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1.

L’architettura antica: greca e romana

- L’architettura greca
Tra XII e XI secolo a.C. la civiltà micenea inizia a decadere a causa delle invasioni di Eoli, Ioni e Dori, gruppi
etnici diversi che si stabiliscono in differenti aree della Grecia. Le interazioni tra questi popoli nell’VIII secolo
a.C. consentirono la formazione della civiltà greca, organizzata in città stato (polis). Le polis erano città stato
in cui la parte alta (acropoli) è il luogo sacro, mentre l’impianto urbano seguiva lo schema ippodameo (da
Ippodamo di Mileto, un architetto e urbanista greco vissuto nel V secolo a.C.).

Atene nel V sec. a.C. (Ricostruzione dell’Acropoli di Atene- Leo von Klenze 1846)
L’immagine rappresenta la polis greca. In
primo piano si osserva l’Ereteo e il
Partenone.
Sotto la guida del generale Pericle (464-
429 a.C.), Atene diviene il principale
centro della Grecia e vive un periodo di
pace e ricchezza. In questo periodo si
assiste alla fioritura delle scienze e delle
arti. Numerosi sono i monumenti
sull’Acropoli, edificati sulle rovine degli
edifici distrutti durante l’attacco dei
Persiani a simboleggiare la rinascita. Per
rinnovare la città di Atene furono
impiegate moltissime maestranze e
architetti, tra questi Fidia – un noto progettista e direttore dei lavori del tempo – che riuscì a riunire molti
artigiani, architetti e scultori provenienti da tutta la Grecia.

Tecniche di costruzione
Gli architetti greci per le loro costruzioni svilupparono un sistema di proporzioni ideali ispirato dalla natura e
che trovò espressione nei tre ordini classici, più tardi adottati anche dai Romani. La cultura ellenica raggiunse
il suo apice nel corso del V sec. a.C; Atene sviluppò la democrazia, fiorì la filosofia di Socrate e Platone e, sotto
la guida del generale Pericle, iniziò la costruzione dell’Acropoli. L’architettura svolse un ruolo sociale
fondamentale nell’organizzazione dell’agorà, il centro politicoculturale della città che ospitava il
bouleuterion, la struttura di governo dove per la prima volta fu “inventata” la democrazia.
I successi dell’architettura egizia furono le basi da cui partirono gli architetti greci. La grande Piramide di Giza
aveva quasi 2000 anni di storia quando lo storico greco Erodoto la visitò per la prima volta nel 440 a.C.
Ispirandosi agli Egizi gli scultori ellenici impararono a lavorare la pietra conferendole forme antropomorfe.
Intorno al 600 a.C., gli architetti utilizzarono le stesse tecniche per trasformare i loro “fragili” templi in legno
in monumenti di pietra resistenti al tempo. Gli Egizi e i Greci utilizzarono semplici costruzioni basate sul
sistema del trilite (dal greco trílithon= tri-tre e lithon-pietra), ovvero un sistema strutturale basato su tre
pietre linerai e monolitiche, costituito da due blocchi verticali (piedritti) portanti che sorreggevano un terzo
blocco disposto orizzontalmente (architrave) . I Romani in seguito svilupparono l’arco di cui si avvalsero per
costruire strutture come ponti e acquedotti e l’introduzione della malta cementizia che fu la svolta che
consentì di progettare forme più fluide come cupole e volte a botte.
La porta dei Leoni dell’antica Micene- 1300 a.C.

È la porta principale della città di Micene. È costituita da due elementi verticali


– piedritti – su cui poggia l’architrave, sormontato da un’importante
decorazione che raffigura due leoni che si affrontano separati da una colonna.

Ordini architettonici
L’ordine architettonico è la più grande novità che i Greci introdussero nell’arte del costruire e risponde a una
profonda esigenza concettuale nell’architettura greca: eliminare qualsiasi 2 forma di casualità nella
realizzazione di un edificio. Esso consiste in una serie di REGOLE geometriche e matematiche (norme
stilistiche) che fissano forme e dimensioni delle varie parti che compongono il tempio in modo che tutti gli
elementi dell’edificio siano in rapporto proporzionale fra di loro e con l’insieme. Il concetto di ordine nacque
con la civiltà greca nel periodo che va dal IV al III secolo a.C., dal momento in cui si pose l’esigenza di dare
fondamento razionale all’architettura, determinando e misurando lo spazio attraverso l’uso di elementi
codificati e ripetibili.

Il modulo nell’architettura greca


Al fine di porre in relazione armonica le varie parti
dell’organismo architettonico, gli architetti greci
ricorsero al modulo, un’unità di misura (il raggio di base
della colonna) con la quale le proporzioni dell’edificio
erano regolate attraverso l’uso dei multipli e dei
sottomultipli. La proporzione della colonna è data dal
rapporto tra la base e l’altezza.

L’entasi nell’architettura greca


L’entasi è il rigonfiamento del fusto della colonna. Si
trova ad un terzo della sua altezza e ha lo scopo di
correggere l’errore ottico che porta a percepire da
lontano un assottigliamento verso la metà della colonna.
Gli architetti greci furono molto abili nell’apportare
questo piccolo artifizio nelle loro costruzioni.
Ogni ordine architettonico è costruito da tre parti fondamentali: il piedistallo, la colonna e la trabeazione.
La trabeazione è la parte portata immediatamente sovrastante le colonne e posta orizzontalmente su di esse.
È composta da:
- La cornice che ne costituisce il bordo o coronamento modanato;
- il fregio è la parte situata sopra l’architrave e decorata con bassorilievi;
- l’architrave, elemento disposto orizzontalmente a forma di parallelepipedo.
La colonna è l’elemento architettonico di sostegno a sezione circolare variabile poggiata su una base.
Essa è composta da:
- Il capitello è l’elemento architettonico che conclude superiormente la colonna e costituisce il
raccordo tra la stessa e la trabeazione;
- Il fusto che rappresenta, attraverso la sovrapposizione di vari blocchi (rocchi), la parte principale della
colonna, costituita da una struttura verticale a sezione circolare variabile, scanalata o no;
- La base è la parte inferiore della colonna.
Il piedistallo, mancante nell’ordine classico greco, è il basamento della colonna.
Esso è composto da:
- una cimasa, cioè la parte superiore modanata del piedistallo;
- il dado che è la parte intermedia e liscia;
- lo zoccolo ovvero l’elemento architettonico d’appoggio del piedistallo.

La modanatura
Un elemento decorativo fondamentale nell’architettura dal periodo classico fino alla fine del XIX secolo è la
modanatura. È costituito da una fascia sporgente variamente sagomata secondo un profilo geometrico,
continuo per tutta la sua lunghezza, con la funzione decorativa di sottolineare la suddivisione in parti
dell’oggetto oppure di mediare il passaggio tra due superfici disposte ad angolo. Le modanature possono
essere lisce oppure intagliate con decorazioni, prevalentemente vegetali stilizzate, o geometriche e si
presentano in varie forme:
- Il Listello o Filetto è una modanatura sottile a profilo rettilineo, che media tra una modanatura più
sporgente ed una meno sporgente. Presenta una superficie rettilinea verticale ed una orizzontale ed
il suo profilo tende generalmente al quadrato.
- Il Tondino o Astragalo è una modanatura sottile a profilo curvilineo semplice, solitamente la parte
terminale è a semicerchio convesso.
- Il Guscio o Cavetto è una modanatura concava con sezione a quarto di cerchio.
- L’Ovolo dritto o Echino è una modanatura convessa con sezione a quarto di cerchio.
- Il Toro o Bastone è una modanatura convessa a sezione terminante semicircolare.
- La Scozia o Trochilo è una modanatura concava con sezione a semicerchio o tre quarti di cerchio, con
una sorta di depressione nel listello inferiore.
- La Gola dritta è una modanatura con sezione a doppia curva, concava in alto e convessa in basso.
- La Gola rovescia è una modanatura con sezione a doppia curva, convessa in alto e concava in basso.

A dimostrazione del fatto che su uno stesso elemento architettonico venivano utilizzate più modanature,
possiamo osservare l’immagine raffigurante il basamento di una colonna: foglie di acanto, dentello e ovolo.

Tre sono gli ordini architettonici impiegati dai Greci: il dorico, lo ionico e il corinzio. Ciascuno di essi presenta
caratteristiche formali proprie e ben definite. Ciò che li accomuna è l’uso di una serie di rapporti
proporzionali, di accordi armonici e di regole geometrico-matematiche tali da renderli il fondamento stesso
dell’arte del costruire.

Ordine dorico
L’ordine dorico si definì nel Peloponneso e si diffuse in tutta la Grecia
continentale e nelle colonie dell’Italia meridionale e della Sicilia. Subì nel
tempo una continua evoluzione stilistica, passando dalle forme più tozze del
periodo arcaico a quelle equilibrate del periodo classico, raggiungendo forme
eleganti nel periodo ellenistico e romano fino ad ispirare la codifica dell’ordine
tuscanico.
Secondo la visione positivistica del secolo scorso ci troviamo di fronte ad una
genesi da elementi lignei. Le proporzioni mutano lentamente ma
profondamente, tanto che sotto certi aspetti di ritmo e di rapporti c’è una
differenza maggiore tra i templi arcaici dorici e gli ellenistici slanciatissimi nelle
forme.
Il tempio si eleva su una platea, lo stilobate, che costituisce il piano orizzontale
sul quale poggiano tutte le colonne del tempio ed è circondata da gradoni, il
crepidoma, che di solito, ma non necessariamente, sono tre.
La colonna si compone di due elementi distinti:
- il fusto è pesante e presenta scanalature di sezione ellittica che sono
accostate in modo da formare spigoli vivi. Il fusto aderisce direttamente allo stilobate e si innalza non
rigidamente, ma rastremandosi, cioè diminuendo di diametro al sommoscapo. Inoltre al fusto, la cui
sezione verticale si curva leggermente -entasi-, il capitello aderisce direttamente, mediante un
elemento anulare di raccordo chiamato collarino, con la sola interruzione formata da tre tagli
orizzontali -ipotrachelio-, oltre i quali, per breve tratto, proseguono ancora le scanalature che
terminano infine contro un’ampia svasatura -echino-. Nei templi arcaici, invece, tra il fusto e l’echino
si scavava una profonda gola (già osservata nei tempi minoici) a volte decorata con fogliette.
Sull’echino poggia un parallelepipedo – abaco – da prima del secolo VI più spesso, poi più snello.
L’echino ha la forma di un catino circolare dal profilo convesso. L’abaco invece ha la forma di un
parallelepipedo molto basso.
- Il capitello , composto da abaco ed echino, conclude e corona la colonna, sopportando il peso
dell’architrave – epistilio – sul quale si posa il fregio, composto
alternativamente di metope, lastre originariamente lisce e a partire
dall’epoca classica dipinte o decorate a bassorilievo, con scene tratte dalla
mitologia, e di triglifi, decorati da quattro profonde scanalature che li
percorrono verticalmente.
L’insieme degli elementi strutturali e decorativi che si appoggiano sui capitelli
prendono il nome generico di trabeazione. La trabeazione è formata a sua volta da
tre elementi sovrapposti chiamati architrave, fregio e cornice. Tra l’architrave e il
fregio vi è un listello – thenia –, sotto il quale in corrispondenza di ogni triglifo si
dispone la regula con sei gocce. I triglifi rappresenterebbero le testate delle travi
del tetto. Sopra il fregio aggetta la cornice – geison – che sulla superficie inferiore
si adorna dei mutuli con le gocce che rappresenterebbero i cavicchi di legno di
fissaggio. La gronda – sima – sormonta la cornice lungo i fianchi del tempio e sui
due lati inclinati del frontone, la cui parte interna triangolare, spesso ornata di
sculture in altorilievi o a tutto tondo narranti episodi mitologici, costituisce il
timpano.

Tempio della Concordia

Il tempio, di ordine dorico, si trova ad Agrigento e costituisce un importante testimonianza della Magna
Grecia. Fu eretto nel 430 a.C. A causa della irregolarità del terreno, gli architetti greci costruirono un alto
basamento sul quale venne edificato il tempio.
Tale basamento era costituito dal crepidoma, formato da quattro gradoni, sul quale poggiava uno stilobate
con sei colonne sul lato corto, mentre tredici colonne sul lato lungo. Ogni colonna possiede venti scanalature,
sopra ogni colonna vi sono i capitelli con due elementi: l’echino e l’abaco. La trabeazione è costituita da:
architrave e fregio, formato da metope e triglifi. Infine vi è il caratteristico frontone con il timpano, ornato
con acroteri. Nei lati lunghi del tempio venivano sistemate delle grondaie a testa di leone. Il tempio venne
costruito costruito con tre vani: il pronao, il naos o cella e l’ epistodamo. La copertura era costituita da tegole
che in genere erano fatte di marmo. Alla fine della costruzione, il tempio venne valorizzato con l’uso di colori,
si usavano stucco bianco dal crepidoma fino alle colonne, mentre a partire dai capitelli si usavano colori più
forti come il rosso e il blu. Il tempio fu poi trasformato in Basilica cristiana intorno al VI secolo.
Complesso archeologico di Olimpia
Complesso archeologico di Corinto -Tempio di Apollo- VI secolo a.C.

Nel corso del VI sec. a.C. le tecniche costruttive e lo studio delle proporzioni vanno progressivamente
affinandosi, tenendo sempre di conto di una maggiore armonizzazione dei vari elementi architettonici.
Esemplare a tale proposito appare il Tempio di Apollo, edificato intorno al 540 a.C. sulle rovine di un tempio
precedente forse risalente al 680 a.C. Nonostante la scarsità dei resti pervenutici, l’edificio – un periptero
esastilo – era molto ampio essendo composto da una peristasi di 6x15 colonne che si sviluppava lungo un
perimetro di 21.49 m x 53.82 m. Anche in questo caso, il naos doveva apparire notevolmente allungato,
ragione per cui è stato suddiviso trasversalmente in due diversi ambienti asimmetrici: più grande quello
orientato ad Est contenente l’area sacra, più piccolo l’altro forse adibito a tesoro, luogo dove si custodivano
le offerte preziose in corrispondenza dell’opistodomo. La doppia cella è divisa anche in senso longitudinale
da due file di colonne in modo da creare uno spazio a tre navate, secondo una tipologia che ritroveremo
anche nei templi della Magna Grecia. Le colonne, in pietra calcarea rivestita di stucco, sono alte 6.40 m pari
a 4.15 volte il diametro dell’imoscapo. Esse presentano capitelli, che, quantunque, ancora tozzi, risultano più
proporzionati di quelle dell’Heraion di Olimpia. La copertura del tetto doveva essere particolarmente
raffinata, infatti dai pochi elementi pervenuti, è stato possibile stabilire che sul colmo del tetto furono
collocati degli speciali elementi in terracotta dipinta a forma di palmetta – antefisse –, in effetti in
corrispondenza di questi supporti e degli acroteri angolari venne introdotto per la prima volta un doccione
in terracotta dipinta per lo scarico al suolo delle acque piovane. Esso terminava sull’esterno con un busto
leonino – protome –, cioè a testa di leone.

Ordine ionico
L’ordine ionico si sviluppò principalmente in età arcaica nelle città greche
dell’Asia Minore, per poi diffondersi nelle isole, in Grecia, in Magna Grecia
e nell’Etruria. In esso si fondono elementi propri del gusto greco con
elementi desunti dalle vicine civiltà orientali. La sua ricchezza decorativa
si contrappone alla severità dell’ordine dorico.
L’origine della colonna ionica sembra dovuta a suggerimenti
dell’architettura persiana e anche a manifestazioni naturalistiche della
cultura egiziana.
La colonna non si appoggia direttamente sullo stilobate, ma ha una
propria base costituita da due elementi circolari sovrapposti, una
convessa, sporgente (toro) e una concava, rientrante (trochilo). Il fusto è
meno rastremato di quello dorico non ha entasi e presenta un numero
maggiore di scanalature, che non si succedono più mediante spigoli vivi,
ma sono smussate. Ciò contribuisce ad accentuare quel senso di grazia e
di leggerezza che è uno dei fattori caratterizzanti dell’ordine ionico. Nel capitello l’echino è ornato con
decorazioni ovoidali (ovoli) e, fra esso e l’abaco, quadrato, un elemento intermedio, il pulvino, si curva
lateralmente in due ampie volute sottolineate da listelli. L’architrave si divide in tre fasce, progressivamente
aggettanti, ed è sormontato da un fregio continuo raffigurante esseri viventi.
Essa ha una base più semplice nell’Attica, più complessa nell’Asia Minore,
dove i profondi tagli trasversali delle numerose modanature si oppongono al
ritmo verticale delle scanalature. Queste sono di sezione circolare separate da
un pianetto che dà maggior forza alla loro scansione. Al contrario delle
colonne doriche, percorso tutto il fusto, le scanalature si arrestano e si
concludono prima del suo termine (echino), con un taglio ad ovoli e stretto tra
due volute. Nei precedenti arcaici, nei capitelli detti – ciprioti –, diffusi anche
in Palestina e in Siria, le scanalature partono con andamento verticale da un
triangolo centrale; nei capitelli eolici dell’Asia Minore più sviluppati,
emergono ancora accostate verticalmente da uno o due giri di foglie stilizzate
ricadenti in tale posizione e si presentano in un capitello sagomato e dipinto
già appartenente ad una colonna votiva, ormai ionica, sull’Acropoli di Atene,
ma nel loro definitivo ordinamento sono collegate l’un l’altra da un canale
orizzontale. L’ordine ionico nello svolgimento di più antiche esperienze, si
presenta più elaborato e gentile di quello dorico: l’epistilio non è più liscio, ma
si divide in tre fasce aggettanti sormontate da una fila di dentelli e quindi dalla
cornice. I dentelli suggeriscono ancora i travetti lignei e rimandano alle leggere
strutture delle coperture delle costruzioni persiane e asiatiche.
Caratteristiche diverse assume l’ordine ionico trapiantandosi in Attica. Oltre alla più semplice base delle
colonne, compare al di sopra dell’epistilio un fregio costituito da una fascia continua con figurazioni scolpite,
si introduce così nella trabeazione una larga e chiara striscia di riposo che insieme alla base più semplice della
colonna dà alla composizione un nuovo respiro e una nuova misura.
Nell’ordine ionico, il capitello non è uguale su tutte le sue quattro fasce, come nel dorico. Infatti il pulvino,
costituito dalle due volute, si presenta con due cuscini stretti da una fascia. Sorge quindi per gli architetti il
problema del capitello ad angolo, in genere essi, verso l’esterno dell’edificio, accostano su due lati adiacenti
le volute curvandone in fuori le parti che vengono a contatto. Verso l’interno del colonnato uniscono ad
angolo retto i due cuscini.
In Italia il problema viene semplificato con l’introduzione di tutte le volute su tutti e quattro i lati del capitello
e sopprimendo quindi i cuscini. Soluzione adottata dall’ordine corinzio, che in epoca romana ha visto il
massimo sviluppo per la sua facilità di commentare i più ampi volumi architettonici.

Complesso archeologico di Olimpia


Complesso archeologico di Atene

Ordine corinzio
Mentre gli ordini dorico e ionico possono essere considerati sostanzialmente contemporanei quanto a
sviluppo e diffusione, l’ordine corinzio risale ad almeno un secolo dopo, V secolo a.C., e raggiunse la massima
diffusione solo in età ellenistica, cioè a partire dagli ultimi decenni del IV secolo a.C.
L’aggettivo corinzio deriva dalla città di Corinto, una tra le più importanti e potenti polis. È l’ordine più
aggraziato e ricco di decorazione.

La base della colonna corinzia riprende quella ionico-attica. A volte può essere ulteriormente rialzata
mediante l’adozione di un plinto, soluzione talvolta già presente nella base dello stesso ordine ionico. Il fusto
è percorso da una serie di 24 scanalature verticali a pigolo smussato, uguali
per numero e forma a quelle della colonna ionica. Ciò che più di ogni
elemento caratterizza l’ordine corinzio rispetto a quello dorico e ionico è il
capitello, composto da un nucleo a forma di tronco di cono chiamato –
calathos – attorno al quale si dispongono delle foglie stilizzate di acanto <<
dal greco acanta= spina, pianta con grandi foglie stilizzate>>, organizzate
su due livelli in relazione all’altezza: quelle più basse formano la corona o
imo folia; quelle più alte la seconda corona o secunda folia. A volte è
presente anche una terza corona meno vistosa, fatta di foglie più minute.
Dalle foglie della seconda (o terza) corona sopravanzano degli steli detti –
caulicoli – terminanti con un calice da cui si partono otto paia di volute: le
quattro paia più grandi sono in corrispondenza dei quattro spigoli, mentre
le quattro paia più piccole spuntano in corrispondenza della metà della
base dell’abaco e sono detti elici (dal latino elices-elix=spirale). Dalle foglie
fra le elici si erge uno stelo dritto che sulla sommità si apre in un fiore dal
grande pistillo che rivolge la corolla verso l’esterno e che, trovandosi
all’altezza dell’abaco, prende il nome di fiore d’abaco – filos abaci– o fiorone. Visto in pianta, l’abaco è
mistilineo, in quanto assume la forma assimilabile a quella di un quadrato, avente al posto dei quattro lati
rettilinei, quattro archi di cerchio uguale. La trabeazione, la cornice, i timpani sono del tutto simili, per forma
e proporzioni, a quelli ionici.

Nel complesso l’ordine corinzio risulta essere il più raffinato e snello: la colonna, infatti, plinto, base e
capitello inclusi, misura almeno dieci volte il diametro dell’imoscapo, il che rappresenta una proporzione
quasi al confine con la gracilità. Ciò fa scrivere qualche secolo dopo a Vitruvio che lo stile corinzio “imita la
bellezza delle fanciulle”.

Tale ordine fu quello meno utilizzato dai greci perché considerato troppo elaborato e spesso inadatto alla
costruzione di grandi e severi tempi. L’ordine corinzio avrà grande successo in età ellenistica come nel caso
dell’Olimpeon ad Atene e del Tempio di Apollo a Ddime.

Tempio di Zeus ad Atene

È posto a 500 m dall’Acropoli di Atene. Ricostruito


nel 174 a.C. con l’apporto di maestranze dell’Asia
Minore per volere di Antioco (Epifane) IV su
progetto dell’architetto Decimo Cossutius. Fu
concluso soltanto durante il regno di Adriano 117-
138 d.C. Si tratta di un tempio diptero di circa
108x41 m completamente in marmo, che pur
riprendendo forme arcaiche appare
assolutamente innovativo in quanto utilizza
colonne di ordine corinzio.

I templi
La struttura architettonica che più di ogni altra caratterizza e riassume lo spirito greco è senza dubbio il
tempio. Esso costituisce la dimora terrena degli dei e i greci, fin dall’VIII secolo dedicano le proprie attenzioni
e il proprio ingegno ai perfezionamenti. La religione dei greci è politeista, ovvero credono nell’esistenza di
più dei. Questi hanno caratteristiche fisiche e psicologiche simili a quelle umane e come gli uomini sono
soggetti alla – tyche–, cioè il destino, il fato. Poiché dei e uomini si somigliano
moltissimo, è sempre difficile stabilire se il soggetto rappresentato in una statua
greca sia un atleta dal corpo scattante, un eroe o un dio. Gli dei quindi sono concepiti
a immagine e somiglianza degli uomini, ciò ha come conseguenza un rapporto più
diretto e quasi confidenziale tra l’uomo e la divinità. Anche la costruzione dei templi
risente di questo atteggiamento. Esso infatti ha proporzioni talmente armoniose e
forme semplici e razionali da risultare sempre perfettamente equilibrato. Nasce
parallelamente alla casa e quindi ne assume in parte forma e caratteristiche. La casa
greca infatti consiste in una semplice costruzione in mattoni crudi coperta con un
tetto a capanna in legno e paglia. Tale ricorrente similitudine fra l’abitazione e il
tempio, inteso come residenza terrena degli dei, appare assai evidente osservando
un modellino fittile, databile intorno al 725-700 a.C. ,che riproduce una delle prime
tipologie di tempio. Si tratta di unico ambiente a pianta rettangolare preceduto da
un portico sorretto da due colonne. Inizialmente, probabilmente, queste erano
lignee e poi realizzate in pietra. Il tetto a due falde è ornato con motivi geometrici
che forse alludono alla presenza nella realtà anche di alcuni primi elementi decorativi
dipinti o in terracotta. La disposizione degli spazi all’interno può variare sia in
relazione al periodo sia alle dimensioni e luogo di costruzione del tempio. Tre sono
gli elementi caratteristici sempre presenti in ogni tempio:

- Il naos o cella, in cui viene esclusivamente custodita la statua del dio a cui è
dedicato il tempio e a cui possono accedere solo i sacerdoti addetti al culto, mentre tutte le
celebrazioni e i sacrifici si svolgono fuori all’aperto su are, entro il cosiddetto recinto sacro –
temenos–. La cella, considerata dimora della divinità, che salvo rare eccezioni è sempre unica,
presenta una pianta rettangolare e ad essa si accede come nel Megaron miceneo attraverso un’unica
porta che si apre sul lato minore orientato verso Est. L’interno si presenta oscuro, a stento rischiarato
da lampade votive a olio che conferisce all’ambiente un’atmosfera di solenne sacralità.
- Il pronao è la parte anteriore del tempio greco e consiste in un portico colonnato. Ha la funzione di
filtro simbolico tra l’esterno e il naos che rimanda ad una realtà divina.
- Le colonne, disposte su una o più file, fungono da perimetro del tempio. Si ergono sul basamento, lo
stilòbate, cui si accede mediante una rampa d’accesso. In alto, le colonne si concludono con un
capitello, su cui poggia la trabeazione. Il numero delle colonne è variabile in relazione alle dimensioni
e quindi all’importanza del tempio. Se sul lato frontale sono presenti quattro colonne, il tempio si
definisce tetrastilo; se sono sei, il tempio è esastilo; se sono otto, octastilo; dieci, decastilo. Il numero
di colonne è quasi sempre in numero pari, affinchè non vi sia alcuna colonna davanti alla porta del
pronao.
Tipologie di templi greci
La progettazione dei templi si basava sulla simmetria, il cui metodo doveva essere scrupolosamente
osservato dagli architetti. La simmetria nasceva dalla proporzione, che in greco viene definita con il termine
di ‘analoghia’. La proporzione consiste nella commensurabilità (misurabile) delle singole parti di tutta l’opera,
sia fra loro sia con l’insieme. Questa commensurabilità si basa sull’adozione di un modulo fisso e consente di
applicare il metodo della simmetria. (Vitruvio)

Grazie a Vitruvio e al suo trattato “De Architectura” possiamo capire la conformità dei templi greci e dei
templi romani. Nel 40 a.C. l’architetto romano Vitruvio scrisse che un edificio doveva soddisfare tre principi
ispiratori: firmitas, utilitas e vetustas (robustezza, utilità e bellezza).

In base al numero e alla posizione delle colonne il tempio greco assume diverse denominazioni. Il primo ad
averci tramandato l’esatta descrizione delle varie tipologie del tempio greco è stato l’architetto e trattatista
romano VITRUVIO. Egli ha scritto un fondamentale trattato sull’arte del costruire: “De architettura”, l’unica
opera del genere arrivata fino a noi dall’antichità classica. Nei dieci libri del De architettura Vitruvio passa in
rassegna tutti i problemi architettonici e urbanistici del suo tempo, descrive con accuratezza il modo di
costruire e di ornare i vari edifici e spiega come impiegare al meglio i diversi materiali. Dieci sono le tipologie
di tempio, cioè le configurazioni complessive che essi assumono, che Vitruvio descrive nel terzo e nel quarto
libro del suo trattato.

- Tempio in antis: prende il nome dai due pilastri quadrangolari costruiti al termine del prolungamento
murario dei due lati maggiori della cella. Tra le ante vengono solitamente erette due colonne in modo
che il pronao che ne deriva risulti delimitato dall’ingresso alla cella.
- Tempio doppiamente in antis: presente anche sul retro della cella un secondo pronao, uguale per
forma e dimensioni a quello anteriore. Esso prende il nome di opistòdomo 6 (opistò: dietro, domos:
casa). Questa aggiunta non aveva motivazioni funzionali, ma solo estetiche, in quanto conferiva al
tempio un aspetto più simmetrico ed equilibrato.
- Tempio pròstilo: ha in genere, la stessa pianta di quello in antis, soltanto che davanti alle ante e alla
cella si ergono almeno quattro colonne. Tra le colonne e le ante si viene così a creare una specie di
porticato. Questo, anteponendosi al pronao, ne amplifica la funzione di filtro simbolico tra esterno e
interno.
- Tempio anfipròstilo: consiste nel raddoppiamento di quello prostilo. In esso, infatti, vi sono due
colonnati: uno anteriore, di fronte al pronao, e uno uguale, posto sul retro, di fronte all’opistodomo.
Anche in questo caso il doppio colonnato ha una funzione soprattutto estetica, in quanto rende
l’edificio perfettamente simmetrico.
- Tempio periptero: è circondato di colonne lungo tutto il perimetro. Viene così a formarsi un portico
continuo chiamato peristasi.
- Tempio pseudoperiptero: (pseudoperiptero letteralmente significa: falso-periptero), il colonnato
sembra circondare tutta la cella, ma in realtà, in corrispondenza dei suoi lati, manca la peristasi, in
quanto si hanno solo delle mezze colonne addossate alle pareti della cella stessa.
- Tempio diptero: consiste in un doppio colonnato che circonda l’intero perimetro, in modo che ogni
colonna della serie interna sia perfettamente allineata alla corrispondente colonna della serie
esterna.
- Tempio pseudodiptero: consiste in un edificio diptero semplificato. L’unico colonnato che circonda
completamente la cella è posto a una distanza tale che la peristasi ha l’ampiezza di due intercolumni
più lo spessore di una colonna.
- Tempio monoptero: è a pianta circolare ed è circondato da una sola circonferenza di colonne. In
questo Tempio non vi è una cella in muratura e l’area è dunque posta all’aperto, al centro del
colonnato.
- Tempio periptero circolare: simile monoptero, detto anche a tholos, per similitudine con la
pseudocupola micenea. In questo tempio la cella assume la forma cilindrica e la peristasi si trasforma
in un porticato circolare.

Nell’architettura greca uno spazio importante lo occupano gli edifici


circolari (vedi Tempio a Tholos di Apollo). La forma circolare, già
presente in edifici del VI e V secolo a.C., appare nel IV secolo in alcuni
tholoi periptere, costruzioni rotonde ma di forme ben diverse dalle tholoi
micenee. La più antica fu eretta a Delfi nel 400 a.C. Esternamente aveva
colonne doriche e internamente corinzie, di tipo ancora primitivo
appoggiate alla parete.
Tempio della Concordia
Presenta la forma di periptero esastilo: 6x13 colonne.
Agrigento fu l’ultima colonia greca, molto ricca. Pindaro la
descrisse come la più bella delle città. Importante è la Valle
dei Templi, lungo il cui dolce pendio sono allineati i resti di
una decina di costruzioni templari e sacelli, quasi a formare
una sorta di monumentale via sacra che costeggiava le
mura meridionali dell’antica polis.
Il Tempio della Concordia risulta il più integro tra quelli di
età classica, ciò deriva dal fatto che già nel 597 d.C. esso
venne trasformato in Basilica Cristiana, sottraendolo in
questo modo al destino di tanti altri templi che furono
utilizzati come cave di blocchi già squadrati per realizzare
nuovi edifici. Il tempio di ordine dorico presenta una forma
rettangolare con un rapporto di 1:2.33, assai prossimo a quello del Partenone. Anche la peristasi di 6x13
colonne è quella più ricorrente, come nel Tempio più antico dedicato a Cerere a Paestum risalente al 420 a.C.

Estrazione dei blocchi


Nell’immagine vengono rappresentate le
complesse operazioni alla base
dell’estrazione dei blocchi, rocchi, nelle
cave di Cusa, a pochi chilometri da Mazzara
del Vallo, in provincia di Trapani. I blocchi di
pietra venivano estratti dalla roccia con un
lavoro complesso per poi essere trasportati
fino al cantiere. Ovviamente la cava si
doveva trovare in prossimità del cantiere
per facilitare il trasporto.
La prima fase dell’estrazione dei blocchi prevedeva l’eliminazione della
terra che copriva la roccia. Giunti alla roccia, si procedeva a incidere il
diametro esatto del rocco che si voleva estrarre.
La seconda fase prevedeva la movimentazione del rocco fino alla
separazione del blocco voluto dalla roccia di partenza.
La quarta fase prevedeva il trasporto con corde e l’aiuto di barramine e
l’utilizzo di tronchi circolari posti sotto il rocco, affinché potesse scorrere
fino ad appositi carri per il trasporto.
È ancora possibile osservare rocchi in cava che dovevano essere estratti.
Inoltre, si può osservare nella slide le semplici e pericolose impalcature
senza parapetti.
Le scanalature delle colonne erano realizzate in opera e fatte con diversi strumenti: gradina, scalpello piano
e mazzuolo pesante.

Templi di Paestum, Salerno


In Magna Grecia e in Sicilia si trovano i più grandiosi e meglio conservati templi greci di ordine dorico,
analizzando le loro caratteristiche costruttive è possibile notare un certo ritardo nel recepire i progressi e gli
aggiornamenti tecnici e formali, elaborati nel frattempo nella madre patria.
Contemporaneamente si assiste in essi allo sviluppo di tendenze costruttive nuove ed autonome.
Paestum -Poseidonia- sorse agli inizi del VII secolo a.C. come colonia di Sibaris. Robustamente fortificata con
quattro porte ai quattro punti cardinali, la città presentava una struttura a pettine con 3 grandi strade
parallele di penetrazione orientate est-ovest e una fitta di vie minori orientate perpendicolarmente alle
prime, nord-sud.
A settentrione della prima delle strade principali vi era l’area del santuario dedicato ad Atena. Fra questa
strada e la seconda si estendeva l’Asti vera e propria agorà, e gli altri principali edifici pubblici. Mentre tra la
fascia tra la strada di mezzo e quella meridionale trovava spazio una vasta area per il santuario dedicato a
Poseidon con i templi di Era e di Nettuno.

Il tempio di Nettuno a Paestum, 470 a.C. è di ordine dorico, periptero esastilo


(con sei colonne sulle due fronti) con una peristasi di 6x14 colonne che si
eleva su un crepidoma di tre gradini; le colonne poggiano direttamente sullo
stilobate. L'interno è costituito da un
naos (cella) del tipo in doppio antis,
dotato di pronao e opistodomo simmetrici, entrambi incorniciati da due
colonne, allineate con le due centrali delle fronti, alle quali
corrispondono due colonnati che attraversano la cella, dividendola in tre
navate. Questi colonnati interni sono composti da sette colonne doriche
ciascuno, caratterizzati a un ininterrotto assottigliamento del fusto dal
basso verso l'alto.

La cosiddetta Basilica di Paestum – 540-510 a.C. – costituisce uno degli esempi di tempio dorico meglio
conservati della Magna Grecia, destinata a riunioni pubbliche, tribunale. Si tratta di un tempio periptero
nastilo, con 9 colonne sul fronte, dedicato ad Era. La sua superficie
è più che doppia rispetto alle Heraion di Olimpia, la peristasi
presenta 9x18 colonne doriche e le dimensioni complessive
risultano di 24.48x54.22 m, superando di poco il rapporto ideale di
1:2. Le sue 50 colonne in pietra calcarea grigia si ergono ancora
praticamente intatte. Quai nulla è rimasto del naos diviso in due
navate da una fila centrale di 7 colonne. Nella parete occidentale
del naos si apriva un sacrario – abaton–, dove si conservava il
simulacro della divinità. I timpani e le metope sono arcaici, forse dipinte ma comunque non a bassorilievo.
Le colonne, alte 4.68 m, sono molto rastremate e hanno un’entasi pronunciata terminando con un capitello
dall’echino assai schiacciato e panciuto, sormontato da un abaco molto largo, quasi il doppio del diametro
del collarino al sommoscapo.
Il collarino è decorato con una serie di piccole incavature regolari che imitano delle foglioline stilizzate, che
si ricollega a decorazioni della civiltà micenea.

Il Tempio di Cerere, originariamente dedicato ad Atena, sorge nell’area settentrionale di Poseidonia, è sempre
di ordine dorico ma ha dimensioni minori rispetto agli altri due. L’edificio periptero presenta una peristasi di
6x13 colonne con 20 scanalature con un’entasi molto pronunciata e il collarino decorato con motivi in rosso,
blu e oro. Costruito in pietra calcarea locale su un crepidoma di tre scalini, il Tempio di Cerere risale al 510-
500 a.C. e misura 14.54x32.88 m e si articola attorno ad un vasto naos a navata unica.

Canoni e correzioni ottiche del tempio greco


Per rendere il tempio più equilibrato ed elegante, in età classica gli architetti perfezionarono il cosiddetto
canone, ossia una serie di regole relative a forma e proporzioni delle varie parti dell’edificio. Il canone era
basato su un principio matematico: l’altezza delle colonne, la loro distanza, la larghezza e la lunghezza totale
dell’architettura dovevano essere multipli del diametro della colonna. Per evitare possibili distorsioni causate
dalla visione a distanza dell’edificio, i progettisti greci applicarono alcune correzioni ottiche inclinando ad
esempio le colonne leggermente verso l’interno per non dare all’osservatore l’impressione che la costruzione
cadesse in avanti.

I templi greci (in particolare quelli classici) presentano un proporzionamento matematico basato sulla
«sezione aurea», una proporzione presente anche in natura, che conferisce armonia e perfezione misurata
all’architettura e alla scultura. La facciata del Partenone e le varie membrature sono contenute all’interno
del rettangolo aureo: l’altezza massima del tempio costituisce la misura di un lato del quadrato ABCD.
Dividendo verticalmente in due questo quadrato con il segmento EF, si fa centro in F e si traccia un arco di
raggio FC che interseca in G il prolungamento della base AD. Si costruisce così il rettangolo ABHG detto
«aureo», secondo il quale è misurata la facciata del tempio.

Acropoli di Atene (V secolo a.C.)


Dal greco acros = estremo e polis = città, indica la parte più alta
degli antichi agglomerati urbani ed era di solito circondata da una
cinta muraria perché era l’ultimo rifugio in caso di attacco nemico.
L’acropoli di Atene è una collina di formazione calcarea che si eleva
a 156 m sul livello del mare. Nel VI secolo a.C. diventa sede di un
tempio dedicato ad Atena. Viene distrutto poi dai persiani. Dopo la
vittoria degli ateniesi sui persiani, Pericle inizia un grande progetto
di costruzione di monumenti sull’acropoli di Atene.
Si iniziò con l’edificazione del Partenone nella parte più alta
dell’acropoli (447 a.C.) e dei Propilei, cioè l’ingresso monumentale
che si apre nelle mura dell’Acropoli al termine di una lunga
scalinata e contenevano anche una pinacoteca, ovvero una raccolta di dipinti.Dopo la morte di Pericle (427-
423 a.C.) venne eretto il piccolo tempio ionico di Atena-Nike su progetto di Callicrate, posto su un bastione
che domina dall’alto l’accesso ai propilei, cui seguì l’Eretteo, un piccolo tempio consacrato ad Atena, Zeus e
Poseidone. Su un suo lato si trova la loggetta delle Cariatidi (421 a.C.), dove le colonne sono sostituite da
eleganti statue di fanciulle (secondo Vitruvio sostengono il peso dell’architrave perché vennero ridotte in
schiavitù dopo la vittoria dei greci). Durante questo periodo furono poste sull’acropoli delle statue votive.
L’acropoli rimase pressochè immutata nei secoli seguenti, a meno di nuove statue, un piccolo tempio di Roma
davanti al Partenone e dei santuari. Verso Sud trovò luogo il famoso teatro di Dioniso, fondato da Pisistrato.
Secoli più tardi venne eretto l’Odeon in marmo di Erode Attico.

Il Partenone
Fra i templi dell’acropoli di Atene, occorre accennare al
monumento dorico per eccellenza: Il Partenone. Nel V secolo
a.C. (447 a.C.), all’interno del programma di rinnovamento
dell’Acropoli promosso da Pericle, gli architetti Ictino e
Callicrate iniziano la costruzione del Partenone, il più
importante e imponente tempio di Atene. Il Partenone era
stato edificato proseguendo, modificando e ampliando un
prec edente tempio già in costruzione quando i due architetti
(Ictino e Callicrate) erano stati chiamati a prestare la loro opera. Il tempio, di ordine dorico, periptero,
octastilo, possedeva una peristasi con 8x17 colonne, e fu
dedicato ad Athena Parthènos, cioè ad Athena Vergine. La
cella è divisa in tre navate da due file di colonne doriche;
ciascuna fila è formata dalla sovrapposizione di colonne di
due diverse dimensioni, più alte quelle inferiori, più basse
quelle superiori. Sul lato Ovest un ulteriore doppio ordine
di colonne legava la fila di destra con quella di sinistra e
tutte assieme costruivano uno straordinario e inusuale
scenario per la statua dell’Athena fidiaca accolta nel naos ( la cella). Sul lato posteriore della cella si apre un
altro ambiente largo quanto il naos e lungo poco meno della metà. Coperto da un soffitto a cassettoni retto
da quattro colonne ioniche (le cui slanciate proporzioni le rendono atte a elevarsi per un’altezza simile a
quella delle colonne doriche sovrapposte del naos). Questo ambiente è accessibile dall’opistodomo e prende
il nome di parthenon (che in greco significa “stanza delle vergini). Al suo interno, le vergini ateniesi tessevano
e ricamavano a turno il peplo da offrire alla dea Athena nel corso delle feste Panatenèe a lei dedicate. Nel
tempio le correzioni ottiche sono numerose: lo stilobate, ad esempio, presenta una convessità la cui freccia
la cui freccia è di circa 6 centimetri in corrispondenza della facciata e di 11 sui lati maggiori. Tale incurvamento
lo si ritrova anche in tutti gli elementi orizzontali dell’alzato e serve a contrastare l’effetto ottico che, in
lontananza, avrebbe altrimenti fatto sembrare concave tutte le linee orizzontali. Inoltre, le colonne sono
inclinate verso l’interno, tutte secondo piani ortogonali poste ai lati del tempio, a eccezione delle quattro
angolari -di diametro maggiore delle altre- che lo sono lungo piani che giacciono sulle diagonali del rettangolo
di base. Anche in questo caso, qualora le colonne fossero state perfettamente verticali sarebbero apparse
come sgradevolmente inclinate verso l’osservatore.
Trasformato in Polveriera dagli Ottomani, il Partenone venne danneggiato dall’esplosione del 1687 causata
dalle cannonate dell’armata veneziana che assediava Atene. Nel 1800 Lord Anghin trasferì nel British
Museum gran parte del tempio.
- L’architettura romana
L’architettura romana è caratterizzata da grandi edifici attraverso i quali i romani dimostravano il potere e
l’efficienza dello stato.

“Una seconda proprietà caratteristica dell’architettura romana è l’uso esteso e variato sia dello spazio interno
che dello spazio “attivo” esterno. In effetti si parla dell’architettura romana come di un’architettura
“spaziale”, in contrasto con il carattere “plastico” di quella greca classica. [...] Si può dire in generale che i
romani trattarono lo spazio come una sostanza plasmabile e articolabile.” Ch. Norberg-Schulz, Il significato
nell’architettura occidentale, Milano, Electa, 1974, p. 42

Nell'architettura romana è particolarmente caratteristica la valutazione dello spazio; ciò grazie all'uso della
struttura arcuata, in cui la disposizione curva del muro si attua sia in verticale che in orizzontale, cioè sia come
arco-volta, sia come articolazione curva dello spazio (in pianta). Le strutture, dapprima nascoste dagli
apparati decorativi, saranno poi più manifeste, si affermeranno come valore architettonico più esplicito.
L'architettura romana è definita tale in riferimento alla città di Roma, come centro da cui parte l'espansione
e lo sviluppo della cultura che interesserà porzioni di territorio sempre più vaste, fino alla massima
espansione dell'Impero, attraverso una evoluzione culturale maturata nel rapporto centro (Roma) - periferie
(Province) caratterizzato da uno scambio: il centro irradia cultura e assorbe influenze. Quindi romana anche
come ambito temporale che si estende dal primo regno di Roma alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente,
nel 476 d.C.

Il genio antico organizzatore di Roma e le sue capacità di pianificazione troveranno dimostrazione in età
imperiale: il sistema di leggi dal quale sarebbero derivati i successivi codici giuridici del mondo occidentale
che regnò per un secolo e mezzo grazie ad un’accorta amministrazione, ma soprattutto con l’architettura e
con la pianificazione delle grandi città, con edifici pubblici, con le basiliche, i templi, con le ampie strade,
botteghe e uffici, magazzini e sistemi complessi di fognature. Queste città furono il punto di partenza per
una nuova architettura.

Le tecniche costruttive
Considerando l’architettura greca e quella romana si è colpiti dalle forme diverse, persino in costruzioni
destinate allo stesso uso, e dalla differente concezione dello spazio. L’architettura greca, infatti, nelle sue
espressioni più note e importanti, basa le proprie tecniche costruttive su un principio che è il più semplice e
il più intuitivo: quello dell’architrave appoggiato sui piedritti. Tale sistema, è composto di tre soli elementi:
un architrave (elemento orizzontale) e due sostegni (elementi verticali), le colonne, in tal modo lo spazio
aveva poca rilevanza. I nuovi tipi edilizi di epoca romana richiedono un’architettura più varia e più flessibile
di quella della cultura greca ed ellenistica. Gli architetti romani attribuirono molta importanza all’uso della
parete (e non della colonna), sviluppando l’utilizzo dell’arco e furono maestri nel definire gli spazi interni.
L’architettura romana, invece, basa i propri schemi costruttivi sul principio dell’arco e della volta (sistema
archivoltàto): in tal modo i sostegni si fondono con la copertura creando un insieme uniforme, continuo e
solido. Poiché le volte e gli archi, a causa di ben precise leggi fisiche, spingono i propri sostegni verticali verso
l’esterno, con il rischio di farli crollare, è necessario opporre una forte resistenza a questa grande spinta. A
tale esigenza la tecnica romana fa fronte grazie al grande spessore delle murature. L’uso sistematico dell’arco
e della volta permise ai Romani di coprire spazi immensi. D’altra parte, l’originalità del pensiero architettonico
romano consiste proprio nella capacità di immaginare i volumi e le forme che racchiudono e plasmano i
volumi stessi.

L’arco
I romani si sono serviti della tecnica costruttiva dell'arco, già usata dagli etruschi, per risolvere tutti i problemi
di elevazione in architettura. In questo modo sono riusciti a costruire edifici di numerosi piani, alcuni dei quali
sono ancora visibili.
L’arco portò ad “una vera e propria rivoluzione della cultura architettonica, grazie ad una flessibilità
strutturale amplissima e piena di implicazioni estetiche assolutamente nuove” (C.F. Giuliani, L’edilizia nell’antichità,
Roma 1990, p. 29)

L’arco è una struttura architettonica composta da un insieme di elementi di pietra sagomata, altrimenti detti
conci:
- Quello situato nella parte più elevata dell’arco è detto concio
di chiave, concio di chiusura o serraglia.
- Le linee radiali che separano i conci si dicono giunti.
- Il piano orizzontale da cui si comincia a costruire l’arco prende
il nome di piano di imposta.
- Le linee curve che in basso e in alto delimitano l’arco sono dette
rispettivamente intradosso ed estradosso.
- Si chiama freccia la distanza verticale fra il piano di imposta e il
punto più elevato della linea di intradosso.
- Luce o corda è la distanza fra i sostegni o piedritti.
- Si dice archivolto o ghiera la parte esterna (la faccia) visibile dell’arco.

Dal punto di vista geometrico, nell’arco a tutto sesto (cioè semicircolare) la freccia corrisponde al raggio della
semicirconferenza, mentre la luce è pari al suo diametro.

Come si costruisce un arco


L'arco poggia su due elementi verticali, i piedritti, su cui
poggiano i conci, generalmente di pietra di sezione
trapezoidale, che poggiano provvisoriamente su una
struttura temporanea in legno, detta centina (dal latino
cingere = legare, mettere insieme) a indicare una figura
curvilinea lignea posta a sostegno di una volta o di un arco
per darne la forma durante la costruzione. Le prime
testimonianze dell'utilizzo di archi sono state rinvenute nei
ritrovamenti della città di Ur in Mesopotamia, quindi i primi
utilizzi delle centine sarebbero datati al 1400 a.C. circa. I
Romani furono sicuramente coloro che svilupparono
maggiormente la tecnica di costruzione degli archi, impiegati
nella costruzione degli acquedotti (descritti ampiamente nell'opera De architectura di Vitruvio) e di tutte le
grandi opere.

Per costruire un arco occorrono tre fasi:

Fase 1: Dopo aver posizionato la centina, si poggiano sulla forma dell'arco prestata dalla centina i conci, i
primi, laterali, poggiano sui piedritti, gli altri sul concio che è a fianco. La loro forza è verticale.

Fase 2: Lo spazio centrale viene occupato da un concio leggermente più largo dello spazio rimasto, che entri
a forza e trasformi la spinta verticale dei conci a fianco in spinta laterale che si scarica sui piedritti.

Fase 3: A questo punto si può togliere la centina e l'arco si regge autonomamente. Il concio centrale è detto
di chiave perché serve a chiudere l'arco.

L'arco permette di aprire nei muri delle luci (spazio fra i piedritti) molto più larghe dell'architrave.
Sistema di sollevamento dei conci
La posa di questi grandi massi in opera avveniva attraverso tutta in una serie
di sistemi di sollevamento che con il tempo andarono ad affinarsi sempre di
più. Da ricordare sempre che la forza umana rimane quella più utilizzata.
Tutto ciò che sappiamo sul sistema di sollevamento di questi massi, ci deriva
sì dalle fonti storiche ma soprattutto dai segni visibili nei blocchi (vedi Arco
romano a Sufetula in Tunisia) nella parte superiore dei conci. Si potevano
impiegare diverse tecniche per il sollevamento dei conci:

- aggancio delle funi alle sporgenze del concio;

- forbice a tenaglia;

- ulivella a 3 elementi.

In ciò i Romani furono aiutati anche dall’abilità nel servirsi di nuove e potenti macchine da cantiere, ad
esempio la gru del tipo di quella mostrata nel Rilievo della tomba degli Hatèrii. Tale apparato,
ingegnosamente azionato da una grande ruota di legno messa in movimento dalla forza di alcuni uomini che
camminavano al suo interno, consentiva di sollevare grandi pesi facilitando notevolmente la costruzione. Alle
macchine a uso civile e militare Vitruvio dedica l’intero ultimo libro del suo trattato di architettura,
intendendo la meccanica come parte inscindibile dell’arte di edificare. E come meccanica, d’altra parte,
possiamo intendere sia l’arco sia la volta (in specie la cupola).

L’arco romano di Cabanes, (II secolo) realizzato nei pressi della Via Augusta, il più
importante asse viario iberico, semplifica in modo perfetto la semplicità e al tempo stesso
la robustezza della struttura.

La Volta
La volta è un sistema di copertura che si basa sul principio dell’arco, poiché risulta composto di tanti conci
affiancati che trasmettono alle murature che la sostengono sia il peso proprio sia quello che grava dal peso
delle murature sovrastanti. Da ricordare che gli esempi più antichi di volta risalgono a 3000 a.C., ma le varie
tecniche usate in questi tentativi sono alquanto diverse da quella perfezionata e sviluppata dai Romani, che
permise loro di costruire complesse coperture.
Le volte più comunemente impiegate dai Romani furono aperte, chiuse e semichiuse. Si suddividono anche
in tal modo: a botte, quelle anulari e quelle a crociera.

Volta a botte, nota a partire dal IV secolo a.C. in tutto il bacino Mediterraneo. È di forma semicilindrica e
genera lungo i suoi appoggi delle forze che tendono a rovesciare verso
l’esterno le strutture che la sostengono, da qui la necessità di utilizzare muri
molto spessi per impedirne il ribaltamento. È la più semplice tra le coperture
in muratura e viene impiegata soprattutto per coprire spazi di forma
rettangolare. Geometricamente appare come se fosse generata da un
immaginario arco a tutto sesto che scorre lungo due rette parallele, costituite
dalle sommità dei muri, elementi verticali di sostegno. Le generatrici, cioè i
muri su cui si imposta la volta, possono essere anche inclinate. È questo il caso,
ad esempio, delle volte a botte che coprono le scalinate. Dobbiamo anche
distingue tra volte aperte o chiuse, a seconda se poggiano su una linea di imposta continua o solo su
determinati punti. La volta a botte è da considerarsi semichiusa, in quanto due dei suoi lati possono restare
liberi, aprendosi in arcate, gli altri due si chiudono nelle pareti o nei colonnati che sorreggono il piano di
imposta.
Volta a padiglione è di forma chiusa, perché si appoggia su muri di sostegno
lungo tutto il suo perimetro. È ottenuta dall’intersezione di due volte a botte che
hanno le linee di imposta sui lati opposti dell’ambiente da coprire. Quindi,
mentre la volta a botte può determinare un’infinita continuità spaziale lungo il
suo asse, la volta a padiglione racchiude uno spazio concluso e ben delimitato
dai fusi cilindrici, cioè le superfici curve comprese tra i semiarchi delle diagonali
e una linea retta d’imposta.

Volta a crociera è la forma aperta della volta che più si presta a motivi continui di coperture collegati tra loro.
Infatti, essendo determinata dall’intersezione di due volte a botte, i suoi lati
sono formati da quattro arcate a ciascuna delle quali può essere accostata
un’altra crociera. A differenza della volta a padiglione si considerano però solo
le unghie (chiamate anche lunette), cioè le superfici cilindriche comprese tra i
semiarchi delle diagonali e le direttrici, cioè gli archi a tutto sesto. È
caratterizzata quindi da sei archi, quattro a tutto sesto sui lati e due ellittici sulle
nervature delle diagonali (la chiave di volta è alla stessa altezza per tutti gli archi).
Mentre la volta a botte staticamente distribuisce tutto il suo peso lungo le due linee di imposta e quella a
padiglione lungo tutto il proprio perimetro, la volta a crociera concentra le forze in soli quattro punti, il che
implica l’appoggio di essa su quattro sostegni ben isolati.

Volta anulare è un particolare tipo di volta a botte che ha le generatrici (cioè i muri su cui si imposta) costituite
da due cerchi concentrici. Questo tipo di volta lo troviamo soprattutto nel Colosseo a Roma.

Uso estensivo dell’arco e della volta


I magazzini della Porticus Aemilia, finiti nel 174 a.C. presso l’Emporium,
nuovo porto commerciale realizzato sul Tevere dal 193 a.C., erano una
vasta struttura di 60x487 m spartita in 50 navate, scalate in 4 ripiani verso
il fiume, e voltate a botte su innumerevoli arcate rette da 294 larghi pilastri.
Si tratta del “primo impiego dell’arco in una grande costruzione utilitaria in
Roma. [...] Sono queste costruzioni utilitarie le più precoci testimonianze di
edifici di ampia mole in Roma, dove ancora per oltre un secolo e mezzo i
templi rimasero di proporzioni modeste”. (R. Bianchi Bandinelli, Roma. L’arte
romana nel centro del potere, Milano 1969, p. 145)

La cupola
La cupola emisferica, vera e propria invenzione romana, geometricamente è una superficie detta di rotazione
in quanto viene generata facendo ruotare un semicerchio attorno al proprio asse verticale. Viene solitamente
utilizzata per coprire ambienti a pianta circolare, quadrata o poligonale.

La malta
Trattando della conformazione degli archi di mattoni si è accennato alla malta. Questo materiale, di
larghissimo uso presso i Romani è un composto formato da:
- Un legante o agglomerante, cioè la sostanza che tiene unite tutte le altre: la calce.
- Uno o più aggregati: sabbia o pozzolana.
- Acqua, la sostanza che innesca l’azione del legante.
“Dopo la cottura delle pietre calcaree per ottenere la calce si ottiene la malta cioè un composto di calce
spenta, acqua e sabbia. Essa è in genere costituita da sabbia di cava, tre parti di sabbia e una di calce;
utilizzando sabbia di fiume, due parti di sabbia e una di calce. Questa è la migliore dosatura. Se si vorrà poi
aggiungere alla sabbia di fiume un terzo di frammenti di coccio passato al setaccio la composizione della
malta sarà ancora migliore”. Vitruvio, De architectura, lib. II, V.

Per quanto riguarda la preparazione della malta, il muratore mescola a lungo gli aggregati e il legante,
aggiungendo a poco a poco acqua. Per far questo si serve di una zappa dal manico molto lungo, marra. Con
la lama dell’attrezzo viene effettuato un movimento di sfregamento per eliminare i grumi e far penetrare
così la sabbia nella massa elastica della calce. Per questo la lama della marra forma un angolo acuto con il
manico, mentre la zappa, usata per assicurare il movimento nella fossa di spegnimento, ha la lama ad angolo
retto con lungo manico. Questa operazione è detta anche impasto e deve protrarsi fino a quando il composto
non appaia perfettamente omogeneo e privo di grumi.

Il calcestruzzo
Unendo alla malta la ghiaia o piccole scaglie irregolari di pietra o di mattoni si otteneva il calcestruzzo, dopo
la lenta evaporazione dell’acqua, a seguito di reazioni chimiche, si trasformava in un unico blocco, avente la
stessa consistenza e resistenza della pietra.
Nell’ utilizzare le potenzialità degli spazi pubblici coperti, a cupola soprattutto, come terme, palazzi, ville e
soprattutto nel Pantheon, i Romani svilupparono l’uso del getto di calcestruzzo nella realizzazione delle volte.
Il calcestruzzo derivò tra il III e I secolo a.C. dal sistema costruttivo in pietrisco legato con malta adottato dai
Romani, cha a differenza dei greci non disponevano di cave di marmo agevolmente utilizzabili. Fu la crescente
audacia con cui lo utilizzarono che consentì loro di creare una nuova configurazione architettonica dello
spazio, in cui l’edificio diventava una sorta di guscio plasmato.
L’ opus cementicium era un conglomerato di spezzoni lapidei, cementa impastati con malta, solitamente
posati rozzi su ricorsi orizzontali. Pur non potendo essere impastato e gettato, il calcestruzzo moderno si
trasformò da materiale di riempimento delle pareti, in un vero e proprio materiale da costruzione con cui
potevano essere realizzati muri, archi e cupole. Gran parte della sua robustezza era connessa alla
composizione della malta costituita da calce ma anche dalla pozzolana, sabbia vulcanica assai comune nei
pressi di Roma.

I paramenti murari
I Romani furono molto attenti alla realizzazione delle murature, sperimentando diverse tecniche che
utilizzarono in maniera molto artistica. I setti murari realizzati in epoca romana, per la molteplicità dei
procedimenti costruttivi, consentono di valutare appieno l’evoluzione tecnica e la razionalizzazione esecutiva
dell’edilizia romana. Infatti, attraverso la lettura dei procedimenti costruttivi, adottati per la realizzazione
delle apparecchiature murarie, è possibile valutare come i Romani si orientavano verso la massima efficienza
produttiva anche in ragione della vastità di interventi che caratterizzarono la storia dell’antica Roma, sia
nell’ambito della Capitale che nei territori delle Province. Le tipologie murarie usate in epoca romana
prendevano il nome dal materiale e dal sistema di tessitura dell’involucro. I paramenti murari, gli apparecchi
murari, i setti murari, le murature, tutti sinonimi per indicare le superfici dei muri a vista, eseguiti con
apparecchiature (cioè con una disposizione) di conci che, in base al materiale impiegato o al disegno che
formavano, sono definite nei modi che seguono:

Opus quadratum: si indica sia il muro costruito interamente con blocchi di pietra
parallelepipedi più o meno perfettamente squadrati disposti a secco su un asse
orizzontale, sia il semplice paramento di lastre rettangolari o quadrate, infatti l’opus
quadratum viene utilizzato dai Romani come paramento di murature in pietrame
informe o in calcestruzzo. Era la tecnica comunemente usata dai greci per
l’architettura monumentale e anche per le cinte murarie dal V sec. a.C. nel tipo
pseudoisodomo e poi isodomo, in Italia si diffuse dall’età arcaica nell’area etrusca:
mura urbane e tombe, impiegando il tufo locale di facile lavorazione. Dall’età
ellenistica fu introdotto nell’architettura monumentale romana, ma più che per l’intera struttura muraria per
il solo rivestimento: travertino o marmo. La notevole diffusione dell’opus quadratum fu determinata dalla
frequente reperibilità della pietra e dalla notevole disponibilità di soluzioni adottabili che per quanto riguarda
le modalità compositive sono definite: isodome, se la soluzione risulta dalla disposizione su ricorsi
sovrapposti di blocchi aventi le stesse dimensioni, oppure pseudoisodoma, se la soluzione è conseguente alla
disposizione su ricorsi sovrapposti di blocchi lapidei parallelepipedi aventi dimensioni non sempre unificate
così da determinare altezze diverse dei filari. Le murature di questo tipo potevano anche presentare diatoni
cioè conci posti per testa alternati ad ortostati cioè conci posti per lunghezza. Si possono avere filari costituiti
da diatoni ed ortostati mescolati secondo un certo ordine oppure filari di singoli diatoni sovrapposti a filari
di singoli ortostati. I blocchi erano il più possibile uguali tra loro, per questo motivo erano pratici da mettere
in opera. L’opus quadratum caratterizza tre diverse maniere di messa in opera che rispecchiano tre diverse
culture: etrusca, greca e romana. Di quest’ultima se ne può seguire l’evoluzione cronologica attraverso sette
periodi.

Opus incèrtum (opera incerta): Il muro è realizzato con pietre piccole e di forme svariate
senza essere squadrate e senza aver un contorno ben definito.

Opus reticulàtum (opera reticolata, dal latino retìculum, reticella): Il muro è composto
da elementi in pietra, preferibilmente in tufo, in quanto più facile da lavorare e più
reperibile, di forma tronco-piramidale affogati nel calcestruzzo, dei quali rimangono in
vista solo le basi maggiori quadrate. Tali elementi venivano accostati gli uni agli altri con
i lati di base inclinati di 45° rispetto all’orizzontale per formare un disegno a reticolo. Le
loro giunzioni, specie semirette diagonali incrociate tra loro ad angolo retto, formavano
un disegno decorativo a reticolo.

Opus vittàtum (opera listata, dal latino vitta, nastro, benda): tecnica che consiste nel
disporre blocchetti di pietra, parallelepipedi e tutti della stessa altezza, in filari
orizzontali. È, quindi, la stessa apparecchiatura dell’opera isodoma, ma impiegando
materiale di piccola pezzatura.

Opus testàceum (opera di mattoni, dal latino tèsta, mattone cotto): tipo di muratura che
fa esclusivo uso dei mattoni. Fu il paramento murario più usato dai Romani. Le più antiche
costruzioni erano invece in mattoni crudi: si parla allora di opus laterìcium (opera in
laterizio, dal latino làter, mattone crudo).

Opus spicàtum (opera a spiga, dal latino spica): le pietre sagomate o i mattoni vengono
disposti inclinati di circa 45° rispetto all’orizzontale e fra loro di 90°. Il disegno che si
ottiene assomiglia a una spiga di grano o anche a una lisca di pesce.

Opus mìxtum (opera mista): consiste nel raggruppare nella stessa opera vari tipi di
muratura di cui si è precedentemente parlato. In generale, però, si adopera il termine
«opera mista» quando vengono usati contemporaneamente pietre e mattoni a filari
alternati o a superficie interclusa.

Opus africanum: il nome di questa tecnica indica con chiarezza l’area in cui essa fu maggiormente utilizzata.
Tuttavia, anche se sembra che l’origine vada fissata nell’Africa settentrionale, essa tramite i Cartaginesi venne
introdotta in Sicilia e in Italia meridionale, dove sono noti molti esempi. Dal punto di vista tecnico è costituito
da catene verticali di blocchi nelle quali si alternano pietre verticali e orizzontali, le ultime più larghe delle
prime. Queste catene costituiscono gli elementi portanti del muro collegati tra loro da
file orizzontali portanti del muro, collegati tra loro da file orizzontali di pietre più piccole.
Abbiamo quindi schematicamente una tecnica a ossatura a riempimento del tutto simile
all’opera a graticcio.

L’architettura

Le opere pubbliche
Nella società romana assumono importanza soprattutto le grandi opere pubbliche di utilità comune e
politico-militare. Fra esse: le strade, i porti, i ponti, gli acquedotti, le fognature, gli archivi, i magazzini, i
mercati, le terme e le basiliche adibite all’amministrazione della giustizia, a trattare gli affari e alle pubbliche
riunioni. Per ognuna di queste opere i Romani crearono una tipologia (cioè una forma architettonica) che
conserverà sempre i caratteri essenziali di partenza.

Gli acquedotti. L’approvvigionamento idrico


era vitale per Roma e per le città delle
province. A tale necessità provvedevano gli
acquedotti. Furono costruiti tra il 312 a.C. e il
206 d.C. per condurre acqua da lontane
sorgenti fino al cuore della capitale. Il
tracciato e la costruzione degli acquedotti rappresentavano il lavoro più complesso e rilevante, poiché si
doveva tener conto con precisione dell’installazione topografica e delle distanze spesso considerevoli da
percorrere. Storicamente si ritiene che i Greci avrebbero costruito acquedotti molto prima dei Romani e si
ricorda di fatto l’acquedotto scavato nella roccia che alimentava Samo nel VI sec. a.C., ma il primo
acquedotto greco a canalizzazione stagna fu quello di Pergamo con il notevole sifone di 190 m. alla fine del
regno di questo sovrano, intorno al 197-159 a.C. due acquedotti, per altro senza sifoni, assicuravano già da
tempo l’approvvigionamento idrico di Roma. L’Acqua Appia costruita nel 312 a.C. dal Console Appio Claudio
e l’Aniovetus costruito nel 272 a.C. dal Censore Manlio Curio Dentato, ma queste due opere non
presentavano ancora l’aspetto caratteristico degli acquedotti romani, cioè l’interminabile fila di arcate. Solo
con la costruzione nel 144 a.C. dell’Acqua Marcia per iniziativa del Pretore Marcius Rex, un acquedotto per
la prima volta venne sopraelevato nel suo percorso mediante arcate. Le distanze da percorrere proporzionate
alla lontananza delle sorgenti offrono un’idea delle difficoltà che dovettero superare i costruttori romani, ma
i romani sembravano non curarsene. Osservando per esempio opere come il Pont du Gard o l’acquedotto
(Jeax au sarc) non ci devono far dimenticare che si tratta di un frammento molto piccolo del percorso di un
acquedotto e che la soluzione tecnica a cui si fece ricorso, certamente spettacolare, fu dovuta alla particolare
situazione del terreno, per questo la migliore percezione che si possa avere delle sezioni sopraelevate di tale
realizzazione ci viene certamente offerta dalla visione per chilometri e chilometri dell’Acqua Claudia e
dell’Anio Novus, costruiti sotto i regni di Caligola e di Claudio, che si estendono lungo la Via Appia e la Via
Latina.
Acquedotto Claudio: realizzato
tra il 38 e il 52 d.C. dagli
imperatori Calìgola (37-41 d.C.) e
Claudio (41-54d.C). Il suo
percorso è di circa 70 chilometri,
un quarto dei quali avviene su
arcate sostenute da alti, robusti
piloni che ancora oggi si ergono
nella placida compagna romana,
segni rilevanti del paesaggio. In prossimità della città, lì dove la via Prenestina si divide dalla via Labicàna, due
archi dell’acquedotto, sovrappassanti le due strade, furono resi monumentali. Inglobati nelle Mura Aureliàne,
vennero trasformati in porta di accesso alla città con il nome di Porta Labicana, oggi nota come Porta
maggiore, in quanto nei secoli successivi veniva attraversata per andare alla Basilica di Santa Maria Maggiore.
La porta è caratterizzata da due ampie arcate, strette fra altissime edicole terminanti in un timpano e dotate
di colonne corinzie trabeate. Al loro interno si aprono delle grandi finestre centinate. Un arco al di sotto
dell’edicola centrale serviva per il passaggio dei pedoni. Quattro cornici dividono l’attico in tre parti: la fascia
superiore corrisponde alla canalizzazione entro cui scorreva l’acquedotto dell’Anio Novus (Aniene Nuovo),
acquedotto collegato all’Acqua Claudia, che scorreva, invece, dietro la fascia intermedia. La fascia inferiore,
infine, reca delle iscrizioni che ricordano i restauri effettuati in antico.

I ponti civili. A Roma costruire ponti era un’attività ritenuta sacra, a essa come pure ai riti e alle interpretazioni
della religione e delle tradizioni presiedeva infatti il collegio sacerdotale dei Pontifices, pontefici, con a capo
il Pontifex maximus, il pontefice massimo. I Romani ritenevano che il termine stesso di Pontifex derivasse da
pontem facere, cioè costruire un ponte.

D’altra parte, l’economia di Roma si fondava proprio sull’esistenza di un ponte, il Pons Sublicius, il ponte di
legno che consentiva un comodo attraversamento del Tevere ed era anche fonte di reddito, infatti chiunque
avesse voluto passarvi, avrebbe dovuto pagare un pedaggio e numerosi erano coloro che approfittavano del
ponte, soprattutto i mercanti che dall’Etruria si recavano nella ricca Campania. Il ponte che la tradizione
voleva essere edificato sotto il Re Anco Marzio del VII sec. a.C. era interamente in legno ad incastri, cioè privo
di chiodi e smontabile all’occorrenza. Crollò per una terribile piena nel 60 a.C.
I ponti in muratura sono così costituiti:
- Le pile sono strutture verticali con fondazioni, solitamente consistenti in pali di legno conficcati nel
terreno, entro l’àlveo (o letto) del fiume. Esse sono protette dalla violenza della corrente e delle piene
mediante i rostri, comunemente a pianta triangolare, posti sia a monte cioè rivolti nella direzione
opposta alla corrente, sia a valle cioè orientati nella stessa direzione della corrente. Le pile possono
essere rinforzate da un contrafforte per l’intera altezza e fino ai parapetti, e possono essere forate
da un occhio di ponte (di forma circolare) o da una finestra di scarico (conformata ad arco) utili in
caso di piena poiché formano un varco aggiuntivo per il passaggio dell’acqua.
- Le arcate sono a tutto sesto con strutture in conci di pietra.
- L’archivolto spesso è modanato, cioè sagomato a fini decorativi.
- La superficie compresa tra due archi vicini, la pila e il parapetto, è detta timpano con una forma
grossomodo simile a quella di un triangolo.
- Le spalle sono le strutture d’appoggio sulle sponde.
- La carreggiata, infine, costituisce la parte percorribile del ponte. Essa viene solitamente lastricata in
pietra ed è affiancata dai parapetti di sicurezza.

Ponte Fabricio dell’Isola Tiberina e Ponte Cestio: i due ponti sono contemporanei
e risalgono al I secolo a.C.
Sono due ponti in muratura che collegano le sponde del Tevere con l’Isola Tiberina.
Il Ponte Fabricio, costruito sotto il curator viarum Lucio
Fabricio, è a due arcate. Il Ponte Cestio è chiamato dal
nome del magistrato Cestius di cui non si conosce nulla.
Questo aveva una sola arcata. Quello rinvenuto è a tre arcate, conseguenza di
un ampliamento del XIX secolo. Ambedue i ponti erano dotati di finestre di
scarico sulle pile, quella del ponte Fabricio è affiancata anche da due lesene.
Ponte di Augusto e Tiberio a Rimini: è uno dei
ponti più integri dell’antichità. Costruito
totalmente in bianco pietra d’Istria e con
probabile struttura in calcestruzzo, fu iniziato nel
14 d.C. da Augusto e venne ultimato da Tiberio
nel 21 d.C. Formato da cinque arcate di ampiezza
variabile – una sola delle quali perfettamente a
tutto sesto – che poggiano su quattro pile
leggermente oblique rispetto all’asse della
carreggiata. Alcune edicole provviste di timpano
sono affiancate da lesene con capitelli di ordine
tuscanico. Esse sono collocate al di sopra dei
rostri, a puro scopo ornamentale. I conci di
chiave di alcuni archi recano delicati bassorilievi
allusivi ai titoli ricevuti sia da Augusto sia dal successore Tiberio. Una cornice modanata, sostenuta da
mensole, corona la struttura, che costituì l’esempio più limpido a cui guardarono ammirate generazioni di
architetti fino al Cinquecento.
Ponte romano di Turris Libisonis: tra le tante realizzazioni c’è il ponte
Turris Libisonis in Sardegna di étà augustea, il maggiore tra i ponti romani
della Sardegna con 135m di lunghezza, ancora ottimamente conservata. Il
ponte, realizzato in opus quadratum, è formato da 7 arcate disuguali a
sesto ribassato, e le arcate vennero impostate su piloni in calcare con
rinforzi in vulcanite.

Le terme. Le acque nelle città romane non venivano utilizzate solo per il soddisfacimento di beni primari, ma
anche per spettacolari giochi d’acqua nelle fontane e soprattutto per le terme, dal greco thermai = sorgenti
calde. Contrariamente all’uso moderno per cui tale parola si riferisce soprattutto a impianti che sono frutto
di acque da poteri curativi, i Romani chiamavano terme i grandi
complessi dei bagni pubblici. In uso a Roma sin dall’età repubblicana,
la loro configurazione fu definita in età imperiale a seguito della
costruzione a Roma delle grandiose Terme di Traiano. Spesso erano
orientate in modo tale sia da sfruttare al meglio il soleggiamento sia
da subire meno fastidi possibili dai venti. Le terme furono un elemento
fondamentale nel modello di vita romano, non consistevano solo in
una successione di ambienti quali natàtio, una piscina scoperta; il
frigidàrium, una grande sala che ospitava vasche con acqua fredda; Il
tepidàrium, un piccolo ambiente riscaldato in cui si trovavano vasche
di acqua tiepida; Il caldàrium, una sala con vasche d’acqua molto
calda; l’apodytèrium, lo spogliatoio; il lacònicum (sudatòrio o bagni di
vapore), per i massaggi con oli e unguenti profumati; ma contenevano anche biblioteche, musei, locali di
ristoro, ritrovo e passeggio, intervallati da cortili e giardini che formavano una seducente cornice per attività
fisiche e sociali talvolta anche intellettuali.
Le terme di Traiano. Progettate dal grande architetto
Apollodoro di Damasco, le Terme di Traiano vennero
iniziate dopo il 104 d.C. sfruttando, in parte, le precedenti
strutture della Domus Aurea (Casa Aurea), l’immensa
residenza che era stata di Nerone, per essere infine
inaugurata il 22 giugno del 109 d. C. Per la prima volta il
compatto complesso dei bagni fu circondato da un muro di
cinta, dotato di una grande esèdra (dal greco exèdra, sede
esterna. Indica uno spazio esterno porticato, per
intrattenersi a conversare. Più in generale indica un
qualunque spazio a emiciclo, anche interno), che
racchiudeva altre superfici destinate a portici, giardini,
biblioteche, ninfèi (un ninfeo: solitamente con questo termine si designano luoghi destinati al culto delle
Ninfe, ma può indicare anche fontane monumentali munite di vasche con relativo specchio d’acqua). Le
terme di Traiano occupavano una superficie complessiva di circa 9 ettari, avevano le dimensioni di 330X315
metri ed erano orientate in modo tale sia da sfruttare al meglio il soleggiamento sia da subire meno fastidi
possibili dai venti. Tale orientamento, come pure la distribuzione in pianta degli spazi, fu adottato anche dalle
altre grandi terme imperiali edificate successivamente.
Il blocco centrale, di 190X212 metri, era organizzato simmetricamente rispetto a un asse mediano lungo il
quale si succedeva la natàtio, cioè la piscina scoperta. Il frigidàrium, una grande sala cruciforme che ospitava
vasche con acqua fredda. Il tepidàrium (tepidàrio), un piccolo ambiente riscaldato in cui si trovavano vasche
contenente acqua tiepida. Il calidàrium (calidàrio), una sala con vasche d’acqua molto calda. Gli ambienti
che, a destra e a sinistra, affiancavano il blocco centrale erano destinati ad apodytèrium (cioè a spogliatoio),
a palestra, a lacònicum (sudatorio o bagni di vapore), ai massaggi con oli e unguenti profumati. Al
riscaldamento dell’acqua provvedevano i focolari che diffondevano aria calda dagli ipocàusti, gli spazi
sottostanti alle pavimentazioni sospese su spensurae, cioè pilastrini di mattoni, dei vani da scaldare. A tal
fine, infatti, tutti i pavimenti erano sostenuti dalle suspenurae. Tutti gli ambienti delle terme erano coperti
da volte o da cupole ed erano sempre rivestiti di mosaici e di pregiati marmi colorati di provenienza asiatica
e nordafricana, oltre che europea.
Le terme di Caracalla. Costruite tra il 212-216 d.C., sono uno dei monumenti più imponenti sopravvissuti
nella Roma antica. Nelle Terme di Caracalla, che sorgevano su una superficie di quasi 20 ettari ed erano in
grado di accogliere 1600 persone, era particolarmente notevole il vasto calidarium circolare che, aggettando
su l fronte sud-ovest per sfruttare al massimo il calore solare, era coperto da una cupola in calcestruzzo più
alta di quella del Pantheon e di diametro di poco inferiore. Gli assi visivi accortamente studiati, il carattere
scenografico dei diaframmi di colonne, il contrasto di luce e ombre e di ambienti alti e bassi, i ricchi
rivestimenti in marmo policromo, i mosaici e gli sticchi contribuivano a creare una suggestiva esperienza
estetica che per la verità non trovava riscontro nell’esterno piuttosto sobrio e scostante.

Le opere religiose
L’architettura dei templi d’epoca romana si muove tra le forme della tradizione etrusca e quella greca e le
novità consentite dal poter impiegare contemporaneamente sia il calcestruzzo sia il sistema archivoltato. I
Romani, come già gli Etruschi, provavano un vero e proprio timore reverenziale nei confronti di tutto quello
che riguardava la manifestazione del sacro, e questo li induceva a riproporre sempre le forme della tradizione,
anche se arcaiche. Nonostante questa rigidità di fondo essi riuscirono ad apportare modifiche notevoli
persino all’antica tipologia etrusca, la prima che essi adottarono. La costruzione di edifici destinati al culto
subì notevoli cambiamenti, soprattutto a partire dalla seconda metà del I secolo a.C. Il tempio, infatti,
cominciò a dotarsi di un’abside, di uno spazio, cioè, a pianta semicircolare che si colloca in corrispondenza
del lato opposto all’ingresso, configurandosi come dilatazione della cella. Tale ambiente, pensato per
accogliere la statua di culto, sottolinea ancora più l’assialità della struttura, definendo il punto verso il quale
far convergere lo sguardo. L'esempio più importante di architettura templare si avrà in epoca imperiale sotto
il regno di Adriano (117 - 138 d.C.) quando venne ricostruito il Pàntheon forse ad opera di Apollodoro di
Damasco. La sua architettura è di dimensioni volutamente quasi sovrannaturali.
Pantheon. L’architettura costituisce una creativa sintesi delle tre maggiori tendenze architettoniche
dell’epoca: la creazione dello spazio interno, lo sviluppo ad esso connesso, l’uso del calcestruzzo e la
sopravvivenza di forme classiche
tradizionale. Il Pantheon è con il
Partenone uno dei più celebrati
monumenti architettonici del
mondo occidentale. Ha anche la
fortuna di essere uno dei meglio
conservati pur risultando oggi
privo dell’antistante coorte
colonnata che, come il Foro di
Augusto, originariamente
guidava l’occhio fino al portico al
termine della prospettiva. Il
graduale innalzamento della
quota del terreno con la
conseguente perdita dei gradini
che conducevano al portico ha
leggermente attenuato l’effetto
dell’esterno, sembra però che il
gigantesco portico non sia stato altro che un gesto conservatore voluto a soddisfare le aspettative tradizionali
riguardo all’aspetto di un tempio. L’interesse di Adriano e del suo architetto, di cui è ignota l’identità, era
evidentemente concentrato sulla rivoluzionaria rotonda retrostante. La disparità tra il portico e l’edificio è
sottolineata quasi con afflizione della sommatorietà con cui si giustappongono. Carattere tradizionale del
portico è ribadito dalla singolare e forviante scelta di Adriano che volle riprodurre sul fregio l’iscrizione posta
sul precedente tempio, ugualmente dedicato a tutti gli Dei, costruito per volontà di Marco Vespasiano
Agrippa (63-12 a.C.), amico, collaboratore e poi genero di Augusto, nel 27 a.C., ma era andato completamente
distrutto da un incendio. L’iscrizione posta sull’architrave del Pantheon porta questa scritta: “Costruito da
Marco Agrippa, figlio di Lucio, tre volte console.”
Mentre oggi l’architettura del Pantheon è immediatamente leggibile nella sua
totalità, essendo il monumento isolato al centro di uno spazio libero, l’antico
visitatore raggiungeva l’edificio attraversando una stretta piazza porticata.
Durante il percorso era possibile vedere solo il fronte dell’ampio pronao del
tempio, con il timpano sorretto da otto colonne e recante al centro un’aquila
bronzea (simbolo dell’impero e di Giove): il suo aspetto esteriore era quello di
un tradizionale tempio octastilo.
Come si è già detto l’architettura del Pantheon prevedeva un portico abbastanza
imponente. A livello architettonico, l'edificio è composto da una struttura
circolare unita a un portico con colonne corinzie che sorreggono un frontone.
Sulla struttura (cella) circolare, in muratura, è posta una cupola semisferica in
calcestruzzo che, al suo apice, presenta un'apertura circolare detta oculo, che
permette l'illuminazione dell'ambiente interno. Quindi, riassumendo, gli
elementi che costituiscono il Pantheon sono: un pronao formato da tre file di
otto colonne, un timpano triangolare e una cupola emisferica.
Greci e Romani avevano costruito numerosi edifici a pianta circolare, tra cui il più simile al Pantheon è molto
probabilmente l’Arsinoeion, una tholos costruita verso il 270 nell’isola di Samotracia, nell’Egeo
Settentrionale, dedicata ai grandi dei dell’isola. Nessuno di essi, tuttavia, predispone alle dimensioni,
all’intensità espressiva e alla maestosità dell’architettura del Pantheon. La luce della cupola di 43.40 m era
senza precedenti, quella di San Pietro, costruita oltre 1400 anni dopo sarà di 42.50 m.
Le grandi proporzioni derivano anche dall’essere l’altezza interna, dall’oculo al pavimento, pari al diametro.
L’edificio del Pantheon risulta così inscrivibile in una sfera perfetta. Questa caratteristica risponde a criteri
classici di architettura equilibrata e stabile. Nel Pantheon questi principi sono sintetizzati dall’armonia delle
linee e dal calcolo perfetto delle geometrie delle masse.
Le colonne corinzie che fanno da diaframma alle nicchie emicicliche e rettangolari, che si susseguono
alternandosi sulle pareti della rotonda, rappresentano un brillante accorgimento per sottolineare la scala
complessiva. Le nicchie dissolvendo lo spazio complessivo della parete accentuano inoltre il fascino della
cupola che sembra fluttuare diafana sopra una misteriosa cortina di vuoti e di pieni. Il sistema costruttivo è
brillante, complesso ed originale, ma non è a vista all’interno, in quanto l’intero tamburo e gran parte della
cupola sono coperti da elementi ornamentali che nulla hanno a che vedere con quelli portanti. I cassettoni
dell’intradosso della cupola sono, anzi, accortamente concepiti per configurare una falsa prospettiva. Nella
preparazione del calcestruzzo con cui è costruito l’edificio venne utilizzato un conglomerato di svariati
cementa: travertino, tufo, mattoni e una leggera pomice vulcanica in combinazioni diverse per alleggerire
gradualmente la fabbrica mentre si sale. Si determina quindi una successione di sei strati costruttivi: iniziando
dal più pesante per le fondazioni, per finire al più leggero a base di pomice nella sommità della cupola. In un
certo senso esiste un settimo strato fatto semplicemente d’aria, ovvero l’oculo di 8.50 m di diametro.
Oltrepassato il profondo pronao, entrando nel tempio, il senso dello spazio mutava all’improvviso e in modo
del tutto stupefacente. Il visitatore veniva assalito da un senso di smarrimento trovandosi in un ambiente
circolare di dimensioni quasi soprannaturali, talmente avvolgente da dare l’impressione di essere sospesi al
centro di una grande sfera cava. La facciata convenzionale del tempio, paragonata alla novità dello spazio
interno, dimostra quanta più importanza i Romani attribuissero a quest’ultimo e quanto poca ne riservassero
agli esterni.
Come già detto, il pronao è composto da tre file di colonne corinzie monolitiche, non scanalate, di granite
egizio: le otto fontali sono grigie, le altre otto rosse e disposte su due file di quattro colonne ciascuna.
Verosimilmente, nel progetto la loro dimensione doveva essere maggiore, in modo da assecondare un
timpano collocato a una quota più elevata. Il pronao è unito alla rotonda retrostante da un elemento
intermedio – un avancorpo – a forma di parallelepipedo. Ne contraddistinguono il fronte due grandi nicchie,
affiancate da solidi pilastri rivestiti di marmo, in asse con le colonne dello stesso pronao, che risulta diviso in
tre navate. Il portale della rotonda è introdotto da un vano coperto da una volta a botte con cinque lacunari
impostate su un architrave sostenuto da due coppie di lesene.
L’attuale soluzione a vista della copertura del pronao (la cui trabeazione è sormontata da pilastrini e archi
sorreggenti gli spioventi del tetto) non corrisponde più all’aspetto che le aveva conferito l’architetto, il quale
l’aveva dotata di un rivestimento bronzeo.
La muratura piena dell’avancorpo costituisce anche strutturalmente la connessione fra due differenti
concezioni architettoniche: il pronao, in pietra e trabeato; la rotonda, in muratura e opus cementicium,
voltata. Una cornice mediana e una in sommità legano esternamente la rotonda e l’avancorpo.
Il suggestivo oculo al sommo della cupola e l’irresistibile vertice che attrae lo sguardo di ciascun visitatore,
caratterizzano la sommità di questa opera. Isolati dai rumori e dalle immagini del mondo esterno questa
luminosa apertura sembra porre miracolosamente in contatto con il Cielo e con gli dei che lo abitano.
Osservano il Sole che con il suo corso illumina ora il pavimento, ora le pareti, ora la cupola, pare quasi di
avvertire in questo vasto tempio dedicato a tutti gli dei l’immanenza divina. La sua forma è circolare, senza
conclusione e senza cesure come era l’Impero che lo concepì nel massimo del suo splendore. Questo interno
circolare a cupola, pressoché perfetto e del tutto diverso da ogni opera precedente appariva un simbolo, una
conseguenza dell’unione immutabile tra dei, natura, uomo e stato. Divenne subito e tale rimase nei secoli un
simbolo ancora più potente e convincente del Partenone. Fu ripreso anche da Palladio per le sue ville.
Il Pantheon contribuì ad avviare una nuova fase dell’architettura che dedicava maggiore attenzione alla
creazione e alla cura dello spazio interno. All’epoca della costruzione del Pantheon, la devozione per gli
antichi dei del mondo mediterraneo era ormai stata soppiantata dall’attrazione esercitata dai culti misterici
orientali, il Pantheon, che sembrava progettato più per esprimere il concetto di numen, che per ospitare un
culto specifico, deve la propria concezione al fatto che Papa Bonifacio IV ne fece nel 609 un luogo di
venerazione per la più duratura di queste religioni, ancora oggi con il nome di Santa Maria ad Maryres è una
chiesa cattolica. Fu questa la ragione per cui, unico fra le antiche costruzioni dei templi, ci è pervenuto quasi
integro non avendo subito le devastazioni a cui invece furono sottoposti i templi pagani dopo il 391, anno in
cui l’imperatore Teodosio il Grande (347-395) ne decretò la definitiva chiusura.
La gigantesca massa muraria è alleggerita, oltre che dalle
nicchie, anche da cavità interne alle quali gli architetti del
Rinascimento attribuirono la capacità di rendere la
struttura del Pantheon asismica. Esternamente, nel corpo
cilindrico, si rendono evidenti numerosi archi di scarico di
mattoni, archi che attraversano l’intero spessore murario e
che liberano, alleggerendola, la zona sottostante dal peso
superiore, indirizzandolo verso le imposte. La cupola
emisferica è fortemente rinfiancata, tanto che,
esternamente, il suo profilo appare ribassato, cioè meno di mezza sfera, ed è realizzata in calcestruzzo, nella
cui composizione, via via che ci si avvicina alla sommità, intervengono materiali sempre più leggeri.
Il cilindro (o tamburo) ha uno spessore di circa 6 metri ed è profondamente scavato all’interno da sette
nicchie (gli spazi vuoti sono otto se vi comprendiamo anche quello dell’ingresso). Le nicchie, alternativamente
di forma quadrangolare o semicircolare, sono inquadrate da pilastri e schermate da due colonne corinzie dal
fusto scanalato, in pavonazzetto o in giallo antico, che costituiscono il passaggio dal buio profondo della
nicchia alla luminosità del grande vano cupolato. Al di sopra di esse corre una trabeazione anulàre (ovvero a
forma di anello) che sporge solo in corrispondenza delle colonne che affiancano l’abside. Lesene angolari
(piegate ad angolo) sottolineano gli spigoli interni delle nicchie quadrangolari. Nello spazio fra una nicchia e
l’altra sono introdotte delle edicole timpanate su un alto basamento, che un tempo accoglievano statue di
divinità.
Un oculo zenitàle, del notevole diametro di quasi 9 metri, rappresenta l’unica fonte di luce per il grande vano
rotondo. All’interno la cupola ha cinque anelli concentrici di 28 cassettoni (o lacunari) quadrangolari ciascuno,
che alleggeriscono la struttura (sono infatti degli incavi nello spessore della cupola stessa), ma hanno anche
lo scopo di renderla più resistente tramite la maglia di nervature che si viene a formare. La scelta del ventotto
quale numero dei lacunari di ogni anello ha un significato simbolico. I matematici, infatti, a partire da Euclide
(IV-III secolo a.C.), che ne scrive negli Elementa (Elementi), il suo trattato di geometria e aritmetica, chiamano
il ventotto “numero perfetto”. L’aver fatto ricorso a questo numero sarà sembrato all’architetto del Pantheon
una scelta più che opportuna per simboleggiare il divino. E già la forma della cupola e le proporzioni del
tamburo, con la conseguente possibilità di immaginare una sfera idealmente inscritta all’interno della
struttura, costituiscono un’allusione all’eccellenza. Infatti, la filosofia greca, considera la sfera il solido
geometrico perfetto, simbolo della volta celeste e del creato.
La copertura in tegole di bronzo dorato e le decorazioni a rosette dei cassettoni, che rendevano il tempio
ancora più fastoso di quanto già non fosse per impiego di materiali rari e preziosi, furono asportate nel corso
dei secoli e sono irrimediabilmente perdute. Ma il ricco pavimento e gran parte del rivestimento parietale
interno in pregiati marmi policromi sono gli stessi che procuravano meraviglia già molti secoli fa.
La cupola nel tempo divenne un simbolo che racchiudeva sia le aspirazioni religiose che politiche dell’uomo.
La combinazione di rotonda e di portico non solo fu imitata da Palladio nel Rinascimento, ma venne poi
ripresa varie volte anche nel Neoclassicismo, vedi Piazza del Plebiscito e la Basilica di San Francesco di Paola
a Napoli.

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