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LETTERATURA

CONTEMPORANEA 20 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 1

La disciplina
Dal punto di vista della descrizione del settore disciplinare, si considera letteratura italiana contemporanea
quella che si occupa della produzione letteraria italiana dalla Rivoluzione Francese in avanti. Parlare di
modernità e di contemporaneità evoca sempre una cesura (benché si tratti per lo più di fenomeni
manualisticamente comodi, ma difficilmente si tratta di cesure totali).

Strumenti1
 Sbn, Apcn (per l’individuazione bibliografica)
 Italinemo (per la ricerca bibliografica recente)
 AlmaRE (per la consultazione online)
 Bibliografie dei Meridiani2 (generalmente esaustive e raffinate per ampiezza e accuratezza)

Il corso
Pasolini fu una figura centrale da tutti i punti di vista: letterario, culturale, mediatico, una cosa a metà tra
un intellettuale e una rock star. Tuttavia, il centenario dalla sua nascita, se da una parte è stato occasione per
approfondire le ricerche sulla sua figura, ha anche provocato una cannibalizzazione degli spazi, dei luoghi,
delle risorse, marginalizzando altre figure altrettanto importanti, benché fossero già di per sé
personaggi forse meno di spicco: sei di questi, che quest’anno sono altrettanto segnati dal centenario o dal
centodecimo anniversario dalla nascita, saranno i protagonisti del corso (anche se non sono tutti allo
stesso livello di notorietà o di oblio), raggruppati in due macrosezioni, giocando su una contrapposizione
che, pur essendo didatticamente utile, va tenuta a mente solo come abbozzo di uno schema.

1
La bibliografia critica è di preparazione autonoma.
2
Spesso sono complete con le indicazioni bibliografiche relative ad articoli di quotidiano come le recensioni
dell’epoca, altrove difficilmente indicate. E sono importanti perché tempo fa sui quotidiani scrivevano intellettuali di
spicco! Non come oggi…

ATTENZIONE: la lettura di più recensioni vicine alla data di pubblicazione di un testo ci dà una buona visuale di
quella che poteva essere l’istantanea del contraccolpo che quest’opera suscitò a suo tempo
1. Realismo e sperimentalismo
Manieristi, sperimentalismo3 Realismo, neorealismo, sperimentalismo legato al
- Manganelli neorealismo4
- Morselli - Fenoglio
- Ceresa - Morante
- Meneghello
La prima opposizione vede protagonisti due gruppi:
A partire da questi due gruppi ci si muoverà poi in molte differenti direzioni, tenendo conto di due diverse
prospettive, quella di lungo termine (ricordiamo l’inizio della letteratura contemporanea trecento anni fa) e
quella di breve termine.

2. Lingua e dialetto
Si potrebbe dare però anche un’altra suddivisione, tra lingua e dialetto, che è intrinsecamente legata alla
nostra storia italiana.
Moltissimi autori della nostra storia letteraria hanno scritto in una lingua che non era la loro; per secoli la
nostra è stata una letteratura quantomeno bilingue (latino e volgare). La lingua italiana è esistita
mentre la l’Italia non esisteva ancora; Gianfranco Contini ha asserito che la letteratura italiana per secoli
ha parlato una lingua fantasma che si è concretizzata realmente solo con de Sanctis; al contrario, il dialetto
è sottinteso alla lingua stessa (pensate al processo di pulitura dei Promessi Sposi).
Si potrebbe quindi interpretare questa contrapposizione come la ricerca di una lingua che a forza di essere
perseguita prende vita come sperimentalismo e manierismo, oppure che scende di livello e si abbassa alla
ricerca di una lingua reale, pur rimanendo una lingua artificiale (cfr. Verga, non è dialetto ma lo sembra).
Due tendenze centripete che diventano centrifughe.
Gli autori con cui ci confronteremo da una parte manifestano tutti una ricerca relativa alla lingua, che è
centrale, ma ciascuno lo fa secondo le sue necessità e aspirazioni, o la sua cultura, e che non riescono del
tutto a svincolarsi dalle questioni concrete (cioè creare un prodotto avulso dalla realtà).

3. Storia e non-storia
Un’altra doppia bipartizione potrebbe essere storia e non storia/menzogna/invenzione: se la questione
della storia rimanda apparentemente al realismo, quella della invenzione ci rimanda di più all’affabulazione
(la libertà affabulatoria del racconto si tiene in piedi con la sua stessa forza e scavalca tutti gli steccati tra
vero e non vero, non è legata a queste categorie).
Le questioni che analizzeremo a partire da questi testi vanno molto al di là delle singole etichette che
cerchiamo di dare!
21 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 2

3
Più dichiaratamente ostile a quello che notoriamente chiamiamo realismo
4
È una diversa forma di sperimentalismo, che non disdegna alcuni tratti del realismo
Tempi e luoghi
I tempi
Se tentiamo di definire una cronologia, osservando le pubblicazioni saremmo tentati di circoscriverla tra ’63
e ’79, ma è illusoria, perché molti di questi testi fanno i conti soprattutto con la stagione della Seconda
Guerra Mondiale, e con essa si rapportano molte opere (tre in modo esplicito).

I luoghi
 GEOGRAFIA E STORIA DELLA LINGUA ITALIANA, DIONISOTTI (1967)
Raccolta di saggi in cui forse per la prima volta con un metodo molto lucido e molto chiari si iniziano a
mostrare i rapporti tra luoghi e produzioni letterarie:
- la forza produttiva di certi luoghi è diversa rispetto ad altri, pensiamo a quelle città che
catalizzano l’editoria
- l’Italia che ha voluto credere di avere una tradizione legata alla lingua (e non legata all’unità
politica) ha differenze locali estremamente marcate che non si cancellano con la creazione di uno
Stato nazionale. Quella realtà federale che qualcuno nel XIX secolo aveva immaginato, era
qualcosa che pensava un’unità articolata nella differenza. La differenza locale è molto più marcata
che in altri paesi d’Europa, anche forse perché hanno avuto più tempo per omogeneizzare la
propria tradizione. Parlare di letteratura italiana non vuol dire nascondersi dietro un’etichetta, ma
cercare di ragionare sulle tensioni, sulle relazioni tra i luoghi, tra generale e particolare
Es. Pasolini: nasce a Bologna, molto della sua vita è influenzata dalla sua esperienza friulana, a cui segue
una lunga e importante esperienza romana.
Roma è sicuramente uno dei poli di attrazione più potenti della nostra società, soprattutto nel Novecento
(non è un’ovvietà, in altri periodi sono stati più attraenti altre città: Napoli, Milano, Firenze); Pasolini non
cerca solo la società culturale, che in realtà si trovava più a Milano, ma cerca a Roma un mondo più
genuino, più indenne dai disastri della modernità, in virtù della sua periferia, cresciuta così rapidamente
e miseramente. Per questo si recherà anche in parti del mondo che le rassomigliano (India).

 LE REGOLE DELL’ARTE, PIERRE BORDIEU (1992)


Sociologo francese che ha introdotto alcune categorie importanti sulle modalità e interazioni delle
produzioni letterarie e dei loro autori, ad esempio quella di campo letterario, immaginato come una
scacchiera all’interno della quale ogni pedina occupa uno spazio e condiziona la posizione delle altre, e
allo stesso tempo è essa stessa condizionata dallo spazio circostante.

Se guardiamo i nostri autori, abbiamo delle traiettorie molto diverse.

1. Elsa Morante
Nasce a Roma nel 1912 e vi dedica gran parte della sua esperienza, al punto da costituire lo scenario della
maggioranza della sua produzione.

2. Guido Morselli
Uno dei due outsider del centenario, nasce nel 1912, ma del suo centenario non si sono accorti in molti.
Anche lui nasce a Bologna, e come Pasolini è più legato a degli altrove; avrà sostanzialmente una vita da
isolato di lusso, e allo stesso tempo sofferente.
Uomo misantropo, tormentato e (s)favorito dal benestare del padre, che gli concesse un vitalizio tale da
permettergli di dedicarsi alla letteratura. Per queste ragioni visse molto a Nord, nei dintorni di Varese
(Gavirate), in una zona non troppo distante dalla Svizzera. Il suo percorso è per molti versi opposto a
quello di tanti altri che si muovono verso il centro sud: Morselli si allontana, tende a isolarsi, finisce la sua
vita in un luogo molto solitario. Il misantropo è, non a caso, uno dei personaggi della sua letteratura.
Alla fine della sua vita si suicida, il 31 luglio 1973 i suoi libri sono quasi tutti pubblicati postumi da
Adelphi, e si riscopre questo autore che precedentemente tutti gli editori avevano rifiutato.

3. Giorgio Manganelli
Nasce nel 1922 a Milano, ma, sebbene molto attento ai problemi della cultura lombarda (parliamo di
quella Lombardia che per tanto tempo è stata il faro dell’Illuminismo, dell’imprenditoria, culla di Carlo
Cattaneo, il cui credo traeva forza dal progresso e dalla crescita economica), diventa sostanzialmente
autore romano5, e in questo segue le tracce molto da vicino del più significativo scrittore lombardo della
prima metà del Novecento, cioè Carlo Emilio Gadda, milanese romanizzato come lui. La loro vicinanza è
talmente forte nei percorsi e negli esiti stilistici che Gadda a un certo punto pensa addirittura che
Manganelli gli stia facendo la parodia con Hilarotragoedia, tanto sono simili le loro scritture.
Questa questione che ho affacciato parlando di Gadda è utile perché vorrei cercare, con il discorso dei
territori (che non sono paesaggi ma ambienti culturali), di abituarvi a concepire la letteratura come un
reticolo, per capire dove vanno e da dove vengono le cose di cui parliamo. Muore a Roma nel 1990.

4. Alice Ceresa
Nasce a Basilea nel 1923, in Svizzera, e vive per un po’ a Bellinzona, poi a Zurigo, dove conosce una serie
di intellettuali italiani sfollati ed esuli, come Silone, che la invita a lavorare con lui alla rivista Tempo
presente a Roma. Alice si sposta verso la capitale, dove vivrà, senza essere però attirata, ad esempio, dal
cinema o dal panorama letterario. Vive di giornalismo e letteratura, seppur in modo un po’ isolato. Muore a
Roma nel 2001.

5. Giuseppe Fenoglio
Nasce nelle Langhe nel 1922, e non percorre un itinerario particolare (a causa della brevissima durata della
sua vita): anche lo scarso o nullo movimento di un autore ha un valore all’interno del campo letterario.
Partigiano, viticoltore, si ritaglia spazi per scrivere. Il suo scarso movimento, dicevamo, ha un’immediata
ripercussione sulla sua opera, che è estremamente legata ai luoghi e ai tempi da lui esperiti (la vita
dura della realtà rurale, collinare, agricola, e la ancor più dura vita partigiana): questo è il mondo che
racconta, anche se con uno sguardo lungimirante.
Fenoglio guarda con passione, ammirazione e dedizione alla cultura inglese; guarda verso un mondo
remoto rispetto al suo. Il fascismo, quella realtà oppressiva, asfissiante con cui Fenoglio e molti altri hanno
avuto a che fare, poteva essere superato guardando alla letteratura inglese. Fenoglio guarda meno di altri
all’America, concentrandosi sull’Inghilterra; più che guardarla, la ascolta: a Fenoglio interessa molto la
lingua; e quella bipolarità tra lingua colta e dialetto italiani si complica estremamente e ulteriormente
per il contatto con il mondo anglofono.

6. Luigi Meneghello
Fa quasi la stessa cosa di Fenoglio, ma si reca di persona in Inghilterra. Innanzitutto, grazie alla sua lunga
vita (1922-2006) e ad altre occasioni: dopo l’esperienza di studi tra Vicenza e Padova e quella da
partigiano, accetta una borsa di studi al di là della Manica, che si evolve fino a diventare una scelta di vita,
e vi rimane dal 1947/48 fino alla fine della sua vita; un personaggio di una realtà provinciale, ma che

5
Le ragioni di Manganelli, di Pasolini e di Gadda sono tra loro diverse, ma i movimenti ci sono, e vale la pena tenerne
conto.
invece di rimanerci, dispatria (come il titolo di una sua opera): anche nel suo caso però la dialettica tra
lingua e dialetto si arricchisce dal contatto con l’inglese, benché, differentemente da Fenoglio, questo
contatto sia di natura più orale che letteraria.
La volontà di Meneghello di andarsene è precedente alla sua possibilità di farlo. Al tempo della borse di
studio poteva scegliere tra Napoli e Inghilterra: sceglie la seconda, forse non del tutto consapevole di stare
scegliendo di abbandonare per sempre l’Italia, perché profondamente deluso da quello che l’Italia poteva
potenzialmente diventare, rialzandosi dalle ceneri del fascismo, e di quello che già stava diventando. È un
atteggiamento condiviso da molti giovani: molti che hanno fatto la guerra da partigiani alla fine si sono
sentiti sconfitti, nonostante il fascismo sia effettivamente caduto, perché l’Italia che volevano cambiare
era cambiata molto poco, o così almeno sembrava. La sua letteratura è caratterizzata deal pendolarismo,
tipico soprattutto degli scrittori siciliani, che spesso si allontanano dalla patria, ma all’aumentare della
distanza spesso si verificava un aumento dell’importanza del luogo di origine che traspare dalla
letteratura. In certi casi è un luogo svanito, non più presente.
Il 23 settembre 1948 Meneghello sposa, con rito civile a Milano, Katia Bleier, un'ebrea jugoslava di lingua
ungherese, internata con la famiglia nel campo di sterminio di Auschwitz nella primavera del 1944.
Katia fu l'unica liberata dagli inglesi nell'aprile 1945 e quando, nel 1947, viene a sapere che la sorella
maggiore Olga si era salvata e sopravviveva a Malo, da clandestina entra in Italia.

Manierismo e realismo
 Manierismo
Il termine manierismo è sicuramente legato al mondo dell’arte, è un termine che richiama una pratica in
base alla quale un artista, dopo aver appreso la maniera di un grande predecessore, si apprestava a
riprodurla, ma complicandola, sporcandola, traendo conseguenze inattese: dalla perfezione lo
straniamento, dall’eleganza il virtuosismo nevrotico. Gli artisti recuperano la presunta classicità e vi
iniettano dosi massicce di imperfezione e deformazione; una pratica che certamente richiede una grande
abilità tecnica, ma non rappacificata dal punto di vista formale. Per questo manierismo è oggi tradotto
come sterilità, autosabotaggio, autolesionismo.
Cosa intendiamo per manierismo in letteratura del Novecento? È buona norma citare Gustave Renè Hocke,
autore molto letto soprattutto per Maniera e mania nell’arte, dove si investigano le relazioni tra l’età
manieristica e le sue inquietudini e il XX secolo.
Hocke, che pure è un uomo del XX secolo, si pone domande sull’assenza di speranza che
sembra a suo avviso connotare il secondo periodo postbellico: grave peccato del nostro
tempo, scrive. Non sarà che la metafora del labirinto è quella più adatta a descrivere non
solo l’arte, ma anche la condizione attuale. E la Rete, che si è affermata come “forma”
del contemporaneo, non è forse nient’altro che una declinazione del labirinto stesso? Il
labirinto ha una lunga storia, da quello cretese abitato dal Minotauro al labirinto di rami
dipinto da Leonardo nel Castello Sforzesco di Milano, dal labirinto descritto da Kafka nei
suoi romanzi al labirinto visitato da Borges nelle sue poesie e racconti. Non viviamo forse
immersi in un groviglio indistricabile di connessioni e nodi, di strade sbarrate e a senso
unico? Nel suo modo fantasioso e insieme terribilmente serio l’introvabile libro di Hocke
ci introduce in un mondo complesso e misterioso che può aiutarci a capire l’epoca in cui
viviamo. Siamo o no ancora manieristi?
(Marco Belpoliti su Doppiozero)
Il manierismo è un’allusione a un’inquietudine nelle forme, a una volontà di adottare delle forme che,
percepite come stanche, esauste, anziché venire accantonate, vengono riplasmate dall’interno.
L’arte è una risposta simbolica, che non può pretendere di avere effetti concreti sulla realtà, ma a volte è
l’unica risposta possibile. È un’arte che non teme di ricadere nella propaganda, perché appunto non si
illude di incidere sul reale: è un’arte potente, che offre una soluzione simbolica, che agisce su un piano
diverso, e può avere una sua efficacia, attraverso l’influenza su un immaginario comune. Una risposta
simbolica che può avere ricadute reali.
 Sperimentalismo
È una parola che ha una vicenda curiosa: ci vuole poco a percepirne il significato, eppure le sue origini ci
appaiono rispondere a una definizione esattamente opposta.
Potremmo dire che è una forma letteraria che cerca di lavorare sulla forma del romanzo tirando i confini
della sua definizione; senonché, Il romanzo sperimentale di Zola è una sorta di manifesto del
naturalismo francese nella sua fase più rigorosa, in cui si proclama appunto la necessità di una
rappresentazione aderente fino all’estremo alla realtà e ai fatti per come sono.
Come si risolve l’apparente contraddizione? L’esperimento per Zola è la riproduzione di una situazione,
esattamente per come è fatta, operata allo scopo di studiarne il funzionamento e di fornire una risposta
simbolica, ma che possa avere ricadute operative.
Nel Novecento il dibattito sullo sperimentalismo si connota come un dibattito sull’eredità del
neorealismo6: si inizia a parlare di neosperimentalismo (es. sulla rivista Officina), che vorrebbe reagire a
due aspetti:
- Il racconto della guerra e postbellico
- Tutto ciò che si considerava implicato con lo zdanovismo7, cioè la letteratura legata e sottomessa ai
dettami politici correnti
Se la polemica legata al concetto di sperimentalismo volesse guardare al mondo della letteratura neorealista,
una distinzione netta sembrerebbe possibile: ma tra i neorealisti che affronteremo, Fenoglio e Meneghello
sono due autori molto particolari, perché non sono riconducibili al neorealismo standard, bensì innovano
profondamente.
Libera nos a malo, nasce da una scommessa, da una memoria Una questione privata invece è il
privata di un paesello di provincia, e che non è fatta solo dalla tentativo di riprodurre una forma
coloratura affettuosa tipica delle memorie infantili, ma anche quasi da poema cavalleresco,
da un andamento saggistico: non è un romanzo in senso stretto, collocato ai giorni nostri; la storia
è quasi un saggio sulla realtà di quel paese. di un eroe quasi ariostesco.

Queste ibridazioni sono segno di innovazione.

6
stagione fine anni ’40/anni ’50, predominata dal racconto della guerra e percepita come esaurita dalla fine degli anni
’50, e che ha dato soprattutto esiti alti nel cinema
7
idea di arte legata al mondo sovietico, che sottoponeva e sottometteva l’arte all’ideologia, a regole estetiche e
tematiche molto precise; idea che Vittorini stigmatizzava ironicamente come piffero della rivoluzione
22 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 3

Letteratura, editoria, pubblico, media


Quando parliamo di riviste pariamo di due cose:
- Riviste che spesso hanno ospitato la prima pubblicazione di testi che poi sono diventati libri
- Riviste accademiche parallele a quelle che ospitavano pubblicazioni e fornivano un importante
apporto alla critica
Non ci rendiamo nemmeno conto della loro incidenza sul panorama letterario.
es. La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Carlo Emilio Gadda: il primo
esce nel ‘63 come libro, ma su Letteratura era già uscito a puntate nel primo dopoguerra, e così anche il
secondo.
Questa distanza cronologica tra pubblicazioni va tenuta presente, per alcuni motivi:

 Un libro che esce in un certo anno non per forza è un libro di quell’anno: un libro può essere non
solo precedente, ma noto già in precedenza. A volte facciamo fatica a capire quanta eco potesse
avere una pubblicazione su rivista perché non conosciamo più questo universo.
 Non sempre si tratta di una semplice transizione da un mezzo a un altro: spesso c’è un lavoro di
riscrittura, aggiunta, ritaglio.
Es. La cognizione del dolore e il Pasticciaccio editi in volume non sono gli stessi che su rivista,
anzi, sono quasi due libri differenti.
 Quando quell’articolo/capitolo/brano esce su rivista, non è l’unico contenuto della rivista: cosa
c’è intorno? La rivista è un luogo di elaborazione collettiva, un articolo viene messo all’interno di
quell’insieme di eventi e azioni consanguinee che lo hanno accompagnato nella sua formazione.
Svincolarlo da questo contesto condiziona, in bene o in male, la lettura del testo.
La questione delle riviste è una vicenda fortemente interconnessa con lo sviluppo delle opere letterarie.
L’osservazione delle riviste ci permette davvero di storicizzare un autore, un libro, uno stile, più di
quello che potrebbe fare un’attenta analisi della parabola dell’autore in sé.
Da qualche anno stiamo assistendo una transizione storicamente importante verso l’open access, cioè riviste
che hanno più o meno la stessa struttura di quelle cartacee (dal punto di vista della periodicità, dell’editoria,
ecc.), ma che sono caratterizzate dalla loro natura digitale, che permettono:
- Di tagliare i costi
- Di accelerare la circolazione
27 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 4

Alcuni esempi editoriali


1. Prospettive
Come nel caso del Medioevo, la visione di un’epoca sconta pregiudizi, deformazioni e letture polemiche:
così, anche il periodo fascista (1937-1943) viene rappresentato come un’epoca di conformismo, chiusura,
miopia, arretratezza, reazione. Ma quel periodo ha anche conosciuto esperienze molto stimolanti,
multiformi, variegate, aperte e coraggiose (non grazie al fascismo): è un caso quella della rivista 8
Prospettive, pubblicata durante sette anni di forte isolamento dell’Italia e contrapposizione politica con gran
parte dei paesi europei, anni di forte presa del regime sulla realtà culturale (difficilissima la penetrazione dei
testi americani in Italia; chi se ne occupa9 sta compiendo un gesto di aperta ostilità al fascismo). È Curzio
Malaparte, uomo interno al regime e intellettuale, che dirige Prospettive, divenuta una delle più avanzate
piattaforme di discussione culturale europea di quegli anni. È una rivista su cui vengono pubblicati
contenuti che arrivano da ogni parte d’Europa, quasi in nessun caso riconducibili a un’ortodossia
tematiche.
Es. è qui che esce nel 1939-1940 una delle prime pubblicazioni del Finnegans Wake di James Joyce
tradotto in italiano (che esce in volume solo nel 1941); abbiamo interi numeri dedicati al surrealismo, da
sempre percepito politicamente orientato verso l’estrema sinistra.
Benché il provincialismo della cultura italiana negli anni del fascismo sia un dato, Prospettive costituisce
l’altra faccia della medaglia.
Questo esempio di Prospettive mi serve a farvi capire che non sempre c’è una contrapposizione così ben
definita tra chiusura e apertura, si direbbe tra sovranismo e cosmopolitismo. A proposito della censura
cui accennavamo, lo stesso Malaparte diceva che i censori erano troppo stupidi e troppo ignoranti per
rendersi conto del valore della sua rivista: e fu per questo che riuscì a sopravvivere, tanto che fu la
guerra, e non il regime, a fermarlo.

8
Non esiste solo Italinemo: possiamo cercare Circe, un altro catalogo informato delle riviste culturali europee, e
soprattutto contiene riviste storiche. Questo strumento è importante perché vedere una rivista ci fa capire molte
cose del suo gusto e della sua tendenza.
9
Cfr. Vittorini, 1600 pagine di monumento alla cultura americana ostacolata dal regime
2. La Feltrinelli
Feltrinelli era un editore relativamente piccolo ma molto agguerrito negli anni ’60, un editore che ha alle
spalle una grande fortuna economica personale, ma allo stesso tempo ha coraggio e una certa
spigliatezza, quasi una mancanza di scrupoli, che gli fa seguire quei fenomeni che generalmente chiamiamo
di sperimentalismo e avanguardia, prodotti di autori meno digeribili e ricercati.

 Dal ’54 al ‘57/58 l’editore si sviluppa, cresce e molto rapidamente acquisisce notorietà nazionale e
internazionale;
 rapida cesura tra ’58 e ’61/63: Bassani litiga con Feltrinelli e abbandona il suo ruolo, proprio nel
momento in cui l’editore si sta orientando verso le scritture più marcatamente sperimentali.
 segue una seconda fase in cui è Valerio Riva ad assolvere il compito che era prima di Bassani, e pur
tenendo aperta la porta a successi commerciali molto forti si orienta però definitivamente sempre di
più verso una narrativa di avanguardia. Molti scrittori che oggi troviamo premiati e pubblicizzati,
provenienti dai confini extraeuropei, negli anni ’50 non esistevano nemmeno alla mente degli italiani:
il catalogo che Feltrinelli propone è per questo un catalogo di incredibile coraggio e novità per le
abitudini italiane.
Feltrinelli diventa dunque l’editore di molti rifiutati o esclusi della letteratura, finendo così per conquistarsi
una fetta di mercato, un pubblico con delle idee, tendenzialmente giovane, cittadino, dotato di un livello
culturale alto: è una scommessa sul futuro. Quasi tutti gli autori del gruppo 63, che hanno interesse a
inserirsi sul panorama letterario con desiderio di non allineamento, trovano da Feltrinelli la porta aperta
(vale anche per poesia e saggistica).
Dall’altra parte, Feltrinelli (che sa che una casa editrice è anche un’impresa, che deve far tornare dei conti)
sa che le scommesse non sono solo di natura letteraria, ma ci volevano anche soldi freschi e immediati:
consapevole della necessità finanziaria, mette a segno molti colpi geniali:
1. Prima edizione mondiale de Il dottor Zivago10: importantissima per la strada verso il Nobel
2. Pubblicazione de Il Gattopardo: altro bestseller del ‘58/59 per la sua prima edizione
3. Tutte le tendenze più notevoli che si stanno muovendo nel mondo arrivano nel catalogo di Feltrinelli
nella loro maggioranza. C’è chi lo chiama terzomondismo11, ma è una definizione allarmante di
quanto eurocentrica fosse l’ottica europea di quegli anni. È un’apertura internazionale senza
preclusioni.

3. Collana I gettoni (1951-1958)


Collana diretta per Einaudi da Vittorini, molto poco simpatizzante con il regime fascista. È una collana
che nasce da un’idea ben precisa, che si rispecchia anche nelle scelte grafiche e nel titolo della collana; il
gettone è per l’epoca un oggetto:
- che serve per comunicare (telefoni)
- che serve per giocare, per fare scommesse (fiches per il gioco d’azzardo)
La collana vuole per questo pubblicare libri di autori poco noti, nel tentativo di dare una risposta
simbolica a delle problematiche reali, attraverso stili rappresentativi del presente e del nuovo. Sono
10
Sono colpi che, se lo mettono in una posizione favorevole nei confronti del grande pubblico, lo mettono però in
discussione sul panorama politico: pubblicare la storia di un perseguitato dal regime sovietico significa non andare a
genio dal partito comunista, potente negli anni ’60.
11
Es. Cortazar, Rayuela: il gioco del mondo (I ed. italiana di Einaudi, 1969): è un perfetto esempio di romanzo
sperimentale, dove l’intervento di costruzione del lettore è fondamentale e dove il lettore esercita un ruolo attivo,
perché lo si può leggere in più direzioni.
testi scelti, selezionati, che siano frutto del lavoro di intellettuali che hanno una precisa idea di cosa sia la
cultura.
C’è un aspetto interessante se guardiamo l’elenco completo dei testi e dei titoli: 58 titoli, tra cui salta subito
all’occhio che 41 sono italiani e 8 sono stranieri (4 francesi, 3 anglo-americani, 1 argentino), è un dato
interessante perché indica una volontà precisa, che potrebbe sembrare in contrapposizione con l’apertura
internazionale come reazione alla chiusura e alla xenofobia fascista: ma non è una scelta nazionalista
perché va interpretata nell’ottica della ricostruzione di un canone nazionale; scrittori e scrittrici che
vengono a raffigurare le nuove tendenze della scrittura italiana per come le interpreta Vittorini.
All’interno di questa storia ci sono tre nomi che vanno evidenziati:

 Franco Lucentini
La collana dura molto poco, una decina d’anni, e pubblica solo una sessantina di libri, di cui il primo è il
suo I compagni sconosciuti: un romanzo molto segnato dalla guerra e dal contesto neorealista-resistenziale,
pubblicato nel 1951 ma scritto tempo prima.
Lucentini potrebbe essere considerato uno degli intellettuali più singolari del secondo Novecento italiano,
straordinario poliglotta e traduttore. Per molto tempo è stato traduttore, consulente editoriale e scopritore
di talenti, o se non altro riconoscitore di essi. Fu lui lo scopritore di Borges e suo traduttore italiano. Ma
fu anche uno scrittore delle macerie.
Le caratteristiche più interessanti del suo volume sono:
- La rappresentazione realistica ma priva di pietismi
- Il multilinguismo: Lucentini dissemina all’interno una gran quantità di lingue non tradotte, e non solo
inglese e tedesco (relativamente facili da rintracciare nei romanzi di ambito resistenzialista):
 è innegabilmente un tratto di realismo, perché le lingue degli invasori si intrecciano a quelle
degli indigeni
 ma è anche un tratto di controtendenza verso il privilegio che viene riservato alla lingua italiana
da quella parte di letteratura che è generalmente il neorealismo: guardate come sperimentalismo
e realismo possono convivere anche all’interno della stessa collana; e infatti la collana si apre
proprio con un invito programmatico alla convivenza di questi due aspetti. Quello di Lucentini è un
testo che è potenzialmente un manifesto.
 Borges
È un autore che avrà un’enorme diffusione e popolarità, che però qui si affaccia come perfetto
sconosciuto: per questo I gettoni sono fondamentali, anche se all’interno della collana è un elemento
isolato

 Beppe Fenoglio
È uno degli autori che con più voce interpreta questa volontà di innovare staccandosi in modo evidente
da ciò che preesisteva, e da questo punto di vista è singolare che proprio su Fenoglio l’operazione singolare
che Vittorini compie nel pubblicare il secondo libro di Fenoglio, La malora12, cosa che ferì molto Fenoglio:
scrisse un quarto di copertina, un’introduzione (era un’attività molto diffusa da parte dei curatori della
collana) in cui criticava l’eccessiva volontà di sperimentare di questi giovani.
Fenoglio ci rimane molto male, quelle righe gli risultano vulneranti, benché rimarrà come autore uno dei
meno in vista di quelli pubblicati dalla collana (cfr. Calvino). Sarà il ’68 a renderlo un autore
imprescindibile per i nostri canoni con Il partigiano Johnny.

Quello che è importante mettere a tema è una fase del lavoro editoriale postbellico
che porta avanti programmi di pubblicazione che danno esiti quasi opposti: si pensi
alla politica editoriale di Feltrinelli a confronto con quella di Vittorini.

12
Ambientazione marcatamente rurale, testo crudo, sembra di tornare a Verga.
Le case editrici degli autori
1. Meneghello
Meneghello esordisce nel ’63, in un momento molto lontano dall’apice del neorealismo. Il ’63 è un anno di
straordinaria vitalità, che contiene molte anime: scrittori tardoneorealisti, sperimentali, novizi, ecc.…, un
momento che non va confuso con altri, non va sovrapposto, non è una data qualsiasi: è il momento in cui a
Palermo si riunisce il gruppo 63, costituito da intellettuali e critici, noi che riceviamo la qualità dai tempi13,
nella consapevolezza che essere insieme, in quell’anno, ha un significato particolare e potente; sono i
primi anni del boom economico italiano, ma soprattutto, per la letteratura, perché se dovessimo mettere in
fila i romanzi usciti in quell’anno, le pubblicazioni parlerebbero da sole (Arbasino, Meneghello, Tadini…).

2. Manganelli
Manganelli e Morselli sono entrambi pubblicati attualmente da Adelphi, ma la loro vicenda è molto diversa.
Manganelli esce pubblicato negli anni ’60 da Feltrinelli (di cui segue le vicende editoriali), segue una fase
con Rizzoli negli anni ’70 per finire poi con Adelphi.

3. Ceresa
Ceresa pubblicata per la prima volta nella Serie rossa di Einaudi, senza grande successo.

4. Morselli
Morselli invece nasce con Adelphi, e nonostante in vita venga rifiutato da tutti, non smette di scrivere fino
al suicidio. Anche se in una forma non compiuta per tutte le sue opere, Adelphi decide di pubblicare i libri
principali (di cui il primo è Roma senza Papa), e questo è il segno del riconoscimento di una forza di
scrittura, di una originalità, di una non incasellabilità che gli permette di essere prediletto da Adelphi,
editore notoriamente orientato a scelte originali ed esclusive. L’idea alla base di Adelphi era quella di
pubblicare titoli che rappresentavano una sorta di unicum, con una volontà di costruzione molto
precisa14.
Come vedete, è importante fare attenzione a quale editore pubblica cosa, ci dà delle
informazioni.

13
Labirintus, Edoardo Sanguineti
14
Ed è la stessa ragione che porterà poi Manganelli a pubblicare con Adelphi: Manganelli non ha paragoni, anche se
questo passaggio a Adelphi coincide con la fine della sua vita.
5. Fenoglio
Nella sua terra si trova la sua casa editrice, che è Einaudi (Torino). Einaudi quando nasce è un piccolo
editore antifascista che a stento sopravvive all’ingerenza fascista; poi nel dopoguerra diventa uno degli
editori principali d’Italia, lavora su politiche di eccellenza e di marcato posizionamento ideologico (anni
50/70). Alla fine degli anni ’70 la parabola feltrinelliana si conclude.
L’opera di Fenoglio è un caos pazzesco, forse il caso filologico più complesso del nostro Novecento
(contrariamente a quello dell’ordinato Morselli): possiamo dire che Il partigiano Johnny, libro più famoso
di Fenoglio e molto lungo, esce postumo nel ’68 in una versione ricomposta dai filologi: non esiste, del
suo libro più acclamato, una versione approvata da Fenoglio. È curioso che il libro sia ripartito in due
sezioni nettamente separate proprio a causa di due diverse stesure che sono state accordate dai filologi nel
tentativo di ricostruire una trama.
Quando affrontiamo Fenoglio il problema delle pubblicazioni è un problema da non sottovalutare, perché
esse sono un compromesso tra un caos di stesure irriducibili a unità e il tentativo di creare una forma
coerente: al tempo della sua prima pubblicazione, Il partigiano Johnny era corredato da una fascetta
promozionale con su scritto: L’avventura di un ribelle. Un caso, visto che esce nel ’68? Parla sicuramente
della resistenza, ma l’etichetta strizza l’occhio a un giovane pubblico che trovava la parola ribellione
come molto attraente, e che iniziava a guardare alla vicenda della resistenza come a una rivoluzione
abortita. Non sappiamo se Fenoglio avrebbe condiviso la scelta, ma sicuramente rimane indicativo di come
poteva essere percepito il libro dal pubblico lettore dell’anno di pubblicazione.

6. Morante
Anche nel suo caso il tema del romanzo è focalizzato sul prima e sul dopo del Secondo conflitto mondiale.
Sul caso della Morante volevo affrontare un’altra questione, relativa alle motivazioni della sua scelta come
punto finale del corso: secondo me segna un punto di svolta nel panorama culturale, letterario e
editoriale italiano.
La Storia nasce come bestseller e lo diventa, ma questa peculiarità congenita ha influenzato la sua forma:
deve essere un libro per tutti15, un libro democratico, per il grande pubblico, in un momento in cui il
grande pubblico sta proprio nascendo. Cresce la scolarizzazione e la culturalizzazione di massa, cresce il
mercato librario, cresce la lettura e anche i numeri e le strategie degli editori si modificano di conseguenza.
La Storia, dopo e più de Il Gattopardo, il nuovo bestseller: è un libro che cerca di comunicare non sul
piano dell’analisi storico-politica ma sul piano dei sentimenti. È una scommessa assolutamente limpida,
la Morante si era già costruita un profilo di scrittrice seria, alla pari dei colleghi maschi, e appena sembra
buttarsi sulla letteratura di consumo suscita scandalo presso alcuni di questi. È un libro spartiacque.

15
Definizione di Spinazzola dei Promessi Sposi
La riattualizzazione del romanzo storico
All’altezza del 1958, sulla scrivania di Vittorini arriva Il gattopardo, scritto da questo nobile siciliano che
inizia ora ad affacciarsi sul panorama letterario italiano.
 lo legge durante il periodo di attività de I gettoni Vittorini, siciliano: conosce benissimo il contesto
di cui parla, ma si rifiuta di pubblicarlo perché lo trova un testo conservatore, nostalgico, sia per
ideologia che per forma, e che quindi mal si addice alla collana dell’intellettuale.
 Lo sceglie invece Giorgio Bassani per Feltrinelli, e sarà uno dei due colpi fondamentali (insieme
al Dottor Zivago) per la sua crescita.
Una delle tendenze che abitano questa fase storica degli anni ’60-’70 è stata definita da alcuni come fase di
riattualizzazione del romanzo storico, ma se ci riflettiamo la definizione romanzo storico non è così
immediata come potrebbe sembrare: Il Gattopardo non è banalmente un romanzo che si basa su fatti storici
e li guarda a posteriori: è qualcosa di più e di diverso.
Questa manifestazione di una sensazione di cesura e di problematicità è ciò che porta alla
riflessione sulla Storia per mezzo del romanzo nell’Ottocento ma soprattutto nel
Novecento: se si dà il romanzo storico solo quando si percepisce la storia come problema,
il Novecento è ovviamente il secolo in cui per eccellenza viene sviluppato un tale
sentimento delle vicende storiche. Più la storia si fa concreta, più diminuisce nei lettori
l’interesse per ciò che è propriamente fantastico.
Uno dei testi più importanti riguardo al tema della riattualizzazione del romanzo storico è proprio il saggio
sul romanzo storico di Lukacs16: venne pubblicato negli anni ’30 ed è sempre citato come punto di
partenza per le riflessioni sul romanzo storico del Novecento:

“Il romanzo storico nasce dopo Napoleone, perché con la Rivoluzione


Francese e le armate napoleoniche creano una sensazione tale di discontinuità storica, che
vuole offrire delle soluzioni, da movimentare tutta l’Europa. Il romanzo storico non è un
romanzo in costume, ma un romanzo che tratta la Storia come problema e non come
soluzione: il romanzo storico è uno strumento conoscitivo e critico, è uno scandaglio, non
qualcosa di concepito per rispondere, anche se a volte lo fa.

16
Uno degli studiosi più importanti del Novecento, di notevolissimo spessore e le cui opere a testo integrale sono
pubblicate sul suo sito italiano.
30 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 6

La letteratura post-risorgimentale
Se il romanzo storico trova nuova fioritura negli anni 50-60 del Novecento è anche perché tre grandi
scrittori patriottici raccontano da parte loro l’impresa dei Mille.

1. Italo Calvino
Ippolito Nievo: libro cruciale per Calvino, che torna su questo libro con una Prefazione importantissima nel
1964, e anche Calvino entra in questo clima di ripensamento del romanzo storico attraverso il filtro
garibaldino per rileggere la vicenda partigiana

2. Luciano Bianciardi
Anche di lui si festeggia il centenario. Grossetano come Bandi17, riceve il suo libro in regalo da giovane;
lo definiva il suo Salgari. Ne farà, come altri, un elemento di confronto: la delusione storica dei garibaldini
come quella della Seconda Guerra Mondiale.

Lo ricordiamo perché costituisce un nodo nevralgico di questa storia alternativa della


prosa e della narrativa italiana; una storia che non si identifica tout court nella storia
neorealista o in quella sperimentale: è una narrativa che presenta punti di contatto a volte con
una, a volte con l’altra, a volte presenta tratti peculiari.

Matura quasi subito un’ostilità verso la realtà in cui vive e si riconosce sempre di più in un’immagine di
intellettuale attivo. Nella sua vita si appassiona in veste di reporter alla realtà dei minatori; assiste
personalmente al gravissimo disastro della miniera di Ribolla. Costituisce una sorta di dramma personale a
cui Bianciardi non riesce quasi mai a trovare giustificazione; nasce in lui una sorta di cieco livore verso
questo sistema che sfrutta e uccide, e il desiderio di andarsene.

17
Giuseppe Cesare Abba: Da Quarto al Volturno (1891)
Questo libro ha una grande ruolo nel potenziare una mitologia garibaldina, e presso alcuni lettori alimenta il senso di
amarezza e disillusione in coloro che vedevano un annacquamento dell’aspirazione garibaldina nelle manovre reali dei
Savoia.
Giuseppe Bandi: I mille
Libro che più ancora di quello di Abba contiene un certo grado di vivacità, avventura, colpi di scena; ne fa anche
un’eccellente lettura per ragazzi.
Si sposta a Milano nel 1955, dove:

 cura un’edizione de I mille di Bandi, che diventa un atto politico molto marcato: ricordare i
Mille non per nostalgia ma come veri esempi di uno spirito che ha avuto la possibilità di liberarsi.
 Lavora per Feltrinelli; conosce benissimo l’inglese, letterario e parlato (unitosi alle truppe durante
la guerra); pertanto lavora come traduttore, sono sue le traduzioni di Henry Miller. La
traduzione brucia completamente il testo originale.
 Pubblica nel 1962 La vita agra, il suo romanzo più noto, dove tematizza la vita da schiavi degli
operai, tanto delle miniere quanto dei dipendenti delle aziende di cui lui stesso è rappresentante
all’interno della Milano iperproduttiva. È il rovescio della medaglia del boom. Ebbe un successo
quasi inaspettato, non era facile né consolatorio, soprattutto per l’epoca.
Nel film che è stato ricavato da questo romanzo il protagonista interpretato da Ugo
Tognazzi18 è stato impostato per somigliare tantissimo all’autore, anche se nel romanzo
l’autore non è il protagonista: eppure è una somiglianza eloquente, perché c’è molto di
Bianciardi nel romanzo, soprattutto nel risentimento verso la modernità e verso la grande
città.

Ma Bianciardi capisce che per quanto possa odiare e detestare il sistema in cui vive,
esso saprà sempre sfruttarlo a suo vantaggio: e inizia a essere intervistato, elogiato;
diventa egli stesso una “macchina da soldi”.

 Per questo, il suo romanzo successivo va in una direzione completamente diversa (appositamente):
pubblica nel 1964 La battaglia soda (che esce con Rizzoli, anche se il rapporto tra Feltrinelli e
Bianciardi era continuato anche dopo il suo distacco professionale), scritto sulla falsa riga della
biografia di Bandi e con la lingua di Bandi. Non ha avuto nemmeno lontanamente la eco che aveva
avuto il libro precedente. Torna alla questione del romanzo storico attraverso una soluzione
inedita: pone di nuovo la questione della delusione storica, a suo modo.
Raccontare Garibaldi nell’ottica dell’uomo che avrebbe voluto un’Italia progressista,
democratica, laica, e che invece non ha ottenuto quasi niente di questo, è una svolta per
un’Italia che monumentalizzava come vincitore il personaggio di Garibaldi.

 Uno degli ultimi libri di Bianciardi è Aprire il fuoco, pubblicato nel 1969, quando la parabola di
autodistruzione attraverso l’alcol e la televisione spazzatura è già iniziata. L’immagine di lui che si
autodistrugge però oscura il fatto che sia rimasto un autore e traduttore valido fino alla fine della
vita. È un romanzo in cui i due corni della sua narrazione si fondono in modo assolutamente
imprevisto; un ibrido stranissimo, una sorta di esperimento ucronico19. Il punto di partenza di
questa idea è raccontare di un’insurrezione avvenuta a Milano simile alle Cinque giornate del
Quarantotto, che diedero l’idea di potersi liberare dall’invasore, ma trapiantate nel 1959: mette
insieme personaggi ottocenteschi e la Milano degli anni 60. L’elemento però di maggiore interesse
per noi è che il narratore della storia è qualcuno che ha vissuto da dentro i giorni eroici ed

18
Tognazzi era all’epoca una delle figure più rappresentative della commedia italiana: il regista del film ispirato al
libro sceglie di seguire sicuramente la lettura più edulcorata del film, si verifica uno spostamento dal nichilismo alla
comicità: nello specifico caso c’è sicuramente una volontà di smorzare gli aspetti più duri del film. Non possiamo
attribuirlo necessariamente a una pressione politica esplicita di cui non sappiamo; ma comunque se consideriamo che
all’epoca il cinema faceva anche scelte coraggiose, capiamo che avrebbe potuto essere realizzato anche in questo caso
in modo diverso.
19
Modalità narrativa tipica della fantascienza in cui si immaginano dei futuri alternativi a un fatto storico
euforici di questa lotta di popolo e che mestamente ha visto il ritorno al potere degli austriaci. È
un esule che vive tra Toscana e Liguria di lavoro culturale a distanza, nella paura costante che le
polizie lo vengano a prendere, una sorta di esule terrorista. In questo vediamo fortemente il sogno
di far saltare in aria il palazzo della Montecatini 20: vediamo in controluce il protagonista de La
vita agra.
La figura dell’intermediario tra mondi differenti è un aspetto tipico di Bianciardi ed è un aspetto che lo
imparenta moltissimo con Meneghello. Non possiamo capire Bianciardi senza immaginarlo come
continuamente attraversato da flussi di parole altrui, soprattutto straniere. E la questione è molto
simile anche in Meneghello, anche lui autore tanto quanto traduttore, soprattutto per Olivetti, direttore di
Comunità.

3. Emilio Tadini
Una delle realtà cittadine con cui Bianciardi si relaziona a Milano è la zona di Brera: oggi si configura
come una zona estremamente viva, piena di lusso, di locali, di centri culturali (Pinacoteca, Accademia delle
Belle Arti, Scala di Milano). Non dobbiamo però immaginarcela così negli anni ’60: era un luogo
caratterizzato da una vita artistica fervente, ma molto meno chic; un quartiere di non grandi pretese.
Nella scena intellettuale-culturale di Brera una figura fondamentale era quella di Emilio Tadini. Nel 1963
pubblica Le armi l’amore, primo romanzo vero e proprio di un autore già famoso come pittore. È un
romanzo che si imposta su un episodio secondario del nostro Risorgimento, e capiamo che la seconda
opera di Bianciardi non nasce dal nulla, ha un precedente ben preciso risalente all’anno prima;
nell’introduzione a La Battaglia Soda Bianciardi scrive un passo in cui strizza l’occhio a Tadini per far
capire che percepisce il legame che sta intessendo con la sua opera.

20
Responsabile della distruzione della miniera di Ribolla: stesso sogno del protagonista della Vita agra
Le armi e l’amore
Tadini nello scriverlo vuole sottolineare che l’impresa di Pisacane di cui narra abbia costituito l’estrema
propaggine di un desiderio di riscatto già presente in nuce nella gioventù meridionale di fine XIX secolo.
Quando esce, il tema del romanzo era percepito come molto lontano da quello della situazione attuale.
Sembra una scelta straordinariamente inattuale, ma che nella sua inattualità contiene due elementi di
forte novità e progettualità:
1. In questo momento storico particolare ancora una volta lo sguardo rivolto a fatti del passato è
archeologico nel senso buono del termine: guardare alla storia come a un frammento opaco
attraverso cui guardare il presente. Un archeologia che lavora su quello che è rotto, non su
un’ipotesi di ricostruzione, che è sempre illusoria. Bisogna sempre interrogare i vuoti.
2. L’impianto narrativo è completamente impostato su tre tempi e modi verbali che sono molto remoti
dalla narrativa tradizionale: futuro, futuro anteriore e condizionale. Questo significa che quel
meccanismo perfettamente metabolizzato che il lettore si aspetta come marca della finzione narrativa
che è il passato remoto viene da Tadini completamente abolito e invertito: il fatto è storia, e su
quello non ci si può giocare; Tadini può invertire la logica, e tutti gli avvenimenti semplicemente
sono di là da venire, in tre direzioni:
- quello che sta per avvenire
- Quello che potrebbe avvenire in conseguenza
Questo flusso è indubbiamente debitore dello stile di William Faulkner (uno dei più importanti autori
americani dopo Hemingway): più che l’uso dei verbi, insegna a Tadini l’uso di frasi lunghe, che si aprono
in divagazioni ed incisi, con un ritmo cullante e ottica onirico-allucinatoria.
Le ragioni della sconfitta risorgimentale non sono oggetto di analisi autoflagellatoria, ma vogliono essere
occasione di riflessione, per cercare di capire cosa non ha funzionato, cosa è andato storto.

Non pensiate che queste produzioni siano un semplice esperimento: il concetto di


esperimento contiene spesso per noi in ambito letterario un’accezione di gratuità e
bizzarria: gli esperimenti più radicali e spesso più di successo sono motivati da ragioni di
necessità, o comunque ben precise. E vale per Bianciardi tanto per Tadini.
28 SETTEMBRE 2022 – LEZIONE 5

Un esempio di approccio al romanzo storico


Manzoni
1. Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia
Il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia è un'opera particolarmente significativa
per comprendere il rinnovamento nell'approccio degli studi storici di Manzoni. Il testo viene pubblicato
nel 1822 insieme alla tragedia Adelchi, per correggere quel tratto eccessivamente romanzesco che ha
scoperto una volta ultimata la tragedia.
L'indagine storica deve presupporre la comprensione dei modi in cui la natura umana si piega e si
adatta alla società. La storia non si giustifica da sola per il semplice motivo che è l'espressione di un'azione
umana, che per natura è contraddittoria. Questa conflittualità che rivela il cuore umano si riflette nella
dimensione storica e in una società, caratterizzata da una vitalità che produce contraddizioni e contrasti.
Comprendere la storia significa quindi comprendere le ragioni dell'animo umano. Manzoni si rende
conto che la storia non si è mai occupata di coloro che hanno subito la storia, senza viverla. Occorre
dunque spostare lo sguardo su quella massa di quelle persone che hanno attraversato la storia senza
lasciare traccia. Bisogna tentare di dar voce, anche per un atto di giustizia, ai "desideri, i timori, i
patimenti, lo stato generale dell'immenso numero d'uomini" che non ebbero "parte attiva in
quell'avvenimento, ma che ne provarono gli effetti". E proprio la mancanza di testimonianze sullo stato
delle popolazioni latine durante la dominazione dei Longobardi induce Manzoni a questa riflessione sul
compito della storia. Manzoni prende spunto dalla polemica contro la storiografia laica e giurisdizionalista,
che aveva fatto della Chiesa la responsabile della mancata formazione di uno spirito nazionale italiano.
Manzoni, con intento apologetico, vuole dimostrare la falsità di questa tesi, ma anche che la Chiesa si era
posta a tutela dei Latini, assoggettati dai Longobardi. Nella parte iniziale dell'opera, Manzoni si esprime
sulla società umana a proposito della questione dei rapporti tra Longobardi e Latini.

2. I Promessi Sposi e la Storia della Colonna Infame


Nel 1823 Manzoni inizia a lavorare ai Promessi sposi; la prima edizione non viene mai pubblicata.
Nel 1827 viene pubblicata la prima edizione del romanzo, dopo essere stata modificata: esce quindi nel
periodo acuto del successo del romanzo storico, e riceve le prime opinioni per mezzo di epistole e
recensioni giornalistiche. Quello che a questa edizione manca è la Storia della colonna infame, che non
viene pubblicata perché già nel ’23 Manzoni si rende conto della straordinaria ingiustizia di questo
processo, reso possibile da un insieme di pressioni operate dal potere ai danni dei poveracci, che avrebbe
rubato la scena alle vicende dei due promessi: di qui la scelta di farne un’appendice autonoma.
Manzoni aveva già capito che c’era un problema di coesistenza tra storia reale e fittizia.

A questa edizione arrivano tre risposte:


a. Streffus (?): recensione ai Promessi Sposi molto evidentemente guidata, nel senso che dietro di lui c’è
la voce di Goethe. Manzoni lo capisce e ne è generalmente lusingato: è una recensione tutto sommato
positiva, ma c’è un’obiezione relativa al finale del terzo tomo: la porzione storica fa perdere di vista
il romanzo, si perde l’equilibrio complessivo. Se in un romanzo storico è la Storia a fare problema, un
autore deve rifletterci.
b. Lamartine: secondo lui la parte migliore del romanzo è la parte storica: “Fai della storia un genere
nuovo”.
c. Niccolò Tommaseo: italiano benché di origini dalmate, si profonde il lusinghe ma aggiunge
un’obiezione relativa allo status sociale dei protagonisti. È l’espressione di una censura molto forte e
importante.
La ragione delle riedizioni successive è anche questa (non solo la questione della lingua che molti gli
criticano, troppa patina lombarda): le successive pubblicazioni sono il tentativo di recuperare, riscritta e
ripensata, la Storia della colonna infame, come una sorta di appendice, ma fondamentale per il
complesso del romanzo: la parola Fine è dopo l’appendice, non dopo il XXXVIII capitolo. Fino a poco
tempo fa gli editori la tagliavano, gravissimo!
Non è solo questione di completezza, è questione di equilibri: è fondamentale la rilettura del romanzo alla
luce di questa appendice! Perché la casa e la famiglia con cui si chiude il romanzo la ritroviamo distrutta
nella pagina dopo: i poveracci finiscono male sempre. O Dio non esiste o è malvagio: davvero? No. Se
non sapevano quello che facevano, non vollero saperlo. Troppo comodo cercare soluzione fuori.
3. Del romanzo storico
Pubblicato nel 1845, sembrò ai più una sconfessione del romanzo storico e una presa di distanza dalla
propria stessa opera; questa sorta di condanna del genere da parte dell’uomo che sul panorama italiano
aveva proiettato IL romanzo storico sembrò un incomprensibile atto sabotatore.
In realtà non è il frutto della vecchiaia di Manzoni, soprattutto perché non c’è traccia al suo interno di
menzioni di qualsiasi tipo ai Promessi Sposi: e questo perché Manzoni non aveva nessuna intenzione di
sconfessare il romanzo storico per come generalmente è percepito. Semplicemente, secondo Manzoni, il
romanzo storico non serve più:
1. Perché è stata una moda. Il tempo passa, e la letteratura e le sue forma sono sottoposte a questo
incedere.
2. Perché la concezione stessa di storia influenza l’evoluzione di questo genere: la storia è più
appassionante del romanzo, di per sé non ci sarebbe bisogno del romanzo per renderla avvincente;
e più un lettore si appassiona alla storia, meno guarderà al romanzo. Quel romanzo era fatto
così per la vicenda narrata, ma va superata; sempre di più Manzoni si convince della necessità di
dedicarsi alla storiografia pura e semplice. Il romanzo storico è una costruzione geniale in cui
storia e fantasia sono giocati l’uno contro l’altro.

4. La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859


Ultimo saggio manzoniano, scritto nel 1862, sulla Rivoluzione Francese, riflessione su come quella vicenda
che ha rovesciato il potere monarchico feudale può centrare con la vicenda italiana: confronto sistematico
tra l’una e l’altra, analisi delle cause degli insuccessi della prima. Una storia piena di fatti singoli e
collettivi, di rapporti tra potere e popolo, di conflitti, ingiustizie ecc. Una rivoluzione nata da una necessità
buona e finita in un bagno di sangue, iniziata tagliando la testa a un re e finita nelle mani di un imperatore,
Napoleone, e una rivoluzione invece andata a buon fine. Negli anni in cui scrive, questa storia
dell’Ottocento è ancora nella mente di molti, e nel frattempo l’Italia si sta riunendo.
11 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 7

Luigi Meneghello
Un autore che colloquialmente si definisce bravo è uno scrittore che sintetizza un alto controllo e dominio
delle risorse formali e che supera la tecnica, raggiungendo esiti che non sono semplicemente la risultante
degli artifici formali e dell’elaborazione stilistico-narratologica; uno scrittore che ha fatto un’accademia,
che generalmente non è privo di conoscenza e linguaggio, anche se non si limita a questo. Quello di
Meneghello21 è un caso interessante: è certamente di sconcertante bravura, ma non si riesce facilmente a
definire tale bravura. A volte pensiamo che essa dipenda dal talento, che per certi versi è un mito, ma di
certo ne aveva. È uno scrittore appassionato, e facilmente capisce grazie anche al percorso scolastico che la
scrittura è nelle sue corde.

 Nel 1940 Meneghello (c.ca 18 anni) vince un premio di scrittura offerto a un giovane incaricato
di svolgere un tema, un esercizio di prosa. Nel suo caso sviluppa un tema di propaganda fascista,
che viene premiata non solo per l’aderenza a una ideologia, ma anche per le modalità stilistico-
estetiche con cui Meneghello raggiunge questo risultato. Noi sappiamo però che quella di
Meneghello è una storia che conosce una fase di adesione a quell’epoca e a quel linguaggio
fascisti, ma anche un distacco.
 Un primo distacco, non solo dalle idee, ma anche dalle pratiche, attraverso la militanza nelle
truppe partigiane, a rischio anche della vita
 Un secondo distacco dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Migra in Inghilterra, dove si
confronta con una lingua e con la letteratura che non sono le sue, né italiana né dialettale. Le sue
due lingue, dialetto e italiano, fanno poi i conti con l’inglese, molto diversa come struttura e come
cultura che rappresenta. Qui insegna a Reading, continuando a maneggiare solo da lontano e
attraverso l’inglese la letteratura italiana, tornando a Malo solo episodicamente.
La prima formazione e la seconda formazione di questo giovane si incontrano con una nuova fase della
formazione, che in qualche modo riparte da zero. Relazionarsi con l’inglese non significa solo
cambiare canale, non è un binario parallelo. Ci sono punti di assoluta estraneità tanto quanto punti di
commistione, punti di ibridazione, metamorfosi.

2121
Attenzione: le note dei libri di Meneghello di solito sono d’autore, e sono parte integrante del testo, ne
costituiscono i rivoli ulteriori.
Lingua, scrittura e oralità
In un passo fondamentale de I piccoli maestri22 Meneghello recupera una citazione illustre di Verlaine
(conosce bene sia Verlaine che Montale) scrivendo:
“mentre russi tiravano il collo al nazismo noi cercavamo almeno di tirarlo alla retorica
(cioè, non è che abbiamo dato chissà che contributo dal punto di vista delle forze in
campo)”
Ma dal punto di vista dei giovani è la retorica lo strumento di conversione di massa, propagandistico:
torcere il collo all’eloquenza era il programma dei poeti francesi dell’Ottocento, con cui cercavano di
opporsi alla letteratura del loro tempo, opponendosi a una pratica della letteratura soprattutto retorica e che
avrebbe perso per strada il contenuto: una controeloquenza, un superare la bellezza di Alcione di
D’Annunzio scrivendo gli Ossi di seppia di Montale.
A un certo punto Meneghello svolge non soltanto un pendolarismo fisico, ma anche linguistico:

“ho imparato a scrivere bene in italiano attraverso l’inglese, perché mi ha aiutato a


liberarmi dall’italiano fascista, della mia prima formazione”.

 L’incontro non solo con l’inglese scritto e insegnato (accademico) lo colpisce per una sorta di
atteggiamento volto alla comunicazione: che non significa che sia un inglese sciatto, banale o
senza profondità; la prima impressione che si ha leggendo Meneghello della seconda formazione è
di un uomo che si esprime con estrema serietà ma che ha grande rispetto della comunicazione,
senza arricciarsi o nascondersi dietro a una certa solennità. L’oscurità e la solennità non sono più
sinonimo di prestigio: l’Italia, in termini di tradizione retorica, con il Risorgimento, con il
fascismo, con il postfascismo, invece, questo vizio ce lo aveva abbastanza radicato. Per Meneghello
andare in Inghilterra significa scoprire che c’è un modo diverso di parlare. La distanza fisica e
sentimentale di Meneghello dal suo paese di origine ha all’incirca lo stesso effetto che ha negli
scrittori soprattutto siciliani, cioè di richiamare, rievocare, ristabilire una nostalgia.
 L’italiano di Meneghello se da una parte è depurato dall’inglese, dall’altra è però contaminata dal
dialetto, che riemerge tanto più aumenta la distanza nel tempo e nello spazio con questo modo di
esprimersi.

22
Tradotto in inglese Outlaws: funziona nel mercato inglese, non nella prospettiva italiana
In Meneghello ci sono due aspetti che stimolano l’interazione linguistica:
1. L’ironia e l’autoironia: in La virtù senza nome, l’ironia viene descritta come la capacità di
ribaltare la narrazione per eliminarne la pomposità e far emergere il vero. L’ironia poi si tramuta a
volte in autoironia.
2. La consapevolezza linguistica che l’esperienza e la cosa sono concepite oralmente, la parola
dialettale è sempre connessa all’esperienza perché è l’esperienza che la genera. Tuttavia,
l’esperienza per essere comunicata deve avvalersi di un mezzo che non le è proprio, che è la
scrittura:
- il dialetto puro in Meneghello si riscontra in pochissime occasioni, specialmente nel caso di
discorsi pubblici o luoghi proverbiali/filastrocche (o nelle note!);
- più diffusamente attua un interplay attraverso il trasporto, cioè uno strumento per superare la
distanza tra parola dialettale e italiano, che permette di creare una parola che in apparenza è
italiana ma si rifà al dialetto.
Meneghello in qualche modo tradisce la sua lingua, prima scrivendo il dialetto, e poi
trasportandolo: ma sa che scrivere i ricordi in lingua letteraria non funziona; perciò, si
rende necessario questo procedimento di trasformazione del dialetto.
Es. masto, maiale: in una nota23 spiega che il termine è tale solo da punto di vista fonetico,
perché il nucleo dell’esperienza che genera la parola resta incomunicabile, ineffabile.
- Ma c’è un altro modo con cui il dialetto si fa sentire: si fa sentire, perché vi è contenuta la
cadenza, che è legata all’oralità dialettale: non è un caso che uno dei più appassionati e
appassionanti studioso di Meneghello sia Marco Paolini, attore, che ha dedicato molto del suo
lavoro a recuperare questa connotazione veneta (e lo fa in generale, mantiene questa
sporcatura in generale, non solo in relazione a Meneghello). È secondo Paolini che l’uso della
bestemmia in Veneto contribuisce alla cadenza, e ci sono delle note dello stesso Meneghello
che ne parlano. Anche nelle traduzioni si vede, a volte modifica l’impianto sintattico
dell’originale per adattarlo alla sintassi del dialetto. Primo Levi dice che Meneghello è il più
bravo a salire e scendere il diapason delle possibilità linguistiche.

23
L’opera di Meneghello non è mai continua in sé, non è completa senza le note, e la lettura delle note ci obbliga
inevitabilmente alla lettura discontinua. Non è molto diverso da quello che faceva Gadda, il testo non riesce a
rimanere dentro la pagina, si dilata in diverse direzioni.
12 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 8

Le opere
Abbiamo detto che nei libri di Meneghello sono presenti dinamiche molto complesse: provincialismo,
rappresentato da quella adesione fascistissima che è tipica della formazione, e cosmopolitismo, la cui
breccia è aperta da Giuriolo, professore che ai Piccoli maestri che attorno a lui si costituiscono presta libri
sul Risorgimento, su Pisacane, ecc. A Giuriolo è dedicata tutta una parte di Fiori italiani.
Meneghello dichiara molto spesso che il suo impegno italiano è quello di restituire un resoconto fedele
della sua esperienza, ma ricordiamoci che tutto passa da un prisma; il concetto di prismaticità è un
concetto che Meneghello utilizza in un suo passo e che sintetizza tutta la sua opera (la quale ha sempre
una importantissima dimensione autobiografica, anche se in essa non si esaurisce):

“Una parte della luce passa, mentre altra viene rifratta […] così le cose che mi sono
successe attraversano questo prisma, e ne escono come intensificate, e allo stesso tempo
alterate, modificate.
Guardando quel prisma ci si rende conto che le cose hanno subito delle modificazioni, delle deformazioni, e
appaiono più belle di come sono state effettivamente. La sincerità di Meneghello non implica mai che
quello che racconta sia effettivamente andato così; le cose non vengono però mai modificate per
ingannare. Tutti i libri raccontano di episodi avvenuti molti anni prima, perché è necessaria la
sedimentazione (anche per tenere a bada la commozione, soprattutto se si tratta di materia incandescente
come quella della guerra civile), e pertanto tra racconto narrato ed esperienza vissuta si inseriscono delle
variazioni. Il racconto di Meneghello è frutto di un continuo travaso di materia (tra-, è appropriato per la
materia di Meneghello).
La ricostruzione della biografia procede sempre a sbalzi in Meneghello, i suoi libri
ricostruiscono un pezzo alla volta senza però mai seguire una linea retta. È una divisione
comoda, ma dobbiamo sempre ricordare che la produzione di Meneghello è un
continuum, si parla di vasi comunicanti, ci sono parti che si richiamano da un libro a un
altro ed è indice della complessità della produzione di Meneghello.
Sezione linguistica Sezione civile-pedagogica Jura Sezione inglese Spor.

Libera nos a malo è una Fiori italiani, che esce per Ci sono altre Altre Spor. Raccontare
ricerca etnografico- Rizzoli, migrando da un pubblicazioni pubblicazioni lo sport, tra il
linguistica. Pur editore all’altro come già intermedie, poi dieci intermedie, e poi il limite e l'assoluto,
contenendo molti elementi successe per Pomo Pero, è anni dopo esce Jura Dispatrio, testo con testi inediti:
drammatici, li trova un libro sul tema della (non incasellabile in dedicato non a scritti che
descritti con una penna scolarizzazione, che per nessuna cosa significa costituiscono una
molto lieve, lascia lui si verifica in due fasi, categorizzazione) - espatriare, ma parte fino a poco fa
implicita la durezza della prima in Italia e poi in collana dei Saggi Blu dispatriare. dispersa del suo
situazione che pur emerge. Inghilterra. In Fiori di Garzanti24, una Inaugura la lavoro ma ora
Il fil rouge delle morti, italiani Meneghello collana di saggi vera cosiddetta materia emersi come
soprattutto dei bambini, è racconta di una prova e propria. Esperienze inglese, per cui frammenti di una
sempre presente. Spesso sostenuta nel ’36 per lavorative di docente quattro anni dopo autobiografia,
troviamo un’espressione qualificarsi ai Vittoriali del e scrittore esce La materia di come sempre:
contemporanea delle ’40 (chiamata Agonali). In confluiscono in Reading e altri tentativo di
prospettive del questo saggio si lamenta la questa riflessione sul reperti. recuperare la
Meneghello bambino e mancanza di idee, non linguaggio che si bellezza dello sport
adulto, si crea una frizione l’indottrinamento, che era concentra sul breve depurandosi da
tra diverse visioni. Esce parte normale della propria periodo ‘45-47, tra la quell’aura mitica
con Feltrinelli nel 63. età. Cos’è l’educazione, fine della IIGM e la di cui il fascismo lo
come attraverso di essa e scelta di migrare aveva avvolto, nelle
Pomo Pero rappresenta un oltre ad essa si costruisce all’estero. sue linee essenziali
tentativo di dissodamento un’identità? C’è sia e positive.
di quel linguaggio di Malo l’imparare che il
che era già nel libro di disimparare per
esordio, spingendosi imparare il nuovo.
rispetto ad esso più avanti
e più indietro (un’infanzia
prima del linguaggio)

24
Saggi di grande spessore e qualità, spesso internazionali, ma collana saggistica
Libera nos a malo
Struttura del libro:
- 1-12 infanzia
- 13-15 paese
- 16-31 si ritorna più chiaramente alla dimensione degli aneddoti in prospettiva più adulta,
giovinezza/adolescenza. La finestra che si apre sull’esperienza partigiana e si richiude molto
rapidamente, come se nell’ambiente di Malo quell’esperienza non potesse avere posto

La lingua
“Questo libro è scritto da un mondo dove si parla una lingua che non si scrive”
Cosa ci dice questa frase? Che il libro non è un nastro registrato, è un libro scritto in Inghilterra, da un
autore che ci vive da tanti anni, che normalmente pratica l’inglese, ma che decide di scrivere un libro sul
dialetto.
Lungi dall’essere solo un impoverimento, la scrittura per Meneghello ha una pressione positiva
sull’oralità. Non è che dialetto buono/scrittura italiana cattiva: Meneghello sfrutta la tradizione letteraria
italiana e le sue risorse per trovare una soluzione di compromesso attraverso la forma del trapianto, del
trasporto e della traduzione.

Il linguaggio del paese è un linguaggio di cose; l’italiano (e figuriamoci il latino) è la


lingua dell’astrazione.

La forma degli oggetti del paese non cambia. Come sempre con Meneghello dobbiamo prendere con le
pinze: descrive la percezione di un paese come grande luogo di giochi, come un luogo dove tutto è noto
in modo rassicurante. Ma anche Malo sta cambiando! In riferimento a questo, un passaggio di Libera nos
a malo:
La lingua si muove come una corrente straordinaria, che non si percepisce perché ci
siamo dentro, ma quanto torna un migrante, si riconosce la lingua com’era nel punto
stesso in cui era uscito dalle acque: non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra.
La cosa interessante è che qui sta adottando la prospettiva dello stanziale, ma in questo caso è lui il
nomade! Anche se Meneghello conosce benissimo entrambe le prospettive, quella di chi resta (l’ha
vissuto da bambino) e quella di chi se ne va e ogni tanto tona. È una duplicità di prospettiva che per
esempio Pavese non aveva anche se sono i temi che anche in lui sono molto presenti.
18 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 10
Visione di Ritratti25

Popolo e istituzioni
È proprio questa dicotomia linguistica il sintomo di una profonda divisione tra la realtà del vissuto
quotidiano del paese e la vita istituzionale:

 la realtà fascista presente a Malo


 la religione cattolica, capillarmente presente, come in ogni realtà italiana.

25
Film del 2002 di Marco Paolini, 3 incontri, chiacchierata/intervista e viaggio nelle parole di Stern, Zanzotto e
Meneghello.
Se da un lato il fascismo era un dato della natura, non della cultura, a maggior ragione lo era il
cattolicesimo. Il bambino che cresce in questo paese fa i conti con due realtà che sono saldamente innervate
nelle menti e nelle famiglie.

C’è come una sorta di doppio binario nei paesi: da una parte le regole, dall’altra la
realtà delle persone e dei comportamenti, molto differente dall’ossequio formale.

Tutto quello che la Chiesa fa recitare ai suoi fedeli ci viene descritto come se fosse una filastrocca tanto
nota quanto ignara sia per quanto riguarda la retorica fascista, sia per quanto riguarda il latino
ecclesiastico delle preghiere.
Es. I bambini sono sempre dietro a compiere gli atimpuri, che li attraggono per essere
peccaminosi e indefiniti nel loro significato, e poi si confessano. È il meccanismo base del
cattolicesimo.
Secondo l’etica del paese, buono è significato di sciocco, mentre essere gran lavoratori costituisce
l’espressione del massimo grado di stima e rispetto che un membro della comunità può vantare.
L’etica del paese è questo che comanda; molti termini del decalogo tutto formale del cattolicesimo
vengono ribaltati di segno nel corso del romanzo:

 La questione dell’amore per i propri nemici, incomprensibile per un bambino


 La questione dell’eros è quella che meglio esemplifica questa dinamica.

Nella realtà del paese il taboo è un gioco.

14 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 9

L’Ironia e il filtro infantile in LNM


L’ironia è sempre presente in Meneghello come portato dell’esperienza inglese e filtra le vicende.
Parlando della materia popolare e agricola, Meneghello non fa un maquillage della memoria, non sta
colorando di rosa una realtà che in realtà era nera, che è un rischio insito in molte dimensioni memoriali:
racconta la realtà di Malo con tratti molto vivi, sono personaggi peculiari che spesso strappano il riso ai
lettori. Ma non sublima nulla, fa menzione delle morti dei bambini, della durezza e della fatica del lavoro,
il lavoro non subisce particolari variazioni se non legate al clima. Descrive la miseria, la fatica, la
scomodità, la difficoltà: ma non viene mai calcato il pedale del tragico.
Questo accade anche attraverso il filtro infantile26, che rende tutto più ovattato, onirico, distanziato
(tragedia compresa: il verso senso della perdita, della privazione e della morte sono più chiari a un adulto):
l’effetto ironico si crea perché questo filtro è percepito sia dallo scrittore che dal lettore, che sono
consapevoli della sfasatura del racconto creata dal filtro. Ma non è un effetto con cui si mira al comico;
si mira semplicemente al distanziamento.

 La prospettiva infantile viene proiettata sull’ambito del potere politico e religioso e li rende goffi e
assurdi, come qualcosa che aleggia in alto, che si sa di dover tenere a mente e rispettare, ma che
nella pratica non si rispetta. Ancora una volta, la prospettiva infantile è utile e largamente utilizzata
per permetterci di sentire questo scarto.
26
Agostino di Moravia adotta la stessa tecnica del filtro infantile, e descrive la scoperta della sessualità da parte
del bambino durante una vacanza al mare con la madre, e delle differenze di classe: non solo attraverso il suo corpo si
promuove questa scoperta, anche attraverso il rapporto con gli altri bambini più poveri. La stessa cosa il Meneghello
dei Piccoli maestri, dove quello delle differenze di classe è uno dei sottotemi, la scopre nella relazione con i malgari.
 Stessa cosa vale per la dimensione dell’eros
Esempi:
1.Specialmente nel capitolo ventitreesimo di sapore vagamente boccaccesco: la messa a fuoco del soggetto è
tutta femminile. Sono solo le donne ad essere adultere? No, è l’espressione del pensiero e della cultura
cattolica misogina, ma soprattutto è il frutto della pressione esercitata dagli uomini e legata alla perdita
della virtù femminile e all’identità della donna da focolare: l’adulterio costituisce la valvola di sfogo da
un controllo estremamente intransigente sulle vite e sui corpi. Il taboo è tutto formale, ogni diversivo
deve essere preso, va preso. I sensi di colpa e i ripiegamenti sono mentalità borghese. In un mondo in
cui la carne è così importante, così repressa, se c’è uno spazio di libertà, questo va preso.
2.Lo stesso tema viene raccontato in un altro capitoletto, che inquadra la fase prepuberale, durante la quale
si sperimenta il desiderio dell’eros senza preoccupazione per un taboo che allora non esisteva (mentre
esiste ora), quello dell’età: ragazzini e ragazzine sperimentano l’eros con coetanei o adulti in modo più
disinvolto che ora, e sicuramente in modo diverso che in età post matrimoniale.

Non si calca il piede né sul tragico né sul volgare.

Interessante la spiegazione del titolo di LNM: liberaci da luàme27. Il momento in cui ci descrive
l’etimologia originale di questa crasi presenta alcune immagini di morte che si chiude sul topo di chiavica
incastrato tra porta e stipite sullo sfondo del rumore dei rastrellamenti: una sintesi di due livelli,
l’astratto naturale e il concreto storico, che traccia allo stesso tempo una linea di discontinuità e
continuità. È un libro che ha tanti tratti di leggerezza ma che mai dimentica la violenza tanto quotidiana
quanto storica.

27
Luogo esterno alla casa e deputato alla defecazione.
I piccoli maestri
È un Bildungsroman, la storia di uno studente che esce dalla dimensione familiare ed entra in contatto con
realtà nuove che lo fanno crescere28. Il personaggio di Meneghello incontra solo sull’altipiano la vera
durezza, anche se non è un personaggio completamente estraneo a questa esperienza.
Ad esempio, il romanzo ha inizio con la descrizione della buca all’interno di cui il protagonista si
nasconde per sfuggire al rastrellamento antifascista, e non ha le scarpe adatte: segue una lunghissima
sezione tutta percorsa a piedi nudi. Cfr. esempio dei sassi, Vi ho in culo, ironia che smorza la durezza
della situazione.
Rientra dentro questo buco dove dice di aver vissuto il momento più devastante della sua vita, ma
comunque rimane un po’ estranea questa esperienza, sembra una crisalide. Comincia da questo
ritornare a un momento che sembra spostato, e capisce la necessità di ri-raccontare tutta la storia, di
rimontare, di ricostruire, di reinventare tutta la vicenda, al netto della fedeltà ai fatti realmente avvenuti, per
capire se hanno avuto un senso.

Solo la parola può darsi e avere un significato, non è mai solo la cosa in sé, è
importantissimo per Meneghello che i fatti in sé sono perduti, è la parola a
ricostruire e a restituire consistenza.

La necessità di racconto non diventa mai pura espulsione di parole, la necessità è qualcosa che va
guidata, incanalata, problematizzata. Sia Libera nos a malo che I piccoli maestri ce lo dicono molto
chiaramente nella prima pagina del libro29: cominciano entrambi con qualcosa che evoca un tempo
passato ma che immediatamente si mette in dialettica con un tempo successivo.
La pagina iniziale presenta una sorta di indicazione di scena Nei I piccoli maestri uno dei concetti
teatrale, Si comincia con un temporale. Si comincia con un fondamentali del libro è la
ritorno a casa, durante un ciclico ritorno dall’Inghilterra, il conclusione della prima scena,

28
Es. la fatica del lavoro, cfr. La malora di Fenoglio
temporale è una sorta di sottofondo costante, come se quel quando il protagonista liquida la
suono fosse lì unico, come una camera acustica in cui compagna che gli chiede informazioni
l’impatto del suono con le vibrazioni crea un effetto su cosa fosse successo durante
inimitabile. Se ci fate attenzione c’è una subliminale l’esperienza partigiana, dicendo Noi
impostazione che ci fa capire che non è un fatto ma una non eravamo buoni a fare la guerra.
ricreazione mentale: lo scatto amnestico è dato dalla Come a dire, sarà l’ennesimo libro
situazione che apre una memoria, un ricordo, non è la partigiano: ma non aspettatevi un
realtà ad essere rimasta immutata. libro retorico, di imprese.

29
Weber fissato sulle prime pagine, da studiare bene
Il romanzo descrive il rapporto tra figura umana e territorio circostante in sezioni di notevole bellezza,
descrive l’altopiano di Asiago così come riesce intensamente a percepirlo. Il paesaggio ha valore
geografico, tangibile, personale (la percezione del paesaggio si modifica con l’esperienza, man mano che
accadono le cose30).
L’Altipiano, come Malo, non è descritto in italiano, ma secondo una lingua locale (cfr. descrizione dei
mughi31). Malo, provinciale o no? I luoghi sono molto importanti per Meneghello per due motivi:
1.All’Altipiano sono dedicati alcuni dei suoi libri più famosi e non solo suoi. Una caratteristica importante
che ne ha fatto un luogo letterario non è solo il suo ruolo di scenario di eventi di massa molto importanti
per il primo conflitto mondiale, ma una caratteristica che lo rende peculiare: il fatto che si offra a un
colpo d’occhio umano, a differenza dell’imponenza di molti altri paesaggi che sono eccessivamente
ampi per essere colti dalla prospettiva umana nella sua interezza. La piccolezza della figura umana è
comunque in grado di entrare in comunicazione con questo ambiente e con i suoi dettagli.
2.Allo stesso tempo però è un paesaggio percepibile nei suoi dettagli: esempio dei mughi, descrizione di
come ci si deve comportare con le varie tipologie di cespuglio.
È un libro che è tutto attraversato da descrizioni dettagliatissime: non c’è nessuna informazione che non
sia vitale nell’esistenza di un partigiano, la conoscenza del paesaggio e di come sfruttare le sue realtà può
fare la differenza tra vita e morte.

L’ironia nei Piccoli Maestri


Meneghello e Fenoglio (che è un autore fortemente tragico) si incontrano soprattutto nelle descrizioni dei
rastrellamenti, che sono gli episodi più drammatici dell’esperienza del partigiano. In entrambi la
percezione sgomenta della disparità delle forze in campo. Tuttavia, malgrado questo episodio accomuni i
due autori, ciò che diverge è la modalità di narrazione.

 Fenoglio racconta facendo morire i suoi personaggi, nel flusso di una Storia che però continua
nonostante le morti dei suoi autori.
 Meneghello invece sa che lui e i suoi compagni non erano buoni a fare la guerra, ma non tutti erano
come loro: l’ironia sta in questo. I piccoli maestri ha il finale più anticlimatico che si potrebbe
immaginare; si conclude con i due protagonisti che si fanno riconoscere come partigiani dai liberatori,
ma manca ogni tipo di enfasi trionfalistica, anche se la vicenda è quella di una vittoria, non è mesto,
legato alla presunzione di una previsione del disfunzionante dopoguerra: l’obiettivo è quello di
contrastare una retorica che tenderebbe all’enfasi. Un finale antieroico e antitrionfalistico.

Dispatrio32
In quest’opera è contenuto un frammento di dialogo tra un membro del consolato e l’autore, in cui il
giovanotto dei visti storce il naso davanti all’indicazione della sua destinazione, Reading, “the provinces”:
Meneghello dice che the provinces è il posto meno sgradevole del mondo, se pensa a Malo. Di sicuro
Meneghello dagli inglesi ha imparato un’ironia garbata, pacata.
E in effetti Meneghello scrive quasi subito un libro su Malo; nell’affermare che Malo non sia provinciale
sta dicendo che provincia è ciò che è segnato dalla distanza e dall’inevitabile connotato di inferiorità.
Meneghello è andato in un’Inghilterra dove precocemente si è misurato con la modernizzazione
30
NB. Gesualdo Bufalino: Museo d’ombre, con una serie di importanti fotografie di Giuseppe Lione che mostrano il
paese e lo mostrano come un paese fantasma: è un’angoscia di molti momenti e molti luoghi tra il boom economico e
gli anni successivi, non è solo di Meneghello.
31
Descritti da boscaioli: concretezza del linguaggio ma trasportato.
32
Racconto della trasferta a Reading, poi seguito da altri libri, esce nel 1993.
postbellica, e ripensando a Malo una delle cose di cui si rende nitidamente conto è che Malo è un paese a
misura d’uomo, che ha la forma delle cose fatte dagli uomini e dalle donne di Malo: lodarne la bontà non è
una presa di posizione strapaesana, va letta nella prospettiva dei tempi in cui viene pubblicato il libro, il
momento in cui sta arrivando la svolta della produzione consumistica, di un’esistenza prodotta e
trasportata dall’alto, di un meccanismo che sicuramente civilizza, ma che per certi versi disumanizza (e
non è la posizione del solo Meneghello, ovviamente).
Frammenti tratti da Dispatrio mostrano come il prima e il dopo sembrino coinvolgersi a vicenda, si
contrappongono e si modificano vicendevolmente:
Es. frammento memoriale del 1947, pubblicato poi nel ‘93: colpito da una celebrazione sottotono
della Battle of Britain, per celebrare l’opposizione al nazismo (erano praticamente gli unici a
farlo all’epoca) e la messa in scacco delle armate tedesche da parte della RAF (Royal Air Force);
la prima vera importante sconfitta dei nazisti inflitta in solitudine dagli inglesi viene celebrata,
quindi, a trionfo concluso e indubitabile, in modo estremamente sobrio: niente discorsi, niente
squilli di tromba. È colpito al punto da fissarlo sulla carta molti anni dopo, quando già ha fatto
tesoro di quello che ha vissuto e raccontato né I piccoli maestri.

Malo non è provinciale perché è qualcosa che rispecchia l’agire delle persone che lo
abitano: e dove persino il muoversi delle ombre delle cose è noto.

Facendo questi studi, mediati da una lingua diversa, Meneghello mette sempre più a fuoco la possibilità
(inedita) di raccontare la storia di un paese (cioè una comunità, non un singolo) e di una realtà umile.
Perché questo accadesse in Italia si dovette attendere molti anni 33. Diciamo che Meneghello è un precursore
di questa tendenza grazie all’aria che respira a Reading e al rapporto con i rapporti che vi intesse.
Tra questi incontri uno dei più incisivi fu quello con il futuro direttore del dipartimento di Reading, che
nei testi meneghelliani viene nominato sir Jeremy34; una sorta di mentore e guida per Meneghello.
Esempi:
1. Il conformista di Moravia esce nel ’51 e contribuisce a consolidare il suo primato sulla scena
romanzesca italiana (e non solo). Sir Jeremy dice a Meneghello: è uno spasso, c’è quello studio
freudiano su come si sviluppi la pulsione omicida […] è evidente che un tipo così alla fine
ammazzerà un uomo. […]. Meneghello si accorge che Sir Jeremy non apprezza questo tipo di
scrittura.
2. In un altro passo invece con Sir Jeremy affronta la critica crociana35, uno di quegli argomenti su
cui in Italia non era ammesso discutere. Sir Jeremy dice: “sono idee che qui diamo per sottointese”:
un commento che serve a connotare questo tipo di filosofia come banale.

33
Microstoria, Carlo Ginzburg
34
Nella realtà Donald Gordon
35
Per certi versi i crociani venivano percepiti come legati in una certa misura ai fascisti
19 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 11

Giorgio Manganelli
Manganelli nasce nel ’22 a Milano e muore nel 1990, dopo aver pubblicato molti libri. Sembra essere stato
principalmente un prosatore (a parte una rapida parentesi poetica in giovinezza). Paradossalmente però ha
pubblicato la stragrande maggioranza delle opere post mortem. L’enorme mole di pubblicazioni
postume è legata alla molteplicità degli scritti, corpus corposamente variegato.
Il che è straordinario se pensiamo a quanto Manganelli in vita pensasse all’oltretomba: il fatto è che la
produzione di Manganelli è stata estremamente sparpagliata e le sue opere sono confluite nel catalogo
Adelphi36 anno per anno, ma soprattutto molto si è ritrovato dopo la morte.
Il suo primo romanzo viene pubblicato con Feltrinelli nel 196437, Hilarotragedia: presenta una copertina
contenente l’immagine di un uomo, quella dell’autore. È una curiosa scelta:
- Il fatto che ci sia la foto dell’autore non è scelta così pacifica, è rara anche per gli autori più famosi.
- La foto ha dei tratti noir, ha un che di losco38
L’autore, in accordo con l’editore, sceglie un’immagine che suggerisca un’idea dell’autore come losco
individuo notturno, non un intellettuale illuminato.

Un’altra immagine molto diffusa è questa di Manganelli ritratto all’uscita da una salumeria, un luogo con
dei tratti antichi (cfr. insegna dipinta sul muro), dove ugualmente ha un aspetto losco, sembra uscire di
soppiatto dopo aver commesso
una rapina.

Il percorso universitario
È un autore che fa i conti con la
IIGM, che travolge la sua
esistenza malgrado la sua
volontà. Alcuni dei giovani di
questa epoca si laureano
fortunosamente, alcuni39 si
laureano senza tesi; Manganelli
non è costretto a interrompere
gli studi, li compie subito dopo la
fine della guerra ma si laurea in
un ambito diverso da quello
aspettato, in Scienze Politiche.

36
Manganelli segue Luciano Foà quando si stacca da Einaudi per fondare con Calasso Adelphi, e da questi sarà poi
pubblicato.
37
Sia Manganelli che Meneghello esordiscono a 41 anni, l’età a cui Fenoglio muore.
38
Parola che
La sua tesi di laurea è stata ripubblicata post mortem nel 1999, e si intitola Contributo critico allo studio
delle dottrine politiche del '600 italiano, pubblicata da Quodlibet: perché?

 Studio storicamente orientato, si interessa al Seicento, all’epoca che noi chiamiamo


dell’assolutismo
 L’interesse di Manganelli sta soprattutto nel rapporto tra retorica e potere; in che modo la
retorica, con il suo inventario di figure, riesce a giustificare e dissimulare la realtà del potere. A
Manganelli interessa soprattutto studiare il polo del linguaggio, alle sue modalità di dispiegamento
linguistico e alla sua creatività, nell’epoca della sua massima bizzarria. Durante la sua formazione
Manganelli è lettore voracissimo, che esplora moltissimi mondi. Uno di questi è il mondo
elisabettiano: amatore di Shakespeare, non fa qualcosa di diverso che con Pinocchio, ad esempio, di
cui prediligeva più l’aspetto cruento e nero della favola originale di De Amicis più che
l’adattamento di Collodi. Così, spesso tendiamo a dimenticare la potenza della violenza e della
crudità della letteratura elisabettiana. La letteratura dell’assolutismo è piena di retorica, ma la
retorica è sempre sporca di sangue.
Manganelli attraversa con interesse la fantasiosità del mondo barocco, ma volente o nolente questa
fantasia affonda le sue radici nella natura più inconscia dell’animo umano. Ricostruire questo sguardo
sull’oscurità, che la letteratura più di ogni altra forma espressiva dell’uomo permette di esplorare,
accostandovi il fascino per l’attività compositiva musicale, è l’obiettivo primario di Manganelli, i cui
tentativi sono sempre legati a delle esplorazioni40.

L’esordio
Partecipa al gruppo ’6341 con un lavoretto, Hyperipotesi, operetta teatrale in atto unico con cui Manganelli
si presenta di fatto al pubblico42 per la prima volta: : l’ipotesi è qualcosa di fondamentale per
Manganelli; non racconta mai qualcosa, è un contenuto sempre sottoposto a delle ipotesi. C’è un
meccanismo nella struttura della frase che a volte è dissimulato con parole desuete, aggettivi altisonanti: la
sintassi non è mai lineare. Il modo con cui queste frasi funzionano è implacabile, sono meccanismi
imperfetti.
Aneddoto: Manganelli chiede a Bortolotto chi sia più brutto tra lui e Sanguineti. Bortolotto risponde:
“Sanguineti è brutto, tu non sei antropomorfo.” Da quel momento in poi Manganelli venne
soprannominato Il tapiro.
Abbiamo sottolineato questo aneddoto perché come lui stesso affermasse che anche la sua letteratura
non fosse antropomorfa.

Se ascoltiamo quello che Manganelli dice, le sue parole hanno molto più spessore di
quello che avrebbero se liofilizzassimo il contenuto dei suoi scritti. La letteratura di
Manganelli è tutta un tentativo di svincolamento del linguaggio dal suo referente.

25 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 13

39
Es. Stefano d’Arrigo
40
Anche nei reportage di viaggio questo è evidente, è uno sguardo verso la realtà che è estremamente esotico, si
appoggia sempre a soluzioni di tipo retoricamente elaborato, ma senza mai l’interesse barocco fine a sé stesso.
41
Il gruppo ’63 non aveva un manifesto, il manifesto erano gli atti stessi dei loro convegni
42
Feltrinelli pubblicherà gli atti del convegno di questo gruppo.
La nevrosi e la psicanalisi
“[…] nella concezione junghiana i simboli dell’arte e della letteratura sono «come ponti
gettati verso una riva invisibile» […]” Andrea Cortellessa
Ernst Bernhard era lo psicanalista di Manganelli; con lui ebbe un rapporto fondamentale, ne divenne una
sorta di ispiratore. Adottava il metodo della Mitobiografia. L’importanza del modello junghiano da lui
adottato ha il merito, secondo Manganelli, di aver riportato dignità alla frequentazione letteraria degli
inferi, al momento infernale della cultura. Secondo Manganelli, Freud era un pensatore troppo serio; Jung
era un ciarlatano in una certa misura, ma questo gli permetteva di compiere dei salti che rimanevano
preclusi al troppo serio e scientifico Freud.
Il problema psicologico che coinvolge Manganelli ha a che fare direttamente con l’anaffettività della
madre e il rapporto con lei.
Si è osservato come in determinati ambiti della società mediterranea l’organizzazione (soprattutto in ambito
familiare) fosse sostanzialmente matriarcale43; se in alcune culture il matriarcato è qualcosa che lega e fa
da connettivo, esiste però anche il suo rovesciamento, una dimensione entro cui le madri esercitano sui figli
un ruolo oppressivo, vampirizzante. È una ferita che molti uomini di questa generazione portano con sé, e
che poi ha dei risvolti negativi anche nel rapporto con la femminilità.

Per Bernhard il punto fondamentale dell’individuazione del soggetto è il distacco dall’eredità


genitoriale.

43
Manganelli fa spesso una cosa che se fossi psicanalista troverei allarmante: registra giorno, ora, minuti in cui finisce
il libro, e lo comunica ai genitori, ma i genitori sono morti: come se scrivesse sempre in contatto con queste figure, pur
detestate ed esecrate. Manganelli scrive parole feroci verso la madre; eppure, è qualcosa che non lo abbandona mai.
Gli autori di Manganelli
1. Carlo Emilio Gadda
Abbiamo scelto i due testi di Manganelli, Hilarotragoedia e Nuovo commento, perché sono
particolarmente eloquenti della poetica di Manganelli. Per capire la letteratura di Manganelli è
fondamentale il rapporto con Carlo Emilio Gadda; quest’ultimo scambia Hilarotragoedia con la parodia
del suo stile e si arrabbia molto perché trova di cattivo gusto che il suo proprio rapporto nevrotico con il
linguaggio possa essere preso a oggetto di parodia. In realtà non era nelle intenzioni di Manganelli, ma è
tuttavia innegabile che tra i due esista una linea di congiunzione molto forte.
Su Solaria, rivista molto importante, Gadda fa la sua apparizione iniziale44 nel 1927.
Nel 1931 pubblica un testo importantissimo che risponde a un’inchiesta che Solaria aveva indetto (una
sorta di questionario per gli autori) relativa alle tendenze contemporanee della letteratura; molti
rispondono45, ma Gadda lo fa con un testo che si intitola Tendo al mio fine, che in qualche misura può
essere considerata la sua dichiarazione di poetica (non ha risposto per gli altri, ha risposto per sé,
amaramente e un po’ gaddianamente). Ovviamente si gioca sul doppio senso della parola fine, sia come
scopo che come compimento, che nella sua prospettiva è luttuosa e funerea: si tende alla morte. Fin dalla
prima frase assume una posizione di irrisione e distacco dalle magnifiche sorti e progressive della
letteratura. Gadda utilizza continuamente una compresenza di registri che fanno cozzare l’aulico con il
plebeo e il profano, creando un linguaggio sofisticato ma aggressivo (non cortigiano, non retoricamente
barocco): Gadda diceva che era il mondo ad essere barocco, e serve la modalità espressiva adatta a
esprimerlo.
Gadda era una personalità estremamente sensibile, e a motivo di alcuni traumi fondamentali:
1. Carenza affettiva da parte dei genitori (in realtà tratto comune di una certa società italiana otto-
novecentesca, sia nel mondo popolare che altoborghese), che patisce e manifesta molto apertamente
2. l’esperienza della IGM, vi si impiega come ufficiale e viene reso prigioniero dopo Caporetto, che si
traduce in una sconfitta e un’umiliazione personale. Di ritorno dalla Guerra scopre poi che il fratello a
cui era legatissimo è morto come ufficiale aviatore.
3. Teniamo conto poi di un evidente problema di orientamento sessuale che non manifestava
apertamente ma che accentuava la difficoltà di vivere dentro il suo corpo.

44
L’apparenza frammentaria di certe opere spesso è legata alla loro natura di pubblicazione in rivista.
45
alcune di queste inchieste sono poi diventate anche opere letterarie monografiche a sé
Per tutta la vita Gadda porterà con sé l’idea del disordine, del caos, il sentimento di
impreparazione: ha una sensibilità da ingegnere, che vuole che tutto funzioni, ma che si scontra
con una realtà in cui nulla è ben oliato, il che peggiora le sue nevrosi. La nevrosi ha sempre un
fondo di onestà, parla di qualcosa che c’è.

Gadda è un uomo profondamente malato nell’anima e nei nervi46, la sua disperata ricerca di ordine si
rivolge sempre di più all’ambito che padroneggia meglio che è quello letterario, e si comporta come una
sorta di demiurgo verso la lingua: maneggia tutti i registri e le lingue con grande maestria, ma si rende
conto che la realtà è imprendibile e sfuggevole e non può in alcun modo essere addomesticata dalla
lingua. Il tema del caos e del garbuglio è estremamente chiaro a Gadda già nei primi anni ’30, non solo
quando arriverà a pubblicare il Pasticciaccio (1957): quando dopo la IGM proliferano i diari memorialistici,
Gadda afferma di ammirare chi riesce a scrivere dell’esperienza bellica, ma che per lui è stata troppo
scioccante, troppo vasta, troppo violenta per riuscire con le armi della letteratura di addomesticare quella
guerra.

Apparentemente Gadda è un autore non imitabile, non replicabile: ma un personaggio come


Manganelli, che è altrettanto turbato anche se per motivi diversi47, riesce a sembrargli simile.

2. Samuel Beckett
Verso l’uso intelligente dei mezzi, del silenzio e di questo tipo di radicale esercizio di destrutturazione del
romanzo lo aveva già indirizzato Samuel Beckett: con la sua Trilogia Beckett costruisce la più estrema
contestazione del romanzo:
Se la strada percorsa da Joyce e da altri grandi autori modernisti come Proust prevedeva un progetto di
letteratura totalizzante, in grado di raccontare il reale per accumulo, abbracciandone i molteplici livelli di
significato, la strada di Beckett si pone antiteticamente, nel solco di una radicale impotenza a trarre un
qualsiasi senso compiuto dalla realtà. Per Beckett le parole sono obbligate al paradosso suppliziante di
volere comunicare che non c'è niente da comunicare. Raccontare, narrare, è unicamente possibile
attraverso una serie di finzioni, affabulazioni, che i protagonisti della trilogia (progressivamente sempre
più tesi alla disgregazione della propria identità personale), si raccontano (e raccontano al lettore), nello
sforzo disperato e vano di dare consistenza a sé stessi e al mondo. Sono testi a metà tra francese e inglese.
Anche a teatro, la voce spesso viene fatta protagonista, se ne va la luce, se ne va il gesto, a volte la voce
stessa non è umana ma registrata.
26 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 14

3. Edgar Allan Poe


La collana Scrittori tradotti da Scrittori di Einaudi equipara gli scrittori ai suoi autori; e con questa collana
Manganelli pubblica le sue traduzioni dei Racconti di Allan Poe. È ovvio che l’immaginario gotico,
fantasmatico, horror, ma allo stesso tempo un rigore nella filosofia del linguaggio che guida la lingua
come una macchina estremamente precisa e metodica, estremamente controllata, è uno dei motivi per cui

46
In verità qualcosa scrisse, un diario, pubblicato negli anni ’50 contro la sua volontà, ma è privato, e il tentativo di
trasformarlo in un’opera è abortito.
47
Problema familiare con la madre, ipersensibilità linguistica, anche lui aveva intrapreso un tentativo di analisi della
sua psiche attraverso una terapia psicanalitica (Gadda non lo aveva fatto con uno specialista ma si era interessato
all’argomento)
Manganelli trova in Poe uno dei suoi modelli. La modernità letteraria che tutti facciamo legittimamente
cominciare con Baudelaire sicuramente ha anche un piede altrove, in Allan Poe.

4. Vladimir Nabokov
Un altro modello fondamentale è Vladimir Nabokov, non di tutte, ma di alcune pratiche Manganelliane sì.
Nabokov scrive prima in russo, poi in tedesco da rifugiato, poi in inglese da esule in USA, e questo ne fa
uno dei tratti interessanti per Manganelli.
Una delle costanti della poetica di Manganelli è l’ossessione per la morte, e di conseguenza quella per
l’immortalità, per il superamento della morte e del silenzio che provoca, che si dà ovviamente solo nella
letteratura. L’esistenza dei morti come soggetti raggiungibili, la comunicazione con loro: la letteratura di
Manganelli né piena, pensate alle Interviste impossibili, dialogo, rapporto con qualcuno che non è più o non
sarà mai.
La letteratura di Nabokov si comporta in modo simile. Era un personaggio non semplice:
penso come un genio, scrivo come un autore eminente, parlo come un bambino (ad
indicare la debolezza del corpo).
Nabokov però, a differenza di Manganelli, una vita accademica la ebbe 48. Secondo Nabokov siamo:
come uno spazzacamino che cade dal tetto, e mentre cade vede un cartellone pubblicitario
con un errore di ortografia e pensa al perché nessuno l’abbia corretto.
Cioè: siamo tutti destinati alla morte, ma durante la nostra caduta verso di essa, che è la vita, ci capita di
interessarci a cose di nessun conto in confronto a quello che sta per succedere, come la letteratura. È
interessante perché questo aneddoto raccontato da Nabokov a Lezione negli USA Manganelli non poteva
averlo conosciuto quando scrisse quasi la stessa cosa in Centuria: secondo il prof è una perfetta
poligenesi, non pensa che ci siano stati contatti, anche nel caso di Calvino, che a sua volta recupera
l’immagine:
nessuno di noi può più permettersi di fare come Thomas Mann49, che ha potuto guardare la
vita affacciato dalla ringhiera: noi lo guardiamo precipitando dalla tromba delle scale
Nabokov è uno scrittore, critico, traduttore, che soprattutto con la letteratura russa intrattiene un
rapporto di stretta vicinanza, di osmosi, di fecondazione. Per questo si trova ad aver a che fare con
qualcosa di assolutamente inessenziale per il resto del mondo ma questione di vita o di morte per lui.
Travolto dalla Rivoluzione russa, di famiglia aristocratica, finì in esilio prima in Crimea, poi in
Germania e poi in USA.
C’è chi dice che ha scritto come se la Rivoluzione russa non fosse mai esistita; secondo il prof Nabokov
scrive perché la Rivoluzione russa è esistita. Nabokov era trilingue in casa sua (francese, russo, inglese;
scrive in tedesco). Quando ormai da molti anni era esule in America, a metà degli anni ’50, il suo percorso
di scrittore si sta avvicinando a diventare famoso nel mondo, si fa una domanda:
Come faccio in un paese con una lingua così piatta a fargli capire la profondità e la
poliedricità della lingua e della letteratura russa?

48
Cfr. Lezioni di letteratura
49
Ultimo autore del Novecento a riuscire a guardare la realtà in modo unitario; già Joyce ebbe bisogno di
parcellizzarla.
In parallelo alla scrittura di Lolita, che per molti ha oscurato il resto della sua produzione, Nabokov si
appresta alla traduzione personale dell'Evgenij Onegin di Puškin, all’interno di cui poi lui stesso si
perde: il criterio di traduzione è rigorosamente letterale, che però produce una serie di distorsioni
inevitabili, a cui per compensare correda milleduecento note lunghissime che costituiscono un libro a
parte.
Pubblica poi nel ’61-62 Fuoco pallido, che è la summa e la vetta dell’opera di Nabokov; la sua costruzione
è molto più interessante della sua trama.

 Si apre con un poema in inglese di 999 versi di straordinaria bellezza scritta da un poeta fittizio
 Segue un commento di un altro autore immaginario, che fa circa la stessa cosa che Nabokov
aveva fatto con l’Onegin, cioè divora il poema.
I due autori immaginari nella finzione sono colleghi universitari, l’uno estimatore dell’altro, morto un
attimo prima di finire il suo poema: il commento spiega il testo nei simboli, nelle immagini, ecc.; poi però
ci aggiunge una serie di tratti biografici, aneddotici, e diventa una sorta di diario di amicizia, una
specie di messinscena di un io che diventa psicotico, non più mosso da una stima ma da un desiderio di
parlare di sé; la pratica del commento inizia a deragliare e inizia a diventare aggressivo, una sorta di
devastazione postuma, tanto che il commentatore si mostra come l’assassino stesso del poeta. Questo libro
straordinario non finisce mai; potete leggerli, spezzati, insieme, uno dopo l’altro, una volta, due volte, ecc.
non finisce mai, e non finisce mai di stupirvi.
21 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 12

Opere
A livello filologico, da una parte ci sono le varie stesure delle opere maggiori, e poi ci sono Appunti critici
(1948-1952), Zibaldone di Manganelli, sorta di raccolta di pensieri. Il grosso del lavoro ancora da fare su
Manganelli è la riesumazione degli scritti perduti.

1. Hilarotragoedia
Al convegno del gruppo ’63 tenutosi a Palermo nel 1965, Manganelli (e con lui Filippini) proclama
apertamente la «ripugnanza» per il romanzo, con la sua stolta pretesa di dire verità rinunciando ai fasti
della letteratura come artificio e menzogna; e solo Manganelli, con Hilarotragedia, aveva buttato alle
ortiche il romanzo in favore del trattato.
Hilarotragoedia si rifà dunque al modello del trattato. Si parte da un assioma. Si afferma che l’uomo ha
una natura discenditiva, la natura dell’uomo è fatta in modo tale che l’unico moto naturale per l’esistenza
umana sia quello di discendere. Hilarotragedia è pensato come un trattato che sviluppa il concetto che
tutto ciò che esiste è destinato al declino, alla discesa, alla morte.

Di fatto, altro non si vuole dimostrare altro se non che l’uomo tende al suo fine50.

È in verità uno pseudotrattato, perché del trattato, nel momento in cui lo imita, contesta l’organizzazione
stessa: manca un’organizzazione limpida, chiara e consequenziale, la dissesta completamente,
utilizzando tutto ciò che del trattato ci aspettiamo, ma facendolo declinando tali strutture in forme
continuamente disordinate e disordinantesi. Tutte le finestre che si aprono su questo mondo fingono un
ordine ma in realtà lo contestano continuamente; le false partenze e le false consequenzialità sono
all’ordine del giorno. Abbiamo un linguaggio totalmente non figurativo, e anzi giocato ostilmente, un
linguaggio pieno di bizzarrie, inarcature, figure retoriche che sembrano prolificare in modo tumorale e
verminoso, senza che obbediscano a logiche dimostrative. Una logica del trattato che si spalanca in forme
impreviste, non vuole incarnare un ruolo e un personaggio prestabilito.

 Il titolo è oscuro, e funziona tanto più riesce a comunicare un effetto di mistero; non si capisce altro se
non che sono presenti due parti, tragica e ilare.
 Il tentativo è quello di manifestare un’alterità radicale attraverso la lingua, una lingua piena di
sgambetti e trappole. La strategia più adottata da Manganelli è per questo l’ossimoro; ma lo utilizza
sistematicamente rovesciando quella tensione che già si dà nella figura retorica di per sé, ribaltandoli
di segno (es. usa al positivo un ossimoro a valenza negativa).
 Utilizza anche una sintassi particolarmente impervia, che rifiuta la scorrevolezza e la perspicuità,
un’architettura sintattica fortemente disorientante. È una lingua con cui bisogna prendere confidenza
per riuscire ad afferrarla.

Il mondo di Manganelli è un mondo dove il referente non è più necessario. Il vero


protagonista è la lingua.

Nb. Questo non significa che non ci sia un plot; in un saggio su Beckett Manganelli afferma che l’autore
inglese inizia avendo cose da dire, che è un inizio rovinoso: non bisogna avere cose da dire; Beckett
riesce solo quando si arrende a rinunciare alle cose da dire.

50
Manganelli definisce l’uomo come creatura Ade-discenditiva
Si può dire che Meneghello e Manganelli si muovano in direzioni opposte, tra comunicabilità e
incomunicabilità? Sì, si può dire, purché non banalizziamo pensando che Meneghello sia un autore
facile, e che Manganelli sia completamente avulso dal contesto che lo ha preceduto.

2. Nuovo Commento
Nuovo commento si presta ad essere la prosecuzione, o meglio ispirato a Fuoco Pallido di Nabokov, ma in
modo radicalizzato. Qui Manganelli fa un passo ulteriore perché manca completamente il testo: rimuove
la ragion stessa d’essere del commento. Appositamente manca; la prima nota commenta un testo che
non c’è. È un passo avanti consapevole e radicale di Pale fire.
Esce con Einaudi, accompagnato da una fascetta promozionale:

 mentre oggi si insiste in modo bieco e volgare sulla quantità


numerica di copie vendute, all’epoca furono più sagaci, e
vollero scriverci: Da questo libro non si trarrà un film51.
Manganelli pensava alla letteratura come a un viaggio
vertiginoso verso l’abisso del linguaggio e della psiche,
qualcosa di tutt’altro che conciliante: il suo era un tentativo di
tutelare lo specifico del linguaggio, una volta che l’opera è
tradotta in cinematografia questo aspetto si perde
completamente. I libri che si pubblicano oggi al 90% hanno un
impianto abbastanza canonico, non c’è quasi nulla che
destabilizzi o sorprenda il lettore; così non era per Manganelli.
 Alla fine, però si scelse la fascetta con su scritto: Il libro è
altrove.
Questa copertina vuole essere un’esplosione e un τέμενος, luogo
sacro che rimane perché identificato come deputato al culto: ma poi
si aggiunge che c’è come una confluenza all’interno, e allora
diventa un’implosione.
Quando Italo Calvino legge questa spiegazione della copertina manda
una lettera molto ammirata e attenta. È molto preziosa perché ci dice
della stima letteraria tra i due (umanamente troppo diversi per
stimarsi): Calvino avverte una sorta di incompatibilità di fondo: è
affascinato dall’ordine, puntano verso il rintracciamento dell’ordine
al di sotto dell’infinita varietà del reale. Di fronte a un testo così,
afferma di essersi messo al lavoro per trovare un ordine, per poi
rendersi conto che Manganelli non cerca questo, cerca di costruire
ordini continuamente disordinati. Sono radicalmente incompatibili,
pur ammirando la riuscita, il totale ribaltamento di ogni ordine, che fa
sì che in assenza di una narrazione, qualcosa deve tenere in piedi il testo, e questo scheletro sono le
progressive metafore.

51
Pare che fosse uno degli obiettivi dichiarati della produzione letteraria del gruppo ’63. Non è una posizione
snobistica, il pericolo è che nel passaggio dalla carta al film l’opera fosse sviata e deformata.
Gli esiti sono diversi, ma anche nella ricerca dell’ordine di Calvino preesiste sempre, e
diventerà sempre più avvertibile, un residuo di angoscia.

Anzi, l’abbozzo urbanistico (rivedi fine lezione) che Manganelli


elabora in nuovo commento è come se ponesse le basi per le città
invisibili di Calvino, che è un tentativo di riordinare il disordine
manganelliano
Esce poi ripubblicato con Adelphi, che dà una grandissima importanza alla copertina52. Adelphi ha
dato una sua interpretazione grafica, ma in appendice si trova sia la riproduzione della copertina
originale, sia la battuta di Manganelli secondo cui il libro è una lunga illustrazione di copertina.

Le comparse televisive
Interviste impossibili53
25 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 22

Lezione Cortellessa

52
Frammento di Calasso che spiega la filosofia della produzione editrice https://www.adelphi.it/la-casa-editrice
53
Vittorio Gassman e Giorgio Manganelli: mangiafuoco
3. Una profonda invidia per la musica
Manganelli era un grande ascoltatore di musica, soprattutto quella colta, con una competenza da
professionista. Si tratta di un libro postumo composto da conversazioni radiofoniche, e ci dice di quanto
il medium della radio fosse importante per lui.
Lavora moltissimo per la radio, che è un luogo che gli è congeniale; scrive, cura e realizza programmi per
essa. Per esempio, questo programma contenuto nel libro (La musica e i dischi di…) lo usa per dimostrare
che la musica e la composizione sono l’ambito a cui guarda con maggiore interesse. Manganelli decifra
da par suo i brani che sceglie, ma lo fa in modo tutto manganelliano, cioè posizionandosi nell’interlinea
del testo altrui. Quella di Manganello è una scrittura interlineare.

A Manganelli interessavano le strutture compositive prima che i significati.

4. Salons
Libro d’arte, immagini d’arte, non semplicemente dipinti, ma oggetti di vario tipo collegati e tenuti insieme.

5. Pinocchio: un libro parallelo


Riscrittura di Pinocchio: Manganelli riscrive Pinocchio tra le righe ripercorrendo le frasi del libro,
aprendo degli abissi tra le parole.

6. La letteratura come menzogna


Ne La letteratura come menzogna (primo libro di saggi, del ’67, che contiene quasi dei manifesti, e che si
occupa soprattutto di autori inglesi o anglofoni, perché quello era l’ambito privilegiato di Manganelli) ci
dice che la letteratura è tutta fantastica, non si può immaginare che sia qualcosa di diverso; e la prima
invenzione della letterature è Dio e l’Aldilà. Tutta la storia della letteratura è un mondo di fantasia, un
mondo oscuro e inquietante che si cerca di anestetizzare, e tutto il lavoro di Manganelli è un installarsi sul
già scritto per mostrarne l’oscurità. La letteratura è solo parole e menzogne, va accettato sinceramente,
ed è sporca e oscena come noi, più di noi.

Il grande inganno della letteratura è che siamo fatti per durare, mentre tutto è fatto
per corrompersi.

La letteratura è fantastica perché è il luogo in cui tutto è possibile, nel limite di una certa coerenza. In
letteratura si può maneggiare con libertà l’indistinzione tra vero e falso, non perché ama il falso o
ambisce all’inganno, ma perché è un mondo in cui quella tra vero e falso non è una distinzione reale.
7. Esperimento con l’India
Moravia e Pasolini fecero un viaggio in India e lo raccontarono in due libri molto diversi tra loro; dobbiamo
pensare che Moravia si fosse mosso in quel paese come una celebrità (Moravia era un reporter di
professione, racconta l’India sociopolitica), mentre Pasolini la racconta da un punto di vista più notturno,
sensoriale e avventuroso.
Manganelli a sua volta viaggia nei libri e nei luoghi, anche lui verso l’India. Il viaggio è sempre in cerca
di una dimensione archetipica per l’esistenza, che a volte legge nei testi, a volte negli oggetti.

8. Agli dei ulteriori


Leggiamo un esempio di inserto narrativo, La setta degli antimorti:
La dottrina della setta degli antimorti, fondata da un monaco apostata che durante la sua vita tenta in vari
modi di mettersi in contatto coi morti, può essere riassunta così:
1) morire è immorale: chi muore “si fa bandito, transfuga da ogni umana ubbidienza”;
2) dunque, il morto è un irregolare, un teppista come mostrano le malefatte dei fantasmi;
3) il morto tace e vaneggia perché si diverte delle nostre smanie;
4) in conclusione, bisogna ripagare i morti con insolenze e affronti di ogni sorta.
28 OTTOBRE 2022 – LEZIONE 15

Alice Ceresa
Alice Ceresa è una scrittrice che sceglie, anche per inclinazione personale, un posizionamento abbastanza
defilato rispetto alla società intellettuale, anche se non va inteso né come snobistico né come assenza di
contatti.
Nasce nel 1923 in Svizzera in una famiglia di cultura italiana e parla tre lingue; si garantisce una stabilità
in quella Roma dove presto si trasferisce con lavori di natura intellettuale. Uno dei primi lettori della Ceresa
è Maria Corti, filologa e scrittrice, che recensisce La figlia prodiga nel 1967; tra le due intercorre un
interessante scambio di lettere e si fonda su curiosità che la Corti rivolge alla scrittrice esordiente legate
alla lingua del suo libro. Maria Corti dice che il libro le sembra molto ciceroniano, con un uso molto
desueto di forme della retorica classica; nella prima lettera di risposta la Ceresa dice che la sua lingua di
base è l’italiano, parlava correntemente le altre lingue ma non parlava il latino: la percezione che
l’orecchio di letterata della Corti ha percepito viene negata dall’autrice. Questo non conoscere il latino
non significa non aver assimilato le ricadute che lo stile degli oratori hanno trasferito in secoli di
letteratura italiana.
Anche lei, come Meneghello e Manganelli, fa un esordio tardivo come romanziera, che è segnato da una
parte da cura e lentezza dell’autrice, dall’altra è qualcosa che nella mente dell’autrice non è segnata da
quella data.
Ceresa pubblica:
- un primo racconto nel ‘43
- un frammento di un libro mai uscito nel ‘52,
- il primo romanzo nel ‘67.
Ceresa ha in mente il suo progetto tant’è che la trilogia uscirà:
o nel ‘67 (prima parte)
o nel ‘79 (seconda parte)
o nel ‘90 (terza parte)

Tra la prima e la seconda pubblicazione passano 12 anni; scrivere un romanzo come La figlia prodiga
nel ‘67 è qualcosa di originale e provocatorio rispetto alle attese del lettore, scrivere La morte del padre
nel ‘79 è diversamente provocatorio. La figlia prodiga compone l’immagine dell’autrice, quando pubblica
la seconda parte l’autrice si sottrae parzialmente a quello che poteva essere l’orizzonte d’attesa dei tuoi
lettori, e continua il suo discorso autoriale con una coerenza interna che non è dettata da un’attesa esterna.
Da una parte era implicito nel programma, dall’altro è frutto di un mutato assetto delle questioni letterarie
tra la fine degli anni Sessanta e fine anni Settanta
Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile
Mettere in un certo ordine dei contenuti è un’operazione di messa in forma del mondo, ma quando
attingo alla neutralità dell’ordine alfabetico nascondo il fatto che ogni organizzazione del sapere è
un’organizzazione del potere. Ceresa allora scrive il dizionario femminile: prende il dizionario e ne fa un
trattamento rovesciato. Dalla A alla V rovescia la visione del mondo e l’organizzazione del sapere. Il
punto è prendere di mira l’ordine alfabetico perché sto prendendo di mira un’organizzazione
apparentemente neutra del sapere.

1. La figlia prodiga54
Tematica
L’ineguaglianza femminile è il tema principale de La figlia prodiga; nel vocabolario italiano il termine
prodigo ha un significato abbastanza positivo, in realtà la parabola evangelica contiene il termine con
accezione negativa. La Ceresa inizia il suo libro dicendo che di figli prodighi ce ne sono stati tanti e il
ritorno della pecorella smarrito è segnato da gioia, non da punizione o rancore. È una storia al maschile,
al femminile non andrebbe alo stesso modo, perché la prodigalità di un soggetto femminile non sono non
sarebbe socialmente accettabile, ma non sarebbe perdonabile e non ci sarebbe il ritorno gioioso.
- Il figlio della parabola usa delle ricchezze della famiglia a fini improduttivi
- è prodigo di sé anche nel senso del proprio corpo perché sperimenta i piaceri della carne non
nella forma autorizzata del matrimonio ma di una sessualità occasionale, che non lascia segni sul
corpo del maschio, mentre lo lascia sul corpo della femmina.
La prodigalità più temibile per la donna non è quello dei beni, è quella del proprio corpo,
cioè la perdita della virtù e della verginità, quindi anche quelle forme di esplorazione della
sessualità.

Struttura
Esattamente come Manganelli, anche la Ceresa sceglie la strada del trattato, di una trattazione che è
logico-argomentativa. Tutto il libro è giocato sulla volatizzazione sia del personaggio che delle attese del
lettore; il libro continua a ruotare intorno a un centro vuoto. Oltre a Maria Corti, uno dei primi che si
accorge della scrittrice è Manganelli, che riceve il libro in lettura. La Ceresa usa un linguaggio
sintatticamente simile a quello di Manganelli: ha un gran numero di incisi e questo approccio astratto alle
questioni,
Nella prima operazione che Ceresa fa ne La figlia prodiga il rifiuto la narrazione e il realismo è portato
agli estremi; comincia con un testo più complesso e poi diminuisce nel terzo volume
In questo testo l’impressione è quella di ascoltare una voce, che però presenta una sorta di duplicità:

 da una parte racconta, senza raccontare, di un personaggio del quale inevitabilmente vuole
mostrare l’esistenza anche al netto di tutti i dati concreti (luogo, età, classe sociale)
 dall’altra questa ragion d’essere del testo (solidarietà tra voce narrante e personaggio) è avversa
al personaggio. Quando inizia a descrivere un personaggio mettono sul piano degli elementi
54
PICCOLA STORIOGRAFIA DE LA FIGLIA PRODIGA”, Stefano Stoja: fa un rilievo severo ma giusto ai curatori
dell’edizione Einaudi: hanno messo insieme la trilogia, cosa che la Ceresa non aveva potuto fare, e renderla un
po’ più reperibile. Nell’introduzione si dice che il libro è stato realizzato ripristinando la stesura originale e
superando gli errori dell’edizione Einaudi; quindi, quella edizione che è la quarta sarebbe stata corretta da questa che
è definitiva. La Ceresa proprio perché tutta la sua pratica scrittoria non è allineata, sceglie di usare l’a capo in modo
non canonico. Il Menabò aveva inteso le bozze come versi e mette l’impaginazione a casaccio. Stoja osserva che
anche un aspetto microscopico rispondeva a delle scelte
connotativi negativi; la figlia prodiga viene stigmatizzata con tratti che sono negativi. C’è una
descrizione che non stringe mai la presa su un soggetto e un’intonazione della scrittura che a
mano a mano diventa ostile e critica verso il personaggio.
Nella Figlia Prodiga con la forma del trattato cerca di affrontare il tema della condizione e differenza
femminile; nel suo libro si cerca sempre di evitare di dire le cose, si lavora sulla costruzione di
personaggi sempre per sottrazione. Non è semplicemente anticipare delle tematiche e poi eluderle; lo dice
l’autrice in un’intervista del ‘67: la fisionomia del personaggio è incisa in negativo.
La fisionomia è incisa in negativo perché quel poco che ci viene detto è sempre nel segno della
mancanza, dall’altra ciò che viene detto è dominato da una forma espressiva del controllo e del potere,
della maggioranza che è composta da un pensiero maschile o anche se femminile è omologata. Allora
l’essere scandalo del personaggio, il suo non essere inscrivibile in ciò che è universalmente positivo,
nasce dal contrasto tra la voce che si fa sempre più negativa e questa esistenza che nega a tutto ciò che le sta
intorno di agire su di lei, si sottrae, e non ha paura di sottrarsi venendo etichettata come degenere, ma,
pur non avendo paura di farlo, è costretta alla dissimulazione. L’elemento della dissimulazione è
fondamentale, implica la malizia e la volontà di nascondersi; ci sono difetti di natura e un difetto legato
alla volontà. Il testo ci sta portando a vedere come quella dissimulazione nella maggior parte dei casi è
obbligata, perché quel soggetto non è in grado di essere libero, è costretto alla dissimulazione. I difetti di
natura vanno interpretati come elementi che un certo sistema di valori addita come inaccettabili, quindi
espulsi dalla comunità. In gioco c’è una conflittualità tra un sistema (patriarcale) e un soggetto
femminile, che nasce in questa situazione di sottomissione, che però non accetta di riconoscersi in quel
sistema e l’unico modo per sottrarsi è la dissimulazione.
Trafila editoriale
A chi le contesta l’incomprensibilità del suo libro, la Ceresa dice che quella lingua è necessaria lì, ma nel
corso del suo progetto si semplificherà: la seconda e la terza parte hanno un linguaggio più astratto ma
più comprensibile. Si verificano due rifiuti editoriali per il libro, ma totalmente diversi;
Botteghe Oscure è una rivista molto importante negli anni ‘50 e Giorgio Bassani era una delle menti della
rivista; quando negli anni ‘50 arriva questo testo di una scrittrice sconosciuta tratto da un’opera che si
chiama Ratto delle Sabine, a Bassani il testo piace e lo pubblica. Alla fine degli anni ‘50 Bassani riceve in
lettura una delle prime versioni della Figlia Prodiga da quella scrittrice che aveva già apprezzato, ma
rimane molto deluso dal libro e le scrive una lettera.
Il testo arriva anche in visione a Vittorini, che glielo rifiuta perché è un tipo di scrittura troppo
sperimentale per il panorama italiano di quel momento ma gli interessa, potrebbe andare bene su rivista
a puntate; Vittorini la incoraggia e la Ceresa appronta una nuova stesura, probabilmente la terza
Nel 1965 esce il numero 8 del Menabò, momento di massima tangenza tra Vittorini, Calvino e la
neoavanguardia, perché lì dentro viene pubblicato un gran numero di testi di autori simpatizzanti con il
movimento ‘63 (Manganelli pubblica qui Difficoltà di parlare coi morti). In questo numero c’è anche la
Ceresa; La figlia prodiga è un riflettere su cosa potrebbe essere un non allinearsi di una figura femminile in
una società patriarcale.
Dopo il ‘65 riparte lo scambio epistolare con Vittorini, che aveva avuto un lungo momento di
sospensione. Il percorso editoriale e filologico di questi scambi segna la valutazione in senso positivo di
uno dei testi più ostici prodotti in quegli anni, ma è la volontà di Ceresa che così come parla di una
figura rimossa legata e negata in un orizzonte patriarcale, anche da un punto di vista stilistico opera una
scelta in controtendenza con qualunque forma preesistente. È singolare che un libro così ostico per
materia e forma venga comunque riconosciuto da alcuni intellettuali.
Quella perplessità che aveva accompagnato Vittorini, con Calvino viene superata.
9 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 16

Il gruppo 63 e il romanzo sperimentale (1965)


Atti del convegno del gruppo 63 del 1965: Il romanzo sperimentale
Edizioni L’orma55
Il gruppo come abbiamo detto non aveva un manifesto, quindi con questo convegno non si vuole dire cosa
debba essere il romanzo sperimentale, bensì cosa possa essere.

Manganelli e Giuliani
Durante il convegno, Manganelli prese una posizione molto netta sul tema: il romanzo sperimentale è
desueto e irriproducibile; di conseguenza il loro è un dibattito inutile. Questa presa di posizione
rappresenta uno dei filoni più estremi, anche se sono in molti condividere, magari in forma più
ridimensionata, questa opinione.
Giuliani in particolare sposa questa idea, e propone di pensare all’archetipo della nostra letteratura non
nei Canzonieri ma nella trattatistica; propone di pensare all’anima della nostra letteratura come al
Tesoretto di Brunetto Latini. Tra le righe Giuliani dice una cosa che interessa molto anche a Manganelli:
propone di sostituire l’impianto del romanzo con quello del trattato; e il trattato, soprattutto quello
medievale, è una struttura pensata per essere molto articolata e logicamente percorribile.

Umberto Eco
Nel ‘62 aveva pubblicato Opera aperta, ottenendo una grande eco e diventando una celebrità, in cui offriva
una sorta di messa in chiaro delle poetiche dell’indeterminazione e della necessità della collaborazione
del lettore nelle opere contemporanee: Eco propone cioè un’opera dove non si dà una sistemazione unica
e definitiva delle sue componenti, ma al fruitore è offerta una significativa possibilità di interazione: non
solo nel fare arte, ma anche come segno di un impegno sulla realtà. E’ l’idea di un’opera d’arte che
costringe ad interagire con essa per essere fruita e non solo a consumarla, creando un nuovo tipo di

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Piccola casa editrice romana fondata da Marco Chianese e Lorenzo Flabb, laureato dell’Unibo. Hanno portato in
Italia molti autori sconosciuti al nostro paese come Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura di quest’anno. Una
serie di questa casa editrice si chiama fuoriformato, che vogliono essere la rinascita di una collana che Andrea
Cortellessa aveva lanciato anni fa per Le Lettere. Il fuoriformato è una rappresentazione teatrale che ha una
estensione diversa dalla durata standard di uno spettacolo (es. 15 minuti o 12h): questo tipo di spettacolo
ovviamente si addice a un festival, non a una stagione teatrale di un teatro stabile. Questo concetto applicato in
letteratura Cortellessa vuole usarlo per restituire visibilità e circolazione a testi di grande originalità, qualità e
impegno ma che magari sono usciti una sola volta, sono introvabili, ecc. Testi nati nel segno di una riottosità a
inserirsi in una collana standard. Cortellessa pubblica un numero importante di fuoriformato con Le lettere, ma
l’editore decise di tagliarla e la chiuse perché non si vendeva abbastanza (una collana che ha fallito il tentativo di
forzare l’editoria). Cortellessa dà allora una seconda chance a una casa editrice molto più piccola, ma che condivide le
premesse del progetto. Ad esempio, troviamo la raccolta poetica completa di Emilio Villa.

A noi interessa perché questa casa editrice ha pubblicato gli atti del convegno del gruppo 63: “Gruppo 63. Il
romanzo sperimentale. Seguito da Col senno di poi”. L’orma ha deciso di ripubblicare il libro aggiornandolo con
una attualizzazione del dibattito sull’argomento: la seconda parte del libro contiene interventi di critici che erano
presenti al gruppo 63, oppure di critici successivi. All’epoca della ripubblicazione Manganelli non era più vivo.
fruitore che non è passivo, e che può portare questo nuovo modo di interagire con la realtà anche in
campo politico. È un’opera che vuole formare una categoria di soggetti critici e attivi.
Opera aperta era per questo diventato quasi immediatamente un manifesto del gruppo nascente nel 1963 a
Palermo, di cui Eco era appunto uno dei critici più illustri.

La riflessione a posteriori: l’intervento al convegno del 1965


Al convegno Eco dirà che quello che a Palermo pensavano fosse autre era meme, scatenando molte
critiche: in altre parole, che ciò che pensavano fosse avanguardia e sperimentazione non è che roba vecchia
al momento presente.
Eco sostiene che esista nella storia delle forme una dialettica inevitabile tra convenzione, rottura della
convenzione e nuova codificazione, e che quella rottura, a distanza anche di poco tempo, diventa vecchia:
aveva chiaro che i materiali estetici nel Novecento invecchiano più velocemente; non ha torto quindi
quando dice che ciò che sembrava attivo tre anni fa ora ormai è vecchio.
Ma c’è il pericolo di interpretare il meccanismo dialettico come qualcosa di inevitabile: secondo Eco, al
momento sperimentale della letteratura deve seguire un momento di nuova codificazione.
Sarà Eco che, molti anni dopo i furori saggistici, inaugurerà una nuova stagione del romanzo italiano col
Il nome della rosa, che è un libro che funziona come esperimento di straordinaria efficacia, facendo da una
parte tesoro della cultura e competenza tecnica di Eco, dall’altra si configura come oggetto
straordinariamente leggibile: cioè, una forma nuova di opera letteraria di avanguardia spendibile sul
mercato. Le forme sono dotate di maggiore leggibilità, anche se questo non significa “svendere” la qualità
o concedersi al mercato. Ad esempio, non è che Alice Ceresa scriva La morte del padre e Bambine pentita
de La figlia prodiga; sta solo facendo i conti con quello che la realtà impone. Allo stesso modo, anche
quello di Eco non è un percorso di pentimento: semplicemente, va da un momento di massima rottura,
violenta, dei codici, a un momento di codificazione capace di sfruttare ampiamente le logiche del
mercato.
Articolo di Umberto Eco pubblicato su «L’Espresso» del 26 giugno 1966
Risposta di Umberto Eco56 alla lettura pubblica di alcuni brani de La figlia Prodiga durante un convegno
del gruppo 63 a La Spezia nel 1966, poco prima della pubblicazione del libro:
Ho sul tavolino tre libri e un fascicolo d’appunti, e tra i quattro testi corre come un’aria di
famiglia.
1. Il primo libro è “Il romanzo sperimentale”, edito da Feltrinelli, e raccoglie il dibattito
avvenuto tra i componenti del Gruppo 63 l’autunno scorso a Palermo.
2. Il secondo libro, edito da Silva, è “Il metaromanzo” di Mario Perniola, e propone una
risposta possibile alle molteplici questioni aperte dal dibattito palermitano: la letteratura oggi
marcia verso una direzione irreversibile, quella del metaromanzo, del romanzo che racconta
la storia di se stesso ed esplora le condizioni del proprio esistere.
3. Il terzo libro è un metaromanzo: è “Fughe” di Roberto Di Marco (Feltrinelli). […]
Secondo Eco, l’opera di Perniola offre una possibilità interpretativa che tiene insieme tante risorse:
identifica un nuovo genere, il metaromanzo, che riflette su di sé e sulla possibilità di raccontare una storia.
Ci soffermeremo invece su due scritti che sembrano verificare le ipotesi di Mario Perniola, e
cioè due esempi di metaromanzo.
- Alice Ceresa, già presentata da Vittorini sul “Menabò”, ha letto alcuni brani di quel suo “La
figlia prodiga” che altro non è che una puntigliosa, raziocinante discussione sulle possibilità
di cogliere narrativamente il personaggio del romanzo, che sta sempre “al di qua” di una
narrazione mai abbordata […]
- Dal canto suo, Roberto Di Marco ha letto un passo di un’operetta […] intitolata “Telemaco”,
in cui il principio del metaromanzo è portato all’estremo […]: il racconto indugia su tutte le
vie che potrebbe prendere, e le propone tutte al lettore.

Così, attraverso le varie discussioni, a La Spezia s’è profilata come sempre più probabile
l’idea di una narrativa che, perduta nell’interrogazione di sé, si presenti come matrice di tutti
i romanzi possibili e perciò stesso illeggibile, come un sacrificio compiuto per portare a
termine un destino... È certo che una letteratura che si assume il compito di portare il romanzo
alla negazione di sé, deve essere pronta a intravvedere altre vie. O ritornare al romanzo
leggibile […]

Ma Alice Ceresa non fa questo e non le interessa fare questo.

La scuola di Palermo: Di Marco (Fughe), Perriera, Testa


Fughe di Roberto Di Marco è un libro scritto da un intellettuale palermitano, scrittore e saggista, uno dei
fondatori del Gruppo '63, in seno al quale ha rappresentato, assieme a Michele Perriera e a Gaetano Testa,
la cosiddetta "Scuola di Palermo".

56
Il dibattito di Palermo non fornisce una risposta unitaria alle possibili incarnazioni del romanzo sperimentale, ma
pone problemi e offre risposte individuali.
Quando negli anni ‘60 questi artisti si confrontano
con le ricerche dell’informale, si confrontano già con
venti di elaborazioni, dall’altra sono ancora in cerca di
uno svecchiamento e allineamento con i percorsi delle
avanguardie internazionali. La scuola di Palermo sono
scrittori che ragionano su questo maneggiare le
strutture narrative e smontarle.
La copertina de La scuola di Palermo è rappresentativa
di come autori reagiscono all’arretratezza del Sud,
quindi a un’immagine di arsura, dall’altro quella
percezione che tutti hanno in testa dopo la Seconda
Guerra Mondiale del pericolo della distruzione.
L’immagine rimanda da una parte a una realtà misera e
degradata, dall’altra rimanda ad una dimensione più
generale del secondo dopoguerra.
L’arte nucleare è un’arte consapevole di vivere in
un’epoca in cui esistono armi che scindono i nessi
costituivi della realtà, vuol dire una realtà minacciata
fino alla sua tenuta minimale (la bomba disintegra la
materia).
2. La morte del padre
In La morte del padre Alice Ceresa esplora, con gli strumenti di dissezione della realtà e del linguaggio
che le sono propri, cosa succede a un nucleo familiare qualunque nel momento in cui la figura attorno a
cui esso tradizionalmente sembra riunirsi ed esistere scompare. Seguendo in modo sia corale che
individuale le vicende di ciascun personaggio – la figlia maggiore, il figlio maschio, la vedova e la figlia
minore (personaggio autobiografico) – l’autrice di questa apparentemente inevitabile disgregazione
familiare ci mostra i limiti, le paure inespresse, la banale volgarità del dolore. Quello che importa a
Ceresa è narrare il modo in cui ogni personaggio vive la morte del padre, e dimostrare come, in una
grottesca impassibilità, ciascuno di essi rimane fissato e come intrappolato nel proprio ruolo a oltranza,
anche dopo l’evento traumatico. Non diverso è, però, il destino riservato al defunto: neanche lui è una
creatura sofferente e sopraffatta, dotata di spessore; è solo e soltanto un patriarca. È un tentativo di
analizzare qualcosa che in sé sarebbe pieno di pathos innanzitutto senza pathos, o comunque con pathos
intellettuale; è una scrittura che allontana il naturalismo e astrae i meccanismi. Il libro è concepito come
uno smontaggio della famiglia nelle sue componenti, poi osserva come la morte di questa figura fisica
diventi gradualmente un’idea.
Eco è uno dei primi che porta in Italia lo strutturalismo, parlando di un insieme di relazioni significanti:
non è importante ciò che è contenuto, né contano i vari elementi della struttura, ma è importante vedere
come l’elemento A si lega all’elemento B, ecc.: allora La morte del padre è un’operazione strutturalista,
perché riflette sulle conseguenze all’interno di una famiglia di un soggetto che ha incarnato una
pratica e un’ideologia si prolungava al di fuori di lui nella società. Ceresa ha fatto un’operazione differente
rispetto a La figlia prodiga: prima ha adottato un punto di vista che non è suo, qui smonta la struttura
che è la pietra angolare su cui si costruisce la famiglia patriarcale. In questo rapporto non importa
meramente il contenuto, ciò che è significativo è come viene costruita questa storia, che mostra le
relazioni significanti. Il semplificarsi della scrittura non è un venire a patti con le consuetudini, né dei
lettori né del mercato.
3. Bambine
In Bambine, scritto quasi venticinque anni dopo La figlia prodiga, il discorso sull’istituzione familiare si
approfondisce, rispetto al romanzo precedente.

 Il titolo indica il fuoco della narrazione, lo spunto è autobiografico, essendo il suo interesse
specifico mostrare in che modo le bambine diventano femmine in un contessto familiare, per
questo si può a ben ragione definire un romanzo di formazione. I personaggi non hanno nomi,
ma sono indicati con i loro ruoli familiari: padre, madre, figlie, sorelle, dovendo rivestire un
carattere di esemplarità; sono poi ridotte al minimo le osservazioni psicologiche che potrebbero
individualizzarli troppo, facendo loro perdere la dimensione di prototipi
 La trama è costituita dalla descrizione-decostruzione dell’istituzione familiare attraverso la
critica di ruoli, sessualità, patriarcato, educazione delle bambine; un modello di famiglia colta
attraverso il racconto di vicende banali.
Ceresa inizia il romanzo descrivendo a parole il disegno di una mappa in formazione, che imita un
procedimento cinematografico: come se una cinepresa inquadrasse con una panoramica dall’alto una
piccola città, le case, le vie, gli edifici principali, centro della vita urbana, restringendo progressivamente il
campo fino ad inquadrare la finestra della dimora della famiglia; l’espediente grafico adottato per la
descrizione della mappa è il corsivo, mentre il racconto procede in carattere normale. Non si tratta però di
un semplice artificio introduttivo, perché lo sguardo di Ceresa resta per tutto il romanzo quello di una
macchina da presa, che rivela nella sua meccanica impersonalità quello che abitualmente non si vuole
vedere nei rapporti familiari, vale a dire l’impasto di sentimenti d’amore e di odio, di comportamenti
alternativamente di tenerezza e di violenza, che alberga in una famiglia normale. La descrizione iniziale
presenta dunque la città in forma di disegno, il tono è subito ironico.
Passa poi alla presentazione delle bambine, definite due esserini infagottati e appesi di sghimbescio ai
genitori; non c’è compiacimento o tenerezza nella descrizione, ma aleggia un senso di inermità dei due
esserini, ancora non distinti per sesso nell’abbigliamento, ma destinati ad essere donne. Ceresa raggiunge
momenti di feroce e dissacrante ironia nella presentazione del padre e della madre.
“Dice il padre: Io sono il signore e padrone di questa casa. Ho onorato questa donna con
il matrimonio per vari e utili motivi e a tanto quindi tengo. In compenso le ho permesso di
fare figli legittimi in quanto figliare è comunque la sua natura, e costoro mi porteranno
volenti o nolenti in sé anche quando cresceranno e si moltiplicheranno. Se non sono
proprio eterno però poco ci manca. […] La madre invece non dice nulla, dedita com’è
alla vita quotidiana. E’ distraibile e sollecitabile a volontà e si esprime forse totalmente
nei gesti. Pertanto viene recepita con la massima disattenzione. […] Eclatanti momenti di
disperazione la fissano in atteggiamenti sempre estremi che poi si disperdono come
nebbia al sole. Le bambine assistono rapite a queste sue metamorfosi”
La narrazione ha spesso spunti umoristici, anche se amari; i rapporti si deteriorano, la madre non si
riprenderà mai del tutto dalla perdita del figlio maschio, morto bambino, e il padre comincia a
interessarsi alle figlie, ai loro ritmi di vita solo quando entrano nella pubertà, presentandosi a loro
prevalentemente nella dimensione di giudice e controllore di abiti, amicizie, orari. Il racconto si
conclude:
“Desiderose anzitutto di cambiare casa, le due sorelle pare si sposassero in relativamente
giovane età, non senza immaginiamo aver seguito la solita trafila dei trasporti o
infatuazioni giovanili come poi chiamar si vogliano, scegliendo ognuna con tutta
evidenza lo sposo meno adatto commisurato com’era alla figura del padre: quale per
distanziarsene e quale per averlo almeno provvisto di una sempre ammirata bellezza. Di
una si sa che ebbe anche due figli, l’altra invece divorziò da lì a poco e senza ricadute.
Abbandonati insieme nella casa paterna rimasero i due genitori fino a tardissima età, e
di loro si racconta come comunicassero ormai soltanto con l’ausilio di biglietti e
fogliettini scritti accuratamente e sparsi un poco ovunque a testimoniare la reciproca
presenza” (317).
16 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 18

Giuseppe Fenoglio57
Fenoglio si dimostra fin da giovane un uomo curioso, a dispetto della sua posizione sociale (condizione
umile) viene iscritto al liceo classico, tradizionalmente frequentati da borghesi che avrebbero avuto modo di
dedicare la vita all’attività intellettuale, non dovendosi dedicare al lavoro manuale, che invece avrebbe
atteso Fenoglio. La famiglia riconosce in Fenoglio le sue doti e da qui la scelta di iscriverlo al liceo classico
di Alba.

La critica fenogliana
Fenoglio è molto studiato, a livello accademico il numero dei titoli pubblicati sono alti (non Pasolini ma
nemmeno Meneghello); ma se anche qui ordiniamo in senso cronologico questa ricerca, notiamo che la
critica si sta orientando sempre di più a un Fenoglio minore; evidentemente il maggiore è quello che ha
dato a sé e alla cultura italiana grandi testi, non solo sulla letteratura partigiana, ma sicuramente è una bella
fetta. Per esiti, per quantità e per riconoscimento critico, dunque, chiamiamo il Fenoglio della lotta
partigiana il Fenoglio maggiore; anche se appunto notiamo un rivolgimento interno alla critica: non per
disconoscimento del Fenoglio maggiore, ma forse per la riscoperta del valore di opere e testi che avevano
un grado di finitura o di pubblicabilità minore ma che comunque rappresenta parte dell’esperienza
dell’autore.

I modelli di Fenoglio
Una parte della critica sta studiando la biblioteca di Milton (alter ego di Fenoglio, nome parlante che
dichiara una certa ascendenza); sto parlando di un procedimento fondamentale per lo studio di un autore,
non solo il compendio libresco effettivamente posseduto dall’autore, ma anche e più significativamente la
biblioteca mentale che ha dato corpo alla sua fisionomia di scrittore e ai suoi testi.
Ma non è operazione facile, né scontata: noi dentro ai testi letti da uno scrittore possiamo trovare appunti,
brogliacci, versioni alternative, sottolineature, commenti che possono farci entrare nel meccanismo creativo.
Di Fenoglio abbiamo perso molto del suo caotico materiale durante un trasloco. Quando ci rapportiamo
a questo autore dobbiamo pensare a uno stato drammaticamente caotico di questa impazienza, di questa vita

57
15 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 17
Quando ci rapportiamo a Fenoglio possiamo fare i conti con delle direttrici di ricerca:
- Saggio di Giovanna Caltagirone: necessità di una rilettura, di ritornare su un testo molto noto e studiato e cercare
di illuminare aspetti in ombra, in particolare il Paradise Lost di Milton (opera chiaramente presente intertestualmente
nell’opera di Fenoglio, e ci porta lontano dalla realtà contingente dell’autore). Le operazioni di Fenoglio hanno
come prioritaria la dimensione letteraria
- Lorenzo Marchese legge Fenoglio in rapporto con il tragico e la tragedia
- Dante Isella, saggio nel volume de Il partigiano Johnny
- Valter Boggione, Saggi su Fenoglio: studia aspetti meno noti dell’opera di Fenoglio, approfondimenti sul suo
rapporto con la filosofia, ecc.
- Spinazzola, L’egemonia del romanzo: parla di un fenomeno legato ai generi letterari, non di mezzi di
comunicazione. Ora si potrebbe parlare di egemonia dei media che influenzano anche la forma romanzo, mentre un
tempo poteva anche accadere il contrario. Una delle ultime pubblicazioni del critico, saggi su molti autori, ne
contiene uno su Il partigiano Johnny.
- Veronica Pace, Nel ghiaccio e nella tenebra. Attenzione alla componente geografica e non solo, allo spazio in cui
le azioni prendono forma, geocritica.
- Gabriele Pedullà, La strada più lunga
che gli faceva cambiare progetto, abbandonare scritture, eccetera. Il quadro dell’opera di Fenoglio dal punto
di vista filologico è estremamente complesso.
Ad es. Il partigiano Johnny ha cambiato forma più volte; fare i conti con questo autore significa fare i conti
con un uomo estremamente fluido
È un procedimento filologico critico, e poiché spesso non abbiamo questa biblioteca, e comunque larga
parte della biblioteca virtuale effettivamente non perviene, è un lavoro che per sua stessa natura contiene
dell’ipotetico, dell’azzardato, eppure imprescindibile. Il lavoro della critica è spesso più rigoroso di
quanto si possa pensare: e proprio perché la critica è meno fumosa e libera di quello che si pensi, a volte si
riesce a risalire anche alle letture giovanili, non solo alla biblioteca mentale della maturità. Questa
riscoperta della critica non solo sta arricchendo il quadro che abbiamo di Fenoglio, ma sta migliorando
anche la conoscenza del Fenoglio maggiore!
22 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 20

1. Il modello britannico
La letteratura inglese
Cime tempestose, come classico di letteratura romantica, è un libro che ha grande successo fin da subito; ci
consegna un’immagine memorabile, forse anche stereotipata, del romanticismo; un testo incentrato su una
storia d’amore totalizzante e in questo sconvolgimento gioca un ruolo fondamentale il paesaggio inglese,
caratterizzato da elementi come fango, ghiaccio, neve, pioggia, vento.
È una delle letture scolastiche di Fenoglio, che quindi si colloca nella mente, nell’anima sensibile e
malleabile dell’autore. È un’opera che lascia traccia, un’impressione precoce; vengono fatti anche dei film,
che arrivano in Italia, in particolare tra il ’39 e il ’46, la cui impressione si somma alla prima, insieme a
quella della rappresentazione teatrale. Se ci può sembrare formato già all’esordio, Fenoglio procede per
tentativi.

 La voce nella tempesta è un testo che Fenoglio giovane scrive dopo averlo letto; ci è giunto in una copia
posteriore del 1960, non sappiamo il momento preciso della sua scrittura, ma è probabile che sia
giovanile. È un esperimento, il saggio della Vatteroni studia la relazione tra questo e Una questione
privata.
- La tematica amorosa, dichiaratamente totalizzante, che colonizza anche lo spazio esterno all’io
- Il racconto dell’esperienza partigiana, altrettanto assoluta e devastante
C’è però una differenza, una tonalità che diverge tra questo e gli scritti successivi:
a. La voce della tempesta mantiene una tonalità tragica tipica del romanticismo
b. Appunti partigiani invece si sposta più sull’eroicomico (che comunque non è l’ironia
meneghelliana)

 Il rapporto con Cime tempestose si riconosce anche in un altro testo, Serenate a Bretton Oaks, dove
Fenoglio lavora con personaggi dalla toponomastica inglese: sta cercando la sua strada, di
metabolizzare i modelli pesanti che si porta sulle spalle. Anche quando sceglierà di raccontare
l’esperienza partigiana non rimarrà mai privo di questi modelli originari.

La letteratura americana
 La paga del sabato, sembra costruito attorno a due personaggi che ricordano il racconto di Steinbeck 58
Uomini e topi (tradotto da Pavese come Moby Dick)

2. Il modello biblico
Il modello biblico nella sua manifestazione americana, puritana, protestante, è fondamentale; la
conoscenza precisa della bibbia nei testi americani è tangibile. Evidente anche qui come il mondo di
Fenoglio sia profondamente intriso delle esperienze che lo hanno accompagnato.

3. Il modello tragico e teatrale


La formazione scolastica in un’Italia fascista determina pochissima apertura
- alle letterature estere
- ai generi non canonizzati e che escono dalla supposizione di eccellenza ricoperte da lirica,
storiografia, poesia.
Uno di questi generi poco frequentato è proprio il teatro. L’Edipo re è forse la tragedia per eccellenza;
osserviamo una questione privata: il testo è tutto incentrato sulla volontà di conoscere una verità, è il
motivo generatore del testo, solo che quella ricerca della verità alla fine lo perde, lo fa sprofondare in una
dimensione sempre più simile a quello della cecità: è evidente il modello dell’Edipo Re. Il punto forte è
che poi il protagonista tragico non può sottrarsi al meccanismo tragico, anche quando Edipo scappa da
Corinto pensando di sfuggire al fato in realtà gli sta andando incontro. Il meccanismo tragico non prevede
vie d’uscita, in questo Una questione privata è assolutamente sintonico.

58
Modello realista
4. Il modello cinematografico
Quando esce Primavera di Bellezza, il testo avrebbe dovuto far parte di un grandissimo romanzo in
progetto che però Fenoglio non pubblicò mai, su consiglio dell’editor di Garzanti: il libro sarebbe diventato
troppo lungo, stralcia le prime 80 pagine, aggiunge una fine repentina dopo l’8 settembre e viene così
pubblicato da Garzanti come testo autonomo. Alla sua pubblicazione, il testo muove l’interesse di alcuni
produttori cinematografici; non aveva la eco che avrà in seguito ma comunque Fenoglio confermava la
qualità di un autore in crescita (F. comincia a scrivere nel ’52); riceve una proposta da un produttore
cinematografico (è un testo privo di connotazione partigiana perché si ferma all’8 settembre, siamo nel ’59,
il cinema italiano è in fase di racconto della storia nazionale con esiti anche molto alti). Il progetto del
film non va in porto ma Fenoglio riconosce nella lettura del produttore qualcosa in sintonia con il suo
lavoro: Pavese, iniziatore di quello che più volte chiamiamo il culto dell’America, già guardava con
interesse alle narrazioni americane capaci di trasformarsi immediatamente (in Hemingway, in Steinbeck) in
una trasposizione filmica, per la loro asciuttezza. Di fronte a questa proposta Fenoglio inizia a pensare a
una sceneggiatura cinematografica, a un testo che nasca direttamente per essere rappresentato su
pellicola. Il salto verso il cinema in quegli anni era un obiettivo comune a molti scrittori, voleva dire
sicurezza economica e celebrità; nel caso di Fenoglio non sono queste le ragioni ma più un interesse per un
certo linguaggio.
In parallelo con questa sceneggiatura, che comunque avrà come oggetto una narrazione di tipo partigiana, ci
sono L’imboscata59 (1960-1961) e Una questione privata60 (1962-1963): per i due libri prende quasi la
stessa trama, ma introducendo alcuni elementi che li modificano. Un’idea di letteratura molto alta ma
che privilegi la parola detta e agita: il cinema a questo scopo si prestava sicuramente, forse quasi più del
teatro, che in Italia in particolare aveva patito la stagione più naturalista e pirandelliana. Ora parliamo dei
tentativi successivi di adattamento cinematografico che in questi anni sono stati fatti del Partigiano Johnny
(2000) e Una questione privata (2017). Sono riproduzioni piuttosto fedeli che fanno presupporre una certa
confidenza con lo specifico filmico:
Una quesitone privata secondo il prof è un bel film; l’attinenza alla trama è mediamente alta: facciamo i
conti con un autore con cui dobbiamo legittimamente percepire due piani separati:
 Il lavoro sulla trama
 Il lavoro sulla lingua e sui significati che è nascosto dentro la sostanza del testo
Anche il Partigiano Johnny è molto fedele, si usa la camera a mano per dare vicinanza alla prospettiva
dell’attore, ma non ci si avvicina troppo all’esperienza reale; l’opera di Fenoglio è molto più di questo. È un
peccato perché il cinema non è un’arte banalizzante, potrebbe attingere a certi livelli di profondità, ma in
questi due film no.

59
Incompiuto, 30 capitoli previsti, ce ne sono solo 21, anche se sembra assolutamente compiuto
60
Ultimo libro
Il partigiano Johnny
Spesso la critica parla della resistenza in Fenoglio in termini di antieroico. Sicuramente Fenoglio e
Meneghello hanno toni diversi (Meneghello grazie alla sua ironia britannica stempera un po’ la
componente sublime ed eroica) ma raccontano entrambi di una disillusione. Eppure, con una differenza:
se l’ironia di Meneghello61 impedisce di presentare qualunque racconto come eroico (non eravamo buoni a
fare la guerra), in Fenoglio in realtà dell’eroismo avvertiamo l’odore un po’ dappertutto. Non è uno
scrittore retorico, ma non è nemmeno autoironico. Ce n’è nei racconti di Fenoglio un che di eroismo: la
percezione dell’eroismo della resistenza (non tanto nei termini dell’aggressività) in Fenoglio c’è. Allora
dove sta la narrazione antieroica?
Spinazzola usa il termine epico anziché eroico, termine che ricorre spesso nei manuali; ma perché allora le
narrazioni di Fenoglio sono antiepiche? Perché la maggior parte dei suoi scritti sono fatti di comunità che
tendono a sfrangiarsi: e se ci pensate, ogni volta che si parla di un’epica si parla del popolo; non si dà
epica del singolo62. L’antiepica di Fenoglio va contro l’epica della resistenza, raccontata come un
fenomeno di gruppi all’interno dei quali l’individuo contava poco. Uno dei motivi fondamentali per cui
Fenoglio e i suoi alter ego protagonisti sono antiepici è il fatto che l’esperienza che ha fatto è più dura
forse di Meneghello, l’esperienza di una impartecipazione.
Quando il giovane Fenoglio si unisce ai partigiani rossi non si trova bene, sono gruppi che percepisce come
eccessivi ed impartecibabili. Dopo un breve periodo nei gruppi comunisti (rossi) si sposta nel gruppo dei
badogliani (azzurri), più sintonici a lui dal punto di vista ideologico, ma meno dal punto di vista del rigore
e del metodo. La formazione di Fenoglio (liceo classico) aveva contribuito a dargli un background
culturale che in quegli anni costituiva uno spartiacque sociale molto forte, una ideologia marcatamente
piccolo-borghese come quella dei badogliani; trova però con gli azzurri (che sente anche forse più
culturalmente arretrati) una faciloneria nei modi che lo irrita e lo disgusta (in questo quella del partigiano
Johnny è esattamente sovrapponibile all’esperienza biografica di Fenoglio).
61
Noi abbiamo in programma due autori, vicini ma lontani, Meneghello e Fenoglio, le cui differenze abbiamo già
intravisto. Entrambi fanno tesoro di una proficua interazione tra lingua italiana, inglese, dialetto, ecc.; entrambi gli
scrittori di grande qualità stilistica, che però si prestano in modo molto diverso all’antologizzazione:
•Meneghello è un giardino di delizie, dovunque si ritagli si pesca bene, la sua pagina ha una qualità iridescente,
molteplice, ed è pertanto facilmente antologizzabile, da molti punti di vista
• Fenoglio si presta meno all’antologizzazione, non perché sia meno bravo, ma è fatto così!
Hanno due modi diversi di costruire il loro testo, due modi diversi di usare gli strumenti retorici il testo di Fenoglio
funziona sulla lunga durata, anche sul piano metaforico.
Ad esempio, le metafore paesaggistiche a sfondo erotico potrebbero sembrare grevi o gratuite se considerate nel loro
particolare: sarebbe un errore di antologizzazione, perché si avrebbe messo in eccessiva luce un dettaglio che trova la
sua giustificazione solo nella lunghezza dell’opera. Gli spostamenti, le modifiche, sono causate ovviamente da un tipo
di vita come quello partigiano: un mondo giovane tutto maschile, dove si percepisce una mancanza che si traduce in
allucinazione e visione. Fenoglio cerca di portarci il più vicino possibile ai personaggi, facendoci entrare nella loro
testa. In Fenoglio quasi sempre le cose ci arrivano come date, senza spiegazione prima e dopo: cerca di calarci
all’interno del presente, annullando le distanze temporali. La sua scrittura è deforme, volontariamente sgangherata,
punta verso il sublime.
Metafora e Menzogna, Weinrich: elabora il concetto di campo metaforico, che permette di vedere una trama
sottostante al testo, la trama del movimento di immaginazione, legato alla contiguità, alla somiglianza che sono
richiamati direttamente dalla metafora. Meccanismo interno a un testo per cui le metafore in un autore sono legate a
uno schema.
Charles Mauron, Dalle metafore ossessive al mito personale: testo emblematico di questo tema, investigazione sul
ritorno di certi elementi linguistici, che se presi singolarmente non ci dicono nulla ma che possono dirci molto
sull’autore se prese in relazione tra loro.
62
Epica di popolo non nel senso che tematizza la storia di un popolo, ma nel senso che l’epica codifica l’idea che un
popolo ha maturato di sé, o una serie di valori in cui si rispecchia.
Vorrebbe far gruppo ma non ci riesce; lo snobismo che qui forse in parte c’è non è
una cosa da salotto, è una conseguenza di una certa formazione, e non è sempre
atteggiamento di superiorità, ma spesso espressione di un disagio ad allinearsi con
esperienze diverse.

Fallimentari entrambe le esperienze, inverno del ’44 terrificante e durante cui le bande si smembrano, le
attività si fermano (come nelle guerre degli antichi). Qualcuno torna a casa, altri restano nascosti, ma questo
non voleva essere al sicuro. Fenoglio (e Johnny) lo passano da soli nelle colline/montagne, senza niente da
mangiare e scaldarsi. Questa esperienza, assolutamente estrema, è quella raccontata nel libro di Johnny: una
solitudine totale ma allo stesso tempo la determinazione stoica a non mollare.
Non si può essere partigiano così o cosà, partigiano è una parola assoluta
Eppure, il libro mostra che di partigiani ce ne sono diversi tipi! Quella frase che in qualche modo apre il
libro è tanto una dichiarazione a cui Fenoglio rimane fedele tutta la vita, ma il racconto è la
dimostrazione di come quella dichiarazione si scontri con la realtà! È un’idea che in sé rimane valida
(Partigiano è chiunque si opponga al fascismo) ma che si corrode nelle sue pratiche.
La dimensione assoluta, eroica, che non vuole cedere, si può tuttavia estrinsecare solo nella solitudine,
tragica, perché espone il personaggio a una serie di conflitti irresolubili:

non c’è un modo di risolvere la questione, c’è la necessità di essere partigiano e


l’impossibilità di esserlo con altri, cosa che per forza crea un cortocircuito interno,
perché un partigiano da solo non può fare niente.

La dimensione del partigiano per come concepita e vissuta da Fenoglio è una condizione bloccata: per
questo i suoi personaggi o muoiono o spariscono (es. perché finisce la guerra).
Il libro di Johnny è il racconto di una vicenda individuale all’interno di un conflitto mondiale, umano;
non ci propone una soluzione ma l’esplosione del contrasto, proprio perché lo sa.

Una questione privata


Il tema della solitudine di cui abbiamo dato spiegazione autobiografico-letteraria in Fenoglio opera un
avanzamento:
- dimensione del partigiano Johnny quasi totalmente priva dell’eros nel senso di legami affettivi, c’è solo
l’eros fisico e l’amicizia insediata dalla morte e dal graduale sfibrarsi di ogni gruppo: lo potremmo dire
un libro senza amore e pieno d’odio
- Una questione privata, fortemente permeato dal tema, se si considera che la sua declinazione della
gelosia è capace di mettere in secondo piano anche i temi della morte e dello scontro.
È un libro che mette in primo piano la tematica dell’amore, in modo molto fenogliano: i tre protagonisti
sono Milton, Fulvia e Giorgio, eppure due non li vediamo quasi mai se non attraverso gli occhi di Milton
stesso; sono sostanzialmente dei fantasmi, che hanno una straordinaria vivacità ma che non vediamo mai.
Tutto quello che è il tema del libro noi lo scopriamo tra il primo e il secondo capitolo.
Il libro si apre con una contrapposizione tra presente e passato, che alterna fotogrammi di una villa brutta
e disabitata e lo stesso luogo visto prima della guerra, ancora vivo. Dettaglio di Fulvia sul ciliegio;
interessante passaggio:
 Connotazione giocosa e seduttiva di Fulvia
 Illazione di Milton: il tratto sensuale-seduttivo-giocoso che è presente in tutti i ricordi di Milton è
presente in tutta la percezione di Milton; quasi tutto. All’interno di questa percezione si configura
Fulvia come paradiso perduto nel paradiso perduto della villa, sfiorato ma perduto. Milton riflette
Fenoglio anche dal punto di vista del proprio bagaglio culturale.
L’unica cosa che non passa attraverso il filtro di Milton è il contenuto del racconto della governante; il
dolore dell’assenza non è infettato dalla gelosia fino a questo momento, se non nel punto in cui
all’interno del ricordo in cui Fulvia e Milton parlano, e, mentre lei menziona le sue future nipoti, in Milton
si affaccia il timore di non essere partecipe a questa vita futura di lei. A metà del capitolo arriva questa voce
dall’esterno che mette in moto la trama.
Giorgio è un personaggio su cui Milton ha fatto e sta facendo un investimento emotivo fortissimo; di
conseguenza, nell’ottica della gelosia, c’è un duplice tradimento, e questo apre una possibilità
interpretativa singolare: utilizzando il concetto dell’amore triangolare, non è impossibile pensare che
l’oggetto del desiderio sia Giorgio, e che l’ossessione di scoprire la verità non sia tanto per Fulvia, ma per
l’amico.

La forza del testo sta anche nel mantenersi in questa dimensione di ossessione che
tanto più nella sua apparente chiarezza ma sostanziale opacità è il vero motore del
testo, perché Fenoglio sta problematizzando la pericolosità della dedizione totale a
una qualsiasi causa.

23 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 21

Capitolo 11
Racconto di Matè della maestra fascista:

 La morte non è affar nostro à riferimento al fatto che moriranno presto


 Nove su dieci sono fasciste […] + racconto: violenza simbolica documentata, tra i cui gesti si
annovera la rasatura forzata dei capelli, una forma moderna ma arcaica di punizione simbolica
 Era una di quelle che sognava di fare un figlio con Mussolini, c’è una fantasia legata alla
concessione al corpo stesso del fascismo 63
È una pena che ha un risvolto simbolico molto forte e legato alla sessualità, la capigliatura lunga è una
valenza erotica. È una castrazione simbolica, sul femminile, una rimozione violenta di un tratto
eroticamente connotato.
È tanto vero che, durante la scena di questa punizione raccontata da Matè si parla proprio del fatto che
questa maestra fascista.

 Riferimento alla visione delle gambe, perturbante: alla fine di questa scena c’è un passo talmente
breve che potrebbe passare inosservato ma è estremamente emblematico di come queste punizioni
63
Gadda, Eros e Priàpo, tentativo di applicare alla società del Novecento alcuni elementi della cultura come il
freudismo e la sociologia; testo sboccato, eccessivo, pieno di livore, espressionista, perché sta scaricando sulla
pagina una rabbia e un’ossessione, una frustrazione che viveva da tempo, scaricata contro Mussolini e il fascismo.
In questo saggio Gadda sviluppa l’idea presente nella frase di Matè che allude alle fantasie sessuali femminili con il
Duce. Quello di Gadda è un saggio molto poco rigoroso, esprime idee misogine ma parla di questa ossessione del
fallo di cui la femminilità è succube con una dinamicità di scrittura senza pari anche se con poco rigore scientifico,
è molto idiosincratico.
avessero una connotazione sessuale: cosa facevano? Dimmi cosa facevano? Si stanno masturbando,
evidentemente: la visione è talmente forte che necessita uno scaricamento, anche se non con uno
stupro di gruppo ma con la masturbazione

La stessa scena si ritrova anche ne L’imboscata: il legame osservato da Matè tra le


maestre (sottocategoria importante del mondo femminile) e il fascismo è un legame
torbido, non soltanto un’adesione sul piano ideale al fascismo, ma un’adesione di
pancia, di utero (adesione viscerale secondo categorie antiche), che si declina anche
nell’aspetto erotico.
Capitolo 12
Il capitolo è l’unico in cui la scena si sposta, non geograficamente, ma si abbandona il focus dei pensieri di
Milton, senza una dichiarata cerniera. Si presentano due ragazzini prigionieri in una caserma fascista, che
sarebbe azzardato anche definire partigiani. Tutta la scena ha una sorta di doppia focalizzazione:

 L’ufficiale fascista che ha la responsabilità di decidere dei ragazzini sa che non esistono più gli
intoccabili
 I ragazzini stessi vivono in una dimensione ancora in parte ludica.
Questa contrapposizione di sguardi sulla realtà e su cosa può essere il futuro contiene una fortissima carica
di pathos non dichiarato (è l’unico punto in cui il pathos non è estrinsecato, di solito ci viene comunicato
attraverso il filtro del pensiero di Milton), ma che comunque c’è. Si crea un pathos per integrazione da
parte del lettore, è il lettore che percepisce l’aberranza della scena anche se non viene esplicitato.

Perché questo spostamento? Le possibilità sono diverse, teniamo conto che di questo
romanzo esistono tre stesure, manca una sua conclusione; è anche vero che rimane
una difformità. Perché qui cambia tutto?

Milton trasgredisce alle regole per tutto il romanzo e si salvs, mentre i due ragazzini sono la dimostrazione
di come il rispetto di esse porti alla distruzione di sé. Uno degli episodi in cui disubbidisce è l’episodio
della cattura del fascista, venendo meno anche poi al principio base dei partigiani del non uccidere:
dimensione ludica ed emotiva che in Milton è rappresentato nel voler agire a tutti i costi di testa sua, e
dall’altro una dimensione più globale dell’ufficiale fascista di cui Milton non si interessa perché la sua
questione privata prevale su tutto.
In questo episodio il paesaggio è sereno e sgombro, qui la tempesta è interna ai personaggi!
18 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 19

Approfondimento sulla critica stilistica


Rispetto alle mode della critica a cui noi facciamo menzione come si pone il percorso che
stiamo facendo? Se dovessimo applicare un’etichetta, quale sarebbe?

Se dovessi riconoscere un modello nel modo con cui mi approccio a un testi, sicuramente la critica
stilistica è quello a cui mi sento più affine.
Cos’è la critica stilistica? Per come io la intendo, è stata applicata nel modo più interessante da Leo Spitzer,
che ha dato un contributo formidabile proprio al modo di studiare la letteratura. Per come la intendeva
Spitzer64, quella stilistica si concentra sullo scarto dalla norma, cioè quella percentuale di differenza di
un qualunque elemento di linguaggio di uno scrittore, che lo differenzia dalla restante comunità dei
parlanti; e questo si può interpretare in molti modi

 Variazioni nell’uso dei significati (linguista)


 Variazioni all’interno delle proprie correzioni (filologo)
 Variazioni nell’uso degli schemi strutturali, le relazioni tra le parti (Weinrich)
La bibliografia di Spitzer ha una tappa legata alla storia italiana: Lettere dei prigionieri di guerra italiani.
Spitzer si trova ad essere responsabile della censura in quest’epoca, ma dopo la fine della guerra fa tesoro di
questa esperienza che gli permise di studiare la lingua dei semicolti o analfabeti che dettavano le lettere, e
inizia a ragionare sugli scarti dalla norma di questi semicolti (ancor più difficile che su un poeta). E questa
lingua dei semicolti, considerata spazzatura, ha una straordinaria vivacità, comunica in modo molto potente.
Queste osservazioni trovano una sorta di sintesi in quest’opera.

Lo scarto dalla norma è un modo per mostrare che io non potrei dire le cose in un altro
modo. Il dramma dei libri di oggi è che sono tutti scritti uguali, sono pensati per farci sentir al
sicuro e dire le cose esattamente come le diremmo noi. Lo scarto dalla norma è esattamente il
contrario di questo.

Ad esempio, Spitzer si accorge che un tratto caratteristico della poesia novecentesca europea è
l’enumerazione caotica.

La critica stilistica in Fenoglio


Nel testo di Fenoglio a un certo punto troviamo un passo oggettivamente sconcertante; suppongo che questo
passaggio sia il cuore del libro, senza affermarlo con certezza. Se c’è qualcosa nel testo c’è un motivo, già
Freud diceva che il caso non esiste, che c’è sempre una spiegazione, nei lapsus, nelle parole sbagliate, idem
nell’investigazione sui testi: perché l’ha scritto? Non parliamo per strada, leggiamo un testo scritto,
stampato. Voleva dirci qualcosa anche se non lo sapeva.
Fine capitolo 4:

64
Spitzer ha una storia interessante con una tappa legata alla letteratura italiana; Lettere di prigionieri di guerra
italiani, libro che nasce dalla riflessione su questi epistolari, e inizia a lavorare su questi scarti dalla norma (che
consideriamo da un punto di partenza radicalmente differente rispetto a quello che si può osservare in un testo
d’autore). Si rende conto che la letteratura considerata spazzatura, e questa lingua, ha una straordinaria vivacità, anche
quando inaccettabile.
 Si morde il labbro, cosa vuol dire? Perché? Stringere i denti perché gli fa male? Sofferenza e
silenzio.
 Darsi il borotalco…: di cosa ci parla questa immagine se non di una cura del corpo?
 Aveva avuto tutto l’agio di considerare il corpo, la pelle, il pelo: una intimità sempre più analitica,
e poi aposiopesi. Qui la questione privata arriva quasi al livello della coscienza; quasi, perché
poi c’è una censura.
Non voglio negare che nella finzione del romanzo Milton sia davvero innamorato di Fulvia, ma credo ci sia
anche questo elemento omoerotico. Forse c’è una reminiscenza di una scena di Moby Dick? Potrebbe essere
una tecnica per significare un accenno all’omoeroticità in contesti in cui la pratica eterosessuale è preclusa.
Il mondo di Fenoglio è profondamente permeato sia da modelli classici che anglosassoni, Moby Dick lo ha
tradotto per la prima volta Cesare Pavese.
Non tenere conto di questo passo sarebbe più complesso che interrogarsi sul suo significato.
L’imboscata65
L’imboscata comincia con un’insinuazione: un contadino si reca da un gruppo partigiano a denunciare una
maestra, che accusa di ricevere un ufficiale fascista.
Delazione e insinuazione: aggiunge chiaramente che la relazione sul piano sessuale c’è sicuramente; ma se
oltre a concedersi raccontasse anche qualcosa dei gruppi partigiani? Non è una denuncia di costume, è una
denuncia di un’azione in qualche misura bellica. Il meccanismo è simile a quello della governante in Una
questione privata.
Se fosse solo una porca andrebbe anche bene; ma se fosse una spia?
Questa prima scena, dopo la presentazione di questa denuncia, ha una sorta di appendice in un colloquio
interessante tra Leo e Pèrez, che sostiene che la donna è portatrice di una straordinaria bellezza; questo
crea poi una sorta di impuntarsi del discorso, che sembra girare a vuoto senza farlo, comporta un erigersi
dell’attenzione.

La microscopia è fondamentale in questa scrittura, più ancor che in Una questione privata. Non
è per forzare la lettura, ma per mostrarvi che questo testo rimane ambiguo, sembra lasciar
trasparire più di quello che mostra

I testi di Fenoglio sembrano costruiti secondo l’ambiguità che Edoardo Sanguineti traducendo l’Edipo re
chiamava l’oracolese e reputava l’elemento capace di fare dell’Edipo Re la tragedia delle tragedie: la
possibilità dei segni di essere interpretati al contrario66:, la necessità di essere interpretati al contrario,
per essere compresi.
Ecco l’ambiguità di Fenoglio:
1. Episodio della posta alla caserma. Più il nemico è pericoloso, più è importante sconfiggerlo, ma
l’espressione credo si presti anche a un’interpretazione altra, più erotica: Averlo, averlo!
2. Prospettiva del barcaiolo che guarda Milton, che sembra colorarsi di omoeroticità, era sensibile alla
questione; i costumi e le sensibilità e le pratiche cambiano nel tempo, anche all’interno di una stessa
vita e di uno stesso periodo: Era un bel ragazzo, e sì che ne aveva visti di bei ragazzi
3. Battibecco con Jack io vado per l’uomo. Forse anche qui traspare un’allusione omoerotica? Non solo
rifiuta la possibilità di stupro, ma specifica l’obiettivo, mentre tutti sembravano impegnati dal pensiero
della donna

Cosa sappiamo di Milton de L’imboscata


 Quando si decide di mandare qualcuno a fare un sopralluogo e tenere d’occhio la situazione, il nome di
Milton appare per la prima volta sotto il segno negativo: ci viene presentato come l’ultimo che
dovrebbe essere coinvolto in questa storia, ma non sappiamo perché. C’è anche un altro elemento
polisemico:
sappiamo come tratta gli uomini, con le donne non sappiamo

65
I nomi in questo libro sono gli stessi che in Una questione privata e Nel partigiano Johnny
66
Cf. Erodoto, cosa fare con i Persiani? Creso chiede agli oracoli, Delfi risponde in modo enigmatico ma fededegno;
ritiene allora quello di Delfi come l’oracolo più ispirato dal divino, e porge la domanda: andrai in guerra contro Ciro,
distruggerai un grande regno. Pensa allora di essere predetto vincitore, e invece il regno che viene distrutto è
proprio il suo.
Il Milton di questo libro è testardo come l’altro, ma caratterizzato da un’asprezza, da una durezza e
determinazione, che è molto più simile a un personaggio da western, diverso dal lacrimevole Milton de
Una questione privata. È una donna potenzialmente connessa al mondo fascista, per questo sembra che
Milton non possa essere candidabile; è una testa calda67.
 Quando Milton entra in scena nel capitolo 2 chiedono due cose; una di queste è cosa sia successo:
Niente, una buona notizia; ma Milton dice che se facessimo qualcosa sarebbe ancora meglio: emerge
l’insofferenza tipicamente fenogliana dell’attendismo.
 Un elemento caratterizzante sia di Milton che di Johnny è la conoscenza tanto precisa sul locale
quanto sfuggente sul generale (Spinazzola): hanno liberato Roma ma a me di Roma importa poco, c’è
una visione sfumata degli andamenti generali della guerra.
 Un altro elemento da notare: il nome di Milton prebellico è Giorgio, il nome del suo nemico-amico-
amante del libro prima; lo apprendiamo da una memoria, da due dialoghi con il padre e con il prof di
filosofia
 Milton qui è dichiaratamente bello. Questa insistenza sulla bellezza non è accessoria (della maestra,
la sua, ecc.)
 Il rapporto con il padre: quest’ultimo sappiamo essere stato fucilato in quanto riconosciuto come
antifascista in seguito a una serie di fatti che hanno coinvolto anche il figlio. C’è un’altra questione
privata, che muove e motiva il suo attivismo
 Milton è un personaggio anglofono, che traduce per fare suo una tragedia di Marlowe la tragedia più
antisemita che esista, l’ebreo di Malta
 Milton sa che la vita partigiana è in collina, ma vorrebbe l’acqua del fiume, rapporto che rimane in
evidenza fino alla fine del testo; nascondimento della collina vs moto del fiume verso il mare, come il
moto della guerra verso la liberazione. La geografia si dilata e si restringe continuamente, il limite
tra lecito e illecito, continuo e pericoloso, è sempre in movimento; c’è spessissimo la dialettica tra
l’avvicinarsi il più possibile ma di nascosto e avvicinarsi attraverso lo sguardo, che presuppone anche
l’essere visti, eccetera. Lo spazio di Fenoglio è molto importante.

67
Nel testo sono presenti degli appunti di scrittura: tra la denuncia e il momento in cui Milton si mette in testa di
andare a investigare manca il momento in cui viene a sapere della situazione, che ci viene descritto solo in un appunto,
evidentemente non sviluppato. È un libro incompiuto.
29 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 23

Guido Morselli
Autore che presenta diversi gradi di apprezzamento, come altri che abbiamo osservato in questo percorso;
un grado di apprezzamento non ancora commisurato al suo valore, autore poco conosciuto e poco letto,
anche se Adelphi non soltanto ha pubblicato postuma quasi tutta l’opera di Morselli (romanzi, saggi,
articoli, ecc.), ma ha anche sistematicamente ristampato: questo significa che non è un autore scomparso,
è abbastanza reperibile.
1. Intanto Morselli si sottrae alla regola del centenario: è nato nel 1912 a Bologna; il suo centenario
qualcosa ha riattivato, qualcosa ha prodotto, ma non c’è stato un vero e proprio mutamento di rotta.
2. Il centro dove vive la parte principale della giovinezza però è Milano; non facciamo troppo torto al
vero se lo immaginiamo autore lombardo.
Ma oltre alla Lombardia (ambiente sociologico rilevante) ci sono altri due/tre luoghi all’interno di una
biografia non particolarmente ricca di eventi:
3. Calabria, dove milita vestendo la divisa dell’esercito italiano, e dove sperimenta le asprezze della
stagione della guerra (non tanto del combattimento quanto della catastrofe che coinvolge tutto il
mondo). Morselli dalla Calabria sperimenta una coatta postura attendista e di ciò che avviene, lo
svolgersi sempre più disastroso della guerra per le forze italiane. Anche se quindi ha dieci anni in
più degli altri, anche per lui nell’8 settembre del ’43 il costante orrore della guerra incrementa
esponenzialmente; è il crollo di una società, a cui si sovrappone un sentimento desolante di
vergogna, umiliazione, scandalo. Da questa posizione Morselli osserva sostanzialmente la fine di
un’epoca.
4. Varese e Gavirate: luoghi dove il padre (tollerante e comprensivo delle aspirazioni letterarie del
figlio, in qualche misura addirittura finanziatore) gli regalerà una piccola casa dove Morselli vivrà
lavorando sui suoi testi tutta la vita, cercando senza successo di proporli alla scena editoriale.
Prima di rinchiudersi però nella sua tana ai piedi delle Alpi, Morselli viaggia, raggiunge un’ottima
conoscenza della lingua inglese e sviluppa uno sguardo cosmopolita.
Morselli ha sicuramente dei tratti profetici, ma mentre Pasolini era profeta consapevolmente, con tanto
di tratti di volontà di scandalo e narcisismo, Morselli è più che altro una Cassandra, un profeta
inascoltato; eppure, ci sono dei passi che riletti e meditati oggi nella sua opera sono di singolare interesse;
mi riferisco soprattutto a un paio di pagine di Roma senza papa.
I Saggi
Solo due testi saranno pubblicati in vita da Morselli, e a pagamento. Queste prime fasi giovanili saranno poi
seguite con maniacale attenzione anche in seguito; è un autore sperimentale nel senso che interroga le
forme, mostra la loro inquietudine e dinamicità. Autobiografia, fantasia, realismo, sono elementi che
Morselli si porterà dietro per tutta la sua esperienza, che si approfondiscono e diventeranno sempre più
inquieti e inquietanti le forme. Soprattutto il tema della solitudine e dell’io sono già visibili nella prima
fase, diventeranno ancora più evidenti in seguito.

Proust o del sentimento


I suoi testi, a parte due saggi, non vennero mai ben accolti: uno dei saggi editi fu Proust o del sentimento,
pubblicato da Garzanti (editore prestigioso) ma a pagamento nel ’43 (sostanzialmente l’editore accetta
una retribuzione in cambio della pubblicazione... non è la stessa cosa che inserirsi autorevolmente nel
panorama generale): è un contributo critico-letterario su Proust, un autore canonico e imprescindibile, ma
in un’epoca in cui non era così facile da reperire (poche copie, poco tradotte, poco note, circolazione
molto bassa: campeggiava l’etichetta dell’omosessualità e dello scandalo, si sapeva essere un autore
importante ma nell’Italia fascista non era così facilmente reperibile).

Scrivere un saggio su Proust nel ’43 indica una apertura mentale non comune.

Quello proustiano è uno dei modelli che Morselli farà suo:

 tutti i testi di Morselli, anche quando apparentemente incentrati su personaggi singoli, anche molto
isolati e nemici della società, della comunità, ecc., in realtà sono pieni di società.
 L’altro elemento che sussume da Proust è l’attenzione alla propria vita; che non è fare
autobiografia, ma fare analisi del sé e delle sue contraddittorietà, scavare nel materiale
biografico e autobiografico, non per narcisismo ma per dare al romanzo e alla narrazione una sorta
di strumento ulteriore.

Realismo e fantasia
Il secondo saggio che pubblica nel ’47 si chiama Realismo e fantasia, inizialmente proposto a Mondadori
e viene pubblicato a pagamento con Bocca; se il primo è un tentativo di critica letteraria, il secondo testo
assume invece una forma autorevole e di lunga fama come il dialogo, che qui diventa occasione di
riflessione teorica sulla polarità realismo-fantasia, due poli che in modo diverso e con gradazioni diverse
abitano tutte le operazioni del Morselli; potrebbe sembrare un’ovvietà, nell’epoca del neorealismo, e invece
si ricorda qui l’importanza dell’elemento immaginativo/fantasioso/creativo.
Fede e critica
Anche Fede critica esce quando Adelphi pubblica tutto, ma questo è un saggio ripubblicato da Adelphi.
Emerge una delle questioni che dobbiamo tenere presente per capire l’opera di morselli, legata all’opera
meno letta e meno nota in assoluto: il rapporto tra fede e critica.
Perché fede e critica? Saggio a metà tra storia della religione, metafisica e autobiografia ideale, tentativo di
mettere a fuoco con le armi della ragione alcune delle domande più profondamente inafferrabili
dell’uomo, che l’uomo ha da molto prima della nascita del cristianesimo. Impianto speculativo-meditativo
dichiarato, autobiografico e teorico allo stesso tempo.
Es. I capitolo: perché si soffre. Immediatamente si offre come qualcosa che muove da un’inquietudine
generazionale (ma personale) allontanando la sostanza biografica e l’incertezza del singolo, riportando
invece la cosa su questioni teologiche. Morselli non è filosofo, non è teologo e nemmeno cristiano
convinto.
È un discorso che muove dall’esperienza di un uomo comune, non ha un marchio che lo autorizza, c’è
solo una volontà inesausta di riflettere su temi da sempre caratterizzati dalla parola Mistero, per affrontare
temi che sono sull’umano. Fede e critica, è il dramma, il binomio che porta sempre con sé. Il dramma
del male, il dramma della solitudine, il dramma della sofferenza, mai l’abdicazione.
I romanzi
Il suicidio di Morselli troppo facilmente e frequentemente è stato riconnesso alle numerose lettere di
rifiuto di pubblicazione: hanno sicuramente un peso ma è riduttivo che sia tutto qui. Scrittore poco
conosciuto, scrittore fenomenale, scrittore suicida: è un caso perfetto, per creare quello scandalo che i
media cercavano per acuirne l’interesse. Ed è tutto il contrario di quello che Morselli avrebbe voluto: odiava
la fretta! Era un sostenitore della sedimentazione.
Nel momento in cui Adelphi sceglie di pubblicare il primo libro postumo (Roma senza papa),
immediatamente la critica sembra accorgersi di questo formidabile scrittore. È sicuramente un caso
letterario, che si contrappone a Dissipatio H.G, presentando al panorama italiano una figura estremamente
originale e non incasellabile nel quadro dei dibattiti, delle polemiche degli anni precedenti: un esordiente
singolare, che di lì a poco, appena finiranno di uscire nel giro di qualche anno, si presenta con una
variegatissima produzione, tutta ad altissimo livello; si offre immediatamente alla scrittura come caso.
Se noi percorriamo il catalogo Adelphi e ignoriamo per un attimo i tempi di pubblicazione, abbiamo una
situazione letteraria che si configura così:
1. Uomini e amori (’49-54): Morselli è anche uno scrittore dalle stesure multiple, non per l’urgenza
scrittoria tipicamente fenogliana, ma perché spesso nell’attesa di risposte e riscontri torna sui
testi e li rivede.
2. Incontro col comunista: primo tentativo di una scrittura che riemergerà anche successivamente
3. Un dramma borghese (‘60): si svolge in un albergo, quasi un esperimento da giallo. Padre e figlia,
e una relazione quasi patologica; piena di disfunzioni, errori, sbagli, linguaggi che non si
incontrano. È un testo che mette in scena una delle grandi questioni morselliane, non ultima la
compresenza di un bisogno radicale dell’individuo di solitudine e quello delle relazioni. È un libro
che indaga il rapporto tra due generazioni, due corpi legati ma estranei, indagate con un’intelligenza
speculativa e una discrezione uniche
4. Il comunista (‘64): sembrerebbe parlare di tutt’altro, un esponente del PC che deve fare i conti con
l’adesione (assoluta e convinta) al partito e con un difficile rapporto tra la sua vita privata e le
regole dettate dagli esponenti del partito.
Nella metà degli anni 60 Morselli ha già scritto Un dramma borghese e Il comunista. Sono romanzi quasi
gemelli: se osserviamo le trame ci portano molto lontani l’uno dall’altro. Entrambi presentano uno di quei
temi costanti della letteratura morselliana: il rapporto tra l’io (che deve sottostare alle regole) e gli altri. Il
primo presenta al massimo tre personaggi, il secondo ne presenta moltissimi. Una parte della passione
politica di Calvino fa velo a Morselli: come gli altri morselliani, anche questo libro viene rifiutato.
Roma senza Papa
Roma senza papa è un romanzo fantapolitico, scritto nel ‘66 ma ambientato negli anni ‘90. Tanto per
darci un’idea di contesto, gli anni in cui viene scritto sono anche quelli dell’onda lunga del Concilio
Vaticano II, durante cui Giovanni XXIII cerca di afferrare per la coda la modernità che sta andando per la
tangente e riformulare alcune forme per adattarla almeno in parte alle necessità e alle suggestioni di
questa. Un’istituzione come la Chiesa cattolica spesso intransigente si trova ora non più al centro, e capisce
che la chiusura non è la strada. Banalmente, un esempio per tutti, la concessione che i rituali principali si
potessero celebrare in italiano e non in latino.
Quando esce il romanzo, in un tempo in cui è attivo molto il dibattito sulla fantascienza, sulla apocalisse
(guerra fredda, problemi climatici, ecc.), si presenta come più fortemente anticipatorio di quello che è il
clima e il pensiero del momento. Ma se guardiamo la vita di Morselli e ripensiamo a Fede e critica,
capiamo che la questione tra fede e riflessione sul senso della vita e della morte accompagnavano
Morselli da tantissimo tempo. La scelta di dedicare questo libro al tema è un tentativo di indagare il
rapporto tra fede e contesto, un mondo in cui il meccanismo fideistico rassicurante e produttivo diventa
sempre più obsoleto, eppure diventa sempre più essenziale, di cui si sente ancora il bisogno. Si hanno
ancora inquietudini, l’inganno del consumismo è quello di far credere che lo shopping compulsivo serva a
essere felice, ma è un inganno. Morselli usa la fede per fare delle domande, proietta i dubbi e le luci del
pensiero religioso in un contemporaneo sempre più lontano da questa fede, e ne osserva il confliggere,
senza scegliere una o l’altra.
E badate, che prima di Roma senza papa, c’è Il comunista: che è l’altra fede assente, ma che Morselli
usa esattamente nello stesso modo! Sollecita i problemi, i dubbi, le contraddizioni: è un libro scritto da un
uomo che non ha mai fatto parte del PC, ma che si è documentato in modo impressionantemente precisa
sul linguaggio, sui modi, sulle dinamiche di partito. Quando dicevo che lavora sodo per i suoi
esperimenti, intendo questo, questo romanzo può essere considerato una specie di guida al comunismo per
quanto è preciso e verosimile.
Questo romanzo guarda i tempi moderni da un’ottica che potremmo definire malinconicamente
conservatrice, osserva un tempo che diventa sempre più nemico della propria posizione. A partire da
questo spunto Morselli inventa un viaggio in questa Roma (fantastica e credibile insieme) che è anche
un’analisi pungente, satirica e melancolica. Il don Walter del romanzo è sempre un po’ svizzero, un po’
marginale, cerca di non essere mai completamente coinvolto nelle vicende; si limita a osservare; dice la
sua e trova che questi comportamenti, questa modernità che tiene insieme figure istituzionali e consumi di
genere allucinogeno o di conforto risultino lesivi all’immagine del sacerdote 68.
Il libro non ha una trama: forse anche più che in Dissipatio. tutto gira intorno a un incontro con il Papa,
all’attesa di questo incontro, che però è brevissimo e non succede niente; tutto avviene nella psiche del
personaggio.
7 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 27
La scelta di far attendere per tutta la durata del romanzo un personaggio non è invenzione di Morselli,
è già conradiano. Per tutto il tempo pensiamo al protagonista del libro, Kurtz69, lo attendiamo tutto il
romanzo, eppure quando arriva pronuncia due battute e muore.
Merita una riflessione un saggio di Visentini dove si parla di Roma senza papa.

68
va a Roma forte della pubblicazione di un saggio di difesa dell’Iperdulia, quindi è un conservatore!
69
Cuore di tenebra, Joseph Conrad
Il prof ritiene che ci sia un errore: evidentemente pur lavorando su Morselli pare che il romanzo non gli
piaccia, e questo è normale! Ma c’è un problema di interpretazione:

 Protagonista appena abbozzato. Non è vero! Sappiamo tutto di lui, cosa pensa, sappiamo cosa
legge, mi sembra di un personaggio che al massimo può essere criticato per eccesso di presenza,
non di assenza!
 Sentenzioso e libresco? Non è un difetto! È fatto così, è il delinearsi di un intellettuale, non è
strano che pensi così. Sostiene che don Walter sia la personificazione, l’alter ego della voce
parlante in fede e critica. Sarebbe un problema? Credo sia una ipotesi interessante, non
problematica. Pone le stesse questioni di Fede e critica perché sono quelle che gli interessano, è
sperimentale perché cerca di mettere a tema le stesse cose in modi diversi, con una coerenza di
fondo.
C’è una sorta di cortocircuito tra la critica e il gusto (il finale è guastato) del critico: è vero che lascia
l’amaro in bocca questa udienza attesissima durante il corso del romanzo; si pensa spesso a questo papa,
alle ragioni che ha avuto per fare quello che ha fatto, ecc., di cui ci sono riportate le pochissime battute: il
finale non è guastato, è iscritto nell’essenza del romanzo.
6 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 26

Conservatorismo e innovazione:
1. Il protagonista, prete svizzero a Roma per lavoro nel ‘62, trent’anni prima, è giornalista dentro un
organo cattolico e professore di eloquenza e storia, fresco della pubblicazione di un saggio sulla
Difesa dell’Iperdulia, da cui si capisce quindi che è un culto quello della Madonna non solo in via di
smantellamento ma anche oggetto di un dibattito molto acceso. Questo teologo di formazione
rigorosa sostiene che uno dei segni più forti della decadenza del suo tempo sia che le questioni
essenziali siano devolute al pubblico e non all’apparato degli esperti. Questo per dire perché il
Morselli nemico della folla non è mai l’unico elemento di decifrazione: l’altro elemento è sempre il
collettivo, il mondo nel suo insieme.
2. Questo prete guarda una Roma priva di una figura di riferimento, sempre più ridotta a luna park,
attrazione turistico, un luogo di consumo frenetico. Roma modificata non solo dalla modernità, ma
anche da questa scelta epocale e per certi versi scioccante (Giovanni XIV non a caso) del papa di
trasferirsi in provincia. È un uomo che si è ritirato, non come Benedetto XVI per motivi di età, ma per
motivi di anonimato, in una sorta di resort altrettanto anonimo pur rimanendo la guida della cristianità,
con una scelta di autoesilio.
3. Un altro modo con cui Morselli si relazione con l’innovazione è l’introduzione dell’IPPAC, l'Istituto
di Promozione della Psichiatria Cattolica. Quella che si riporta è un tentativo di contaminatio che
don Walter registra con sconsolata rassegnazione, due dimensioni apparentemente inconciliabili che
si scontrano senza produrre catastrofe, ma metamorfosi. Secondo il prof è una delle modalità
dell’apocalisse70.
4. Un’altra delle questioni che non abbiamo toccato è ovviamente quella del celibato dei preti, e insieme
a questa ce ne sarebbero tante altre. Il celibato che è un tema forte della cultura cattolica, legata
ovviamente al rapporto problematico tra corpo-peccato-piacere ecc. Ovviamente nel contesto di un
allineamento della chiesa alla modernità non poteva non contenere anche questo. Il ragionare è un passo
e un elemento continuo di questo romanzo.
5. Quando don Walter e gli altri undici della delegazione hanno avuto udienza, tutti i rumori di Roma li
assalgono, rumori da cui il papa è scappato. Ritornando nel luogo del frastuono e dei segnali
sovrapposti tempestivamente, l’uomo è arrivato sulla Luna71 (non era difficile crederlo nel 66, a
differenza del discorso sulle droghe; anzi sbaglia perché lo ritarda troppo). Ma si immagina che il
primo a raggiungere la luna sia la Svizzera, né USA né Russia, quindi forse una possibilità distensiva
dal punto di vista politico, che rassegna la competizione tra i due blocchi.
La navicella sulla luna innesca altre meditazioni un po’ cupe e sconsolate, Walter pensa che l’arrivo
dell’uomo sulla luna non prometta granché di buono, non perché annunci qualcosa di male, ma
perché rappresenti un’azione che non cambierà in nessun modo, perché non ha una azione con un
potere effettivo sulla natura umana. Questa percezione non è del solo Morselli. Il tema del
raggiungimento della luna è molto antico, ma finché era fantasia era una cosa, ma dopo il ’69 questa
fantasia si è trasformata in una realtà vissuta da molti non come una avventura, ma come una violenza,
una violazione a qualcosa che era stato simbolizzato ma mai toccato; e anzi proprio in virtù della sua

70
de Martino:
•l’apocalisse del sé, ed è proprio da lì che si parte in Dissipatio. È interessante.
• l’apocalisse cristiana, l’unica rettilinea tra le concezioni circolari dell’antichità
• L’apocalisse etnografica, in ottica colonialista: la fine di una società
• L’apocalisse marxiana, il rapporto tra preistoria e storia
• L’apocalisse nella letteratura.
71
Saggio di Cortellessa Volevamo la Luna, ricostruisce le fasi del mito della Luna e delle sue conseguenze in
letteratura
intoccabilità aveva sviluppato un suo statuto romantico. Lo scetticismo è anche di Zanzotto, che lo
equipara a uno stupro, a una violenza su due livelli:
 Il piano oggettuale, il fatto che il satellite sia stato toccato e imbruttato dall’uomo
 Il piano ideale e simbolica: il raggiungimento del sogno svela l’arido vero (più arido della
Luna…) Leopardi sapeva molto bene che una volta che il vero si impone non si può più
cancellare, non poteva esimersi dal coglierne l’aspetto deprimente.
Morselli aveva toccato quella questione con qualche anno di anticipo: e chi aveva visto in questa
contesa due attanti principali si vede spostare da Morselli l’attenzione su un terzo attore, la Svizzera.
Sposta la questione dall’aggancio politico! A lui sembra auna sorta di evento epocale ma con i piedi
d’argilla, le magnifiche sorti e progressive.
1. In queste pagine si menziona un allievo che si trova al centro di una questione una questione un po’
problematica: il GR6, una droga, nella finzione romanzesca. Il monologo interiore di don Walter è
fortemente radicato nella sua cultura di ecclesiastico, ma tradisce anche l’indole di persona molto
attenta al dibattito contemporaneo; ne è un esempio questa discussione relativa a una droga
allucinogena di cui gli ecclesiastici fanno largo uso e su cui si discute, proprio su articoli in rivista che
esistono solo nella finzione narrativa. Si dà per scontata la conoscenza di questi articoli, sta parlando
con sé stesso, e quindi non ha bisogno di ricapitolare il dibattito. Colpisce che la posizione dei
gesuiti siano a favore dell’uso della droga, ci stupisce perché siamo abituati a una posizione di
repressione: in questa Roma si osserva il difficile convivere tra qualcosa di molto contemporaneo e di
molto tradizionale.

Una realtà storica dettagliata si viene a fondere con una realtà di finzione: si fa
allusione al proibizionismo americano di primo Novecento, per svolgere una
trattazione riguardante invece una dimensione fittizia: non si riesce a identificare il
passaggio tra l’una e l’altra!

Realtà e finzione in Roma senza Papa


Il ns personaggio vive in un ambiente nel quale alcune cose di cui Morselli parla sono reali, altre inventate:
l’operazione necessaria a connettere le due cose è sofisticata! La fantascienza è abituata a lavorare con
mondi che non pongono problemi di credibilità; ma quando lavoro sul ravvicinato le stonature diventano
più evidenti! Roma senza Papa è un libro estremamente realistico. Attraverso una continua interazione
tra dati immaginari e reali si crea un mondo altro ma verosimile.
Quello delle droghe, che sembra un elemento marginale di Roma senza papa, è in realtà uno degli aspetti
previsionali più interessanti. È interessante perché don Walter è scettico, ma sta parlando di un dato di
fatto; quindi, di una società che è sistematicamente e capillarmente consumatrice di droghe, e in quella
modernità che ha ucciso il divino, il divino stesso sta rinascendo dalle sue stesse ceneri.
Siamo negli anni 60, le droghe sintetiche stanno arrivando: non era affatto una realtà conosciuta come
invece in America, anche se in Asia magari erano già fortemente in uso da tempo. Le droghe sintetiche
sono una novità, anche la riscoperta di altre sostanze come i funghi allucinogeni fanno parte della
fascinazione per dimensioni iperspirituali ed esotiche in contrapposizione al laicissimo e consumistico
mondo occidentale. Tutto questo non era affatto così globalmente percepibile negli anni Sessanta, le
droghe che esistevano allora erano tutt’al più usate dai negri musicisti, sia marginali che giunti a successo.
Eroina e cocaina tutt’al più, ed erano usate da ricchissimi o quasi. Ricordiamo Zabriskie Point (film), un
film che fotografa una situazione che si è andata diffondendo rapidissimamente.
Anche la tradizione a cui si fa riferimento della produzione monastica di alcolici e altri prodotti è un
richiamo a una pratica storica! È elegantissimo nel suo passaggio dal vero al finto, il movimento del
pensiero narrativo è estremamente agile.
In questo momento (fine anni Cinquanta, primi anni Sessanta) la fantascienza sta facendo i conti con una
rivoluzione molto forte: prima della new wave degli anni 80 c’è quella degli anni Sessanta di Philip Dick e
James Ballard:

1. James Ballard72
Secondo l’autore è dentro le teste degli uomini che ci sono i veri abissi, non possiamo più parlare di
guerre intergalattiche, dobbiamo esplorare la fantascienza da dentro l’uomo.

2. Philip Dick
Il mondo di Philip Dick è un mondo ipertecnologizzato, pieno di comfort e benessere, ma nevrotico e
paranoico, e freneticamente consumista. Dick capisce molto bene guardandosi intorno fino agli anni
Cinquanta è che tutto quell’insieme di casette che si rappresenta come l’età dell’oro nel momento stesso in
cui si verifica è anche una realtà che nasconde delle profonde inquietudini e malattie; l’alcolismo è solo una
di queste, perché è una realtà tutta competitiva. Se pensate alla cinematografia, uno dei motivi più
frequenti è quello del Rise and Fall, e sono numerosissime queste ricorrenze. Qual è l’elemento
aggiuntivo che permette a Dick di diventare il più amato autore di fantascienza? Il rapporto tra
capitalismo e droga: capisce che la droga è rappresentazione perfetta del capitalismo! Uscite dalla
metafora: la dimensione del capitalismo è quella della produzione di qualcosa di cui non puoi fare a
meno! L’America è il maggior consumatore e allo stesso tempo la maggiore economia che mette in moto
tutte le narcoeconomie.

Quello che Dick capisce è che tra la superficie ordinata e benestante e ciò che sta alla
base della criminalità c’è una sotterranea e invisibile cooperazione.

Tutta l’opera di Dick mette in relazione tre elementi:

 Elettrodomestici (che talvolta arrivano anche a limitare l’azione umana)


 La droga allucinogena
 Il delirio religioso (Dick era stato frequentato da allucinazioni religiose molto forti, da cui deriva la
stessa idea alla base di Matrix)
In Dick molto spesso le droghe servono a compensare le condizioni di vita disumane in cui devono stare: le
droghe moderne, le droghe dello stare insieme e festeggiare, sono un puntello all’esistenza, non una
protesta: un incoraggiamento, senza quelle la vita è aspra e deludente. L’uso di queste sostanze aiuta a
sostenere le difficoltà, e sono percepite come un ausilio, non come un ostacolo. Manca quasi del tutto
l’apertura di tipo religioso.

72
Suddito inglese abitante delle colonie durante l’infanzia, catturato e recluso in un campo di concentramento
giapponese; esperienza di trasformazione radicale della propria dimensione: un giorno si vive da signore, il giorno
dopo il mondo va in pezzi e sei recluso. Esperienza che genera molte delle grandi domande di Ballard, nei cui libri
spesso il singolo ha a che fare con dimensioni climatiche apocalittiche, esplorazioni di catastrofi naturali (la sua
Tetralogia degli elementi è composta da Il vento dal nulla, Deserto d'acqua, Terra bruciata, Foresta di cristallo) che
lasciano pochi sopravvissuti aggirantesi in un mondo frantumata. La fantascienza di Ballard è psicologica.
Contro-passato prossimo
Altro radicale cambio di strada con Contropassato prossimo (1971): libro che richiede a Morselli una
stesura un po’ più lunga (considerate che ci sono trafile editoriali 73 nel mezzo).
Contro-passato prossimo è un esperimento ucronico, cioè presenta una realtà alternativa rispetto alla I
GM, che Morselli si immagina svoltata da un episodio minimo che Morselli porta alle estreme conseguenze
in un meccanismo di estrapolazione rigorosissimo: cosa sarebbe successo se la scoperta della possibilità di
creare una galleria tra Austria e Italia nel 1910 fosse stata usata per trovare una alternativa alla guerra
di stasi in una guerra velocissima. Attraverso questo buco le truppe austro-ungariche che hanno studiato
tutti i punti di organizzazione della difesa italiana riescono a colpire al cuore la difesa italiana, come e
meglio di Caporetto. E da questa ipotesi Morselli sviluppa una vicenda che si espande in modo
consequenziale e rigoroso. Tutto lo scenario della II GM si ridimensiona, all’altezza del 1916. È una
Caporetto quasi senza spargimento di sangue.
Si sviluppa un’idea molto cara a Morselli, l’enorme quantità di morti e spargimento di sangue inutile
che portava con sé: la I GM era stata l’emblema del non senso umano, e qui si reinventa questa idea di
guerra; una guerra massimamente efficace con il minimo dello scontro. Gli scenari bellici si ridisegnano;
vincono gli imperi centrali, si ristrutturano le forze politiche europee. c'è un ridisegnare la storia a partire
da tutti i personaggi, veri o verosimilmente veri. Non c’è Weimar, non c’è il nazismo. L’operazione di
Morselli non è un semplice gioco: si potrebbe quasi prenderlo come un libro di storia, i personaggi sono
quasi tutti veri, anche se fanno altre cose.

Divertimento 1889
Mentre lavora alle sue ultime scritture (Contro-passato porta via molto tempo) scrive questo gioiellino,
un’appendice fantastica, Divertimento 1889: cosa succede a un re continuamente obbligato a rispettare
obblighi di nobiltà, obblighi di politica, se si prendesse una vacanza dalle sue responsabilità e dalla
deferenza che tutti gli dedicano?

Dissipatio H.G.
E cosa succede a un suicida che decide di sparire, ma poi non ha il coraggio di fare quello che ha deciso di
fare, e al suo ritorno tutti se ne sono andati? È l’ipotesi tra il fantascientifico e l’esistenziale che sostiene
Dissipatio H.G., ultimo bellissimo romanzo che come vedete era pensato nel suo impianto.

73
Fino a Dissipatio H.G. i libri di Morselli sono quasi tutti pronti per la pubblicazione.
30 NOVEMBRE 2022 – LEZIONE 24

Lezione sul rapporto tra Giuseppe Berto e Guido Morselli


Lezione tenuta dal dott. Saverio Vita
Un punto di continuità tra tutti gli autori di questo corso è il fatto che accostati tra loro, nella loro della
diversità, essi brillano di luce nuova. È un po’ la stessa cosa che facciamo ora.

Biografia di Giuseppe Berto


Nasce nel 1914 a Mogliano Veneto, vicino a Venezia, si sentirà sempre veneziano di campagna. Nasce
quindi vicino al fronte della guerra, padre carabiniere in congedo che faceva la guardia alla casetta di
D’Annunzio, immerso nella cui retorica trascorre l’infanzia.
Studia presso il Collegio Astori, ma non era un gran studente, per cui si creano tensioni con il padre che gli
finanziava gli studi.
Berto è cresciuto con gli ideali dell’onore e della gloria, abbraccia gli ideali fascisti durante gli anni ’30,
anche se poco consapevole di cosa stesse facendo, si arruola per la guerra in Abissinia; si laurea a Padova in
lettere (perché era la laurea che costava meno) prima di ripartire un’altra volta.
Solo che era stato fatto congedare per l’ulcera duodenale, e non può ripartire: può farlo solo arruolandosi
come camicia nera nelle milizie volontarie, quindi viene mandato in Libia, dove viene però imprigionato
e portato in Texas. Curiosamente, negli stessi anni (43-47) anche Morselli è isolato in Calabria. In questa
situazione si dà alla scrittura ma poco convinto di aver esordito letterariamente, perché la letteratura del
tempo aveva dei parametri molto lontani dalla lingua normale. Lui aveva già scritto un articolo di
giornale ma non si pensava scrittore. A Hereford, quindi, inizia a scrivere con uno stile che pensa sia
adeguato ma molto diverso da quello propugnato dalla retorica fascista: in sostanza, scrive in
neorealista senza saperlo. Poi si converte completamente all’ideale democratico e capisce che il fascismo
era stato una fregatura.
Riesce a tornare in Italia, pubblica con Longanesi (che lo pubblicizza come libro sulla resistenza scritto da
un fascista) Il cielo è rosso nel 1947, che diventa un bestseller subito! Partecipa anche al Premio Strega
senza vincerlo.
Nel ’52 muore il padre, e lui non si presenta al capezzale, per il senso di colpa di aver partecipato a una
guerra dalla parte sbagliata.
Nel 1957 pubblica Il brigante con Einaudi, approvato da Natalia Ginzburg (che non aveva simpatia per i
fascisti), quindi anche se gli davano del fascista l’approvazione sua e di Calvino erano dei lasciapassare.
Guerra in camicia nera, sull’esperienza in Libia: Domenico Scarpa scopre che era stato accettato da
Einaudi, ma aveva traslocato e non aveva ricevuto la lettera; disperato si butta quindi su Garzanti.
Nel ‘59 circa viene distrutto e bloccato da una nevrosi (agorafobia, claustrofobia, attacchi di panico,
ecc.). Compra allora un piccolo pezzo di terra a Tropea, e lì rimane abbagliato dalla bellezza del posto;
inizia a costruire con le sue mani delle casette, come Morselli a Gavirate faceva lavori di muratura e
giardinaggio. Per farsi curare sceglie di affidarsi a uno psicanalista, forse incontra il migliore (Nicola
Perrotti, freudiano) in un periodo in cui non era molto di moda farsi psicanalizzare. Non ci credeva
pienamente, inizia a crederci pian piano, e forte della cura inizia a scrivere racconti Un po’ di successo.
Adesso che è guarito Perrotti gli suggerisce di non tornare sulla bozza di un romanzo che non riusciva a
finire, per cui cambia soggetto e scrive Il male oscuro (1964) che è la storia della sua nevrosi, e per
raccontarla riprende tutta la vita, secondo un flusso di pensieri che è tipico della terapia psicanalitica, scrive
senza utilizzare le virgole e liberandosi di tutte le regole della scrittura. Nonostante faccia molta fatica a
farsi pubblicare, negli anni ’60 diventa una vera e propria voce.
A scopo meramente di lucro pubblica invece .La fantarca nel 1965: è un libro distopico, scrive della
questione meridionale, ancora non risolta, e i meridionali vengono spediti a Saturno, ma poi scoprono che a
metà strada c’è stata una catastrofe nucleare e tornano sulla terra a ripopolarla.
Nel 1966 completa La cosa buffa
Nel 1972 esce un film, Anonimo Veneziano, successo di cassetta che gli permettono di mettere qualcosa da
parte
1978 La gloria è la storia della Passione di Cristo dal punto di vista di Giuda, parla da morto, da un aldilà
moderno (cosciente della bomba atomica, cosciente della psicanalisi, ecc.). Scrive da questo punto di vista
perché il senso di colpa di Berto non aveva miglior modo per esprimersi. Ma scrive perché senza il bacio
di Giuda non ci sarebbe stata redenzione, non ci sarebbe stato compimento delle Scritture. Giuda era
la vittima necessaria.

La poetica
L’esperienza di Berto è scandita da tre elementi;
- tutta la sua opera è scandita dalla sua vita, la sua vita è un sistema di riferimento
- la vergogna
- una forma di teodicea personale, una giustificazione al male. Perché il male esiste? Espone la
teoria del male universale: siamo tutti colpevoli, non possiamo dare la colpa solo a chi sgancia
la bomba; siamo tutti schiacciati da questo mondo. Ma se siamo tutti colpevoli nessuno è
colpevole. Lui cerca di giustificarsi così.
Il rapporto con Morselli
Cosa c’entra Morselli in questo? ci sono punti di contatto con Berto
Introduzione di Dissipatio H.G.
Devo dire che la mia vita psichica è povera. Anche nel senso della semplicità, della
elementarità. Si presta alla ragioneria: le frustrazioni inconsce e i pathos viscerali, i mali
oscuri che connoterebbero l'uomo moderno, io, devo confessarlo, non me li trovo. [...] Il
monologo interiore, tipo esemplare della letteratura d'oggi, nel quale si esalano i mali
inconsci e i patemi viscerali, fra ispezioni capillari dell'io e pseudoscontri col non-io,
conferma che siamo fermi allo psicologismo [...] già artificioso (e noioso) un secolo fa.
Cominciò con una malattia. Corporale, non mentale, vera, non immaginaria. [...] In
concreto, stavo guarendo. Il medico, a Crisopoli, che avrebbe dovuto curarmi, mi mandò
invece da uno specialista, e lo specialista da un radiologo, il quale chiese uno specialista
2° , e costui chiese un radiologo 2° , il quale prescrisse alcuni controlli [...] in una clinica
(oh, solo 11) [...] per un totale, in 2 anni e 8 mesi, di 12 specialisti, 12 radiologi, 33 cicli di
controlli e 27 serie di esami biologici vari. [...] ero caduto nel racket della "diagnosi
precoce".
Lettera del 22 gennaio 1942
Ho sognato stanotte che mi trovavo a villeggiare in una stazione climatica di montagna, o
dei laghi, e di avervi fatto amicizia con... Nietzsche. Mi pareva precisamente di essere
steso su uno sdraio a contemplare i ghiacciai, o la distesa delle acque, e che il filosofo
occupasse la poltrona accanto alla mia; e avendo tra le mani una delle sue opere[...], da
buon villeggiante-dilettante mi rivolsi al mio illustre compagno pregandolo di onorare di
una sua firma il frontespizio del volume. [...] E ieri sera, prima di addormentarmi, avevo
pensato a lungo, e con dolorosa intensità, a una cara figura di donna, che da qualche
giorno ha un gran posto nel mio cuore e di cui non so e non saprò forse mai altro che la
dolcezza del primo sguardo che posò su di me (o mi parve) il giorno in cui l'incontrai. In
sogno anziché apparirmi questa deliziosa creatura, come avevo sperato ieri sera, mi
compare Nietzsche... Eppoi credete alla scienza onirologica freudiana.
Lettera del 9 marzo 1969
Hegel, Freud. Da anni che li studio mi convinco sempre di più che le basi dei loro sistemi
sono, logicamente, debolissime. Non resistono a una critica anche abbastanza corsiva.
(Per es. l' Interpretazione dei sogni, l'opera freudiana su cui è costruita la psicanalisi,
muove da argomenti facilmente confutabili). Eppure, Hegel e Freud « condizionano » la
cultura moderna, e persino la realtà sociale e politica. Il fatto è che i loro dogmi hanno
soddisfatto a delle esigenze diffuse della loro epoca (e della nostra). Sono stati funzionali
quanto tempestivi. Ed è questo che conta, non la ragionevolezza o la plausibilità di ciò che
uno afferma e insegna.
Autobiografismo di Morselli: in cosa consiste?
Non v'è giornata in cui, per un'ora o per un minuto, la mia esperienza passata non riviva
in me, resa attuale, trasfusasi nel mio pensiero e nello stato del mio animo. Le ultime
parole che ebbe per me mia Madre, il mio ultimo incontro con Luisa prima che anche lei
morisse, la nostalgia cocente di quei tre anni d'esilio. [...] Tutto questo non è perduto, non
è trascorso invano, ma è ancora parte determinante del mio essere d’oggi, e non è ricordo,
semplicemente, ma « presenza », viva, attiva realtà. Come possiamo credere che il passato
sia «ciò che non è più»?
Per quanto mi riguarda è un’autobiografia intellettuale meno che fattuale, le domande dei suoi personaggi
sono le stesse dell’autore, non tanto gli episodi della vita. Le domande che Morselli si poneva (riportate nel
Diario) sono molto cervellotiche, astratte, intime. Morselli era un borghese, critico verso la sua classe ma
senza l’empatia per i proletari che troviamo in Pasolini: tutti i suoi personaggi aspirano alla condizione
borghese, o sono borghesi.
In Morselli è costante l’idea della necessità di trovare una terza via. Ma la terza via, la sintesi, si trova
sempre nella lotta, nello scontro di due estremi:
Non si rendono conto che non c’è progresso in natura senza concorrenza, dico già in senso
biologico: e non c’è concorrenza possibile senza differenza. Differenza che dev’essere
intrinseca, non puramente liturgica. Dev’essere diverso il credo, non solo il rito. Forse il
Socialismo Unico s’imporrà alla fine dei tempi. Ma la fine del mondo ancora non è venuta,
e per ora i socialismi devono essere diversi. E tutti sperimentali.
Contro-passato prossimo (Walther Rathenau)
Ed ecco che infatti in Dissipatio non c’è vita, né concorrenza, tutta la concorrenza è interna al
personaggio.
- Il comunista (marxismo e darwinismo)
- Roma senza papa (religione e psicologia)
- Contro-passato prossimo (socialismo minimalista e massimalista, pluralità e singolarità)
- Dissipatio H.G. ? à neutralità dello storico
Morselli faceva anche dei ragionamenti su come si costruiva il romanzo, sulla presenza o meno di certi
tempi verbali:
Ma quando in italiano « si fa prosa di romanzo » mettere su carta un « io vidi quell’uomo
», negli anni ’60 non è più possibile. Perché? perché verso la fine degli anni ’50 in Italia
abbiamo avuto un Prisco o un Parise o un Berto che in un libro laureato a Viareggio
hanno sentito il bisogno di raccontare una qualsiasi storia in «passato prossimo ». A modo
proprio è altrettanto gratuito - e cioè formalistico, accademico dunque - il precetto: chi
narra in terza persona non è un narratore. Si potrebbe supporre che venga dalla
preoccupazione di assicurare al raccontare una caratteristica di sincerità effusiva, come
quella di chi parla di sé nella confessione o nel diario, comunque di chi fa auto-biografia.
Ma non è così: e del resto sarebbe un attestato di superficialità il far dipendere sincerità e
effusione dal contenuto autobiografico. Ci sono pagine del Journal di Amiel che danno un
senso di freddezza e di sforzo; proprio il contrario dell’effusione e della spontaneità, che
invece si trovano genuine in romanzi che non hanno niente di autobiografico e sono scritti
in terza persona. Penso a Stendhal o a Svevo, ma gli esempi sono innumerevoli. Nessun
omaggio all'autobiografismo: è probabile, o sperabile, che oggi come oggi, e
specialmente in Italia, nessuno si auguri nuove ondate di sbocconcellatori di « madeleine
» o di rievocatori di giardini e di compagni d'infanzia o di adolescenza.
9-12 dicembre 1966
La cosa importante per Morselli è che la scrittura sia congeniale al contenuto.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.
Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di
una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale
gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro
uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale
esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà
essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla
forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie. [Italo Svevo, La
coscienza di Zeno]
Berto ha tratto ispirazione dalla Coscienza di Zeno per Il male oscuro, e anche per lui la soluzione al mondo
malato è un mondo che esplode. Anche Morselli parla di un’apocalisse nel diario del 1969:
L’umanità deve finire in una disastrosa apocalisse. Scienza e religione, e del resto anche
gli ignari dell’una e dell’altra, concordano in questa previsione catastrofica (Fanno
eccezione soltanto i filosofi; il loro professionale ottimismo non si occupa che del
progresso di questo ottimo fra i mondi possibili: non ammette di occuparsi della sua fine).
Dunque scomparsa catastrofica e più o meno rapida e improvvisa, della nostra razza,
vuoi per cause naturali, come ci si immaginava sino all’estate 1945, vuoi per cause
artificiali, ossia prodotte dalla forza distruttiva scatenata dall’uomo stesso. Per conto mio,
direi invece che l’uomo non è destinato a vedere la propria fine. Non precisamente che io
condivida la tesi degli idealisti moderni (la razza umana eterna in quanto di fatto
identificata con l’eterna Idea, con lo Spirito). Direi che la fine della nostra razza sarà
registrata, a modo loro, dai nostri successori. Ossia dalle scimmie. O dai successori di
queste, mammiferi inferiori. Perché (e è strano che nessuno ci abbia pensato, col
chiacchierare che pur si è fatto di « ritorni ») l’evoluzione non è un processo ascendente
all'infinito, non è un meccanismo che debba seguitare per sempre, a meno che non si
ammetta, appunto, che percorra una parabola, nel senso matematico del termine. E che a
un certo momento non volga «all’ingiù». Non si trasformi in involuzione. È l’ipotesi più
giudiziosa, come la più normale. Secondo questa ipotesi, niente catastrofe finale per
chiudere la carriera dell’homo sapiens, o oeconomicus (o comunque si scelga, fra i tanti
appellativi che si è inventato). La catastrofe cosmica o storica soddisfa la nostra vanità,
ma armonizza molto meno con le abitudini della Natura. Niente. Un bel giorno, senza che
nessuno se ne accorga, né abbia più voglia o attitudini per rifletterci e impressionarsene,
ci rimetteremo a camminare a quattro zampe. Potrebbe essere il ritrovamento dell’età
dell’oro. Poi scenderemo ancora, ci sorprenderemo (per modo di dire) a strisciare per
terra: rettili. Il mare primordiale ci aspetta, o piuttosto, i laghi o le paludi o le lagune, che
nel frattempo si saranno redenti dalle nostre perfide polluzioni. Da ultimo, i protozoi, e le
« macromolecole ». Qualche cosa degli antichi istinti (umani) sor-nuoterà? È probabile o
se non altro possibile, così come oggi c'è abbastanza dell’animalesco, residuo, in noi.
Saremo tutti solo lucertole, ma qualcuna di quelle lucertole, presa da ataviche nostalgie
estetiche, indugerà amorosamente al sole sui muri scrostati dove qualche milione d’anni
prima c’era la Cappella Sistina. O per ancestrali influssi automobilistici, qualcuna
s’ingegnerà di accostare a un travetto di legno quattro ciottolini tondi, nostalgica delle
antiche « quattro ruote ». Un nuovo Archaeopterix « à rebours », che abbia doni
pappagallacei, chissà che non scandisca nella selva natale due fatidiche sillabe: Hegel.
Perché no? (Mi accorgo di essere, in fondo, ottimista anch’io).
2 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 25

Lezione con Simone Giorgio


Morselli si inserisce su una sensibilità legata ai temi dell’apocalisse, ma anche dentro delle dinamiche che
possiamo avvicinare alla fortuna del weird, del fantastico e della fantascienza che iniziano a essere leggibili
negli anni 70.
Dissipatio H.G. esce nello stesso anno di altri due libri, di fortuna molto minore ma altrettanto importanti.
I minori (perché l’opera è di un solo libro, o non sono stati altrettanto letti) nondimeno possono avere dei
valori che riemergono in orizzonti culturali mutati e mutate le prospettive. Talvolta diventano anche
necessari. Simone parlerà di questa triade di scrittori.

La letteratura fantastica, Todorov


Un classico della critica e delle tendenze della critica che segna uno spartiacque nella storia degli studi è La
letteratura fantastica di Todorov, che diventerà un punto di partenza fondamentale, non perché sia il
primo, ma perché pone dei paletti, delle terminologie precise, spesso discusse, criticate, satireggiate;
eppure, con la sua terminologia così netta ha fatto la storia della critica del fantastico.
Todorov afferma che con l’Ottocento il fantastico muore, viene messo al bando dalla psicanalisi; è una
delle cose che ha fatto discutere. Secondo Todorov alla fine dell’Ottocento il fantastico ricopriva il ruolo
sociale di decifrazione e rappresentazione artistica dei tabù sociali, ruolo che dal Novecento è affidato
alla psicanalisi.
Todorov non si limita al genere fantastico, ma investe anche altri ambiti. Però è interessante notare che,
nella prima metà del Novecento, una rivista statunitense che ancora si pubblica inizia a trattare
proprio di weird, anche se è una rivista paraletteraria.

Jeff Van der Meer


Un autore weird contemporaneo è Jeff Van der Meer, si è occupato insieme a sua moglie di tentare di
catalogare le categorie di weird, finendo per pubblicare una storia del weird che attraversa tutto il
Novecento, ma che raccoglie anche autori di tutte le nazionalità europee. In questa antologia si cerca di dare
indicazioni sulla storia e sulle categorie del weird tale: le influenze del weird derivano da tradizioni
letterarie che non sono solo la narrativa fantastica e orrorifica, ma anche il simbolismo, il surrealismo,
la new wave (fantascienza americana degli anni ‘80), il gotico, ecc. Van der Meer identifica in Kafka e
Lovecraft i due numi tutelari.
Mark Fischer
Riaccende il dibattito a livello internazionale, e qualche anno dopo si aggiunge anche la voce di Mark
Fischer, critico culturale del diciannovesimo secolo (critico anche di cinema, musica, ecc.). l’ultimo libro
pubblicato dopo la sua morte è The weird and the Eerie. Non è il suo libro centrale, ma è uno di quelli che
sta riscuotendo maggior successo in ambito letterario, prendendo le mosse (anche se non lo cita) proprio da
Van der Meer. Nell’introduzione, parlando di queste due categorie in dialogo (secondo lui) dice:
Il tratto comune di weird e Eerie è un’ossessione per ciò che è strano; strano, non raccapricciante. Il
fascino che proviamo per essi non è sintetizzabile nell’idea che ricaviamo piacere da ciò che ci spaventa, è
un piacere che ha a che fare con l’attrazione per l’esterno, per ciò va oltre la percezione e la conoscenza.
Idea molto interessante. In cosa il weird differisce dal fantastico? C’è una componente psicologica più
importante: incorpora elementi nuovi.
Il weird è ciò che è fuori posto, ciò che non torna […] la sua forma artistica più adeguata è il montaggio,
l’accostamento di elementi non coerenti tra loro

L’interesse verso ciò che è nuovo, che nessuna corrente artistica aveva preso in
considerazione come elemento di valore letterario, viene ora tenuto in considerazione e
preso a metro di valutazione.

Il weird non è definibile in quanto genere letterario, è più un modo letterario, e si sviluppa verso di essi un
interesse, importato anche in Italia74, dove il dibattito sul weird si sta facendo sempre più vivace.

74
Tra i vali tentativi di formazione del canone weird vorrei mostrarvi un tentativo di Carlo Mazza Galanti, Il canone
strano pubblicato su Not.
https://not.neroeditions.com/canone-weird-italiano/
La tesi
Ho iniziato a chiedermi perché in ambito italiano il weird intensifica la sua presenza tra anni 60-70. Nel
canone di cui sopra, compaiono Dissipatio H.G. e Le venti giornate di Torino di Giorgio di Maria
(pubblicato da Il formichiere a spese dell’autore, per poi essere tradotto per caso in inglese e ha avuto più
successo in USA che in Italia), a cui aggiungo Malacqua di Nicola Pugliese (privo anch’esso di successo,
pubblicato dietro parere positivo di Calvino per Einaudi negli anni 70, ma che non ebbe comunque molto
successo).
La possibilità che questi libri esistano all’interno della cultura editoriale italiana ha due origini diverse:
1- La fortuna di un classico, Le operette morali di Leopardi, che sono una sorta di antenato di tutto
rispetto per la narrativa novecentesca
2- La pubblicazione delle Cosmicomiche e Ti con Zero di Calvino, e Storie naturali di Primo Levi,
che manifesta sicuramente il debito palese verso Leopardi, e perché per la prima volta il contenuto
si riveste di forte inquietudine data dalla rivisitazione dell’esperienza nei lager e dallo sviluppo
tecnologico, ma anche perché pubblicato sotto il falso nome di Damiano Malabaila nel tentativo di
smarcarsi dall’etichetta di scrittore dei lager, e anche perché allora il fantastico non godeva di
grande prestigio naturale.
Negli anni Sessanta non c’è un vero e proprio successo per il fantastico, eppure c’è interesse da parte di
coloro che scrivono.

Le venti giornate di Torino


Giornalista anonimo tenta di condurre un’inchiesta su misteriosi avvenimenti risalenti a dieci anni prima,
per venti giorni gli abitanti di Torino hanno sofferto di insonnia collettiva, alcuni sentendo delle voci,
altri morendo sfracellati contro muri, statue, alberi, ecc. Il giornalista ipotizza che siano collegati a
un’istituzione che è La Biblioteca, che permetteva a pagamento di leggere e scrivere scritti anonimi. Molto
presto diventa però una raccolta di scritti scabrosi, stupri, omicidi, ecc. Il giornalista cerca di indagare ma
viene ostacolato dalla setta religiosa dei Millenaristi.

Malacqua
La Malacqua sono cinque giorni di pioggia, un’alluvione di quattro giorni a Napoli osservata da un
giornalista. Questa pioggia viene infatti percepita come strana, e nei quattro giorni iniziano a verificarsi
eventi strani. Muoiono persone e si ritrova una bambola vicino ai cadaveri, e si ritrova anche nel
Maschio Angioino. La narrazione è ondivaga e irregolare, spesso e volentieri ci si sofferma sulle storie
private degli abitanti delle città di Napoli.
Il tema dell’attesa
La soprannaturalità che fa da sfondo a questi tre libri ci permette di collocarli in una specie di aria comune:
notiamo che spesso nei passaggi tra le scene ci sono giunture che richiamano all’attesa; nell’idea di tutti i
personaggi sembra che le vite dei personaggi sarebbero di lì in poi cambiate. Perché questa attesa
messianica?
Le spiegazioni sono molteplici; oggi vorrei soffermarmi su due:
1. Un’influenza che possiamo rintracciare tra anni 60 e 70 della filosofia di Walter Benjamin, è un
filosofo che a differenza di altri come Horkheimer è molto più erratico, era un’intelligenza più
cangiante e mutevole. Il razionalismo che caratterizza i filosofi marxisti viene sempre stemperato in
Benjamin da questo riferimento al messianismo. Essere ottimisti negli anni Trenta non era
immediato, ma la forza di Benjamin sta nella demistificazione del progresso: in un passo
dell’Angelus Novus Benjamin dice che la storia progredisce per disastri. Concezione messianica del
tempo gli permette di svincolarsi dal rigido razionalismo marxiano; un quadro antirazionalista che
investe l’Italia dell’epoca (Benjamin viene pubblicato in Italia negli anni 60-70).
2. L’interesse per l’apocalisse (avevano in mente l’apocalisse atomica ovviamente), ma al tempo stesso in
una società come quella, attraversata da forti scossoni politico-sociali, quella dell’apocalisse è una
tematiche che inizia ad affascinare molti.

Il senso della fine, Kermode


Ci si interroga sul senso dell’apocalisse nelle letterature di ogni tempo. L’apocalisse è una parte
dell’assurdo moderno: la componente dell’assurdità è un elemento essenziale dell’estetica weird: quindi
un’estetica che offre risposte a una situazione di crisi. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui si
afferma questa letteratura, anni 70 = momento di crisi.

Enrico Baj
Artista molto celebre e molto celebrato, Enrico Baj ha iniziato ad avvicinarsi al tema apocalittico, opere
messe in mostra e raccolte in un libro curato da Umberto Eco e da lui firmato nell’introduzione. Vengono
da lui individuate tre principali correnti:
1. Il pensiero apocalittico della disperazione, pensiero degli apocalittici reazionari, che
vagheggiano un’età dell’oro
2. Apocalittici dell’attesa messianica
3. Apocalittici del grido di allarme, perché si rifletta sulle pratiche che producono le premesse per
la distruzione umana, senza proporre però delle soluzioni, credendo solo nella sua forza di
diffusione di un pensiero
Tutte queste idee vengono espresse nei tre libri tematizzati oggi:

 Le venti giornate di Torino vista come allegoria degli anni di Piombo (Torino fu una delle città
più colpite dal terrorismo di dx e sx); forze oscure che agitano queste notti, le misteriose morte sono
conseguenze tra scontri delle forze soprannaturali che si lanciano gli abitanti di Torino. Giorgio di
Maria ha iniziato a stare male subito dopo la pubblicazione del testo, ma prima era molto attento
alle tematiche civili e cittadine, aveva anche militato tra i Cantacronanche.
 Malacqua contiene un senso di rinnovamento politico ed esistenziale della concezione della
società, si nota quello che scriveva Fischer: non c’è solo inquietudine e orrorifico, ma c’è anche del
comico (Pugliesi adotta diversi registri)

Le voci senza corpo


Un elemento tipicamente perturbante sono le voci senza corpo, noi le diamo per scontate, perché siamo
abituati, come siamo abituati a pensare alla terra vista dall’esterno, nessuno l’ha vista con i suoi occhi ma
tutti sappiamo com’è. Lo stesso shock di Yuri Gagarin nel vedere la terra lo ebbero in molti ascoltando
le voci prodotte dalle prime radio e telefoni, cfr. Proust nella telefonata con la nonna, Joyce nell’esperienza
del grammofono che riproduce la voce di un cantante ormai morto: a cavallo tra Ottocento e Novecento
notiamo questo passaggio perturbante, di sensazione di parlare con una voce dall’oltretomba, Beckett
lavora proprio su questa operazione di separazione tra corpo e parola.

 In Malacqua, la conseguenza di questa esperienza di spaesamento dall’esterno all’interno della


coscienza è che uno di loro è stato mandato a capire da dove vengono le voci nel Maschio Angioino, ed
è il primo a non crederci. Non c’è mai nel weird ottenebramento dei sensi che giustifica l’aver
assistito a un evento soprannaturale come a una allucinazione, ma come diceva Orlando la cosa weird
esiste, sei tu che non sei in grado di spiegartela.75
 Questa questione delle voci è anche in Dissipatio; verso la fine l’attesa messianica del protagonista si
incanala tutta in un personaggio, colui che dovrebbe tornare a prendere il protagonista, il dottor
Karpiskji, e che in altri momenti ci viene invece descritto come colui che deve giustificare la
sparizione di tutti. La questione dell’ingresso dell’esterno nell’interno si verifica in modo strano, tutto
il mondo è investito della propria coscienza nel tentativo di capire ciò che è avvenuto; mentre
l’allucinazione del dottor Karpiskji è di nuovo il movimento dell’esterno verso l’interno.

75
Il soprannaturale letterario
Elsa Morante
Non è centenaria ma centodecana, nasce nel 1912 ma per varie ragioni figura importante e adeguata al
corso, che lo chiudesse riaprendo diverse finestre. Tanto di quello che si è detto precipita nell’opera di
Morante.
Romana, figlia di una signora di origine ebraiche, riconosciuta dal marito ma non sua figlia, figlia di un
uomo che era padre anche dei fratelli. Stranezza familiare che non la lasciò indifferente, così come la
discendenza per parte di madre da una famiglia ebraica, in un contesto governato secolarmente dal nemico
degli ebrei, cioè il papato.
La sua è una produzione abbastanza circoscritta

 Quattro grandi opere, pubblicate molto lontane tra loro76:


1. Menzogna e sortilegio, Einaudi, 1948
2. L'isola di Arturo, Einaudi, 1957: primo romanzo vincitore del premio Strega vinto da una
donna. La Morante all’altezza del secondo romanzo riesce a raggiungere il più alto obiettivo
letterario del tempo. Aveva vinto anche il premio Viareggio, ed era stato riconosciuto da
Lukacs come un vero e proprio capolavoro.
3. La Storia, Einaudi, 1974: Quando viene pubblicato ottiene un vastissimo successo di pubblico,
con pochi precedenti (il Gattopardo): uno dei libri italiani più venduti e tradotti anche all’estero.
Una scrittrice che quando si muove fa rumore, e anche se divide i critici, il suo successo non
è un successo vuoto, è sicuramente un successo reale (Il nome della rosa ha venduto un numero
enorme di copie ma in molti non l’hanno letto).
4. Aracoeli, Einaudi, 1982
 Una raccolta di racconti pubblicata con Garzanti, nella prima edizione Il gioco segreto, 1941 (Lo
scialle andaluso nel 1962)
 Raccolta di fiabe degli anni 40 con disegni dell’autrice
 Opera estremamente ibrida, Il mondo salvato dai ragazzini, composto da forme testuali diversi
(prose, sceneggiature, poemetto, poesie, saggi…)
 Alcuni scritti saggistici
 Prose varie
 Pro o contro la bomba atomica, uno dei testi preparatori de La storia, nel senso che sono utili
all’avvicinamento all’idea del romanzo che la Morante compone in tre anni di lavoro.
 Un altro testo importante è il Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito), era un testo
pensato e iniziato prima ancora che le Brigate Rosse nascessero in senso ufficiale.

76
panorama molto diverso da quello attuale; un autore può scrivere solo quattro opere di ampio respiro e avere
successo in ambito editoriale.
13 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 28

Sul romanzo (1959)


Il saggio sul romanzo è un saggio un po’ a modo suo, anche perché è una inchiesta, sono ampie risposte ad
una serie di domande. Non ha un piglio accademico e saggistico ma è composto da una serie di
considerazioni. Si possono estrarre alcune considerazioni che nella loro lapidarietà che fanno capire a che
punto fosse la Morante durante la scrittura de La Storia. Lei ha chiari due motivi polemici:
1. quello che lei definisce il realismo socialista
2. quello che definisce neorealismo.
In questo scritto del ‘59 la Morante non sembra allineata con una o l’altra tendenza del dibattito. Si pone
non in modo anacronistico, non ha paura di essere nemmeno etichettata come ingenua e astratta. La
Morante ha a che fare con un altro tipo di scandalo: Pasolini provocava i costumi morali, la Morante
sembra condannare la storia, ma anche un altro scandalo, che è quello già del ‘59: la volontà di assumere
questa postura di scrittrice che non si riconosce nelle questione politiche.

Pro o contro la bomba atomica (1965)


Il saggio risale a una dibattuta conferenza che Elsa Morante tenne a Torino e a Roma nel 1965 e che uscì
poi postumo con altri scritti in un volume omonimo curato da Cesare Garboli nel 1987.
Esso mette a tema la capacità della scrittura romanzesca di “interrogare sinceramente la vita reale”,
forma che pare conoscere nella Morante un rallentamento a vantaggio di altre forme di composizione
quali il saggio, i racconti e la poesia. Un decennio, quello degli anni ‘60, di intensa riflessione, che però non
trova come canale di espressione privilegiato il romanzo. All’interno della produzione morantiana, la
saggistica occupa quindi uno spazio a sé, che non riesce a convivere con la composizione romanzesca.
L’incompatibilità tra riflessione di natura saggistica e produzione letteraria nella forma romanzo si
misura anche nella distanza tra le rispettive cifre stilistiche:
- La saggistica esprime una “tensione potenzialmente dannosa”, una fatica che Garboli menziona anche
nell’introduzione al volume da lui curato, quando riporta uno scambio avuto con Morante in cui lei
lamentava come suo “vero difetto […] proprio quello a cui nessuno pensa. Ma io so benissimo qual
è… È la pesanteur” (Garboli 1987, p. XI).
- Tale nozione si oppone a quella di grâce, che indica “ciò che è immemore e non ha peso, ciò che vive
in eterno e non dura che un attimo, come il sorriso di un amante o un giorno di felicità” (ibidem).
Garboli fa risalire questa dichiarazione di colpa ai primi anni settanta, che corrispondono al periodo in cui
Morante scrive la Storia.

Questo è il testo (con poche varianti) della conferenza nel mese di febbraio 1965:
[…] in poche, e ormai, del resto, abusate parole: si direbbe che l'umanità contemporanea provi la occulta
tentazione di disintegrarsi […]. Si potrebbe in teoria, cioè senza arbitrio logico, leggere le Sacre Scritture
di tutte le religioni nell'interpretazione presunta che tutte, e non solo quella indiana, insegnino
l'annientamento finale come l'unico punto di beatitudine possibile. E difatti alcuni psicologi parlano di
un istinto del Nirvana nell'uomo. Però, mentre il Nirvana promesso dalle religioni si guadagna per la via
della contemplazione, della rinuncia a se stessi […] al suo maligno surrogato piccolo-borghese […] si
arriva appunto attraverso la disintegrazione della coscienza […]: esse, il nostro tesoro atomico mondiale,
non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma la manifestazione necessaria di questo disastro,
già attivo nella coscienza. […] Eccola: l'arte è il contrario della disintegrazione. E perché? Ma
semplicemente […] il solo suo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la sua funzione, è
appunto questa: di impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, […]. Ma
allora, bisognerà porsi una domanda: poiché l'arte non ha ragione se non per l'integrità, quale ufficio
potrebbe assumersi dentro il sistema della disintegrazione? Nessuno. […] Forse lo scrittore si ritroverà
ancora una qualche fiducia nella liberazione comune, insieme con la certezza di essere lui stesso, ancora,
salvo dal disastro, e capace di resistergli. E in questo caso, non c'è più dubbio, la sua funzione di scrittore
[…] può rappresentare quasi la sola speranza del mondo. In una folla soggetta a un imbroglio, la presenza
anche di uno solo, che non si lascia imbrogliare, può fornire già un primo punto di vantaggio. […] Adesso
non mi si fraintenda, per carità (anche questa, potrebbe capitare!) arguendo, (o pretendendo di arguire)
dalle mie parole, che lo specchio dell'arte abbia da essere uno specchio ottimistico. Anzi, la grande arte,
nella sua profondità, è sempre pessimista, per la ragione che la sostanza reale della vita è tragica. […] La
purezza dell'arte non consiste nello scansare quei moti della natura che la legge sociale, per il suo
torbido processo, censura come perversi o immondi; ma nel riaccoglierli spontaneamente alla
dimensione reale, dove si riconoscono naturali, e quindi innocenti. La qualità dell'arte è liberatoria, e
quindi, nei suoi effetti, sempre rivoluzionaria. Qualsiasi momento dell'esperienza transitoria, diventa,
nell'attenzione poetica, un momento religioso. E in questo senso si può parlare di ottimismo. […]
Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come dicono i giornali, la
sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, “resta da fare la poesia onesta”. Però,
basterebbe dire la poesia; perché, se è poesia, non può essere che onesta. […] Già, a proposito, e che sorta
di linguaggio dovrà adoperare? Dialetto, industria, quale koinè? […] Ma lasciatelo scrivere come gli
pare, che tanto il primo inventore dei linguaggi è stato sempre lui! […] Contro la bomba atomica non c'è
che la realtà. E la realtà non ha bisogno di prefabbricarsi un linguaggio: parla da sola. Perfino Cristo ha
detto: non preoccupatevi di quel che direte, o di come lo direte. E' la realtà che dà vita alle parole, e non il
contrario. […] E che è la realtà? Non ci mancava altro! Se uno mi fa questa domanda, è chiaro che non è
mio lettore […].
Piccolo manifesto dei comunisti (senza classe né partito) e Lettera alle brigate
rosse del 20 marzo 1978
Sono stati recuperati da Goffredo Fofi in un librettino; è un testo interessante perché mostra come
l’approccio alle questioni (politiche o teoriche) di Morante sia sempre un approccio quasi opposto a
quello di Morselli:

 Morselli è o tenta di essere uno strenuo razionalista tanto più ha a che fare con l’irrazionale e
l’inspiegabile,
 Morante opta anche nelle sue scritture saggistiche per un atteggiamento che è consapevolmente e
polemicamente antirazionale; rifiuta la razionalità in senso stretto, fa del ragionevole qualcosa
che porta con sé il valore giustificativo.
Il contenuto di questo documento è complicato, provo a stringerlo: molti dei critici della modernità
(Horkheimer, Adorno, Bauman77) hanno osservato che dall’Illuminismo in avanti (modernità) esiste una
sorta di pericolosa bomba a orologeria, cioè la possibilità di identificare la razionalità con un criterio
positivo.
Ad esempio, Bauman osserva che l’olocausto stesso è frutto di un tentativo di
razionalizzazione: la soluzione è eliminare il problema, non solo nella forma dello
sterminio (tipicamente nazista), ma anche il problema dei migranti viene risolto con altre
strategie di emarginazione.
Bauman sviluppa in modo molto attento questo discorso della razionalizzazione, specialmente in rapporto
alla Germania, una Germania senza casa, senza soldi, senza possibilità: si arriva allora alla soluzione di
eliminare la risorsa improduttiva, è un ragionamento razionale, ma disumano.
In anni postbellici, il rifiuto di una certa razionalità (intesa come astratta e legata al dominio, troppo
patriarcale) è una delle chiavi che servono per capire l’opera di Morante: anche quando scrive saggi,
movimenta consapevolmente dei processi di pensiero non sempre riconducibili a ragioni condivise: ad
esempio nella lettera alle BR si lavora sul piano sentimentale-emotivo, cosa strana, le BR si consideravano
in guerra con lo stato, il dibattito con loro si impostava di solito su basi ideologico-politiche. Al limite sul
piano di militanza attiva. Solo a un soggetto viene in mente di muovere gli affetti: il Papa durante il
rapimento di Moro, che prende posizione.
La Morante non è il Papa, ma scrive come intellettuale di un certo peso, abbozzando una lettera con cui si
cerca di appellarsi all’emotività: la risorsa di questa scrittrice, turbata da questa situazione, come
personaggio pubblico e come essere umano, la spinge a prendere in mano la penna e usare il proprio
talento scrittorio e comunicare con soggetti che non considera alieni ma anche se abbozzato questo
tentativo di comunicare con le BR ci illumina su una serie di strategie che rappresentano la sua opera.
So che la presente mia lettera, a ogni giudizio obiettivo e attuale non può apparire se non un vaniloquio
ridicolo, idiota e scandaloso; (oltre che agli effetti pratici, un campione senza valore). E tale, anzitutto,
apparirà ai miei presunti destinatari. Ma in certe ore estreme, quando l'intelligenza non serve più, non
resta che seguire i movimenti della propria coscienza disperata, anche se non vengono esclusivamente
dalla ragione e se, purtroppo, si è consapevoli della loro inutilità.
Rivolgendomi a voi brigatisti (rimosso l'orrore che per mia natura di fronte a ogni violenza mi farebbe
ammutolire) io mi sforzo di non dubitare, almeno, che voi crediate in piena fede ai motivi da voi dichiarati

77
Modernità e olocausto
per le vostre azioni; ossia che voi siate davvero, ai vostri propri occhi, dei rivoluzionari. Confesso che dato
l'uso che ne è stato fatto nella storia fino a tutt'oggi, mi ripugna ormai di ripetere la parola rivoluzione (e
fin di pronunciarla). Però questa parola, per quanto stuprata e tradita, in se stessa mantiene il suo
significato primo e autentico: di grande azione popolare al fine di instaurare una società più degna. Ora,
su questa chiara definizione, sono state sventolate troppe bandiere equivoche. E il primo equivoco è stato
scrivere, su queste bandiere, il motto nazionale: Il fine giustifica i mezzi. Questo principio (non per niente
sventolato da Benito Mussolini e dai suoi simili per le loro «rivoluzioni») è sicura insegna di falsità. Anzi
la verità sta nel suo rovescio: I mezzi denunciano il fine. Ora, i mezzi di cui voi vi servite attualmente
corrispondono a un modello riconoscibile e preciso: quello stesso che distrusse le più oscure «rivoluzioni»
del nostro secolo, e che si fonda su un carattere basilare: il totale disprezzo per la persona umana. Chi
disprezza la persona umana, e non se ne vergogna, disprezza, per primo, la propria persona. E come può
presumere di instaurare una società più degna chi non si rende prima degno, nel suo interno, del rispetto
di se stesso? È facile assalire o giustiziare gli indifesi, e poi scappare, sapendosi impuniti, o al peggio
garantiti da leggi che si rinnegano, ma che sono pur sempre migliori di quelle che si promettono in
cambio. Le società instaurate sotto il disprezzo della persona umana, qualsiasi nome prendono, non
possono essere che fasciste: ossia società dove vige la sopraffazione dell'uomo sull'uomo, e la
repressione più atroce, e le torture. Voi, col vostro esempio, non proponete altro.
E da simili società nascono necessariamente delle generazioni di castrati e di servi. Chi non si vergogna di
una simile oscenità non può rendersi credibile, e, qualsiasi nome voglia darsi, non può promettere, in
realtà e sostanza, altro che una società reazionaria. […] Non crediate dunque di rendervi credibili
auspicando il peggio, in nome di chissà quali catarsi successive. Voi per la vostra giovane età, non avete
sperimentato sulla vostra carne la storia di questo secolo. Forse non l'avete abbastanza studiata
(nemmeno quella più recente) e contate sull'ignoranza e l'inesperienza di altri giovani per farne i vostri
seguaci.
Voglio credere che non vi rendiate conto della corruzione che potreste esercitare così, sulle loro
coscienze, né delle conseguenze innominabili che ne ricadrebbero su di loro. A chi per caso avesse letto i
miei ultimi libri, sarebbe nota quale stima io faccia delle società istituite. Ma per quanto inette e corrotte
possano venir giudicate certe società presenti, io mi auguro di non vivere abbastanza per assistere a
nuovi totalitarismi.

La Storia
È un volume che è una fotografia di un anno cruciale della storia politica e culturale dell’Italia e
permette di mettere a fuoco un po’ meglio i termini della questione, del problema. La storia è un libro che
prevalentemente si concentra sulla Seconda guerra mondiale e che si sofferma su figure come bambini,
animali, persone anziane e malate. Un romanzo sulle violenze che la storia perpetra sui più deboli. Da
un atto di violenza prende le mosse il romanzo. Il sottotitolo romanzo crea un ossimoro, uno scandalo che
dura da diecimila anni.

1. La voce narrante
Qui si affaccia l’altra questione. Se questi personaggi sono chiamati per nome diminutivo, chi è che li
chiama per nome? C’è una presenza di scambi dialogici tra la voce del narratore e i personaggi,
evidenziata in un passo, per esempio, il Buonanotte biondino. C’è una voce che tratta i suoi personaggi
come creature minori. La domanda è: chi è che li chiama per nome?
In una lettera che Calvino scrive alla Morante dice che non capisce come funziona la voce narrante. In
questo libro abbiamo un uso bizzarro, originale e imprevisto della posizione del narratore che ondeggia
tra diversi status che teoricamente sono inconciliabili. La voce narrante, che parla di sé al femminile,
ondeggia tra il più perfetto status di onniscienza (in barba ad ogni principio di realismo) al completo
disinteressamento dello statuto di onniscienza e ricorre allo status della testimonianza (quando lo ho
conosciuto etc.) e anche qui oscilla tra cose che ha visto e cose che ha ricostruito o sentite dire, e a volte
dice di non poter sapere (in contrapposizione coi casi in cui è onnisciente). Barenghi dice che una questione
posta nel romanzo è legata alla maternità in più modi:

 rapporto stretto tra una madre e il figlio


 uno stupratore di una sconosciuta per bisogno di ricongiungersi con la sua di madre
 madri animali
 una sorta di realtà fattrice
Il porsi della Morante come narratore onnisciente e un po’ non è una strategia per avvicinare il lettore
alla materia narrata, si può essere d’accordo o meno, così come è una strategia un certo uso linguistico.
Il cinema e la tradizione italiana parlato romanesco almeno fino agli anni 70-80 appositamente per
marcarsi popolare, riconosciuto tale anche da chi non è romanesca! Se avessero dovuto parlare in teatro
ovviamente si sarebbero ripuliti, ma la radio, la tv, mantenevano patina dialettale appositamente per far
percepire vicinanza allo spettatore. La stessa cosa fa la Morante ma non sempre è stata capita: una
scelta assolutamente consapevole di scrivere un libro capace di arrivare a tutti e di saltare l’ostacolo tra chi
non legge affatto e chi legge. La lingua di questo libro non è sciatta o banale, ma è semplice.
Aggettivazione molto intensa, a volte ridondante, con una funzione coloristica-olfattiva-tattile.

2. Gli antagonisti e il loro volto


L’osservazione che non esistano i malvagi potrebbe sembrare infondata, in realtà no: le violenze che
vengono esercitate in questo lungo spaccato di storia sembrano senza un volto.
Quando invece il volto c’è, è un volto legato ad una condizione analoga a quella di chi subisce la violenza.

 Il soldato tedesco che violenta Ida è in una situazione di completo spaesamento, vagando in una
città che gli sembra ostile, e non ci viene presentato come un soggetto ostile ma quasi come una
vittima. Che poi muoia fa di lui una pedina sulla quale il testo si sofferma con una sorta di
comprensiva tenerezza: è l’autore di uno stupro, fa del male, ma il testo non lo identifica come un
soggetto detestabile, lo parifica alla vittima.
 Questo succede in molti altri casi, quando ci sono scontri tra tedeschi e partigiani. I tedeschi messi
in scena sono diversi da tutti quelli messi nella narrativa neorealista, è come se i detentori del
potere, esecrati e detestati da Morante sempre, fossero come dei fenomeni naturali, come il
bombardamento di san Lorenzo: non si sentono nemmeno gli aerei arrivare. Le cose avvengono
sempre su una scala incomparabile a quella del singolo.
 Ida e Morante appartengono alla stirpe ebraica, che è come un segreto inconfessabile, anche prima
che le leggi razziali entrino in vigore, e Ida è un personaggio con perenne ansietà e fragilità, che
si manifesta anche nella sua epilessia. Barenghi osserva che noi abbiamo a che fare con dei
personaggi segnati da una costitutiva, congenita, biologica difettosità. È un romanzo pieno di
vittime ma non abbiamo gli oppressori. Un romanzo che dichiara che la storia sia uno scandalo,
mette in scena una sorta di incapacità a vivere degli esseri umani.

Il dramma psicologico che vediamo in scena è quello di chi è confinato da sempre in


una condizione di inferiorità, non lo è perché qualcuno ce lo ha messo.
È un romanzo che si vuole deideologizzare, che riafferma come valore unitario e
fondante la verità dell’essere vivente, la sua fragilità, la sua dimensione vittimaria
provando a sublimarla senza però redimerla, non può abbracciare gli oppressi
rendendoli meno oppressi, percorrendo una strada di fratellanza universale che va
anche al di là dell’umano.

3. L’onomastica
Barenghi78 dice che nel romanzo ci sono tantissimi personaggi, moltissimi hanno lo stesso nome, altri
nomi simili, ma una delle caratteristiche fondamentali di questi nomi è che sono diminutivi, storpiati,
deformati. Sono nomi che fanno in modo che il nome stesso diminuisca i personaggi, tutti i personaggi
inchiodati ad una condizione minoritaria attraverso i loro nomi e l’uso dei loro nomi.

4. La prospettiva evangelica
Mi è stato chiesto se alcune figure o se tutto l’impianto del romanzo possa essere letto in chiave cattolica; io
credo piuttosto evangelica, perché cattolico ha a che fare con un certo assetto di dogmi, di gerarchie
ecclesiastiche, di istituzioni, mentre evangelico ha a che fare con il messaggio del libro sacro del Vangelo.
Lo abbiamo solo alluso ma va detto: l’inclinazione e la posizione naturale intellettuale della Morante è
anarchica, di rifiuto dei poteri istituzionali, di adesione all’individuo, alla singolarità, alla vittima.
Identificarsi in un’Italia cattolica era difficile per un’Elsa Morante; cattolicesimo quello italiano che aveva
manifestato non le sue componenti ecumeniche ma le sue connotazioni di rigore e di chiusura verso la
modernizzazione. L’aspetto evangelico è sicuramente presente, l’aspetto cattolico molto meno. Il
cattolicesimo non è una religione dialogante, ha iniziato a tentare di farlo o a fingere di farlo solo quando si
è ritrovata costretta a farlo79 . La ricerca della Morante non trova appagamento nel cristianesimo, mentre fa i
conti con sollecitazioni delle filosofie orientali, e recupera allo stesso tempo aspetti interessanti del
cristianesimo nella sua componente più archetipica (che è un po’ la stessa cosa che faceva Pasolini,
interesse costante per San Paolo). La Morante tenta una sorta di religiosità home made che però tenga
insieme varie istanze.
Il pensiero di alcuni personaggi non allineati con le tendenze ufficiali tende a essere sincretico, apertura
verso altre religioni.

78
Mario Barenghi: Tutti i nomi di Useppe, saggio sui personaggi della storia di Elsa Morante. Alcuni elementi di
forza di quest’ultimo saggio. L’importanza dei nomi per Barenghi la si vede da un altro saggio, sui Promessi Sposi,
Cognome nome Tramaglino Renzo. Dove potrebbe portarci questo titolo? Che contesto vi fa immaginare? Un verbale
di polizia, perché c’è questa inversione cognome nome che è propria di particolari ambiti, come quello militare o
giuridico. Nel suo studio sui Promessi sposi Barenghi osserva che i personaggi, quando è in causa il loro cognome,
sono quasi sempre nei guai. Possedere un nome e un cognome ti rende perseguibile perché identificabile. Nel
mondo aristocratico quello che conta è il nome della casata, nel mondo piccolo popolare quello del soprannome, il
nesso nome cognome è un nesso che nello specifico seicentesco manzoniano si prende interesse nei confronti del
singolo.
L’onomastica letteraria è una tendenza della ricerca critica che non gode di particolare fortuna, perché quelli che si
interessano di onomastica sembrano un po’ degli appassionati da cruciverba, ma non è solo questo il modo in cui si
può usare. Questo saggio (quello sulla Morante) fa delle osservazioni sul ricorrere e dell’affollarsi dei nomi. Il
saggio però non si limita a fare osservazioni sui nomi, ma attraverso queste ci offre una interpretazione interessante
della Storia nel suo complesso.
79
Fate la tara all’effetto Wojtila, che ha trasformato completamente l’immagine della Chiesa, che in termini mediatici
ha funzionato tanto, è difficile da sovrapporre all’immagine della Chiesa negli anni ’60.
14 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 29

Le critiche a La Storia
Nel giugno 1974 arriva nelle librerie italiane il nuovo romanzo di Elsa Morante: La Storia. Romanzo. In
copertina una foto di Robert Capa dalla guerra civile spagnola: un corpo riverso su un mucchio di rovine
virato in rosso. Sono 661 pagine, prezzo 2.000 lire. Pubblicato direttamente in economica per volontà della
autrice, è tirato in centomila copie. In breve, diventa il libro dell’anno salutato da una serie incredibile di
recensioni e polemiche: 354, esclusi i saggi veri e propri. Dopo sei mesi, le copie vendute della Morante
sono 600.000; un anno dopo l’uscita, un milione. Nel 2018 La storia della Morante vende 7/8000 copie
l’anno; per un libro vecchio 50 anni è un caso. Vediamo un picco di interessi senza precedenti per un
testo letterario, e vedere le sedi su cui questi contributi sono usciti, come i quotidiani, riviste di
intrattenimento, riviste che di letterario non hanno niente etc.
Come si chiese in un articolo su «Epoca» Cesare Garboli il 12 ottobre 1974, il quarto pezzo che scrisse,
ciò cui si era assistito su giornali e riviste somigliava «all’esplosione di un caso letterario o all’eruzione di
un formicaio impazzito?». Un po’ entrambe le cose: scesero in campo marxisti, cattolici, anarchici,
repubblicani, socialisti e fascisti, e in pochissimi casi il romanzo della Morante superò l’esame. Fu in gran
parte attaccato, criticato e preso a schiaffi da un establishment che si sentiva per la prima volta superato a
destra e a sinistra sull’autostrada delle Belle Lettere dal pubblico dei lettori: comunisti, extraparlamentari,
socialisti, cattolici, come testimoniano le lettere ai giornali, avevano comprato, letto e pianto sul destino
di Iduzza Ramundo, dei suoi figli Useppe e Nino e degli altri personaggi di questa storia ambientata nella
Seconda guerra mondiale. Ad attaccare in modo frontale la scrittrice al suo terzo romanzo è soprattutto la
sinistra intellettuale.
Dopo un esordio favorevole di Geno Pampaloni, e una dichiarazione commossa di Natalia Ginzburg,
scoppia la bagarre. Non c’è critico dell’epoca che non sia intervenuto, più contro che a favore. I
giornali sono lesti nel definire gli schieramenti: contro la neoavanguardia, la sinistra extraparlamentare,
capitanata da Asor Rosa, Romano Luperini (ne critica l’impianto ideologico piccolo borghese) e Franco
Fortini, che latita e si nasconde (la storia della sua mancata recensione è un saggio nel saggio). Persino
Pier Paolo Pasolini, il più legato di tutti a Elsa Morante, in un lungo pezzo su «Tempo» evidenzia il
fallimento del romanzo, che è «tre libri insieme».
Angela Borghesi mette in luce l’incomprensione che in un paese, dominato culturalmente da marxisti e
cattolici, mostrò la critica davanti a un’opera che spiazzava le ideologie dell’epoca con una visione del
mondo che Garboli giustamente definisce «poetica», al di là delle convinzioni politiche e sociali. Perché
questa reazione?
Ci sono almeno tre aspetti che Borghesi riassume:
1. Il primo lo spiega Garboli, il solo che si schiera con decisione e motivazioni a favore della Morante:
invidia. Gran parte degli articoli con un linguaggio politico-militare stigmatizzano l’aspetto
commerciale80, il best seller che diventa. Aveva successo, quindi non poteva essere un buon libro.
Borghesi ha strada facile nel segnalare come in gran parte delle critiche manchi l’analisi critica,
l’approfondimento, e dire che narratologia e critica stilistica erano ben sviluppate all’epoca.
2. La seconda ragione, scrive l’autrice, è «il pregiudizio di genere», un tema oggi attuale, forse non così
profondamente marcato all’epoca; di certo, in quanto romanziere donna, Morante ha sempre suscitato
molte diffidenze.
3. La terza ragione è probabilmente la più profonda, e anche letterariamente più importante: il rifiuto del
patetico. Italo Calvino, che pure stimava Elsa, e a cui il romanzo non piace fino in fondo, lo dice con
molta evidenza: un narratore contemporaneo può far ridere o far paura al suo lettore, ma «farlo
piangere no». Quello che la critica marxista in particolare rifiuta è proprio il pathos narrativo de La
Storia. Non si concede alla scrittrice di far piangere i suoi lettori, o che usi quella che Calvino
chiama la «tecnica letteraria della commozione». All’uterina scrittrice romana non è concesso
utilizzare impunemente il registro patetico sentimentale. Il punto probabilmente è qui: il patetico.

Marino Sinibaldi
Quello che non colsero i critici, come scrisse ex post Marino Sinibaldi81, è che una concezione tragica
della storia e dei limiti della modificabilità del mondo, come quella del romanzo di Morante, era «utile alla
definizione dei confini, dei limiti della politica». Poi venne il riflusso e la caduta delle ideologie. Il
problema, Morante sì, Morante no, è ancora qui, davanti a noi.

Giorgio Manganelli
Un altro elemento importante, lasciato indietro ma importante: Manganelli ha scritto a proposito del
successo di un libro o meno in Però, come è dolce l’insuccesso (L’Espresso)
Fa piacere […] sentirsi ricordare quanto sia importante l’insuccesso, come sia sottile e
arduo da gestire, anche se non difficile da conseguire; giacchè l’insuccesso è ambiguo, e
non sappiamo mai immediatamente cosa significhi. […] Il successo talora nasconde dentro
di sé le privilegiate larve dell’insuccesso. Sappiamo che I promessi sposi ebbero un
successo clamoroso; non fu un successo senza conseguenze, giacchè pochi libri, […]
venne letto così a sproposito fino a farne quella ripugnante, edificante epopea degli umili
e della Provvidenza che lo ha reso illeggibile a generazioni di ex liceali. Diciamo che il
successo si paga con una lettura sbagliata.

80
che tra l’altro viene smontata da Saggio di Manganelli tra insuccesso e successo.
81
Marino Sinibaldi era un militante di Lotta continua, e identifica due pregiudizi che hanno orientato le critiche
negative alla Morante:
•ll pessimismo, spesso considerato negativo perché considerato negazione della lotta o rassegnazione a posteriori
del fallimento, che motiva in Elsa Morante l’affermazione “uno scandalo che dura da diecimila anni”, viene
interpretato come negazione della lotta. Non è un accidente che scriva uno di Lotta continua che ha vissuto la
forse più accesa fase di lotte politiche degli anni Settanta e terminata in una sconfitta quasi epocale di ogni
movimento, volontà di rinnovamento, ecc.
• Il pregiudizio legato all’ideologia, che sia un testo lacunoso sul piano ideologico: quasi sempre si dice “il libro è
bellissimo, sul piano delle idee è rimasta ferma ai 13 anni”. Sul piano ideologico il libro è banale, infantile,
adolescenziale. È interessante che questo genere di critica molto spesso si salda alla critica di genere: sente
fortemente (è una donna!), ma non maneggia concetti.
Questo genere di osservazioni taglia fuori ogni tentativo di esame critico, leggere il prodotto del lavoro come difettoso
del piano concettuale rimanda spesso a questa macrodistinzione sessuale, anche in modo inconsapevole.
E qui i concetti legati al successo valgono anche per la facilità di lettura.
Senza dubbio, La storia è il libro più facile da leggere ma allo stesso tempo uno dei più facili da
fraintendere, malgrado mole e drammaticità non è difficile, non richiede la decifrazione che Manganelli e
Ceresa richiedono; ma è altrettanto facile fraintenderlo, o comunque limitarsi a una percezione
superficiale (di vario tipo: adesione alla commozione, al patetico; un rifiuto, una insofferenza, un fastidio,
ecc.).

1. Pier Paolo Pasolini


Un’altra voce che si fa forte è quella di Pasolini, che critica duramente l’uso del dialetto e della lingua, e
non stupisce, considerando i Romanzi romani e l’approccio filologico ad essi. Anche qui però il punto
critico è l’aderenza al reale!
Nel momento in cui Morante mette insieme istanze diverse si mette contro uni e altri:
- sia gli amanti delle sue scritture fantastiche e oniriche, che non la ritrovano pienamente in
questo romanzo
- sia chi richiede un approccio rigorosamente neorealista e la ritiene incapace di realismo
storico, non capace di orecchio linguistico credibile, ecc. (che sono però convenzioni e che
evidentemente alla morante non interessano!)
2. Franco Fortini
Franco Fortini, uno degli intellettuali di maggior spicco degli anni Settanta, è un saggista estremamente
originale e molto prolifico; la sua assenza in un momento in cui tutti partecipano al dibattito su La Storia
non è legata a un disinteresse né da accidenti particolari, ma da ragioni di dibattito interno. Non scrive un
intervento su La Storia, tutto o molto del rapporto di Fortini resta inedito. D’accordo con l’operazione di
Angela Borghesi vorrei ricostruire il dibattito interno di Fortini, perché dentro l’intelligenza critica di
costui vediamo messi a fuoco tutta una serie di elementi utili a decifrare il caso La storia.
3. La sospensione di un giudizio
Fortini non si accontentava né delle parole d’ordine delle ideologie dominanti né da altri aspetti, è sempre
stato un pensatore dinamico, ma davanti a questo libro ha una reazione ambivalente: prevale il sì, ma ci
sono anche forti ragioni del no.
È un tema che ritorna, tipo nella lettera a Luperini il 16 ottobre 1974 in relazione al romanzo della
Morante:
Una sola rapida lettura non mi basta a un giudizio; d’istinto rifiuto il ricatto
strappalacrime e l’esplicito ideologismo di terz’ordine. Ma partecipo a certe parti
splendide, e al violento irrealismo82 di certe pagine, soprattutto della seconda parte.
Sospendo per ora qualsiasi giudizio critico a favore di costatazioni sociologiche: ho
l’impressione che la contesa ideologica sia, come si è svolta, una testimonianza di
arretratezza, e per questo mi sono astenuto. Così a occhio sarei duro con il libro, e più
duro, assai più duro con tutta una specie di lettori che disprezzano il libro.

 Il tentativo abortito di lavoro sulla Storia


Quando il libro esce, tiene un seminario (cosa strana per l’epoca, l’università tendeva a lavorare su valori
assodati), parla in classe del libro all’Università di Siena e scrive quasi subito una lettera di
ringraziamento alla Morante e abbastanza presto alle orecchie di Einaudi giunge notizia che sta lavorando
sulla Morante, e anzi chiede proprio a Einaudi il materiale: l’intenzione è quella di smontare il romanzo
in forma quasi laboratoriale in classe e sondare le possibilità di risposta alla domanda Perché questo
libro sta vivendo così tanto? Einaudi vuole fare un libro con i risultati dell’esperimento, questa cosa ha
anche un suo sviluppo, poi Fortini lascia perdere.
Per capire qualcosa rispetto a La Storia, questo tentativo abortito di lavorare sul romanzo, leggiamo un
brano di un articolo di Fortini sul Dottor Zivago, Rileggendo Pasternak83:

82
Fortini percepisce che il non assecondare alcune tendenze neorealistiche, non solo ignorate dall’autrice, ma
apertamente calpestate, sia un pregio.
83
Pasternak per la prima volta in assoluto esce in Italia e c’è un enorme dibattito perché è un libro di grande potenza
letteraria ma problematico dal punto di vista ideologico, mescola il fascino della rivoluzione con il riconoscimento
delle sue conseguenze catastrofiche: nel ‘57 una consapevolezza del genere tocca dei nervi scoperti, l’Italia era terra di
confine tra due blocchi, aveva inventato il fascismo ma lo aveva lottato, era il paese con più numeroso partito
comunista all’epoca.
Fortini aveva preso posizione su quello che era stato un bestseller mondiale che aveva spianato la strada al
premio Nobel, creando un indiavolato dibattito simile a quello che ci sarà su La Storia. la lettura di
Franco Fortini teneva conto della complessità del problema che si presentava alla società sovietica, la quale
aveva il difficile compito di valutare il senso e l’importanza dell’esperienza rivoluzionaria
all’indomani della presa di coscienza collettiva dei crimini di Stalin. Pasternak indicava al lettore
socialista una via per uscire dall’empasse. Il dubbio legittimo sul comunismo, data la realtà oppressiva della
società sovietica, veniva affrontato rileggendo alla luce del presente la storia rivoluzionaria. Quello di
Pasternak era un romanzo facilissimo da fraintendere, Fortini lo aveva chiaro già all’altezza del Dottor
Zivago, nel ’58, ma lo stesso vale per La Storia.

 L’espressione del giudizio


Angela Borghesi osserva che l’appuntamento con la recensione eluso negli anni 70 si risarcisce nell’83, con
l’uscita di Aracoeli, dove Fortini esplicita apertamente questa mancata presa di posizione rispetto alla
Storia:
Questo libro costringe all’ammirazione, che è un sentimento diverso dall’amore. Col buono e col meno
buono del suo lavoro tutti i temi e i luoghi dell’opera di questa grande scrittrice sono qui 84 raccolti e
stravolti, virati verso un ultravioletto di orrore85 […] Otto anni fa La storia divise la critica ma soprattutto
oppose la maggior parte dei critici al successo di pubblico. Non volli allora scriverne anche perché
c’erano amici che quasi ti toglievano il saluto se avevi dubbi sulla qualità del libro; raccolsi però una
gran quantità di studi e ne feci un seminario in università: su questo libro ci sarà da ripensare.
Lettera a Cesare Cases (aveva scritto una stroncatura feroce a La storia nel 1989): in questa seconda
lettura Fortini sta facendo i conti con la sua rielaborazione del giudizio e con altre molteplici reazioni che si
stanno generando.
Grazie del tuo pezzo con cui in sostanza sono d’accordo; a voce ti faccio qualche osservazione di metodo:
resta da spiegare perché valgono le pagine che valgono; io sto rileggendo il romanzo per il seminario, e il
libro mi cade tra bacetti, micetti, uccelletti, massacri di infanti, massacri infantili… ecco che cosa succede
ad avere seguito la riforma, si arriva al tao “è tutto uno scherzo”, si va dal sempre peccato al nemo
peccato, e all’idea […] che le peccatrici siano solo le maiuscole.
Al netto di tutto, Fortini critica la commozione e la semplificazione dei termini della questione di
oppressi e oppressori! Il riferimento più critico che risentito è al ricatto strappalacrime, l’idea di una
dimensione religiosa che risolve in un manthra. È tutto uno scherzo, di origine mistico-orientale: Fortini
non lo sa a quest’altezza, ma era uno dei quattro titoli che la Morante aveva pensato per il romanzo.

3. Natalia Ginzburg
Le lacrime della Ginzburg: un’altra questione fondamentale permette di legare due spunti, la questione del
patetico e la posizione del narratore. La Ginzburg scrive due interventi, il primo che orienta negativamente
parte del dibattito.
La Morante non vuole anteprime, deve uscire subito in versione economica per arrivare a tutti, non solo
per gli addetti ai lavori, anche a coloro che in genere non leggono. No pubblicità, no lancio, il romanzo
esce: entrare nel mercato editoriale all’epoca in versione economica significava bollarsi in modo sospetto,
un oggetto di poca importanza, un libro di basse ambizioni. Einaudi sa che la scrittrice ha scritto poco fino
a quel momento, non è un personaggio presente sulla scena, ma allo stesso tempo di cui tutti si ricordano e
sanno, la cui assenza pesa. Di sicuro questo nuovo libro attira l’attenzione.
84
Sta parlando di Aracoeli
85
Drammaticità, lacerazione interiore
Einaudi cerca perciò di aggirare il divieto e fa credere alla Ginzburg che la Morante voglia una sorta di
recensione da lei (amica della Morante), solo da lei, verso cui la Ginzburg era anche molto in soggezione.
Ginzburg riceve questa richiesta con una reazione ansiogena, si dice abbia letto il libro in una notte e
aggiunge alcune battute sul testo in un articolo sul Corriere della sera; battute fortemente emozionate, che
contengono la definizione che sia “Il più importante romanzo del Novecento”, nonché la menzione sulle
lacrime. Frammenti come questi generano delle reazioni: quando qualcuno (una stimatissima scrittrice in
questo caso) si svela così tanto, mettendosi come a nudo, la reazione di tanti è aggressiva, quasi sadica.
Circa un mese dopo la Ginzburg torna sull’articolo, scrivendo in modo più riposato e riflessivo un passo
che serve un po’ a chiarire il porsi del narratore in una prospettiva cangiante, che fa arrabbiare chiunque
legga La storia con gli occhi della narratologia: il romanzo in questione sfugge alla categorizzazione in
termini narratologici, perché il narratore della storia è un po’ onnisciente, un po’ no, un po’ Elsa, un po’
no. Molto glielo imputano come difetto, ma questo non è un libro abbozzato e non finito, anzi: ogni scelta
non è abbozzata ma consapevole.
Spossiamo immaginare un luogo da cui la voce narrante parla forse è l’aldilà: l’unico luogo in cui può
collocarsi; c’è un aldilà che comprende sia la partecipazione intensa alla vita sia la capacità di guardare
in modo unitario e parificato ogni realtà dell’esistenza. È l’onniscienza data ai morti che si affaccia anche
nella Commedia di Dante.
17 DICEMBRE 2022 – LEZIONE 30

4. Italo Calvino
Da questo punto di vista una delle risposte più problematiche ma interessanti sia la recensione di Calvino
del ’74, con cui affronta la quesitone del romanzo popolare: la Morante si volle confrontare con il genere
del romanzo popolare ma con ambizione, complessità e qualità altissime.
( ... )è necessario distinguere il romanzo popolare (quale si è sviluppato nel Settecento e Ottocento fino
alle sue specializzazioni odierne) dal romanzo di successo, […]. Mentre il romanzo popolare è basato
sul funzionamento oggettivo della macchina narrativa e ha anche nei suoi esempi più illustri un
carattere quasi di produzione anonima che lo apparenta alle mitologie […], il best seller come lo si
intende oggi sia in America che in Europa è tutto il contrario: anziché sull'oggettività e impersonalità si
basa sulla pretenziosa e vaga soggettività dell'autore che trabocca nella pretenziosa e vaga soggettività
dei lettori, su una melassa di "umanità". […] Questa distinzione tra romanzo popolare e romanzo di
successo va fatta perché è un romanzo "popolare" che Elsa […] ha voluto scrivere, un romanzo che
abbia come primi lettori proprio i non lettori, quelli che non leggono nemmeno i romanzi di successo, gli
esclusi dalla lettura. La possibilità di scrivere un romanzo popolare di questo tipo è un'ipotesi di grande
stimolo intellettuale e tecnico a cui molti e forse tutti gli scrittori hanno pensato […] ma subito vengono
alla mente dieci o venti buone ragioni storico-sociologiche o esistenziali per non farne niente. Il primo
punto da discutere sul libro della Morante è se esso costituisce veramente una proposta di romanzo
popolare d'oggi. Ciò che in questo libro più m'interessa è il ricorso al "romanzesco" che vorrei avesse
molto più sviluppo. […] Mi basti dire che secondo me il vero termine di confronto è l miserabili (altra
operazione volutamente "fuori tempo") come modello di summa del romanzesco popolare e di rapsodia
dell'epos storico-sociale. La commozione è un ingrediente necessario di un'operazione di questo tipo,
ma in Victor Hugo l'accettiamo proprio perché è espressa in termini apertamente melodrammatici. […]
Oggi sentiamo che far ridere il lettore, o fargli paura, sono procedimenti letterari onesti; farlo
piangere, no. Perché nel far piangere ci sono pretese che il far ridere o il far paura non hanno. Cosa
fare allora? Guardarsi bene dall'essere "umani" nello scrivere? Siamo in molti ormai a pensarla così,
ma non è che aggirare l'ostacolo. La vera riuscita sarebbe quella di chi sapesse affrontare l'insieme di
procedimenti e di effetti di tecnica letteraria della commozione e cerecare di capire cosa sono, cosa
significano, come funzionano, perché comunicano qualcosa che molti lettori credono di riconoscere. A
una chiara coscienza tecnica di questi procedimenti letterari forse potrebbe corrispondere un nuovo uso
del pathos come pedagogia morale non mistificante. Il nodo di una futura possibile letteratura popolare
è lì: ma siamo lontani dal saperlo risolvere.
Italo Calvino usa, come termine di paragone alla Storia, i Miserabili di Hugo, «summa del romanzesco
popolare e di rapsodia dell'epos storicosociale», il cui pathos però è accettabile perché l'opera è
apertamente melodrammatica. Diverso è il caso del romanzo morantiano.
5. Cesare Garboli86
L’importanza di Pasternak e del dottor Zivago: in questi anni ci sono momenti di particolare
intensificazione del dibattito su tante questioni, che spesso causano più ostracismi che adesioni, e il
romanzo di Pasternak è uno di questi. Spesso questi punti che sollevano un dibattito insistono su questioni
analoghe, il rapporto uomo-storia ecc. È interessante il fatto che il giovane Garboli che all’epoca era
giovane e promettente critico a sua volta partecipa al dibattito che si era svolto su tempo presente e lo fa
con un articolo87 in cui a un certo punto dice:
“Questo è il dottor Zivago: a un tratto l’idolatria della vita ci appare come una religione senza
conforti88”.
Angela Borghese dice che è impossibile risalire alla paternità di questa affermazione, ma è importante
perché questo dibattito che investiva le due religioni del Novecento (cristianesimo, metafisico, e
marxismo, materialista) diventa protagonista in una società produttrice di domande a cui non riesce a
dare le risposte. Pare che le risposte di entrambe le religioni non siano capaci di resistere. E allora gli
scrittori a volte si arroccano su una posizione (politica, metafisica, ecc), altre volte lasciano aperto il
dilemma e il dissidio: sia Pasternak che la Morante fanno questo!

Il parere di Garboli su La Storia


( ... )non mi pare affatto che La Storia sia un romanzo "contro la storia". ll romanzo della
Morante si chiude con una frase che Antonio Gramsci, in un giorno della sua detenzione,
scrisse di certi semi che gli erano stati inviati in carcere: "Tutti i semi sono falliti,
eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un'erbaccia".
Quale sia il significato metaforico da attribuire a questa frase mi sembra chiarissimo. La
Morante ci sta dicendo, anzi ci sta ricordando, che "anche" Gramsci è storia: un fiore e
non un'erbaccia. Non vedo nulla di decadente in questo appello, sia pure disperato ("tutti i
semi sono falliti"), ma un'ultima spiaggia (storica) di salute e di gioia dell'uomo. Fedele al
senso di questa epigrafe (La Storia è un romanzo nazional-popolare in senso gramsciano),
la Morante non fa altro che ripetere, in ogni pagina del romanzo, che "non tutta la storia è
86
All’inizio di Teorema di Pasolini c’è un uomo che intervista gli operai: è Cesare Garboli, e ora approfondiamo il suo
rapporto con la Morante . Noi non prendiamo nemmeno in considerazione che la saggistica possa essere stato uno dei
generi letterari di maggior successo e di maggior rilevanza per il Novecento; autori come Garboli nella saggistica si
distinguono per un’estrema qualità e venivano anche molto ascoltati.
Garboli aveva un approccio alla saggistica tutto suo, un approccio che in mano ad altri sarebbe risultato quasi
pericoloso: affermava di non riuscire a scrivere di nessun autore che non conoscesse personalmente, il suo strumento
di lavoro era l’amicizia. Spesso si dice che biografia di un autore e produzione letteraria non vanno di pari passo, che
non è necessario conoscere le vicende personali dello scrittore per riuscire a interpretarne l’opera; anzi, che talvolta il
ricorso alle categorie biografiche può portare a fraintendere l’intenzione e i motivi di un certo artista. Garboli però non
era così determinista, aveva bisogno di frequentarlo, non solo per quello che mi dice, ma per quello che fa. Garboli
non fa critica dell’aneddoto o dell’indiscrezione, ma scrive sempre su qualcuno che ha conosciuto tenendo conto anche
di quello che ha visto nella sua analisi letteraria.
La pesanteur, in Storie di seduzione: racconta di una conversazione in cui Morante afferma che il suo più grande
difetto sia la gravità, pesanteur, e a partire da questo sviluppa un ragionamento.
I saggi di Garboli sono sempre molto preziosi. Questo suo lavoro di rapporto ravvicinatissimo con la fonte da cui si
sprigiona il testo letterario lui lo considerava come un approccio servilistico, al contrario di quelli che credono che
ritengono che quello di Garboli fosse un approccio che metteva in primo piano il critico.
87
Inedito nel ’58, pubblicato nel ’69
88
• I conforti della religione
• Il grande male
• La storia
• È tutto uno scherzo
storia". ( ... ) Il vero bersaglio polemico della Morante non è la storia, è l'"irrealtà", cioè
una dimensione, una frazione della storia, quell'immensa frazione di "non realtà" in cui
la storia si è svolta e si è espressa finora. ( ... ) Che cos'è l'irrealtà? È tante cose,
naturalmente, ma è soprattutto fascismo. Il fascismo di oggi: un potere senza volto, un
potere che è insieme politico e intellettuale. Sì, possiamo chiamare irrealtà col nome che le
dà Pasolini: fascismo indiscriminato, puerilità gonfiata da cultura degradata e
deteriorata, borghesizzazione assoluta, omologazione culturale nel senso di una totale
adesione al consumo e alle idee di paglia del consumo. È questo il vero irrazionalismo, il
vero decadentismo di oggi, ed è questo il nemico della Morante. Solo che La Storia è
superiore perfino a questa bega e a questo pettegolezzo. La Morante cerca e riconosce
l'irrealtà non dove essa è storicamente vincente, e dove sarebbe facile identificarla. La
cerca, la sfida dove essa potrebbe, forse, essere ancora sconfitta, nelle classi popolari,
dove l'irrealtà non è originaria, ma "indotta". Allo stesso modo, Davide Segre, il
personaggio-chiave della Storia (altro che svalutazione della coscienza) sfida coi suoi
torturati discorsi da eroe drogato i poveri inebetiti radio ascoltatori (tutti proletari) di una
partita di calcio. Il romanzo diventa un richiamo disperato, un'azione "politica". Il punto
di confusione venale, "politica", tra realtà e irrealtà: ecco il bersaglio della Morante. E
non c'è affatto da meravigliarsi se l'establishment intellettuale, sempre in vena di funeree
adulazioni e di funerei epitaffi sulla nostra sorte di vivi, reagisce con irritazione e dispetto.
È proprio la coscienza della Morante, la razionalità, del suo messaggio, che nessuno può
perdonarle.

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