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IL PANE

racconto di Hrant Matevosyan

HRANT MATEVOSYAN (1935-2002) è stato


uno scrittore e sceneggiatore armeno. Nacque nel
1935 nel piccolo villaggio di Ahnidzor, nella
regione di Tumanyan, nel nord della Repubblica
d'Armenia. Dopo aver studiato nel capoluogo
della sua regione, Kirovakan (attuale Vanadzor),
nel 1952 si trasferì nella capitale Erevan, dove
frequentò l'Università Pedagogica. Per un anno,
dal 1965 al 1966, seguì i corsi per sceneggiatori a
Mosca. Dal 1996 al 2000 fu anche presidente
dell’Unione degli Scrittori d’Armenia.
Come scrittore divenne famoso nel 1961, quando
fu pubblicato il suo primo racconto, intitolato
“Ahnidzor” dal nome del suo villaggio. In esso
Matevosyan descrisse la vita contadina, che poi
divenne l'argomento principale delle sue opere. I
suoi protagonisti sono contadini che lavorano nel
loro ambiente naturale, campi e boschi, guadagnandosi onestamente la vita. Un esempio di vita
contadina e dei suoi valori è rappresentato anche nel racconto intitolato “Il pane”, i cui protagonisti
sono ritratti nel loro agire quotidiano, e al cui centro è posta la cura dei genitori verso il proprio
figlio e la sua educazione.
Sulla base delle opere di Matevosyan furono realizzati diversi film sempre ispirati alla realtà rurale
armena. I suoi scritti furono tradotti in molte lingue, come ad esempio in russo, inglese, francese,
tedesco, ceco, ungherese ecc.

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IL PANE

Mio papà, con la scure in mano, andava a riparare la stalla; mia mamma, col grembiule allacciato,
andava nel campo a raccogliere le patate; mio zio paterno, con la falce in spalla, andava sulle
montagne a raccogliere l’erba. Nel
cortile, sotto il sole, seduto su un tronco,
io leggevo un libro di avventure
mangiando il pane.
Era domenica. A scuola prendevo ottimi
voti in armeno, in russo, in matematica,
in geografia: in tutte le materie prendevo
ottimi voti. Il libro di avventure era un
buon libro, mio papà era un bravo papà,
mia mamma mi amava molto, mio zio
era un uomo bello e forte. Le rondini
La casa di Hrant Mathevosyan ad Ahnidzor (foto di Tsovinar Martirosyan)
della grondaia di casa nostra erano volate
via con le gru del cielo; sul giardino e sul bosco era sceso frusciando l’autunno. Se i nostri maiali
non fossero scappati, in quel momento tutto nel mondo sarebbe stato così bello! Con la scure in
mano, col grembiule allacciato, con la falce in spalla, loro, prima di andare a lavorare, mi
osservavano e di nascosto si rallegravano del fatto che il loro figlio stesse crescendo, ed ecco, con la
mano sulla guancia, leggesse un libro. Col grembiule allacciato mia mamma pensò se parlare o non
parlare, e decise di non parlare, di non disturbare suo figlio, di lasciare che suo figlio leggesse e
diventasse uno studioso. Con la scure in mano mio papà pensò se chiedere o non chiedere, pensò di
nuovo se chiedere o non chiedere, e decise di non chiedere, di lasciare che suo figlio leggesse, che
leggesse mangiando il pane. Io leggevo e sentivo che loro volevano parlarmi dei maiali, ma io
facevo finta di niente, leggevo solo il libro di avventure, perché è bello, è molto bello quando, nei
libri, gli altri vanno, si bagnano, hanno freddo, combattono, perdono, vincono, ed è brutto, molto
brutto, quando sono io a dover andare, faticare, per trovare o meno i nostri maiali.
La stalla doveva essere assolutamente riparata, le patate dovevano essere assolutamente raccolte
prima della neve, l’erba doveva essere assolutamente legata in fasci, per questo papà, mamma e zio
non potevano fare a meno di andare prima dell’inverno a riparare la stalla, a raccogliere le patate e a
legare l’erba. Mio papà allora mi disse:
- Se ti chiedo una cosa?
Io sapevo cosa papà volesse dirmi, ma chiesi:
- Cosa c’è?

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Ed era una gran vergogna che io, pur sapendo cosa volesse chiedermi, facessi finta di non saperlo.
- Qualcuno ha visto i nostri maiali nella radura di Parz1, - disse mio papà.
- Chi li ha visti? - chiesi io.
- Il guardaboschi.
- Quando li ha visti? - chiesi.
- Ieri sera.
Mi trattenni dal chiedere “perché li ha visti?”, e chiesi:
- Dov’è la radura di Parz?
- Credo che tu sappia bene qual è la radura di Parz.
- È quella lontana?
Lui non rispose, e io capii che lo avevo un po’ infastidito. Chiesi:
- Vuoi che vada a cercare i nostri maiali e li riporti qui?
- Io non voglio proprio niente - disse.
- Qualcuno ha visto i nostri maiali nella radura di Parz, e allora? - dissi io.
Senza rispondere, fece per andarsene.
- Bene, - dissi io - ci vado, ma se non stanno lì, che faccio?
- Non lo so.
Si stava davvero infastidendo perché non poteva andare lui stesso a cercarli, e io facevo domande
stupide e oziose.
- Scusa, - disse. - Leggiti pure il libro, scusa.
- Va bene, - dissi - cercherò le impronte e con le impronte li troverò.
Il sole d’autunno era dolcemente caldo. Nel
dolce sole d’autunno erano belli i nidi
silenziosi delle rondini, i meli del giardino che
avevano ancora qualche mela, il sorriso dolce
di mia mamma, il cane fulvo che mi stava
sdraiato vicino alle gambe e dormiva, la cresta
rossa del gallo e l’albero di ciliegie che
improvvisamente iniziò a frusciare. Io guardai
il giardino, vidi l’albero di ciliegie e

Un sentiero nei dintorni di Ahnidzor (foto di Tsovinar Martirosyan)


l’uccellino dalla pancia gialla che in autunno
così inoltrato aveva trovato una ciliegia

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Parz: in armeno “chiaro, senza ombra”. Il toponimo ribadisce che si tratta di un luogo privo di vegetazione.
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sull’albero e cinguettava dalla meraviglia. Compresi che nel dolce sole d’autunno tutto era
malinconico e bello, e che l’unico brutto ero io, perché facevo finta che a causa del libro non volevo
andare a cercare i nostri maiali.
Io allora dissi:
- Leggerò il libro dove sono i maiali.
- Grazie, - disse mio papà. - Se vuoi, lascia il cane a guardia delle galline, oppure prendilo con te.
Grazie, - disse di nuovo, e io provai un po’ di vergogna.
- Bene, - dissi io. - Prendo il cane.
Mi fecero indossare un maglione di lana caldo e morbido, che la mamma aveva fatto per me durante
le sere; mi fecero calzare degli stivali leggeri di gomma perché con le scarpe di cuoio non mi
accadesse di scivolare sull’erba; e mi guardarono con tenerezza, perché il maglione mi stava molto
bene e io ero il loro figlio.
- Vado adesso? – chiesi io.
- La strada tua e di tuo zio è la stessa fino alla fonte Kuyr2.Va’ con lo zio fino alla fonte Kuyr, da lì
gira per il sentiero Tput3 fino alla radura di Parz.
Il cane non voleva venire. Io lo chiamai di nuovo, lui si alzò lentamente e pigramente ci seguì.
Conosceva la poiana ladra della foresta Dimats4, la poiana ladra della foresta Dimats conosceva lui.
Loro si conoscevano da lungo tempo. La poiana ladra della foresta Dimats non spiccava il volo in
alto come un falco: lei si avvicinava ai nostri polli passando di cespuglio in cespuglio e di albero in
albero quasi strisciando. Il cane si fermò di nuovo. Io vidi il volo furtivo della poiana grigia di
fogliame in fogliame, ma pensai che stavo portando il cane a un lavoro tanto importante quanto è
importante la guardia dei polli, e con un fischio richiamai il cane. Lui ci seguiva automaticamente,
ma poi, quando uscimmo dal villaggio e lui si dimenticò della poiana, corse in avanti guaendo
felicemente e se ne andò. Aveva nostalgia della foresta, dei maiali, della corsa, della fatica.
A casa c’era la mia scrivania, la luce calda e avvolgente della lampada, la mia piccola biblioteca, la
dolce musica della radio e sulla mia cassapanca il grosso scialle di lana di cammello, per il
sonnellino pomeridiano. Nel bosco c’erano gli orsi, gli elefanti, le tigri, le pantere, i demoni, i
diavoli e i mostri; tranne i nostri maiali e la mia onestà, tutti erano nel bosco, e io andavo piano,
restando dietro mio zio; avevo aperto il libro e camminavo guardando il libro come se non potessi
staccarmene, e restavo indietro per leggere.
Vicino alla fonte Kuyr, dove la strada si biforcava, il cane si era fermato e ci aspettava. La fonte si
chiamava Kuyr perché dalle sue profondità rilasciava della sabbia ghiaiosa, e la sabbia ne chiudeva
2
Kuyr: “cieca”. Anche in questo caso il toponimo è “parlante”, e segnala che la scaturigine della fonte è coperta dalla
ghiaia.
3
Tput: “coperto di foglie”.
4
Dimats: “Che si trova di fronte”.
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la sorgente. La fonte era di nuovo piena di sabbia ghiaiosa e di melma e, dietro la sorgente chiusa, la
fonte nel sottosuolo era come se si strozzasse.
Mio zio osservava la fonte che stava diventando palude. Dalla sua borsa da campo estrasse il suo
cibo da campo, spartì il pollo bollito, lo avvolse nel pane lavash5, impacchettò il pacchetto con carta
di giornale e me lo mise sotto il braccio.
E con la testa mi indicò il sentiero della
radura di Parz.
- Voglio bere l’acqua - dissi io.
- La berrai dalla fonte della radura di
Parz, - disse lui. - È sotto una grande
quercia. Andate!
Con un guaito di gioia il cane si lanciò

verso il sentiero. Per un momento Pane lavash

anch’io mi rallegrai e mi misi a correre.


Il fogliame frusciava in modo assordante, forte e secco. C’era quel fruscio quando correvo, nelle
mie orecchie c’era solo quel fruscio. Il fogliame mi arrivava alle ginocchia. Quando mi fermavo,
c’era un silenzio assoluto; in quel silenzio e in quella luce si sentiva appena il fruscio delle foglie
che cadevano a terra dondolando. Il merlo nero volò cinguettando da sotto i miei piedi, e di nuovo
regnava il silenzio. Mi sembrava di sentire il lento respiro della foresta.
Guardai indietro: mio zio era inginocchiato vicino alla fonte e stava facendo qualcosa.
Addentrandomi ancora un po’ nella foresta, guardai di nuovo indietro. Mi sembrò che mio zio fosse
già andato via, ma non era ancora andato via, restava ancora chino sopra la fonte e si distingueva a
fatica perché sia la strada che i suoi vestiti avevano lo stesso color terra. Mi sedetti dietro l’albero, e
per ingannare me stesso come se stessi facendo qualcosa, aprii il libro d’avventure. Ma non leggevo
il libro: chino sul libro, aspettavo che mio zio si allontanasse dalla strada del ritorno. Lui adesso
stava seduto presso la fonte, fumava e, come mi sembrava, mi osservava nella foresta. “Ma perché
te ne stai seduto così, inutilmente? - pensai. - Cercare i maiali è compito vostro, leggere il libro il
mio. Ecco, io mi leggo il libro, e voi ve ne state seduti inutilmente!”. E, per ingannarmi ancor di
più, mi tappai le orecchie con le dita e guardai solo il libro, come se stessi leggendo, come se stessi
solo leggendo.
Da lontano si sentiva un leggero fruscio. Alzai lo sguardo dal libro e aprii le orecchie: il fruscio era
molto forte e molto vicino. Ma non feci in tempo a impaurirmi perché nello stesso momento vidi il
nostro cane. Si avvicinò velocemente strusciandosi contro di me, saltò, saltò di nuovo, guaì e abbaiò

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Lavash: tipico pane armeno largo e sottile, nel quale si possono avvolgere vari cibi.
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verso la radura di Parz. Perché non abbaiasse e non facesse di nuovo rumore, io gli diedi metà del
mio pane, e lui si sedette vicino a me dietro l’albero e aspettò che gli dessi ancora qualcosa.
Sfilacciandole, mangiai le bianche carni del pollo, diedi a lui l’osso. Mangiai la pelle del collo, diedi
a lui l’osso. Era un po’ difficile mangiare, perché io non ero andato a cercare i maiali, tuttavia
mangiavo. Mangiai il piede del pollo saporito come non mai, l’osso lo diedi al cane. - Anche questo
a te! - dissi.
Alla fonte ora non c’era più nessuno. Scesi per il sentiero in direzione della strada. - Andiamo! -
dissi al cane. Lui mi guardava e non si alzava dal suo posto: non credeva che stessimo già tornando
indietro.
- Affari tuoi, - dissi io - se vuoi restare, resta!
Discesi la strada costeggiando la fonte. Nel bacino della fonte adesso non c’era né melma né fango:
il suo occhio adesso non era più “cieco”. L’acqua della fonte adesso sgorgava abbondante e libera.
Straripando, letteralmente ballava. Il suo azzurro bacino petroso era ricolmo e limpido. Nel suo
specchio d’acqua pulita vidi il mio viso sazio e sciocco: un po’ mi vergognai di me stesso, ma
avevo molta sete, mi piegai per bere l’acqua. Non feci in tempo a comprendere che non ero degno
di quella fonte nel momento in cui bevevo… che quella fonte, che quella carne di pollo, che quel
cane, che quel fruscio del bosco, che quel papà, che quella mamma, che tutti loro erano molto
buoni, invece io ero molto cattivo, a questo io non pensavo, io sorso dopo sorso bevevo quell’acqua
cristallina. Non pensavo proprio che quella fonte non fosse mia, che non mi appartenesse. Bevvi a
sazietà ed ero soddisfatto.
Dal bosco sentii provenire un verso che sembrava essere il grugnito di un maiale; di nuovo mi
vergognai un po’, ma continuai ad andare verso casa, verso la mia cassapanca, la mia scrivania, il
mio angoletto caldo.
Quando fui abbastanza vicino al villaggio, vidi che il cane mi seguiva pian piano.
- Se non volevi, non venivi! - dissi al cane - Chi ti ha obbligato? Non ti ha obbligato nessuno.
Se la poiana avesse rubato un pollo o no, io non lo sapevo. “I polli sono affare di mia mamma, che
controlli mia mamma se la poiana ha rubato o no un pollo! - pensai io. - La lezione di geografia la
so, la lezione di storia la so, il problema di matematica…”.
Mio papà stava seduto sul bordo della cassapanca, sorrideva e si lamentava. La sua schiena, dunque,
gli faceva di nuovo male. Ma perché sorridesse, io non riuscivo a capirlo.
- Che musica è questa alla radio? - chiese.
- Komitas6.
- L’ha scritta lui o la canta?

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Komitas (1869-1935): noto compositore e musicista armeno che ha raccolto e ordinato molti canti della tradizione
liturgica e popolare.
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- L’ha scritta lui, lui è il compositore.
Sorrise, poi disse:
- Bravo che studi così bene la storia!
- Chi l’ha detto?
- I tuoi maestri che sono venuti ad aiutarmi7. Le lezioni di domani le sai?
- Le so.
- Grazie, - disse lui - e non importa che non hai trovato i maiali. Ora vado io e li riprendo.
- Ora è buio, - dissi io.
- Il lupo ha divorato i maiali di Mushegh8 ieri sera nella foresta. Ho paura che lo faccia anche con i
nostri.
Ogni secondo lui voleva alzarsi dalla cassapanca, ma non si alzava. Non voleva stendersi, ma alla
fine si distese.
- Quando mi distendo, non mi fa male - disse lui. - Hai guardato solo nella radura di Parz o hai
cercato anche in altri posti?
- Ho guardato nella radura di Parz.
- Allora nella radura di Parz non vado, - disse lui. - Peccato, speravo che fossero là!
- Non so, - dissi io, - il sentiero era coperto di foglie, non so se quella che ho visto era la radura di
Parz o un’altra.
- Al bordo della radura c’era una grande quercia?
- Una grande quercia c’era, e sotto la quercia c’era una fonte.
Contorcendosi dal dolore, si alzò subito e cercò il cappello. Era talmente stanco che non si
accorgeva di avere il cappello in mano.
- Peccato che non sono nella radura di Parz! - disse lui - Allora si sono allontanati, si sono inoltrati
nella radura.
- Ti fanno male i fianchi - dissi io.
Lui fece finta di niente.
- Quando ti sforzi di vedere nel buio, ti dimentichi il dolore.
Vengo con te, - dissi io.
Lui mi accarezzò.
- Tu oggi hai camminato molto. Mangia, riposati un po’ e dormi!
Quando si immerse nel buio, io dissi ad alta voce:
- Vengo anch’io!

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Nei villaggi armeni è tradizione che tutti gli abitanti si aiutino l’un l’altro nei lavori dei campi.
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Nome tipico armeno, qui indicante un vicino di casa.
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No, - disse lui secco - tu leggiti il libro!
Nel buio qualcosa sfrecciò abbaiando con passo felpato. Era il cane. Andava col mio papà a cercare,
a scovare nella lontana oscurità, a riportare i nostri maiali, la cui carne io avrei mangiato tutto
l’inverno, con il cui ricavo avrei indossato un caldo cappotto, avrei avuto degli sci, degli scarponi
da sci, una morbida sciarpa, un cappello con i paraorecchie…
Mia mamma apparecchiava la tavola per
la cena. La radio suonava in sottofondo.
Sulla scrivania la lampada irradiava una
soffusa luce bianca. Sulla tovaglia bianca
c’era il pane bianco ben cotto appena
sfornato. Accanto al pane, le patate fritte.
Il legno del focolare bruciava a fiamma
bassa. Il bollitore del tè borbottava
dolcemente, il cucchiaino d’argento da tè
era molto bello, la bruna marmellata di
Marmellata di noci (murabà) noci9 brillava nella luce bianca, la sera era
densa e calda, e triste era solo il canto intermittente della cicala, che ora si sentiva vicino al tavolo,
ora vicino al focolare, ora vicino alla mia cassapanca. Tutte queste cose erano tristi e belle, ed erano
state create per me, ma io non ero degno di mangiarle, di sentirle, di guardarle, di ascoltarle.
- Io non mangio - dissi. Andai a letto e mi girai verso il muro. Non meritavo la morbidezza della
lana e delle piume, e il candore del letto. Mia mamma si avvicinò, io chiusi gli occhi. Lei mi coprì
la schiena e mormorò:
- Il mio bambino oggi si è stancato tanto!

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La marmellata (murabà) fatta con i malli di noce è una specialità armena. Per farla, bisogna attendere il momento
giusto in cui il guscio non si è ancora solidificato.
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Interno della casa dello scrittore (foto di Tsovinar Martirosyan)

La traduzione è stata eseguita all'Università di Bologna, durante le lezioni del corso di Lingua e
letteratura armena II tenute dalla prof. Anna Sirinian (a.a. 2014-2015). Vi hanno partecipato le
studentesse Rebecca Borsella e Ljuba Cecchella, con la collaborazione delle dott.sse Loris Dina
Nocetti e Silvia Ferriani. Un ringraziamento particolare va al dott. Khachik Harutyunyan del
Matenadaran di Erevan, borsista WEBB a Bologna, per la preziosa consulenza offerta.

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