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ORGANIZZAZIONE

DEL SISTEMA MODA


“Il designer di moda, man in the middle e intermediario culturale” (N. Giusti)
I fashion designers sono intermediari culturali nell’accezione di Bourdieu, termine utilizzato per
indicare numerose professioni dell’industria culturale. L’obiettivo è valutare se e come il concetto di
intermediario culturale sia utile per comprendere in che cosa consiste l’occupazione del design di
moda. Il ruolo del fashion designer consiste nel porsi al centro di diversi sistemi di relazioni, il governo
congiunto delle quali costituisce la produzione della moda. I dati utilizzati per l’analisi sono tratti da
una ricerca condotta all’interno di due maison de couture parigine e attraverso i loro licenziatari
italiani. Lo scopo non è fornire una descrizione esaustiva e definitiva dell’occupazione del fashion
designer, quanto cercare una chiave di lettura che permetta di distinguerla dalle altre. Sono diversi i
tipi di mediazione che il designer di moda opera quotidianamente, al centro di una complessa rete di
relazioni e nelle diverse fasi della sua attività. L’etichetta di intermediario, o man-in-the-middle (uomo
nel mezzo) appare appropriata.

Fashion designers e nuovi intermediari culturali
Il tratto saliente delle professioni di intermediazione nel campo culturale è, per Bourdieu, quello di
corrispondere a posizioni professionali e sociali indeterminate, che predispongono al “bluff culturale”
o sociale, legate alla presentazione, rappresentazione e alla vendita di beni e servizi simbolici. Le
professioni associate a questo bluff sono quindi associabili alla vendita di beni e servizi. Il rapporto
mistificante-mistificato che questi professionisti del discorso intrattengono con le cose viene
esemplificato da Bourdieu: si tratta di profili occupazionali dalle competenze multiple e poco definite
a livello istituzionale, oppure occupazioni in via di trasformazioni. Sono tutti “mercanti dei bisogni”,
venditori di beni e servizi simbolici che pongono se stessi come modelli e garanti del valore dei propri
prodotti. I tratti salienti della professione del fashion designer si discostano dal ritratto degli
intermediari culturali a cui pensa il sociologo se si considera l’aspetto dell’indeterminatezza: più
congruente con questa categoria è il ruolo che essi esercitano di garanzia personale nella vendita di un
prodotto simbolico. La professione antesignana del fashion designer, il couturier, ricalcava la figura di
un artigiano d’arte tra fine Ottocento e primi del Novecento, all’inizio dell’epoca della “moda dei cento
anni” (Lipovetsky). Il mestiere di sarto si è istituzionalizzato in quel periodo, enucleando la posizione
autonoma del creatore, ovvero di colui che propone o detta il modo in cui la gente si vestirà. Fino al
compimento di questo processo di autonomizzazione, si poteva parlare di una professione
indeterminata, in quanto non esisteva ancora un percorso di formazione specifica. Nell’epoca della
moda di massa, o della moda industriale, e dei designers, l’indeterminatezza della professione è da
dimostrare: l’istituzionalizzazione della moda come sistema ha portato a una progressiva definizione
del ruolo professionale del fashion designer e alla strutturazione di sistemi di formazione. Nel sistema
della moda attuale, la divisione del lavoro esplicitamente codificata, i percorsi di formazione
strutturati, i costi dell’apertura di una casa di moda ecc… fanno sì che un risultato del genere non sia
casuale. Dietro all’etichetta di designer si cela una varietà di posizioni effettive. Il discrimine tra
fashion designer, Direttore artistico e designer tecnico, ovvero lo stilista, sta nel porsi o meno tra
produzione e consumo, garantendo con la propria firma l’identità stilistica proposta ai consumatori.
Consiste, quindi, nell’essere anche intermediari culturali. Altro concetto chiave, quello di produzione
simbolica: essa consiste nella costruzione di quei nessi che permettono di collegare un senso di
identificazione tra consumatore e oggetto. Bourdieu sottolinea come la produzione di beni simbolici e
la credenza genuina nel loro valore sia il fattore unificante di queste professioni: “l’autorità simbolica
del venditore integra ed affidabile prende la forma di una imposizione al tempo stesso più violenta e più
dolce, dato che il venditore non inganna il cliente se non nella misura in cui lui stesso si inganna, perché
crede sinceramente al valore di ciò che vende”. Fa parte delle core competences del fashion designer,
nella versione direttore artistico, il porsi come modello identitario garante del valore del prodotto, e
l’essere il primo a credere in questa operazione. Il sistema della moda si è appropriato sempre più
consapevolmente di queste strategie di identificazione tra produttore e prodotto. Lo scopo non è solo
fare cassa, ma rinforzare ed estendere l’identità proposta al consumatore dai vestiti e un modo di
vivere, è vendergli la vita che ha voglia di vivere, in quella perfetta corrispondenza tra strategie
estetiche e strategie commerciali che è fenomeno tipico del campo della moda. Restano esclusi da
questa mediazione tra produzione e consumo quei designer che non possiedono un marchio proprio:
questi manovali del design ricoprono posizioni nascoste che non permettono di incanalare
l’immaginario della clientela sulla loro persona.

La creazione come postproduzione
È a un articolo di Charles Wright Mills del 1958 che si deve la definizione di designer come man-in-
the-middle. Mills nota come gli uomini vivano in un mondo di seconda mano, l’apparato culturale
definisce e costruisce il mondo che gli uomini credono di comprendere, e lo ripresenta in slogan,
formule, sogni, copie. Il problema di questa mediazione per Mills è il fondamento commerciale
dell’apparato culturale: le persone che vi lavorano si situano all’incrocio tra il mondo della cultura e
quello della “società ipersviluppata con la sua etica della pubblicità”, ed è in questo ruolo di
mediazione tra mercato e cultura che va letta la figura del designer, il quale si unisce alla
“confraternita della pubblicità” in quell’insieme di professioni asservite al Dio-della-Grande-Vendita. Il
designer è colui che aggiunge ai prodotti industriali la vernice magica e lo scintillio del prestigio,
pianifica l’apparenza delle cose che dà ai beni industriali un’individualità fittizia e viene incontro ai
bisogni vacui del venditore. Uno dei peccati del designer è la sostituzione del tempo naturale
dell’obsolescenza tecnologica con quello fittizio della moda. La vernice mistificatrice, per Mills come
per Bourdieu, è il tratto caratteristico delle professioni legate alla mediazione culturale. Quello che ci
interessa del pensiero di Mills è la concezione del lavoro del designer come un lavoro di mediazione
tra cultura e natura, tra rappresentazione e materialità, il designer è un attore che filtra la realtà
attraverso oggetti e rappresentazioni materiali che permettono la coscienza del reale. Il ruolo del
designer si carica così di responsabilità. L’idea di filtro della realtà apparirà anche nei lavori di
Herbert Blumer, che fonda la sua nuova definizione di moda sull’osservazione dell’industria parigina.
La moda, processo di selezione e coordinamento di comportamenti collettivi, riprende e amplifica
l’idea del designer come mediatore di questa selezione, la produzione della moda è un processo diffuso
e collettivo, nel quale alcuni attori rappresentano degli snodi. Per Blumer, questi snodi sono costituiti
dai designer, dai manager, dai buyers… La mediazione che i designer operano avviene a livello
diacronico, andando a cercare vecchi modelli e tenendosi al corrente dei trend, e a livello sincronico,
tra diverse forme culturali. L’operazione fondamentale del design di moda è, per Blumer, tradurre i
temi della modernità in disegni di vestiti. È noto da tempo come i fashion designers si servano di
un’infinità di fonti per la concezione di nuovi prodotti: i designer di vecchia generazione celavano
strategicamente questo libero utilizzo di artefatti culturali esistenti dietro alla fictio del disegno creato
dal nulla. È il mood board lo strumento principale che permette di rintracciare buona parte delle fonti
d’ispirazione e trasmette il tono della collezione. Le fonti di ispirazione e informazione dei designer
sono varie, e Gaye Smith ne presenta un panorama completo: partecipazione alle fiere di settore,
interrogazione dei servizi delle società che forniscono previsioni, video, cataloghi, riviste, fotografie,
pittura… Un fenomeno che Smith nel 1989 non conosce è quello dell’archivio di moda: aziendale o
privati, contiene modelli realizzati, cartamodelli, foto, disegni, libri, riviste e tutto quel materiale
classificabile come fonte. Sono istituzioni recenti, nate nel momento in cui le aziende hanno cominciato
a riflettere sul proprio patrimonio storico e in cui la citazione è diventata sistematica e integrata nella
routine del processo creativo. Questo avviene in particolar modo nelle maison storiche che fondano il
loro successo sulla retorica del classico, rimandando sempre a un immaginario da rinnovare, senza
tradirlo. L’ispirazione si rintraccia sempre nel materiale già esistente, ma se l’archivio non è ben
organizzato la trasmissione dello stile diventa aleatoria. Inevitabile mobilitare il concetto di
postproduzione: Bourriaud mutua il termine dal vocabolario della televisione, per dare un nome a una
serie di pratiche correnti nell’arte contemporanea che consistono nel programmare forme esistenti e
nel ricorrere all’utilizzo di elementi già esistenti. Muovendosi in un universo di beni di consumo,
segnali già emessi e itinerari già percorsi, gli artisti non considerano più il campo artistico come un
museo di opere da superare, ma come un grande magazzino pieno di strumenti da utilizzare, di dati da
reinterpretare. I designer di moda utilizzano da sempre questo registro di azione della
postproduzione, o della replicabilità, ovvero della produzione culturale attraverso la manipolazione di
elementi già esistenti, attraverso la citazione e l’omaggio, che è diventata ormai una prassi del
processo creativo. Uscendo dalla concezione della “profusione creatrice e spontanea” o dell’“ideologia
carismatica della creazione”, l’idea stessa di creazione va rimessa in discussione. L’oggetto di analisi
diventa il designer come uno degli attori che partecipano alla produzione di beni simbolici, al centro di
un processo complesso, composto da una moltitudine di oggetti e persone.
La creazione come mediazione di un processo collettivo e negoziato
Il lavoro sulle fonti non esaurisce il momento della creatività: la concezione del prodotto di moda si
concretizza in un processo collettivo e negoziato, a cui partecipano una moltitudine di attori e oggetti.
La competenza del designer non consiste tanto nel disegnare modelli originali, ma nell’assicurare
un’unità di direzione del processo. I designer si muovono all’interno di una serie di relazioni che
costituiscono il processo della collezione. Le idee passano alle tre dimensioni del vestito realizzato: i
passaggi dalle due alle tre dimensioni, cuore del processo di concezione di un prodotto moda,
richiedono delle competenze che il designer non possiede da solo, a lui spetta il governo di queste
relazioni. La prima fase del lavoro si fissa sul mood board, con schizzi e disegni tecnici. Gli schizzi
vengono passati ai modellisti incaricati di studiare la prima realizzazione concreta del modello (tela o
prototipo), di realizzare il cartamodello e la scheda tecnica e di presiedere poi alle 3-4 prove in cui il
modello viene sdifettato (studiato e modificato) e associato a più tessuti. I modelli vengono organizzati
in uno schema che si chiama impianto della collezione, che prevede un certo numero di modelli per tipo
di capo e occasione d’uso. La competenza che distingue il lavoro del designer da quello di altri attori
risiede nel tenere il bandolo delle negoziazioni che si creano attorno alla definizione di ogni singolo
modello. Il problema non è tanto quello di produrre idee, quanto governare l’insieme delle relazioni e
scegliere, dall’apporto di tutti gli altri attori, cosa tenere e cosa scartare. Nella moda avviene un
confronto preventivo con le figure della contabilità, che viene integrato sotto forma di vincoli
budgetari (budget di collezione) e strutturali (numero di codici, struttura della collezione per tipo di
modelli) alla collezione stessa. Si parte da un certo numero di basi, ovvero proposte andate bene sul
mercato e per questo ripetute: il numero di modelli ripresi aumenta al diminuire dell’importanza della
linea. Lo schizzo è il primo output prodotto dal designer, e il compito di quello che si chiamava
modellista (oggi figurinista) è quello di leggerlo e interpretarlo: la visione per questo tipo di mestiere è
fondamentale, e il designer si aspetta che queste figure possano, attraverso la loro interpretazione,
anche fornirgli nuove idee. Questo lavoro avviene indifferentemente nell’haute couture come nel pret-
à-porter, il passaggio dallo schizzo alla tela diventa un dialogo in cui i modellisti propongono soluzioni
sul modello realizzato e il designer decide. Si lavora su prototipi in tessuto dello stesso tipo di quelli
definitivi nelle varie prove, in cui ognuno viene sottoposto all’insindacabile giudizio del designer e
sdifettato. Le negoziazioni sono molte, specie nel momento in cui, nel pret-à-porter, entra in ballo
un’altra azienda che fornisce i modellisti e dovrà assicurare la produzione e distribuzione della linea.
Ogni difficoltà del modello aumenta il tempo di fabbricazione, perciò ha un’incidenza sul prezzo finale.
Nel caso della produzione su licenza, più il prodotto è complesso e raffinato, più diminuisce il margine
di guadagno sia per i licenziatari che per la maison. La creazione è perciò la risultante di vari rapporti
di potere. Altro ambito in cui il designer si trova a dover governare una serie di attori è quello della
scelta dei tessuti: un primo passo è pensare alle forme che si vogliono ottenere, poi selezionare dai
campionari dei produttori tessili quelli ritenuti più adatti. Cruciale a questo punto è il ruolo di chi deve
intrattenere i rapporti con i fornitori. L’autorità concorrente necessaria a stravolgere la collezione
viene dalla forza dei numeri: se un modello non convalidato dall’ufficio stile ma prodotto viene
venduto, allora lo si produce lo stesso. Quel che conta è l’accettazione o meno da parte degli attori
della produzione e della distribuzione di un’identità e autorità propria del designer.

La costruzione del valore del prodotto di moda
Il lavoro di creazione di un prodotto di moda consiste in una serie di mediazioni, al centro delle quali si
pone il designer. La competenza distintiva che gli viene riconosciuta deriva direttamente dal capitale
di autorità che lui stesso si è creato nel suo rapporto con il pubblico. Il designer può essere creativo,
commerciale, o di prodotto a seconda dei casi, purché alla fine venda il proprio prodotto. Vendere
significa trovare una corrispondenza tra il suo modo di creare e i gusti del pubblico, funzione
caratteristica dell’intermediario culturale. Il fondamento di questa corrispondenza si manifesta nella
produzione del valore del prodotto di moda: il suo valore economico è del tutto sproporzionato
rispetto al valore delle componenti materiali e del lavoro che ha alle spalle, ma diventa prodotto di
moda nel momento in cui riceve un valore aggiunto simbolico attraverso la mobilitazione di forze
presenti nel campo (media, professionisti, istituzioni culturali…). Il valore viene costruito attraverso
l’imposizione della firma, e la fede nella magia della firma è fondato su quello che Bourdieu e Delsault
chiamano “potere magico del creatore”, ovvero il capitale di autorità collegato a una posizione.
L’autorità caratteristica del campo della moda è di tipo carismatico e serve a mantenere quel potere
allo stesso tempo simbolico ed economico che costituisce il valore del prodotto di moda. È la rarità del
produttore che conferisce rarità al prodotto, l’imposizione della firma, trasferimento di un capitale
simbolico, crea una differenza ontologica tra oggetto griffato e non griffato, tra autentico e falso, e
realizza quel cambiamento del valore sociale dell’oggetto detto transustanziazione. Da qui la
costruzione di un vero e proprio star system di designers e griffe, segmentati a seconda dello status
attribuito loro dai consumatori. Non si tratta quindi solo di garantire la qualità, ma di costruire una
credenza genuina in essa. Non sempre però il pubblico accetta passivamente tutto ciò che il designer
gli propone: egli ha il compito di produrre dei best seller, limitato dalle disposizioni dei consumatori.
Quando il pubblico non adotta la moda, significa che i designer non sono stati in grado di interpretare
bene le tendenze. La diffusione della moda ha luogo se il designer riesce a trovare una corrispondenza
tra le tendenze che riesce a interpretare all’interno delle varie forme culturali e le disposizioni del suo
seguito. Il designer fa valere il capitale di autorità acquisito nel campo nella sua funzione di
costruzione del valore del prodotto moda, per governare l’intero processo creativo. Si deve districare
tra gli interventi di altri attori e le loro singole esigenze. Da un lato le altrui competenze sono un
fondamentale arricchimento per la sua visione, dall’altro non devono prendere il sopravvento
disperdendo l’unità progettuale di una collezione. Il designer quindi si pone due volte come man-in-
the-middle: la prima in quanto mediatore tra forme culturali per la creazione di prodotti culturali, la
seconda in quanto caporeparto e snodo fondamentale nel flusso di lavoro e comunicazione che porta
alla realizzazione di una collezione di moda. È il primo anello della catena professionale che va dal
management alla work crew, in ciò rintracciamo il discrimine di questa professione.

Concorrenti
Tra le figure concorrenti che cercano di prendere il posto del fashion designer citiamo gli uffici di
marketing strategico e operativo delle stesse case di moda e il manager di prodotto, il cui compito è
quello di mettere in relazione il creativo e il commerciale, comprendendo il primo in funzione del
secondo. Deve capire come si comporta il mercato osservando la gente, i negozi e le strade. Una delle
competenze più diffuse dei merchandiser è quella dell’autorizzazione al prodotto: poter decidere che
cosa farà parte della collezione è però una competenza del designer, per questo il merchandiser
necessita l’utilizzo delle fonti d’ispirazione del designer, per vaticinare che cosa potrà essere venduto
(altra competenza classica del designer). La figura del merchandiser, però, manca di quella visibilità
esterna fondamentale per la costruzione del valore simbolico del prodotto e di quelle risorse che
permettono al designer di fondare il proprio rapporto con il pubblico e costruirsi un capitale di
autorità. L’epifania del prodotto resta salda nelle mani del designer. Concorrenti più temibili sono le
celebrities, versione postmoderna delle star, fonti di miti e credenze e depositari di veri e propri culti.
Queste persone in precedenza si limitavano a fungere da trendsetter, ora invece firmano collezioni
proprie e collaborano con marchi di tutti i tipi. L’operazione è la stessa: si utilizza un capitale simbolico
accumulato grazie alla costruzione di un’identità riconoscibile e carismatica per infondere un valore al
proprio prodotto, ponendosi come garanti nei confronti dei consumatori.

Conclusioni
In un sistema della moda ormai pienamente istituzionalizzato non è opportuno attribuire al design di
moda le caratteristiche dell’indeterminatezza che caratterizzavano la categoria dell’intermediario
culturale nella sua definizione originale. Si deve ragionare piuttosto in termini di intermediazione
all’interno una serie di situazioni in cui il designer si trova al centro di relazioni che deve riuscire a
governare, per creare un prodotto di moda. Vi sono tre aree collegate in cui egli opera: l’ispirazione e
la ricerca delle fonti, la concezione di una nuova collezione e la produzione di un valore aggiunto
simbolico. Il fashion designer fornisce unità di direzione al processo creativo, sovraintendendo a
queste tre diverse fasi. La caratteristica peculiare di questo mestiere quindi risiede nella gestione
contemporanea di tutte e tre le aree: creare non significa solo tirare fuori cose da un cilindro, bensì
saper vestire i panni dell’“uomo che sta nel mezzo”.

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