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Metodi Matematici Della Fisica
Metodi Matematici Della Fisica
1
1.7.1 Esempi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
1.7.2 Calcolo del residuo nel punto all’infinito . . . . . . . . . . . . . 64
1.8 Le funzioni ln z e z α nel piano complesso . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
2 Equazioni differenziali in C 69
2.1 Equazioni differenziali ordinarie II ordine . . . . . . . . . . . . . . . . 69
2.1.1 Soluzione nell’intorno di un punto regolare . . . . . . . . . . . . 72
2.1.2 Soluzione nell’intorno di un punto singolare fuchsiano . . . . . 77
2.1.3 Esempio: l’equazione di Bessel . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79
2.1.4 Studio del comportamento all’infinito . . . . . . . . . . . . . . 81
2.1.5 Esempi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
2
A Funzioni armoniche 146
3
Parte I
4
Capitolo 1
Analisi Complessa
z = a + ib = (a, b) a, b ∈ R
i2 = −1 .
a = Re z , b = Im z .
L’insieme dei numeri complessi è un campo, indicato N con C, dato dal prodot-
to cartesiano del campo reale R con se stesso (C = R R), dotato di due leggi di
composizione interna, l’addizione e la moltiplicazione, che godono delle seguenti pro-
prietà:
1) Addizione (+)
Definizione:
Proprietà:
Associativa:
z1 + (z2 + z3 ) = (z1 + z2 ) + z3 z1 , z2 , z3 ∈ C .
Commutativa:
z1 + z2 = z2 + z1 .
5
Esiste l’elemento neutro 0 ∈ C, tale che
z+0=0+z =z ∀z ∈ C .
z + (−z) = (−z) + z = 0 .
2) Moltiplicazione (·)
Definizione:
Proprietà:
Associativa:
z1 · (z2 · z3 ) = (z1 · z2 ) · z3 .
Commutativa:
z1 · z2 = z2 · z1 .
z·1=1·z =z ∀z ∈ C .
z · z −1 = z −1 · z = 1
1 a b
z = a + ib −→ z −1 = = 2 2
−i 2 .
a + ib a +b a + b2
Quindi C − {0} è un gruppo abeliano rispetto alla moltiplicazione, con elemento
neutro 1.
Vale inoltre la proprietà distributiva della moltiplicazione rispetto all’addizione
z1 · (z2 + z3 ) = z1 · z2 + z1 · z3 .
6
Figura 1.1: Rappresentazione cartesiana del numero complesso z
z = x + iy .
con
p
r = |z| = x2 + y 2 modulo di z
e
y
θ = arg z = tan−1 argomento o fase di z .
x
x = r cos θ
y = r sin θ
7
Figura 1.2: Rappresentazione polare del numero complesso z
z = x + iy = reiθ −→ z ∗ = x − iy = re−iθ .
Figura 1.3: Rappresentazione polare del numero complesso z e del suo complesso
coniugato z ∗
8
1.1.2 Funzioni reali di variabile complessa
Una funzione reale di variabile complessa
f : E −→ R , E⊆C
Esempi
1) La funzione modulo
f (z) = |z|
2) Le funzioni
3) La funzione argomento
ϕ(z) = arg z
ϕ: C − {0} −→ I2π ⊂ R ,
9
Figura 1.4: Discontinuità dell’argomento di z.
dove I2π è un intervallo semiaperto di lunghezza 2π. Tale intervallo non è uni-
vocamente definito e può essere scelto in infiniti modi diversi, ma in ogni caso
la funzione ϕ(z) è discontinua su una semiretta uscente dall’origine del piano
complesso. Si considerino per esempio i due casi rappresentati in Fig. 1.4:
a) I2π = (−π, π]
b) I2π = [0, 2π)
ϕ(−x) = π x ∈ R+
ma il limite limz→−x ϕ(z) non è definito, perché i limiti destro e sinistro sono
diversi:
f : E −→ C , E⊆C
10
è un’applicazione che associa un numero complesso f (z) ad ogni z ∈ E, con E
sottoinsieme del campo C. Useremo la seguente notazione:
f: z 7→ w = f (z) z ∈ E , E ⊆ C , w ∈ C ,
z = x + iy
Quindi dare la f è equivalente a specificare due funzioni reali di due variabili reali:
u = u(x, y) e v = v(x, y) .
Analogamente a quanto accade nel caso di funzioni reali, una funzione complessa
di variabile complessa f (z) è detta continua se
ovvero se
dove Iδ (z0 ) è un intorno di raggio δ del punto z0 e |f (z) − f (z0 )| è il modulo del numero
complesso f (z) − f (z0 ).
Esempi
u(x, y) = x2 − y 2
v(x, y) = 2xy .
In coordinate polari
z = reiϕ
w = r2 e2iϕ .
2) f (z) = z ∗ = x − iy
u(x, y) = x
v(x, y) = −y .
In coordinate polari
z = reiϕ
w = re−iϕ .
11
1.2.1 Derivata di una funzione complessa di variabile comples-
sa
Definizione: una funzione f (z) si dice derivabile nel punto z se esiste il limite per
h → 0 (h ∈ C) del rapporto incrementale
f (z + h) − f (z)
h
considerato come funzione della variabile complessa h. Tale limite deve essere quindi
indipendente dal modo in cui h → 0. Esistono infatti infinite direzioni lungo le quali h
può tendere a 0 (si veda Fig 1.5)
df (z) f (z + h) − f (z)
= f 0 (z) = lim .
dz h→0 h
12
tale che nel punto z = x + iy sia la sua parte reale u(x, y) che la sua parte immaginaria
v(x, y) siano di classe C 1 , cioè continue con le loro derivate prime:
∂u(x, y) ∂v(x, y)
=
∂x ∂y
∂u(x, y) ∂v(x, y)
= − (1.1)
∂y ∂x
sono condizioni necessarie e sufficienti affinché la funzione f (z) sia derivabile nel punto
z.
Dimostrazione.
Dimostriamo dapprima che le condizioni di (CR) sono necessarie, ossia che
f (z + h) − f (z)
f 0 (z) = lim
h→0 h
esiste ed è indipendente dalla direzione di h = hx + ihy . In particolare si potrà scegliere
h puramente reale (h = hx ) o puramente immaginario (h = ihy ).
Se h = hx
f (z + hx ) − f (z)
f 0 (z) = lim
hx →0 hx
u(x + hx , y) + iv(x + hx , y) − u(x, y) − iv(x, y)
= lim
hx →0 hx
u(x + hx , y) − u(x, y) v(x + hx , y) − v(x, y)
= lim + i lim
hx →0 hx hx →0 hx
∂u(x, y) ∂v(x, y)
= +i . (1.2)
∂x ∂x
13
Se h = ihy
f (z + ihy ) − f (z)
f 0 (z) = lim
hy →0 ihy
u(x, y + hy ) + iv(x, y + hy ) − u(x, y) − iv(x, y)
= lim
hy →0 ihy
u(x, y + hy ) − u(x, y) v(x, y + hy ) − v(x, y)
= lim + i lim
hy →0 ihy hy →0 ihy
∂u(x, y) ∂v(x, y)
= −i + . (1.3)
∂y ∂y
Uguagliando ora le parti reali e immaginarie delle espressioni (1.2) e (1.3) per la derivata
f 0 (z) otteniamo le condizioni di Cauchy-Riemann:
u0x = vy0
u0y = −vx0 .
Dimostriamo ora che le condizioni di CR sono sufficienti per la derivabilità di f (z),
ossia
(CR) ⇒ f (z) derivabile .
Consideriamo a questo scopo il rapporto incrementale
f (z + h) − f (z) u(x + hx , y + hy ) + iv(x + hx , y + hy ) − u(x, y) − iv(x, y)
= .
h hx + ihy
(1.4)
Poiché le funzioni u e v sono per ipotesi continue con le loro derivate prime in z, esse
sono differenziabili e si può quindi scrivere nell’intorno del punto (x, y):
u(x + hx , y + hy ) = u(x, y) + hx u0x (x, y) + hy u0y (x, y) + o(|h|)
v(x + hx , y + hy ) = v(x, y) + hx vx0 (x, y) + hy vy0 (x, y) + o(|h|) .
Sostituendo questi sviluppi nel rapporto incrementale (1.4) si ottiene
f (z + h) − f (z) hx u0x (x, y) + ihx vx0 (x, y) + hy u0y (x, y) + ihy vy0 (x, y) + o(|h|)
= .
h hx + ihy
Utilizzando ora le condizioni di Cauchy-Riemann (1.1) e prendendo il limite per hx , hy →
0 si ha
f (z + h) − f (z)
lim =
hx ,hy →0 h
hx u0x (x, y) + ihx vx0 (x, y) − hy vx0 (x, y) + ihy u0x (x, y) + o(|h|)
lim =
hx ,hy →0 hx + ihy
(hx + ihy )[u0x (x, y) + ivx0 (x, y)]
lim = u0x (x, y) + ivx0 (x, y) = f 0 (z) .
hx ,hy →0 hx + ihy
(1.5)
14
La derivata di f (z) è quindi definita univocamente indipendentemente dalla direzione
di h: la funzione è pertanto derivabile e la sua derivata è
[q.e.d.]
Utilizzando le condizioni di Cauchy-Riemann è possibile dare quattro espressioni
equivalenti della derivata di una funzione in termini delle sue parti reale e immaginaria:
N.B. Dalle ultime due espressioni si deduce che per calcolare la derivata di f (z) è
sufficiente conoscerne o la parte reale u o la parte immaginaria v. Ovvero: nota una
delle due, si può ricavare l’altra a meno di una costante.
f : F −→ C F ⊂C
1.2.4 Esempi
Esempio 1
15
u(x, y) = cx , v(x, y) = cy
Esempio 2
f (z) = z ∗ = x − iy
u(x, y) = x , v(x, y) = −y
u0x = 1 , vy0 = −1
La funzione f (z) = z ∗ non è analitica. Si può infatti mostrare che il rapporto incre-
mentale dipende dalla direzione dell’incremento h. Sia h = ρeiθ in rappresentazione
polare. Allora il rapporto incrementale
Esempio 3
1 1 x − iy
f (z) = = = 2
z x + iy x + y2
x y
u(x, y) = , v(x, y) = −
x2 + y 2 x2 + y 2
Le funzioni u e v sono continue e derivabili in C − {0}. Le condizioni di CR
y 2 − x2 y 2 − x2
u0x = , vy0 = = u0x
(x2 + y 2 )2 (x2 + y 2 )2
−2xy 2xy
u0y = , vx0 = = −u0y
(x2+ y 2 )2 (x2 +y )2 2
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sono soddisfatte. La funzione f (z) è quindi analitica in C − {0}. La sua derivata è
y 2 − x2 + 2ixy (y + ix)2 1
f 0 (z) = u0x + ivx0 = 2 2 2
= 2 2
=− 2 .
(x + y ) (y + ix) (y − ix) z
∆ Teorema 2: se f1 (z) e f2 (z) sono due funzioni analitiche nel punto z, allora le
funzioni
1) f1 (z) + f2 (z)
2) f1 (z) · f2 (z)
4) f1 (f2 (z))
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∆ Corollario: le funzioni razionali di z sono analitiche in tutto il piano complesso
esclusi gli zeri del denominatore.
Dimostrazione: Poiché le funzioni f1 (z) = 1 e f2 (z) = z sono analitiche in C,
segue dalla proprietà 2) che tutte le potenze di z sono analitiche in C, e quindi per la
proprietà 1) i polinomi di z
n
X
Pn (z) = ck z k = c0 + c1 z + c2 z 2 + ...cn z n
k=0
Pn (z)
R(z) =
Qm (z)
sono funzioni analitiche in tutto il piano complesso esclusi i punti zi tali che Qm (zi ) = 0.
[q.e.d.]
Pertanto
f (z) = costante .
Nel caso particolare in cui v(x, y) = 0, oppure u(x, y) = 0, ne segue banalmente che
una funzione analitica a valori reali (o immaginari puri) è necessariamente costante.
[q.e.d.]
∆ Teorema 4: una funzione analitica di modulo costante è costante (cioè le sue parti
reale e immaginaria sono separatamente costanti):
Dimostrazione
Per ipotesi
u2 (x, y) + v 2 (x, y) = K .
18
Derivando rispetto a x e a y si ottiene
2u∂x u + 2v∂x v = 0
2u∂y u + 2v∂y v = 0 .
(u2 + v 2 )∂x u = 0
(u2 + v 2 )∂y u = 0.
Questa implica che anche ∂y u = 0 e quindi u(x, y) = costante. Dalle CR segue imme-
diatamente che se le derivate parziali di u sono nulle, anche le derivate parziali di v
sono nulle, e pertanto f (z) = costante, come nel teorema precedente.
[q.e.d.]
γ : J −→ C J = [a, b] ∈ R
L’applicazione γ associa ad ogni valore del parametro t due funzioni reali x(t) e y(t).
Spesso si considera la curva γ non solo come l’applicazione appena definita, ma come
l’immagine (o sostegno) di tale applicazione, cioè come l’insieme di punti
Una curva si dice regolare nell’intervallo [a, b] se le funzioni x(t) e y(t) hanno
derivate prime continue e non entrambe nulle ∀t ∈ [a, b].
Una curva si dice regolare a tratti nell’intervallo [a, b] se l’intervallo può essere
suddiviso in un numero finito di sottointervalli chiusi in cui la curva sia regolare.
Una curva si dice chiusa se z(a) = z(b). Un caso particolare di curva chiusa è un
punto, cioè una curva di equazione z(t) = costante ∀t ∈ [a, b].
19
Una curva si dice semplice se z(t1 ) 6= z(t2 ) ∀t1 6= t2 , con t1 , t2 ∈ [a, b). (N.B.
L’intervallo [a, b) è semi-aperto per includere le curve chiuse nella definizione di curve
semplici.) In pratica una curva semplice è una curva che non si interseca con se stessa.
Una curva chiusa e semplice si dice curva di Jordan.
Enunciamo, senza dimostrarlo, il seguente teorema:
∆ Teorema 5: ogni curva di Jordan γ divide il piano in due regioni, una interna e
una esterna a γ.
Ad ogni curva chiusa si assegna un verso di percorrenza. Convenzionalmente si
considera come positivo il verso antiorario. Si definisce convenzionalmente interna ad
una curva chiusa la zona lasciata a sinistra se si percorre la curva nel suo verso di
percorrenza (ed esterna quella lasciata a destra).
Due curve di Jordan γ1 e γ2 si dicono omotopicamente equivalenti (O.E.) in
una regione D se possono essere deformate con continuità l’una nell’altra senza uscire
da D. N.B. È essenziale specificare la regione D in cui le due curve sono O.E.
Esempio: se D = C ogni curva di Jordan è O.E. a un punto, ma questo non è più
vero se da C si sottraggono uno o più punti.
Una regione D ⊆ C si dice connessa per archi se, ∀z1 , z2 ∈ D, esiste una curva γ
tutta interna a D, che congiunge z1 e z2 .
Una regione S ⊆ C si dice semplicemente connessa (s.c.) se ogni curva chiusa
contenuta is S è O.E. a un punto. (Definizione alternativa: una regione S è s.c. se
per ogni curva di Jordan γ contenuta in S la regione interna a γ è sottoinsieme di S).
Intuitivamente una regione s.c. è una regione senza buchi.
Lemma di Gauss (o teorema di Green): siano P (x, y), Q(x, y) ∈ C 1 due funzioni
reali e continue con derivate prime continue in un dominio E semplicemente connesso.
Allora per ogni curva γ chiusa regolare a tratti contenuta in E
I ZZ
∂Q(x, y) ∂P (x, y)
[P (x, y)dx + Q(x, y)dy] = − dxdy , (1.7)
γ S ∂x ∂y
dove S è la regione interna a γ.
w : [a, b] −→ C [a, b] ⊂ R
t ∈ [a, b] , w(t) ∈ C .
20
Definiamo l’integrale di w(t) in t
Z b Z b Z b
w(t)dt = u(t)dt + i v(t)dt .
a a a
dove
n
X
In = w(τl )(tl − tl−1 )
l=1
n
X n
X
= u(τl )(tl − tl−1 ) + i v(τl )(tl − tl−1 ) .
l=1 l=1
Si divide cioè l’intervallo [a, b] in n sottointervalli a = t0 < t1 < t2 < ... < tn = b e si
valuta la funzione w(t) nei punti τl interni a ciascun sottointervallo (tl−1 < τl < tl ).
Dalla disuguaglianza triangolare (|a1 + a2 + ... + an | ≤ |a1 | + |a2 | + ... + |an |):
n
X
|In | ≤ |w(τl )|(tl − tl−1 )
l=1
f : D ⊆ C −→ C
γ : t 7→ z(t) a≤t≤b
21
Figura 1.6: Curva aperta che unisce i punti A e B nel piano complesso
Z B Z b
dz
f (z)dz = f (z(t)) dt . (1.9)
A(γ) a dt
N.B. Il secondo membro della (1.9) esiste perché γ è regolare a tratti (quindi dz/dt
ha un numero finito di discontinuità).
Z B Z B Z B
f (z)dz = [u(x, y)dx − v(x, y)dy] + i [v(x, y)dx + u(x, y)dy] .
A(γ) A(γ) A(γ)
(1.10)
Dimostrazione
Dalla definizione (1.9) segue che
22
Z B Z b Z b
dz(t) dx(t) dy(t)
f (z)dz = f (z(t)) dt = [u(x, y) + iv(x, y)] +i dt
A(γ) a dt a dt dt
Z b
dx(t) dy(t)
= u(x, y) − v(x, y) dt
a dt dt
Z b
dx(t) dy(t)
+ i v(x, y) + u(x, y) dt
a dt dt
Z B Z B
= [u(x, y)dx − v(x, y)dy] + i [v(x, y)dx + u(x, y)dy] .
A(γ) A(γ)
[q.e.d]
N.B. In generale l’integrale dipende dalla curva γ e non solo dagli estremi di inte-
grazione.
Valgono per l’integrale (1.10) le proprietà degli integrali curvilinei. In particolare,
se C è un punto sulla curva γ,
Z B Z C Z B
f (z)dz = f (z)dz + f (z)dz
A(γ) A(γ) C(γ)
e
Z B Z A
f (z)dz = − f (z)dz .
A(γ) B(γ)
e l la lunghezza di γ tra A e B:
s 2 2
Z b Z b
ds dx dy
l= dt ≡ + dt .
a dt a dt dt
Allora vale la disuguaglianza di Darboux:
Z B
f (z)dz ≤ M l . (1.11)
A(γ)
23
Ora,
s 2 2
dz dx dy ds
=
dt + ≡ ;
dt dt dt
pertanto
Z b
dz
dt = l
dt
a
e quindi:
B
Z
f (z)dz ≤ M l .
A(γ)
[q.e.d.]
Consideriamo qualche esempio di integrale in campo complesso. Sia C la circon-
ferenza di raggio R attorno all’origine. Vogliamo calcolare l’integrale della funzione
analitica f (z) = z I
I= z dz . (1.12)
C
I
f (z)dz = 0 . (1.15)
γ
L’integrale di una funzione analitica è nullo lungo una qualsiasi curva chiusa omo-
topicamente equivalente a un punto nel dominio di analiticità della funzione.
24
Figura 1.7: Curva chiusa che non contiene l’origine
Dimostrazione
Dal teorema (1.10) si ha che
I I I
f (z)dz = [u(x, y)dx − v(x, y)dy] + i [v(x, y)dx + u(x, y)dy]
γ γ γ
H [q.e.d.]
In altre parole, γ f (z)dz = 0 se γ è contenuta nel dominio E di analiticità di f (z)
ed è deformabile con continuità in un punto senza uscire da E.
In modo più conciso si può anche dire che la forma differenziale f (z)dz = u(x, y)dx−
v(x, y)dy + i[v(x, y)dx + u(x, y)dy] è chiusa in un aperto E: d(f (z)dz) = 0, se valgono
le condizioni di CR; essa diventa esatta se il dominio è semplicemente connesso.
25
Figura 1.8: Curve aperte che uniscono i punti A e B in un dominio semplicemente
connesso
ovvero: l’integrale di una funzione analitica non dipende dal cammino di integrazione
purché i cammini siano deformabili con continuità l’uno nell’altro senza incontrare
singolarità.
Dimostrazione
Z B Z B Z B Z A I
f (z)dz − f (z)dz = + f (z)dz = f (z)dz = 0
A(γ1 ) A(γ2 ) A(γ1 ) B(γ2 ) γ
La funzione 1/z è analitica in C − {0}. Se la regione interna alla curva γ non contiene
l’origine (Fig. 1.7) l’integrale è nullo per il teorema di Cauchy.
Se invece l’origine è interna a γ, per esempio γ è una circonferenza C di raggio R cen-
trata in O (Fig. 1.9) l’integrale è diverso da zero. Calcoliamone il valore. L’equazione
26
Figura 1.9: Curva chiusa che contiene l’origine
dz
= R(− sin ϕ + i cos ϕ) = iz 0 ≤ ϕ ≤ 2π
dϕ
2π 2π
iReiϕ
I Z Z
dz 1 0
I= = z (ϕ)dϕ = dϕ = 2πi
C z 0 z(ϕ) 0 Reiϕ
e
Z B
dz
I2 =
A(γ2 ) z
non devono necessariamente essere uguali poiché non si può applicare il Corollario del
teorema di Cauchy. Infatti essi valgono
Z π Z −π
I1 = i dϕ = iπ , I2 = i dϕ = −iπ .
0 0
27
Figura 1.10: Semicirconferenze centrate nell’origine
I
dz
I= a∈C (1.16)
C z−a
z = z(ϕ) = a + Reiϕ
si ha
e quindi
2π 2π
iReiϕ
Z Z
1
I= z 0 (ϕ)dϕ = dϕ = 2πi .
0 z(ϕ) − a 0 Reiϕ
∆ Teorema 10: Teorema di Cauchy generalizzato Sia f (z) una funzione ana-
litica in un dominio D qualsiasi e siano γ1 e γ2 due curve chiuse omotopicamente
equivalenti in D. In queste ipotesi:
I I
f (z)dz = f (z)dz .
γ1 γ2
28
Figura 1.11: Circonferenza centrata nel punto a
Z D Z B Z C Z D
= + +
A(E) A B(F ) C
Z A Z C Z B Z A
= + + .
D(G) D C(H) B
poiché
Z B Z A Z C Z D
=− e =− .
A B D C
29
Figura 1.12: Curve γ1 e γ2 che non si intersecano in un dominio D
Z B Z B
=
A(E) A(F )
Z A Z A
= .
B(G) B(H)
30
N.B. Non è detto che la regione (AGBF A) appartenga a D (γ1 e γ2 sono O.E. in
D).
[q.e.d.]
• Corollario: l’integrale (1.16) vale 2πi per ogni curva chiusa γ che circondi il
punto a:
I
dz
I= = 2πi, a∈C (1.17)
γ z −a
La (1.18) si dimostra osservando che il cammino γ può essere deformato in una circon-
ferenza C di raggio R e centro a e ponendo
31
e le usuali regole di calcolo integrale. Per esempio l’integrale indefinito di z è z 2 /2,
quello di ez è ez , quello di 1/z è ln z. Naturalmente in quest’ultimo caso il dominio
di analiticità C − {0} non è semplicemente connesso, e l’integrale su ogni curva chiusa
che contiene l’origine vale 2πi. Tuttavia la (1.21) vale ancora, in virtù della polidromia
del logaritmo (vedi sezione 1.8): dopo un giro attorno all’origine il logaritmo risul-
ta incrementato di 2πi e si dice che siamo passati su un altro ramo della funzione
logaritmo.
La (1.18) ci dice che talvolta l’integrale su un cammino chiuso si annullaHanche se
questo racchiude una singolarità; questo accade per n > 1. L’annullarsi di γ f (z)dz
infatti non garantisce che la funzione sia analitica all’interno
H di γ. Il teorema di
Morera ci assicura invece che se f (z) è continua e γ f (z) dz = 0, ∀γ chiusa in D
connesso, allora f (z) è analitica in D.
f (z 0 ) 0
I
1
f (z) = dz ∀z ∈ S , γ = ∂S . (1.22)
2πi γ z0 − z
N.B. Perché valga la (1.22) è essenziale che z appartenga a S, cioè sia interna a γ.
Infatti,
Dimostrazione
Consideriamo il seguente integrale
f (z 0 ) − f (z) 0
I
I(z) = dz .
γ z0 − z
32
Per il teorema generalizzato di Cauchy γ può essere deformata in una circonferenza C
centrata in z di raggio arbitrario r, interna a S:
f (z 0 ) − f (z) 0
I
I(z) = dz .
C z0 − z
Per la disuguaglianza di Darboux (1.11),
f (z 0 ) − f (z)
|I(z)| ≤ max 2πr = 2π max |f (z 0 ) − f (z)| ,
z 0 ∈C z0 − z z 0 ∈C
|I(z)| ≤ 2π.
I(z) = 0,
f (z 0 ) 0
I I
f (z) 0
0
dz = 0
dz = f (z) 2πi ,
γ z −z γ z −z
da cui la (1.22).
[q.e.d.]
La rappresentazione integrale di Cauchy permette quindi di conoscere i valori di
una funzione analitica in tutta la regione interna ad una curva chiusa γ una volta noti
i suoi valori nei punti appartenenti alla curva γ.
33
si ottiene (in modo non rigoroso) la rappresentazione integrale di Cauchy per le derivate
della funzione f (z):
dn f (z) f (z 0 )
I
n!
= dz 0 ∀z ∈ S . (1.23)
dz n 2πi γ (z 0 − z)n+1
34
1.4 Serie in campo complesso
1.4.1 Serie di potenze
Una serie di potenze è una serie del tipo
∞
X
ak (z − z0 )k .
k=0
Per le serie di potenze in campo complesso valgono teoremi analoghi a quelli validi in
campo reale:
• Teorema di Weierstrass: una serie di potenze è, per ogni z interno al cerchio
di convergenza, derivabile termine a termine n volte (con n arbitrario):
∞ ∞
X
k dn f (z) X dn (z − z0 )k
f (z) = ak (z − z0 ) ⇒ n
= ak n
,
k=0
dz k=0
dz
• Teorema
P∞ di Cauchy-Hadamard: il raggio di convergenza ρ della serie di po-
k
tenze k=0 ak (z − z0 ) coincide con l’inverso del massimo fra i punti di accumu-
lazione della successione {|ak |1/k }, ovvero, se il limite esiste, con:
n o−1
ρ= lim |ak |1/k . (1.24)
k→∞
35
1.4.2 Serie di Taylor
Lo sviluppo in serie di Taylor è uno sviluppo in serie di potenze di una funzione nel-
l’intorno di un suo punto di analiticità. Sia f (z) una funzione analitica in un dominio
D e sia C un intorno circolare, tutto contenuto in D, di un punto regolare z0 (si veda
Fig. 1.14). È facile dimostrare che la funzione f (z), infinitamente derivabile 2 , può
essere rappresentata, per ogni z ∈ C, dalla serie di Taylor:
∞
X
f (z) = ak (z − z0 )k (1.26)
k=0
con
1 dk f (z)
ak =
k! dz k z=z0
I
1 f (z)
= dz , (1.27)
2πi c (z − z0 )k+1
dove per l’ultimo passaggio si è usata la rappresentazione di Cauchy (1.23) delle derivate
di una funzione analitica.
Dimostrazione: partendo dalla rappresentazione integrale di Cauchy
f (z 0 )
I
1
f (z) = dz 0 ,
2πi c z 0 − z
usando (vedi Fig. 1.14)
∞ n
1 1 1 X z − z0
= 0 = 0 (1.28)
z0 − z z − z0 − (z − z0 ) z − z0 n=0 z 0 − z0
e integrando termine
a termine la serie (uniformemente convergente, poiché |z − z0 | <
0 z−z0
|z − z0 |, quindi z0 −z0 < 1) ) si ottiene
∞
f (z 0 )
I
n 1
X
f (z) = (z − z0 ) 0 − z )n+1
dz 0 , (1.29)
n=0
2πi c (z 0
2
Nel campo reale l’infinita derivabilità non è sufficiente per garantire che una funzione sia
sviluppabile in serie di Taylor; nel campo complesso basta invece la analiticità.
36
Figura 1.14: Intorno circolare del punto z0 nel dominio D
P∞
Esempio: la serie geometrica k=0 z k converge uniformemente a
1
f (z) =
1−z
nella regione |z| < 1. Il punto z = 1 è infatti un punto singolare di f (z).
Talvolta conosciamo una funzione solo attraverso una serie di potenze, che converge
nel cerchio S1 , ma potrebbe avere un dominio di analiticità più ampio. L’estensione
tramite serie di Taylor al di fuori dell’originale dominio S1 viene detta continuazione
analitica (alla Weierstrass) della funzione di partenza. Nel caso in Fig.1.15 abbiamo
una serie di potenze attorno all’origine con raggio di convergenza determinato dalla
distanza dalla singolarità z1 . L’espansione di Taylor attorno a z2 ∈ S1 converge nel
cerchio S2 , che si estende al di là del dominio S1 (abbiamo qui assunto che z1 sia la
37
Figura 1.15: Continuazione analitica
singolarità più vicina a z2 , ma potrebbe non essere cosı̀). In S1 ∩ S2 le due serie sono
rappresentazioni diverse della stessa funzione e coincidono. Si dimostra poi che due
funzioni analitiche che coincidono su un insieme continuo di punti, coincidono ovunque
siano entrambe ben definite e rappresentano la stessa funzione. Il procedimento può
essere ripetuto un numero arbitrario di volte, anche in presenza di altre singolarità, fino
a raggiungere qualsiasi punto del dominio di analiticità
P∞ connesso a quello di partenza.
n
Nell’esempio in figura la prima serie è f1 (z) = n=0 (−z) attorno all’origine con
raggio di convergenza 1. Questa serie può essere derivata in z2 interno a S1 ottenendo
un nuovo sviluppo di Taylor attorno a z2 che converge in S2 . Trattandosi di serie
geometriche, sappiamo che in entrambi i casi la somma è f (z) = 1/(1 + z), analitica
in C − {0}. Si può pensare a quest’ultima rappresentazione come una continuazione
analitica delle prime due serie.
Riassumendo, la conoscenza di una funzione analitica e delle sue derivate in un
unico punto di analiticità permette, in linea di principio, di ricostruire la funzione in
tutto il suo dominio di analiticità.
1.4.3 Zeri
Un punto regolare z = z0 è uno zero di ordine n della funzione f (z) se:
38
1) La funzione si annulla in z0 :
f (z0 ) = 0
dk f (z)
=0, k = 1, 2, ... , n − 1
dz k z=z0
Uno zero è un punto regolare di f (z), che sarà quindi rappresentabile tramite uno
sviluppo in serie di Taylor intorno a quel punto:
∞
X
f (z) = ak (z − z0 )k . (1.30)
k=0
a1 = a2 = ... = an−1 = 0 e an 6= 0 .
La funzione
∞
X
g(z) = ak+n (z − z0 )k
k=0
39
è una funzione analitica in z0 , in quanto sviluppabile in serie di Taylor intorno al punto
z = z0 . Inoltre g(z) è non nulla in z0 :
g(z0 ) = an 6= 0 .
Pertanto una funzione f (z) che abbia in z0 uno zero di ordine n può sempre essere
scritta nella forma
come si vede subito ponendo w = 1/z; evidentemente l’origine è una singolarità isolata
per la funzione e1/z .
Lo sviluppo in serie di Laurent è uno sviluppo in serie di potenze positive e negative
di una funzione f (z) in un intorno bucato I(z0 ) di un suo punto singolare isolato z0
(si veda Fig. 1.16); Il teorema di Laurent dice che se esiste un I(z0 ) in cui f (z) è
analitica, per ogni z ∈ I(z0 ), si può scrivere3 :
∞
X
f (z) = dk (z − z0 )k . (1.33)
k=−∞
40
Figura 1.16: Curva γ in un intorno bucato del punto z0
I
1 f (z)
dk = dz , (1.34)
2πi γ (z − z0 )k+1
d−k = 0 , ∀k > n
d−n 6= 0 .
41
Un polo di ordine 1 si dice polo semplice, di ordine 2 polo doppio e cosı̀ via.
Nell’intorno di un polo di ordine n lo sviluppo (1.33) si riduce quindi a
∞
X
f (z) = dk (z − z0 )k (1.35)
k=−n
Definiamo ora
∞
X
g(z) = dk−n (z − z0 )k .
k=0
La funzione g(z) è data da uno sviluppo in serie di Taylor intorno a z0 : essa è pertanto
analitica in z0 . Inoltre g(z) è diversa da zero in z0 :
g(z0 ) = d−n 6= 0 .
Pertanto se z0 è un polo di ordine n della funzione f (z), questa può essere espressa
come
g(z)
f (z) = , (1.36)
(z − z0 )n
con g(z) analitica e non nulla in z = z0 . Dalle (1.36) e (1.31) segue che il punto z = z0
è uno zero di ordine n per la funzione 1/f (z):
1
= h(z)(z − z0 )n ,
f (z)
dove h(z) = 1/g(z) è di nuovo una funzione analitica e non nulla in z0 .
Singolarità essenziali
Il punto z = z0 si definisce invece singolarità essenziale isolata della funzione f (z)
se è un punto singolare isolato e lo sviluppo in serie di Laurent intorno a z0 possiede
un numero infinito di potenze negative.
Come si vede dallo sviluppo in serie di Laurent (1.32), un esempio di singolarità
essenziale isolata è l’origine per la funzione e1/z , e analogamente per le funzioni sin(1/z),
cos(1/z) e simili.
42
Dalle definizioni di polo e singolarità essenziale isolata segue che un polo di ordine
n può essere rimosso moltiplicando la f (z) per (z − z0 )n , mentre questo non è possibile
per una singolarità essenziale.
Un’altra importante differenza fra poli e singolarità essenziali è la seguente: è evi-
dente dalla (1.36) che limz→z0 f (z) = ∞ se il punto z0 è un polo di f (z); se invece z0
è una singolarità essenziale il limite non esiste, perché nell’intorno di z0 la funzione
oscilla forsennatamente: per farsene un’idea, basta pensare all’andamento nell’intorno
dell’origine della funzione sin z1 con z reale o immaginario puro.
Più in generale, si può dimostrare il Teorema di Weierstrass per le singolarità
essenziali isolate: se z = z0 è una singolarità essenziale isolata della funzione f (z),
allora per ogni e δ piccoli a piacere e per ogni numero complesso c ∈ C, esiste un
valore di z ∈ I δ (z0 ) tale che
|f (z) − c| < .
1.5 Residui
Sia f (z) una funzione analitica in un dominio D, z0 un punto singolare isolato, γ una
curva di Jordan, tutta contenuta in D e contenente al suo interno il punto z0 , ma non
altre singolarità (questo è possibile, perché z0 è isolato). Si definisce residuo della
funzione f (z) nel punto z = z0 la quantità
I
1
{Resf (z)}z=z0 ≡ f (z)dz . (1.37)
2πi γ
Dalla eq.(1.34) che definisce i coefficienti di Laurent, calcolata per k = −1, si vede
subito che vale:
43
Esempio
I
1 1 dz
f (z) = ⇒ {Resf (z)}z=0 = =1,
z 2πi γ z
I n
X
f (z)dz = 2πi {Resf (z)}z=zk , (1.39)
γ k=1
44
Figura 1.17: Curva γ che contiene n + 1 singolarità della funzione
g(z)
f (z) =
(z − z0 )n
con g(z) analitica e non nulla in z0 . Il residuo è, dalla (1.37),
I
1 g(z)
{Resf (z)}z=z0 = dz .
2πi γ (z − z0 )n
Ora, dalla rappresentazione di Cauchy per le derivate di f (z) (1.23)
k I
d g(z) k! g(z)
k
= dz ,
dz z=z0 2πi γ (z − z0 )k+1
si ottiene, ponendo k = n − 1,
dn−1 g(z)
I
1 g(z) 1
n
dz =
2πi γ (z − z0 ) (n − 1)! dz n−1 z=z0
4
locale, perché vedremo più avanti che il discorso può essere diverso se si conosce il comportamento
globale della funzione in tutto il piano complesso, punto all’infinito compreso.
45
e quindi, poiché
g(z) = (z − z0 )n f (z) ,
dn−1
1 n
{Resf (z)}z=z0 = lim [(z − z0 ) f (z)] . (1.41)
(n − 1)! z→z0 dz n−1
∞
X
f (z) = dk (z − z0 )k
k=−1
d−1
= + d0 + d1 (z − z0 ) + ... ,
z − z0
si ottiene
( ∞
)
X
{Resf (z)}z=z0 = lim d−1 + dk (z − z0 )k+1
z→z0
k=0
e quindi
{Resf (z)}z=z0 = d−1 , (1.42)
a conferma di quanto visto in generale in eq.(1.38).
Esempio: la funzione f (z) = z sin z/(z − π)3 ha un polo doppio in z = π, infatti la
sua serie di Laurent nell’intorno di z = π è
2k+1
z ∞ k (z−π)
P
k=0 (−1)
z sin z (2k+1)! 1 1
f (z) = =− = (π + z − π) − + ...
(z − π)3 (z − π)3 (z − π)2 6
π2 1 π
= − − + ...
(z − π)2 z − π 6
da cui segue d−1 = −1, che coincide col residuo sul polo secondo la (1.38). Alter-
nativamente definiamo h(z) = (z − π)3 f (z) e applichiamo la (1.41). Il residuo è
1 00 1
h (z)|z=π = (2 cos z − z sin z)|z=π = −1 .
2 2
46
Si sarà notato che abbiamo applicato la (1.41) come se la funzione avesse un polo triplo.
Infatti la derivazione della (1.41) è valida anche se n è maggiore dell’ordine del polo.
Nel caso in questione, il calcolo del residuo si può fare usando n = 3 o n = 2, ma è più
diretto con n = 3.
dz
z = eiθ ⇒ dθ = −i ; (1.44)
z
b) ci si riconduce ad un integrale nel piano z lungo una circonferenza di raggio
unitario;
c) si calcola l’integrale con il teorema dei residui.
1.6.2 Esempi
Esempio 1
Z 2π
dθ
I= .
0 5 + 3 cos θ
Con la sostituzione (1.44) si ha:
eiθ + e−iθ
1 1
cos θ = = z+ .
2 2 z
5
Naturalmente l’intervallo d’integrazione potrebbe essere anche (−π, π) o qualsiasi altro intervallo
di ampiezza 2π.
47
Sostituendo in I:
I
dz 1
I = −i
C z 5 + 3/2 (z + 1/z)
I
2i dz
= −
3 C z + 10
2
3
z+1
1
f (z) = 10 .
z2 + 3
z +1
10 1
z2 + z+1=0 ⇒ z1 = − , z2 = −3
3 3
2 10 1
⇒ z + z+1= z+ (z + 3) .
3 3
2i 1
I = − 2πi Res 2 10
3 z + 3 z + 1 z=−1/3
4π z + 1/3
= lim
3 z→−1/3 z + 13 (z + 3)
π
= .
2
Esempio 2
Z 2π
dθ
I= , p∈C
0 1 − 2p cos θ + p2
Poniamo
dz
z = eiθ ⇒ dθ = −i
z
Allora (vedi esempio precedente)
1 1
cos θ = z+ .
2 z
48
Sostituendo in I:
I
dz 1
I = −i 2
C z 1 − p (z + 1/z) + p
I
dz
= i 2 2
C pz − (1 + p )z + p
1
f (z) =
pz 2 − (1 + p2 )z + p
ha due poli semplici:
pz 2 − (1 + p2 )z + p = 0 −→ z1 = 1/p , z2 = p
−→ pz 2 − (1 + p2 )z + p = p (z − 1/p) (z − p)
e quindi
I
i dz
I= .
p C (z − 1/p) (z − p)
Dove sono situati i poli di f (z)?
49
Se |p| = 1, l’integrando ha una singolarità sul cammino di integrazione e I non è
definito. Si noti che l’esempio 1 è un caso particolare dell’esempio 2.
dove supporremo che g(x) non abbia singolarità su R. In tal caso la strategia da seguire
è di considerare accanto all’integrale I l’integrale:
Z R Z
J(R) = g(x)dx + g(z)dz, (1.46)
−R γR
Figura 1.18: Semicirconferenze di raggio r nel semipiano inferiore (a) e superiore (b)
L’integrale J(R) è esteso a una curva chiusa e si può quindi calcolare con il metodo
dei residui; dalla conoscenza di J(R) è poi immediato calcolare l’integrale I se la
funzione g(z) è tale che:
Z
lim g(z)dz = 0 . (1.47)
R→∞ γR
50
Ciò succede nei casi seguenti6 :
1
g(z) = o , z→∞. (1.50)
|z|
In questo caso la semicirconferenza γR può giacere sia nel semipiano Im z > 0 sia
nel semipiano Im z < 0.
Dimostrazione.
Passando a coordinate polari (e supponendo di considerare la semicirconferenza
nel semipiano superiore)
Z Z π
g Reiθ eiθ dθ
g(z)dz = iR
γR 0
si ottiene infine la (1.47). (Notare che non si è fatto altro che ridimostrare la
disuguaglianza di Darboux (1.11) in questo caso particolare.)
[q.e.d.]
2) La funzione integranda g(z) è della forma eiαz f (z), con α > 0, dove f (z) è una
funzione che tende uniformemente (rispetto all’argomento di z) a zero quando |z|
6
In realtà dalla (1.47) segue che
Z R
lim J(R) = lim g(x)dx, (1.48)
R→∞ R→∞ −R
solo nel caso che quest’ultimo integrale esista; se ciò non succede, ma esiste il limite (1.48), allora
questo si chiama valore principale dell’integrale (1.45), si veda anche Sez. 1.6.5
51
tende a infinito e l’argomento di z è compreso fra 0 e π (cioè nel semipiano Im
z ≥ 0), ovvero 7
Z
lim eiαz f (z)dz = 0 . (1.52)
R→∞ γR
3) Con la sostituzione z → −z, si vede subito che la (1.52) vale anche per α < 0,
purché valga la (1.51) con π ≤ arg z ≤ 2π e la semicirconferenza γR stia nel
semipiano inferiore.
Per capire subito su quale semicirconferenza chiudere il cammino per poter applicare
il lemma di Jordan, basta ricordare che essa va scelta in modo che, lungo la sua freccia,
l’esponente del fattore che moltiplica f (z) deve essere reale e tendere a −∞ per |z| →
∞.
Si indica con lemma di Jordan il contenuto dei punti 2), 3) e 4), ma per comodità
denoteremo con questo termine tutto quanto detto in questo paragrafo.
1.6.4 Esempi
Esempio 1
∞
x2
Z
I= dx
0 (x2 + 1)(x2 + 4)
7
Notare che questa condizione è molto meno restrittiva della (1.50); qui è l’esponenziale, ra-
pidamente decrescente per Im z → +∞, che si incarica di far tendere rapidamente a zero
l’integrando.
52
La funzione integranda è simmetrica:
x2
f (x) = = f (−x) .
(x2 + 1)(x2 + 4)
Quindi
∞
x2
Z
1
I= dx .
2 −∞ (x2 + 1)(x2 + 4)
Inoltre
|z|→∞ 1
f (z) ∼ ;
z2
le ipotesi del lemma di Jordan (caso 1) sono soddisfatte in entrambi i semipiani. Pos-
siamo quindi chiudere il cammino di integrazione nel piano complesso come indicato
in Figura 1.18 (scegliamo di chiuderlo nel semipiano positivo).
Indichiamo con CR il cammino chiuso e con ΓR la semicirconferenza. Il lemma di
Jordan ci assicura che
Z
lim f (z)dz = 0
R→∞ ΓR
e quindi
Z ∞ I
f (z)dz = lim f (z)dz .
−∞ R→∞ CR
Pertanto
I
1
I = lim f (z)dz .
2 R→∞ CR
(z 2 + 1)(z 2 + 4) = 0 −→ z = ±i , z = ±2i .
f (z) ha 4 poli semplici, due nel semipiano Im z > 0 e due nel semipiano Im z < 0.
Quindi
1
I = 2πi [{Resf (z)}z=i + {Resf (z)}z=2i ]
2
53
z2 i
{Resf (z)}z=i = lim(z − i) 2
=
z→i (z + i)(z − i)(z + 4) 6
z2 i
{Resf (z)}z=2i = lim (z − 2i) = −
z→2i (z + 2i)(z − 2i)(z 2 + 1) 3
i i π
I = πi − = .
6 3 6
Esempio 2
Z ∞
dx
I= , n intero positivo
−∞ 1 + x2n
1 |z|→∞ 1
f (z) = ∼
1 + z 2n z 2n
Vale il caso 1). Chiudiamo il cammino di integrazione in Im z > 0:
I
dz
I = lim .
R→∞ CR 1 + z 2n
1
1 + z 2n = 0 −→ z 2n = −1 −→ z = (−1) 2n .
Quanti poli giacciono nel semipiano Im z > 0? Poiché −1 si può rappresentare come
− 1 = ei(π+2kπ)
con
2k + 1
θk = π
2n
54
cioè
π 3π π
z0 = ei 2n , z1 = ei 2n , z−1 = e−i 2n , etc.
I poli zk giacciono nel semipiano Im z > 0 se 0 < θk < π, ovvero se
2k + 1
0< <1
2n
che, poiché k è intero, equivale a
1 1
− <k <n− −→ 0 ≤ k ≤ n − 1 .
2 2
La funzione f (z) ha quindi n poli semplici in Im z > 0:
2k + 1
z = zk = eiθk , θk = π, k = 0, 1, ...(n − 1) .
2n
Il residuo di f (z) nel polo zk vale
1 1
{Resf (z)}z=zk = lim (z − zk ) = lim
z→zk 1 + z 2n z→zk 2nz 2n−1
zk zk
= 2n
=− .
2nzk 2n
Pertanto
n−1 n−1
X zk iπ X iπ (2k+1)
I = 2πi − =− e 2n .
k=0
2n n k=0
Poniamo
iπ iπ
z0 = e 2n −→ z02k+1 = e 2n (2k+1)
Allora
n−1 n−1
iπ X (2k+1) iπ X 2 k iπ 1 − z02n
I=− z0 = − z0 z0 = − z0
n k=0 n k=0 n 1 − z02
Ma z02n = −1 e pertanto
2iπ z0 π 1
I=− =
2
n 1 − z0 n z0 −z0−1
2i
e infine
π
I= π
.
n sin 2n
55
Esempio 3
Z +∞
cos x
I = dx .
−∞ 1 + x2
L’integrale esiste poiché la funzione integranda è continua sull’asse reale ed è O x12 per
x → ±∞; non si può però applicare il caso 1) del lemma di Jordan perché l’integrando
1
non è affatto O z nel piano complesso; infatti
+∞
eiz + e−iz
Z
1
I= dz , (1.54)
2 −∞ 1 + z2
quindi esso diverge esponenzialmente per z = iy con y → ±∞. Invece il primo addendo
dell’integrale (1.54) soddisfa le ipotesi del caso 2) del lemma di Jordan (α = 1 > 0) e
quindi si calcola chiudendo il cammino nel semipiano superiore:
Z +∞
eiz eiz
π
2
dz = 2πi Res 2
= ;
−∞ 1 + z 1 + z z=i e
il secondo addendo ricade invece nel caso 3) (α = −1 < 0) e quindi si calcola chiudendo
il cammino nel semipiano inferiore
Z +∞ −iz
e−iz
e π
2
dz = −2πi Res 2
= .
−∞ 1 + z 1 + z z=−i e
Pertanto
π
I= .
e
Esempio 4
Z ∞
sin x
I= dx .
0 x
La funzione integranda è pari:
sin x
f (x) = = f (−x) .
x
Quindi
Z ∞
1 sin x
I= dx .
2 −∞ x
Notare che l’integrando non è singolare nell’origine; infatti lo zero semplice del deno-
minatore è compensato da uno zero semplice del numeratore.
56
Figura 1.19: Cammini C1 e C2 che aggirano l’origine
La difficoltà si aggira nel modo seguente: poiché f (z) è ovunque analitica al finito
(si noti che f (z) → 1 per z → 0), prima di spezzare l’integrale si può deformare il
cammino di integrazione, grazie al teorema di Cauchy. In particolare, i due cammini
C1 e C2 di Figura 1.19 danno lo stesso risultato per I:
Z Z
1 sin z 1 sin z
I= dz = dz .
2 C1 z 2 C2 z
Dopo aver cosı̀ deformato il cammino è possibile spezzare l’integrale in una somma di
due e procedere con il metodo dei residui. Calcoleremo I in due modi diversi:
i) Integriamo su C1 :
eiz e−iz
Z Z
1
I= dz − dz .
4i C1 z C1 z
iz −iz
Benché la funzione f (z) sia regolare ovunque, le funzioni ez e e z hanno un polo
semplice in z = 0; inoltre esse soddisfano il lemma di Jordan nei semipiani Im z > 0
57
Figura 1.20: Chiusura del cammino che aggira l’origine nel semipiano superiore (a) ed
inferiore (b)
e−iz e−iz
I
1 1 π
I=− dz = + 2πi Res = . (1.55)
4i γ2 z 4i z z=0 2
58
Ma
Z Z I Z Z I
− =− −→ = + ,
C1 C2 γ C2 C1 γ
eiz
Z I iz
1 e
I= 2 dz + dz . (1.56)
4i C1 z γ z
Ora,
eiz
Z
dz = 0
C1 z
ha una singolarità sul cammino d’integrazione e non è definito. Nel caso in questione, e
più generalmente per integrali logaritmicamente divergenti con singolarità 1/(x − x0 ),
si può introdurre il valore principale P dell’integrale (o PV), definito da
Z ∞ Z − Z ∞
cos x cos x cos x
P dx = lim dx + dx (1.58)
−∞ x →0 −∞ x x
che risulta finito, per via della cancellazione esatta della singolarità a destra dell’origine
con quella (negativa) a sinistra dell’origine. Nel caso specifico il valore principale è
nullo, perchè i due integrali in (1.58) si cancellano:
Z − Z − Z ∞
cos x cos(−x) cos x
dx = d(−x) = − dx . (1.59)
−∞ x −∞ (−x) x
59
Si può anche attribuire all’integrale (1.57) un significato deformandone il cammino
d’integrazione sul piano complesso in modo da evitare la singolarità aggirandola in uno
dei due modi in Fig.1.19, per es.:
e−iz
Z Z iz
cos z 1 e
I= dz = + dz .
C1 z 2 C1 z z
Chiudendo poi in cammino d’integrazione sul semipiano Imz > 0(< 0) per eiz (e−iz ) si
ottiene I iz I −iz
1 e e
I= dz + dz = −iπ
2 γ1 z γ2 z
con > 0.
In generale, l’integrale Z ∞
f (x)
dx (1.60)
−∞ x − x0
dove f (x) è non nulla in x0 , regolare in R, e tale da assicurare la convergenza dell’in-
tegrale per x → ∞, può essere trattato nello stesso modo:
Z ∞ Z ∞
f (x) f (x)
dx = P dx ± iπf (x0 ) (1.61)
−∞ x − x0 ∓ i −∞ x − x0
dove il valore principale è definito in maniera analoga alla (1.58) e il valore f (x0 )
emerge dal calcolo del residuo in z = x0 (nell’esempio (1.57) cos z|z=0 = 1). In termini
di distribuzioni (che studieremo più avanti) si scrive anche
1 1
=P ± iπ δ(x − x0 ) (1.62)
x − x0 ∓ i x − x0
60
Figura 1.21: Proiezione stereografica della sfera sul piano complesso.
• La funzione f (z) = sin1 z ha poli semplici nei punti zk = kπ con k intero qual-
siasi; quindi in ogni intorno del punto all’infinito cade almeno un polo (in realtà
ne cadono infiniti): l’infinito non è una singolarità isolata, ma un punto di
accumulazione di poli.
61
Naturalmente, se f (z) è regolare all’infinito può essere sviluppata in serie di Taylor
in un intorno dell’infinito IΩ (∞), cioè all’esterno di un cerchio, centrato in un
punto a scelto secondo convenienza (spesso a = 0), e di raggio Ω tale che all’esterno
del cerchio la f (z) non abbia singolarità. Tale serie si ottiene sviluppando in serie di
Taylor la funzione φ(t) = f (a + 1/t) nell’intorno del punto t = 0, tornando poi alla
variabile originaria z con la sostituzione t = 1/(z −a); lo sviluppo di Taylor nell’intorno
del punto all’infinito conterra’ quindi solo potenze negative di z − a, oltre alla potenza
nulla.
Per esempio lo sviluppo (1.32) della funzione e1/z , che abbiamo già visto essere lo
sviluppo di Laurent nell’intorno della singolarità essenziale z = 0, può anche essere
letto come lo sviluppo di Taylor nell’intorno del punto regolare z = ∞.
Discorso analogo per lo sviluppo di Laurent; solo che stavolta la parte principale
dello sviluppo (cioè quella singolare) conterrà solo potenze positive di (z −a), in numero
finito o infinito a seconda se il punto all’infinito è un polo o una singolarità essenziale.
Per ogni funzione intera lo sviluppo di Taylor
∞
X
f (z) = an z n (1.64)
n=0
nell’intorno dell’origine può anche essere letto come sviluppo di Laurent intorno all’in-
finito; quindi:
• se ci sono infiniti an 6= 0 l’infinito è una singolarità essenziale di f (z);
• se an 6= 0 e al = 0, ∀l > n, f (z) è un polinomio di grado n e l’infinito è un polo
di ordine n (per n 6= 0) o è regolare (per n = 0).
Ne segue anche che:
• una funzione regolare in tutto C e anche all’infinito è necessariamente una co-
stante (in accordo con il teorema di Liouville - vedi Appendice B).
1.7.1 Esempi
Esempio 1: la funzione
f (z) = ez
∞
z
X zk
e =
k=0
k!
ha solo potenze positive (sviluppo di Taylor intorno a z = 0). La stessa serie può essere
letta come sviluppo di Laurent attorno alla singolarità essenziale z = ∞.
62
Esempio 2: la funzione
2
f (z) = e−1/z
ha una singolarità essenziale in z = 0. Infatti, lo sviluppo in serie che definisce la
funzione esponenziale
∞ ∞
−1/z 2
X (−1/z 2 )k X (−1)k
e = = z −2k
k=0
k! k=0
k!
ha un numero infinito di potenze negative. La stessa serie può essere letta come sviluppo
di Taylor attorno al punto regolare z = ∞; essa non contiene infatti potenze positive
di z; pertanto f (z) è analitica in z = ∞.
∞ ∞ 1 0
−1/z
X (−1/z)k X (−1)k −k+1
X (−1)k 0
f (z) = ze =z = z =− 0
zk .
k=0
k! k=0
k! k0 =−∞
(−k + 1)!
f (z) = ez/(1−z) .
Poniamo z 0 = z − 1:
∞ ∞
0 0 0 1 X (−1/z 0 )k 1X (z − 1)−k
f (z) = e−(1+z )/z = e−1/z e−1 = = (−1)k
e k=0 k! e k=0 k!
Esempio 5: sia
f (z) = ez−1/z = ez e−1/z .
I punti z = 0 e z = ∞ sono singolarità essenziali.
63
Figura 1.22: Curva che contiene tutte le singolarità al finito della funzione f (z).
64
Un altro modo per calcolare il residuo all’infinito si basa sul calcolo diretto dell’in-
tegrale (1.65) mediante il cambiamento di variabile:
1
z= , (1.66)
t
che manda z → ∞ in t → 0.
Si vede subito che una circonferenza c di raggio R centrata nell’origine del piano z,
di equazione |z| = R, viene trasformata in un’analoga circonferenza c0 di raggio 1/R
nel piano t di equazione |t| = 1/R. Se c è percorsa in senso antiorario, c0 sarà percorsa
in senso orario; infatti quando la fase φ di z = Reiφ cresce, quella di t = 1/R e−iφ
diminuisce. La circonferenza cR viene quindi “mappata” dalla trasformazione (1.66) in
una circonferenza c01/R percorsa in senso opposto. Di conseguenza:
I
1
{Resf (z)}z=∞ = − f (z)dz
2πi c
I
1 1 dz
= + f ( ) dt .
2πi c0 t dt
Ora, dz/dt = −1/t2 , e quindi
I
1 1 1
{Resf (z)}z=∞ = − f dt
2πi c0 t t2
1 1
= − Res f . (1.67)
t t2 t=0
Si noti che il residuo di f (z) in z = ∞ non è uguale al residuo di f (1/t) in t = 0:
N.B. Esistono funzioni che, pur essendo regolari in z = ∞, hanno residuo non nullo
all’infinito. Per esempio la funzione
1
f (z) =
z
è regolare in z = ∞ (perché la funzione f (1/t) = t è uguale a 0 in t = 0) ma il suo
residuo, calcolato tramite la (1.67), vale
I
1 1 1 1
Res = − Res t 2 =− dt = −1 ,
z z=∞ t t=0 2πi c0 t
come abbiamo già visto.
L’interesse principale nel definire il residuo all’infinito sta nel seguente:
65
∆ Teorema 14: se una funzione analitica f (z) possiede solo singolarità isolate in
tutto il piano complesso, punto all’infinito compreso, la somma di tutti i suoi residui,
compreso l’eventuale residuo all’infinito, è zero.
Dimostrazione. Sia γ una curva di Jordan che non passa per alcuna singolarità di
f (z). Allora, per il teorema dei residui (1.39), si ha
I X
f (z)dz = +2πi {Resf (z)}
γ interni
I X
f (z)dz = −2πi {Resf (z)} ,
γ esterni
[q.e.d.]
La verifica più immediata di questo teorema è data dalla solita funzione f (z) = 1/z
che ha residuo +1 nell’origine e −1 all’infinito; conviene richiamare questo esempio ele-
mentare ogni volta che non ci si ricordi con quale segno si debba prendere il coefficiente
della potenza 1/(z − a) per calcolare il residuo all’infinito.
Esempio 1
A volte può essere conveniente usare l’eq. (1.68) per semplificare il calcolo di integrali
in campo complesso. Per esempio l’integrale
z3
I
4
dz con C = {z, |z| = 1} (1.69)
C 2z + 1
z3 z3 1 t13
I
4
dz = −2πi Res 4 = +2πi lim 2 2
C 2z + 1 2z + 1 z=∞ t→0 t 4 + 1
t
= iπ . (1.70)
z3 1 1
= + O( )
2z 4 + 1 2z z2
66
Esempio 2
Il teorema 14 permette a volte di calcolare più facilmente il residuo di una funzione in
una singolarità essenziale. Per esempio il calcolo del residuo della funzione
sin(π/z)
f (z) = (1.71)
z−2
nella singolarità essenziale z = 0 è
π
{Resf (z)}z=0 = − {Resf (z)}z=2 == − lim sin = −1 ,
z→2 z
dove si è tenuto conto che f (z) = O( z12 ) per z → ∞ e quindi {Resf (z)}z=∞ = 0. Invece
il calcolo diretto è più complicato:
π 2k+1
( " ∞ ∞ #)
1 X z l X
{Resf (z)}z=0 = Res − (−1)k z
2 l=0 2 k=0 (2k + 1)!
z=0
∞ k 2k+1
X (−1) π
= − δ
l+1 l−2k−1,−1
l,k=0
(2k + 1)! 2
∞
X (−1)k π 2k+1 π
= − = − sin = −1 .
k=0
(2k + 1)! 2 2
∆ Corollario del Teorema 14: ogni funzione intera f (z) ha residuo nullo all’infinito.
Dimostrazione. L’infinito può essere punto regolare di f (z) (allora f (z) è costante -
Teorema di Liouville, Appendice B) o singolarità isolata; in entrambi i casi ha senso
definire il residuo all’infinito. Poichè la somma dei residui fa zero e non ci sono singola-
rità al finito, si deduce che necessariamente il residuo all’infinito è nullo. In alternativa,
basta vedere che lo sviluppo (1.64) di f (z) in serie di Laurent nell’intorno dell’infinito
non contiene la potenza z −1 .
67
1.8 Le funzioni ln z e z α nel piano complesso
La funzione logaritmo w = ln z è definita nel campo complesso ∀z 6= 0 dalla equazione
ew = z , (1.72)
ovvero
eRe w eiIm w
= |z|eiarg z
(1.73)
da cui segue, prendendo il modulo di ambo i membri,
eRe w
= |z| ⇒ Re w = ln |z| , (1.74)
dove il logaritmo del numero positivo |z| è quello definito in campo reale. Sostituendo
nella (1.73) si ottiene
eiIm w = eiarg z , (1.75)
la cui soluzione generale è
z α = eα ln z (1.78)
e, salvo che per α ∈ N, soffre degli stessi problemi della funzione logaritmo9 . È facile
dimostrare che
d ln z 1
= , ∀z 6= 0 (1.79)
dz z
e quindi anche
dz α
= αz α−1 , ∀α ∈ C . (1.80)
dz
9
Per α ∈ N non ci sono ambiguità poiché eN (ln z+2πin) = eN ln z .
68
Capitolo 2
Equazioni differenziali in C
Dividendo per A(z) (supposto diverso da zero, altrimenti l’equazione sarebbe del I
ordine) si ottiene la cosiddetta forma standard
Condizione necessaria e sufficiente affinchè due soluzioni u1 (z) e u2 (z) della (2.3) siano
linearmente indipendenti è che il wronskiano differisca da zero, ovvero
u1 u2
W (z) = det 0 6= 0
u1 u02
69
regolare, o ordinario, dell’equazione differenziale e qualunque soluzione è regolare in z0 .
Altrimenti il punto z0 si dice punto singolare dell’equazione differenziale poichè general-
mente le soluzioni saranno ivi singolari. I punti singolari sono a loro volta classificati
in due categorie: singolarità fuchsiane, o regolari, e singolarità essenziali, o
irregolari. Il punto singolare z0 si definisce punto singolare fuchsiano (dal nome del
matematico Fuchs) se in z → z0 la funzione P (z) ha al più un polo semplice e Q(z) al
più un polo doppio; quindi le funzioni (z − z0 )P (z) e (z − z0 )2 Q(z) rimangono finite
per z → z0 :
lim (z − z0 )P (z) = p0
z→z0
lim (z − z0 )2 Q(z) = q0 ,
z→z0
con p0 e q0 finiti; è possibile che uno o anche entrambi siano nulli. Se invece per
esempio P (z) diverge più velocemente di 1/(z − z0 ), in modo tale che (z − z0 )P (z)
tenda a infinito per z → z0 , oppure se Q(z) diverge più velocemente di 1/(z − z0 )2 ,
in modo tale che (z − z0 )2 Q(z) tenda a infinito per z → z0 , il punto z0 è un punto
singolare irregolare, o essenziale. Queste definizioni valgono per tutti i valori finiti di
z0 . Lo studio del punto z → ∞ verrà trattato separatamente in un prossimo paragrafo.
Esempi
Elenchiamo alcuni esempi di equazioni differenziali ordinarie del II ordine e studiamone
le singolarità al finito.
1) Equazione dell’oscillatore armonico semplice:
u00 + ω 2 u = 0 (2.3)
P (z) = 0 , Q(z) = ω 2
L’equazione è ovunque regolare al finito.
2) Equazione di Legendre:
(1 − z 2 )u00 − 2zu0 + αu = 0 (2.4)
2z α
P (z) = − , Q(z) =
1 − z2 1 − z2
L’equazione ha due punti singolari fuchsiani in z = ±1. Infatti sia P (z) che Q(z)
hanno un polo semplice in z = ±1:
lim (z − (±1))P (z) = 1 = p0
z→±1
70
3) Equazione di Bessel:
z 2 u00 + zu0 + (z 2 − α2 )u = 0 (2.5)
1 α2
P (z) = , Q(z) = 1 − 2
z z
L’equazione ha una singolarità di tipo fuchsiano in z = 0 con p0 = 1 e q0 = −α2 .
4) Equazione di Laguerre
zu00 + (1 − z)u0 + au = 0 (2.6)
1 a
P (z) = − 1 , Q(z) =
z z
L’equazione ha una singolarità di tipo fuchsiano in z = 0.
5) Equazione di Hermite:
u00 − 2zu0 + 2αu = 0 (2.7)
z n2
P (z) = − , Q(z) =
1 − z2 1 − z2
L’equazione ha due punti singolari fuchsiani in z = ±1.
7) Equazione ipergeometrica:
z(z − 1)u00 + [(1 + a + b)z − c]u0 + abu = 0 (2.9)
(1 + a + b)z − c ab
P (z) = − , Q(z) =
z(z − 1) z(z − 1)
L’equazione ha due punti singolari fuchsiani in z = 0 e z = 1.
8) Equazione ipergeometrica confluente:
zu00 + (c − z)u0 − au = 0 (2.10)
c−z a
P (z) = − , Q(z) = −
z z
L’equazione ha un punto singolare fuchsiano in z = 0.
71
2.1.1 Soluzione nell’intorno di un punto regolare
Se z0 è un punto ordinario di un’equazione differenziale nella forma standard, le solu-
zioni sono certamente regolari in z0 . È allora possibile cercare una soluzione che abbia
la forma di uno sviluppo in serie di Taylor intorno al punto z0 ,
∞
X
u(z) = ck wk , (2.11)
k=0
Una serie di potenze è nulla se e solo se tutti i suoi coefficienti sono nulli, e pertanto
l’espressione in parentesi quadra deve annullarsi, ∀n. Si ottengono cosı̀ delle relazioni
di ricorrenza che permettono di determinare i coefficienti ck una volta noti c0 e c1 .
Infatti per n = 0 si ottiene:
2c2 + c1 p0 + c0 q0 = 0 ; (2.17)
per n = 1:
6c3 + c1 p1 + 2c2 p0 + c0 q1 + c1 q0 = 0 (2.18)
e cosı̀ via. Le costanti arbitrarie c0 e c1 , fissate dalle condizioni iniziali
c0 = u(z0 ) (2.19)
c1 = u0 (z0 ) , (2.20)
72
determinano univocamente la soluzione u(z). Se per esempio chiamiamo u1 la soluzione
corrispondente a c0 = 1 e c1 = 0 e u2 quella corrispondente a c0 = 0 e c1 = 1, la
soluzione generale dell’equazione differenziale sarà
u(z) = c0 u1 (z) + c1 u2 (z) ; (2.21)
infatti u1 e u2 sono linearmente indipendenti, essendo il loro Wronskiano diverso da
zero:
u1 u2 1 0
W (z0 ) = det 0 = det =1.
u1 u02 z=z0 0 1
In generale si può dimostrare che questo metodo fornisce sempre la soluzione generale
nell’intorno di un punto regolare z0 e che, per valori generici di c0 e c1 il raggio di
convergenza della serie è uguale alla distanza fra z0 e la singolarità più vicina dell’e-
quazione differenziale (talvolta, ma solo per particolari valori di c0 e c1 , può anche
essere maggiore).
Esempi
1. L’ equazione dell’oscillatore armonico semplice
73
e delle potenze dispari
ω2
c3 = − c1
(2)(3)
ω2 (ω 2 )2
c5 = − c3 = c1
(4)(5) 5!
ω2 (ω 2 )3
c7 = − c5 = − c1
(6)(7) 7!
(ω 2 )n
c2n+1 = (−1)n c1 .
(2n + 1)!
Pertanto la soluzione cercata è
∞ ∞
X (ωz)2n c1 X (ωz)2n+1
u(z) = c0 (−1)n + (−1)n
n=0
(2n)! ω n=0 (2n + 1)!
= c0 cos(ωz) + c01 sin(ωz) , (2.25)
che è proprio, come noto, la soluzione dell’equazione (2.22).
2. L’equazione di Legendre
La prima sommatoria si può riscrivere come segue (si noti che i termini k = 0, 1 sono
nulli):
∞ ∞
0
X X
k(k − 1)ck z k−2 = (k 0 + 2)(k 0 + 1)ck0 +2 z k ;
k=2 k0 =0
74
l’equazione (2.28) diventa quindi:
∞
X
{(k + 2)(k + 1)ck+2 − ck [k(k + 1) − α]} z k = 0 .
k=0
e
2−α
c3 = c1
6
12 − α (12 − α)(2 − α)
c5 = c3 = c1
20 5!
30 − α (30 − α)(12 − α)(2 − α)
c7 = c5 = c1
42 6!
etc...
75
Figura 2.1: I primi 6 polinomi di Legendre. Non hanno zeri fuori da [−1, 1].
3. L’equazione di Hermite
u00 − 2z u0 + 2α u = 0 (2.31)
76
Il primo termine della serie può essere riscritto, cambiando l’indice di somma da k in
k − 2, come visto in precedenza. Sostituendo nella (2.33) si ottiene
∞
X
z k [ck+2 (k + 2)(k + 1) + ck (2α − 2k)] = 0 , (2.34)
k=0
La seconda soluzione o è ancora della forma (2.36) oppure contiene anche un termine
aggiuntivo du1 ln(z − z0 ), come vedremo nell’eq. (2.42). Le serie che compaiono nella
soluzione hanno raggio di convergenza almeno uguale alla distanza fra z0 e la più vicina
singolarità dell’equazione differenziale.
77
Come si determina l’esponente ρ? Supponiamo che z0 sia un punto singolare
fuchsiano. In questo caso le funzioni P (z) e Q(z) possono essere scritte come
P∞
p(z) pl (z − z0 )l
P (z) = = l=0 (2.37)
z − z0 z − z0
P∞ l
q(z) l=0 ql (z − z0 )
Q(z) = = , (2.38)
(z − z0 )2 (z − z0 )2
dove le funzioni p(z) e q(z) sono regolari in z = z0 , e sono state quindi sviluppate in
serie di Taylor intorno a z0 . Sostituendo ora le (2.36), (2.37) e (2.38) nell’equazione
(2.3) e moltiplicando per (z − z0 )2 si ottiene:
∞
X ∞
X ∞
X
ρ+k
ck (ρ + k)(ρ + k − 1)(z − z0 ) + ck (ρ + k) pl (z − z0 )ρ+k+l
k=0 k=0 l=0
X∞ ∞
X
+ ck ql (z − z0 )ρ+k+l = 0 .
k=0 l=0
e
q0 = lim (z − z0 )2 Q(z) ,
z→z0
e ricavare gli indici ρ1 , ρ2 . Scelti gli indici in modo che Reρ1 ≥Reρ2 il teorema di Fuchs
ci assicura che esiste sempre la soluzione particolare
∞
X
ρ1
u1 (z) = (z − z0 ) ck (z − z0 )k , c0 6= 0 (2.40)
k=0
78
1) Se le due radici differiscono per un numero non intero, la seconda soluzione è
simile alla prima:
∞
X
ρ2
u2 (z) = (z − z0 ) dk (z − z0 )k , d0 6= 0 (2.41)
k=0
ρ2 − α 2 = 0 ,
da cui
∞
X ∞
X
c1 (1 + 2ρ)z 1+ρ + ck k(k + 2ρ)z k+ρ + ck z k+ρ+2 = 0 . (2.45)
k=2 k=0
1
dn può essere scelto arbitrariamente poiché la differenza fra due soluzioni del tipo u2 con diversi
valori di dn è proporzionale alla prima soluzione u1 di (2.40).
79
Se nella prima sommatoria effettuiamo il cambiamento di indice k → k − 2 otteniamo:
∞
X
1+ρ
c1 (1 + 2ρ)z + [ck+2 (k + 2)(k + 2 + 2ρ) + ck ]z k+ρ+2 = 0 , (2.46)
k=0
80
2.1.4 Studio del comportamento all’infinito
Il comportamento delle soluzioni dell’equazione differenziale
81
Se l’infinito è un punto ordinario, si può cercare una soluzione come sviluppo in serie
di Taylor intorno a z = ∞:
∞
X ∞
X
u(z) = u(1/t) = k
ck t = ck z −k
k=0 k=0
e
tρ2 ∞
P k
u2 (1/t) = k=0 dk t
ρ2
P∞ ρ1k− ρ2 =
6 n , d0 6= 0
(2.62)
au1 (1/t) ln t + t k=0 bk t ρ1 − ρ2 = n , b0 6= 0
ovvero
z −ρ2 ∞ −k
P
k=0 dk z ρ1 − ρ2 =
6 n , d0 6= 0
u2 (z) = (2.63)
−au1 (z) ln z + z −ρ2 ∞ −k
P
b
k=0 k z ρ1 − ρ2 = n , b0 6= 0 .
dove
2 P (1/t) P (1/t)
p˜0 = lim t − 2
= 2 − lim
t→0 t t t→0 t
Q(1/t) Q(1/t)
q˜0 = lim t2 4
= lim .
t→0 t t→0 t2
In termini della variabile z:
Detti ora
p0 = lim zP (z)
z→∞
q0 = lim z 2 Q(z) .
z→∞
82
l’equazione indiciale diventa
ρ2 + (1 − p0 )ρ + q0 = 0 .
Si noti il cambiamento di segno nel termine lineare rispetto all’equazione indiciale per
singolarità al finito. I coefficienti ck , dk , bk e a nelle equazioni (2.62) si ottengono
sostituendo le soluzioni nell’equazione differenziale e usando gli sviluppi
∞
1 X pn
P (z) = (2.64)
z n=0 z n
∞
1 X qn
Q(z) = 2 . (2.65)
z n=0 z n
2.1.5 Esempi
Consideriamo le equazioni (2.3-2.10) e studiamone il comportamento per z → ∞.
1) Equazione dell’oscillatore armonico semplice:
u00 + ω 2 u = 0
2 ω2
P̃ (1/t) = , Q̃(1/t) = 4
t t
All’infinito l’equazione ha una singolarità irregolare.
2) Equazione di Legendre:
(1 − z 2 )u00 − 2zu0 + αu = 0
2 2/t α
P̃ (1/t) = − 2 , Q̃(1/t) = 4
t t −1 t − t2
All’infinito l’equazione ha una singolarità fuchsiana.
3) Equazione di Bessel:
z 2 u00 + zu0 + (z 2 − α2 )u = 0
2 1 1 1 − α2 t2
P̃ (1/t) = − = , Q̃(1/t) =
t t t t4
All’infinito l’equazione ha una singolarità irregolare.
83
4) Equazione di Laguerre
zu00 + (1 − z)u0 + au = 0
2 t−1 a
P̃ (1/t) = − 2 , Q̃(1/t) = 3
t t t
All’infinito l’equazione ha una singolarità irregolare.
5) Equazione di Hermite:
2 2 2α
P̃ (1/t) = + 3 , Q̃(1/t) = 4
t t t
All’infinito l’equazione ha una singolarità irregolare.
6) Equazione di Chebyshev:
(1 − z 2 )u00 − zu0 + n2 u = 0
2 1 n2
P̃ (1/t) = + 2 , Q̃(1/t) = 2 2
t t(t − 1) t (t − 1)
zu00 + (c − z)u0 − au = 0
2 ct − 1 a
P̃ (1/t) = − 2
, Q̃(1/t) = − 3
t t t
All’infinito l’equazione ha una singolarità irregolare.
8) Equazione ipergeometrica:
2 1 + a + b − ct ab
P̃ (1/t) = − , Q̃(1/t) = 2
t t(1 − t) t (1 − t)
84
L’equazione ipergeometrica è un esempio di equazione totalmente fuchsiana con tre
punti singolari in 0, 1, ∞ i cui indici valgono rispettivamente (0, 1 − c), (0, c − a − b),
(a, b); questa informazione si racchiude nel simbolo P di Riemann
0 1 ∞
P = 0 0 a z .
1−c c−a−b b
85
Parte II
86
Capitolo 3
Serie di Fourier
3.1 Introduzione
Per presentare l’argomento della seconda parte di questo corso iniziamo a discutere
un problema fisico molto semplice ma molto significativo. Consideriamo il circuito
oscillante in figura 3.1.
Ricordando che le tensioni ai capi di un condensatore di capacità C, di una resi-
stenza R e di una bobina di induttanza L sono date rispettivamente da q(t)/C, Ri(t)
e Ldi/dt, dove q(t) è la carica su una faccia del condensatore e i(t) = dq/dt la corren-
te, si ricava facilmente che la tensione in uscita u(t) è legata a quella in entrata f (t)
dall’equazione:
d2 u du
LC 2
+ RC + u(t) = f (t) , (3.1)
dt dt
che può essere utile scrivere nella forma
Lt u(t) = f (t) ,
d2 d
Lt = LC 2
+ RC + 1 . (3.2)
dt dt
Se la tensione d’ingresso è sinusoidale
87
Figura 3.1: Circuito oscillante.
Basta infatti sostituire (3.4) nell’eq.(3.1) per ottenere il sistema di due equazioni
1 − ω 2 LC ωRC
A= V ; B= V . (3.7)
(1 − ω 2 LC)2 + ω 2 R2 C 2 (1 − ω 2 LC)2
+ ω 2 R2 C 2
Ponendo A = ρ cos α e B = ρ sin α, la (3.4) diventa:
u(t) = ρ cos(ωt − α) = Re ρei(ωt−α) .
88
dove l’operatore L è definito non solo dalla sua espressione differenziale Lt di eq.(3.2),
ma anche dal suo dominio, specificato dalle condizioni al contorno periodiche:
u(t + T ) = u(t) ,
Proprietà P1: se u1 (t) è soluzione dell’eq. (3.1) con termine noto f1 (t):
d2 u1 du1
LC 2
+ RC + u1 (t) = f1 (t) (3.11)
dt dt
e analogamente u2 (t) soddisfa:
d2 u2 du2
LC 2
+ RC + u2 (t) = f2 (t) (3.12)
dt dt
allora
u(t) = α1 u1 (t) + α2 u2 (t) (3.13)
sarà soluzione dell’eq. (3.1) con
La P1 suggerisce per esempio di scegliere come termine noto anziché la f (t) dell’eq. (3.3)
la
eω (t) = V eiωt , (3.16)
dal momento che cos ωt = (eiωt + e−iωt )/2. Allora la soluzione dell’equazione
d2 u du
LC 2 + RC + u(t) = eω (t) (3.17)
dt dt
è ancora più immediata; infatti se si pone1
89
sostituendo (3.18) nell’eq. (3.17) si ottiene:
eiωt + e−iωt
cos(ωt) = = Re eiωt , (3.22)
2
si può scrivere la f (t) di (3.3) come
1
f (t) = [eω (t) + e−ω (t)] = Re eω (t) per V reale . (3.23)
2
Allora la proprietà di linearità P1 ci permette di scrivere subito la soluzione dell’eq. (3.1)
nella forma
1
u(t) = [uω (t) + u−ω (t)] = Re uω (t) (3.24)
2
con uω (t) dato dall’eq. (3.18)2 . Osservando che la U (ω) dell’eq. (3.20) coincide con la
U di (3.8), si verifica subito che la soluzione (3.24) coincide con la soluzione (3.4).
La proprietà P1 ha anche una conseguenza molto più importante e generale:
Proprietà P2: se “in qualche modo” si riesce a scrivere il termine noto dell’eq. (3.1)
nella forma
X
f (t) = Vn eiωn t , (3.25)
n
allora sarà possibile risolvere l’eq. (3.1) e la soluzione sarà (sempre a meno del transi-
torio) ancora della stessa forma:
X
u(t) = Un eiωn t (3.26)
n
2
Si è usata l’identità U ∗ (ω) = U (−ω) che segue dalla (3.20); con ∗ indichiamo la complessa
coniugazione.
90
con i coefficienti Un dati dalla
Vn Vn
Un = ZC (ωn ) = . (3.27)
R + ZL (ωn ) + ZC (ωn ) 1 − ωn2 LC + iωn RC
Lo scopo della seconda parte di questo corso sarà proprio di trovare il modo per
esprimere ampie classi di funzioni f (t) nella forma (3.25); in linguaggio matematico
possiamo dire che oggetto di questo corso è la analisi armonica.
L’analisi armonica è uno strumento matematico di enorme importanza in fisica: in-
fatti le equazioni differenziali lineari del secondo ordine (in particolare a coef-
ficienti costanti ) intervengono in numerosissimi problemi in ogni campo della fisica,
non solo per i circuiti RLC, ma ogni volta che si vogliano descrivere piccole oscillazio-
ni attorno a una situazione di equilibrio. Inoltre l’analisi armonica, in particolare la
trasformata di Fourier, gioca un ruolo fondamentale nella Meccanica Quantistica.
È utile osservare che alla radice del ruolo privilegiato che giocano le funzioni eiωt
nella soluzione dell’eq. (3.1) sta il fatto che esse sono autofunzioni dell’operatore
differenziale Lt , cioè che vale l’equazione
91
3.2 Funzioni periodiche e serie di Fourier
Una prima classe di funzioni per cui si può effettuare l’analisi armonica (3.25) contiene
le funzioni periodiche (di periodo T ), tali cioè che
f (t + T ) = f (t), ∀t ∈ R . (3.30)
In tal caso è lecito aspettarsi che gli ωn dell’eq. (3.25) siano tutti multipli interi
dell’armonica fondamentale ω = 2π T
ovvero
2π
ωn = n ,n ∈ Z . (3.31)
T
Infatti dall’identità
X
f (t) = Vn eiωn t (3.34)
n∈Z
2πt
Con il cambio di variabile x = T
, suggerito dalla (3.31), e usando l’identità
Z 2π
ei(n−l)x dx = 2πδnl , (3.36)
0
Z T
1
Vl = e−iωl t f (t)dt . (3.37)
T 0
92
L’eq. (3.37) è di grande importanza perché ci fornisce i coefficienti della serie di
Fourier (3.34) e quindi, grazie alla proprietà P1, il modo per risolvere l’equazione
differenziale (3.1) con termine noto f (t) periodico. I passi sono i seguenti:
• con la (3.37) si calcolano i coefficienti Vl della serie di Fourier (3.34) di f (t);
• per ognuna delle armoniche, cioè per ognuno dei termini di tale serie, si applica
la procedura che ci ha portato dal termine noto (3.16) alla soluzione (3.18),
ottenendo cosı̀ i coefficienti Un dati dalla (3.27);
• la soluzione dell’equazione differenziale sarà data perciò dalla serie di Fourier
(3.26).
93
Prima di considerare la convergenza della serie conviene considerare il seguente
Lemma di Riemann: Qualunque sia l’intervallo (a, b), finito o infinito, per ogni f (x)
sommabile, vale
Z b Z b Z b
±ikx
lim f (x)e dx = lim f (x) cos(kx) dx = lim f (x) sin(kx) dx = 0 .
k→∞ a k→∞ a k→∞ a
(3.42)
Dimostrazione: ci limitiamo a dimostrare tale lemma nel caso particolare in cui f (x)
sia di classe C 1 , cioè continua con la sua derivata prima. In tal caso è lecito integrare
per parti e si ha
Z b
1 b 0
Z
±ikx 1 ±ikx b
f (x)e±ikx dx ,
f (x)e dx = f (x) e a
∓ (3.43)
a ±ik ik a
da cui Z b Z b
±ikx
1 0
f (x)e dx ≤ |f (b)| + |f (a)| + |f (x)| dx . (3.44)
a |k| a
La parentesi graffa non contiene più termini dipendenti da k, quindi il secondo membro
tende a zero per k → ∞, e di conseguenza anche il primo. Usando le formule di Eulero
si completa la dimostrazione, nel caso particolare di funzioni di classe C 1 ; nel caso
generale la dimostrazione prosegue usando ilR fatto che per ogni funzione sommabile
b
f (x) e ogni ε > 0 esiste una g ∈ C 1 tale che a |f (x) − g(x)|dx < ε.
[q.e.d.]
TEOREMA: Condizione sufficiente affinché la serie (3.38) converga puntualmente
a f (x0 ) è che la funzione f (x) (sommabile nell’intervallo (0, 2π)) sia di classe C 1
nell’intorno del punto x0 .
Dimostrazione Definiamo la ridotta N-esima della serie (3.38) come
N
X
SN (x0 ) = al eilx0 . (3.45)
l=−N
Usando l’identità
N 2N
X
−iN α
X n 1 − ei(2N +1)α −iα(N +1/2) 1 − e
i2(N +1/2)α
e ilα
= e eiα = e−iN α = e
l=−N n=0
1 − eiα e−iα/2 − eiα/2
sin(N + 1/2)α
= (3.47)
sin α/2
94
la (3.45) diventa
Z 2π
1 sin [(N + 1/2)(x0 − y)]
SN (x0 ) = dyf (y)
2π 0 sin(x0 − y)/2
Z π
1 sin [(N + 1/2)t]
= dtf (x0 + t) , (3.48)
2π −π sin t/2
dove nell’ultimo passaggio si è posto t = x0 −y e si è usata la periodicità dell’integrando
per fissare l’intervallo di integrazione5 . Notare che per calcolare limN →∞ SN (x0 ) non
si possono applicare direttamente le formule di Riemann (3.42) alla (3.48), poiché la
funzione fsin
(x0 +t)
t/2
non è integrabile: essa diverge come 2f (x
t
0)
per t → 06 .
Si noti che l’integrale si può spezzare come segue:
Z π Z −δ1 Z δ2 Z π
= + + ; (3.49)
−π −π −δ1 δ2
∀δ1 , δ2 ∈ (0, 2π) si possono applicare le formule di Riemann al primo e terzo integrale, quindi
Z π Z δ2
sin [(N + 1/2)t] sin [(N + 1/2)t]
lim f (x0 + t) dt = lim f (x0 + t) dt ; (3.50)
N →∞ −π sin t/2 N →∞ −δ
1
sin t/2
perciò la somma della serie nel punto x0 dipende solo dal comportamento locale della funzione
f (x) (sommabile in (0, 2π)) in un intorno (arbitrariamente piccolo) del punto x0 . Usando l’identità
Z π
1 sin [(N + 1/2)t]
dt = 1 , (3.51)
2π −π sin t/2
che si può verificare direttamente con il metodo dei residui (o anche considerando il
caso particolare della (3.48) per f (x) = 1), si può scrivere
Z π
1 1 f (x0 + t) − f (x0 )
SN (x0 ) − f (x0 ) = dt sin N + t . (3.52)
2π −π 2 sin t/2
Adesso la funzione che moltiplica sin(N + 1/2)t è sommabile nell’intervallo (−π, π);
infatti in tale intervallo sin t/2 si annulla solo nell’origine e
f (x0 + t) − f (x0 )
lim = 2f 0 (x0 ) . (3.53)
t→0 sin t/2
Si può quindi passare al limite per N → ∞ e applicare le formule di Riemann per
ottenere
[q.e.d]
5
sin(N + 1/2)t e sin t/2 hanno periodo 4π, ma il loro rapporto ha periodo 2π.
6
è integrabile se f (x0 ) = 0, allora si applicano le formule di Riemann e si ottiene correttamente
limN →∞ SN (x0 ) = 0.
95
Notare che il Teorema (3.54) può essere esteso al caso in cui nel punto x0 la funzione
abbia una discontinuità di I specie, ma sia di classe C 1 sia in un intorno sinistro che in
un intorno destro di x0 . Al posto della (3.52) si scrive infatti
Z 0
f (x0 +) + f (x0 −) 1 1 f (x0 + t) − f (x0 −)
SN (x0 ) − = dt sin N + t
2 2π −π 2 sin t/2
Z π
1 1 f (x0 + t) − f (x0 +)
+ dt sin N + t ,
2π 0 2 sin t/2
(3.55)
dove f (x0 −) e f (x0 +) sono i limiti destro e sinistro nel punto x0 e si è usata l’identità
Z π Z 0
sin (N + 1/2) t sin (N + 1/2) t
dt = dt = π . (3.56)
0 sin t/2 −π sin t/2
Dalle formule di Riemann segue allora:
f (x0 +) + f (x0 −)
lim SN (x0 ) = , (3.57)
N →∞ 2
di cui la (3.54) è ovviamente un caso particolare. Se il punto x0 cade in uno degli
estremi dell’intervallo di definizione della f (x0 ), continua a valere la (3.57) purché la
funzione sia continuata periodicamente: f (x + 2π) = f (x).
1 T /2
Z
am = f (t)e−iωm t dt . (3.60)
T −T /2
96
Se la funzione f (t) assume valori reali si vede subito che i coefficienti an soddisfano la
relazione seguente:
= An cos(ωn t − αn ), (3.62)
con
An = 2|an | . (3.63)
Quindi per f (t) reale la serie (3.59) diventa
∞
X
f (t) = a0 + An cos(ωn t − αn ) . (3.64)
n=1
note come relazioni di ortogonalità, su cui torneremo più avanti. La (3.65), che
prende il nome di equazione di Parseval scritta nella base delle funzioni esponenziali,
illustra come ogni componente di Fourier contribuisca separatamente all’integrale; non
ci sono cioè termini di interferenza del tipo a∗m an . Qualora f (t) rappresenti la corrente
elettrica attraverso una resistenza R, la (3.65) moltiplicata per R mostra che la potenza
media dissipata per effetto Joule è uguale alla somma delle potenze dissipate sulle varie
frequenze.
Per f (t) reale la (3.65) diventa infatti:
∞ ∞ 2
1 T /2
Z
2 2
X
2 2
X An
|f (t)| dt = a0 + 2 |an | = a0 + √ , (3.67)
T −T /2 n=1 n=1
2
dove nell’ultimo passaggio si è ricordata
√ la (3.63). In questo caso a0 è la componente
di corrente continua della f (t) e An / 2 il valore efficace della corrente alternata di
pulsazione ωn .
97
Serie di Fourier e funzioni trigonometriche.
Molto spesso anziché usare il si-
stema trigonometrico in forma esponenziale eilx , l ∈ Z è utile usare il sistema
trigonometrico tout court:
Data una f (x) sommabile nell’intervallo (−π, π), anziché la serie (3.38) proviamo a
scrivere
∞
A0 X
f (x) = + [An cos(nx) + Bn sin(nx)] . (3.70)
2 n=1
1 π
Z
An = cos(nx)f (x)dx n = 0, 1, . . . (3.71)
π −π
1 π
Z
Bn = sin(nx)f (x)dx n = 1, 2, . . . . (3.72)
π −π
98
ha una discontinuità di prima specie, ma è di classe C 1 sia in un intorno sinistro che
in un intorno destro di x0 , vale allora:
∞
A0 X f (x0 +) + f (x0 −)
+ [An cos(nx0 ) + Bn sin(nx0 )] = . (3.73)
2 n=1
2
dove f (x0 +) e f (x0 −) sono rispettivamente i limiti destro e sinistro di f (x) nel punto
x0 .
Se il punto x0 cade in uno degli estremi dell’intervallo di definizione continua a
valere quanto abbiamo detto per i punti interni purché la funzione sia continuata
periodicamente su tutto l’asse reale secondo la f (x + 2π) = f (x).
L’equazione di Parseval, in termini dei coefficienti An e Bn , assume la forma
seguente:
Z π ∞
2 π 2
X
|An |2 + |Bn |2 .
|f (x)| dx = |A0 | + π
−π 2 n=1
∞
A0 X
f (x) = + An cos(nx) .
2 n=1
∞
X
f (x) = Bn sin(nx) .
n=1
Esempio
Sviluppiamo in serie di Fourier la funzione a gradino:
−1 −π <x<0
(x) =
+1 0≤x≤π .
99
Poiché la funzione è dispari, lo sviluppo in serie di Fourier conterrà solo seni (An = 0).
I coefficienti Bn sono:
1 π
Z
Bn = sin(nx)(x)dx
π −π
Z 0 Z π
1
= − sin(nx)dx + sin(nx)dx
π −π 0
2 π
Z
2
= sin(nx)dx = [− cos(nx)]π0
π 0 nπ
2 n 0 n pari
= [1 − (−1) ] = 4
nπ nπ
n dispari.
Pertanto
4 4 4
(x) = sin x + sin(3x) + sin(5x) + ...
π 3π 5π
∞
4 X sin[(2n + 1)x]
= .
π n=0 2n + 1
100
1.5
N=0
N=1
N=2
N=100
1
0.5
-0.5
-1
-1.5
-4 -3 -2 -1 0 1 2 3 4
Figura 3.2:
101
Se n = 1
π
π
2 sin2 x
Z
2
A1 = sin x cos xdx = =0.
π 0 π 2 0
Quindi
∞ ∞
2 2 X 1 + (−1)n 2 4 X cos 2kx
f (x) = − cos nx = −
π π n=2 n2 − 1 π π k=1 (2k)2 − 1
2 4 cos 2x cos 4x cos 6x
= − + + + ···
π π 3 24 35
Esempio 2.
f (x) = |x| −π <x<π
2 π
Z
A0 = xdx = π
π 0
2 π
Z Z π
2 π
An = x cos nxdx = x sin nx|0 − sin nxdx
π 0 πn 0
2
= [1 − (−1)n ]
πn2
da cui
∞
π 4 X cos(2k + 1)x π 4 cos 3x cos 5x
f (x) = − = − cos x + + + ···
2 π k=0 (2k + 1)2 2 π 9 25
Esempio 3.
f (x) = x 0 < x < 2π
1 2π
Z
A0 = xdx = 2π
π 0
1 2π
Z Z 2π
1 2π
An = x cos nx = x sin nx|0 − sin nxdx = 0
π 0 πn 0
1 2π
Z Z 2π
1 2π 2
Bn = x sin nx = −x cos nx|0 + cos nxdx = − .
π 0 πn 0 n
Quindi
∞
X sin nx sin 2x sin 3x
f (x) = π − 2 = π − 2 sin x + + + ···
n=1
n 2 3
Si consiglia agli studenti di disegnare i grafici delle f (x) dei tre esempi proposti.
102
Capitolo 4
Trasformate Integrali
103
funzione eikx F (k), estesa all’intervallo (−∞, +∞), diviso in infiniti intervalli parziali
di ampiezza ∆k → 0. Pertanto la (4.5) diventa
Z ∞
1
f (x) = √ F (k)eikx dk , (4.6)
2π −∞
Z ∞
1
F (k) = √ f (x)e−ikx dx . (4.7)
2π −∞
4.1.1 Esempi
Esempio 1. La trasformata di Fourier della funzione
1
f (x) = , a ∈ R+
x2 + a2
è
∞
e−ikx
Z
1
F (k) = √ dx .
2π −∞ (x + ia)(x − ia)
Se k > 0 chiudiamo il cammino di integrazione nel semipiano Imz < 0 e otteniamo:
e−ikz
r −ka
1 πe
F (k) = − √ 2πi Res = .
2π (z + ia)(z − ia) z=−ia
2 a
104
Se k < 0 chiudiamo invece nel semipiano Imz > 0 e otteniamo:
e−ikz
r ka
1 πe
F (k) = √ 2πi Res = .
2π (z + ia)(z − ia) z=ia
2 a
Pertanto
π e−|k|a
r
F (k) = .
2 a
La verifica della (4.6) è immediata e coinvolge solo un integrale elementare.
è
Z +∞ Z +a
1 −ikx 1
F (k) = √ f (x)e dx = √ e−ikx dx
2π −∞ 2π −a
r
1 eika − e−ika 2 sin ka
= √ = . (4.10)
2π ik π k
Per verificare che l’antitrasformata di (4.10) sia effettivamente la (4.9) dobbiamo cal-
colare l’integrale
Z +R Z +R
1 ikx 1 sin(ka) ikx
I(x) ≡ √ lim F (k)e dk = lim e dk
2π R→∞ −R π R→∞ −R k
Z +R ik(x+a)
eik(x−a)
1 e
= lim − dk (4.11)
2πi R→∞ −R k k
deformando il cammino di integrazione come nell’esempio 4 del paragrafo 1.6.4, aggi-
rando per esempio l’origine nel semipiano immaginario positivo. Se x > a entrambi
gli integrali in (4.11) ricadono nel caso α > 0 del lemma di Jordan e pertanto si può
chiudere il cammino d’integrazione con una semicirconferenza nel semipiano superiore;
all’interno del cammino d’integrazione l’integrando è regolare e pertanto:
I(x) = 0 se x > a .
I(x) = 0 se x < −a .
105
Se invece |x| < a, e si aggira l’origine nel semipiano immaginario positivo, il primo
integrale, che si può chiudere nel semipiano superiore, dà zero, mentre il secondo, che
va chiuso nel semipiano inferiore, dà:
eik(x−a)
1
I(x) = − (−2πi)Res =1.
2πi k k=0
Abbiamo cosı̀ dimostrato che I(x) = f (x) per ogni x 6= a. Per x = a possiamo
deformare il cammino sopra la singolarità scrivendo, come in Sez. 1.6.5,
Z +R 2ika
1 e 1
I(a) = lim − dk . (4.12)
2πi R→∞ −R k + i k + i
Il primo integrale si chiude nel semipiano immaginario positivo e si annulla per il teo-
rema di Cauchy, mentre per il secondo usiamo la (1.61) sapendo che la parte principale
dell’integrale si annulla. Il risultato è
1 1 f (a−) + f (a+)
I(a) = − (−iπ) = = . (4.13)
2πi 2 2
Questo mostra che nei punti di discontinuità di prima specie la situazione è analoga a
quella vista per le serie di Fourier: l’antitrasformata dà il valor medio tra i limiti destro
e sinistro della funzione.
è
Z +∞ 2
e−(ka) /4 +∞ −(x/a−ika/2)2
Z
1 −(x/a)2 −ikx
F (k) = √ e dx = √ e dx
2π −∞ 2π −∞
2 Z +∞
e−(ka) /4 2 a 2 2
= √ a e−t dt = √ e−a k /4 , (4.14)
2π −∞ 2
cioè ancora una gaussiana, di larghezza inversamente proporzionale a quella della fun-
zione trasformanda. 1 La verifica della (4.6), che dà l’antitrasformata di F (k), è
immediata: non si tratta che di rifare lo stesso conto con a → A = 2/a.
1
Con il cambiamento di variabile x → t = x/a − ika/2, il cammino di integrazione nel piano
complesso di t non è più l’asse reale ma è diventato una retta ad esso parallela; tuttavia, usando la
teoria dell’integrazione in campo complesso, è facile mostrare che ciò non fa differenza.
106
4.1.2 Proprietà della trasformata di Fourier
Elenchiamo alcune importanti proprietà delle trasformate di Fourier. Per comodità
introduciamo il simbolo Fk (f ) per indicare la trasformata di Fourier della funzione
f (x):
Z +∞
1
Fk (f ) ≡ √ f (x)e−ikx dx . (4.15)
2π −∞
• Linearità:
Z ∞
1
F (k) = √ f (x)[cos(kx) − i sin(kx)]dx
2π −∞
r R∞
2 f (x) cos(kx)dx
0R ∞
se f (−x) = f (x)
= (4.17)
π −i 0 f (x) sin(kx)dx se f (−x) = −f (x) .
Una ovvia conseguenza delle (4.17) è che la Trasformata di Fourier di una funzione
pari (dispari) è una funzione pari (dispari).
Fk (f 0 ) = ik Fk (f ) (4.18)
107
La relazione (4.18) può essere iterata per ottenere le trasformate delle derivate
successive:
Fk (f 00 ) = ikFk (f 0 ) = (ik)2 Fk (f )
Fk [f (n) ] = (ik)n Fk (f ) , (4.19)
ovviamente supponendo che la funzione f (x) ammetta derivate fino all’ennesima
e che f (n) (x) sia sommabile sull’asse reale.
Moltiplicando ambo i membri della (4.18) per −i e usando la linearità della
Trasformata di Fourier si può simbolicamente stabilire la corrispondenza:
d
↔k−i (4.20)
dx
fra l’operatore derivata nello spazio delle funzioni f (x) e la semplice moltipli-
cazione per k nello spazio delle funzioni F (k); tale corrispondenza è di grande
importanza in Meccanica Quantistica.
• Dalla disuguaglianza
Z +∞
1
|Fk (f )| ≤ √ |f (x)|dx = cost. (4.21)
2π −∞
segue che la TF di una funzione sommabile è sempre una funzione limitata. Dalla
(4.19) segue quindi che la TF di una funzione n volte derivabile è almeno O(1/k n )
per k → ∞; in breve, quanto più una funzione è liscia (ovvero quanto maggiore è
il suo ordine di derivabilità) tanto più velocemente la sua TF va a zero all’infinito.
Nell’esempio 2 della sezione precedente f (x) è discontinua e la sua TF è O(1/k).
Negli esempi 1 e 3 abbiamo invece considerato funzioni infinitamente derivabili,
la cui TF è esponenzialmente soppressa a grandi k.
• Se l’argomento della funzione f (x) viene traslato di una costante reale a, per la F vale la
seguente relazione:
Fk [f (x + a)] = eika Fk [f (x)]. (4.22)
Infatti
Z ∞
1
Fk [f (x + a)] = √ f (x + a)e−ikx dx
2π −∞
Z ∞
eika ∞
Z
1 0 0
= √ f (x0 )e−ik(x −a) dx0 = √ f (x0 )e−ikx dx0
2π −∞ 2π −∞
ika
= e Fk (f ) .
108
• Se si moltiplica la funzione f (x) per x, le trasformata di Fourier diventa:
d
Fk [xf (x)] = i Fk [f (x)] (4.23)
dk
come si può facilmente verificare derivando sotto il segno, nell’ipotesi che la fun-
zione xf (x) sia ancora sommabile sull’asse reale. Come la (4.18), anche la (4.23)
si può iterare, ottenendo
n
n d
Fk [x f (x)] = i Fk [f (x)] (4.24)
dk
sempre nell’ipotesi che la funzione xn f (x) sia ancora sommabile sull’asse reale.
La (4.23) stabilisce la corrispondenza, duale della (4.20),
d
x↔i ,
dk
fra moltiplicazione per x nello spazio delle f (x) e la derivata nello spazio delle
F (k).
• L’equazione (4.24) mostra che quanto più rapidamente una funzione decresce
all’infinito, tanto più la sua TF è liscia (cioè maggiormente derivabile). Nell’e-
sempio 1 abbiamo infatti visto che la TF di una funzione O(1/x2 ) all’infinito ha
derivata discontinua nell’origine, mentre la TF di una gaussiana è ancora una
gaussiana (infinitamente derivabile).
• Se chiamiamo S lo spazio lineare delle funzioni di prova, rapidamente decre-
scenti e infinitamente derivabili:
S = {f ∈ C ∞ ; xn f (x) limitata su R, ∀n ∈ N} , (4.25)
le (4.19) e (4.24) implicano che la TF manda le funzioni di prova (nella variabile
x) in funzioni di prova (nella variabile k):
Fk (f ) ∈ S , ∀f ∈ S . (4.26)
• Teorema di convoluzione.
Definiamo la convoluzione g = f1 ∗ f2 di due funzioni f1 e f2 :
Z ∞
g(x) = f1 (x0 )f2 (x − x0 )dx0 . (4.27)
−∞
109
Il teorema di convoluzione afferma che la trasformata di Fourier della convolu-
zione di due funzioni è (a parte una costante moltiplicativa) il prodotto delle
trasformate di Fourier delle due funzioni:
√
Fk (g) = 2πFk (f1 )Fk (f2 ) . (4.30)
Dimostrazione:
Z ∞
1
Fk (g) = √ dx g(x) e−ikx
2π −∞
Z ∞ Z ∞
1
= √ dx dx0 f1 (x0 )f2 (x − x0 )e−ikx
2π −∞
Z ∞ Z−∞
∞
1 0 0
= √ dx dx0 f1 (x0 )e−ikx f2 (x − x0 )e−ik(x−x ) .
2π −∞ −∞
1
Z ∞
0 0 −ikx0
Z ∞ √
Fk (g) = √ dx f1 (x )e dzf2 (z)e−ikz = 2π Fk (f1 ) Fk (f2 ) .
2π −∞ −∞
[q.e.d.]
diventa semplicemente:
110
per risolvere l’equazione (4.31) ha senso solo se il termine noto e la soluzione sono
sommabili e ciò è molto restrittivo.
Torneremo su questo punto quando parleremo della Trasformata di Laplace; per
ora limitiamoci a illustrare un esempio di soluzione di un’equazione differenziale (alle
derivate parziali) mediante la trasformata di Fourier.
T (x, 0) = f (x) .
Chiamando F (k, t) la trasformata di Fourier rispetto a x della T (x, t), ovvero F (k, t) =
R +∞ −ikx
√1 e T (x, t) dx, e ricordando la (4.19) si ottiene
2π −∞
1 ∂
− k 2 F (k, t) = F (k, t) .
κ ∂t
Questa è un’equazione differenziale del prim’ordine in F (k, t), la cui soluzione è
2
F (k, t) = F (k, 0)e−κk t .
2
Essendo la lunghezza della sbarra infinita, l’equilibrio termico viene raggiunto alla temperatura
data dal limx±∞ f (x). Per avere f (x) sommabile, è necessario che lo zero della scala delle temperature
venga fissato a questo valore.
111
Per ricavare T (x, t) antitrasformiamo secondo Fourier
Z ∞
1
T (x, t) = √ F (k, t)eikx dk
2π −∞
Z ∞ Z ∞
1 0 2
= dk dx0 f (x0 )e−ikx eikx e−κk t
2π −∞ −∞
Z ∞ Z ∞
1 −κk2 t 0
= dke dx0 f (x0 )e−ik(x −x) ,
2π −∞ −∞
integriamo su k
∞ ∞ (x0 −x)2 (x0 −x)2
Z Z
−κk2 t−ik(x0 −x) − κk2 t+ik(x0 −x)− 4κt + 4κt
dke = dke
−∞ −∞
Z ∞ h √ 0 −x i2
(x0 −x)2 − k κt+ 2i x√
−
= e dke
4κt κt
−∞
r
π − (x0 −x)2
= e 4κt ,
κt
e giungiamo finalmente al risultato:
r Z ∞
1 (x0 −x)2
T (x, t) = f (x0 )e− 4κt dx0 .
4πκt −∞
2
Si può arrivare più facilmente allo stesso risultato osservando che e−κk t è la TF di
2
√ 1 e−x /(4κt) ; quindi F (k, t) è il prodotto di due TF e l’antitrasformata è la convolu-
2κt
2 /(4κt)
1
zione di f (x) e √2κt e−x .
La funzione3 r
1 − (x0 −x)2
G(x, x0 , t) = e 4κt θ(t), (4.34)
4πκt
detta nucleo del calore (heat kernel), è la funzione di Green o propagatore del-
l’eq. (4.33) ed è tale che la
Z ∞
T (x, t) = G(x, x0 , t)f (x0 )dx0 (4.35)
−∞
3
Con
0 t<0
θ(t) =
1 t>0
denotiamo la funzione a gradino di Heaviside. È necessario introdurla perché tutto il discorso fatto
2
perde completamente senso per t < 0: e−κk t da gaussiana diventa furiosamente crescente per k → ±∞
se t < 0.
112
descrive la propagazione del calore dal punto x0 al punto x al tempo t > 0.
Se, per esempio, la sorgente è puntiforme (cioè diversa da zero solo nell’origine):
f (x) = δ(x)
(per la definizione della delta di Dirac δ(x), vedi più avanti, paragrafo 5.3.2) allora il calore si propaga
√
in modo che la temperatura assume una distribuzione gaussiana di larghezza proporzionale a t:
∞
Z r
0 0 0 1 − x2
T (x, t) = G(x, x , t)δ(x )dx = G(x, 0, t) = e 4κt .
−∞ 4πκt
È anche interessante notare che per t → 0+ il nucleo del calore (4.34) tende alla delta di Dirac
(vedi eq. (5.63)):
lim G(x, x0 , t) = δ(x − x0 ), (4.36)
t→0+
come deve essere affinché la (4.35) riproduca le condizioni iniziali per t → 0+.
113
4.2 Trasformata di Laplace
Come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, il metodo della TF permette di risol-
vere equazioni differenziali a coefficienti costanti soltanto in un campo molto ristretto;
la stessa funzione f (x)=1 non potrebbe essere accettata né come soluzione né come
termine noto. D’altra parte, se vogliamo risolvere un’equazione con condizioni iniziali
al tempo t = 0, ci interessa sapere solo ciò che succede per t ≥ 0. È quindi conveniente
considerare una sorta di TF definita da un integrale esteso solo al semiasse delle t > 0.
In tal caso, se f (t) è localmente sommabile, cioè è sommabile su ogni intervallo finito
del semiasse reale t ≥ 0, e se esistono α0 ∈ R, M > 0 e t0 ≥ 0 tali che ∀t > t0 valga
0
e−α t |f (t)| < M (4.37)
la funzione
gα (t) ≡ e−αt f (t)θ(t)
è sommabile sull’intero asse reale ∀α > α0 . Infatti ∀t > t0
−(α−α0 )t −α0 t 0
|gα (t)| = e e f (t) ≤ e−(α−α )t M (4.38)
114
dove il cammino di integrazione γ è una retta parallela all’asse immaginario del pia-
no di s, di equazione Re s=α > α0 . L’antitrasformata (4.42) si indica di solito,
sottintendendo la θ(t), come
Z α+i∞
1
f (t) = F (s)est ds , (4.43)
2πi α−i∞
che per essere più precisi andrebbe scritta come
Z α+iR
1
f (t) = lim F (s)est ds . (4.44)
2πi R→∞ α−iR
Osserviamo subito: si può dimostrare che F (s) = o(1) per s → ∞ in ogni direzione
del semipiano di analiticità. Per t < 0 si può quindi applicare il lemma di Jordan
(vedi caso 4) chiudendo il cammino con una semicirconferenza nel semipiano a destra
di Re s = α, ottenendo f (t) = 0, visto che F (s) è analitica nel semipiano Re s > α0 .
4.2.1 Esempi
• La trasformata di Laplace della funzione f (t) = 1 è
Z ∞
1
F (s) = e−st dt = .
0 s
L’integrale converge per Re(s) > 0 (cioè α0 = 0). Il calcolo dell’integrale (4.43)
mediante il metodo dei residui mostra subito che l’antitrasformata di Laplace di
1/s è θ(t).
• La trasformata di Laplace della funzione f (t) = t è
Z ∞ Z ∞
d ∞ −st
Z
−st ∂ −st d 1 1
F (s) = te dt = − e dt = − e dt = − = 2
0 0 ∂s ds 0 ds s s
115
Tutte le funzioni discusse in questi esempi hanno ascissa di convergenza α0 = 0; la loro
Trasformata di Laplace è perciò analitica in tutto il semipiano Res > 0; nell’esempio
successivo vedremo che non è sempre cosı̀.
Per tutti questi esempi lasciamo allo studente la verifica dell’eq. (4.43). Riflettendo
su questi esempi lo studente si convincerà anche della seguente importante proprietà:
116
come si ottiene integrando per parti:
Z ∞
0
Ls [f (t)] = f 0 (t)e−st dt
0
Z ∞
∞
f (t)e−st 0 f (t)e−st dt
= +s
0
Z ∞
= −f (0) + s f (t)e−st dt = sLs [f (t)] − f (0) .
0
È evidente che qui con f (0) si intende il limite destro di f (x) per x → 0.
Nell’ipotesi che anche le derivate successive di f (t) esistano e ammettano TL,
la relazione (4.45) può essere iterata per ottenere le trasformate delle derivate
successive:
(4.48)
Dalla (4.48) segue che se la funzione f (t) è n volte derivabile e f (n) (t) ammette
TL vale
f (0) f 0 (0) f (n−1) (0) Ls [f (n) ]
Ls [f (t)] = + 2 + ··· + , (4.49)
s s sn sn
che dà utili informazioni sull’andamento per s → ∞ della trasformata di Laplace
(teorema di Tauber) a partire dalla funzione f e dalle sue derivate in t = 0+.
La (4.49) si può verificare anche negli esempi precedenti; la TL di tn è O(s−n−1 )
per grande s perchè vanno a zero tutte le prime n derivate in t = 0. È da notare
che, anche se f (t) ∈ C ∞ , non è affatto detto che la serie che facilmente si deduce
dalla (4.49) converga. In realtà essa è in generale una serie asintotica, che sarà
definita nel corso di Metodi Matematici della Fisica II.
• La trasformata di Laplace dell’integrale di una funzione g(t) è legata alla trasformata di g(t)
dalla relazione:
Z x
1
Ls g(t)dt = Ls [g(x)] . (4.50)
0 s
Partendo dalla formula per la trasformata di Laplace per le derivate (4.45) e ponendo g(x) =
f 0 (x) si ottiene infatti
Z x
f (x) = f (0) + g(t)dt .
0
117
La (4.45) diventa cosı̀:
Z x Z x
Ls [g(x)] = sLs f (0) + g(t)dt − f (0) = sLs [f (0)] + sLs g(t)dt − f (0) .
0 0
ovvero
Z x
Ls [g(x)] = sLs g(t)dt ,
0
• Se l’argomento della funzione f (t) viene traslato di una costante a, per la trasformata di Laplace
vale la seguente relazione:
Z a
as −st
Ls [f (t + a)] = e Ls [f (t)] − θ(a) f (t)e dt . (4.51)
0
Per dimostrare la (4.51) bisogna distinguere i due casi a < 0 e a > 0. Ricordiamo infatti che la
trasformata di Laplace è un integrale tra 0 e ∞ e che è sottintesa una θ(t), che implica f (t) = 0
se t < 0. Quindi
Z ∞ Z ∞
(t0 =t+a) 0
Ls [f (t + a)] = f (t + a)e−st dt = f (t0 )e−s(t −a) dt0
0 a
Z ∞
sa 0 −st0 0
= e f (t )e dt .
a
Ora, se a < 0,
Z ∞ Z ∞
0 −st0 0 0
Ls [f (t + a)] = e sa
f (t )e dt = e sa
f (t0 )e−st dt0 = esa Ls [f (t)] .
a 0
Se invece a > 0,
Z ∞ Z ∞ Z a
0 −st0 0 0 −st0 0 0
Ls [f (t + a)] = e sa
f (t )e
dt = e f (t )e sa
dt − e sa
f (t0 )e−st dt0
a 0 0
Z a
0
= esa Ls [f (t)] − esa f (t0 )e−st dt0 .
0
come si può facilmente verificare derivando sotto il segno la L. Per esempio ricordando che
1
Ls [sin t] =
s2 + 1
segue che
1
Ls [e2t sin t] =
(s − 2)2 + 1
senza un calcolo esplicito della TL.
118
• Se si moltiplica la funzione f (t) per t, la trasformata diventa:
d
Ls [tf (t)] = − Ls [f (t)] ,
ds
come si può facilmente verificare a partire dalle definizioni di L. Notare che,
diversamente da quanto avviene per la TF, qui siamo sempre sicuri che se f (t)
ammette TL anche tn f (t) la ammette, ∀n ∈ N; equivalentemente, ogni TL è
sempre infinitamente derivabile nella sua regione di convergenza, mentre ciò non
1
è affatto detto per la TF (vedi per esempio la TF di a2 +x 2 , par.4.1.1).
u(0) = u0
du
= u1 . (4.55)
dt t=0
119
che dà immediatamente
c2 su0 + c2 u1 + c1 u0 F (s)
U (s) = 2
+ 2
. (4.57)
c2 s + c1 s + c0 c2 s + c1 s + c0
Antitrasformando si ottiene θ(t)u(t). L’antitrasformata del primo addendo dà la solu-
zione generale dell’omogenea associata (interpretando u0 e u1 come parametri liberi),
mentre l’antitrasformata del secondo dà la soluzione particolare dell’inomogenea con
condizioni iniziali u(0) = u0 (0) = 0. Notare che la soluzione cosı̀ ottenuta è parti-
colarmente interessante quando la “sollecitazione esterna” f (t) sia inserita al tempo
t = 0. In questo caso θ(t)u(t) ci dice cosa succede dopo aver chiuso o aperto l’interrut-
tore. Ovviamente la procedura è estendibile a equazioni differenziali lineari di ordine
qualsiasi.
Esempio
Consideriamo il circuito oscillante di Fig. 3.1 e cerchiamo la soluzione dell’equazione
differenziale
du d2 u
u + RC + LC 2 = f (t) (4.58)
dt dt
con le condizioni iniziali
120
Quindi la (4.61) fornisce in questo caso:
V
U (s) = . (4.65)
(s − iω)(1 + RCs + LCs2 )
Per ottenere u(t) dobbiamo antitrasformare la (4.65), che possiede tre poli sem-
plici in
R 1√ R2 4
s0 = iω , s1,2 = − ± ∆ con ∆ = 2
− . (4.66)
2L 2 L LC
Ora, se ∆ > 0, s1 e s2 giacciono
√ sull’asse reale negativo (perché R > 0), se
∗ R i
∆ < 0, s1 = s2 = − 2L + 2 −∆ e se ∆ = 0 i due poli sono reali e coincidenti
(polo doppio). L’antitrasformata di U vale, secondo la (4.43),
Z r+i∞
1
u(t) = est U (s) , con r > 0 (4.67)
2πi r−i∞
ovvero, se s1 6= s2 ,
est
V X
u(t) = Res
LC i=0,1,2 (s − iω)(s − s1 )(s − s2 ) s=si
eiωt es1 t e s2 t
V
= + + .
LC (s1 − iω)(s2 − iω) (s1 − iω)(s1 − s2 ) (s2 − iω)(s2 − s1 )
(4.68)
t→
mentre per +∞ (ovvero
una volta che il condensatore si sia caricato, quindi
1 1 R
per t Res1 = Res2 = 2L ) la tensione ai capi del condensatore si riduce a
121
quella sinusoidale (4.69). Se invece s1 = s2 , U (s) ha un polo doppio in s1 e il
residuo vale
est d est test est es1 t
Res = = − = (s1 t − 1) , (4.70)
s(s − s1 )2 s=s1 ds s s=s1 s s2 s=s1 s21
da cui
s+ RL s+ R L
U (s) = V =V .
s2 + R
Ls +
1
LC
(s − s1 )(s − s2 )
Si noti che, per qualunque valore di ∆, s1 , s2 6= −R/L; quindi non c’è cancellazione fra nume-
ratore e denominatore e U (s) ha sempre due poli semplici (o un polo doppio). Per s1 6= s2 si
ha
( )
X est s + RL
u(t) = V Res
s=s ,s
(s − s1 )(s − s2 )
1 2
122
R
Se invece s1 = s2 = − 2L
( )
est s + R
L d R st
u(t) = Res =V s+ e
(s − s1 )2 ds L s=s1
1 s=s
R
= V 1 + s1 t + t es1 t .
L
u(0) = V
d R
i(t) = CV 1 + s1 t + t es1 t
dt L
R R s1 t
= CV s21 t + s1 t + 2s1 + e
L L
R
⇒ i(0) = 2s1 + =0.
L
In entrambi i casi, per t → +∞ sia la tensione u(t) che la corrente i(t) tendono esponenzialmente
a zero, come ci si aspetta. Anche qui t → +∞ significa t 2L/R.
123
Capitolo 5
Spazi L2 e distribuzioni
Sin dall’inizio del Capitolo 3.2 abbiamo visto l’importante ruolo giocato dalle relazioni
di ortogonalità (3.36) nel calcolo dei coefficienti di Fourier. In questo capitolo torneremo
su questo argomento trattandolo in modo un po’ più approfondito, e ciò ci permetterà
di dare una definizione di convergenza delle serie (e trasformata) di Fourier molto più
generale ed appropriata. Allargheremo inoltre il campo delle funzioni introducendo il
concetto di distribuzione; riusciremo cosı̀ a derivare funzioni anche nei loro punti di
discontinuità di I specie e ad ampliare di molto il campo delle funzioni che ammettono
TF
Z b
(f , g) = f ∗ (x)g(x)dx . (5.1)
a
Per aiutare la memoria, è utile notare l’analogia fra l’integrale (5.1) e la consueta
definizione
X
(f , g) = fi∗ gi . (5.2)
i
di prodotto scalare negli spazi vettoriali (sui complessi) di dimensione finita; negli spazi
funzionali la variabile x gioca un ruolo analogo a quello dell’indice i che individua la
124
componente i-esima; la somma su i è sostituita dall’integrale perché l’indice x corre su
un insieme continuo, l’intervallo [a, b].
L’integrale (5.1) soddisfa le proprietà del prodotto scalare negli spazi unitari (cioè
negli spazi vettoriali su C dotati appunto di prodotto scalare) :
2) Hermiticità:
Z b ∗ Z b
∗ ∗
(f , g) = f (x)g(x)dx = f (x)g ∗ (x)dx = (g, f ) ,
a a
che si riduce alla commutatività nel caso di spazio vettoriale sui reali.
3) Positività1 :
Z b
(f , f ) = |f (x)|2 dx ≥ 0 , (5.3)
a
La radice quadrata del numero non negativo (f , f ) si dice norma del vettore f :
p
kf k = (f , f ) (5.4)
Dalle proprietà 1) e 2) segue che il prodotto scalare (5.1) è antilineare nel primo
fattore:
125
È importante osservare che la definizione (5.1) di prodotto scalare ha senso solo se
le funzioni che consideriamo sono quadrato sommabili cioè se esiste l’integrale (5.3)
che definisce la norma di un vettore2 .
Il prodotto scalare deve ancora soddisfare una proprietà: l’eguaglianza nella (5.3)
deve valere se e solo se f (x) = 0. Ma anche una funzione nulla ovunque tranne che in
in alcuni punti isolati ha norma nulla. Occorre essere precisi al riguardo, e dobbiamo
anche dire che nella definizione di prodotto scalare, e quindi di norma, si deve usare
una generalizzazione dell’integrale di Riemann dovuta a Lebesgue. Per i nostri scopi
non è necessario definire l’integrale di Lebesgue, ma è sufficiente enunciarne alcune
proprietà.
Proprietà A: ogni funzione assolutamente integrabile alla Riemann, in modo
proprio o improprio, lo è anche alla Lebesgue e i due integrali coincidono.
Viceversa, se in un punto x0 ∈ [a, b] una funzione diverge troppo per essere inte-
grabile alla Riemann (per esempio una f (x) = O(xα ) per x → 0, con α ≤ −1, su un
intervallo d’integrazione comprendente l’origine) allora non è nemmeno integrabile alla
Lebesgue. Analogamente, se all’infinito una funzione va a zero troppo lentamente per
essere integrabile alla Riemann su intervallo infinito (per esempio una f (x) = O(xα )
per x → ∞, con α ≥ −1), allora non è nemmeno integrabile alla Lebesgue.
Proprietà B: come per l’integrale di Riemann, ogni funzione assolutamente inte-
grabile è anche integrabile, ma per l’integrale di Lebesgue vale anche il viceversa3 .
Grazie alla proprietà A, per calcolare un integrale alla Lebesgue di fatto si continua a
calcolare il solito integrale di Riemann. Perché allora complicarci la vita con l’integrale
di Lebesgue? La ragione è che esistono delle funzioni piuttosto bizzarre che sono
sommabili, cioè integrabili alla Lebesgue, senza esserlo alla Riemann 4 ; tali funzioni,
del tutto prive di interesse per la fisica, sono però essenziali per rendere completo lo
spazio funzionale, nel senso che preciseremo fra poco.
Un esempio di tali funzioni è la funzione di Dirichlet, cosı̀ definita su tutto l’asse
reale:
1 x∈Q
d(x) =
0 x∈/Q,
dove Q è l’insieme dei numeri razionali. Si può dimostrare che tale funzione, che
evidentemente non è integrabile alla Riemann, è però sommabile e che il suo integrale
di Lebesgue vale zero.
2
È molto facile mostrare che l’esistenza della norma di due vettori implica che anche il loro prodotto
scalare esiste.
3
L’assoluta integrabilità implica l’integrabilità alla Lebesgue solo nell’ipotesi che la funzione sia
misurabile, ma questo è il caso per tutte le funzioni di interesse in fisica; quindi daremo sempre per
scontata la misurabilità, senza nemmeno preoccuparci di definirla.
4
Inoltre l’integrale di Lebesgue gode di proprietà, discusse in Appendice D, che rendono molto più
semplice derivare sotto il segno, scambiare il limite con l’integrale e scambiare l’ordine d’integrazione
in integrali multipli.
126
La funzione di Dirichlet è diversa da zero solo sui razionali, cioè su un’infinità
numerabile di punti; il fatto che il suo integrale si annulli è un caso particolare della
più generale
Proprietà C: Condizione necessaria e sufficiente affinché una funzione a valori
reali non negativi abbia integrale di Lebesgue nullo è che essa sia quasi ovunque nulla
nell’intervallo (finito o infinito) di integrazione; dicendo che una proprietà vale quasi
ovunque (che si abbrevia con q.o.) su un intervallo si intende che l’insieme dei punti
in cui non vale sia di misura nulla, cioè, in pratica, finito o infinito numerabile5 .
Come conseguenza della Proprietà C si può allora affermare che il vettore nullo
(cioè il vettore di norma nulla, che vogliamo sia unico) è rappresentato dall’intera
classe delle funzioni quasi ovunque nulle; analogamente, a ogni vettore dello spazio
astratto corrisponde una classe di funzioni quasi ovunque uguali quadrato sommabili;
tale spazio, dotato del prodotto scalare (5.1), 6 si denota con il simbolo L2 (a, b). Si
denota invece con L(a, b) lo spazio delle funzioni sommabili 7
Se e solo se l’intervallo (a, b) è finito vale L2 (a, b) ⊂ L(a, b), ovvero ogni funzione
quadrato sommabile, su un intervallo finito, è ivi anche sommabile; per convincersene
basta l’identità Z b
f (x) dx = (1, f ) ,
a
dove con 1 intendiamo il vettore corrispondente alla funzione f (x) = 1, che è sommabile
su ogni intervallo finito. Non è invece vero che ogni funzione sommabile sia quadrato
sommabile; per esempio
1
/ L2 (0, 1) .
f (x) = √ ∈ L(0, 1) ma ∈
x
Su intervallo infinito non esiste invece alcuna relazione di inclusione fra L e L2 ; per
esempio
1
f (x) = √ ∈ L2 (0, ∞) ma ∈ / L(0, ∞) .
1+x 2
127
Un sistema di funzioni {φi (x)} ∈ L2 (a, b) si definisce ortonormale (ON) se
Z b
(φi , φk ) = φ∗i (x)φk (x)dx = δik , ∀i, k .
a
Sia {φ1 φ2 ..., φn } un sistema ortonormale finito di L2 (a, b) e sia f (x) ∈ L2 (a, b)
definita da:
n
X
f (x) = ck φk (x) (5.6)
k=1
Questo risultato era ovviamente atteso, poiché stiamo lavorando in uno spazio a nu-
mero finito di dimensioni, la varietà n-dimensionale generata dai vettori φ1 , · · · φn . In
L2 (a, b) esistono però sistemi ON formati da un’infinità numerabile di vettori; per
esempio la eq.(3.36) mostra che in L2 (0, 2π) le funzioni trigonometriche (in forma
esponenziale)
eilx
φl (x) = √ (5.9)
2π
formano un sistema ON infinito numerabile. Per estendere la (5.6) al caso in cui n
sia infinito, bisogna affrontare il problema della convergenza della serie, e questo è
l’argomento centrale di questo paragrafo.
Se {φi , i = 1, 2, ...} è un insieme infinito numerabile di funzioni ortonormali di
L (a, b) e ∀f (x) ∈ L2 (a, b), consideriamo dapprima la proiezione ortogonale fN del
2
con
Z b
ci = (φi , f ) ≡ φ∗i (x)f (x)dx, (5.11)
a
128
e si dice ridotta N -esima dello sviluppo in serie di Fourier del vettore f nel sistema
{φi }, mentre le costanti ci sono i coefficienti di Fourier dello sviluppo.
Dimostriamo innanzitutto la seguente disuguaglianza, detta disuguaglianza di
Bessel: ∞
X
|ck |2 ≤ (f , f ) . (5.12)
k=1
Da
kf − fN k2 ≥ 0 (5.13)
segue che
N
X N
X
kf − fN k2 = (f , f ) + c∗k cl (φk , φl ) − [ck (f , φk ) + c∗k (φk , f )]
k,l=1 k=1
N
X N
X
= (f , f ) + |ck |2 − (ck c∗k + c∗k ck )
k=1 k=1
N
X
= (f , f ) − |ck |2 ≥ 0 ,
k=1
da cui
N
X
|ck |2 ≤ (f , f ) .
k=1
Questo risultato vale per qualunque N . Facendo tendere N a infinito si ottiene infine la
disuguaglianza di Bessel (5.12): la serie dei moduli quadrati dei coefficienti di Fourier
di un vettore f è minore o uguale alla norma quadrata del vettore.
Se il sistema di vettori {φk } è tale che la disuguaglianza di Bessel vale con il segno
= per ogni f , allora il sistema di vettori {φk } si dice completo e costituisce una base
ON in L2 (a, b). La (5.12) diventa allora
∞
X
|ck |2 = (f , f ) (5.14)
k=1
129
Uno spazio unitario infinito dimensionale in cui esista un sistema ON completo
infinito numerabile si dice separabile; si può dimostrare che L2 (a, b) è separabile,
qualunque sia l’intervallo (a, b), finito o infinito; in particolare per (a, b) = (0, 2π) un
sistema completo è dato dalle funzioni trigonometriche (5.9). Per aiutare la memoria
si può dire, in modo molto rozzo, che uno spazio separabile ha dimensione infinita
numerabile.
L’equazione di Parseval ci permette anche di dare un senso preciso alla convergenza
della serie di Fourier. Infatti da:
N
X
kf − fN k2 = (f , f ) − |ck |2 (5.15)
k=1
lim kf − fN k2 = 0. (5.16)
N →∞
Per definizione di limite nello spazio vettoriale astratto , l’equazione (5.16) è equiva-
lente alla scrittura:
∞
X
f = lim fN = ck φk . (5.17)
N →∞
k=1
Abbiamo cosı̀ definito la somma della serie di Fourier nello spazio vettoriale astratto;
in termini di funzioni la (5.16) significa:
Z b
lim |f (x) − fN (x)|2 dx = 0, (5.18)
N →∞ a
dove la ridotta N -esima della serie di Fourier è data dalla (5.10) con i coefficienti (5.11).
La (5.18) si abbrevia nel modo seguente:
dove l.i.m. si legge per limite in media quadratica. La convergenza della serie
di Fourier si può quindi esprimere nei 5 modi (5.14), (5.16), (5.17), (5.18), (5.19)
perfettamente equivalenti.
Molto spesso si scrive più semplicemente (e lo faremo anche noi):
∞
X
f (x) = ci φi (x), (5.20)
i=1
130
non convergere, o convergere a un valore diverso dal numero complesso f (x); infatti le
eq. (5.18) o (5.19) non ci dicono assolutamente nulla della convergenza puntuale della
serie a secondo membro della eq.(5.20), come era da aspettarsi, visto che la funzione
f (x) è solo un rappresentante all’interno di una classe di funzioni quasi ovunque uguali;
quindi, per esempio, se in un punto x0 si aggiunge a f (x0 ) una costante, non cambia
nulla nei coefficienti di Fourier ci dati dalla (5.11) e quindi nel secondo membro della
eq.(5.20), ma ovviamente cambia il primo membro.
La convergenza (5.19) richiede solo che f ∈ L2 (a, b) e che il sistema {φi } sia ONC;
la convergenza puntuale della (5.20) in uno specifico punto x0 ∈ [a, b] richiede invece
tutt’altre condizioni su f , discusse nel Cap. 3.2.
Si può dimostrare che lo spazio L2 (a, P b) è completo 8 , cioè che per ogni infinità
numerabile di numeri complessi ci tali che i |ci |2 < ∞, esiste una f ∈ L2 (a, b) tale che
P
f = ci φi (È per questa dimostrazione che è importante che l’integrale sia di Lebesgue
e che vengano quindi incluse nello spazio funzionale anche funzioni non integrabili alla
Riemann).
Uno spazio vettoriale sui complessi, dotato di prodotto scalare e completo, si dice
spazio di Hilbert.
La completezza di uno spazio, in particolare dello spazio L2 (a, b), e la sua separa-
bilità, permettono di stabilire una corrispondenza biunivoca fra i suoi elementi f e gli
insiemi infiniti numerabili dei loro coefficienti di Fourier ci , che possiamo considerare
come le componenti di un vettore rispetto alla base φi prefissata.
P È facile mostrare P che tale corrispondenza conserva i prodotti scalari: se f (x) =
i ci φi e g(x) = i di φi , allora
∞
Z b ! ∞ ∞
X X X
∗ ∗
(f , g) = f (x)g(x) dx = ci φi , g = ci (φi , g) = c∗i di , (5.21)
a i=1 i=1 i=1
dove si sono usate l’antilinearità e la continuità9 del prodotto scalare nel primo fattore.
Quindi tutti gli spazi di Hilbert separabili (infinito dimensionali), in particolare gli
spazi L2 (a, b), sono isomorfi fra loro e con lo spazio di Hilbert delle componenti, i
cui
P∞elementi sono i vettori colonna di componenti ci , con i = 1, 2, .., con il vincolo
2
|c
i=1 i | < ∞; le proprietà di uno spazio si traducono in corrispondenti proprietà
dell’altro.
131
possono essere realizzati da spazi di funzioni quadrato sommabili. È quindi concettual-
mente molto importante estendere la definizione di Trasformata di Fourier, che nella
sua forma (4.7) si applica solo a f (x) ∈ L(R), anche a f (x) ∈ L2 (R).
Su intervallo infinito una funzione può essere quadrato sommabile senza essere
sommabile (vedi esempio 5.6 in Appendice D), ma su intervallo finito L2 (a, b) ⊂ L(a, b);
quindi per una generica f (x) ∈ L2 (R) l’integrale
Z N
1
√ e−ikx f (x)dx = FN (k) (5.22)
2π −N
esiste certamente, ma non è detto che ne esista il limite (puntuale) per N → ∞. Si
può invece dimostrare che ∀f (x) ∈ L2 (R) esiste sempre una F (k) ∈ L2 (R) tale che
Si può anche dimostrare che la f (x) è la antitrasformata di Fourier della F (k) nello
stesso senso di media quadratica, ovvero
Z +∞
f (x) = l . i . m. fN (x) ⇔ lim |f (x) − fN (x)|2 dx = 0 , (5.24)
N →∞ N →∞ ∞
dove
Z N
1
fN (x) = √ eikx F (k) dk . (5.25)
2π −N
anche per f (x) ∈ L2 , ma la scrittura corretta è data dalle equazioni (5.22), (5.23),
(5.24),T (5.25). Naturalmente le (5.26) sono anche formalmente corrette se f (x) ∈
L(R) L2 (R), F (k) ∈ L(R) e f (x) è di classe C 1 nel punto x. Come lo sviluppo
in serie di Fourier, anche la Trasformata di Fourier conserva i prodotti scalari (ha
senso parlare di questi perché lavoriamo in L2 ); vale cioè l’uguaglianza di Parseval
generalizzata Z +∞ Z +∞
∗
F (k)G(k) dk = f ∗ (x)g(x) dx , (5.27)
−∞ −∞
132
La dimostrazione è immediata10 , usando il teorema di Fubini Tonelli (vedi Appen-
dice D) per scambiare l’ordine di integrazione:
Z ∞ Z +∞ Z +∞
∗ 1 ∗
F (k)G(k) dk = √ dk F (k) dx e−ikx g(x)
−∞ 2π −∞ −∞
Z +∞ Z +∞ ∗ Z +∞
1
=√ dx g(x) dk e−ikx F ∗ (k) = f ∗ (x)g(x) dx .
2π −∞ −∞ −∞
Esempio
La trasformata di Fourier della funzione
f (t) = e−t/T sin(ω0 t)θ(t) ,
che descrive il moto di un oscillatore armonico smorzato, è
Z ∞ Z ∞
1 −iωt 1
F (ω) = √ f (t)e dt = √ e−t/T sin(ω0 t)e−iωt dt
2π −∞ 2π 0
Z ∞ Z ∞
1 (−1/T −iω+iω0 )t (−1/T −iω−iω0 )t
= √ e dt − e dt
2i 2π 0 0
1 1 1
= √ − ,
2i 2π 1/T + i(ω − ω0 ) 1/T + i(ω + ω0 )
cioè
1 1 1
F (ω) = √ − .
2 2π (ω + ω0 ) − i/T (ω − ω0 ) − i/T
Per dare un’interpretazione fisica alle funzioni f (t) e F (ω), supponiamo che f (t)
sia il campo elettrico di un’onda irradiata. RAllora la potenza irradiata è W ∝ |f (t)|2 e
∞
l’energia totale irradiata è proporzionale a 0 |f (t)|2 dt. Dal teorema di Parseval
Z ∞ Z ∞
2
|f (t)| dt = |F (ω)|2 dω .
0 −∞
Quindi |F (ω)|2 rappresenta (a meno di costanti) l’energia irradiata per intervallo uni-
tario di frequenza:
1 ω02
|F (ω)|2 = .
2π (ω 2 − ω 2 )2 + 2 ω02 +ω 2
+ 1
0 T2 T4
10
Per semplicità qui si usano le ipotesi (non necessarie) che g(x) sia anche sommabile e valga
puntualmente la (4.6).
133
Se T è molto grande (T ω0−1 ), l’energia irradiata per intervallo unitario di frequenza
è fortemente piccata in ω = ω0 e la larghezza del picco è inversamente proporzionale a
T:
2 ω02 T 2
|F (ω)| ' 2 .
(ω0 − ω 2 )2 T 2 + 2(ω02 + ω 2 )
Z b
xn xm dx 6= 0 (5.31)
a
anche per n 6= m.
È possibile tuttavia ortogonalizzarlo, passando dalle funzioni xn a loro combinazioni
lineari, che saranno polinomi Pn (x), costruiti in modo tale che11
Z b
Pn (x)Pm (x)dx = hn δnm .
a
11
Per ragioni di comodità e tradizione non sempre le costanti positive hn sono scelte uguali a 1.
134
A questo scopo si sceglie P0 (x) = 1, si pone P1 (x) = x + α e si fissa α in modo che
P1 (x) sia ortogonale a P0 (x); poi si pone P2 (x) = x2 + βx + γ e si fissano β e γ in modo
che P2 (x) sia ortogonale a P1 (x) e a P0 (x), e cosı̀ via. È ovvio che i coefficienti α, β,
γ ... dipenderanno dall’intervallo (a, b) che definisce L2 (a, b); inoltre i polinomi Pn (x)
cosı̀ ottenuti potranno essere moltiplicati per opportune costanti per normalizzarli a 1
o a un’altra costante hn a scelta.
Il sistema di polinomi ortogonali cosı̀ ottenuto è completo in L2 (a, b). Di con-
seguenza ogni funzione f (x) ∈ L2 (a, b) può essere approssimata in media quadratica,
bene quanto si vuole, con una serie di polinomi ortogonali:
∞
X
f (x) = αn Pn (x) .
n=0
dove si è integrato n volte per parti tenendo conto che i contributi negli estremi si
annullano poiché +1
dl 2
n
(x − 1) = 0 per ogni l ≤ n − 1 , (5.35)
dxl −1
e accorgersi che
dn
Pm (x) = 0 ∀n ≥ m + 1 . (5.36)
dxn
Dalla (5.32) segue che i primi polinomi di Legendre sono
1
P0 (x) = 1 , P1 (x) = x , P2 (x) = (3x2 − 1) , · · · .
2
Inoltre è facile dimostrare che i polinomi di Legendre obbediscono all’equazione
differenziale di Legendre
135
che si può scrivere nella forma compatta
d 2 d
Lx Pn (x) = λn Pn (x) con Lx = (x − 1) e λn = n(n + 1) . (5.38)
dx dx
d 2 d
Dimostrazione: Fn (x) = dx (x − 1) dx Pn (x) è ancora evidentemente un polinomio
di grado n; può quindi essere scritto nella forma
n
X (n)
Fn (x) = αl Pl (x) (5.39)
l=0
(n)
con gli αl proporzionali a
Z 1 Z 1
d d
dxPl (x)Fn (x) = dxPl (x) (x2 − 1) Pn (x)
−1 −1 dx dx
Z 1 Z 1
2 d d
= − dx (x − 1) Pl (x) Pn (x) = dxFl (x)Pn (x) ,
−1 dx dx −1
Z +∞ √
2
e−x Hm (x)Hn (x)dx = 2n n! πδmn .
−∞
L’ortogonalità dei polinomi dati dalla (5.40) si dimostra come per i polinomi di
Legendre. I primi polinomi di Hermite sono
136
H0 (x) = 1 , H1 (x) = 2x , H2 (x) = 4x2 − 2 · · · .
L’equazione differenziale a cui obbediscono i polinomi (5.40) è l’equazione diffe-
renziale di Hermite:
137
Un operatore hermitiano ha autovalori reali, i suoi autovettori corrispondenti a autova-
lori differenti sono ortogonali, e si possono scegliere gli autovettori in modo da formare
una base completa ortonormale dello spazio.
Nel caso dello spazio di Hilbert infinito dimensionale che stiamo studiando un
operatore differenziale L è autoaggiunto se
(u, Lv) = (Lu, v) ≡ (v, Lu)∗ , (5.45)
∀u, v nel dominio di definizione di L. Questa proprietà non dipende solo da L ma
anche dal suo dominio. Infatti il dominio di L deve comprendere solo quelle funzioni
che, oltre a essere derivabili quanto basta, sono anche limitate e quadrato sommabili,
cosicché si possa ripetutamente integrare per parti in modo da poter dimostrare la
(5.45). Per esempio su L2 (R) l’operatore differenziale di cui le funzioni associate di
Hermite sono autofunzioni (autovettori) è autoaggiunto:
Z +∞ Z +∞
d2
∗ ∗ 2
(u, Lv) = u (x)Lx v(x) dx = u (x) − 2 + x v(x) dx
−∞ −∞ dx
Z +∞ 2
∗
d
= − 2 + x2 u(x) v(x) dx .
−∞ dx
d
Lo stesso vale anche per l’operatore in (5.38) (verificare per esercizio) e per Lx = −i dx ,
iλx
le cui autofunzioni sono esponenziali complessi e , con condizioni al contorno
periodiche u(π) = u(−π). Infatti
Z +π
d
(u, Lv) = ∗
dx u (x) −i v(x) = −i u∗ (x)v(x)|+π−π
−π dx
Z +π Z +π ∗
d ∗ d
+ dx i u (x) v(x) = dx −i u(x) v(x)
−π dx −π dx
= (Lu, v) .
Notare l’importanza delle condizioni al contorno periodiche per l’annullarsi del contri-
buto agli estremi nell’integrazione per parti. Confrontando (φn , Lφn ) = λn (φn , φn )
con la sua complessa coniugata e usando la (5.45) si vede subito che
• gli autovalori di un operatore autoaggiunto sono reali.
È anche facile dimostrare che
• l’insieme delle autofunzioni degli operatori autoaggiunti è ortogonale:
da
Lφn = λn φn , Lφm = λm φm ,
moltiplicando scalarmente la prima equazione per φm e la seconda per φn , usando la
(5.45) e sottraendo dalla prima equazione il complesso coniugato della seconda segue
0 = (λn − λm ) (φn , φm )
138
da cui
(φn , φm ) = 0 se λn 6= λm . (5.46)
Notare che queste due proprietà sono identiche a quelle degli operatori (matrici) her-
mitiani negli spazi unitari finito dimensionali. Il discorso invece sulla completezza dei
sistemi di autofunzioni di un operatore autoaggiunto in uno spazio infinito dimensiona-
le è molto più delicato e non sarà affrontato qui: ci limitiamo a dire che tale sistema è
generalmente completo, come negli esempi visti qui (polinomi di Legendre in L2 (−1, 1),
funzioni associate di Hermite in L2 (R), sistema trigonometrico in L2 (−π, π)), ma ciò
non è sempre vero. Perché il sistema di autofunzioni di un operatore autoaggiunto sia
completo è talvolta necessario includervi autofunzioni generalizzate, rappresentate da
“distribuzioni” anziché da funzioni quadrato sommabili; daremo un esempio nel pros-
simo paragrafo. Vogliamo terminare questo paragrafo sottolineando l’importanza delle
condizioni al contorno. Per esempio l’equazione
d
−i u(x) = λu(x) (5.47)
dx
ammette la soluzione eiλx per ogni λ ∈ C; è solo la richiesta di periodicità u(π) = u(−π)
che seleziona i λ ∈ Z, e questa ci dà una base ortogonale in L2 (−π, π); sull’intervallo
(−∞, +∞) i valori reali di λ sono selezionati dalla richiesta che u(x) sia limitata su
tutto l’asse reale.
139
60
40
20
dove Z +N
1 1 sin N t
dN (t) = dk e−ikt = . (5.51)
2π −N π t
Ovviamente non ha senso scambiare il limite con l’integrale poiché il limite puntuale
per N → ∞ di dN (t) non esiste. Tuttavia si può scrivere
dove la “funzione δ di Dirac” non è una funzione ma un nuovo oggetto chiamato di-
stribuzione; il limite è inteso “in senso debole” o “nel senso delle distribuzioni”
e significa esattamente la eq. (5.50); per dare senso alla (5.52) si deve cioè moltiplicare
per una “funzione di prova” (che per comodità in matematica si sceglie infinitamente
derivabile e decrescente all’infinito più rapidamente di ogni potenza; chiamiamo S lo
spazio lineare di tali funzioni di prova), integrare sulla variabile e poi fare il limite. Si
scrive allora per ogni funzione di prova g(x)
Z +∞ Z +∞
lim dy dN (y − x) g(y) = δ(y − x) g(y) dy = g(x) . (5.53)
N →∞ −∞ −∞
140
va intesa come definizione della δ di Dirac, dove il segno di integrale è puramente
simbolico. Simbolicamente si scrive anche
Z +∞
1 sin N t 1
δ(t) = lim = dk e−ikt , (5.55)
N →∞ π t 2π −∞
dove il limite (anche degli estremi di integrazione) va inteso in senso debole; si deve
cioè prima moltiplicare per una funzione di t, integrare su t, e poi integrare su k. Più
in generale la δ di Dirac non è che un esempio (il più importante) di distribuzione,
definita nel modo seguente:
• una distribuzione (temperata) T è un funzionale lineare continuo sullo spazio S
delle funzioni di prova, cioè un’applicazione lineare continua12 di S in C:
T : S→C (5.56)
che si indica con la notazione seguente:
T : g 7→ (T, g) ∈ C , (5.57)
dove g è una qualsiasi funzione di prova.
Il simbolo (T, g) richiama quello di prodotto scalare, e infatti in fisica si scrive abitual-
mente Z +∞
(T, g) ≡ T (x)∗ g(x)dx ; (5.58)
−∞
tuttavia l’integrale a secondo membro non sempre è un vero integrale (di Lebesgue); lo
è se, per esempio, T (x) e g(x) sono entrambe funzioni quadrato sommabili. Nella teoria
delle distribuzioni g(x) è una funzione non solo quadrato sommabile ma che va a zero
più rapidamente di 1/xn , ∀n ∈ N (S ⊂ L2 (R)); in compenso non è necessario che T (x)
sia quadrato sommabile; basta che sia localmente sommabile e non troppo crescente
per x → ±∞ (ci pensa g(x) ad assicurare la convergenza dell’integrale) o addirittura,
come nel caso della δ di Dirac, non è nemmeno necessario che sia una funzione; in
quest’ultimo caso la (5.58) non è che un modo simbolico di scrivere la (5.57), dove la
prescrizione per associare ad ogni g ∈ S il numero complesso (T, g) è data in qualche
altro modo, per esempio per la δ di Dirac
δ : g 7→ g(0) ∈ C , ∀g(x) ∈ S (5.59)
che i fisici scrivono nella forma (5.54). Il concetto di distribuzione generalizza quindi
quello di funzione (i russi chiamano le distribuzioni funzioni generalizzate). La δ di Di-
rac può essere rappresentata come limite debole di una successione non solo mediante
la (5.55)ma in molti altri modi. Per ogni funzione D(x) ∈ L(R) e tale che
Z +∞
D(x) dx = 1 (5.60)
−∞
12
Per dare un senso compiuto all’aggettivo “continua” dovremmo definire il concetto di limite in S,
che è molto più forte del semplice limite puntuale, ma non abbiamo tempo di farlo qui.
141
si può provare
δ(x) = lim N D(N x) debole; (5.61)
N →∞
basta infatti moltiplicare per una funzione di prova qualsiasi g(x) e integrare per
ottenere
Z +∞ Z +∞ Z +∞ y
δ(x)g(x)dx = lim N D(N x)g(x)dx = lim D(y)g dy
−∞ N →∞ −∞ N →∞ −∞ N
= g(0) , (5.62)
dove:
a) si è prima integrato e poi preso il limite, in accordo con la definizione di limite
debole;
b) si è fatto il limite sotto il segno usando il teorema (D.1) dell’Appendice D, tenendo
conto che g ∈ S ⇒ ∃M > 0/|g(x)| < M, ∀x ∈ R e quindi che |D(y)g(y/N )| <
M |D(y)|.
Tra le possibili rappresentazioni della delta di Dirac citiamo le seguenti (dove si è anche
posto = N1 ):
1 2 N 2 1 2 2
1. D(x) = √ e−x ⇒ δ(x) = lim √ e−(N x) = lim √ e−x / (5.63)
π N →∞ π →0+ π
0 x < − 12 0 x < − 2N1
/ − 2 , 2
0 x∈
= lim 1
→0+
x ∈ − 2 , 2
(5.64)
1 1 N 1 1
3. D(x) = 2
⇒ δ(x) = lim 2
= lim
π x +1 N →∞ π (N x) + 1 →0+ π x + 2
2
(5.65)
È importante osservare che il limite debole nella (5.61) non ha niente a che fare con il
limite puntuale, che ha tuttavia importanza storica poiché esso coincide con la defini-
zione intuitiva data da Dirac alla sua funzione δ: “una funzione che è nulla dappertutto
salvo che nell’origine, dove
R +∞ vale infinito, in modo tale che il suo integrale sull’asse reale
valga uno” (notare che −∞ N D(N x)dx = 1, ∀N ). Ritornando al “prodotto scalare”
φλ , φµ , con φλ (x) = eiλx , si può quindi scrivere
φλ , φµ = 2πδ(λ − µ) , (5.66)
142
che generalizza a intervallo infinito la relazione di ortogonalità in L2 (−π, π)
con φl (x) = eilx . La δ di Dirac può quindi essere vista come generalizzazione della δ di
Krönecker a indice continuo; si confrontino anche le proprietà caratteristiche
Enunciamo ora un’importante proprietà della delta di Dirac. Sia f (x) una funzione con n zeri semplici:
Allora:
n
X δ(x − xi )
δ(f (x)) =
df . (5.70)
i=1 dx
x=xi
come si dimostra moltiplicando ambo i membri per una qualsiasi funzione di prova g(x)
e integrando su x.
• Ogni distribuzione T è infinitamente derivabile secondo la definizione
dT dg
, g = − T, , (5.73)
dx dx
che è la generalizzazione dell’identità
Z +∞ Z +∞
dT ∗ dg
g(x)dx = − T ∗ (x) dx (5.74)
−∞ dx −∞ dx
143
valida per ogni funzione di prova g ∈ S se T ∈ L C 1 (nell’integrazione per parti
T
il contributo agli estremi sparisce perché g(x) va rapidamente a zero per x → ±∞).
La definizione (5.74) di derivata generalizzata permette di derivare nel senso del-
le distribuzioni anche funzioni non derivabili in senso ordinario, purché localmente
sommabili. Per esempio è possibile derivare anche funzioni dotate di discontinuità di
prima specie, il cui esempo paradigmatico è la funzione θ di Heaviside:
dθ
= δ(x) (5.75)
dx
nel senso delle distribuzioni13 . Infatti,
Z ∞ Z ∞ Z ∞
dθ
g(x)dx = − 0
θ(x)g (x)dx = − g 0 (x)dx = − g(x)|+∞
0 = g(0) .
−∞ dx −∞ 0
(5.76)
• La derivata nel senso delle distribuzioni è continua rispetto al limite debole:
dT dTn
T = lim Tn debole ⇒ = lim debole . (5.77)
n→∞ dx n→∞ dx
La (5.77) fornisce un altro modo per ricavare la (5.75): partendo dalla rappresentazione
1 1 x
θ(x) = + lim arctan ; (5.78)
2 →0+ π
della θ di Heaviside, derivando ambo i membri e scambiando il limite con la derivata
(il che è sempre lecito solo nel senso delle distribuzioni) si ottiene la rappresentazione
(5.65) della δ.
• Ogni distribuzione temperata T ammette Trasformata di Foruier, secondo la
definizione:
(Fk (T ), Fk (g)) ≡ (T, g) , ∀g ∈ S (5.79)
che generalizza l’analoga identità (5.27) valida per funzioni quadrato sommabili. La
definizione (5.79) è sensata poiché, come dimostrato nel paragrafo 4.1.2, la trasformata
di Fourier manda lo spazio S in se stesso, quindi Fk (g) ∈ S, ∀g ∈ S, e quindi Fk (T ) è
a sua volta una distribuzione temperata. Grazie alla definizione (5.79) si può calcolare
la TF anche di funzioni che non siano né sommabili né quadrato sommabili su R;
basta che siano localmente sommabili e “non troppo crescenti”14 . In particolare si può
13 dθ
In senso ordinario vale invece dx =q.o. 0.
14
Non si può invece calcolare la TF di funzioni f che all’infinito crescano più di ogni potenza, per
esempio esponenzialmente; queste infatti non sono distribuzioni temperate e per dare senso a
Z +∞
(f, g) = f ∗ (x)g(x)dx (5.80)
−∞
bisognerebbe usare funzioni di prova “a supporto compatto” che non sono però mandate in se stesse
dalla TF
144
calcolare la TF F (k) della funzione f (x) = eik0 x (k0 ∈ R); detta
Z +∞
1
G(k) = √ e−ikx g(x)dx (5.81)
2π −∞
la TF di g(x), per la (5.79) abbiamo
Z +∞ √
(F, G) = (f, g) = e−ik0 x g(x)dx = 2πG(k0 ) , (5.82)
−∞
da cui si deduce √
F (k) ≡ Fk eik0 x = 2πδ(k − k0 ) . (5.83)
√
Per k0 = 0 la TF di f (x) = 1 è 2πδ(k). Viceversa scegliendo f (x) = δ(x − x0 ) la
catena di identità
Z +∞ Z +∞
1
(F, G) = (f, g) = δ(x − x0 )g(x)dx = g(x0 ) = √ eikx0 G(k)dk (5.84)
−∞ 2π −∞
implica
1
F (k) ≡ Fk (δ(x − x0 )) = √ e−ikx0 . (5.85)
2π
Notare che le (5.83) e (5.85) potevano anche essere dedotte (in modo rozzo e scorretto
ma mnemonicamente efficace) scrivendo semplicemente
Z +∞
1
F (k) = √ e−ikx f (x)dx (5.86)
2π −∞
ed utilizzando rispettivamente la rappresentazione (5.55) della δ di Dirac e la sua
definzione (5.53). Invitiamo lo studente a verificare che tale modo diventa corretto se
si usano invece i limiti deboli
2 /N 2
eik0 x = lim eik0 x e−x
N →∞
N 2 2
δ(x − x0 ) = lim √ e−N x ,
N →∞ π
la TF della gaussiana (4.14), e la proprietà:
• La TF nel senso delle distribuzioni è continua rispetto al limite debole:
T = lim TN debole ⇒ F(T ) = lim F(TN ) debole . (5.87)
N →∞ N →∞
Usando infatti le (5.87) l’integrale (5.86) acquista senso proprio, poiché il suo integrando
diventa sommabile.
Da quanto abbiamo sommariamente detto si deduce che la TF è lo strumento più
utile per risolvere equazioni differenziali a coefficienti costanti, purché venga
estesa alle distribuzioni temperate. L’unica delle tecniche discusse in questo corso che
non venga del tutto riassorbita dalla TF estesa alle distribuzioni è la Trasformata di
Laplace, che permette anche di studiare soluzioni che crescono esponenzialmente per
t → ∞ (di solito per evitarle!).
145
Appendice A
Funzioni armoniche
Una funzione di due variabili g(x, y) si dice armonica se soddisfa l’equazione di Laplace
42 g(x, y) = 0 , (A.1)
∂u(x, y) ∂v(x, y)
= (A.2)
∂x ∂y
∂u(x, y) ∂v(x, y)
= − (A.3)
∂y ∂x
Derivando la (A.2) rispetto a x e la (A.3) rispetto a y si ottiene
∂ 2 u(x, y) ∂ 2 v(x, y)
=
∂x2 ∂x∂y
2
∂ u(x, y) ∂ 2 v(x, y) ∂ 2 v(x, y)
= − = − .
∂y 2 ∂y∂x ∂x∂y
Nell’ultima equazione è lecito scambiare l’ordine di derivazione perché v(x, y) è di classe
C 2 . Sottraendo membro a membro le precedenti equazioni si ottiene:
1
In realtà questa condizione è sempre soddisfatta perché ogni funzione analitica è infinitamente
derivabile.
146
∂ 2 u(x, y) ∂ 2 u(x, y)
+ = 4u(x, y) = 0 .
∂x2 ∂y 2
[q.e.d.]
Data una funzione u(x, y) armonica in una certa regione del piano (x, y) è possibile
costruire (a meno di una costante) la corrispondente funzione armonica v(x, y) tale che
f (z) = u(x, y) + iv(x, y) sia analitica. Infatti, nota u, le condizioni di Cauchy-Riemann
ci consentono di ricavare le derivate parziali vx0 e vy0 e da queste, integrando, la funzione
v(x, y).
Esempio 1
Sia
∂u(x, y) ∂u(x, y)
= − sin xe−y , = − cos xe−y
∂x ∂y
∂ 2 u(x, y) ∂ 2 u(x, y)
= − cos xe−y , = cos xe−y
∂x2 ∂y 2
∂v(x, y) ∂u(x, y)
= = − sin xe−y (A.4)
∂y ∂x
∂v(x, y) ∂u(x, y)
= − = cos xe−y . (A.5)
∂x ∂y
147
Sostituendo quest’ultima nella (A.5)
∂v(x, y)
= cos xe−y + g 0 (x) = cos xe−y .
∂x
Pertanto
f (z) = u(x, y) + iv(x, y) = cos xe−y + i sin xe−y = eix−y = ei(x+iy) = eiz ,
analitica in tutto C.
Esempio 2
La funzione
u(x, y) = x2 − y 2
è armonica. Infatti
Pertanto
Esempio 3
La funzione
x
u(x, y) =
x2 + y2
y 2 − x2 2x(x2 − 3y 2 )
u0x = 2 , u00xx =
(x + y 2 )2 (x2 + y 2 )3
148
Figura A.1: Mappa conforme.
−2xy −2x(x2 − 3y 2 )
u0y = , u00yy = = −u00xx .
(x2 + y 2 )2 (x2 + y 2 )3
Dalle CR:
Z
2xy 2xy
vx0 = −u0y = 2 ⇒ v(x, y) = dx + g(y)
(x + y 2 )2 (x2
+ y 2 )2
y
= − 2 + g(y) .
x + y2
Per fissare g(y) usiamo l’altra condizione di CR:
1 2y 2
vx0 = − + + g 0 (y)
x2 + y 2 (x2 + y 2 )2
y 2 − x2 0 0 y 2 − x2
= + g (y) = ux = 2
(x2 + y 2 )2 (x + y 2 )2
⇒ g(y) = K .
Quindi
x y
f (z) = u(x, y) + iv(x, y) = −i 2 + iK
x2 +y 2 x + y2
z∗ 1
= + iK = + iK , K∈R.
|z|2 z
Esiste uno stretto legame tra funzioni analitiche e armoniche, per le quali valgono
teoremi simili a quelli che abbiamo visto nella prima parte. Le funzioni armoniche
149
compaiono in molti problemi fisici. In elettrostatica nel vuoto abbiamo ∇ ~ ·E~ = 0 e il
campo elettrico può essere scritto come E ~ = −∇V ~ , da cui ∆V = 0. Anche un fluido
incompressibile in assenza di vortici è descritto da un potenziale di flusso che soddisfa
l’equazione di Laplace, e quindi è una funzione armonica.
∇u ~ = ∂u ∂v + ∂u ∂v = 0
~ · ∇v (A.6)
∂x ∂x ∂y ∂y
e si dice che u e v sono funzioni armoniche coniugate. Poichè il gradiente è perpendi-
colare alle linee su cui la funzione è costante, questo implica che le curve di u = cost
sono localmente perpendicolari a quelle di v = cost, vedi Fig.(A.1), esattamente come
perpendicolari sono le rette x = cost e y = cost nel piano complesso di partenza. At-
traverso la funzione analitica f (z) = u(x, y) + iv(x, y) si realizza pertanto una mappa
conforme (che rispetta localmente gli angoli) del piano complesso (x, y) nel piano (u, v).
150
Appendice B
C = {z ∈ S / |z − z0 | = r} ,
allora
Z 2π
1
f (z0 ) = f [z(ϕ)]dϕ ∀z ∈ C . (B.1)
2π 0
da cui segue
2π 2π
z − z0
Z Z
1 1
f (z0 ) = i f [z(ϕ)]dϕ = f [z(ϕ)] dϕ .
2πi 0 z − z0 2π 0
[q.e.d.]
2. Teorema
Né la parte reale né la parte immaginaria di una funzione f (z) = u(x, y) + iv(x, y)
analitica in un dominio D s.c. possono avere estremi all’interno di D.
151
Dimostrazione: dimostriamo il teorema per la parte reale u(x, y). La dimostrazione
è analoga per v(x, y). Sia z0 un punto interno a D, tale cioè che esista un intorno I(z0 )
tutto contenuto in D. Mostriamo che possono esistere solo due alternative:
cioè in qualunque intorno di z0 la funzione u assume valori sia maggiori che minori di
u(z0 ).
Neghiamo infatti l’alternativa b), ammettiamo cioè che esista un intorno I(z0 ) ⊂ D
tale che ∀z ∈ I(z0 ) sia, per esempio, u(z) ≥ u(z0 ). Dalla parte reale del principio della
media (B.1) segue allora che
Z 2π
1
u(z0 ) = u[z(ϕ)]dϕ . (B.2)
2π 0
D’altra parte è vera la relazione
Z 2π
1
u(z0 ) = u(z0 )dϕ . (B.3)
2π 0
che implica, poiché la funzione integranda è per ipotesi continua e non negativa,
u(z) = u(z0 )
Z 2π
{u(z0 ) − u[z(ϕ)]}dϕ = 0;
0
poiché la funzione integranda è per ipotesi continua e non negativa, ne segue ancora
l’alternativa a):
u(z) = u(z0 ) .
[q.e.d.]
152
3. Teorema
Sia f (z) una funzione analitica in un dominio D s.c. . Il suo valore assoluto |f (z)| non
può avere massimi all’interno di D e può avere minimi solo nei punti in cui f (z) = 0.
Dimostrazione: Per quanto riguarda il massimo, la dimostrazione è perfettamente
analoga alla precedente. Supponiamo che:
Per ogni circonferenza C centrata in z0 e interna a I(z0 ) vale, per il principio della
media, la seguente relazione
Z 2π Z 2π
1 1
|f (z0 )| =
f [z(ϕ)] dϕ ≤
|f [z(ϕ)]| dϕ . (B.4)
2π 0 2π 0
Poiché l’integrando è per ipotesi una funzione continua e non positiva, ne segue che
|f (z)| = |f (z0 )|
4. Teorema
Sia f (z) una funzione analitica in un dominio semplicemente connesso S, γ ⊂ S una
curva di Jordan di lunghezza l, f (z) limitata sulla curva γ e M = maxz∈γ |f (z)| il
suo valore massimo su γ, z0 un punto appartenente alla regione interna a γ e δ =
minz∈γ |z − z0 | la distanza minima della curva γ dal punto z0 . Sotto queste ipotesi:
153
a)
Ml
|f (z0 )| ≤ (B.6)
2πδ
b)
n
d f (z) Ml
dz n
≤ n! ∀n = 1, 2, ... (B.7)
z=z0 2πδ n+1
I
1 f (z)
a) |f (z0 )| =
dz
2πi γ z − z0
1 f (z)
≤ max l
2πi z∈γ z − z0
1 Ml
≤
2πi δ
n I
d f (z) n! f (z)
b)
dz n
=
dz
z=z0 2πi γ (z − z0 )n+1
n! M l
≤
2π δ n+1
[q.e.d.]
5. Teorema di Liouville
Una funzione analitica e limitata in tutto il piano complesso C è necessariamente
costante.
Dimostrazione: Poiché f (z) è limitata in C, esiste un M reale tale che |f (z)| ≤ M ,
∀z ∈ C. Allora ∀z0 ∈ C possiamo applicare il teorema precedente (B.7) nel caso n = 1:
df (z) Ml
≤ .
dz
z=z0 2πδ 2
154
Ora, poiché f (z) è regolare e limitata in tutto il piano complesso, si può scegliere r
arbitrariamente grande, rendendo il rapporto M/r piccolo quanto si vuole; quindi
df (z)
dz
=0 ∀z0 ∈ C
z=z0
da cui
df (z)
=0 ∀z ∈ C ⇒ f (z) = costante ∀z ∈ C .
dz
[q.e.d.]
Se definiamo una funzione intera come una funzione regolare in tutto il piano
complesso (cioè priva di singolarità al finito), il teorema di Liouville afferma che una
funzione intera e limitata è costante.
N.B. Lo stesso teorema non vale nel campo reale. Infatti esistono funzioni f (x) di
variabile reale non costanti che sono infinitamente derivabili e limitate in tutto R. Per
esempio le funzioni
1 2
f (x) = , f (x) = e−x
1 + x2
sono limitate (f (x) ≤ 1) e infinitamente derivabili. Tuttavia le corrispondenti funzioni
nel campo complesso non sono limitate in C. Infatti
1
f (z) =
1 + z2
non è regolare né limitata in z = ±i. Invece la funzione
1
f (z) =
1 + |z|2
è limitata in C (f (z) ≤ 1) ma non è analitica (poiché u(x, y) = (1 + x2 + y 2 )−1
e v(x, y) = 0, le condizioni di Cauchy-Riemann non sono soddisfatte). Per quanto
riguarda
2
f (z) = e−z
è regolare in tutto C ma per z = iy, con y reale,
2
f (iy) = ey
non è limitata. Invece la funzione
2 ∗z
f (z) = e−|z| = e−z
è limitata ma non analitica (si ricordi che z ∗ non è analitica).
155
Appendice C
∆ψ(~r) = 0 , (C.1)
2) L’equazione di Poisson:
ρ
∆ψ(~r) = − , (C.2)
0
che è una generalizzazione dell’equanzione di Laplace (C.1) in presenza di una
sorgente.
156
Queste equazioni si incontrano nello studio di diversi fenomeni, come la propaga-
zione di onde elastiche nei solidi, la propagazione del suono e l’acustica, le onde
elettromagnetiche e i reattori nucleari.
ψ(~r, t) = 0 , (C.5)
6) L’equazione di Klein-Gordon
7) L’equazione di Schroedinger
~2 ∂ψ(~r, t)
− ∆ψ(~r, t) + V (~r)ψ(~r, t) = i~ ,
2m ∂t
che è alla base della meccanica quantistica non relativistica.
Hψ = F ,
ψ = a1 ψ1 + a2 ψ2
157
ne è ancora soluzione. Le equazioni (1-8) sono tutte equazioni del secondo ordine: esse
contengono cioè derivate di ordine massimo 2 (in realtà le equazioni di Maxwell sono
del prim’ordine, ma contengono due funzioni incognite e possono essere ricondotte,
eliminando una delle due incognite, a equazioni del second’ordine). Esistono diversi
metodi per la soluzione di equazioni differenziali alle derivate parziali del second’ordine:
4) metodi numerici.
dove X(x) dipende solo dalla variabile x, Y (y) solo dalla y e Z(z) solo dalla z. Non
è detto, in generale, che una soluzione di questo tipo esista, ma, se esiste, il procedi-
mento è giustificato. Se non esiste, si dovrà risolvere l’equazione con un altro metodo.
Sostituiamo dunque la (C.8) nell’equazione (C.7):
158
Si noti che le derivate sono derivate ordinarie, non parziali. Separiamo ora i termini
che dipendono da x da quelli che non ne dipendono:
1 d2 X(x) 1 d2 Y (y) 1 d2 Z(z)
= − − − k2 . (C.9)
X(x) dx2 Y (y) dy 2 Z(z) dz 2
Ora, il primo membro è una funzione della sola variabile x, mentre il secondo membro
dipende solo da y e z. Poichè x, y e z sono variabili indipendenti, questo è possibile solo
se entrambi i membri della (C.9) sono uguali a una costante, la costante di separazione,
che indicheremo con −l2 . Otteniamo cosı̀ due equazioni:
1 d2 X(x)
= −l2
X(x) dx2
1 d2 Y (y) 1 d2 Z(z)
+ + k 2 = l2 .
Y (y) dy 2 Z(z) dz 2
Consideriamo ora la seconda di queste equazioni e ripetiamo il procedimemto; separia-
mo i termini dipendenti da y:
1 d2 Y (y) 1 d2 Z(z)
= − − k 2 + l2 .
Y (y) dy 2 Z(z) dz 2
Questa equazione può essere verificata solo se ambo i suoi membri sono uguali a una
costante di separazione, −m2 :
1 d2 Y (y)
2
= −m2
Y (y) dy
1 d2 Z(z)
2
= −k 2 + m2 + l2 = −n2 ,
Z(z) dz
dove abbiamo introdotto, per motivi di simmetria formale, la costante n2 , legata a l,
m e k dalla relazione
l2 + m2 + n2 = k 2 .
Riassumendo, abbiamo trasformato l’equazione differenziale alle derivate parziali in
n=3 variabili
∂ 2 ψ(x, y, z) ∂ 2 ψ(x, y, z) ∂ 2 ψ(x, y, z)
+ + + k 2 ψ(x, y, z) = 0
∂x2 ∂y 2 ∂z 2
in n=3 equazioni differenziali ordinarie
1 d2 X(x)
= −l2
X(x) dx2
1 d2 Y (y)
= −m2
Y (y) dy 2
1 d2 Z(z)
2
= −n2
Z(z) dz
159
e abbiamo introdotto n − 1=2 costanti di separazione l e m (la terza costante, n, non
è indipendente dalle altre due). La nostra soluzione sarà caratterizzata da tre indici
l, m, n:
e varrà per qualunque scelta delle costanti l, m, n purchè l2 +m2 +n2 = k 2 . La soluzione
generale sarà una combinazione lineare delle (C.10):
X
Ψ(x, y, z) = almn ψlmn (x, y, z) ,
l,m,n
dove i coefficienti almn saranno determinati dalle condizioni al contorno. Risolviamo ora
l’equazione di Helmholtz in coordinate sferiche. Cerchiamo una soluzione fattorizzata
del tipo
160
Le variabili r e θ sono cosı̀ separate. Se uguagliamo il primo e il secondo membro ad
un’unica costante Q otteniamo:
1 d 2 dR 2 QR
r + k R − = 0 (C.15)
r2 dr dr r2
m2
1 d dΘ
sin θ − Θ + QΘ = 0 . (C.16)
sin θ dθ dθ sin2 θ
Abbiamo ottenuto cosı̀ tre equazioni differenziali ordinarie (C.14), (C.15) e (C.16), con
l’introduzione di 2 costanti di separazione, m2 e Q. La soluzione di queste equazioni
è discussa nel capitolo 2.1.1. La soluzione generale dell’equazione di Helmholtz in
coordinate sferiche avrà la forma:
X
Ψ(r, θ, φ) = aQm RQ (r)ΘQm (θ)Φm (φ) .
Q,m
161
Appendice D
con le fn (x) sommabili, ed esiste una F (x) sommabile tale che ∀n ∈ N, |fn (x)| ≤q.o.
F (x), allora anche f (x) è sommabile e si può scambiare il limite con l’integrale:
Z b Z b Z b
lim fn (x) dx = lim fn (x) dx ≡ f (x) dx . (D.1)
n→∞ a a n→∞ a
162
• Derivazione sotto il segno.
Posto
Z b
G(y) = f (x, y) dx ,
a
Enunciamo infine
Z b Z d Z d Z b
dx dy|f (x, y)| , dy dx|f (x, y)|
a c c a
allora vale
Z b Z d Z d Z b
dx dyf (x, y) = dy dxf (x, y) (D.5)
a c c a
L’importanza di questi quattro teoremi diventa evidente se si osserva che essi val-
gono sia per intervallo finito che infinito e sia per funzioni limitate che non limitate;
gli analoghi teoremi validi per integrali di Riemann, specie per integrali di Riemann
impropri, richiedono condizioni sufficienti estremamente più restrittive e difficili da
verificare.
Naturalmente nel caso di intervallo finito anche per l’integrale di Lebesgue si
possono avere ulteriori semplificazioni: se e solo se l’intervallo è finito, F (x) = M
costante è sommabile; si può quindi dire, come caso particolare della proprietà (D.1),
che condizione sufficiente affinché valga la (D.1) è che le fn (x) siano q.o. uniformemente
limitate, cioè che esista una costante M , indipendente da n, che le maggiori tutte (in
modulo) quasi ovunque.
Affermazioni analoghe si possono fare per le proprietà (D.3) e (D.4).
163