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POLITEIA RIVISTA DI ETICA E SCELTE PUBBLICHE Anno XXIX - N. 112 - 2013 Damiano Palano Enrico Biale Ian Carter, Emanuela Ceva, Valeria Ottonelli Fabio Bacchini, Tommaso Scandroglio, Giovanni Fornero notizie di POLITEIA, XXIX, 112, 2013. ISSN 1128-2401 pp. 3-17 a La trappola di Banfield. L’ethos democratico oltre il mito del “familismo amorale” DAMIANO PALANO* Banfield’s Trap. The democratic ethos beyond the myth of “amoral familism Abstract: This article reviews the old assumptions about “amoral familism” developed by Edward C. Banfield in the Fifties, with particular emphasis on the relationship between political culture and democratic institutions. More particularly, the objective is to develop a criticism against the Banfield’s image of democratic ethos. The article argues in fact that Banfield’s hypothesis was founded on a distorted vision of the relationship between political culture and political structure, and that these limits neutralized the insights of a cultural analysis of politics. Keywords: Democratic ethos; Amoral fami idward C. Banfield Introduzione “Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato 0 avvenire. [...] Non v’era dunque nient’altro fuorché Vinteresse individuale; per soddisfare il suo proprio egli cra disposto a giovarsi di tutto”!. Quando nelle pagine finali dei Viceré Federico De Roberto fissava con queste parole il profilo di Consalvo Uzeda, forniva per molti versi un formidabile compendio ai Malavoglia di Verga. I cinismo dell’ultimo discendente degli Uzeda rappresentava infatti la faccia speculare del fatalismo dei pescatori di Aci Trezza, un fatalismo se- condo il quale la storia umana non poteva che essere una successione interminabil di sopraffazione e tragedia. Una simile visione escludeva ovviamente la stessa even- tualita che I’azione comune potesse contribuire ad aumentare in modo sostanziale il benessere collettivo: il presupposto era infatti che ciascuno tendesse invariabilmente a perseguire il proprio utile con ’inganno ¢ la dissimulazione, e che per questo tutti * Professore associato di Scienza politica, Universita Cattolica di Milano. 4 La trappola di Banfield fossero animati da una reciproca sfiducia. proprie reali convinzioni, ma neppure “credeva alla sincerita della fede altrui”, e so- spettava cioé che, dietro qualsiasi solenne proclamazione di nobili ideali, dovessero nascondersi malafede, inganno, desiderio di sopraffazione. Come nei grandi romanzi verghiani, nella denuncia di De Roberto non mancavano alcuni elementi di ambiguita. II fatalismo delle classi subalterne e il cinismo aristocra- tico scaturivano d’altronde da una medesima strategia, che puntava a sottrarre la Sici- lia alla dinamica storica, riconducendone ogni singola espressione a una dimensione addirittura metafisica, a una sorta di ‘essenza siciliana’, sempre uguale a se stessa ¢ resistente a ogni modernizzazione®. Cid nondimeno, si trattava di un ritratto destinato a imprimersi nell’immaginario successivo. Lungo tutto il Novecento, idea di un intree- cio tra realismo fatalista ed egoismo cinico ha infatti suggerito una chiave di lettura stra- ordinariamente efficace per spiegare i fenomeni pitt diversi, dalleterna riproposizione della “questione meridionale”, al radicamento dei legami clientelari, all’estensione della criminalita organizzata. E, travalicando i confini si ni, quegli stessi caratteri sono andati a costruire un ritratto impietoso del Mezzogiorno, all’interno di una spie- gazione che ritrova le motivazioni della fallita — 0 mancata — ‘modernizzazione’ pro- prio nelle radici culturali dell’Italia meridionale. Le tracce di una simile spiegazione si potevano gia ritrovare, negli ultimi decenni dell’Ottocento, nelle pagine di Pasquale Turiello, nell’inchiesta Massari 0 negli studi criminologici di Cesare Lombroso e dei suoi allievi’. Ma quella stessa spiegazione doveva anche riemergere nello sguardo delle scienze sociali postbelliche, e soprattutto in The Moral Basis of a Backward Societ) la celebre € controversa ricerca di Edward C, Banfield sul piccolo villaggio lucano di Montegrano, in cui veniva delineata la nozione di “familismo amorale™. Secondo la lettura proposta dal politologo americano, la logica con cui operavano i cittadini di Montegrano appariva in effetti molto vicina alla filosofia di Consalvo Uzeda, perché il “familismo amorale” si configurava come una sorta di “regola generale” fondata su due principi di base: “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nu- cleare” e, al tempo stesso, “supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. Benché nel corso di pitt di mezzo secolo abbia incontrato molte critiche, la lettura di Banfield ha contribuito a fornire una delle pit ricorrenti e suggestive spiegazioni della “questione meridionale”. Negli ultimi due decenni alcune delle idee alla base di quelle vecchie ricerche hanno inoltre acquistato un rinnovato vigore grazie alla lettura proposta da Robert Putnam nella sua ormai classica indagine sulla “tradizione civica” delle regioni italiane’. Ma, soprattutto, la stessa nozione di “familismo amo- rale” si é stabilmente insediata nel dibattito pubblico, offrendo una formidabile chiave di interpretazione delle tante anomalie che caratterizzano il ‘caso italiano’. Tanto che il “familismo amorale” & divenuto il tratto immancabile di ogni rappresentazione (e autorappresentazione) dell”“italianita”®. L’obiettivo di queste pagine non é naturalmente riprendere le numerose critiche indirizzate a Banfield. L’intento é piuttosto portare alla luce alcuni presupposti pro- blematici del dibattito sul rapporto fra cultura politica ¢ istituzioni democratiche. Pit in particolare, partendo da una rilettura della vecchia posizione di Banfield, l’obiettivo @ quello di sviluppare una critica dell’immagine (pitt o meno implicita) dell’ ethos “osi, non solo Consalvo dissimulava le Damiano Palano 5 democratico su cui essa si fondava. In vista di una ridefinizione ‘culturale’ della de- mocrazia, queste brevi note puntano cosi a riesaminare la visione della relazione fra un determinato tipo di cultura politica e il regime democratic che Banfield assumeva come presupposto all’interno della propria indagine. La convinzione é infatti che in quella idea del rapporto fra cultura e struttura si celassero alcune distorsioni che neu- tralizzavano l’intuizione di un’analisi culturale della politica. 1. Un paese di familisti amorali Pubblicato nel 1958, The Moral Basis of a Backward Society si inseriva all’interno di un filone che puntava a scoprire quali fossero le radici culturali’ della democrazia e dello sviluppo economico, e soprattutto quanto tali radici fossero profonde nell’ Europa uscita dalle tragedie della Seconda Guerra Mondiale. Nel corso degli anni Cinquanta ¢ Sessanta, una parte significativa della scienza politica americana coltivo infatti la convinzione che la “cultura politica” fosse un elemento capace di spiegare non solo le modalita di partecipazione politica, ma anche la stabilita e lefficienza di un regime democratico. La tesi di fondo di queste indagini, di cui la celebre ricerca di Gabriel Almond e Sidney Verba su The Civic Culture costituisce l’esempio emblematico’, consisteva nell’idea secondo cui il “buon governo” non dipende soltanto dall’assetto formale delle istituzioni, ma richiede alcuni presupposti ‘culturali’: presupposti che non possono essere costruiti artificialmente ¢ che sono invece il prodotto della vita di un popolo ¢ delle sue tradizioni. In altre parole, secondo queste indagini elementi come le credenze, gli ideali, le norme, le tradizioni influiscono sulle modalita di par- tecipazione alla vita politica, determinando cosi il sucesso o I’insuccesso di un deter- minato tipo di regime, oltre che — com’é ovvio — la stabilita di quella specifica forma di regime politico che é la democrazia. Se la ricerca di Almond e Verba sviluppava una comparazione tra cinque paesi occidentali, il lavoro di Edward C. Banfield esa- minava invece in profondita la piccola comunita lucana di Chiaromonte, ribattezzata Montegrano all’interno del volume. In sostanza Banfield studiava I’ atteggiamento nei confronti delle istituzioni nutrito dalla popolazione del piccolo centro lucano, un paese di circa 3.400 abitanti in provincia di Potenza, utilizzando test attitudinali ¢ interviste in profondita. Al di la dei differenti strumenti metodologici, che hanno spesso fatto considerare The Moral Basis of a Backward Society come un’indagine antropologica’, la convinzione del politologo era la medesima dei ricercatori della “cultura civica”. II “familismo morale” evocato da Banfield era d’altronde l’esatto opposto di quell’in- sieme di fiducia, partecipazione e valori comuni che Almond ¢ Verba avrebbero di lia poco fissato nella nozione di civic culture. Secondo Banfield, il “familismo amorale” era infatti uno specifico ethos, profondamente radicato, che spingeva gli abitanti di Montegrano ad agire secondo una regola ben precisa: “massimizzare i vantaggi mate- riali e immediati della famiglia nucleare; supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”. E, soprattutto, era proprio il “familismo amorale” a spiegare perché a Montegrano — cosi come in gran parte dell’ Italia meridionale — non vi fossero né un reale sviluppo economico, né un’effettiva partecipazione alla vita democratica. 6 La trappola di Banfield Per molti versi, nel discorso di Banfield era ravvisabile un motivo polemico nei confronti di quelle visioni ottimistiche della modernizzazione che scorgevano nell’e- sistenza di fattori matcriali la chiave in grado di spiegare lo sviluppo economico e la democratizzazione. Secondo queste letture, la dotazione di risorse naturali e la dispo- nibilita di determinate tecniche non erano fattori capaci di innescare — in modo spon- taneo — dinamiche virtuose in termini di crescita economica e di ‘modernizzazione’ delle strutture politiche. Secondo Banfield, quei fattori non avrebbero prodotto aleun risultato rilevante qualora fosse mancata un’adeguata base ‘culturale’, che consisteva — ai suoi occhi — soprattutto nella capacita di associarsi: una capacita estremamente consolidata nel contesto nordamericano e invece assente in gran parte del mondo non occidentale (e nella stessa area mediterranea). “L’abitudine di associarsi in organiz- zazioni politiche o professionali”, scriveva Banfield nelle pagine introduttive, “& un fatto raro e recente — fatta eccezione per alcuni paesi d’Europa e d’ America”, e proprio “la mancanza di tale associazione costituisce un grave fattore frenante del progresso economico nella maggior parte del mondo™"’. L’attitudine culturale a convogliare le attivita comuni era cosi l’elemento in grado di spiegare tanto l’avvento dell’ economia moderna, quanto cid che definiva come “progresso politico”: Non si pud infatti attuare un sistema economico moderno se non si usa ereare ¢ mante- nere in vita un’ organizzazione professionale; in altri termini, pitt elevato é il livello di vita che ci si propone di raggiungere, tanto pid risultera indispensabile organizzazione. L*incapacita di organizzarsi costituisce ugualmente un ostacolo al progresso politico: infatti proprio dalla possibilita di coordinare, in relazione a problemi di interesse pub- blico, le linee di condotta di un gran numero dipende, tra l’altro, l’attuazione di forme di autogoverno. In breve, i medesimi elementi che concorrono alla formazione di una associazione a fini economici, concorrono altresi alla formazione di associazioni a ca- rattere politico Quando enfatizzava il ruolo della capacita organizzativa, Banfield attingeva ovvia- mente al magistero di Tocqueville, che nella Democrazia in America aveva tessuto uno dei pitt convinti elogi dell’attitudine associativa statunitense (pur non senza co- glierne alcune implicazioni problematiche). Ma, al di la di questo, non si trattava tanto di un risultato, quanto di un presupposto teorico dell’indagine di Banfield, che peraltro tradiva piuttosto scopertamente la convinzione nella superiorita delle societa occidentali (0 almeno di alcune di esse) sulle altre culture. L’intento di Banfield con- sisteva dunque nel mostrare come un determinato ethos potesse costituire un freno alla creazione e al consolidamento di organizzazioni di ogni genere, e dunque un forte vin- colo per la modernizzazione politica ed economica. La ricerca su Montegrano si pre- sentava allora come “un esame dettagliato dei fattori che ostacolano forme di azione comune in un sistema culturale che, sebbene non radicalmente eterogeneo rispetto a quello nordamericano, € tuttavia diverso, e anzi per taluni aspetti si avvicina assai al mondo mediterraneo e levantino”!?. Inoltre, nonostante Montegrano fosse considerato come caso isolato, era piuttosto evidente ~ ¢ talvolta esplicito — che Banfield inten- deva il piccolo centro lucano come un microcosmo in grado di riflettere la situazione dell’intero Mezzogiorno italiano. E, proprio per questo, le ipotesi al centro dello stu- Damiano Palano 7 dio potevano essere generalizzate per spiegare I“arretratezza” politica ed economica dell’Italia del Sud. Il nodo che Banfield puntava a sciogliere non era costituito soltanto dalla “po- verta” di Montegrano, ma soprattutto dalla sostanziale passivita dei suoi cittadini: una “incapacita politica” che faceva si che nessuno di loro portasse avanti sia pur minimi tentativi di migliorare la condizione comune'>. “Perché”, si chiedeva per esempio, sebbene I’impossibilita di dare un’adeguata istruzione ai figli costituisca uno dei prin- cipali motivi di amarezza anche per i contadini meno abbienti, “non si fa niente per le scuole?”"', La spiegazione che Banfield proponeva si incentrava in larga parte —se non proprio totalmente — sull”“incapacita degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascende |’interesse materiale immediato della famiglia nucleare”’, Alla base di una simile regola di condotta, non stavano elementi specificamente economici, l’ignoranza dei contadini, la divisione in classi, gli inte- ressi dei piccoli proprietari, la diffidenza verso I’autorita politica ereditata da secoli di oppressione, l’irriducibile fatalismo dei meridionali. Alla radice dell’“incapacita politica” dei montegranesi stava piuttosto |’ethos del “familismo amorale”, in virti del quale l’interesse del singolo cittadino é “la crescita del proprio benessere relativo rispetto alla comunita, non il bene della collettivita nel suo complesso”'’. Quando Banfield qualificava il “familismo amorale” come un ethos, intendeva quest’ ultimo termine secondo I’accezione fornita in Folkways dall’etnologo dei primi del Novecento William Graham Sumner, ossia come “I’insieme delle usanze, delle idee, dei termini di giudizio e di comportamento comuni che individuano e diffe- renziano un gruppo da altri gruppi”'’. Si trattava, dunque, di un elemento ‘culturale” consolidato dalla tradizione e capace di indirizzare il comportamento degli apparte- nenti alla comunita. Ovviamente un simile ethos non poteva che risultare piuttosto costante nel tempo, ma Banfield cercava comunque di comprendere quali fossero le sue radici storiche. Proprio tentando di individuare le cause che avevano determinato la formazione del “familismo amorale”, indicava cosi vari fattori, tra cui ovviamente spiccavano “la spaventosa miseria della zona e la degradazione di coloro che fanno lavoro manuale”'*. Tali elementi erano perd insufficienti a spiegare la forza di un ethos tanto consolidato, e il politologo americano suggeriva allora ’ipotesi che avessero giocato un ruolo significativo anche lelevata mortalita e Vinesistenza della famiglia estesa: proprio tali condizioni avrebbero infatti circoscritto i rapporti di solidarieta al solo ambito familiare, favorendo anche la particolare “apprensivita” per la sorte dei figli che caratterizza i montegranesi, oltre che metodi educativi basati sull’alternanza di premi e punizioni. Ad ogni modo, ognuno di questi elementi affondava nella storia della comunita in modo cosi profondo da escludere Pipotesi che quell’ethos potesse in qualche misura essere mutato dalle trasformazioni economiche, sociali e politiche. In altre parole, il “familismo amorale” era destinato a rimanere inscritto — come tratto fondamentale — nella struttura ‘culturale’ di Montegrano. Ed era proprio per questo che Banfield — nonostante intravedesse nella societa italiana segnali di mutamento — ri- maneva in fondo pessimista. Le possibilita di svellere le basi del “familismo amorale” apparivano infatti piuttosto scarse, nonostante le potenzialiti dello sviluppo econo- mico e dei nuovi mezzi di comunicazione. “Una cosa é procurarsi il consenso popolare 8 La trappola di Banfield servendosi delle tecniche della manipolazione di massa”, scriveva, “ma ben diverso cambiare la fondamentale visione del mondo di un gruppo di uomini, soprattutto se si tratta di mutarla verso una moralita pitt complessa e rigorosa””. E qualora fosse stato effettivamente possibile operare grazie a una meditata direzione politica nel senso del mutamento, non era affatto escluso, secondo Banfield, che il nuovo ethos non dovesse presentare “caratteristiche addirittura peggiori”™. 2. L’ombra lunga di Banfield Nell’Italia della fine degli anni Cinquanta, ormai incamminata verso il boom, la ricerca di Banfield alimento ovviamente un’abbondante mole di critiche, anche perché le sue ipotesi non potevano che scontrarsi con le attese di una riforma generale della societa. | rilievi avanzati nel corso del dibattito portarono in effetti alla luce i molti limiti, non solo teorici, del lavoro di Banfield*!. Una critica per molti versi scontata insisteva innanzi- tutto sul pregiudizio etnocentrico di Banfield, che induceva a rinvenire nella (idealizzata) provincia americana una configurazione paradigmatica della comunita demoeratica, da comparare con Montegrano per evidenziarne la distanza™. Inoltre, nell’ottica di Banfield era anche ravvisabile una distorsione originaria, o quantomeno uno sguardo parziale, che spingeva a considerare la singola comunita locale come un ritratto — in scala ridotta ma fedele — di un’intera societa nazionale. Si trattava, in questo caso, di un limite che contrassegnava non solo il lavoro su Montegrano, ma, pit in generale, alcune delle pit note ricerche della sociologia e della scienza politica americane degli anni Cinquanta e Sessanta, dalle indagini di Floyd Hunter su Atlanta, al celebre Who governs? di Robert A. Dahl, fino allo studio di Peter Bachrach e Morton S. Baratz sulle “due facce del potere” a Baltimora”. Nell’esame del Mezzogiorno italiano, una simile impostazit comportava pero l’adozione di una prospettiva incapace di cogliere la complessita dei rapporti politici, sia all’ interno del territorio regionale, sia fra centro e periferia’*. Era pero la critica di Alesssandro Pizzorno a scardinare pil decisamente l'intero impianto teorico e analitico di Banfield’*. Innanzitutto, osservava Pizzorno, i monte- granesi non erano affatto irrazionali, nel loro comportamento, come il politologo ame- Ticano aveva preteso. Al contrario, all’interno dell’orizzonte di diffidenza reciproca in cui operavano, seguivano una logica perfettamente razionale e, dunque, adottavano semmai i criteri di una sorta di “razionalismo amorale”: scegliendo il loro interes personale, gli abitanti di Montegrano si comportavano infatti come un perfetto homo oeconomicus; e, anche se rifiutavano ogni opzione di mobilitazione collettiva, non erano affatto ‘irrazionali’, dal momento che lo stesso Banfield escludeva che da simili azioni potessero derivare benefici rilevanti. In secondo luogo, Pizzorno metteva in luce come la spiegazione del cosiddetto “familismo amorale” andasse ricercata, pitt che in un ethos consolidato, nella “marginalita storica” di Montegrano. L’assenza di cooperazione poteva essere infatti spiegata come un esito di lungo periodo dell’assetto feudale delle campagne, un assetto che aveva per secoli combinato clevati livelli di sfruttamento con I’esercizio di un arbitrio pressoché totale da parte dei signori locali. Insieme a questo dato economico, l’arretratezza di Montegrano era inoltre rafforzata Damiano Palano 9 proprio dalla “marginalita storica”, ossia dal fatto di essere una comunita totalmente marginale rispetto alle sedi del “progresso”. Quello che Banfield aveva considerato come un ethos consolidato — l’ethos del “familismo amorale” — non era dunque un elemento consolidato dalla tradizione storica, ‘cristallizzatosi’ nei criteri morali dei montegranesi, ma, al contrario, un prodotto piuttosto recente: un prodotto, al tempo stesso, economico ¢ politico, di cui anche per questo — almeno in linea teorica — non era impossibile ipotizzare la fine, a seguito di una piena integrazione nel processo di sviluppo economico e nella dinamica politica nazionale. Nonostante la portata delle critiche indirizzate alla ricerca di Banfield, la nozione di “familismo amorale” ha continuato a influenzare il dibattito successivo, sia a pro- posito delle peculiarita del ‘caso italiano’, sia a proposito delle radici ‘culturali’ della democrazia®. La discussione ha perd acquistato un nuovo vigore all’inizio degli anni Novanta, in seguito alla ‘riscoperta’ dei fattori culturali compiuta, per esempio, da Samuel Huntington e Francis Fukuyama”’, e soprattutto grazie alla celebre ricerca di Robert Putnam sulla tradizione civica nelle regioni italiane. Anche se Putnam non utilizza la nozione di “familismo amorale” (¢ se preferisce espressioni meno conno- tate, come “civismo” e “capitale sociale”), la sua ipotesi ha infatti una strettissima parentela con quella di Banfield’. Secondo Putnam, la differenza fra il rendimento istituzionale delle regioni del Centro-Nord e quello delle regioni meridionali dipende da motivazioni sostanzialmente ‘culturali’: le prime hanno la fortuna di “essere dotate di una rete capillare di associazioni e di complessi di norme che richiedono un forte impegno civile”, mentre le seconde hanno “la sfortuna di avere una struttura politica verticale, una vita pubblica caratterizzata dalla frammentazione e dall’isolamento e permeata dalla cultura della sfiducia”. Anche in questa ipotesi, dunque, sono fattori culturali — ereditati dal passato e profondamente radicati nella tradizione — a spiegare il rendimento delle istituzioni democratiche. E, d’altronde, I’ obiettivo di Putnam con- siste proprio nel dimostrare “V’ipotesi secondo cui il rendimento reale delle istituzioni & modellato dal contesto sociale all’interno del quale esse operano”*’. Anche per il carattere delle sue ipotesi, il lavoro di Putnam non é andato affatto esente da critiche, che si sono focalizzate tanto sull’accuratezza dei dati util quanto su aspetti teorici, in particolare sulla nozione di “capitale so nonostante, nel dibattito eresciuto attorno alla proposta di Putnam, é stata dedicata un’attenzione solo marginale a un aspetto cruciale, che invece la accomuna alle vec- chie ipotesi di Banfield, ossia il modo in cui viene concepita la relazione fra cultura politica ¢ istituzioni democratiche. In altri termini, pitt di trent’anni dopo Banfield, Putnam viene infatti a riproporre la medesima visione non solo del rapporto fra civ smo e democrazia, ma soprattutto del legame fra cultura e struttura. E il punto non & soltanto che in questo modo torna a riaffiorare i! peso di un vecchio pregiudizio etno- centrico, ma che — con conseguenze teoriche ancora piti rilevanti — viene a riemergere una delle implicazioni pit deleterie che l’effimero successo del vecchio movimento comportamentista produsse nell’ambito della ricerca politologica. Ed é cosi proprio dal radicale ripensamento di una simile impostazione che é necessario partire per riformulare un’analisi della democrazia che prenda davvero sul serio la dimensione culturale, senza scadere nella trappola del ‘culturalismo”™ 10 La trappola di Banfield 3. Cultura vs, struttur Il focus dell’indagine su Montegrano era collocato sul nesso fra ethos e sviluppo eco- nomico, e cosi I’atteggiamento verso le istituzioni, la politica e gli altri concittadini era solo un aspetto di quella dimensione ‘culturale’ definita come “familismo amorale”. Le ipotesi di Banfield erano perd sostanzialmente convergenti con quelle che — piit 0 meno nello stesso periodo — erano collocate da Almond alla base degli studi dedicati alla “cultura politica’. I] problema da cui muovevano Almond e i suoi collaboratori era infatti costituito dalla convergenza tra le regole e le istituzioni di un sistema demo- cratico ¢ la “cultura politica” diffusa nella popolazione. In altre parole, il presupposto di fondo di simili operazioni era che la cultura di un popolo, insieme dei suoi atteg- giamenti, delle sue opinioni e, persino, di quello che un tempo veniva definito come lo ‘spirito’ o il ‘carattere nazionale’, fossero in qualche misura aspetti decisivi per de- terminare la stabilita delle istituzioni democratiche, per garantire un’equilibrata dina- mica fra le diverse component del sistema politico e, infine, per assicurare l’efficace rendimento delle stesse istituzioni politiche. In questo senso, tali ricerche avevano senza dubbio il merito di cogliere importanza della dimensione culturale per l’ana- lisi delle trasformazioni politiche. Ma, d’altro canto, anche in virti delle implicazioni prodotte dalla rivoluzione comportamentista nella scienza politica americana, esse costringevano la cultura all’interno di una griglia teorica che finiva con l’obliterare le potenzialita di questa intuizion In termini generali, le prime ricerche sulla cultura politica, proprio per la loro impo- stazione metodologica, rappresentavano l’espressione paradigmatica delle ambizioni della “rivoluzione comportamentista” nella scienza politica’. L’interesse per il com- portamento individuale (0, meglio, per I’atteggiamento dei singoli nei confronti del sistema politico) si prestava agevolmente al controllo empirico, collocato alla base del nuovo corso comportamentista: dal momento che I’oggetto di studio era rappresentato dal singolo individuo, era infatti piuttosto semplice ricostruire il suo atteggiamento nei confronti della sfera politica mediante questionari. Inoltre, proprio accostandosi al singolo individuo, la scienza politica sembrava davvero poter recepire e utilizzare le acquisizioni fornite dalle altre “scienze del comportamento”, come la psicologia, la sociologia ¢ I’antropologia. La raccolta dei dati empirici non era comunque fine a se stessa, ma risultava orientata da ambiziose ipotesi teoriche, relative al rapporto fra cultura e struttura, e cioé alla relazione fra gli orientamenti degli individui e la stabilita di un determinato regime: alle spalle di quelle indagini stava infatti un modelo teorico che, oltre a indirizzare la ricerca empirica e a garantire la cumulabilita dei risultati di ogni singola indagine, si proponeva di formulare una teoria di carattere predittivo, e, dunque, di stimare le possibilita di un regime democratico di durare nel tempo e di resistere alle tensioni interne. Ma proprio questi elementi finivano col costringere la stessa immagine della cultura all’interno di vincoli troppo angusti In primo luogo, Pinteresse per il comportamento osservabile dei singoli individui neutralizzava la nozione di “cultura” importata nel campo politologico dall’antropolo- gia ¢ dalla sociologia degli anni Cinquanta. Riducendo la cultura politica all’insieme degli atteggiamenti e degli orientamenti dei singoli individui, si perdeva infatti la Damiano Palano i stessa complessita del fenomeno culturale, che non poteva essere semplicemente ‘se- zionato’ senza che fosse al tempo stesso reciso anche il nesso costitutivo con [intero contesto®*. In secondo luogo, si assumeva — implicitamente — che le caratteristiche della struttura politica potessero essere studiate ¢ definite indipendentemente dalla cul- tura. L’aspetto rilevante di questa operazione non era tanto l’approdo inevitabile a una sorta di determinismo culturalista, quanto il fatto che diventava possibile considerare ciascuno dei due poli come ‘relativamente autonomo’. Ovviamente, questo risultato si sposava felicemente con un’altra grande ambizione della rivoluzione comporta- mentista, relativa alla ‘neutralita’ (politica e ideologica) degli strumenti della scienza politica®*. Oltre a tradursi nell’idea di una scienza del ‘comportamento’ (e non piit delle idee), una simile convinzione si rifletteva infatti anche nel tentativo di costruire una strumentazione analitica effettivamente ‘neutrale” e ‘oggettiva’. Su queste basi, le energie della ricerca teorica si indirizzarono cosi verso l’elaborazione di un nuovo vocabolario teorico, 0, meglio, di un vocabolario che ridefinisse il lessico politico in una chiave ‘scientifica’, capace di ‘depurare’ i concetti dalle infiltrazioni storiche, va- loriali, ideologiche, filosofiche. Si trattava senza dubbio di un’ operazione ambizios dirompente rispetto alla ‘vecchia’ scienza politica (0, almeno, rispetto ad alcuni suoi filoni). Ma si trattava anche di un’operazione che doveva presentare un limite esiziale proprio nel momento in cui, perseguendo l’obiettivo della costruzione di strumenti concettuali del tutto ‘neutrali’, invece di sbrogliare i] nodo gordiano del ‘condiziona- mento’ culturale dei concetti, si limitava a tagliarlo. Mentre perseguivano gli obiettivi di una ricerca ‘avalutativa’ e¢ di un lessico ‘depurato’ da incrostrazioni valoriali, e mentre giungevano a una definizione meta-storica della politica (del sistema politico e dei diversi regimi politici), i politologi comportamentisti finivano infatti col recidere il nesso costitutivo fra cultura e struttura. E il problema non stava tanto nel rapporto logico e nella relazione di causalita fra i due poli, quanto nella stessa possibilita di scindere nettamente un polo dall’altro. In sostanza, alla base dell’ operazione stava la convinzione che fosse possibile, ¢ legittimo sotto il profilo scientifico, distinguere la struttura dalla cultura. Recidere il rapporto fra struttura e cultura implicava perd un prezzo piuttosto elevato, che consisteva nel tagliare le radici ‘culturali’ della struttura, ossia nel disconoscere il fatto che la struftura é in larga parte — se non del tutto — un prodotto culturale, una realta che assume la propria consistenza in virti dei significati che le vengono attribuiti in un determinato contesto. Ipotizzare una netta distinzione fra cultura e struttura, e costruire definizioni delle strutture che escludevano ogni con- dizionamento culturale, non poteva invece che condurre a forti distorsioni, evidenti proprio in una ricerca come quella di Banfield. Grazie alla netta divaricazione tra cultura e struttura, la dimensione culturale po- teva essere in primo luogo concepita come una sorta di ‘essenza’: un’eredita del pas- sato, una dotazione cristallizzata sempre uguale a se stessa, e non come un insieme di significati, simboli ¢ rituali costantemente riprodotto ¢ ridefinito nel tempo. Ma in secondo luogo — dato che la democrazia veniva qualificata solo come una specifica configurazione della struttura politica, e cioé come un assetto istituzionale del sistema politico, ben distinto dalla cultura diffusa in una societa — era possibile dare per scon- tato che esistesse un ethos pitt adatto alla democrazia ¢ allo sviluppo economico, e che 12 La trappola di Banfield altri tipi di ethos costituissero invece un ostacolo alla modernizzazione. In tal modo, Banfield, ma anche Almond e Verba, finivano col dimenticare colpevolmente che “democrazia”, “modernizzazione” e “sviluppo” non sono affatto nozioni ‘oggettive’, bensi costruzioni culturali, concetti politici grazie ai quali vengono stabilite gerar- chie, differenze e confini, pi o meno immateriali. E, cosi, le loro indagini finivano col rimuovere il fatto che la “democrazia”, i suoi valori di fondo, i suoi ideali, la sua stessa definizione ‘scientifica’, sono prodotti culturali. In altre parole, proprio perché scindevano nettamente il piano culturale da quello strutturale, potevano agevolmente considerare la democrazia come un assetto istituzionale di fatto indipendente dai si- gnificati costruiti all’interno della dinamica sociale e politica, De per un verso riusci- vano dunque a ipotizzare che una determinata dotazione culturale avesse effetto su un certo tipo di regime, per un altro escludevano in termini programmatici idea che la struttura —ossia, nel caso specifico, il regime democratico — fosse anche, al tempo stesso, il risultato di un processo di costruzione simbolica, costantemente ridefinito dall’azione degli attori sociali. 4. Verso una teoria culturale dell’ethos democratico Le riserve che nel corso di pitt di mezzo secolo sono state indirizzate a Banfield potreb- bero apparire tanto consistenti da far calare un robusto velo di sospetto sulla nozione di ethos e su ogni tentativo di trovare una spiegazione ‘culturale’ al rendimento della democrazia, allo sviluppo economico, o alla tendenza della popolazione a organizzarsi per risolvere i problemi comuni. Forse é perd possibile tornare a utilizzare "idea di un ethos — e, in particolare, I’idea di un ethos democratico — in una nuova direzione che tenti di sviluppare una teoria ‘culturale’ della democrazia: una teoria che non abban- doni le intuizioni di un’impostazione ‘culturale’, ma che — rifiutando le seduzioni del ‘culturalismo’ — accolga le sollecitazioni provenienti dalla ‘svolta culturale’ realizza- tasi nelle scienze sociali a partire dagli anni Ottanta e Novanta” Grazie ad apporti fra loro estremamente eterogenei (costituiti per esempio dall’an- tropologia di Clifford Geertz, dalle indagini ‘genealogiche” di Michel Foucault, dalla sociologia critica di Pierre Bourdieu), ethos pud essere infatti concettualizzato in termini molto diversi da quelli con cui Banfield — operando peraltro con strumenti gia piuttosto obsoleti negli anni Cinquanta — definiva l’erhos del “familismo amo- rale”. In primo luogo — dal momento che la cultura pud essere concepita come “un istema di segni e di simboli (piuttosto che di comportamenti e di norme istituzio- nalizzate) altamente instabili, soggetti a continui conflitti e resistenze, sensibili ai rapporti di potere che articolano i contesti storici, aperti a incontri, scontri © con- taminazioni con configurazioni semiotiche diverse, e decifrabili solo attraverso un prolungato processo ermeneutico”™ — I’ethos pud essere inteso non come una realti cristallizzata e sempre uguale a se stessa, bensi come una costruzione simbolica che registra puntualmente i conflitti che avvengono in un determinato contesto. In secondo luogo, & possibile mettere radicalmente in discussione |’idea comportamen- tista che sia possibile distinguere la cultura dalla struttura, e che dunque l’ethos Damiano Palano configuri qualcosa di autonomo dal contesto istituzionale e organizzativo in cui gli individui operano. All’interno di una simile prospettiva, gli interessi (e le strategie adottate per perseguirli) non vanno percid concepiti come qualcosa di indipendente dal contesto, mentre le stesse istituzioni non possono essere distinte dai significati ad esse attribuiti. Al contrario, una prospettiva culturale viene a concentrarsi proprio sulle strutture dei significati intersoggettivamente condivisi, perché, come é stato os- servato, sono “questi significati, queste interpretazioni condivise degli attori sociali ad essere al centro dell’analisi culturale dell’identita politica, insieme ai rituali ¢ ai simboli che le esprimono e le veicolano”™”. E, dunque, ethos pud essere concepito proprio come quell’ insieme di simboli, di rituali, di strategie di legittimazione e di orientamento dell’azione che caratterizzano, in un determinato momento storico, un contesto politico. Ovviamente una simile ridefinizione ‘culturale’ dell”ethos rimette completamente in discussione, prima ancora che il nesso di causalita fra cultura e struttura, la stessa distinzione fra questi due poli, nel senso che la struttura non pud essere intesa come una dimensione di fatto sottratta al flusso di produzione e di ridefinizione dell’o- rizzonte culturale. Evidentemente, si tratta di considerare la cultura (politica) come Vinsieme di significati e simboli che permeano Minter vita sociale e che orientano la vita dei singoli in uno specifico contesto. Ma, proprio per questo, lo stesso rapporto tra ethos ¢ democrazia non pud che essere declinato in una direzione che configura la democrazia stessa — i suoi obiettivi, i suoi valori, le sue regole, i suoi confini — come un ‘oggetto culturale’ tutt’altro che cristallizzato. Naturalmente le implicazioni di una simile operazione non sono irrilevanti per la teoria della democrazia, e in particolare per l’immagine della democrazia adottata dalla gran parte del dibattito politologico. Studiare effettivamente la dimensione ‘politica’ della cultura, e il rapporto fra cultura e democrazia, richiede infatti di abbandonare definitivamente i vecchi assunti condi- visi dai politologi comportamentisti, come l’esclusiva attenzione per l’individuo (che non consente di cogliere la dimensione ‘collettiva’ della produzione culturale), idea che la cultura politica possa essere ricostruita ‘sezionando’ la cultura di una societa, Vimmagine della cultura politica come dotazione stabile nel tempo, la convinzione che la cultura e la struttura debbano essere considerate come due ambiti distinti, ¢ non come due realté sempre intersecate. Ma, soprattutto, una teoria culturale della democrazia impone finalmente di fare i conti con la vecchia illusione comportamen- tista che sia davvero possibile costruire concetti analitici ‘neutrali’, il cui significato sia ‘oggettivo’, ‘depurato’ dalle incrostazioni ideologiche e valoriali, e per questo sottratto alle dinamiche politiche che caratterizzano ogni contesto sociale. Forse non si tratta necessariamente di abbandonare quella concezione della democrazia compe- titiva che, a partire dalle pagine di Capitalism, Socialism and Democracy, & diventata egemone nel dibattito politologico™. Piuttosto, si tratta di ripensare quella nozione in una prospettiva ‘culturale’, che, senza tentare di scolpire la sagoma di un presunto homo democraticus, possa realmente considerare la democrazia come un costrutto simbolico che acquista di giorno in giorno — nel flusso dei conflitti politici — sempre nuovi significati. Perché certo é possibile che avesse qualche ragione Banfield quando osservava amaramente, al termine del suo libro su Montegrano, che “le nazioni non si 14 La trappola di Banfield trasformano a fondo, ¢ deliberatamente, pil di quanto non facciano i villaggi™!. Ma, forse, non & neppure da escludere che, proprio scrutando a fondo quell’ethos all’ap- parenza sempre uguale a se stesso, si possano comprendere davvero le trasformazioni delle nostre democrazie. Note ' De Roberto, 1894, p. 543. Cfir. Rosengarten, 1998. Cir, Moe, 1992, 1998. Banfield, 2006. Putnam, 1993. © fr. Patriarca, 2010. 7 Almond, Verba, 1963. ® Cfir. Kertzer, 2007; Santoro, 2007a, Banfield, 2006, p. 101 Banfield, 2006, p. 37. \ Banfield, 2006, p. 37. " Banfield, 2006, p. 39. © Davis, 1970. “ Banfield, 2006, p. 57. 'S Banfield, 2006, p. 57. © Della Porta, 2002, p. 79. " Sumner, 2007, p. 36. \ Banfield, 2006, p. 151 ' Banfield, 2006, p. 167. ® Banfield, 2006, p. 172. >! Per una rassegna del dibattito, eff. Marselli, 1976, Della Porta, 2002, pp. 81-86, Bagna ® Cfr. Davis, 1970; De Masi, 1976. ® Cfr, Hunter, 1953; Dahl, 1961; Bachrach, Baratz, 1986. % Cit. Galtung, 1971, p. 155; Cancian, 1961; Moss, Capannari, 1960; Silverman, 1970; Catanzaro, 1983. 2 Cft. Pizzorno, 1967. 2% Cf, Bagnasco, 2009; Sciolla, 1997, 2001; Santoro, 2007a; Kertzer, 2007; Gaggio, 2007; Viazzo, 2007; Marselli, 2007; Chiesi, 2007; Ferragina, 2009, 2010, 2011 °C fr. in proposito Harrison, Huntington, 2000; Fukuyama, 1995. 2 Su questo legame, si vedano Jackman, Miller, 1996; Sabatini, 2008. Putnam, 1993, p. 18, » Putnam, 1993, p. 18. | Cfr. per esempio Bagnasco, 1994, 2000; Floridia, Ramella, 1995; Levi, 1993, 1996; Mutti, 1994, 1998; Piselli, 1999; Tarrow, 1995. Anche in seguito alle critiche, Putnam ha parzialmente rivisto immagine det capitale sociale (Putnam, 2004). © In questa direzione, si vedano le osservazioni sviluppate in Palano, 2009; Santoro, 2007b. > Cfr. per esempio Almond e Verba, 1963; 1980; Almond ¢ Coleman, 1960; Almond ¢ Powell, 1966; 1978. » Cfr, Dahl, 1961b; Sola, 1996. 38 Si vedano le osservazioni di Caciagli, 1998a, p. 273; Mannheimer, Sani, 1988, p. 200. % Baston, 1985, p. 100. 0, 2006. Damiano Palano 15 » Cit. per esempio, per un orientamento generale, De Maria, Neergard, 2007; Santoro, Sassatelli, 2009. % Gaggio, 2007, p. 712 20 96. culturale di questa nozione, efi. per esempio Palano, 2010; 2012. Bibliografia Almond, G., Verba, 8. (1963), The Civic Culture. Political Attitudes and Democracy in Five Nations, Princeton (N.J.): Princeton University Press. Almond, G.A., Coleman, (eds.) (1960), The Politics of Developing Areas, Princeton: Princeton University Press, Almond, G.A., Powell, G.B. (1966), Comparative Politics. 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