevano scattato
durante il trattamento iniziale. Il profilo elencava il bilancio del mio conto, il mio livello
contrattuale, il mio gruppo sanguigno, la media della mia performance lavorativa – ogni
straccio di cui disponeva l’azienda su di me. In alto a destra comparivano due finestre
vidfeed, una collegata alla telecamera sull’orecchio, l’altra alla telecamera dell’unità
abitativa. Il video dell’orecchino al momento era puntato su una porzione di muro. La
telecamera dell’unità mostrava la mia nuca, che avevo piazzato lì apposta per oscurare il
display della console.
Selezionai entrambe le telecamere e aprii le opzioni di configurazione. Servendomi di uno
degli exploit del voltagabbana, con una rapida operazione di hacking feci sì che le
telecamere ritrasmettessero i video archiviati della mia prima notte di reclutamento
anziché le riprese in tempo reale. Se qualcuno avesse dato un’occhiata ai video delle
telecamere, mi avrebbe visto addormentato nell’unità abitativa, non seduto e sveglissimo
per tutta la notte, nel furioso tentativo di infiltrarmi nell’intranet della società. Poi
programmai le telecamere perché passassero a feed preregistrati ogni volta che spegnevo
le luci della mia unità. Il taglio del video, non più di un secondo, veniva mascherato dalla
momentanea distorsione che si verificava ogni volta che le telecamere passavano alla
visione notturna.
Mi aspettavo di essere scoperto e tenuto fuori dal sistema, ma non accadde. Le password
continuarono a funzionare. Avevo passato sei notti ad assediare l’intranet della IOI,
scavando sempre più in profondità. Mi sentivo come prigioniero in un vecchio film
carcerario: ogni sera tornavo nella mia cella per scavare un tunnel nella parete con un
cucchiaino.
Ma quella notte, prima di soccombere alla stanchezza, ero finalmente riuscito a farmi
strada nel labirinto di firewall dell’intranet fino ad arrivare nel database principale della
Divisione Oologi. La mia miniera d’oro. Il segretissimo archivio di file dei Sixer. E quella
sera, finalmente, sarei riuscito a esplorarla. Sapevo che avrei avuto bisogno di portare via
qualche dato relativo ai Sixer, quando fossi fuggito, perciò, durante quella settimana,
avevo usato il mio account di amministratore intranet per inviare un falso modulo di
richiesta hardware. Feci consegnare a un dipendente inesistente («Sam Lowery») una
penna USB da dieci zettabyte in un cubicolo vicino al mio. Stando ben attento a puntare
l’orecchino nell’altra direzione, mi ero infilato nel cubo, avevo preso la chiavetta, me l’ero
messa in tasca e l’avevo portata di soppiatto nella mia unità. Quella sera, dopo che ebbi
spento le luci e disabilitato le telecamere di sorveglianza, aprii il pannello d’accesso della
manutenzione della console-divertimenti e inserii la chiavetta in uno slot d’espansione
usato per gli aggiornamenti firmware. Ero finalmente in grado di scaricare i dati
dall’intranet e salvarli direttamente sulla chiavetta.
Indossai il visore e i guanti della console, poi mi allungai sul materasso. Il visore mi offriva
una vista tridimensionale del database Sixer, con decine di finestre di dati sovrapposte e
sospese di fronte ai miei occhi. Con i guanti, cominciai a manipolare le finestre, navigando
nella struttura di file del database. La sezione più ampia era dedicata alle informazioni su
Halliday. La quantità di dati che avevano raccolto su di lui era sbalorditiva. Faceva
sembrare il mio diario del Graal una collezione di Bignami. C’erano cose che non avevo
mai visto. Cose di cui ignoravo l’esistenza. Le pagelle di Halliday, i filmini della sua
infanzia, le email che aveva spedito ai suoi fan. Non avevo tempo per leggere tutto, ma
copiai sulla chiavetta ciò che mi interessava per poterlo (speravo bene) studiare in seguito.
Mi concentrai a isolare i dati riguardanti Castle Anorak e le forze che i Sixer avevano
stanziato al suo interno e tutto intorno. Copiai le informazioni relative ad armi, veicoli,
navi d’assalto e consistenza numerica delle truppe. Sgraffignai anche tutte le informazioni
che trovai sulla Sfera di Osuvox (l’artefatto di cui si servivano per creare lo scudo attorno
al castello) incluso il posto esatto dove la conservavano e il numero di matricola del mago
Sixer che la controllava.
Poi feci centro: una cartella che conteneva centinaia di ore di registrazioni simcap che
documentavano la scoperta, da parte dei Sixer, della Terza Porta e i tentativi che avevano
fatto per aprirla. Come tutti ormai sospettavano, la Terza Porta era situata all’interno di
Castle Anorak. Soltanto gli avatar che possedevano una copia della Chiave di Cristallo
potevano oltrepassare la soglia del castello. Ebbi un moto di disgusto quando scoprii che
Sorrento era stato il primo avatar a mettere piede a Castle Anorak dopo la morte di
Halliday.
L’entrata del castello conduceva in un atrio enorme, con muri, pavimento e soffitto dorati.
In fondo alla sala, a nord, una grande porta di cristallo era incastonata nel muro. Aveva, al
centro, una piccola serratura.
Nel momento in cui la vidi capii che stavo guardando la Terza Porta.
Mandai avanti veloce, passando in rassegna molte altre simcap. Da quel che potevo
intuire, i Sixer non avevano ancora scoperto come aprire la porta. Inserire semplicemente
la Chiave di Cristallo nella serratura non sortiva alcun effetto. Da giorni avevano messo al
lavoro un’intera squadra per capirne il motivo, ma non c’erano stati progressi.
Mentre i dati e i video della Terza Porta venivano copiati sulla chiavetta, continuai a
scavare sempre più a fondo nel database Sixer. Infine, trovai un’area chiamata «La Camera
delle stelle». Era l’unica sezione del database cui non riuscivo ad accedere. Perciò usai
l’identità da amministratore e creai un nuovo «account test» e gli diedi accesso da
superutente e privilegi da amministratore. Funzionò. Ero dentro. Le informazioni nell’area
riservata erano divise in due cartelle: Stato della missione e Valutazione Minacce. Aprii
subito la seconda e, quando vidi cosa conteneva, sentii tutto il sangue defluirmi dalla
faccia. Trovai cinque cartelle etichettate Parzival, Art3mis, Aech, Shoto e Daito. La cartella
di Daito era contrassegnata con una grossa X rossa.
Aprii, innanzitutto, la cartella Parzival. Comparve un dossier dettagliato con tutte le
informazioni che i Sixer avevano raccolto sul mio conto negli ultimi anni. Il mio certificato
di nascita. Le pagelle. In fondo c’era un link al video dell’intera chatlink con Sorrento,
terminata con la bomba esplosa nel container di mia zia. Dopo essermi dato alla macchia,
non erano più riusciti a seguire i miei movimenti. Nel corso dell’ultimo anno, avevano
raccolto migliaia di immagini e video del mio avatar e innumerevoli informazioni sulla
mia fortezza, su Falco, ma non sapevano nulla della mia posizione nel mondo reale. La
mia ubicazione attuale era indicata come «sconosciuta».
Chiusi la finestra, feci un respiro profondo e aprii il file su Art3mis.
In cima c’era una foto scolastica di una ragazzina con un sorriso triste. Mi sorpresi a
scoprire che era praticamente identica al suo avatar. Gli stessi capelli scuri, gli stessi occhi
castani, lo stesso bellissimo volto che conoscevo così bene. Con una minuscola differenza.
Quasi tutta la metà sinistra del suo volto era coperta da una voglia rosso-violacea. In
seguito avrei scoperto che questi tipi di voglie sono spesso chiamati «nevi vinosi». Nella
foto, un ciuffo dei suoi capelli scuri scendeva sull’occhio sinistro, a coprire il più possibile
la macchia.
Art3mis mi aveva fatto credere che nella realtà fosse qualcosa di mostruoso, ma ora
sapevo che nulla avrebbe potuto essere più lontano dal vero. Ai miei occhi, la voglia non
offuscava affatto la sua bellezza. Anzi, il volto che vidi in foto mi sembrò ancora più bello
dell’avatar, perché sapevo che era reale.
Le informazioni in basso dicevano che il suo vero nome era Samantha Evelyn Cook, che
era una cittadina canadese di vent’anni, un metro e settantatré di altezza, e che pesava 76
chili. Il file conteneva anche il suo indirizzo di casa (2206 Greenleaf Lane, Vancouver,
British Columbia) oltre a un mucchio d’altre informazioni, compreso il suo gruppo
sanguigno e le sue pagelle, dall’asilo in poi.
In fondo al dossier trovai un link a un video senza nome. Quando lo selezionai, sul display
mi apparve una ripresa in tempo reale di una casetta di periferia. Dopo pochi istanti capii
che stavo osservando la casa in cui Art3mis viveva.
Addentrandomi nel suo file, scoprii che era sotto sorveglianza da cinque mesi. Avevano
riempito la sua casa di cimici, perché trovai centinaia di ore di file audio registrati mentre
lei era collegata a OASIS. Avevano trascrizioni complete di qualsiasi parola ascoltabile
avesse pronunciato mentre stava superando le prime due porte.
Poi aprii il file di Shoto. Conoscevano il suo vero nome, Akihide Karatsu, e sembrava
conoscessero anche il suo indirizzo, in un condominio di Osaka, Giappone. Il suo file
conteneva una foto scolastica che mostrava un ragazzo, magro e serio, con la testa rasata.
Come Daito, non somigliava per niente al suo avatar.
Aech era quello su cui sapevano meno. Il suo file conteneva ben poche informazioni e
nessuna foto – soltanto uno screenshot del suo avatar. Il nome segnalato era «Arthur
Dent», che era il nome del protagonista della Guida galattica per autostoppisti di Douglas
Adams, perciò sapevo che doveva essere un alias. Il suo indirizzo era segnalato come
«variabile» e, sotto, compariva un link intitolato «punti d’accesso recenti». Quando lo
aprii, capii che si trattava di una lista dei nodi wireless di cui Aech si era servito per
accedere al suo account OASIS. C’era di tutto. Boston, Washington D.C., New York City,
Philadelphia e, più di recente, Pittsburgh.
Cominciavo a capire come i Sixer fossero riusciti a individuare Art3mis e Shoto. La IOI
possedeva centinaia di società regionali delle telecomunicazioni, il che la rendeva, a tutti
gli effetti, il più grande internet provider del mondo. Era molto difficile collegarsi senza
usare un network che non fosse in mano loro. LaIOI praticamente spiava illegalmente il
traffico internet di tutto il mondo, nel tentativo di localizzare e identificare il gruppo di
Gunter che considerava una minaccia. L’unica ragione per cui non erano riusciti a
localizzare me era perché la paranoia mi aveva spinto ad affittare una connessione in fibra
ottica diretta.
Richiusi il file su Aech e aprii la cartella etichettata Daito, temendo già cosa avrei potuto
trovarci. Come per gli altri, sapevano il suo vero nome, Toshiro Yoshiaki, e il suo
indirizzo. In fondo al dossier erano linkati due articoli sul suo «suicidio» insieme a un
video senza nome, risalente al giorno in cui Daito era morto. Lo cliccai. Era ripreso con
una camera a mano e mostrava tre energumeni (uno dei quali reggeva la videocamera) con
il volto coperto da passamontagna neri. Erano in attesa, silenziosi, in un corridoio. A un
certo punto sembravano ricevere un ordine negli auricolari, quindi usavano una tessera
magnetica per aprire la porta di un minuscolo monolocale: quello di Daito. Inorridito, li
guardai irrompere nella stanza, strapparlo dalla poltrona aptica e lanciarlo giù dal
balcone.
Quei bastardi l’avevano filmato anche mentre precipitava verso la morte. Probabilmente
su richiesta di Sorrento.
Fui investito da un’ondata di nausea. Quando mi passò, copiai il contenuto dei cinque
dossier nella chiavetta, poi aprii la cartella Stato della missione. Conteneva un archivio di
tutti i rapporti della Divisione Oologi preparati per i vertici Sixer. I rapporti erano ordinati
per data, e il più recente era il primo della lista. Quando lo aprii, vidi che era un
promemoria elettronico che Nolan Sorrento aveva inviato al Consiglio Esecutivo IOI,
dando istruzione di rapire Art3mis e Shoto per obbligarli ad aiutare la IOI ad aprire la
Terza Porta. Una volta che i Sixer avessero raggiunto l’Egg e vinto la gara, qualcuno si
sarebbe «sbarazzato» di Art3mis e Shoto.
Rimasi seduto in silenzio, sbigottito. Poi rilessi il messaggio, provando un misto di rabbia
e panico.
Secondo l’orario, il promemoria era stato inviato alle otto e qualcosa, meno di cinque ore
prima. Era probabile che i suoi superiori non l’avessero ancora visto. E, quando
l’avrebbero visto, avrebbero dovuto organizzare un incontro con Sorrento per discutere il
piano d’azione. Perciò era probabile che i loro agenti non sarebbero andati a prendere
Art3mis e Shoto prima del giorno successivo.
Avevo tempo per avvertirli. Ma, per farlo, avrei dovuto cambiare drasticamente il mio
piano di fuga.
Prima del mio arresto, avevo pianificato una precisa valuta per un trasferimento fondi sul
mio conto IOI, versando una somma più che sufficiente a estinguere l’intero debito, che
avrebbe obbligato la IOI a rilasciarmi. Ma il trasferimento sarebbe avvenuto solo cinque
giorni dopo. A quell’ora Art3mis e Shoto sarebbero stati rinchiusi in uno stanzino senza
finestre, chissà dove.
Non potevo passare la settimana a esplorare il database Sixer come mi ero prefissato.
Dovevo carpire tutte le informazioni che potevo e scappare. Subito.
Mi diedi tempo fino all’alba.

0031
Lavorai come un matto per le quattro ore successive. Passai la maggior parte del tempo a
trasferire quante più informazioni possibili dal database Sixer sulla mia chiavetta rubata.
Una volta terminato il lavoro, mi registrai come un dirigente della Divisione Oologi e
inviai un Ordine di Richiesta Scorte. Era un modulo online di cui si servivano gli alti gradi
Sixer per la richiesta di armi o equipaggiamento su OASIS. Selezionai un oggetto molto
specifico e programmai la consegna a mezzogiorno di due giorni dopo.
Quando finalmente ebbi finito, erano le sei e trenta del mattino. Il cambio del turno al
supporto tecnico sarebbe avvenuto dopo soli novanta minuti, e i miei vicini di unità
abitativa si sarebbero svegliati presto. Non avevo più tempo. Entrai nel mio profilo recluta,
aprii il bilancio dei miei debiti e azzerai le insolvenze (insolvenze che, in realtà, non erano
mai esistite). Poi selezionai le opzioni del sottomenu Targhetta d’osservazione e
comunicazione recluta, cui erano collegati l’orecchino e la cavigliera di sorveglianza. E
infine feci qualcosa che morivo dalla voglia di fare da una settimana: disabilitai i
meccanismi di blocco dei due dispositivi.
Provai un dolore acuto quando il morso dell’orecchino si allentò e liberò la cartilagine del
lobo sinistro. Il dispositivo mi rimbalzò sulla spalla e mi finì sul grembo. In quello stesso
istante, l’aggeggio che imprigionava la mia caviglia si aprì, scoprendo una striscia di pelle
abrasa e rossastra.
Avevo attraversato il punto di non ritorno. I tecnici di sorveglianza IOI non erano i soli ad
avere accesso video al mio orecchino. L’Agenzia di Protezione Reclute li usava per
monitorare e registrare le mie attività quotidiane, per accertarsi che venissero rispettati i
miei diritti umani. Adesso che mi ero tolto i dispositivi, non ci sarebbe più stata alcuna
testimonianza digitale di ciò che mi sarebbe successo. Se le guardie di sicurezza IOI mi
avessero preso con una chiavetta piena di dati altamente incriminanti addosso, sarei stato
spacciato. I Sixer avrebbero potuto torturarmi e poi uccidermi e nessuno lo avrebbe
saputo.
Misi in atto un altro paio di mosse del mio piano di fuga e poi mi scollegai dall’intranet
della IOI per l’ultima volta. Sfilai guanti e visore e aprii il pannello di manutenzione
accanto alla console-divertimenti. Sotto il modulo divertimenti, tra la parete prefabbricata
della mia unità abitativa e quella adiacente, c’era un piccolo spazio vuoto. Mi avvicinai e
tirai fuori il fagotto ben piegato che vi avevo nascosto. Era un’uniforme da tecnico della
manutenzione IOI ancora sigillata, con tanto di berretto e distintivo di identificazione
(come per la chiavetta, avevo ottenuto questi oggetti inviando un modulo di richiesta con
l’intranet, poi avevo fatto sì che venissero recapitati in un cubicolo, sullo stesso piano in
cui lavoravo io). Mi tolsi la tuta da recluta e la usai per tamponare il sangue sull’orecchio e
sul collo. Poi presi da sotto il materasso due cerotti e li appiccicai sui buchi del lobo. Dopo
aver indossato il mio nuovo completo da tecnico, con cautela estrassi la chiavetta dallo slot
d’espansione e me la misi in tasca. Poi raccolsi l’orecchino e lo avvicinai alla bocca. «Devo
andare al bagno» dissi.
La porta dell’unità si aprì come un’iride ai miei piedi. Il corridoio era buio e deserto. Infilai
l’orecchino e la tuta sotto il materasso e la cavigliera in una tasca della mia nuova
uniforme. Poi, ricordandomi di respirare, sgusciai fuori e scesi dalla scala.
Dirigendomi verso gli ascensori, incontrai poche altre reclute ma, come al solito, nessuno
incrociò il mio sguardo. Fu un gran sollievo, perché temevo che qualcuno avrebbe potuto
riconoscermi e notare che indossavo un’uniforme da tecnico. Trattenni il fiato quando fui
davanti alle porte dell’ascensore-espresso, mentre il sistema scansionava il mio distintivo.
Dopo quella che mi sembrò un’eternità, le porte si aprirono.
«Buongiorno, signor Tuttle» disse l’ascensore al mio ingresso. «Che piano, prego?»
«Lobby» dissi, quasi senza voce, e l’ascensore cominciò a scendere.
Harry Tuttle era il nome stampato sul mio distintivo da tecnico di manutenzione. Avevo
dato all’immaginario signor Tuttle pieno accesso all’intero edificio, poi avevo
riprogrammato la mia cavigliera da recluta perché corrispondesse all’identità di Tuttle e
funzionasse come i braccialetti di sorveglianza che indossavano i tecnici. Quando le porte
e gli ascensori mi esaminavano per verificare che fossi autorizzato, la cavigliera nella mia
tasca gli confermava che, sì, lo ero, anziché fare ciò che doveva fare, ovvero fulminarmi il
culo a colpi di volt e rendermi innocuo fino all’arrivo delle guardie.
In ascensore rimasi in silenzio, cercando di non fissare la telecamera sopra la porta. Poi mi
resi conto che prima o poi le riprese sarebbero state analizzate. Probabilmente l’avrebbe
visto Sorrento, l’avrebbero visto i suoi superiori. Perciò guardai dritto in camera, sorrisi e
mi diedi una grattatina al naso col dito medio.
L’ascensore arrivò alla lobby e le porte si aprirono. Mi aspettavo di trovare una schiera di
poliziotti in agguato, con tutte le pistole puntate sulla mia faccia. Ma c’era solo un gruppo
di parassiti semidirigenziali IOI in attesa dell’ascensore. Li squadrai assente per un istante,
poi uscii dalla cabina. Era come attraversare la dogana tra una nazione e l’altra.
Un flusso continuo di impiegati strafatti di caffè si affrettava nella lobby, dentro e fuori
dagli ascensori e dalle uscite. Erano impiegati regolari, non reclute. Loro potevano tornare
a casa alla fine del turno. Potevano addirittura licenziarsi, se l’avessero voluto. Mi
domandai se li disturbasse sapere che migliaia di reclute vivevano e sgobbavano lì, nel
loro stesso edificio, separati soltanto da pochi piani.
Vidi due guardie di sicurezza appostate di fianco all’accettazione e girai al largo,
facendomi strada tra la folla, attraverso l’immenso atrio fino alla lunga fila di porte
automatiche in vetro che conducevano fuori, verso la libertà. Mi costrinsi a non correre,
mentre sgomitavo tra i lavoratori in arrivo. Sono solo un tipo della manutenzione, amici, e
me ne vado a casa dopo una lunga notte passata a sistemare router. Tutto qui. Ovvio che
non sono una recluta che cerca di fuggire con in tasca dieci zettabyte rubati alla
compagnia. Nossignore.
A metà strada, vicino alle porte, avvertii un suono insolito e mi guardai i piedi. Indossavo
ancora le mie ciabatte monouso da recluta. Ogni passo produceva uno scricchiolio stridulo
a terra, sul pavimento di marmo lucidato, e spiccava in mezzo al ticchettio delle scarpe da
impiegato. Ogni volta che mettevo un piede a terra sembrava che gridassi: Ehi, guardate
qui! C’è un tizio con le ciabatte di plastica!
Eppure continuai a camminare. Ero quasi davanti alle porte quando qualcuno mi poggiò
una mano sulla spalla. Rimasi immobile. «Signore?» disse qualcuno. Era una voce di
donna.
Stavo per schizzare fuori dalla porta ma qualcosa, nel suo tono, mi fermò. Mi voltai e vidi
il volto preoccupato di una signora alta, sulla quarantina. Tailleur blu scuro.
Ventiquattrore. «Mi scusi, signore, le sanguina un orecchio.» Lo indicò con una smorfia.
«Tantissimo.» Toccai il lobo e poi ritrassi la mano, completamente rossa. A un certo punto,
chissà quando, i cerotti dovevano essersi staccati.
Per un secondo rimasi paralizzato, incerto sul da farsi. Volevo darle una spiegazione, ma
non riuscivo a farmene venire in mente una. Perciò mi limitai ad annuire e a mormorare
«Grazie»; poi mi voltai e uscii con tutta la calma possibile.
Il vento gelido del mattino era così violento che quasi mi ribaltò. Quando ritrovai
l’equilibrio, balzai giù dalle scale, fermandomi per gettare la cavigliera in un bidone della
spazzatura. Sentii che ne colpiva il fondo con un tonfo liberatorio.
Non appena raggiunsi la strada mi diressi a nord, alla velocità massima che riuscivano a
sostenere i miei piedi. Non passavo inosservato perché ero l’unica persona senza giacca.
Non sentivo più i piedi perché non avevo i calzini, sotto le ciabatte di plastica da recluta.
Il mio intero corpo era percorso dai brividi quando raggiunsi il tiepido rifugio della
Mailbox, un noleggio di cassette postali, a quattro isolati dalla IOI Plaza. La settimana
prima dell’arresto avevo affittato una cassetta postale e mi ero fatto spedire un set portatile
OASIS di ultima generazione. La Mailbox era completamente automatizzata e non avrei
dovuto affrontare alcun commesso. Quando entrai, non c’erano nemmeno clienti. Trovai la
mia cassetta, digitai il codice e raccolsi il set portatile OASIS. Mi sedetti sul pavimento e
strappai le chiusure della scatola. Mi sfregai le mani congelate finché non ricominciai a
sentirmi le dita, poi infilai guanti e visore e usai il set per collegarmi a OASIS. La GSS si
trovava a poco più di un chilometro di distanza, perciò potevo usare uno dei suoi accessi
wireless gratuiti anziché un nodo gestito dalla ioi.
Quando mi collegai, il cuore mi batteva all’impazzata. Ero offline da otto giorni. Un
record, per me. Mentre il mio avatar si materializzava sulla piattaforma d’osservazione
della fortezza, abbassai lo sguardo sul mio corpo virtuale, godendomi la vista come fosse
un bel vestito che non mettevo da un po’. Subito, una finestra sul display mi informò che
avevo ricevuto diversi messaggi da Aech e Shoto. Con mia grande sorpresa, ne trovai
anche uno di Art3mis. Tutti e tre volevano sapere dove fossi e cosa diavolo mi fosse
successo.
Risposi, innanzitutto, ad Art3mis. Le dissi che i Sixer sapevano chi era e dove viveva, che
la tenevano costantemente sotto controllo. La avvertii dei piani sul rapimento. Copiai,
dalla chiavetta, il dossier e lo allegai come prova al mio messaggio. Poi, le suggerii di
andarsene immediatamente di casa e portare il culo fuori da Dodge.
Non fare la valigia, le scrissi. Non salutare nessuno. Vattene in un posto sicuro. Assicurati
che non ti stiano seguendo. Poi trova una connessione sicura, non controllata dalla IOI e
ricollegati. Ci vediamo nella Cantina di Aech appena riesco. Niente paura, ho anche
qualche buona notizia.
In fondo al messaggio aggiunsi un breve post scriptum: P.S. – sei ancora più bella nella
vita reale.
A Shoto ed Aech inviai messaggi simili, con una copia dei loro dossier Sixer. Poi aprii il
database del Registro dei Cittadini degli Stati Uniti e provai a collegarmi. Con mio grande
sollievo, le password che avevo comprato funzionavano ancora e riuscii ad accedere al
falso profilo di Bryce Lynch. Conteneva la foto identificativa che mi era stata scattata
durante le procedure di reclutamento e, impresse sulla mia faccia, si leggevano le parole
FUGGITIVO RICERCATO. La IOI aveva già denunciato la fuga della recluta Bryce Lynch.
Non mi ci volle molto a cancellare l’identità di Bryce Lynch e a ripristinare le mie impronte
digitali e quelle delle retine nel mio vecchio profilo. Quando mi scollegai dal database,
qualche minuto dopo, Bryce Lynch non esisteva più. Ero di nuovo Wade Watts.
Fuori dalla Mailbox, chiamai un taxi automatico, stando attento a selezionare compagnie
del luogo e non la SupraCab, che era controllata dalla IOI.
Quando entrai nel veicolo, misi il pollice sullo scanner identificativo e trattenni il respiro.
Il display lampeggiò di verde. Il sistema mi riconobbe come Wade Watts, non come la
recluta fuggitiva Bryce Lynch.
«Buongiorno, signor Watts» disse il taxi automatico. «Dove andiamo?» Diedi al taxi
l’indirizzo di un negozio di abbigliamento su High Street, a poca distanza dal campus
OSU. Era un posto chiamato V3stiti, specializzato in «streetwear altamente tecnologico».
Corsi dentro e comprai un paio di jeans e una felpa. Entrambi erano definiti
«Abbigliamento Dicotomico», ovvero programmati per l’utilizzo su OASIS. Non erano
aptici, ma sia i pantaloni che la felpa potevano allacciarsi al set immersivo portatile,
segnalandogli cosa stessi facendo con busto, braccia e gambe. Così era più facile
controllare il mio avatar di quanto non fosse con un’interfaccia solo-guanti. Comprai
anche qualche paio di calzettoni, biancheria, una giacca in finta pelle, un paio di stivali e
un berretto di lana per coprirmi la zucca, calva e congelata.
Qualche minuto dopo, riemersi dal negozio indossando i miei abiti nuovi. Mentre venivo
avvolto, di nuovo, dal vento gelido, tirai su la lampo della giacca e mi infilai il berretto.
Ora andava molto meglio. Lanciai la tuta da tecnico e le ciabatte di plastica in un bidone
della spazzatura e poi iniziai a camminare per High Street, scrutando le vetrine. Tenevo la
testa bassa per evitare di incrociare gli sguardi cupi degli studenti universitari che mi
sfilavano accanto.
Pochi isolati più in là mi infilai in una catena Vend-All. Al suo interno c’erano file di
distributori automatici che vendevano ogni tipo di oggetto immaginabile. Uno si chiamava
Distributore di difesa e vendeva equipaggiamento da autodifesa: armature ultraleggere,
spray antiaggressione e una vasta gamma di pistole automatiche. Toccai lo schermo sulla
macchina e sfogliai il catalogo. Dopo qualche istante di indecisione, acquistai un giubbotto
antiproiettile, una Glock 47C e tre caricatori. Comprai anche un barattolo di gas
lacrimogeno, poi pagai premendo la mano destra sullo scanner. Venne verificata la mia
identità e controllata la mia fedina penale.
NOME: WADE WATTS
MANDATI D’ARRESTO: NESSUNO
BILANCIO CREDITI: ECCELLENTE
RESTRIZIONI ACQUISTO: NESSUNA
TRANSAZIONE APPROVATA!
GRAZIE PER L’ACQUISTO!
Udii un tunk metallico quando i miei acquisti scivolarono nella vaschetta d’acciaio
all’altezza delle ginocchia. Mi infilai in tasca il gas lacrimogeno, mi misi il giubbotto
antiproiettile sotto la maglia appena comprata. Poi tolsi la Glock dal pacchetto di plastica.
Era la prima volta che impugnavo una pistola vera. Eppure, la sensazione dell’arma tra le
mie mani era estremamente familiare, perché su OASIS avevo sparato con migliaia di armi
da fuoco virtuali. Premetti un pulsantino sulla canna e la pistola emise un suono. Strinsi
l’impugnatura per qualche secondo, prima con la mano destra, poi con la sinistra.
Dall’arma uscì un altro suono, il segnale che aveva finito di scansionare le mie impronte.
Ora, ero l’unica persona che potesse sparare con quella pistola. Al suo interno c’era un
timer che impediva di sparare per le successive dodici ore (un «periodo di
raffreddamento») ma mi sentivo meglio, ora che l’avevo con me. Proseguii fino a un
puntoOASIS situato pochi isolati più in là; era un negozio in franchising chiamato The
Plug. La squallida insegna illuminata, con un cavo in fibra ottica antropomorfo che
sorrideva, prometteva AccessoOASISalla velocità della luce! Prezzi stracciati per noleggio
attrezzatura! e Baie d’immersione private! Aperto 365 giorni all’anno, 24 ore al giorno!
Online avevo visto innumerevoli pubblicità di The Plug. Era noto per i prezzi altissimi e
l’attrezzatura scadente, ma le connessioni erano veloci, affidabili e senza ritardi. La cosa
più interessante, per me, era che si trattava di una delle rare catene OASIS a non essere
gestita dalla IOI o da una delle sue consociate.
Il rilevatore di movimenti emise un trillo quando varcai la soglia. Alla mia destra c’era una
minuscola sala d’aspetto, totalmente vuota. La moquette era consumata e piena di
macchie, tutto puzzava di disinfettante industriale. Un commesso dallo sguardo assente
mi lanciò un’occhiata da dietro uno sportello in plexiglas antiproiettile. Aveva poco più di
vent’anni, la cresta e decine di piercing in faccia. Indossava un visore bifocale che gli
forniva una visione semitrasparente di OASIS, permettendogli di vedere anche il mondo
reale.
Quando si rivolse a me, notai che i suoi denti erano stati limati in punte aguzze.
«Benvenuto al Plug» disse, con tono piatto. «Abbiamo molte baie libere, quindi non c’è da
aspettare. Le informazioni sui pacchetti promozionali le trovi qui.» Indicò il display
montato sul bancone davanti a me. Poi, mentre tornava a concentrarsi sul mondo nel
visore, i suoi occhi si fecero di nuovo vitrei.
Valutai le opzioni. Potevo scegliere tra una dozzina di set immersivi di qualità e prezzo
variabili. Economici, Standard, Deluxe. Su ciascuno venivano fornite informazioni
dettagliate. Si potevano noleggiare al minuto o pagando un forfait orario. Nel prezzo del
noleggio erano inclusi visore e guanti aptici, ma la tuta aptica costava un po’ di più. Il
contratto di noleggio conteneva molte clausole sulla somma da rimborsare nel caso le
attrezzature venissero danneggiate, oltre a postille in gergo giuridico in cui si precisava
che il Plug non poteva essere ritenuto responsabile per le azioni dei singoli utenti, a
maggior ragione se queste azioni si rivelavano illegali.
«Vorrei noleggiare un set deluxe per dodici ore» dissi.
Il commesso si alzò il visore sulla fronte. «Pagamento anticipato, lo sai?» Annuii. «Vorrei
anche noleggiare una connessione Fat Pipe. Devo caricare un bel po’ di dati sul mio
account.»
«L’upload ha un costo aggiuntivo. Quanti dati?»
«Dieci zettabyte.»
«Che cazzo» sussurrò. «Cosa ci carichi? La Biblioteca del Congresso?» Ignorai la domanda.
«Vorrei anche il Pacchetto Upgrade Mondo» gli dissi.
«Certo» rispose il commesso diffidente «in totale fa undicimila testoni. Metti qui il pollice
e sistemiamo il tutto.» Quando la transazione fu completata, sembrò più che sorpreso. Poi
fece spallucce e mi diede una tessera magnetica, un visore e un paio di guanti.
«Baia quattordici. Ultima porta a destra. Il bagno è in fondo al corridoio. Se fai casino nella
baia, ci teniamo la cauzione. Vomito, urina, sperma, cose così. E sono io che poi devo
ripulire, perciò fammi il favore e contieniti un po’, ok?»
«D’accordo.»
«Divertiti.»
«Grazie.» La Baia quattordici era una stanza insonorizzata, dieci metri per dieci; al centro,
un set aptico di nuova generazione. Mi chiusi la porta alle spalle e mi infilai nel set. La
finta pelle che rivestiva la poltrona aptica era consumata e piena di tagli. Infilai la
chiavetta in uno slot della console OASIS e sorrisi quando sentii il clic.
«Max?» dissi al vuoto, quando mi fui ricollegato. La mia voce ricaricò un backup di Max
che avevo salvato nell’account OASIS.
Il volto sorridente di Max comparve su tutti i monitor del centro di comando. «S-s-salve
compadre!» tartagliò. «C-c-come va?»
«La situazione migliora, amico. Allacciati le cinture. Abbiamo un sacco di lavoro.» Aprii il
pannello dell’account OASIS e avviai l’upload della chiavetta. Pagavo alla GSS una quota
mensile per avere spazio illimitato sul mio account, e ora stavo per testarne i limiti. Anche
usando la connessione in fibra ottica e banda larga del Plug, caricare dieci zettabyte
avrebbe richiesto più di tre ore. Riordinai la sequenza di upload perché i file di cui avevo
bisogno al più presto venissero trasferiti per primi. Non appena i dati venivano copiati sul
mio account, potevo accedervi e inviarli istantaneamente ad altri utenti.
Per prima cosa, spedii un’email a tutti i maggiori feed di notizie, con un resoconto
dettagliato di come la IOI avesse cercato di uccidermi, di come avesse ucciso Daito e di
come avesse intenzione di uccidere Art3mis e Shoto. Allegai al messaggio uno dei video
che avevo recuperato dal database Sixer: le riprese dell’esecuzione di Daito. Allegai anche
una copia del promemoria che Sorrento aveva spedito ai dirigenti IOI suggerendo di
rapire Art3mis e Shoto. Infine allegai la simcap della mia chatlink con Sorrento, ma
censurai la parte in cui si pronunciava il mio vero nome e sfocai la mia foto scolastica. Non
ero ancora pronto a rivelare al mondo la mia identità. Avevo intenzione di diffondere il
video completo più tardi, quando il resto del mio piano si fosse realizzato. A quel punto
non mi sarebbe più importato. Per quindici minuti preparai un’ultima email, che indirizzai
a tutti gli utenti OASIS. Quando fui soddisfatto della scelta delle parole, la salvai in Bozze.
Poi mi collegai alla Cantina di Aech.
Appena il mio avatar comparve nella chatroom, vidi che Aech, Art3mis e Shoto erano già
lì ad aspettarmi.

0032
«Z!» gridò Aech quando il mio avatar apparve. «Che cazzo, amico. Dove sei stato? È da
più di una settimana che ti cerco!»
«Anch’io» aggiunse Shoto. «Dov’eri? E come hai preso quei file dal database dei Sixer?»
«Lunga storia» dissi. «Ma prima le cose importanti.» Mi rivolsi a Shoto e Art3mis: «Ve ne
siete andati di casa?».
Annuirono.
«E siete entrambi collegati da un luogo sicuro?»
«Sì» disse Shoto. «Sono in un manga caffè.»
«Io sono all’aeroporto di Vancouver» disse Art3mis. Era la prima volta che sentivo la sua
voce da quasi un anno. «Sono collegata da una cabina pubblicaOASIS, sterilizzata dai
germi. Sono scappata solo con i vestiti che ho addosso, quindi mi auguro che quelle
informazioni sui Sixer fossero valide.»
«Lo sono» dissi. «Fidati.»
«Come fai a esserne sicuro?» domandò Shoto.
«Perché mi sono infiltrato nel database dei Sixer e le ho scaricate io stesso.» Mi fissarono in
silenzio. Aech sollevò un sopracciglio. «Esattamente, Z, com’è che ci saresti riuscito?»
«Ho assunto una falsa identità, mi sono spacciato per una recluta e mi sono infiltrato nel
quartier generale IOI. Ci ho passato gli ultimi otto giorni. Sono appena scappato.»
«Porca troia!» sussurrò Shoto. «Dici davvero?» Annuii.
«Amico, hai un paio di palle di adamantio» disse, sussurrando. «Rispetto.»
«Grazie. Non so.»
«Mettiamo che non ci stai prendendo per il culo su tutta la linea» disse Art3mis. «Come fa
una recluta di infimo grado ad accedere ai dossier segreti dei Sixer e ai promemoria della
società?» Mi voltai a guardarla. «Le reclute hanno un accesso limitato all’intranet della
compagnia tramite la console-divertimenti delle unità abitative, oltre il firewall IOI. Da lì
in poi, sono riuscito a usare una serie di backdoor ed exploit che avevano lasciato i primi
programmatori, sono entrato nel network e mi sono inserito nel database privato dei
Sixer.» Shoto mi fissava pieno d’ammirazione. «L’hai fatto davvero? Da solo?»
«Proprio così, capo.»
«È un miracolo che non ti abbiano preso e ucciso» disse Art3mis. «Perché hai corso un
rischio così stupido?»
«Perché, secondo te? Per cercare di aggirare il loro scudo e raggiungere la Terza Porta»
scrollai le spalle. «Era l’unico piano che sono riuscito a farmi venire in mente in così poco
tempo.»
«Z» disse Aech, ghignando. «Sei un figlio di puttana fuori di testa.» Mi si avvicinò e mi
diede il cinque. «Ma è per questo che ti voglio bene, amico!» Art3mis mi guardò severa. «E
ovviamente quando hai scoperto che avevano file segreti su ciascuno di noi non hai potuto
resistere e li hai aperti, vero?»
«Ma dovevo farlo!» dissi. «Per capire quanto sapessero di noi! Tu avresti fatto la stessa
cosa.» Mi puntò un dito in faccia. «No, non lo avrei fatto. Io la rispetto la privacy delle
persone!»
«Art3mis, calmati!» intervenne Aech. «Probabilmente ti ha salvato la vita, sai.» Lei sembrò
prendere in considerazione la cosa. «D’accordo» disse. «Non fa niente.» Ma capivo che era
ancora scocciata.
Non sapevo cosa dire, perciò proseguii.
«Vi sto inviando una copia dei dati Sixer che sono riuscito a portare via. Dieci zettabyte in
tutto. Dovrebbero esservi arrivati.» Attesi che controllassero la posta. «Il database su
Halliday è gigantesco. C’è tutta la sua vita. Hanno interviste con chiunque lo abbia
conosciuto. Potrebbero volerci mesi per leggerlo tutto.» Aspettai per qualche minuto,
osservando i loro occhi che scandagliavano i dati.
«Wow!» disse Shoto. «È incredibile.» Tornò a guardarmi. «Come diavolo hai fatto a
fuggire dalla IOI portandoti dietro tutta questa roba?»
«Con molta circospezione.»
«Aech ha ragione» disse Art3mis scuotendo la testa. «Sei uno scemo patentato.» Per un
istante esitò, poi aggiunse: «Grazie per avermi avvisato, Z. Ti devo un favore».
Aprii la bocca per risponderle «non c’è di che», ma non uscì una sola parola.
«Sì» disse Shoto. «Anch’io. Grazie.»
«Figuratevi, ragazzi» riuscii finalmente a dire.
«Be’?» fece Aech. «Dacci le cattive notizie. Quanto sono vicini a risolvere la Terza Porta?»
«Ecco, goditi questa» dissi ghignando. «Non hanno nemmeno capito come aprirla, per
ora.» Art3mis e Shoto mi fissarono increduli. Il volto di Aech si aprì in un largo sorriso, poi
lui cominciò a fare su e giù con la testa alzando le mani al cielo, come se stesse ballando
sulle note di un pezzo rave che noi non potevamo sentire. «Oh yes! Oh yes!» cantò.
«Scherzi vero?» chiese Shoto.
Scossi la testa.
«Non stai scherzando?» disse Art3mis. «Com’è possibile? Sorrento ha la Chiave di
Cristallo e sa dov’è la porta. Non deve far altro che aprirla ed entrarci, no?»
«Questo valeva per le altre due porte» risposi «ma la terza è diversa.» Aprii una grande
finestra vidfeed a mezz’aria, di fronte a me. «Guardate qui. È preso dall’archivio video dei
Sixer. È il loro primo tentativo di aprire la porta.» Premetti Play. La clip si apriva con una
ripresa dell’avatar di Sorrento in piedi di fronte ai cancelli di Castle Anorak. L’entrata
principale del castello, inespugnabile per tanti anni, si spalancava di fronte a Sorrento
come la porta automatica di un supermercato. «L’entrata del castello si apre per gli avatar
che hanno una copia della Chiave di Cristallo» spiegai. «Se un avatar non ce l’ha, non può
attraversare la soglia ed entrare, anche se le porte sono già aperte.» Fissammo tutti
Sorrento che varcava l’ingresso e si inoltrava nel vasto foyer rifinito in oro. L’avatar di
Sorrento attraversava il pavimento in marmo e raggiungeva l’imponente porta di cristallo
incassata nel muro rivolto a nord. Al centro della porta si poteva vedere una grande
serratura. Sopra, sulla superficie rilucente e sfaccettata, erano incise tre parole: Carità.
Speranza. Fede.
Sorrento si avvicinava, tendendo la sua copia della Chiave di Cristallo. La infilava nella
serratura e la girava. Niente.
Allora alzava lo sguardo per osservare le tre parole sulla porta. «Carità, Fede, Speranza»
diceva, leggendole ad alta voce. Ancora niente.
Sorrento toglieva la chiave, ripeteva le tre parole, poi infilava di nuovo la chiave e la
girava. Niente di niente.
Studiai Aech, Art3mis e Shoto che guardavano il video. L’entusiasmo e la curiosità si
erano già trasformati in concentrazione, mentre cercavano di risolvere l’enigma che
avevano di fronte. Misi in pausa il video. «Quando Sorrento è connesso, ha una squadra di
consiglieri e ricercatori che osserva ogni sua mossa» dissi. «In qualche video potete sentirli
mentre gli danno suggerimenti via comlink. Non che siano stati di grande aiuto fino a
questo momento. Guardate…» In video, Sorrento stava cercando nuovamente di aprire la
porta. Aveva fatto tutto come prima ma, inserendo la chiave, l’aveva girata in senso
antiorario.
«Stanno provando tutte le cose più stupide che si possono immaginare» dissi. «Sorrento
recita le parole della porta in latino, in elfico, in Klingon. Poi si impantanano recitando la
Prima lettera ai Corinzi, 13,13, un versetto che include le parole “carità, speranza e fede”.
A quanto pare “carità speranza e fede” sono anche i nomi di tre martiri del cattolicesimo.
È da qualche giorno che i Sixer cercano di appiccicarci un significato qualsiasi.»
«Idioti» disse Aech. «Halliday era ateo.»
«Non sanno più cosa fare ormai» dissi. «Sorrento le ha provate tutte, manca solo che si
inginocchi, faccia un balletto e ficchi il mignolo nella serratura.»
«Probabilmente è la sua prossima mossa» disse Shoto sghignazzando.
«Carità, speranza e fede» disse Art3mis, ripetendo lentamente le tre parole. Si voltò verso
di me. «Dov’è che le ho già sentite?»
«Già» disse Aech. «Suonano davvero familiari.»
«Ci ho messo un po’ anch’io a ricordarmele» dissi.
Mi guardarono tutti, fiduciosi.
«Ditele al contrario» suggerii. «O meglio, cantatele in ordine inverso.» Art3mis socchiuse
gli occhi, concentrata. «Fede, speranza, carità» disse. Lo ripeté qualche volta e sul suo
volto cominciò a farsi strada un’intuizione. Poi cantò: «Faith and hope and charity…».
Aech attaccò con il verso successivo: «The heart and the brain and the body…».
«Give you three… as a magic number!» terminò Shoto, trionfante.
«Schoolhouse Rock!» gridarono all’unisono.
«Visto?» dissi. «Sapevo che l’avreste capito. Siete svegli, ragazzi.»
«Three is a Magic Number, parole e musica di Bob Dorough» disse Art3mis, come se
stesse estraendo le informazioni da un’enciclopedia mentale. «Scritta nel 1973.» Le sorrisi.
«Ho una teoria. Credo possa essere il modo in cui Halliday vuole dirci quante chiavi
servono per aprire la Terza Porta.» Art3mis sorrise, poi cantò: «It takes three».
«No more, no less» continuò Shoto.
«You don’t have to guess» aggiunse Aech.
«Three» terminai io «is the magic number.» Presi la mia copia della Chiave di Cristallo e la
sollevai. Gli altri fecero lo stesso. «Abbiamo quattro copie della Chiave. Se tre di noi
riescono a raggiungere la porta, possiamo aprirla.»
«E poi?» chiese Aech. «Entriamo tutti insieme?»
«E se solo uno di noi può entrare, una volta aperta la porta?» intervenne Art3mis.
«Dubito che Halliday l’abbia progettata così» risposi io.
«Chi può sapere cosa avesse in mente quel pazzo» disse Art3mis. «Ci ha manovrato come
burattini passo dopo passo e ora lo sta facendo di nuovo. Altrimenti perché dovrebbe
richiedere tre copie della Chiave di Cristallo per aprire l’ultima porta?»
«Forse perché voleva obbligarci a collaborare?» suggerii.
«O voleva che la gara si chiudesse con un finale drammatico» rilanciò Aech. «Pensateci. Se
tre avatar varcano la Terza Porta nello stesso momento, scatta subito una gara a chi la
supererà per primo e riuscirà a trovare l’Egg.»
«Halliday era un bastardo pazzo e sadico» mormorò Art3mis.
«Sì» annuì Aech. «Ben detto.»
«Vedetela così» disse Shoto. «Se Halliday non avesse progettato la Terza Porta perché
richiedesse tre chiavi… a quest’ora i Sixer avrebbero già trovato l’Egg.»
«Ma una dozzina di avatar Sixer ha già una copia della Chiave di Cristallo» disse Aech.
«Potrebbero aprire la porta, se fossero abbastanza svegli da capire.»
«Dilettanti» disse Art3mis. «È un problema loro se non sanno a memoria tutti i testi di
Schoolhouse Rock! Ricordami un po’ come hanno fatto quegli idioti ad arrivare fin qui?»
«Barando» le dissi. «Dimentichi?»
«Ah, giusto. Continuo a dimenticarmelo.» Mi rivolse un sorriso scherzoso e le ginocchia
mi diventarono di gelatina.
«Soltanto perché i Sixer non hanno ancora aperto la porta non significa che non ci
arriveranno, prima o poi» disse Shoto.
Annuii. «Shoto ha ragione. Prima o poi faranno il collegamento con Schoolhouse Rock!
Non possiamo perdere altro tempo.»
«Cosa aspettiamo allora?» disse Shoto, eccitato. «Sappiamo dov’è la porta e sappiamo
come aprirla! Facciamolo! E che vinca il Gunter migliore!»
«Dimentichi una cosa, Shoto-san» disse Aech. «Parzival, qui, non ci ha ancora detto come
superare lo scudo, farci strada tra i Sixer ed entrare nel castello.» Si rivolse a me.
«Perchétuhai un piano, non è vero, Z?»
«Ovvio» dissi. «ci stavo giusto arrivando.» Sollevai la mano destra e apparve un
ologramma tridimensionale di Castle Anorak, sospeso di fronte a me. Il globo blu
trasparente generato dalla Sfera di Osuvox comparve intorno al castello, avvolgendolo
completamente, sopra e sotto terra. Lo indicai. «Questo scudo cadrà da solo lunedì alle
dodici, cioè tra circa trentasei ore. E sarà allora che varcheremo l’ingresso principale del
castello.»
«Lo scudo cadrà? Da solo?» ripeté Art3mis. «È da due settimane che i clan lo bombardano
con testate nucleari senza nemmeno scalfirlo. Come riuscirai a farlo “cadere da solo”?»
«Me ne sono già occupato» dissi. «Voi ragazzi dovete fidarvi di me.»
«Io mi fido, Z» disse Aech. «Ma anche se lo scudo cadesse davvero, per raggiungere il
castello dovremmo comunque farci strada in mezzo all’esercito più potente di OASIS.»
Indicò l’ologramma, che mostrava gli stanziamenti delle truppe Sixer intorno al castello e
al suo interno. «Come la mettiamo con questi idioti? E i carri armati? E le navicelle
d’assalto?»
«Chiaramente avremo bisogno di un po’ di aiuto» dissi.
«Un sacco di aiuto» chiarì Art3mis.
«Ed esattamente a chi dovremmo rivolgerci perché ci aiuti a dichiarare guerra all’intero
esercito Sixer?» domandò Aech.
«A tutti» dissi. «A ogni singolo Gunter del sistema.» Aprii un’altra finestra per mostrare la
breve email che avevo preparato prima di connettermi alla Cantina. «Stasera invierò
questo messaggio a ogni singolo utenteOASIS.» Compagni Gunter, È un triste giorno.
Dopo anni di raggiri, sfruttamenti e ignominia, i Sixer sono riusciti a comprarsi, barando,
l’entrata alla Terza Porta.
Come già sapete, la IOI ha barricato Castle Anorak nel tentativo di impedire a chiunque
altro di raggiungere l’Egg. Abbiamo scoperto, inoltre, che hanno impiegato metodi illegali
per risalire all’identità dei Gunter considerati una minaccia, e che hanno tutte le intenzioni
di rapirli e ucciderli.
Se i Gunter di tutto il mondo non uniranno le proprie forze per fermarli, i Sixer
raggiungeranno l’Egg e vinceranno la gara. E da quel momento OASIS cadrà sotto il
regime imperialista della IOI.
È il momento. Il nostro assalto all’esercito Sixer comincerà domani a mezzogiorno, OST.
Unitevi a noi!
Con stima, Aech, Art3mis, Parzival e Shoto «Ignominia?» chiese Art3mis dopo che ebbe
finito di leggere. «Hai usato un’enciclopedia per scriverla?»
«Cercavo di darle un’aria, tipo, epica» dissi. «Ufficiale.»
«Mi piace, Z» disse Aech. «Fa davvero ribollire il sangue.»
«Grazie Aech.»
«Ah, tutto qui? È questo il tuo piano?» disse Art3mis «Mandare spam a tutto OASIS
chiedendo aiuto?»
«Più o meno sì. Questo è il piano.»
«E pensi davvero che tutti accorreranno e ci aiuteranno a combattere i Sixer» disse. «Senza
avere niente in cambio, tanto per?»
«Sì» risposi. «Penso di sì.» Aech annuì. «Ha ragione. Nessuno vuole che i Sixer vincano la
gara. E di certo non vogliono che OASIS passi nelle mani della IOI. La gente comune sarà
felice di dare una mano a sconfiggere i Sixer. E quale Gunter si tirerebbe indietro di fronte
all’opportunità di combattere una battaglia tanto epica, una battaglia che farà la storia?»
«Ma i clan non penseranno che stiamo soltanto cercando di usarli?» disse Shoto. «Per poi
raggiungere la porta?»
«Certamente» dissi. «Ma quasi tutti hanno gettato la spugna, ormai. Tutti pensano che la
fine della Caccia sia vicina. Non credi che chiunque preferirebbe che fossimo noi a vincere
la gara piuttosto che Sorrento e i Sixer?» Art3mis esaminò la questione per un istante. «Hai
ragione. Quell’email potrebbe funzionare.»
«Z» disse Aech, dandomi una pacca sulla schiena. «Sei un incredibile genio del male!
Quando quell’email arriverà, i media daranno di matto! La voce si diffonderà in un lampo.
Domani a quest’ora ogni avatar su OASIS si starà dirigendo su Chthonia.»
«Speriamo» dissi io.
«Oh, sì che verranno» disse Art3mis. «Ma in quanti saranno disposti a combattere
davvero, quando capiranno chi sono i nostri nemici? I più si metteranno comodi sulle loro
sdraio e mangeranno popcorn guardando i Sixer che ci rompono il culo.»
«È senza dubbio una possibilità» dissi io. «Ma i clan ci aiuteranno di sicuro. Non hanno
niente da perdere. E non dobbiamo sconfiggere l’intero esercito Sixer. Dobbiamo solo
crearci un varco, entrare nel castello e raggiungere la porta.»
«Tre di noi devono raggiungere la porta» disse Aech. «Se ne riescono a entrare solo uno o
due, siamo fottuti.»
«Esatto» dissi. «Quindi dobbiamo mettercela tutta per non farci uccidere.» Art3mis ed
Aech fecero una risatina nervosa. Shoto scosse soltanto la testa. «Anche se apriremo la
porta, poi dovremo comunque affrontarla» disse. «E sarà sicuramente più difficile delle
prime due.»
«Della porta ci preoccuperemo in seguito» dissi. «Quando ci arriveremo.»
«Bene» disse Shoto. «Per me si può fare.»
«Sono con voi» disse Aech.
«Ah, quindi voi due siete davvero d’accordo?» chiese Art3mis.
«Hai idee migliori, sorella?» domandò Aech.
Lei scrollò le spalle. «No. Non direi.»
«Ok» disse Aech. «Allora siamo d’accordo.» Chiusi l’email. «Manderò a tutti voi una copia
del messaggio» dissi. «Iniziate da stasera a inviarlo a tutti i vostri contatti. Postatelo sui
blog. Trasmettetelo sui canali vpo. Abbiamo trentasei ore per diffondere la notizia.
Dovrebbe essere abbastanza perché tutti si equipaggino e portino i propri avatar su
Chthonia.»
«Quando la voce arriverà ai Sixer subodoreranno la cosa, inizieranno a preparare un
attacco» disse Art3mis. «Sfodereranno l’artiglieria pesante.»
«O potrebbero farsi una risata» dissi io. «Sono convinti che il loro scudo sia
inespugnabile.»
«Ma lo è» disse Art3mis. «Spero davvero che tu non stia scherzando quando dici che sei
riuscito a disattivarlo.»
«Non ti preoccupare.»
«Perché dovrei preoccuparmi?» saltò su Art3mis. «Forse te lo sei dimenticato, ma sono una
fuggitiva senza casa, in questo momento! Sono connessa dal terminal pubblico di un
aeroporto, e pago ogni minuto di collegamento. Non posso sperare di vincere una guerra
da qui, e tanto meno di poter superare la Terza Porta. E non ho un posto dove andare.»
Shoto annuì. «Neanch’io credo di poter rimanere qui. Sono in una cabina a noleggio in un
manga caffè di Osaka. Non ho molta privacy. E non credo che questo sia un luogo sicuro,
se i Sixer hanno mandato degli agenti a cercarmi.» Art3mis mi guardò. «Suggerimenti?»
«Mi spiace dirvelo, amici, ma anch’io sono senza casa e sono connesso da un terminal
pubblico» dissi. «Mi nascondo dai Sixer da più di un anno, ricordate?»
«Io ho un camper» disse Aech. «Siete i benvenuti se volete stare da me. Ma non credo di
poter raggiungere Columbus, Vancouver e il Giappone entro le prossime trentasei ore.»
«Forse vi posso aiutare, ragazzi» disse una voce profonda.
Tutti sobbalzammo e ci voltammo, in tempo per vedere un avatar alto, dalla barba grigia,
comparire dietro di noi. Era il Grande e Potente Og. L’avatar di Ogden Morrow. E non si
materializzò lentamente, come di solito facevano gli avatar quando si collegavano a una
chatroom. Semplicemente sbucò fuori dal nulla, come se ci fosse sempre stato e solo ora
avesse deciso di rendersi visibile.
«Qualcuno di voi è mai stato in Oregon?» domandò. «È un posto piacevole, in questa
stagione.»

0033
Meravigliati e muti, fissammo Ogden Morrow.
«Come è entrato qui?» chiese infine Aech, dopo aver raccolto la mascella dal pavimento.
«È una chatroom privata.»
«Sì, lo so» disse Morrow, un po’ imbarazzato. «Temo di dover ammettere che vi spio tutti
e quattro ormai da un po’. E spero accetterete le mie più sincere scuse per aver invaso la
vostra privacy. Giuro che l’ho fatto con le migliori intenzioni.»
«Con tutto il rispetto, signore» disse Art3mis «non ha risposto alla domanda. Come ha
avuto accesso a questa chatroom senza invito? E senza che nessuno di noi sapesse che lei
era qui?»
«Perdonatemi» rispose lui. «Capisco che possa spaventarvi, ma non c’è motivo di
preoccupasi. Il mio avatar ha poteri unici, inclusa l’abilità di entrare nelle chatroom
private senza invito.» Parlando, Morrow si avvicinò a uno degli scaffali di Aech e
cominciò a curiosare tra i vecchi supplementi di giochi di ruolo. «Prima del lancio effettivo
di OASIS, quando Jim e io creammo i nostri avatar, ci dotammo di un accesso all’intera
simulazione in modalità superutente. Oltre a essere immortali e invincibili, i nostri avatar
potevano andare ovunque e fare praticamente qualsiasi cosa. Ora che Anorak non c’è più,
è rimasto solo il mio avatar con poteri del genere.» Si voltò per guardarci in faccia.
«Nessun altro ha il potere di spiare le vostre conversazioni. Di certo non i Sixer. I
protocolli di criptaggio delle chatroom OASIS sono duri come le rocce, ve l’assicuro.» Fece
una risatina. «Nonostante la mia presenza qui adesso.»
«È lui che ha fatto cadere quella pila di fumetti!» dissi a Aech. «Dopo il nostro primo
incontro qui, ricordi? Te l’avevo detto che non era un problema del software…» Og annuì
e alzò le spalle con aria colpevole. «Sono stato io. Alle volte sono proprio goffo.» Seguì un
altro breve silenzio, durante il quale raccolsi il coraggio per rivolgermi direttamente a
Morrow. «Signor Morrow…» cominciai.
«Ti prego» disse Morrow alzando una mano. «Chiamami Og.»
«D’accordo» dissi, ridacchiando nervosamente. Nonostante le circostanze, l’incontro con
una tale celebrità mi scombussolava. Non potevo credere che stavo davvero parlando con
quell ‘Ogden Morrow. «Og. Ti dispiace dirci perché ci spiavi?»
«Perché voglio aiutarvi» rispose. «E da quel che ho sentito un momento fa, sembra proprio
che ne abbiate bisogno.» Ci scambiammo tutti uno sguardo nervoso e Morrow sembrò
cogliere il nostro scetticismo. «Vi prego di non fraintendermi» continuò. «Non vi darò
alcun indizio né vi fornirò informazioni per trovare l’Egg. Toglierebbe tutto il
divertimento, no?» Tornò da noi e il suo tono si fece serio. «Poco prima che morisse, ho
promesso a Jim che, in sua assenza, avrei fatto tutto ciò che era in mio potere per
proteggere lo spirito e l’integrità della sua gara. È per questo che sono qui.»
«Ma signor… Og» dissi. «Nella tua autobiografia sostieni che tu e James Halliday non vi
siete mai parlati negli ultimi dieci anni della sua vita.» Morrow mi rivolse un sorriso
divertito. «Avanti, ragazzo» mi disse. «Non devi credere a tutto quello che leggi.» Rise. «A
dire il vero, quella frase è vera, in linea di massima. Io e Jim non ci siamo mai parlati,
durante gli ultimi dieci anni della sua vita. Non fino a qualche settimana prima che
morisse.» Si interruppe, come se stesse frugando nella memoria. «Al tempo non sapevo
nemmeno che fosse malato. Mi chiamò all’improvviso e ci incontrammo in una chatroom
privata molto simile a questa. Fu allora che mi disse della malattia, della gara, di cosa
aveva in mente. Temeva che ci fosse ancora qualche bug nelle porte. O che, una volta
morto lui, sarebbero sorte complicazioni che avrebbero impedito il corretto svolgimento
della gara, così come lui l’aveva pensata.»
«Tipo i Sixer?» chiese Shoto.
«Precisamente, tipo i Sixer» disse Og. «Per questo Jim mi chiese di monitorare la gara e di
intervenire qualora ce ne fosse stato bisogno.» Si diede una grattata alla barba. «A essere
sincero, avrei fatto volentieri a meno di questa responsabilità. Ma era l’ultimo desiderio
del mio più vecchio amico, perciò accettai. Per questi sei anni mi sono limitato a osservare,
seduto in panchina. E anche se i Sixer hanno fatto di tutto per portarvi in svantaggio, in
qualche modo voi quattro avete perseverato. Ma ora, dopo avervi sentito descrivere la
situazione in cui vi trovate, credo che sia giunto il momento che io passi all’azione per
mantenere l’integrità del gioco di Jim.» Io, Art3mis, Shoto ed Aech ci scambiammo delle
occhiate di stupore, come a cercare, l’uno negli occhi dell’altro, la conferma che tutto
questo stava accadendo davvero.
«Voglio offrirvi un rifugio a casa mia, qui in Oregon» disse Og. «Da qui potrete mettere in
pratica il vostro piano e completare la missione in totale sicurezza, senza dovervi
preoccupare degli agenti Sixer che vi rintraccino e vi sfondino la porta. Posso fornire a
tutti voi un set immersivo di ultima generazione, una connessione a fibra ottica e tutto ciò
di cui avrete bisogno.» Un altro silenzio gonfio di incredulità. «Grazie, signore!» tirai fuori
infine, resistendo all’impulso di lasciarmi cadere in ginocchio e inchinarmi a ripetizione.
«È il minimo che io possa fare.»
«È un gesto incredibilmente generoso, signor Morrow» disse Shoto «ma io vivo in
Giappone.»
«Lo so, Shoto» disse Og. «Ho già noleggiato un jet privato. Ti aspetta all’aeroporto di
Osaka. Se mi invii la tua posizione attuale, chiamo una limousine perché venga a prenderti
e ti porti fino alla pista.» Shoto rimase senza parole per un istante, poi fece un ampio
inchino. «Arigato, Morrow-san.»
«Figurati, ragazzo.» Poi si rivolse ad Art3mis. «Signorina, mi pare di capire che al
momento ti trovi all’aeroporto di Vancouver. Ho organizzato un trasporto anche per te. Al
ritiro bagagli ti attende un autista. Ha con sé un cartello con su scritto il nome “Benatar”.
Ti porterà all’aereo che ho noleggiato per te.» Per un momento pensai che anche Art3mis
si sarebbe inchinata. Ma poi cominciò a correre e gettò le braccia intorno a Og, e lo
abbracciò forte. «Grazie, Og» gli disse. «Grazie, grazie, grazie!»
«Dovere, mia cara» disse lui con un risolino imbarazzato. Quando lei lo lasciò andare, Og
si voltò verso me ed Aech. «Aech, mi sembra di capire che hai un veicolo e che al
momento ti trovi nei pressi di Pittsburgh?» Aech annuì. «Se non ti dispiace raggiungere il
tuo amico Parzival, farò in modo che un jet vi prelevi entrambi all’aeroporto di Columbus.
Se per voi ragazzi non è un problema fare un giro insieme.»
«No, mi sembra perfetto» disse Aech, guardandomi con la coda dell’occhio. «Grazie Og.»
«Sì, grazie» ripetei. «Ci stai salvando la vita.»
«Lo spero.» Mi lanciò un sorriso malinconico, poi si rivolse a tutti. «Buon viaggio. Ci
vediamo presto.» Poi svanì, con la stessa velocità con cui era apparso.
«Bella merda» dissi, voltandomi verso Aech. «Art3mis e Shoto si beccano la limousine e a
me tocca scroccare un passaggio a questo mostro qui? In un cesso di camper?»
«Non è un cesso di camper» disse Aech ridendo. «E puoi sempre prendere un taxi,
coglione.»
«Sarà interessante» dissi, lanciando una rapida occhiata ad Art3mis. «Noi quattro che
finalmente ci incontriamo.»
«Sarà un onore» disse Shoto. «Non vedo l’ora.»
«Già» disse Art3mis, fissandomi negli occhi. «Non sto più nella pelle.» Quando Shoto e
Art3mis si furono scollegati, comunicai a Aech la mia posizione attuale. «È un negozio
della catena Plug. Chiamami quando arrivi. Ci vediamo all’ingresso.»
«Va bene» disse. «Senti, ti avverto. Non somiglio al mio avatar. Per niente.»
«E allora? Chi ci somiglia? Io non sono così alto. O muscoloso. E il mio naso è un po’ più
grosso…»
«Ti volevo avvertire. Incontrarmi potrebbe essere… un po’ uno shock.»
«Ok, quindi perché non mi dici già da ora che aspetto hai?»
«Sono già per strada» disse, glissando sulla domanda. «Ci vediamo tra qualche ora, ok?»
«Ok. Guida con prudenza, amigo.» Nonostante ciò che avevo detto a Aech, sapere che lo
avrei incontrato di persona dopo tutti questi anni mi agitava più di quanto volessi
ammettere. Ma non era nulla rispetto all’angoscia che sentivo crescermi dentro all’idea di
incontrare Art3mis, una volta giunto in Oregon. Immaginare quel preciso momento mi
riempiva di un misto di eccitazione e vero terrore. Com’era di persona? La foto che avevo
visto nella sua cartella era un falso? Avevo ancora qualche possibilità?
Con uno sforzo sovrumano, me la tolsi di mente e mi costrinsi a concentrarmi sulla
battaglia che stavamo per affrontare. Uscito dalla Cantina di Aech, inviai l’email della mia
«chiamata alle armi» come annuncio globale a ogni utente OASIS. Poiché sapevo bene che
la maggior parte delle email non avrebbe superato i filtri antispam, la postai anche su ogni
forum di Gunter. Poi registrai un breve filmato del mio avatar che la leggeva ad alta voce e
lo misi in loop sul mio canale vpo.
La voce si diffuse rapidamente. In meno di un’ora, il nostro piano d’assalto a Castle
Anorak era in testa a ogni feed di notizie, accompagnato da titoli come I Gunter dichiarano
guerra totale ai Sixer e I migliori gunter accusano la IOI di rapimento e Che la caccia
all’Egg di Halliday sia davvero finita? Alcuni feed trasmettavano già il video dell’omicidio
di Daito che avevo inviato loro insieme al promemoria di Sorrento, citando, per entrambi,
una fonte anonima. LaIOI si era rifiutata di rilasciare dichiarazioni. Sorrento doveva aver
saputo che, in qualche modo, ero entrato nel database privato dei Sixer. Avrei voluto
vedere la sua faccia quando aveva scoperto come ci ero riuscito. Quando aveva scoperto
che avevo trascorso un’intera settimana a pochi piani dal suo ufficio.
Passai le ore successive a equipaggiare il mio avatar e a prepararmi mentalmente a ciò che
stava per succedere. Quando non riuscii più a tenere gli occhi aperti, decisi di fare un
sonnellino, in attesa di Aech. Disabilitai la funzione di auto-logout, poi mi addormentai
sulla poltrona aptica, avvolto nella nuova giacca come fosse una coperta, stringendo in
una mano la pistola che avevo appena acquistato.
Fui svegliato di soprassalto dalla suoneria di Aech. Mi chiamava per farmi sapere
che era arrivato. Mi sfilai dal set, raccolsi le mie cose e riportai l’attrezzatura noleggiata al
bancone. Quando uscii in strada, vidi che era scesa la notte. L’aria gelida mi si rovesciò
addosso come un secchio d’acqua ghiacciata.
Il minuscolo camper di Aech era parcheggiato accanto al marciapiedi, pochi metri più in
là. Era un Sunrider color caffè, lungo sei metri e vecchio di almeno vent’anni. Il tetto e le
fiancate del camper erano ricoperti da un collage di pannelli solari, oltre che da un
generoso strato di ruggine. Le finestre erano verniciate di nero e non potevo vedere al loro
interno.
Feci un respiro profondo e attraversai il marciapiedi ricoperto di fanghiglia, provando una
bizzarra combinazione di paura ed eccitazione. Quando mi avvicinai al camper, un
portello al centro si aprì e dal pavimento scese una scaletta. Montai dentro e la porta si
richiuse alle mie spalle. Mi ritrovai nella minuscola cucina del camper. Era tutto buio, a
parte per le luci di sicurezza sul pavimento tappezzato di moquette. Alla mia sinistra, sul
fondo, vedevo una piccola zona letto, incastrata in un soppalco sopra il generatore. Mi
voltai e camminai lentamente nel buio della cucina, poi scostai la tenda di perline che
oscurava l’ingresso della cabina.
Alla guida sedeva un’afroamericana corpulenta; stringeva forte il volante e guardava
dritto davanti a sé. Doveva avere la mia età, aveva capelli crespi e corti e una pelle color
cioccolato che sembrava iridescente, nello sfavillio degli indicatori del cruscotto. Aveva
indosso una vecchia maglietta del tour Rush 2112, e i numeri si deformavano sul petto
ampio. Portava anche un paio di jeans neri sbiaditi e degli anfibi chiodati ai piedi.
Sembrava stesse tremando, anche se nel veicolo c’era un tepore accogliente.
Per un attimo rimasi lì in piedi, in silenzio, aspettando che ammettesse l’evidenza che ero
lì. Poi si voltò e mi sorrise, e quel sorriso lo riconobbi immediatamente. Quel ghigno da
Stregatto che avevo visto migliaia di volte, sul volto di Aech, nelle tante serate che
avevamo trascorso insieme su OASIS, a scambiarci battutacce e a guardare brutti film. E il
suo sorriso non era l’unica cosa familiare. Riconobbi i suoi occhi e i suoi lineamenti. Non
avevo dubbi. La ragazza seduta di fronte a me era il mio migliore amico, Aech.
Fui travolto da un’ondata di emozioni. Lo shock lasciò posto a una sensazione di
tradimento. Come aveva potuto, proprio lui… lei… ingannarmi per tutti questi anni?
Sentii il volto avvamparmi per l’imbarazzo, quando mi ricordai di tutte le intimità
adolescenziali che avevo condiviso con Aech. Una persona di cui mi fidavo ciecamente.
Qualcuno che credevo di conoscere.
Quando non dissi nulla, gli occhi di lei si abbassarono sui suoi anfibi e rimasero lì per un
po’. Mi lasciai cadere pesantemente sul sedile del passeggero, osservandola, senza sapere
ancora bene cosa dirle. Continuava a lanciarmi occhiate rapide, poi spostava lo sguardo
nervosamente. Stava ancora tremando.
Ogni sensazione di rabbia o tradimento che provavo evaporò in fretta.
Non mi trattenni. Scoppiai a ridere. Senza cattiveria, e seppi che lei l’aveva capito, perché
le sue spalle si sciolsero un po’ e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Poi si mise a
ridere anche lei. A ridere e a piangere, pensai.
«Ehi, Aech» dissi, quando le risate si smorzarono. «Come butta?»
«Butta bene, Z» mi rispose. «Rose e fiori.» Anche la voce mi era familiare. Era soltanto
meno profonda. Per tutto questo tempo aveva usato un software per dissimularla.
«Be’» dissi «Guardaci un po’. Eccoci qui.»
«Già» rispose Aech. «Eccoci qui.» Calò un silenzio imbarazzato. Per un istante esitai,
incerto sul da farsi, poi seguii il mio istinto, scavalcai il breve spazio tra di noi e le gettai le
braccia al collo. «È bello vederti, vecchia mia» le dissi. «Grazie per essere venuta a
prendermi.» Lei ricambiò l’abbraccio. «Anche per me è bello vederti» disse. E capii che era
sincera.
La lasciai e mi rimisi al mio posto. «Cristo, Aech» dissi sorridendo. «Sapevo che
nascondevi qualcosa. Ma non avrei mai immaginato…»
«Che cosa?» disse lei, sulla difensiva. «Non avresti mai immaginato cosa?»
«Che il famoso Aech, il rinomato Gunter, il più temuto e spietato guerriero di tutto OASIS
fosse in realtà…»
«Una grassona nera?»
«Io avrei usato piuttosto “una giovane afroamericana”.» Il suo volto si rabbuiò. «C’è un
motivo per cui non te l’ho mai detto, sai.»
«Sono sicuro che è un buon motivo» le dissi. «Ma non importa. Davvero.»
«Ah no?»
«Certo che no. Sei la mia migliore amica, Aech. La mia unica amica, a dire il vero.»
«Be’, ci tengo comunque a spiegare.»
«D’accordo. Ma possiamo aspettare finché non saremo in volo? Abbiamo ancora molta
strada davanti. E mi sentirò molto più sicuro quando ci saremo lasciati alle spalle questa
città.»
«Si parte, amigo» disse lei, avviando il motore del camper.
Aech seguì le istruzioni di Og e raggiunse un hangar privato nei pressi
dell’aeroporto di Columbus: un piccolo jet di lusso ci stava aspettando. Og aveva preso
accordi affinché il camper di Aech venisse custodito in un hangar lì vicino, ma era stato la
casa di Aech per molti anni, e lei era visibilmente nervosa all’idea di abbandonarlo.
Avvicinandoci al jet, entrambi lo guardammo meravigliati. Avevo già visto degli aerei in
cielo, è ovvio, ma mai ne avevo visto uno da tanto vicino. Viaggiare su un jet era una cosa
che solo i ricchi potevano permettersi. Il fatto che Og potesse noleggiare tre aerei diversi
senza battere ciglio era la testimonianza di quanto dovesse essere follemente ricco.
Il jet era completamente automatizzato e a bordo non trovammo l’equipaggio. Eravamo
soli. La placida voce del pilota automatico ci diede il benvenuto a bordo, ci disse di
allacciarci le cinture e prepararci al decollo. In venti minuti eravamo in volo.
Era la prima volta che volavamo e passammo almeno un’ora a guardare dal finestrino,
sopraffatti dal panorama, mentre sfrecciavamo verso ovest, attraverso l’atmosfera, a
diecimila piedi d’altezza, diretti in Oregon. Poi, quando il fascino della novità si affievolì,
capii che Aech era pronta a parlare.
«Ok, Aech» dissi. «Raccontami tutto.» Lei mi sorrise con il suo ghigno da Stregatto e fece
un respiro profondo. «In realtà, è stata tutta un’idea di mia madre» disse. Poi si lanciò in
una versione sintetica della storia della sua vita. Il suo vero nome, mi disse, era Helen
Harris. Aveva soltanto qualche mese più di me. Era stata cresciuta ad Atlanta, dalla
madre. Suo padre era morto in Afghanistan quando lei era appena nata. Sua madre, Marie,
lavorava online in un centro di elaborazione dati. Secondo Marie,OASIS era la cosa
migliore che fosse accaduta sia alle donne sia alla gente di colore. Sin dall’inizio, Marie
aveva usato un avatar bianco e maschio per condurre gli affari online, data la
considerevole differenza nel modo in cui veniva trattata e nelle opportunità che le
venivano offerte.
La prima volta che Aech si collegò a OASIS, seguì il consiglio di sua madre e creò un
avatar bianco e maschio. Aveva scelto come nome del suo alter ego online il nomignolo H,
con cui sua madre la chiamava sin da quando era piccola. Qualche anno più tardi, quando
Aech iniziò a frequentare la scuola online, la madre, compilando il modulo, mentì sul’etnia
e il sesso della figlia. Si richiedeva una foto per il profilo scolastico, e così Aech aveva
inviato una versione fotorealistica del volto del suo avatar che a sua volta si basava sui
suoi veri lineamenti.
Mi disse che non vedeva né parlava con la madre da quando se ne era andata via di casa, il
giorno del suo diciottesimo compleanno. Era il giorno in cui Aech le aveva confessato il
suo orientamento sessuale.
Sulle prime, la madre si era rifiutata di credere che fosse gay, ma poi Helen le aveva
confessato che da un anno si vedeva con una ragazza conosciuta online.
Mentre Aech mi spiegava tutto ciò, capii che cercava di studiare le mie reazioni. Non ero
molto sorpreso. Nel corso degli ultimi anni, io ed Aech avevamo parlato spesso della
nostra ammirazione per le forme femminili. In un certo senso ero sollevato che Aech non
mi avesse ingannato, almeno in quello.
«Come ha reagito tua madre quando ha scoperto che avevi una ragazza?» le domandai.
«Be’, si è scoperto solo allora che mia mamma aveva un bel po’ di pregiudizi, e ben
radicati» rispose Aech. «Mi ha sbattuta fuori e ha detto che non mi avrebbe voluto vedere
mai più. Per un po’ non ho avuto una casa. Ho vissuto in una serie di rifugi. Ma poi,
lottando nei campionati d’arena su OASIS, ho guadagnato abbastanza da potermi
permettere il camper, e da allora vivo lì. Di solito mi fermo solo quando le batterie devono
essere ricaricate.» Mentre continuavamo a parlare, seguendo lo schema predefinito del
«conoscersi», mi resi conto che noi ci conoscevamogià, e meglio di chiunque altro.
Eravamo legati a un puro livello mentale. La capivo, mi fidavo e l’amavo come la mia più
cara amica. Niente era cambiato, né sarebbe cambiato, per qualcosa di tanto irrilevante
come il suo sesso, il colore della sua pelle o il suo orientamento sessuale.
Il resto del volo passò in un batter d’occhio. Io ed Aech ritrovammo la nostra sintonia e, in
breve tempo, era come se fossimo di nuovo nella Cantina, a sfotterci davanti a una partita
diQuake o di Joust. Quando il nostro jet toccò la pista d’atterraggio privata di Og, in
Oregon, le paure che avevo sulla vulnerabilità della nostra amicizia nel mondo reale erano
già svanite.
Avevamo volato a ovest, precedendo l’alba di poche ore, perciò era ancora buio quando
atterrammo. Una volta discesi dall’aereo, io ed Aech ci fermammo, guardando stupefatti la
scena che si apriva attorno a noi. Nella pur fioca luce della luna, la vista toglieva il fiato. I
profili oscuri e imponenti dei monti Wallowa ci circondavano da tutti i lati. Una fila di luci
blu si snodava lungo la vallata alle nostre spalle, delineando la pista d’atterraggio privata
di Og. Di fronte, una ripida scalinata di ciottoli conduceva dalla fine della pista a
un’immensa villa inondata di luce, eretta su un altopiano, alle pendici della catena
montuosa.
In lontananza potevo vedere le cascate che scendevano dalle cime oltre la villa di Morrow.
«Sembra proprio Rivendell» disse Aech, strappandomi le parole di bocca.
Annuii. «È esattamente come Rivendell nei film del Signore degli Anelli» dissi, ancora con
il naso per aria, in preda allo stupore. «La moglie di Og era una grande fan di Tolkien,
ricordi? Questo posto l’ha costruito per lei.» Udimmo un ronzio elettrico, mentre la
scaletta del jet si ritirava e il portellone si chiudeva dietro di noi. I motori si riaccesero e
l’aereo roteò su se stesso, preparandosi nuovamente al decollo. Rimanemmo lì e lo
osservammo lanciarsi nel cielo terso e stellato. Poi ci voltammo e cominciammo a salire i
gradini che portavano alla casa. Quando la raggiungemmo, Ogden Morrow era lì ad
aspettarci.
«Benvenuti, amici miei!» mugghiò Morrow, allungando le mani in segno di saluto.
Indossava un accappatoio a quadri e delle ciabatte a forma di coniglietto. «Benvenuti a
casa mia!»
«Grazie, signore» disse Aech. «Grazie di averci invitati qui.»
«Ah, tu devi essere Aech» rispose afferrandole la mano. Se anche fosse stato sorpreso dal
suo aspetto, non lo diede a vedere. «Riconosco la voce.» Le strizzò l’occhio e poi la strinse
a sé. Quindi si voltò e abbracciò anche me. «E tu devi essere Wade… voglio dire, Parzival!
Benvenuti! Benvenuti! È un vero onore incontrarvi!»
«L’onore è tutto nostro» dissi. «Non ti ringrazieremo mai abbastanza per averci aiutato.»
«Mi avete già ringraziato abbastanza, perciò basta!» disse. Si voltò e ci guidò lungo un
ampio prato verde, verso la sua enorme villa. «Non avete idea di quanto sia bello avere
degli ospiti. È triste dirlo ma, da quando Kira è morta, sono sempre solo.» Per un istante
rimase in silenzio, poi rise. «Be’, solo. Se non si considerano, naturalmente, i cuochi, le
cameriere e i giardinieri. Ma vivono tutti qui, perciò non si possono considerare ospiti.»
Né io né Aech sapevamo come rispondere, ma continuammo a sorridere e annuire. Poi
trovai il coraggio di parlare. «Gli altri sono già arrivati? Shoto e Art3mis?» Qualcosa, nel
modo in cui avevo detto «Art3mis», scatenò in Morrow un lungo e chiassoso sghignazzo.
Dopo qualche secondo, mi resi conto che anche Aech stava ridendo di me.
«Cosa c’è?» dissi. «Cos’è che vi fa così ridere?»
«Sì» disse Og ridacchiando. «Art3mis è stata la prima ad arrivare, diverse ore fa, e l’aereo
di Shoto è arrivato una mezz’ora prima del vostro.»
«Li incontreremo ora?» domandai, con un tentativo penoso di nascondere la mia ansia.
Og scosse la testa. «Art3mis pensa che incontrarvi ora sarebbe una distrazione inutile.
Vuole aspettare fino a dopo il “grande evento”. E anche Shoto sembrava d’accordo.» Mi
studiò per qualche momento. «Probabilmente è la cosa migliore, sapete? Vi aspetta un
giorno importante.» Annuii, provando un anomalo miscuglio di sollievo e delusione.
«Dove sono adesso?» domandò Aech.
Og, trionfante, alzò un pugno in aria. «Sono già collegati e si preparano al vostro assalto ai
Sixer!» La sua voce echeggiò tra i campi e rimbalzò sulle mura in pietra della villa.
«Seguitemi! L’ora si avvicina!» L’entusiasmo di Og mi riportò con forza alla realtà, e sentii
un nodo di nervi formarsi alla bocca dello stomaco. Seguimmo il nostro benefattore in
accappatoio per il vasto cortile bagnato di luce lunare. Quando raggiungemmo la casa,
oltrepassammo il cancello di un piccolo giardino pieno di fiori. Era uno strano posto e non
riuscii a capirne lo scopo finché non vidi la grande lapide al centro. Così realizzai che
doveva trattarsi della tomba di Kira Morrow. Ma, anche al chiaro di luna, era troppo buio
perché riuscissi a leggere l’iscrizione sulla pietra.
Og ci guidò attraverso il sontuoso ingresso della villa. Dentro, le luci erano tutte spente
ma, anziché accenderle, Morrow afferrò dalla parete una vera fiaccola e la usò per
illuminare la via. Pure nella luce tenue, l’imponenza di quel luogo mi sbalordiva. Le pareti
erano tappezzate di enormi arazzi e intere collezioni di opere d’arte fantasy, statue di
gargoyle e armature ingombravano i corridoi.
Mentre seguivamo Og, raccolsi il coraggio per rivolgergli la parola. «Senti, so che forse
non è il momento migliore» gli dissi «ma sono un grande fan dei tuoi lavori. Sono
cresciuto con i giochi educativi dell’Halcydonia Interactive. Mi hanno insegnato a leggere,
a scrivere, a contare, a risolvere gli indovinelli…» Mentre camminavamo, continuai a
straparlare, elogiando i miei titoli preferiti di Halcydonia e ammorbando Og in modo
classicamente e imbarazzantemente geek.
Forse Aech pensò che stessi facendo il leccapiedi, perché ridacchiò durante tutto il mio
monologo balbettante, ma Og la prese bene. «Mi fa piacere che sia così» disse. Mi sembrò
sinceramente lusingato. «Mia moglie e io eravamo fieri di quei giochi. Sono felicissimo che
ne conservi un ricordo tanto appassionato.» Voltammo l’angolo e io ed Aech ci
immobilizzammo di fronte all’entrata di un’enorme stanza, con un’infinità di ripiani su
ripiani pieni di vecchi videogiochi. Sapevamo entrambi che doveva trattarsi della
collezione dei classici di James Halliday, la collezione che aveva lasciato in eredità a
Morrow. Og si guardò intorno e vide che indugiavamo lì, così tornò indietro per
riprenderci.
«Vi prometto che più tardi vi farò fare un giro, quando l’entusiasmo si sarà un po’
stemperato» disse Og, il respiro affannoso. Si muoveva agilmente per un uomo della sua
età e della sua mole. Ci fece scendere una scala a chiocciola di pietra fino a un ascensore,
che ci portò giù di molti altri piani, nella cantina di Og. L’arredamento, lì, era molto più
moderno. Seguimmo Og in un labirinto di corridoi rivestiti di moquette finché non
raggiungemmo una serie di sette entrate circolari, ciascuna numerata.
«Eccoci!» disse Morrow, indicando con la fiaccola. «Queste sono le mie baie d’immersione
OASIS. Ciascuna contiene un set Habashaw di ultima generazione. oir-9400.»
«9400? Scherzi?» Aech si lasciò sfuggire un fischio ammirato. «Pazzesco.»
«Dove sono gli altri?» domandai, guardandomi in giro nervosamente.
«Art3mis e Shoto sono già nelle baie 2 e 3» rispose. «La baia uno è mia. Potete scegliere
una qualsiasi delle altre.» Fissai le porte, domandandomi dietro quale fosse Art3mis.
Og fece un cenno indicando l’altro lato della sala. «Nei camerini troverete tute aptiche di
tutte le taglie. Ora, su, preparatevi!» Fece un largo sorriso quando io ed Aech uscimmo dai
camerini, pochi minuti più tardi, indossando entrambi tute e guanti aptici nuovi di zecca.
«Magnifico!» disse Og. «Ora sceglietevi una baia e collegatevi. Il tempo vola!» Aech si
voltò a guardarmi. Capivo che voleva dirmi qualcosa, ma non riusciva a trovare le parole.
Dopo pochi secondi mi porse la mano guantata. Io la strinsi.
«Buona fortuna» le dissi.
«Buona fortuna, Z» rispose. Poi si voltò verso Og e gli disse: «Grazie ancora, Og». Prima
che lui potesse rispondere, lei si era alzata sulle punte e gli aveva schioccato un bacio sulla
guancia. Poi scomparve al di là della quarta porta, che sibilò e si richiuse alle sue spalle.
Og la seguì con lo sguardo, sorridendo, poi si voltò verso di me. «Il mondo intero tifa per
voi quattro. Cercate di non deluderlo.»
«Faremo del nostro meglio.»
«Lo so.» Mi porse la mano e io la strinsi.
Feci un passo verso la baia d’immersione, poi mi voltai di nuovo. «Og, posso farti una
domanda?» chiesi.
Lui alzò un sopracciglio. «Se stai per chiedermi cosa ci sia dietro la Terza Porta, non ne ho
idea» disse. «E anche se ce l’avessi non te lo direi. Dovresti saperlo…» Scossi la testa. «No,
non è questo. Volevo chiederti che cosa ha messo fine alla tua amicizia con Halliday. Con
tutte le ricerche che ho fatto, non ho mai trovato nulla che mi aiutasse a capirlo. Cosa è
successo?» Per un momento, Morrow mi studiò. In molti gli avevano fatto questa
domanda, durante le interviste, e lui l’aveva sempre ignorata. Non so perché decise di
rispondere. Forse in tutti quegli anni aveva aspettato qualcuno a cui dirlo.
«È stato per via di Kira. Mia moglie.» Si fermò un istante, poi si schiarì la voce e proseguì.
«Come me, anche lui ne era innamorato dai tempi del liceo. Ovviamente non aveva avuto
il coraggio di dichiararsi. Perciò lei non è mai venuta a saperlo. E nemmeno io. Non me lo
ha detto fino all’ultima volta che ci siamo parlati, prima che morisse. Anche allora, per lui
era difficile comunicare con me. Jim non è mai stato bravo a relazionarsi con la gente, né a
esprimere le emozioni.» Io annuii in silenzio e aspettai che continuasse.
«Anche dopo che io e Kira ci siamo fidanzati, penso che Jim nutrisse ancora qualche
fantasia sulla possibilità di rubarmela. Ma, dopo che l’ho sposata, ha abbandonato l’idea.
Mi ha detto di avermi tolto la parola per via della sconvolgente gelosia che provava. Kira
era l’unica donna che avesse mai amato.» La voce gli si fermò in gola. «Capisco perché Jim
provasse una cosa simile. Kira era una donna molto speciale. Era impossibile non
innamorarsene.» Mi sorrise. «Tu sai cosa si prova quando si incontra qualcuno del genere,
dico bene?»
«Lo so» risposi. Poi, quando capii che non aveva altro da aggiungere, dissi «Grazie, signor
Morrow. Grazie di avermi raccontato tutto questo.»
«Mi ha fatto piacere.» Poi raggiunse la sua baia d’immersione e la porta si aprì a iride.
«Buona fortuna Parzival. Ne avrai bisogno.»
«Tu cosa farai?» domandai. «Durante la battaglia?»
«Mi rilasserò e starò a guardare, è ovvio!» disse. «Sembra proprio che sarà la battaglia più
epica della storia dei videogiochi.» Mi sorrise per un’ultima volta, poi varcò la soglia e
sparì, lasciandomi solo nelle luci fioche del corridoio.
Passai qualche minuto a riflettere su ciò che Morrow mi aveva detto. Poi raggiunsi la mia
baia d’immersione ed entrai.
Era una piccola stanza sferica. Una poltrona aptica luccicante era appesa a un braccio
idraulico snodabile attaccato al soffitto. Non c’era il tapis roulant multidirezionale perché
la stanza stessa aveva quella funzione. Mentre eri connesso, potevi camminare o correre in
qualsiasi direzione e la sfera ruotava sotto e intorno a te, impedendoti di toccare la parete.
Era come trovarsi in un’enorme ruota per criceti.
Mi infilai nella poltrona e sentii che si adattava al profilo del mio corpo. Un braccio
robotico si allungò dalla poltrona e mi calò sugli occhi un visore Oculance nuovo
fiammante. Anche quello si adattò fino a calzarmi perfettamente. Il visore scansionò le mie
retine e il sistema mi richiese la frase d’accesso.
Feci un respiro profondo ed entrai.

0034
Ero pronto a darci dentro.
Il mio avatar era tirato a lucido e armato fino ai denti. Stavo stipando nel mio inventario
quanti più oggetti magici e munizioni possibile.
Tutto era al proprio posto. Il nostro piano era avviato. Era il momento di muoversi.
Entrai nell’hangar della mia fortezza e spinsi il tasto di apertura del portellone sul muro.
Le porte si schiusero lentamente e svelarono il tunnel di lancio che portava su, fino alla
superficie di Falco. Raggiunsi un’estremità della pista, lasciandomi alle spalle l’X-wing e il
Vonnegut. Non li avrei usati, in quell’occasione. Erano buone navi, con armi e difese
formidabili, ma nessuna delle due mi avrebbe offerto una protezione adeguata nell’epica
tempesta di merda che si sarebbe abbattuta su Chthonia. Fortunatamente, ora avevo un
nuovo mezzo di trasporto.
Tolsi il Leopardon di trenta centimetri dall’inventario e lo poggiai delicatamente sulla
pista. Poco prima di essere arrestato dalla ioi, mi ero preso un po’ di tempo per esaminare
il Leopardon giocattolo e studiarne i poteri. Come sospettavo, in verità il robot era un
artefatto. Non mi ci era voluto molto per capire il comando con cui attivarlo. Come nella
serie tv originale Supaidaman della Toei, il robot veniva evocato semplicemente gridando
il suo nome. E così feci allora, avendo l’accortenza di indietreggiare un bel po’ prima di
gridare «Leopardon!» Sentii un urlo acuto come lo stridio del metallo lacerato. Un secondo
più tardi, l’ex robottino raggiungeva un’altezza di quasi cento metri. La testa fuoriusciva
dal portellone aperto sul soffitto dell’hangar.
Osservai l’imponenza del robot, ammirando l’attenzione ai dettagli che Halliday aveva
posto nella programmazione. Era stato riprodotto ogni tratto del disegno originale
giapponese, compresa la spada scintillante e lo scudo con l’incisione a forma di ragnatela.
Nascosta nel piede sinistro, una minuscola porta d’accesso si aprì non appena mi
avvicinai; al suo interno, un piccolo ascensore mi trasportò lungo la gamba e il busto del
robot, fino all’abitacolo che si trovava all’interno del petto corazzato. Mentre mi sedevo
nella poltrona di guida, notai un braccialetto di controllo d’argento, chiuso in una teca
trasparente. Lo presi e lo allacciai al polso del mio avatar. Il braccialetto mi avrebbe
permesso di impartire comandi vocali a Leopardon quando non ero al suo interno. La
console che mi trovai di fronte era piena di pulsanti, tutti contrassegnati in giapponese. Ne
premetti uno e i motori si avviarono con un ruggito. Poi pigiai l’acceleratore e i due razzi
posti nei piedi del robot si accesero, lanciandolo in alto, fuori dalla fortezza e poi nel cielo
stellato di Falco.
Notai che Halliday aveva montato un mangianastri a otto tracce nel pannello di controllo
dell’abitacolo. E, alle mie spalle, sulla destra, notai uno scaffale di cassette da otto tracce.
Ne presi una e la schiaffai nel registratore. Gli altoparlanti interni ed esterni iniziarono a
sparare Dirty Deeds Done Dirt Cheap degli ac/dc così forte che il mio sedile cominciò a
vibrare.
Non appena il robot fu fuori dall’hangar, gridai «Cambia in Marveller!» nel braccialetto di
controllo (a quanto pare, i comandi vocali funzionavano solo se gridavi). Le braccia, le
gambe e la testa del robot si ripiegarono verso l’interno e si richiusero in una nuova
posizione, trasformandolo in un’astronave nota come Marveller. Una volta completata la
trasformazione, abbandonai l’orbita di Falco e preparai la rotta verso lo stargate più
vicino.
Quando riemersi dallo stargate nel Settore 1o, lo schermo del mio radar si illuminò come
un albero di Natale. Migliaia di veicoli spaziali di ogni forma e modello strisciavano
nell’oscurità stellata intorno a me; c’era di tutto, dalle navicelle monoposto ai cargo grandi
come una luna. Non avevo mai visto tante astronavi tutte insieme. Un flusso costante si
riversava fuori dallo stargate, mentre altre navi convergevano nell’area, da ogni punto del
cielo. Tutte le navicelle gradualmente si mettevano in fila, formando una lunga carovana
disordinata che si snodava verso Chthonia, una minuscola sfera blu-marrone sospesa in
lontananza. Sembrava che ogni singola persona su OASIS fosse diretta verso Castle
Anorak. Provai un’improvvisa scarica di euforia, anche se sapevo che il dubbio di Art3mis
avrebbe comunque potuto rivelarsi fondato: c’era la possibilità concreta che la maggior
parte degli avatar fosse lì per godersi lo spettacolo e non avesse la minima intenzione di
rischiare la vita per combattere i Sixer.
Art3mis. Dopo tutto questo tempo, era in una stanza a pochi metri da me. Quando la
battaglia fosse finita, ci saremmo incontrati di persona. Il pensiero avrebbe dovuto
terrorizzarmi ma, invece, fui investito da una tranquillità zen: qualsiasi cosa dovesse
succedere su Chthonia, tutti i rischi che avevo corso erano già stati ripagati.
Ritrasformai il Marveller in robot, poi mi unii alla lunga sfilata di astronavi. Spiccava nel
vasto assortimento perché il mio era l’unico robot gigante. Una nube di navicelle più
piccole si formò subito intorno a me, pilotata da avatar curiosi che si avvicinarono per
osservare Leopardon più da vicino. Fui costretto a togliere l’audio al comlink perché in
troppi cercavano di chiamarmi, chiedendo chi diavolo fossi e dove avessi trovato un
veicolo così figo.
Via via che Chthonia si stagliava, sempre più ravvicinata, sui vetri della cabina di
pilotaggio, la densità e il numero di navi intorno a me aumentava esponenzialmente.
Quando infine entrai nell’atmosfera del pianeta e cominciai a planare sulla superficie, fu
come volare in uno sciame di insetti metallici. Quando raggiunsi l’area intorno a Castle
Anorak, stentai a credere ai miei occhi. Una massa concentrata e pulsante di navi e di
avatar ricopriva il suolo e riempiva il cielo. Era come trovarsi in una Woodstock
ultraterrena. Fianco a fianco, una serie di avatar si sparpagliavano fino alla linea
dell’orizzonte, in tutte le direzioni. E migliaia di altri volavano o fluttuavano in aria,
intenti a scansare il flusso costante di navi. E, fermo al centro di questa follia, c’era Castle
Anorak, un gioiello d’onice che riluceva sotto lo scudo trasparente dei Sixer. Ogni
secondo, qualche sventurato avatar andava a sbattere contro lo scudo e veniva vaporizzato
come un insetto in un friggizanzara.
Quando mi avvicinai, notai una porzione di terreno libera, davanti all’entrata del castello,
appena fuori dallo scudo. Tre figure gigantesche si ergevano, una di fianco all’altra, al
centro dello spazio. La folla intorno a loro cercava continuamente di avvicinarsi e poi si
ritraeva, con gli avatar che si spintonavano all’indietro per mantenere una distanza
rispettosa da Aech, Art3mis e Shoto, ciascuno dei quali sedeva nel proprio robot lucente.
Per la prima volta vidi le macchine che Aech, Art3mis e Shoto avevano selezionato dopo
aver superato la Seconda Porta, e impiegai qualche istante in più a riconoscere l’imponente
robot femmina pilotato da Art3mis. Era nero cromato, con un elaborato elmetto a forma di
boomerang e, sul petto, due scudi rossi simmetrici che la facevano sembrare una sorta di
versione femminile di Mazinga Z. Poi capii che quella era la versione femminile di
Mazinga Z, un personaggio semisconosciuto della serie originale che portava il nome di
Minerva X.
Aech aveva scelto un Gundam RX-78 dalla serie anime Mobile Suit Gundam, che lui
adorava da sempre. (Benché ormai sapessi che Aech era una ragazza nella vita vera, il suo
avatar rimaneva un maschio, perciò decisi di continuare a pensarlo come tale).
Shoto si ergeva più in alto di tutti, nascosto nell’abitacolo di Raideen, l’enorme robot rosso
e blu di Yuusha Raideen, direttamente dalla metà degli anni settanta. La gigantesca
macchina stringeva in una mano il suo tipico arco e nell’altra reggeva un grosso scudo
pieno di spuntoni.
Tra la folla salì un boato quando mi abbassai, appena sopra lo scudo, e sfrecciai sopra gli
altri, fino a fermarmi in mezzo a loro. Ruotai il mio orientamento così che Leopardon fosse
in posizione verticale, poi spensi i motori e, per la distanza che mi restava, mi lasciai
cadere al suolo. Il robot atterrò su un ginocchio e l’impatto fece tremare la terra. Quando lo
rimisi in piedi, il mare di presenti cominciò a gridare il nome del mio avatar. Par-zi-val!
Par-zi-val!
Mentre le grida tornavano a essere un boato indistinto, mi voltai verso i miei compagni.
«Che entrata da tamarro» disse Art3mis, usando il nostro canale comlink privato. «È per
questo che sei arrivato tardi?»
«Non è stata colpa mia, lo giuro» dissi, ostentando nonchalance. «Coda allo stargate.»
Aech fece cenno di sì con la sua enorme testa robotica. «Tutte le stazioni di trasporto del
pianeta stanno sputando avatar da ieri sera» disse, indicando con la gigantesca mano da
Gundam la scena che ci circondava. «È irreale. Mi sorprende che i server GSS riescano a
gestire il carico, con tanta attività concentrata in un solo settore. Ma non sembra ci sia
alcun ritardo.» Mi soffermai a osservare l’oceano di avatar intorno a noi, poi la mia
attenzione si concentrò nuovamente sul castello.
Migliaia di navicelle e di avatar volanti continuavano a ronzare attorno allo scudo e di
tanto in tanto sparavano proiettili, laser, missili e quant’altro. Ma tutto rimbalzava sulla
superficie dello scudo senza provocare alcun danno.
All’interno della sfera, migliaia di avatar Sixer, armati di tutto punto, erano appostati
attorno al castello, in silenzio. Sparse tra loro, c’erano anche file di hovertank e navicelle
d’assalto. In qualsiasi altro momento, l’esercito Sixer sarebbe apparso spaventoso. Persino
inarrestabile. Ma in confronto all’infinita massa che li circondava, i Sixer sembravano
penosamente in minoranza e sfavoriti.
«Allora, Parzival» disse Shoto voltando la gigantesca testa di robot verso di me. «È ora di
andare in scena, vecchio mio. Se quella sfera non viene giù come avevi promesso, sarà un
bel po’ imbarazzante.»
«Han deve far saltare lo scudo» citò Aech. «Dobbiamo dargli più tempo.» Risi, poi con la
mano destra del mio robot gli picchiettai il polso sinistro, mostrandogli l’ora. «Abbi
pazienza. Mancano ancora sei minuti a mezzogiorno.» La fine della mia frase fu sommersa
da un nuovo boato della folla. Proprio davanti a noi, dentro la sfera, le imponenti porte di
Castle Anorak si erano appena spalancate, e ne stava uscendo un solo avatar.
Sorrento.
Ghignando davanti al frastuono della derisione e dei fischi che accolsero il suo arrivo,
Sorrento fece un cenno alle truppe Sixer appostate davanti al castello, che si
sparpagliarono immediatamente lasciando un grande spazio aperto. Sorrento si piazzò
all’interno, pochi metri davanti a noi, dall’altro lato dello scudo. Altri dieci avatar Sixer
emersero dal castello e si schierarono dietro a Sorrento, tenendosi a una buona distanza
l’uno dall’altro.
«Non mi dice niente di buono» mormorò Art3mis al microfono.
«Già» sussurrò Aech. «Neanche a me.» Sorrento passò in rassegna la scena che gli si
presentava, poi guardò in su e ci sorrise. Quando parlò, la sua voce venne amplificata dai
potenti altoparlanti delle navicelle e degli hovertank Sixer, in modo che lo potessero
sentire tutti coloro che si trovavano nella zona. E, poiché erano presenti telecamere e
cronisti delle più importanti agenzie di newsfeed, sapevo che le sue parole sarebbero state
trasmesse a tutto il mondo.
«Benvenuti a Castle Anorak» disse Sorrento. «Vi aspettavamo.» Fece un ampio gesto con
la mano, indicando la folla inferocita che lo circondava. «Devo ammettere che siamo un
po’ sorpresi di constatare che siete accorsi così numerosi. Ormai dovrebbe essere ovvio,
anche ai più disinformati di voi, che niente può attraversare il nostro scudo.» Il suo
proclama venne accolto da un’assordante raffica di minacce, insulti e bestemmie colorite.
Per un momento aspettai, poi alzai entrambe le mani del mio robot, invocando la calma.
Quando, finalmente, discese una parvenza di silenzio, passai al canale di comunicazioni
pubbliche, il che ebbe lo stesso effetto di accendere uno smisurato sistema di
amplificazione. Abbassai il volume delle mie cuffie al minimo per ridurre l’eco, poi dissi:
«Ti sbagli, Sorrento. Noi entriamo. A mezzogiorno. Entriamo tutti».
Un ruggito di approvazione esplose tra i Gunter radunati. Sorrento non aspettò nemmeno
che si affievolisse. «Siete i benvenuti se volete tentare» disse, mantenendo il suo sorrisetto.
Poi estrasse un oggetto dal suo inventario e lo piazzò al suolo, davanti a sé. Zoomai per
guardarlo più da vicino e sentii la mascella che mi si serrava. Era un robot giocattolo. Un
dinosauro bipede con la pelle corazzata e due cannoni montati sulle scapole. Lo riconobbi
immediatamente, veniva da una serie di filmacci giapponesi di mostri che uscirono alla
fine del secolo scorso.
Era Mechagodzilla.
«Kiryu!» gridò Sorrento, la voce ancora amplificata. Al suono della parola, il suo piccolo
artefatto s’ingrandì istantaneamente fin quasi a raggiungere l’altezza di Castle Anorak,
due volte più grosso dei robot «giganti» che io, Aech, Shoto e Art3mis pilotavamo. La testa
corazzata del lucertolone meccanico sfiorava lo scudo sferico.
Un silenzio sconvolto cadde sulla folla, seguito dal mormorio terrorizzato delle migliaia di
Gunter presenti. Avevano riconosciuto tutti l’enorme bestia metallica. E tutti sapevano che
era praticamente indistruttibile.
Sorrento entrò nel robot tramite la porta d’accesso situata in uno dei giganteschi talloni.
Pochi secondi dopo, gli occhi della bestia brillavano di un giallo acceso. Poi buttò indietro
la testa, spalancò le fauci dentellate ed emise un lacerante ruggito metallico.
Al segnale, i dieci Sixer alle spalle di Sorrento estrassero i loro artefatti e li attivarono.
Cinque di loro avevano preso i titanici leoni robot che formano Voltron. Gli altri cinque si
erano accaparrati bestioni giganti da Robotech e Neon Genesis Evangelion.
«Oh cazzo» bisbigliarono all’unisono Art3mis ed Aech.
«Fatevi sotto!» gridò Sorrento, con un tono di sfida. Le sue parole riecheggiarono per tutto
il campo affollato.
Molti Gunter delle prime file fecero un passo indietro senza rendersene conto. Alcuni si
voltarono e fuggirono via. Ma io, Aech, Shoto e Art3mis mantenemmo le nostre posizioni.
Controllai l’ora sul display. Mancava meno di un minuto. Spinsi un pulsante sul pannello
di controllo di Leopardon e il mio enorme robot estrasse la spada scintillante.
Non assistetti in prima persona, ma posso raccontarvi con sufficiente certezza che ciò che
accadde in seguito fu questo: Dietro Castle Anorak, i Sixer avevano eretto un ampio
bunker rinforzato, pieno di armi e attrezzature da combattimento che i Sixer avevano
trasportato dai prima dell’attivazione dello scudo. Conteneva anche un reparto con trenta
droidi di scorta, installato lungo il muro orientale del bunker. A causa della scarsa
creatività del progettista, i droidi di scorta erano tutti copie di «Johnny Five», da Corto
Circuito, film del 1986. I Sixer li utilizzavano principalmente come fattorini, per fare
commissioni e riempire moduli di richiesta munizioni o equipaggiamento per le truppe
appostate fuori.
Mancava esattamente un minuto a mezzogiorno quando uno dei droidi di scorta, il
numero SD-03, si accese da solo e si sganciò dalla piattaforma di ricarica. Poi scivolò sui
suoi cingoli, lungo il pavimento del bunker, fino a raggiungere l’arsenale sul lato opposto.
Fuori dall’arsenale si trovavano due sentinelle robot. SD-03 trasmise loro il suo modulo di
richiesta equipaggiamento – ordine che io stesso avevo compilato e inserito nell’intranet
dei Sixer, due giorni prima. Le sentinelle verificarono la richiesta e si fecero da parte,
permettendo a SD-03 di procedere all’interno. Proseguì sfilando accanto a lunghi scaffali
carichi di un’enorme scelta di armamenti: spade magiche, scudi, armature rinforzate, fucili
al plasma, cannoni a rotaia e un numero imprecisato di altre armi. Finalmente, il droide si
fermò. Il ripiano di fronte al quale si trovava conteneva cinque dispositivi a forma di
ottaedro, ognuno dei quali aveva le dimensioni di un pallone da calcio. Tutti i dispositivi
avevano un piccolo pannello di controllo inserito in uno degli otto lati, e un numero
seriale. SD-03 individuò il numero seriale che combaciava con quello del mio modulo di
richiesta. Poi, seguendo la serie di istruzioni che avevo programmato, il piccolo droide usò
il suo indice a forma d’artiglio per inserire una sequenza di comandi nel pannello di
controllo del dispositivo. Quando ebbe finito, una piccola luce sopra il tastierino numerico
passò da verde a rossa. SD-03 prese l’ottaedro tra le braccia. Quando uscì dall’arsenale,
una Bomba d’Antimateria a Frizione-Induzione era stata sottratta dall’inventario
computerizzato dei Sixer.
Poi SD-03 uscì dal bunker e cominciò a salire le rampe e le scalinate che i Sixer avevano
costruito sulle mura esterne del castello, per offrire un accesso ai piani superiori. Lungo la
strada, il droide superò svariati posti di controllo. Ogni volta, sentinelle robot
scansionavano l’autorizzazione di sicurezza e verificavano che il droide fosse autorizzato
ad andare dove diavolo gli pareva. Quando SD-03 raggiunse il piano più alto di Castle
Anorak, si spinse fino a un’ampia piattaforma d’osservazione.
A questo punto è possibile che SD-03 abbia attirato qualche occhiata incuriosita da parte
della divisione di Sixer d’élite che sorvegliavano la piattaforma. Non posso saperlo. Ma,
anche se le guardie previdero, in un modo o nell’altro, quello che sarebbe successo e
aprirono il fuoco sul piccolo droide, era ormai troppo tardi perché potessero fermarlo.
SD-03 procedette fino al centro del tetto, dove sedeva un mago Sixer di alto livello che
stringeva tra le mani la Sfera di Osuvox – l’artefatto che generava lo scudo sferico.
Poi, eseguendo l’ultima delle istruzioni che gli avevo impartito programmandolo due
giorni prima, SD-03 sollevò sopra la testa la Bomba d’Antimateria a frizione-induzione e la
innescò.
L’esplosione vaporizzò il droide di scorta, insieme a tutti gli avatar appostati sulla
piattaforma, compreso il mago Sixer che controllava la Sfera di Osuvox. Nel momento
esatto in cui il mago morì, l’artefatto si disattivò e cadde sulla piattaforma ormai deserta.

0035
L’esplosione fu accompagnata da una luce brillante che per un momento mi accecò.
Quando tornai a vedere, i miei occhi si fissarono di nuovo sul castello. Lo scudo era
caduto. Niente separava i potenti Sixer e gli eserciti Gunter se non un campo libero e uno
spazio aperto.
Per qualcosa come cinque secondi non accadde nulla. Il tempo sembrò fermarsi e tutto
rimase silenzioso e immobile. Poi si scatenò l’inferno.
Solo, seduto nell’abitacolo del mio robot, mi lasciai sfuggire un silenzioso grido di
esultanza. Incredibilmente, il mio piano aveva funzionato. Ma non avevo tempo per
festeggiare, perché ero in piedi nel bel mezzo della più grande battaglia della storia di
OASIS.
Non sapevo più cosa aspettarmi. Avevo sperato che un decimo dei Gunter presenti si
sarebbe unito al nostro assalto ai Sixer. Ma, in pochi secondi, mi fu chiaro che ogni singolo
Gunter aveva intenzione di prendere parte al combattimento. Un grido feroce di battaglia
si levò dall’oceano di avatar che ci circondava, poi tutti avanzarono, convergendo
sull’armata Sixer da ogni direzione. Quella totale mancanza di esitazione mi sbalordì,
poiché era ovvio che molti di loro stavano correndo verso una morte certa.
Osservai meravigliato le due potenti divisioni che si scontravano, intorno a me, sia in terra
che in cielo. Fu una scena caotica, mozzafiato, come se qualcuno avesse schiacciato
migliaia di alveari e nidi di vespe l’uno contro l’altro e poi li avesse lasciati cadere su un
gigantesco formicaio.
E io, Art3mis, Aech e Shoto stavamo nel centro. Dapprima non mi mossi, per paura di
schiacciare l’ondata di Gunter che si accalcavano attorno ai miei piedi di robot. Sorrento,
invece, non attese che le persone si togliessero di mezzo. Schiacciò, con i piedi titanici del
suo bestione, diverse dozzine di avatar (incluse le sue stesse truppe) mentre si dirigeva
goffamente verso di noi. Ciascuno dei suoi passi creava un piccolo cratere sulla superficie
rocciosa del pianeta.
«Uh-oh» mormorò Shoto, mentre il suo robot assumeva l’assetto da difesa. «Eccolo che
arriva.» I robottoni dei Sixer si trovavano già sotto l’incredibile intensità del fuoco nemico,
proveniente da ogni direzione. Sorrento era il bersaglio più colpito, perché il suo robot era
l’obiettivo più grande sul campo di battaglia, e pareva proprio che nessun Gunter in
possesso di un’arma da lancio riuscisse a resistere alla tentazione di sparargli addosso
qualcosa. Rapidamente, la violenta raffica di proiettili, sfere di fuoco, missili magici e raggi
laser distrusse o mise fuori uso gli altri robot Sixer (che non ebbero nemmeno il tempo di
formare Voltron). Ma il robot di Sorrento, chissà perché, rimaneva intatto. Tutti i proiettili
che lo colpivano rimbalzavano sulla sua corazza senza provocare alcun danno. Decine di
navicelle gli ronzavano attorno e gli piombavano addosso, cospargendo la sua macchina
di missili, ma gli attacchi sembravano avere una scarsissima efficacia.
«Riscossa!» gridò Aech nel comlink. «Riscossa come in Alba rossa!» E, detto questo, lanciò
tutta la sua potenza di fuoco contro Sorrento. In quello stesso istante, Shoto iniziò a
colpirlo con l’arco di Raideen, mentre Art3mis sparava con una sorta di raggio energetico
rosso che sembrava originarsi dalle enormi tette d’acciaio di Minerva X. Per non sentirmi
escluso, iniziai a lanciare il Diadema Boomerang di Leopardon, un boomerang dorato che
partiva dalla fronte del robot. Tutti i nostri colpi andarono a segno, ma solo il raggio di
Art3mis parve causare qualche danno a Sorrento. Staccò un pezzo di scapola destra al
lucertolone di metallo e mise fuori uso il cannone lì sopra. Ma Sorrento non fermò la sua
avanzata. Mentre si avvicinava a noi, gli occhi di Mechagodzilla cominciarono a brillare di
un blu acceso. Poi Sorrento aprì la bocca e sparò fuori dalle fauci una tempesta di saette e
fulmini blu. Il raggio colpì il terreno davanti a noi e scavò un solco, profondo e fumante
nella terra, mentre lui procedeva, vaporizzando ogni avatar e navicella che incontrava
sulla sua strada. Noi quattro riuscimmo a schivarlo lanciando i nostri robot verso il cielo,
anche se per poco non fui colpito in pieno. Un secondo dopo, la bocca di fulmini si
richiuse, ma Sorrento continuò ad avanzare piano. Mi accorsi che gli occhi del suo robot
non brillavano più di blu. A quanto pare, l’arma di fulmini richiedeva del tempo per
ricaricarsi.
«Mi sa che siamo al mostro finale» scherzò Aech via comlink. Eravamo tutti e quattro
sospesi in aria e circondavamo Sorrento, diventando noi stessi dei bersagli in movimento.
«Ragazzi, cazzo» dissi. «Non penso che possiamo distruggere questo affare.»
«Osservazione astuta, Z» disse Art3mis. «Hai qualche idea brillante?» Riflettei per un
istante. «Cosa ne pensate se io lo distraggo mentre voi tre lo aggirate e correte all’entrata
del castello?»
«Mi pare un buon piano» rispose Shoto. Ma, anziché dirigersi verso il castello, si inclinò e
volò dritto verso Sorrento, annullando in pochi secondi la distanza che c’era fra loro.
«Andate!» gridò nel comlink. «Questo bastardo è tutto mio!» Aech lo superò da destra e
Art3mis scese da sinistra, mentre io mi feci strada volandogli sopra. Sotto di me, vedevo
Shoto sospeso in volo sopra a Sorrento, e la differenza d’altezza dei loro robot era
spaventosa. Accanto al mastodontico drago di metallo di Sorrento, il robot di Shoto
sembrava un modellino. Ciononostante, Shoto spense i propulsori e scese a terra proprio
davanti al Mechagodzilla.
«Presto» gridò Aech. «L’entrata del castello è spalancata!» Dalla mia posizione favorevole,
nel cielo, vedevo le milizie Sixer che circondavano il castello prese d’assalto dalla folla
infinita degli avatar nemici. Le difese Sixer erano scompaginate, e centinaia di Gunter si
insinuavano tra di loro e correvano verso l’entrata aperta del castello, soltanto per
scoprire, una volta arrivati, che non potevano varcare la soglia perché non possedevano
una copia della Chiave di Cristallo.
Aech si lanciò proprio di fronte a me. Si trovava ancora a una trentina di metri dal suolo
quando aprì il portellone dell’abitacolo del suo Gundam e saltò fuori, sussurrando, nello
stesso istante, la parola d’ordine del robot. Non appena Gundam riprese la sua
dimensione originale, lo afferrò e lo ripose nell’inventario. Volando con qualche tecnica
magica, l’avatar di Aech scese in picchiata, superò l’imbottigliamento formato dai Gunter
che bloccavano l’entrata e scomparve attraverso la porta. Un secondo più tardi, Art3mis
eseguì una manovra simile, infilando (quando era ancora a mezz’aria) il suo robot
nell’inventario e volando dentro il castello, subito dopo Aech.
Mi lanciai con Leopardon in un tuffo perfetto e mi preparai a seguirli.
«Shoto» gridai nel microfono. «Stiamo entrando! Vieni!»
«Voi andate avanti» rispose Shoto. «Io vi raggiungo.» Ma qualcosa, nel tono della sua
voce, mi preoccupò. Mi rialzai in volo e girai il mio robot. Shoto era sospeso sopra
Sorrento, all’altezza del suo fianco destro. Lentamente, Sorrento voltò il suo robot e si
rincamminò a passi pesanti verso il castello. Solo ora capivo che il punto debole del suo
robot era la scarsa velocità. La lentezza dei movimenti e degli attacchi di Mechagodzilla
controbilanciavano la sua apparente invulnerabilità.
«Shoto!» gridai. «Che aspetti? Vieni!»
«Andate senza di me» disse Shoto. «Ho un conto in sospeso con questo figlio di puttana.»
Non feci in tempo a rispondere che Shoto si tuffò verso Sorrento, brandendo con entrambe
le mani una spada gigantesca. Le lame si infilarono nel fianco destro di Sorrento,
producendo una pioggia di scintille e, con mia grande sorpresa, causarono qualche danno.
Quando il fumo si dissipò, vidi che il braccio destro di Mechagodzilla pendeva inerte. Era
quasi staccato all’altezza del gomito.
«Sembra proprio che il culo dovrai pulirtelo con la sinistra da oggi in poi, Sorrento!» gridò
Shoto trionfante. Poi sparò i razzi di Raideen e si diresse dalla mia parte, verso il castello.
Ma Sorrento aveva già ruotato la testa del suo robot e stava mirando verso Shoto con un
paio d’occhi blu acceso.
«Shoto!» gridai. «Attento!» Ma la mia voce fu sovrastata dal frastuono dei fulmini sparati
dalla bocca del drago d’acciaio. Centrarono la macchina di Shoto proprio in mezzo alla
schiena. Il robot esplose in una palla di fuoco arancione.
Percepii una scarica di elettricità statica nel canale comunicazioni. Chiamai di nuovo
Shoto, ma lui non rispose. Poi, sul mio display lampeggiò un messaggio: mi informava che
il nome di Shoto era scomparso dal Segnapunti.
Era morto.
Per un momento rimasi completamente stordito, il che fu un errore, perché Sorrento stava
ancora sparando i suoi fulmini, che descrivevano un ampio arco attraverso il terreno e poi
procedevano in diagonale, contro le mura del castello, verso di me. Riuscii a reagire
(troppo tardi) e Sorrento colpì il mio robot nel bassoventre, mezzo secondo prima che il
raggio si esaurisse.
Guardai giù e scoprii che la metà inferiore del mio robot era appena saltata via. Tutti gli
indicatori dell’abitacolo iniziarono a lampeggiare e il mio robot crollò al suolo in due metà
fumanti.
Non so bene come, ma ebbi la prontezza di allungare una mano e dare uno strattone alla
maniglia di espulsione sopra il sedile. Il tetto dell’abitacolo si spalancò e io saltai giù dal
robot in caduta libera, un secondo prima che rovinasse sulla scalinata del castello,
sterminando le decine di avatar che vi si accalcavano.
Accesi i razzi sugli stivali appena in tempo, prima di cadere al suolo e, rapidamente,
ricalibrai i controlli del mio set immersivo perché, a questo punto, stavo di nuovo
controllando il mio avatar e non più un robot gigante. Riuscii a cadere in piedi di fronte al
castello, a poca distanza dalle rovine fiammeggianti del Leopardon. Appena fui atterrato,
su di me calò un’ombra; mi voltai e vidi il robot di Sorrento che oscurava il cielo. Sollevò
l’enorme piede destro e si preparò a schiacciarmi.
Presi una rincorsa di tre passi e saltai, riaccendendo gli stivali a mezz’aria. La spinta mi
gettò in là proprio nel momento in cui Mechagodzilla scaraventò il suo piedone artigliato a
terra, formando un cratere nel punto esatto in cui mi trovavo appena un istante prima. La
bestia di ferro emise un altro grido lancinante, seguito dal rimbombo di una risata
cavernosa. La risata di Sorrento.
Spensi i razzi sui miei stivali e raggomitolai il mio avatar. Caddi a terra rotolando,
continuai così per un po’, poi mi rialzai su due piedi. Strinsi gli occhi per guardare la testa
del lucertolone di ferro. I suoi occhi non stavano brillando. Non ancora. Avrei potuto
riaccendere i miei stivali ed entrare nel castello prima che Sorrento avesse modo di
colpirmi. Non avrebbe potuto seguirmi all’interno, non senza uscire dal suo ingombrante
robot.
Sentivo Art3mis ed Aech che mi urlavano dal comlink. Erano già dentro, di fronte alla
porta, e mi aspettavano.
Non dovevo fare altro che volare nel castello e unirmi a loro. In tre, avremmo potuto
aprire la porta ed entrarci prima che Sorrento ci raggiungesse. Ne ero sicuro.
Ma non mi mossi. Estrassi, invece, la Capsula Beta e tenni il piccolo cilindro metallico in
una mano.
Sorrento aveva cercato di uccidermi. E, nel farlo, aveva ucciso mia zia e molti dei miei
vicini, compresa la dolce signora Gilmore, che non aveva mai fatto male ad anima viva.
Aveva anche ucciso Daito e, anche se non l’avevo mai incontrato, Daito era mio amico.
E Sorrento aveva appena ucciso l’avatar di Shoto, depredandolo della possibilità di entrare
nella Terza Porta. Sorrento non si meritava il potere e la posizione che aveva. Ciò che si
meritava, decisi in quel momento, era la pubblica umiliazione e la sconfitta. Si meritava
che qualcuno gli rompesse il culo mentre era sotto gli occhi del mondo intero.
Tenni alta sulla testa la Capsula Beta e attivai l’artefatto.
Seguì un lampo di luce accecante; il cielo si colorò di rosso mentre il mio avatar cambiava
forma, crescendo e trasformandosi in un umanoide alieno gigante con un’armatura rossa e
argento, occhi incandescenti a forma d’uovo, una strana testa pinnata e una luce brillante
incassata nel mezzo del petto. Per tre minuti sarei stato Ultraman.
Mechagodzilla smise di urlare e di dibattersi. Il suo sguardo era rimasto fisso al suolo, nel
punto in cui si trovava il mio avatar fino a un secondo prima. Alzò la testa di scatto,
soppesando le dimensioni del suo nuovo avversario, e i nostri occhi incandescenti si
incrociarono. Ero faccia a faccia con il robot di Sorrento, combaciavamo quasi
perfettamente per altezza e dimensioni.
Il bestione di Sorrento fece una serie di goffi passi indietro.
Io accennai a rannicchiarmi e assunsi un assetto d’attacco, notando che, sul mio display,
era appena apparso il conto alla rovescia di tre minuti.
2:59. 2:58. 2:57.
Sotto il timer trovai un menu che indicava i vari attacchi energetici di Ultraman in
giapponese. Rapidamente, selezionai il raggio Specium. Poi alzai le braccia davanti al
petto, tenendone una orizzontale e l’altra verticale, a formare una croce. Un raggio
energetico, bianco e pulsante, fu sparato dai miei avambracci, e colpì il petto del
Mechagodzilla, scagliandolo all’indietro. Senza più l’equilibrio, Sorrento perse il controllo
della macchina e inciampò nei suoi stessi piedi mastodontici. Il suo robot caracollò a terra.
Il migliaio di avatar che osservava la scena dal caos del campo di battaglia proruppe in
un’ovazione.
Io spiccai un salto e volai in cielo per mezzo chilometro. Poi ricaddi di piedi, puntando i
talloni alla spina dorsale ricurva di Mechagodzilla. Quando i miei piedi colpirono la bestia
di ferro, sentii che qualcosa si spezzava sotto il mio peso. Dalla bocca del drago iniziò a
uscire del fumo, e il blu acceso dei suoi occhi si spense rapidamente.
Con un salto mortale all’indietro, atterrai accovacciato alle spalle del robot steso a terra. Il
suo unico braccio funzionante si agitava convulsamente, coda e gambe non smettevano di
dimenarsi. Era evidente che Sorrento stava lottando contro i comandi nello sforzo di far
rialzare la bestia.
Dal menu armi selezionai Yatsuaki Kohrin: Ultra-Slash. Una sega circolare di energia blu
elettrico mi apparve nella mano destra, roteando ferocemente. La gettai contro Sorrento,
con un colpetto del polso, come fosse un frisbee. Turbinò nell’aria e colpì il Mechagodzilla
in mezzo allo stomaco. La lama energetica affettò la corazza ferrosa come se fosse tofu,
spezzando il robot a metà. Un attimo prima che l’intera macchina esplodesse, la testa si
staccò dal collo: Sorrento si era catapultato fuori. Ma, poiché il robot era a terra, la testa
venne sparata lungo una traiettoria parallela al terreno. Sorrento cercò di ricalibrarla al
volo, mentre e i razzi che schizzavano fuori dalla sua testa iniziarono a spingerla in su,
verso il cielo. Prima che potesse andare lontano, incrociai di nuovo le braccia e sparai un
altro raggio Specium, colpendo la testa volante quasi fosse un piattello. Si disintegrò in
un’esplosione immensamente liberatoria.
La folla impazzì.
Controllai il Segnapunti per avere la conferma che il numero di matricola di Sorrento fosse
scomparso. Il suo avatar era morto. Questa consapevolezza non mi diede troppa
soddisfazione, comunque, perché sapevo che Sorrento probabilmente stava già buttando
giù dalla sedia aptica uno dei suoi lacché per prendere il controllo di un nuovo avatar.
Quando disattivai la Capsula Beta, sul contatore del display non restavano che quindici
secondi. L’avatar si rimpicciolì istantaneamente e il mio aspetto tornò quello di sempre.
Poi girai su me stesso, riaccesi i razzi sui miei stivali e volai fin dentro il castello.
Quando raggiunsi il lato opposto della sala, vidi Aech e Art3mis in piedi davanti alla Porta
di Cristallo. Mi aspettavano. I cadaveri fumanti e insanguinati di una dozzina di avatar
Sixer erano sparpagliati sulle pietre del pavimento e stavano svanendo lentamente. A
quanto pareva, c’era stata una breve ma decisiva scaramuccia e io me l’ero persa.
«Così non vale» dissi, spegnendo i razzi e lasciandomi cadere a terra, accanto a Aech.
«Avreste potuto lasciarmene almeno uno.» Art3mis non rispose. Mi mostrò il dito medio.
«Congratulazioni per aver fatto fuori Sorrento» disse Aech. «Senz’altro un trionfo epico.
Ma rimani un idiota totale, lo sai vero?»
«Sì» scrollai le spalle. «Lo so.»
«Sei proprio un coglione egoista!» gridò Art3mis. «E se avesse ucciso anche te?»
«Ma non l’hanno fatto. Sbaglio?» dissi, passandole accanto per esaminare la Porta di
Cristallo. «Quindi rilassati e apriamo questa cosa.» Esaminai la serratura al centro della
porta, poi osservai le parole incise nella superficie sfaccettata della porta poco più in alto.
Carità. Speranza. Fede.
Estrassi la mia copia della Chiave di Cristallo e la tenni alta. Aech e Art3mis fecero lo
stesso.
Non accadde nulla.
Ci scambiammo uno sguardo preoccupato. Poi mi venne un’idea, e mi schiarii la gola.
«Three is a magic number» dissi, recitando il primo verso del pezzo di Schoolhouse Rock!
Non appena pronunciai queste parole, la porta di cristallo cominciò a brillare e apparvero,
ai lati della prima, altre due serrature.
«Ha funzionato!» sussurrò Aech. «Porca puttana. Non posso crederci. Siamo davvero qui.
Di fronte alla Terza Porta.» Art3mis annuì. «Finalmente.» Infilai la chiave nella serratura al
centro. Aech la inserì a sinistra e Art3mis mise la sua nella serratura di destra.
«Senso orario?» chiese Art3mis. «Al mio tre?» Io ed Aech annuimmo. Art3mis contò fino a
tre e, contemporaneamente, girammo le chiavi. Seguì un lampo di luce blu, durante il
quale le nostre chiavi svanirono insieme alla porta. La Terza Porta era lì, aperta di fronte a
noi, un’entrata di cristallo affacciata su un vortice di stelle.
«Wow» sentii che Art3mis sussurrava accanto a me. «Avanti.» Mentre tutti e tre facevamo
un passo avanti, preparandoci a varcare la soglia, udii un boato assordante. Era come se
l’intero universo si stesse spezzando in due.
Poi morimmo tutti.

0036
Quando un avatar viene ucciso, lo schermo non diventa subito nero. Al contrario, il punto
di vista passa automaticamente dalla prima alla terza persona e ti concede un rapido
replay extracorporeo degli ultimi momenti di vita del tuo avatar.
Un secondo dopo aver sentito quel boato fragoroso, la mia prospettiva cambiò, e mi trovai
a guardare i nostri tre avatar, immobili davanti alla porta aperta. Poi una luce bianca
abbacinante illuminò il mondo, accompagnata da un assordante muro di suono. Era
proprio così che immaginavo ci si sentisse a finire fritti in un’esplosione nucleare.
Per un breve istante, vidi gli scheletri dei tre avatar sospesi sotto i profili trasparenti dei
nostri corpi privi di movimento. Poi il contatore del mio avatar scese a zero.
L’onda d’urto dell’esplosione ci raggiunse un secondo più tardi, disintegrando tutto ciò
che incontrava: i nostri avatar, il pavimento, le mura, il castello e le migliaia di avatar che
si trovavano lì. Tutto venne trasformato in una sottile polvere nebulizzata che rimase
sospesa in aria per un secondo prima di ricadere, lentamente, a terra.
L’intera superficie del pianeta era stata cancellata. L’area che circondava Castle Anorak,
che fino a un attimo prima era affollata di avatar bellicosi, si era tramutata in una nuda
terra desolata. Tutto, tutti erano stati disintegrati. Rimaneva solo il portale di cristallo,
sospeso nel vuoto, sopra il cratere dove prima si ergeva il castello.
Il mio shock iniziale si tramutò immediatamente in terrore, quando capii quello che era
appena successo.
I Sixer avevano fatto detonare il Cataclizzatore.
Era l’unica spiegazione plausibile. Solo quell’artefatto incredibilmente potente avrebbe
potuto provocare tutto questo. Non solo aveva ucciso ogni avatar del settore, era anche
riuscito a distruggere Castle Anorak, fortezza che, fino ad allora, si era dimostrata
indistruttibile.
Osservai la porta aperta, sospesa nell’aria, e attesi che sul display comparisse l’ultimo,
inevitabile messaggio, le parole che tutti gli altri avatar del settore stavano leggendo in
quel momento: GAME OVER.
Ma, quando il messaggio apparve sul display, le parole erano completamente diverse:
CONGRATULAZIONI! HAI UNA VITA EXTRA!
Stordito dallo stupore, vidi il mio avatar riapparire nello stesso punto in cui ero morto
pochi secondi prima. Ero di nuovo davanti alla porta aperta. Ma la porta rimaneva sospesa
a decine di metri dalla superficie del pianeta, sul cratere che si era formato nel momento in
cui il castello era stato distrutto. Quando il mio avatar si materializzò completamente,
guardai in basso e mi resi conto che il pavimento su cui camminavo non esisteva più.
Per un momento fluttuai a mezz’aria, come Wile E. Coyote in uno di quei vecchi cartoni.
Poi cominciai a precipitare. Cercai disperatamente di aggrapparmi alla porta, aperta di
fronte a me, ma era troppo distante.
Caddi al suolo pesantemente e, per l’impatto, persi un terzo dei miei Punti Vita. Poi mi
rimisi in piedi e mi guardai intorno. Mi trovavo in un enorme cratere cubico, nel posto in
cui un tempo si trovavano le fondamenta e i sotterranei di Castle Anorak. Era
completamente deserto, silenzioso e spettrale. Non c’erano macerie del castello distrutto,
né i resti delle migliaia di navicelle e aerei che, fino a pochi momenti prima, avevano
affollato i cieli. In effetti, non c’era il minimo segno della memorabile battaglia che era
appena stata combattuta. Il Cataclizzatore aveva vaporizzato ogni cosa.
Guardai il mio avatar e vidi che non indossavo altro che una maglietta nera e un paio di
jeans, l’abbigliamento predefinito di tutti gli avatar appena creati. Quindi aprii le
statistiche e l’inventario. Il mio nuovo avatar manteneva lo stesso livello e le stesse abilità
del vecchio, ma l’inventario era completamente vuoto, fatta eccezione per un oggetto: il
quarto di dollaro che avevo vinto dopo aver giocato la partita perfetta a Pac-Man, su
Archaide. Da quando l’avevo preso, non ero mai riuscito a rimuoverlo dall’inventario,
perciò non ero stato in grado di attuare alcun incantesimo di divinazione o identificazione.
E non avevo avuto modo di scoprire la vera funzione o i reali poteri della moneta. Nel
corso dei tumultuosi eventi di quei mesi, mi ero persino dimenticato di averla.
Ma ora sapevo cosa fosse quel quarto di dollaro: un artefatto monouso che concedeva al
mio avatar una vita in più. Fino a quel momento, non sapevo nemmeno che una cosa del
genere fosse possibile. Nella storia diOASIS, non era mai stato segnalato che un avatar
avesse ottenuto una vita extra.
Selezionai il quarto di dollaro dal mio inventario e cercai nuovamente di rimuoverlo.
Questa volta riuscii a prenderlo e a stringerlo in mano. Ora che il suo unico potere era
stato usato, l’artefatto non possedeva alcuna proprietà magica. Era un semplice quarto di
dollaro.
Guardai su, verso la porta di cristallo che fluttuava a venti metri sopra di me. Era ancora lì,
spalancata. Ma non avevo idea di come raggiungerla per entrare. Non avevo più i miei
stivali, non avevo una navicella, non avevo oggetti magici di alcun tipo. Non avevo nulla
che mi permettesse di volare o di levitare. E non c’erano scale in vista.
Ero lì, a un tiro di schioppo dalla Terza Porta, ma non potevo raggiungerla.
«Ehi, Z?» udii una voce. «Mi senti?» Era Aech, ma la sua voce non era più alterata perché
sembrasse quella di un uomo. La sentivo perfettamente, come se mi stesse parlando via
comlink. Il che non aveva senso, perché il mio avatar non aveva più un comlink. E l’avatar
di Aech era morto.
«Dove sei?» chiesi al vuoto.
«Sono morta, come tutti» disse Aech. «Tutti tranne te.»
«Allora perché riesco a sentirti?»
«Og ci ha collegato ai tuoi feed audio e video» disse lei. «Così possiamo vedere e sentire
quello che senti tu.»
«Oh» risposi.
«A te sta bene, Parzival?» udii che Og domandava. «Se non ti sta bene, dimmelo.» Riflettei
per un istante. «No, va benissimo» dissi. «Anche Shoto e Art3mis mi ascoltano?»
«Sì» disse Shoto. «Sono qui.»
«Già, siamo tutti qui» disse Art3mis, e riuscivo a sentire, nella sua voce, la rabbia
contenuta a stento. «E siamo tutti morti stecchiti. La domanda, ora, è: perché non sei morto
anche tu, Parzival?»
«Già, Z» disse Aech. «Siamo giusto un po’ curiosi. Cos’è successo?» Estrassi la moneta e la
tenni davanti agli occhi. «Qualche mese fa ho vinto questo quarto di dollaro su Archaide
dopo aver giocato una partita perfetta a Pac-Man. Era un artefatto, ma non ho mai saputo
a cosa servisse. Fino a ora. E a quanto pare era una vita in più.» Per un istante udii solo il
silenzio, poi Aech cominciò a ridere. «Fortunatissimo figlio di puttana!» disse. «I feed di
notizie stanno dicendo che tutti gli avatar del settore sono morti. Più di metà dell’intera
popolazione di OASIS.»
«È stato il Cataclizzatore?» domandai.
«Per forza» disse Art3mis. «Evidentemente lo hanno comprato i Sixer quando è finito
all’asta, qualche anno fa. E per tutto questo tempo se lo sono rigirati tra le mani,
aspettando il momento giusto per farlo esplodere.»
«Ma hanno ucciso anche tutte le loro truppe» disse Shoto. «Perché avrebbero dovuto
farlo?»
«Credo che fossero già quasi tutti morti» disse Art3mis.
«I Sixer non avevano scelta» dissi io. «Era l’unico modo per fermarci. Avevamo già aperto
la Terza Porta e stavamo per varcarla, quando hanno fatto esplodere quel coso…» Mi zittii
di colpo, rendendomi conto di una cosa. «Però. Come sapevano che l’avevamo aperta? A
meno che…»
«Non ci stessero osservando» disse Aech. «Probabilmente i Sixer avevano nascosto
telecamere di sorveglianza davanti alla porta.»
«Quindi ci hanno visti mentre la aprivamo» disse Art3mis. «Il che significa che ora anche
loro sanno come aprirla.»
«Chi se ne frega?» la interruppe Shoto. «L’avatar di Sorrento è morto. E anche tutti gli altri
Sixer.»
«Sbagliato» disse Art3mis. «Da’ un’occhiata al Segnapunti. Sotto Parzival ci sono ancora
venti nomi Sixer. E dai loro punteggi si direbbe che tutti hanno una copia della Chiave di
Cristallo.»
«Merda!» dissero Aech e Shoto all’unisono.
«I Sixer sapevano che forse sarebbero stati costretti a usare il Cataclizzatore» dissi.
«Quindi devono aver preso la precauzione di spostare alcuni dei loro avatar fuori dal
Settore 10. Probabilmente se ne stavano acquattati in una navicella appena fuori dal
confine, al sicuro.»
«Hai ragione» disse Aech. «Questo significa che stanno per raggiungerti altri venti avatar
Sixer, Z. Devi muovere subito il culo ed entrare nella porta. Probabilmente è l’unica
possibilità che hai di superarla.» Sentii che emetteva un flebile gemito di sconfitta. «Per noi
è finita. Tifiamo tutti per te, amigo. Buona fortuna.»
«Grazie Aech.»
«Gokouun o inorimasu» disse Shoto. «Fa’ del tuo meglio.»
«Ci proverò» dissi. Poi rimasi in silenzio, in attesa che anche Art3mis mi desse la sua
benedizione.
«Buona fortuna, Parzival» disse dopo una lunga pausa. «Ha ragione Aech, sai. Non avrai
un’altra possibilità. E nessun Gunter ce l’avrà.» Udii la sua voce che le si impigliava in
gola, come se stesse soffocando le lacrime. Poi trasse un respiro profondo e disse: «Non
fare cazzate».
«Non ne farò» dissi. «Nessuna pressione, eh?» Alzai di nuovo lo sguardo verso la porta
aperta, sospesa nell’aria sopra di me, così lontana. Poi riabbassai lo sguardo e cominciai a
scrutare la zona circostante cercando disperatamente di capire come avrei potuto arrivare
fin lassù. Qualcosa attirò il mio sguardo: un paio di pixel che guizzavano in lontananza,
dall’altro lato del cratere. Corsi lì.
«Uh, non per fare la saputella» disse Aech. «Ma dove diavolo vai?»
«Tutti gli oggetti del mio avatar sono stati disintegrati dal Cataclizzatore» dissi. «Quindi
ora devo trovare un modo di volare fino alla porta.»
«Dimmi che stai scherzando!» sospirò Aech. «Ragazzi, di bene in meglio!» Man mano che
mi avvicinavo, l’oggetto mi pareva sempre più familiare. Era la Capsula Beta, sospesa a
pochi centimetri dal suolo, e roteava in senso orario. Il Cataclizzatore aveva disintegrato
tutto ciò che nel settore poteva essere disintegrato, ma gli artefatti erano indistruttibili.
Proprio come la porta.
«È la Capsula Beta!» gridò Shoto. «Dev’essere stata sbalzata lì dall’impatto dell’esplosione.
Puoi usarla per trasformarti in Ultraman e volare fino alla porta!» Annuii, mi sollevai la
Capsula sulla testa e premetti il bottone sul lato per attivarla. Non accadde nulla. «Cazzo!»
mormorai, intuendo il perché. «Non funziona. Può essere usata soltanto una volta al
giorno.» Riposi la Capsula Beta e ricominciai a scrutare il terreno che mi circondava. «Ci
saranno altri artefatti sparsi in giro» dissi. Iniziai a correre lungo il perimetro delle
fondamenta del castello, alla frenetica ricerca di una cosa qualsiasi. «Avevate con voi
qualche artefatto? Uno che magari mi possa dare l’abilità di volare? Levitare?
Teletrasportarmi?»
«No» rispose Shoto. «Non avevo artefatti.»
«La mia Spada del Ba’Heer era un artefatto» disse Aech. «Ma non ti aiuterà a raggiungere
la porta.»
«Ma le mie Chuck sì» disse Art3mis.
«Le tue “Chuck”?» ripetei.
«Le mie scarpe. All Stars Chuck Taylor nere. Conferiscono velocità e capacità di volare a
chiunque le indossa.»
«Grandioso! Perfetto!» dissi io. «Ora non mi resta che trovarle.» Continuai a correre, con
gli occhi incollati al terreno. Un minuto dopo trovai la spada di Aech e la misi
nell’inventario, ma mi ci vollero altri cinque minuti prima di trovare le scarpe magiche di
Art3mis, all’estremità meridionale del cratere. Quando le infilai, si modellarono per
calzare perfettamente ai miei piedi. «Te le riporterò, Arty» dissi, quando ebbi finito di
allacciarmele. «Te lo prometto.»
«Sarà meglio per te» disse lei. «Erano le mie preferite.» Presi una rincorsa di tre passi, feci
un balzo, ed ero in volo. Puntai verso l’alto, poi mi voltai e mi lanciai in direzione della
porta. Ma all’ultimo momento mi inclinai sulla destra e descrissi un arco all’indietro. Mi
fermai, sospeso davanti alla porta aperta. L’enorme ingresso di cristallo era lì, sospeso, a
pochi metri da me. Mi ricordava la porta sospesa nei titoli di testa della serie originale di
Ai confini della realtà.
«Che aspetti?» gridò Aech. «I Sixer potrebbero arrivare da un momento all’altro!»
«Lo so» risposi. «Ma prima di entrare c’è qualcosa che devo dirvi.»
«Be’?» disse Art3mis «Sputa, dài! Il tempo vola, stupido!»
«Ok, ok» dissi. «Volevo solo dire che capisco come vi sentiate voi tre, in questo momento.
Non è giusto che le cose siano andate così. Avremmo dovuto entrare nella porta tutti
insieme. Prima di entrare, quindi, voglio che sappiate questo. Se trovo l’Egg, dividerò il
premio equamente tra noi quattro.» Silenzio attonito.
«Ehi?» dissi dopo qualche secondo «Mi avete sentito?»
«Sei matto?» chiese Aech. «Perché lo faresti, Z?»
«Perché è l’unica cosa giusta da fare» dissi. «Perché non sarei mai arrivato a questo punto
da solo. Perché tutti e quattro ci meritiamo di vedere cosa c’è al di là della porta e di
scoprire come finisce il gioco. E perché ho bisogno del vostro aiuto.»
«Potresti ripetere quest’ultima parte?» domandò Art3mis.
«Ho bisogno del vostro aiuto» dissi. «Avete ragione. È la mia unica possibilità di superare
la Terza Porta. Non ne avrò un’altra. Né io né nessuno. Presto i Sixer saranno qui ed
entreranno subito nella porta. Quindi devo superarla prima che lo facciano loro, al primo
tentativo. Le probabilità che io ci riesca aumenterebbero esponenzialmente se voi tre mi
deste una mano. Quindi… cosa ne pensate?»
«Conta su di me, Z» disse Aech. «La mia idea era di darti comunque una mano, altrimenti
come avresti fatto, scemo come sei.»
«Conta anche su di me» disse Shoto. «Non ho niente da perdere.»
«Fammi capire un attimo» disse Art3mis. «Noi ti aiutiamo a superare la porta e, in cambio,
tu dividi il premio con noi?»
«Sbagliato» risposi. «Se vinco, dividerò il premio con voi in ogni caso. Perciò,
probabilmente, aiutarmi è nel vostro interesse.»
«Immagino che non abbiamo il tempo per farti firmare qualcosa, vero?» disse Art3mis.
Riflettei per un istante, poi aprii il pannello di controllo del mio canale vpo. Attivai una
trasmissione dal vivo, in modo che chiunque stesse guardando il mio canale in quel
momento (c’erano più di duecento milioni di visitatori) potesse ascoltare ciò che stavo per
dire.
«Salute» dissi. «Sono Wade Watts, anche noto come Parzival. Sto per entrare nella Terza
Porta. Prima di farlo, voglio che il mondo intero sappia: prometto solennemente, con
questo messaggio, che, se e quando troverò l’Easter Egg di Halliday, dividerò le vincite
equamente con Art3mis, Aech e Shoto. Croce sul cuore. Onore di Gunter. Giuramento col
mignolino. Tutta quella roba lì. E se sto mentendo, da oggi in poi potrete pure chiamarmi
“lo stronzetto che lo succhia ai Sixer”.» Programmai la registrazione perché andasse in
loop per dieci minuti.
Un istante dopo udii Art3mis dire: «Ok. Direi che per me è abbastanza. Ci sto».
«Eccellente!» dissi. «Facciamolo.» Mi scrocchiai le dita, mi gettai in avanti, dentro la porta,
e il mio avatar svanì nel vortice di stelle.
0037
Mi ritrovai in un enorme spazio buio e vuoto. Non vedevo né le pareti né il soffitto, ma
sembrava che un pavimento ci fosse, dal momento che i miei piedi poggiavano su
qualcosa. Aspettai un paio di secondi, incerto sul da farsi. Poi una voce elettronica tuonò
nel vuoto. Era come se fosse generata da un sintetizzatore vocale primitivo, uno simile a
quelli usati in Qbert e Gorf.
«Batti il record o muori!» annunciò la voce. Un raggio di luce filtrò da un qualche punto,
molto in alto. E lì, davanti ai miei occhi, alla base della lunga colonna luminosa, c’era un
vecchio videogioco a gettoni. Riconobbi subito il suo inconfondibile cabinato spigoloso.
Tempest. Atari. 1980.
Chiusi gli occhi e abbassai la testa. «Merda» mormorai. «Non è proprio la mia specialità,
amici.»
«Ma dài» sussurrò Art3mis. «Dovevi capirlo che Tempest sarebbe finito nella Terza Porta,
in un modo o nell’altro. Era talmente ovvio!»
«Ah sì?» dissi. «E perché?»
«Per via della citazione in fondo all’Almanacco» rispose. «E devo ostacolarli. Una vittoria
troppo facile toglie valore al premio.»
«Conosco la citazione» dissi infastidito. «È Shakespeare. Ma pensavo fosse il solito modo
che Halliday aveva per farci sapere quanto avrebbe reso difficile la Caccia.»
«E lo era» disse Art3mis. «Ma era anche un indizio. La citazione è presa dall’ultima opera
di Shakespeare, La tempesta.»
«Cazzo!» sibilai. «Come diavolo ho fatto a non accorgermene?»
«Nemmeno io ho mai fatto il collegamento» confessò Aech. «Complimenti Art3mis.»
«Tempest, il gioco, compare brevemente anche nel video di Subdivisions, la canzone dei
Rush» aggiunse Art3mis. «Una delle preferite di Halliday. Difficile non accorgersene.»
«Wow» disse Shoto. «È brava davvero.»
«Ok, ok» gridai. «Avrebbe dovuto essere ovvio. Non c’è bisogno di girare il dito nella
piaga!»
«Mi pare di capire che non hai fatto molta pratica a questo gioco, Z?» domandò Aech.
«Ci ho giocato un po’, molto tempo fa» dissi. «Ma non abbastanza. Guardate il punteggio
più alto.» Indicai il monitor. Il punteggio era di 728 329. Le iniziali, accanto, erano JDH –
James Donovan Halliday. E, come temevo, sul contatore crediti in fondo allo schermo c’era
un solitario «1».
«Ops» disse Aech. «Un solo credito. Come con Black Tiger.» Mi ricordai del quarto di
dollaro, ormai inutile, che avevo nell’inventario e lo tirai fuori. Ma, quando lo infilai nella
fessura, cadde direttamente nella vaschetta di restituzione monete. Allungai una mano per
riprenderla e vidi, sul meccanismo di restituzione, un adesivo: solo gettoni.
«Tanti saluti, idea brillante» dissi. «E non vedo una macchina per i gettoni qui in giro.»
«Pare proprio che tu possa giocare una sola partita» disse Aech. «O tutto o niente.»
«Ragazzi, sono anni che non gioco aTempest» dissi. «Sono fottuto. Non c’è possibilità che
riesca a battere il punteggio di Halliday al primo tentativo.»
«Ma non devi» disse Art3mis. «Guarda l’anno del copyright.» Guardai in fondo allo
schermo. ©mcmlxxx atari.
«1980?» chiese Aech. «E questo dovrebbe aiutarlo?»
«Già» dissi. «Come dovrebbe aiutarmi?»
«Vuol dire che si tratta della primissima versione di Tempest» disse Art3mis. «La versione
che fu pubblicata con un bug. Quando Tempest uscì per la prima volta nelle sale giochi, i
ragazzini scoprirono che, morendo con un certo punteggio, la macchina ti concedeva un
mucchio di crediti gratis.»
«Oh» dissi, un po’ imbarazzato. «Non lo sapevo.»
«Lo sapresti» disse Art3mis «se avessi fatto tante ricerche sul gioco quante ne ho fatte io.»
«Cavoli, ragazza» disse Aech, facendo un fischio. «Che pozzo di scienza.»
«Grazie» rispose. «Qualche volta essere una geek ossessivo-compulsiva senza una vita
aiuta.» Tutti risero, a parte me. Ero troppo agitato.
«Ok, Arty» dissi. «Cosa devo fare per avere quelle partite gratis?»
«Sto cercando nel mio diario della missione» rispose. Sentivo il fruscio delle pagine. Era
come se stesse sfogliando un libro vero.
«Hai con te una copia cartacea del tuo diario?» chiesi.
«Ho sempre scritto il mio diario a mano, in blocchi a spirale» mi rispose. «Una bella
intuizione, tra l’altro, dato che il mio account OASIS e tutto ciò che conteneva sono appena
stati cancellati.» Ancora un fruscio di pagine. «Eccolo! Per prima cosa, devi raccattare più
di 180 000 punti. Una volta fatto, assicurati di finire il gioco con un punteggio le cui ultime
due cifre siano zerosei, undici o dodici. Se lo fai, ottieni quaranta crediti.»
«Ne sei assolutamente sicura?»
«Sicuramente e assolutamente.»
«Ok» dissi. «Ce la faremo.» Cominciai il mio rituale prepartita. Stirarmi, scrocchiare le
dita, rilassare i muscoli del collo ruotando la testa da destra a sinistra.
«Cristo, vuoi iniziare o no?» disse Aech. «Tutta questa tensione mi sta uccidendo!»
«Silenzio!» disse Shoto. «Lascialo respirare, almeno!» Rimasero tutti in silenzio finché non
finii di prepararmi psicologicamente. «Vabbé, proviamo» dissi. Poi spinsi il pulsante
Player One, che lampeggiava.
Tempest impiegava una grafica vettoriale vecchio stile, perciò tutte le grafiche del gioco
venivano create dal contrasto tra le linee brillanti al neon e uno schermo nero pece. Ti si
presenta una visione dall’alto di un tunnel tridimensionale, e usi una manopola per
controllare un’astronave che si sposta lungo il margine del tunnel. L’obiettivo del gioco è
quello di sparare ai nemici che ti vengono incontro, scansando i colpi ed evitando altri
ostacoli. Mentre procedi da un livello all’altro, i tunnel assumono forme geometriche
sempre più complesse, e il numero dei nemici e degli ostacoli si moltiplica
esponenzialmente.
Halliday aveva impostato questa macchina di Tempest in modalità Torneo, perciò non
potevo iniziare il gioco oltre il livello 9. Mi ci vollero circa quindici minuti per raggiungere
un punteggio di 180 000 e persi due vite. Ero ancora più arrugginito di quanto pensassi.
Quando il mio punteggio raggiunse i 189 412, impalai intenzionalmente la mia astronave
su uno spuntone, usando l’ultima vita. Il gioco mi sollecitò a inserire le mie iniziali e,
nervosamente, le digitai: w-o-w. Il contatore crediti del gioco balzò da zero a 40.
Le orecchie mi si riempirono delle grida di esultanza dei miei amici, mi fecero quasi venire
un infarto. «Art3mis, sei un genio» dissi, quando il chiasso si affievolì.
«Lo so.» Premetti di nuovo il pulsante Player One e cominciai una seconda partita,
determinato, ora, a battere il punteggio di Halliday. Ero ancora preoccupato, ma molto
meno. Se non fossi riuscito a raggiungere il record questa volta, mi restavano altre 39
possibilità.
Durante una pausa tra le varie raffiche, Art3mis prese la parola. «E così le tue iniziali sono
w-o-w? Per cosa sta la o?»
«Ottuso» dissi.
Lei rise. «No, dico davvero.»
«Owen.»
«Owen» ripeté lei. «Wade Owen Watts. Carino.» Quando ricominciò una nuova raffica,
tornò silenziosa. Pochi minuti dopo, finii la mia seconda partita con un punteggio di 219
584. Non proprio schifoso, ma ben lontano dal mio obiettivo.
«Non male» disse Aech.
«Già, ma neanche un granché» osservò Shoto. Poi parve ricordarsi che lo potevo sentire.
«Volevo dire… Molto meglio, Parzival. Stai andando alla grande.»
«Grazie della fiducia, Shoto.»
«Ehi, guardate qui» disse Art3mis, leggendo uno stralcio del suo diario. «Al creatore di
Tempest, Dave Theurer, venne l’idea da un sogno che aveva fatto su dei mostri che
spuntavano da un buco nel terreno e che lo inseguivano.» Fece la sua risatina melodica,
che non sentivo da tempo. «Fichissimo, vero, Z?» disse.
«Fichissimo davvero» risposi. Per qualche strano motivo, anche soltanto sentire la sua
voce mi metteva a mio agio. Penso che lo sapesse, ed è per questo che continuava a
parlarmi. Mi sentii di nuovo pieno di energie. Premetti un’altra volta il pulsante Player
One e cominciai la terza partita.
Mi osservarono giocare in completo silenzio. Circa un’ora dopo, persi il mio ultimo uomo.
Il mio punteggio finale era di 437 977.
Quando la partita finì, intervenne la voce di Aech. «Cattive notizie, amigo» disse.
«Cosa?»
«Avevi ragione. Quando il Cataclizzatore è esploso, i Sixer avevano un gruppo di avatar di
riserva che aspettava appena fuori dal settore. Subito dopo l’esplosione sono rientrati e si
sono diretti su Chthonia. Sono…» La sua voce si smorzò.
«Sono cosa?»
«Sono appena entrati nella porta. Cinque minuti fa, più o meno» rispose Art3mis. «La
porta si è chiusa appena sei entrato tu, ma quando i Sixer sono arrivati hanno usato tre
delle loro chiavi per riaprirla.»
«Vuoi dire che i Sixer sono già dentro?»
«Sono in diciotto» disse Aech. «Quando hanno oltrepassato la porta, ciascuno di loro è
entrato in una simulazione autonoma. In una diversa riproduzione della porta. Tutti e
diciotto, in questo momento, stanno giocando a Tempest, come te. Cercano di battere il
punteggio di Halliday. E hanno usato tutti il trucchetto per ottenere i 40 crediti gratis. Non
fanno grandi progressi, ma uno di loro se la cava bene. Probabilmente è Sorrento a
controllare quell’avatar. Ha appena cominciato la seconda partita…»
«Aspetta un secondo!» la interruppi. «Come fai a saperlo?»
«Perché li vediamo» disse Shoto. «Chiunque sia collegato a OASIS in questo momento può
vederli. E possono vedere anche te.»
«Cosa diavolo stai dicendo?»
«Nel momento in cui qualcuno entra nella Terza Porta, un vidfeed in tempo reale del suo
avatar compare in cima al Segnapunti» disse Art3mis. «Evidentemente Halliday voleva
che il gioco dopo la Terza Porta fosse seguito come uno sport da stadio.»
«Un momento» dissi. «Mi stai dicendo che il mondo intero mi ha guardato mentre giocavo
a Tempest nell’ultima ora?»
«Precisamente» disse Art3mis. «E ora ti sta guardando mentre te ne stai lì a blaterare con
noi. Perciò occhio a quello che dici.»
«Perché non me lo avete detto prima?» gridai.
«Non volevamo agitarti» disse Aech. «O distrarti.»
«Ah, grandioso! Perfetto! Ma grazie!» stavo urlando, in modo un po’ isterico.
«Calmati, Parzival» disse Art3mis. «Riconcentrati sul gioco. È una gara ora. Hai diciotto
avatar Sixer alle calcagna. Questa partita conta. Capito?»
«D’accordo» dissi, ed espirai lentamente. «Capito.» Trassi un altro respiro e premetti
nuovamente il pulsante Player One.
Come al solito, la competizione tirò fuori il meglio di me. Riuscii a calarmi nella parte.
Spinner, zapper, superzapper, finisci un livello, evita gli spuntoni. Le mie mani iniziarono
a muovere i comandi indipendentemente dal mio cervello. Dimenticai la posta in gioco e i
milioni di persone che mi stavano guardando. Mi persi nella partita.
Era passata poco più di un’ora e avevo appena superato l’ottantunesimo livello quando le
mie orecchie furono assordate da uno scoppio di euforia. «Ce l’hai fatta, amico!» sentii
Shoto che gridava.
Gli occhi mi schizzarono in cima allo schermo. Il mio punteggio era di 802 488.
Continuai a giocare, l’istinto mi spingeva a tentare di raggiungere il punteggio più alto
possibile. Ma poi udii Art3mis che si schiariva la voce rumorosamente e capii che non
c’era bisogno di proseguire. In effetti, in quel momento stavo sprecando secondi preziosi,
bruciando il vantaggio che potevo avere sui Sixer. Rapidamente esaurii le due vite che mi
restavano e, sullo schermo, lampeggiò la scritta game over. Inserii un’altra volta le mie
iniziali, che comparvero in cima alla lista, sopra il punteggio di Halliday. Poi il monitor si
azzerò e, nel centro dello schermo, apparve un messaggio:
BEN FATTO, PARZIVAL!
PREPARATI ALLA FASE 2!
Poi il cabinato del gioco svanì, e con esso il mio avatar.
Mi ritrovai a galoppare sul fianco di una collina immersa nella nebbia. Immaginavo di
essere a cavallo perché saltavo su e giù e sentivo il rumore degli zoccoli. Davanti a me, la
nebbia si era diradata abbastanza da permettermi di vedere un castello dall’aspetto
familiare.
Ma quando guardai il corpo del mio avatar, vidi che non c’era nessun cavallo sotto di me.
Camminavo. Indossavo un’armatura in cotta di maglia, e tenevo le mani davanti al busto
come se stessi impugnando delle redini. Ma non reggevo nulla. Le mie mani erano
completamente vuote.
Mi fermai e dopo un paio di secondi il rumore degli zoccoli cessò. Poi mi voltai e capii da
dove proveniva il suono. Non era un cavallo. Era un uomo che batteva insieme due mezze
noci di cocco.
In quel momento seppi con certezza dove mi trovavo. Ero nella prima scena di Monty
Python e il Sacro Graal. Un altro dei film preferiti di Halliday, e forse uno dei film geek
più amati di tutti i tempi.
Sembrava si trattasse di un altro sincrofilm, come la simulazione di Wargames all’interno
della Prima Porta.
Mi resi conto che io ero Re Artù. Indossavo lo stesso costume che Graham Chapman aveva
nel film. E l’uomo con le noci di cocco era il mio fido servitore, Patsy, interpretato da Terry
Gilliam.
Quando mi voltai verso di lui, Patsy si inchinò e si prostrò un po’, ma non disse nulla.
«È il Sacro Graal dei Python!» sussurrò Shoto, emozionato.
«Ma davvero?» dissi, scordando per un istante dov’ero. «Lo so, Shoto.» Sul display
lampeggiò un avviso: BATTUTA SBAGLIATA! In un angolo un contatore segnalava – 100
punti.
«Bella mossa, cazzone» disse Art3mis.
«Facci solo sapere se hai bisogno di aiuto, Z» disse Aech. «Facci un cenno, qualsiasi cosa, e
ti passiamo le battute.» Annuii e alzai il pollice. Ma non pensavo che avrei avuto bisogno
di molto aiuto. Negli ultimi sei anni avevo visto il Sacro Graal esattamente
centocinquantasette volte. Ne conoscevo ogni parola a memoria.
Guardai in su, verso il castello, sapendo già cosa aspettarmi. Ripresi a «galoppare»,
stringendo le redini invisibili mentre fingevo ancora di cavalcare. Patsy ricominciò a
battere le noci di cocco, galoppando dietro di me. Quando raggiungemmo l’entrata del
castello, tirai le «redini» e fermai il mio «destriero».
«Ehilà!» gridai.
Guadagnai 100 punti, riportando il punteggio a zero.
Al segnale, apparvero due soldati che si sporgevano dalle mura del castello. «Chi va là?»
gridò uno dei due.
«Sono io, Artù, figlio di Uther Pendragon, del castello di Camelot» recitai. «Re dei
Britanni, vittorioso sui Sassoni, sovrano di tutta l’Inghilterra!» Il mio punteggio aumentò
di altri 500 punti, e un messaggio mi informò che avevo ricevuto un bonus per l’accento e
l’inflessione. Mi rilassai, e mi resi conto che mi stavo già divertendo.
«Sparane un’altra» rispose il soldato.
«Sono io» proseguii. «E lui è il mio fedele servo Patsy. Abbiamo cavalcato per miglia e
miglia alla ricerca di cavalieri che si uniscano alla mia corte di Camelot. Voglio parlare con
il vostro signore e padrone.» Altri 500 punti. Nelle orecchie, sentivo i miei amici che
ridacchiavano e applaudivano.
«Cosa?» rispose l’altro soldato. «A cavallo?»
«Sì!» dissi. 100 punti.
«Ma state usando delle noci di cocco!»
«Cosa?» dissi. 100 punti.
«State battendo insieme due mezzi gusci di noci di cocco.»
«E allora? Cavalchiamo da quando la neve ha coperto queste terre, abbiamo attraversato il
regno di Mercia…» altri 500 punti.
«Dove avete preso le noci di cocco?» Continuò così. Il mio personaggio cambiava da una
scena all’altra, impersonavo chiunque recitasse le battute più lunghe. Sorprendentemente,
non ne sbagliai più di sei o sette. Ogni volta che mi bloccavo, non dovevo fare altro che
scrollare le spalle e alzare le mani – il segnale convenuto – ed Aech, Art3mis e Shoto mi
passavano, con gioia, la battuta esatta. Per il resto del tempo rimasero in silenzio, eccezion
fatta per qualche occasionale risolino o scoppio di risate. L’unica parte davvero difficile
per me fu cercare di rimanere serio, soprattutto quando Art3mis iniziò a ripetere,
intonatissima, tutte le battute di Carol Cleveland nella scena a Castle Anthrax. Un paio di
volte scoppiai a ridere e fui punito con un calo nel punteggio. Per il resto, il viaggio filò
liscio.
Recitare il film non era soltanto facile, era uno spasso totale.
A metà, dopo l’incontro con i Cavalieri che dicono Ni, aprii una finestra di testo sul
display e scrissi: situazione sixer?
«In quindici giocano ancora a Tempest» mi rispose Aech. «Ma tre di loro hanno battuto il
punteggio di Halliday e sono già alla simulazione del Graal.» Breve pausa. «E il capo –
Sorrento, pensiamo – è a soli nove minuti da te.»
«E per il momento non ha sbagliato una sola battuta» aggiunse Shoto.
Per poco non imprecai ad alta voce, ma mi fermai e scrissi: cazzo!
«Precisamente» disse Art3mis.
Feci un respiro profondo e mi concentrai sulla scena successiva (Le gesta di Lancillotto).
Aech mi aggiornava sui Sixer ogni volta che glielo chiedevo.
Quando giunse la scena finale del film (l’assalto al castello francese), l’angoscia mi assalì di
nuovo, e mi domandai cosa sarebbe accaduto. La Prima Porta mi aveva richiesto di
reinterpretare un film (Wargames) e la Seconda Porta di affrontare un videogioco (Black
Tiger). Per il momento, la Terza Porta aveva previsto entrambe le cose. Sapevo che ci
sarebbe stata una terza fase, ma non avevo idea di quale potesse essere.
Ebbi la risposta qualche minuto più tardi. Non appena la scena finale del Sacro Graal si
concluse, il display diventò nero e la musica d’organetto con cui si chiude il film suonò per
qualche minuto. Quando si fermò, sul mio display comparvero le seguenti parole:
CONGRATULAZIONI!
HAI RAGGIUNTO LA FINE!
READY PLAYER ONE
E poi, quando il testo svanì, mi ritrovai in una stanza con le pareti in legno di quercia. Era
grande quanto un magazzino, aveva un ampio soffitto a volta e il pavimento era in
parquet lucidato. La stanza non aveva finestre ed era dotata di un’unica uscita: una porta a
due battenti incassata in una delle quattro pareti nude. Nel centro esatto dell’enorme
stanza si trovava un vecchio set OASIS. Più di cento tavoli di vetro circondavano il set,
formando un ovale. Su ogni tavolo era posizionato un vecchio computer o una console, dei
ripiani che raccoglievano una collezione completa di ogni periferica, joystick, software e
videogioco. Era tutto perfettamente ordinato, quasi fosse un’esposizione da museo.
Guardandomi intorno, lungo il cerchio, da un dispositivo all’altro, vidi che i computer
erano sistemati più o meno per anno d’origine. Un PDP-1. Un Altair 8800. Un IMSAI 8080.
Un Apple I, proprio accanto a un Apple II. Un’Atari 2600. Un Commodore PET.
Un’Intellivision. Diversi modelli di TRS-80. Un’Atari 400 e un 800. Una ColecoVision. Un
TI-99/4. Un Sinclair ZX80. Un Commodore 64. Vari Nintendo e Sega. L’intera stirpe dei
Mac e dei pc, delle Playstation e delle Xbox. Infine, a chiudere il cerchio, una console
OASIS – connessa al set immersivo in mezzo alla stanza.
Capii che mi trovavo in una riproduzione dell’ufficio di James Halliday, la stanza in cui
aveva passato la maggior parte dei suoi ultimi quindici anni di vita. Il luogo in cui aveva
programmato il suo ultimo, più grandioso gioco. Quello a cui stavo giocando.
Non avevo mai visto foto della stanza, ma l’allestimento e i contenuti erano stati descritti,
nei minimi dettagli, dai traslocatori che avevano ripulito la casa dopo la morte di Halliday.
Guardai il mio avatar e notai che non avevo più l’aspetto di un cavaliere dei Monty
Python. Ero di nuovo Parzival.
Innanzitutto, feci la cosa più ovvia e provai a uscire. La porta non si muoveva.
Mi voltai e mi guardai intorno a lungo, passando in rassegna tutti quei monumenti alla
storia dei computer e dei videogiochi.
In quell’esatto momento mi resi conto che l’anello ovale che formavano andava a
disegnare il profilo di un uovo.
Recitai mentalmente i versi del primo indovinello di Halliday, quello contenuto nell’Invito
di Anorak: Tre chiavi, ognuna una porta aprirà Che il valor dei viandanti proverà
Chi l’ardue prove superar saprà Giunto alla Fine, il premio otterrà Ero giunto
alla Fine. Eccomi. L’Easter Egg di Halliday doveva essere da qualche parte, proprio in
quella stanza.

0038
«Avete visto, ragazzi?» sussurrai.
Nessuna risposta.
«Ehi? Aech? Art3mis? Shoto? Ci siete ancora?» Nessuna risposta, di nuovo. O Og aveva
tagliato i loro collegamenti vocali, o Halliday aveva programmato la fase finale in modo
da rendere impossibili le comunicazioni con l’esterno. Ero quasi certo che si trattasse della
seconda ipotesi.
Rimasi lì, in piedi, per un minuto, incerto sul da farsi. Poi seguii il mio primo istinto e
raggiunsi l’Atari 2600. Era collegato a una tv a colori Zenith del 1977. Accesi la tv ma non
accadde nulla. Poi avviai l’Atari. Niente. Benché sia la tv sia l’Atari fossero collegati a
prese elettriche nel pavimento, non c’era corrente.
Provai con l’Apple II sul tavolo accanto. Non si accese.
Dopo qualche minuto di tentativi, scoprii che l’unico computer funzionante era il più
vecchio, l’IMSAI 8080, lo stesso modello di Matthew Broderick in Wargames.
Quando lo avviai, lo schermo era completamente vuoto, tranne che per una parola.
LOGIN
Digitai ANORAK e premetti Invio.
IDENTITÀ NON RICONOSCIUTA – CONNESSIONE TERMINATA
Il computer si spense da solo e dovetti riaccenderlo per visualizzare di nuovo il prompt di
login.
Provai con HALLIDAY. Niente da fare.
In Wargames, la password della backdoor che consentiva l’accesso al supercomputer
delWOPR era joshua. Il creatore del WOPR, il professor Falken, aveva usato come
password il nome di suo figlio. La persona che più amava in tutto il mondo.
Digitai OG. Non funzionò. E nemmeno OGDEN.
Digitai KIRA e premetti Invio.
IDENTITÀ NON RICONOSCIUTA – CONNESSIONE TERMINATA
Provai con i nomi dei suoi genitori. Provai con ZAPHOD, il nome del suo pesce. Poi
TIBERIUS il nome di un furetto che aveva avuto in passato.
Nessuna funzionò.
Controllai l’ora. Ero nella stanza da più di dieci minuti. Significava che Sorrento mi aveva
raggiunto. E in quel momento doveva trovarsi nella sua copia della stanza, con la sua
squadra di studiosi di Halliday pronti a guidarlo coi loro suggerimenti, grazie al suo set
d’immersione modificato. Nessun dubbio. Probabilmente stavano lavorando su una lista
di possibilità e le inserivano alla velocità in cui Sorrento riusciva a digitare le lettere.
Non avevo più tempo.
Digrignai i denti per la frustrazione. Non sapevo dove sbattere la testa.
Poi mi ricordai di un paragrafo della biografia di Ogden Morrow: Il gentil sesso mandava
Jim in uno stato di ansia totale, e Kira era l’unica ragazza con cui l’ho visto parlare in
maniera rilassata. Questo solo perché era «calato nella parte», nel corso delle nostre sedute
era Anorak. E si rivolgeva a lei solo come Leucosia, il nome del personaggio di Kira in
D&D.
Avviai il computer per l’ennesima volta. Quando il prompt di login riapparve, digitai
LEUCOSIA e premetti Invio.
Tutti i sistemi della stanza presero vita. Il ronzio dei drive, i bip dei self-test e altri suoni
d’avvio echeggiarono per il soffitto a volta.
Corsi all’Atari 2600 e frugai tra le cartucce in ordine alfabetico nello scaffale, finché non
trovai quella che stavo cercando: Adventure. La ficcai nell’Atari e lo accesi, poi spostai la
leva del Reset per avviare il gioco.
In pochi minuti avevo raggiunto la stanza segreta.
Agguantai la spada e uccisi tutti e tre i draghi. Poi trovai la chiave nera, aprii le porte del
castello nero e mi avventurai nel suo labirinto. Il puntino grigio era nascosto lì dove
doveva essere. Lo raccolsi e lo riportai indietro, attraversando tutto il regno a 8 bit, poi lo
usai per attraversare la barriera magica ed entrare nella stanza segreta. Ma, a differenza
del gioco originale Atari questa, di stanza segreta, non conteneva il nome Warren
Robinett, il programmatore originario di Adventure. Al centro dello schermo, invece, c’era
un grosso ovale bianco dai margini pixelati. Un uovo.
Quell’uovo.
Per un istante fissai lo schermo della tv in silenzio, incredulo. Con il joystick Atari, spostai
il mio piccolo avatar squadrato verso destra, attraverso lo schermo tremolante. Quando
lasciai cadere il pixel grigio e raccolsi l’uovo, l’altoparlante in modalità mono della tv
emise un rapido bip elettronico. E ci fu un accecante lampo di luce. Poi vidi che il mio
avatar non aveva più il joystick. Quello che tenevo tra le mani, ora, era un grande uovo
d’argento. Sulla superficie ricurva vedevo il riflesso deformato del mio avatar.
Quando riuscii a smettere di fissarlo, alzai gli occhi e vidi che la porta a due battenti
all’altro lato della stanza era stata rimpiazzata dall’uscita: un portale rifinito in cristallo che
riportava all’ingresso di Castle Anorak. E sembrava che il castello fosse tornato al suo
posto, anche se il server OASIS non si era ancora resettato.
Quando l’ebbi attraversata mi voltai, in tempo per vedere la Porta di Cristallo trasformarsi
in una grande porta di legno, sul muro del castello.
La aprii. Oltre la porta c’era una scala a chiocciola che conduceva in cima alla torre più alta
di Castle Anorak. Fu lì che trovai lo studio di Anorak. Allineati in tutta la camera, scaffali
imponenti traboccavano di antiche pergamene e polverosi libri d’incantesimi.
Raggiunsi la finestra e mi affacciai, osservando il panorama incredibile che mi si apriva
davanti. Non era più desolato. Gli effetti del Cataclizzatore erano stati annullati, e
Chthonia, insieme al castello, era tornata come prima.
Mi allontanai dalla finestra e osservai la stanza. Sotto il tanto familiare dipinto del drago
nero trovai una base di cristallo su cui era poggiato un calice d’oro tempestato di
minuscole gemme. Il diametro corrispondeva a quello dell’uovo d’argento che tenevo tra
le mani.
Sistemai l’uovo nel calice, e si adattò alla perfezione.
Da lontano, udii una fanfara di trombe. Poi l’uovo iniziò a brillare.
«Hai vinto» disse una voce. Mi voltai e vidi che Anorak era in piedi dietro di me. La sua
tunica nero ossidiana sembrava assorbire tutta la luce della stanza.
«Congratulazioni» mi disse, porgendomi la mano nodosa.
Esitai, domandandomi se si trattasse di un altro trucchetto. O che potesse essere l’ultimo
test… «Il gioco è finito» disse Anorak, come se mi avesse letto nel pensiero. «È ora che tu
riceva il tuo premio.» Abbassai lo sguardo sulla mano che mi stava porgendo. Poi, dopo
un attimo di esitazione, la strinsi.
Una cascata di fulmini blu proruppe nello spazio che ci divideva, e le sue dita di ragnatela
ci avvolsero entrambi, come se un flusso di energia stesse passando dal suo avatar al mio.
Quando i fulmini si spensero, vidi che Anorak non indossava più la sua tunica nera da
mago. A dire il vero, non aveva nemmeno più l’aspetto di Anorak. Era più basso, più
magro e un po’ meno bello. Aveva l’aspetto di James Halliday. Pallido. Magro. Di mezza
età. Indossava dei jeans consunti e una maglietta sbiadita di Space Invaders.
Abbassai gli occhi sul mio avatar e scoprii che ora ero io a indossare la tunica di Anorak.
Poi vidi che le icone e i dati sui bordi del mio display erano cambiati. Le mie statistiche
erano al massimo, e possedevo una lista di incantesimi, oggetti magici e poteri che
sembrava infinita.
Il livello e i Punti Vita del mio avatar erano accompagnati dal simbolo dell’infinito.
E sul contatore dei crediti era apparso un numero di dodici cifre. Ero un multimiliardario.
«Affido a te, Parzival, la cura di OASIS» disse Halliday. «Il tuo avatar è immortale e ha
poteri infiniti. Qualsiasi cosa tu voglia, devi solo desiderarla. Bel lusso, eh?» Si chinò verso
di me e abbassò la voce. «Fammi un favore. Cerca di usare i tuoi poteri solo a fin di bene.
Ok?»
«Ok» risposi in un sussurro.
Halliday sorrise, poi fece un gesto a indicare ciò che ci circondava. «Ora questo castello è
tuo. Ho programmato questa stanza perché ci possa entrare solo il tuo avatar. L’ho fatto
per essere sicuro che solo tu abbia accesso a questo…» Raggiunse uno scaffale contro il
muro e tirò a sé uno dei volumi. Sentii un click, poi l’intero scaffale si aprì leggermente,
svelando una placca quadrata in ferro fissata sul muro. Al centro della placca c’era un
pulsante rosso, talmente grande da essere comico, su cui era scritta un’unica parola: OFF.
«Io lo chiamo il Grande Pulsante Rosso» disse Halliday. «Se lo premi, disattiverà l’intero
OASIS e farà partire un worm che cancellerà tutto quello che si trova nei server gss, inclusi
i codici sorgente di OASIS. Spegnerà OASIS per sempre.» Fece un sorrisetto. «Quindi non
premerlo mai, a meno di non essere assolutamente sicuro che sia la cosa giusta da fare, ci
siamo capiti?» Mi rivolse un sorriso indecifrabile. «Mi fido del tuo giudizio.» Halliday fece
scorrere al suo posto lo scaffale, nascondendo il pulsante. Poi mi sorprese mettendomi un
braccio intorno al collo. «Ascolta» disse, con un tono confidenziale. «Devo dirti un’ultima
cosa, prima di andare. Qualcosa che io non ho capito prima che fosse troppo tardi.» Mi
guidò verso la finestra e indicò il paesaggio davanti a noi. «Ho creato OASIS perché non
ho mai sentito di avere un posto, nel mondo reale. Lì, non sapevo come creare un legame
con le persone. Ho avuto paura per tutta la vita. Fino al momento in cui ho saputo che
stava finendo. È stato allora che ho capito che, per quanto terrificante e dolorosa possa
essere, la realtà è l’unico posto in cui si può trovare la vera felicità. Perché la realtà è reale.
Mi capisci?»
«Sì» risposi. «Credo di sì.»
«Bene» disse, strizzandomi l’occhio. «Non commettere il mio stesso errore. Non
nasconderti qui per sempre.» Sorrise e si allontanò di qualche passo. «Bene, bene. Credo
che sia tutto. È ora che io tolga le tende.» Quindi cominciò a scomparire. Mentre il suo
avatar svaniva, sorrise e mi salutò con la mano.
«Buona fortuna, Parzival» disse. «E grazie. Grazie per aver giocato al mio gioco.»
Poi scomparve del tutto.
«Ragazzi, ci siete?» dissi al vuoto, qualche minuto più tardi.
«Sì!» disse Aech, emozionata. «Ci senti?»
«Sì, ora sì. Cos’è successo?»
«Il sistema ha interrotto il collegamento vocale quando sei entrato nell’ufficio di Halliday.
Non potevamo parlarti.»
«Per fortuna, comunque, non avevi bisogno del nostro aiuto» disse Shoto. «Ben fatto,
amico.»
«Congratulazioni, Wade» disse Art3mis. Sapevo che era sincera.
«Grazie» dissi. «Ma non ce l’avrei fatta senza di voi.»
«Vero» disse Art3mis. «Ricordati di dirlo quando parlerai con i media. Og dice che sta
arrivando qui giusto qualche centinaio di giornalisti.» Lanciai un’occhiata allo scaffale che
nascondeva il Grande Pulsante Rosso. «Avete seguito tutto quello che Halliday mi ha
detto prima di scomparire?» chiesi.
«No» disse Art3mis. «Abbiamo visto tutto finché non ti ha detto “cerca di usare i tuoi
poteri solo a fin di bene”. Poi il collegamento video si è interrotto. Cosa è successo dopo?»
«Niente di che» dissi. «Ve ne parlerò tra poco.»
«Amico» disse Aech. «Da’ un’occhiata al Segnapunti.» Aprii una finestra, quindi il
Segnapunti. La lista dei punteggi era sparita. L’unica cosa presente nel sito di Halliday era
un’immagine del mio avatar con indosso la tunica di Anorak e l’uovo d’argento in mano.
Sullo schermo seguivano le parole: VINCE PARZIVAL!
«Cos’è successo ai Sixer?» domandai. «Quelli che erano rimasti nella porta?»
«Non si sa bene» disse Aech. «I loro vidfeed sono scomparsi quando il Segnapunti è
cambiato.»
«Magari i loro avatar sono morti» disse Aech. «O forse…»
«Forse sono stati soltanto espulsi dalla porta» dissi.
Aprii la piantina di Chthonia e vidi che potevo trasportarmi in qualsiasi punto di OASIS
semplicemente selezionando sulle mappe la destinazione desiderata. Zoomai su Castle
Anorak e premetti un punto fuori dall’ingresso principale. In un batter d’occhio, il mio
avatar era lì.
Non mi sbagliavo. Quando avevo superato la Terza Porta, i diciotto avatar Sixer che si
trovavano al suo interno erano stati espulsi e depositati davanti al castello. Erano ancora lì,
con un’espressione confusa disegnata in faccia, quando comparvi, risplendente nei miei
nuovi abiti. Per un paio di secondi mi fissarono in silenzio, poi estrassero spade e pistole,
preparandosi ad attaccare. Erano tutti identici, perciò non riuscivo a capire quale di loro
fosse controllato da Sorrento. Ma, a questo punto, non m’importava.
Con la mia nuova interfaccia superutente, feci un gesto come a spazzarli via, selezionando
così tutti gli avatar Sixer sul display. I loro profili brillarono di rosso. Poi premetti l’icona
con teschio e tibie che era apparsa sulla barra strumenti del mio avatar. All’istante, tutti e
diciotto i Sixer caddero a terra stecchiti. I loro corpi svanirono lentamente, ciascuno
lasciando a terra una piccola pila di armi e bottino.
«Porca troia!» sentii Shoto sul comlink. «Come hai fatto?»
«Hai sentito cosa diceva Halliday» disse Aech. «Il suo avatar è immortale e ha poteri
infiniti.»
«Già» dissi. «E direi che non scherzava.»
«Halliday ha anche detto che puoi esprimere qualsiasi desiderio tu voglia» disse Aech.
«Qual è il tuo primo desiderio?» Ci pensai un istante, poi premetti la nuova icona di
comando che appariva sul margine del display e dissi: «Desidero che Aech, Art3mis e
Shoto vengano riportati in vita».
Mi apparve una finestra di dialogo che mi chiedeva di confermare la correttezza dei nomi
degli avatar. Quando lo feci, il sistema mi domandò se, oltre a riportare in vita i loro
avatar, volessi anche ripristinare il loro inventario. Premetti sì. Poi, al centro del display,
comparve un messaggio:
RESURREZIONE COMPLETATA.
AVATAR RIPRISTINATI.
«Ragazzi?» dissi. «Forse dovreste provare a entrare con i vostri account, ora.»
«Lo stiamo già facendo!» gridò Aech.
Pochi secondi dopo, Shoto si ricollegò con il suo account, e il suo avatar si materializzò a
pochi passi da me, nel punto esatto dove era morto qualche ora prima. Corse verso di me,
con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. «Arigato, Parzival-san» disse con un
ampio inchino.
Ricambiai l’inchino e poi gli gettai le braccia al collo. «Bentornato» dissi. Un istante più
tardi, fu Aech a emergere dall’entrata del castello e a correre verso di noi.
«Come nuovo» disse, sorridendo nel vedere il suo avatar. «Grazie Z.»
«De nada.» Poi lanciai uno sguardo all’entrata aperta del castello. «Dov’è Art3mis?
Avrebbe dovuto riapparire accanto a te…»
«Ha deciso di non ricollegarsi» disse Aech. «Ha detto che voleva uscire a prendere una
boccata d’aria fresca.»
«L’hai vista? Come…» cercai le parole giuste. «Com’era?» Entrambi mi sorrisero, poi Aech
mi poggiò una mano sulla spalla. «Ha detto che ti aspetta fuori. Quando sei pronto per
incontrarla.» Annuii. Stavo per premere l’icona di logout, quando Aech mi fermò: la mano
di lei (o di lui) mi fece cenno di aspettare. «Un secondo! Prima di scollegarti, devi vedere
una cosa» disse, aprendomi una finestra davanti agli occhi. «Al momento, questo è su tutti
i feed di notizie: i federali hanno fermato Sorrento per interrogarlo. Hanno fatto irruzione
nel quartier generale IOI e l’hanno strappato dalla poltrona aptica!» Partì un video. La
camera a mano riprendeva una squadra di agenti federali che scortavano Sorrento fuori
dalla lobby del quartier generale ioi. Sorrento aveva ancora indosso la tuta aptica, ed era
seguito da un signore con il completo e i capelli grigi che immaginai fosse il suo avvocato.
Sorrento sembrava più che altro infastidito, come se si trattasse soltanto di una lieve
seccatura. I sottotitoli in fondo alla finestra dicevano: Sorrento, top manager ioi, accusato
di omicidio.
«È tutto il giorno che i feed di notizie trasmettono spezzoni dalla simcap della tua chatlink
con Sorrento» disse Aech, mettendo in pausa il video. «In particolare la parte in cui
minaccia di ucciderti e poi fa saltare in aria il container di tua zia.» Aech spinse di nuovo
Play e il video continuò. Gli agenti federali accompagnavano Sorrento attraverso l’atrio,
affollato di giornalisti che si spintonavano e gridavano le loro domande. L’operatore
balzava in avanti e schiaffava la telecamera sulla faccia di Sorrento. «Ha dato lei
personalmente l’ordine di uccidere Wade Watts?» gridava. «Come si sente ora che sa di
aver perso la gara?» Sorrento sorrideva ma non rispondeva. Poi il suo avvocato si
piazzava davanti alla telecamera e si rivolgeva ai giornalisti. «Le accuse mosse contro il
mio cliente non hanno alcun fondamento. La simcap che sta circolando è chiaramente un
falso. Per il momento non abbiamo altri commenti da fare.» Sorrento annuiva. Continuava
a sorridere mentre i federali lo scortavano fuori dall’edificio.
«Quel bastardo probabilmente la farà franca» dissi. «LaIOI può permettersi i migliori
avvocati del mondo.»
«Sì, è vero» disse Aech. Poi mi lanciò il suo ghigno da Stregatto. «Ma anche noi, adesso.»

0039
Quando uscii dalla baia d’immersione, trovai Og che mi aspettava. «Ottimo lavoro,
Wade!» disse, stritolandomi con un abbraccio. «Ottimo lavoro!»
«Grazie, Og.» Ero ancora stordito, e mi sentivo vacillare.
«Molti dirigenti GSS sono arrivati mentre eri ancora collegato» disse Og. «Anche gli
avvocati di Jim. Sono tutti di sopra. Come potrai immaginare, sono lì che aspettano di
parlarti.»
«Devo andare subito da loro?»
«Ma no, è chiaro!» rise lui. «Lavorano tutti per te, ora, ricordi? Fai aspettare quei bastardi
quanto ti pare!» Mi si avvicinò. «Di sopra c’è anche il mio avvocato. È un bravo ragazzo.
Un vero pit bull. Farà in modo che nessuno ti rompa le palle, ok?»
«Grazie Og» dissi. «Ti devo davvero tutto.»
«Sciocchezze!» disse «Dovrei essere io a ringraziarti. Non mi divertivo così da anni! Te la
sei cavata bene, ragazzo.» Mi guardai intorno esitante. Aech e Shoto erano ancora nelle
loro baie d’immersione, stavano tenendo una conferenza stampa improvvisata. Ma la baia
di Art3mis era vuota. Guardai di nuovo Og.
«Sai dov’è andata Art3mis?» Og mi fece un sorrisino, poi indicò. «Su per quelle scale, poi
esci dalla prima porta che incontri» disse. «Ha detto che ti avrebbe aspettato al centro del
mio labirinto di siepi.» Sorrise. «È facile, come labirinto. Non ci metterai molto a trovarla.»
Uscii e strizzai gli occhi, aspettando che si abituassero alla luce. L’aria era tiepida e il sole
era già alto. Non c’era una nuvola.
Era una bellissima giornata.
Il labirinto, dietro la casa, si estendeva per molti ettari. L’ingresso sembrava l’entrata di un
castello, dal portone spalancato si accedeva al labirinto. Le spesse pareti di siepi erano alte
tre metri, anche salendo su una delle panchine che si trovavano lungo il percorso era
impossibile affacciarsi per guardare al di là.
Entrai e, per qualche minuto, girai a vuoto, confuso. Poi capii che la struttura era identica a
quella del labirinto di Adventure.
A quel punto, non mi ci volle molto per trovare la strada verso l’ampio spazio aperto al
centro del labirinto. Vi trovai una fontana, con una scultura in pietra che raffigurava con
minuzia di particolari i tre draghi simili ad anatre di Adventure. Ogni drago, anziché
sputare fuoco, spillava un rivolo d’acqua.
E poi la vidi.
Era seduta su una panchina di pietra e guardava la fontana. Era di spalle, con la testa
china. I suoi lunghi capelli neri le ricadevano sulla spalla destra. Vidi che si stava
massaggiando le mani, tenendole in grembo.
Avevo paura di avvicinarmi. Alla fine, raccolsi il coraggio per parlare. «Ciao» dissi.
Al suono della mia voce, rialzò la testa, ma non si voltò.
«Ciao» disse. Ed era la sua voce. La voce di Art3mis. La voce che avevo ascoltato per tante
ore. E che mi diede il coraggio di farmi avanti.
Camminai intorno alla fontana e mi fermai quando fui di fronte a lei. Quando avvertì che
mi avvicinavo, voltò la testa e distolse lo sguardo tenendomi fuori dal suo campo visivo.
Ma io la guardavo.
Era uguale alla foto che avevo trovato. Aveva lo stesso corpo rubensiano. La stessa pelle
chiara e lentigginosa. Gli stessi occhi nocciola e gli stessi capelli corvini. Lo stesso
splendido volto tondo, con la stessa voglia rossastra. Ma, a differenza della foto, non
cercava di nascondere la voglia con un ciuffo di capelli. Li portava pettinati all’indietro,
quindi potevo vederla.
Aspettai in silenzio. Ma si ostinava a non alzare lo sguardo.
«Sei come ti ho sempre immaginata» dissi. «Bellissima.»
«Davvero?» disse piano. Lentamente, si voltò a guardarmi, assimilando il mio aspetto a
poco a poco, cominciando dai piedi e, gradualmente, salendo fino al viso. Quando,
finalmente, i nostri sguardi si incontrarono, mi sorrise nervosamente. «Be’, sai cosa? Anche
tu sei come ho sempre pensato che fossi» disse. «Brutto come la morte.» Scoppiammo a
ridere e tutta la tensione che c’era nell’aria si dissipò. Poi ci guardammo negli occhi per
quella che sembrò un’eternità. Era, mi resi conto, la prima volta che lo facevamo.
«Non ci hanno presentati» disse lei. «Sono Samantha.»
«Ciao Samantha. Io sono Wade.»
«È bello incontrarti finalmente di persona, Wade.» Batté la mano sulla panchina, nello
spazio accanto a lei, e io mi sedetti.
Dopo un lungo silenzio, disse: «E ora che succederà?».
Io sorrisi. «Useremo il gruzzolo che abbiamo appena vinto per dar da mangiare a tutti gli
abitanti del pianeta. Renderemo il mondo un posto migliore, giusto?» Lei sorrise ironica.
«Non volevi costruire un’astronave interstellare, riempirla di videogiochi, porcherie da
mangiare e divani belli comodi, e poi andartene via da qui?»
«Be’, anche quello» dissi. «Se questo significa che passerò il resto della mia vita con te.» Mi
sorrise timidamente. «Vedremo» disse. «Ci siamo appena incontrati.»
«Sono innamorato di te.» Il labbro inferiore cominciò a tremarle. «Sei sicuro?»
«Sì. Sono sicuro. Perché è la verità.» Lei mi sorrise, ma vidi che stava anche piangendo.
«Mi spiace di aver troncato con te» disse. «Di essere uscita dalla tua vita. È solo che…»
«Va tutto bene» dissi. «Ora capisco perché l’hai fatto.»
Mi sembrò sollevata. «Davvero?» Annuii. «Hai fatto la cosa giusta.»
«Lo pensi davvero?»
«Abbiamo vinto, no?» Lei mi sorrise, e io sorrisi a lei.
«Ascolta» dissi. «Possiamo fare un passo alla volta, se preferisci. Nonostante tutto, sono
davvero un bravo ragazzo. Te lo giuro.» Lei rise e si asciugò le lacrime, ma non disse nulla.
«Ah, e ti ho già detto che sono estremamente ricco?» feci. «Certo, anche tu del resto, perciò
immagino che non sia un buon modo per fare colpo.»
«Non c’è bisogno di fare colpo con niente, Z» disse. «Sei il mio migliore amico. La persona
che preferisco al mondo.» Con evidente sforzo, mi guardò negli occhi. «Mi sei mancato
davvero tanto, lo sai?» Sentii il cuore che prendeva fuoco. Mi concessi un momento per
raccogliere il coraggio, poi le presi la mano. Rimanemmo così per un po’, mano nella
mano, godendoci la nuova, strana sensazione di toccarci per davvero.
Dopo un po’, lei si avvicinò e mi baciò. Era proprio come promettevano tutte quelle
canzoni e quelle poesie. Meraviglioso. Come essere colpiti da un fulmine.
Mi venne in mente che, per la prima volta da quando avevo memoria, non desideravo in
alcun modo ricollegarmi a OASIS.

Ringraziamenti
Molti tra i miei migliori amici hanno ricevuto una stesura non definitiva di questo libro, e
ognuno di loro mi ha incoraggiato e dato consigli ineguagliabili. Il mio grazie sincero va a
Eric Cline, Susan Somers-Willett, Chris Beaver, Harry Knowles, Amber Bird, Ingrid
Richter, Sara Sutterfield Winn, Jeff Knight, Hilary Thomas, Anne Miano, Tonie Knight,
Nichole Cook, Cristin O’Keefe Aptowicz, Jay Smith, Mike Henry, Jed Strahm, Andy
Howell, e Chris Fry.
Sono anche debitore a Yfat Reiss Gendell, l’Agente Più Fica Dell’Universo Conosciuto, che
è riuscita in pochi mesi a far avverare molti dei miei sogni. Un ringraziamento va anche a
Stéphanie Abou, Hannah Brown Gordon, Cecilia Campbell-Westlind e tutte le persone
meravigliose che lavorano alla Foundry Literary and Media.
Un enorme grazie va al fantastico Dan Farah, mio amico, manager e socio nell’avventura
hollywoodiana. La mia gratitudine va anche a Donald De Line, Andrew Haas e Jesse
Ehrman di Warner Bros., per aver creduto che questo libro possa diventare un grande
film.
Un grazie al supporto e al talento della squadra di Crown, a Patty Berg, Sarah Breivogel,
Jacob Bronstein, David Drake, Jill Flaxman, Jacqui Lebow, Rachelle Mandik, Maya Mavjee,
Seth Morris, Michael Palgon, Tina Pohlman, Annsley Rosner e Molly Stern. E alla mia
fantastica correttrice di bozze Deanna Hoak, che quando era giovane ha scoperto la Stanza
segreta di Adventure.
Ho un particolare debito di gratitudine verso Julian Pavia, il mio splendido editor, che ha
creduto in me prima ancora che avessi finito questo romanzo. L’intelligenza, l’acume e
l’instancabile cura per il dettaglio di Julian mi hanno aiutato a rendere Player One il libro
che avrei sempre voluto scrivere e mi hanno fatto migliorare come scrittore durante il
processo creativo.
Infine, voglio ringraziare gli scrittori, i registi, gli attori, gli artisti, i musicisti, i
programmatori, gli sviluppatori di videogiochi e i geek il cui lavoro è stato omaggiato
all’interno di questo romanzo. Queste persone mi hanno divertito e illuminato, e la mia
speranza è che – come la Caccia di Halliday – questo libro ispirerà altre persone a cercare e
trovare la strada dell’immaginazione.

You might also like