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**Still LPG Forklift R70-20T R70-25T R70-30T 7068-7070 User Manual** Size:
795.7 MB Format: PDF Language: DE-EN-IT-FR-ES Brand: Still Type of Machine:
Diesel Forklift Type of document: User Manual, Operating Manual Model: Still
R70-20T R70-25T R70-30T R70 7068-7070 Diesel Forklift Number of Pages: 277
pages Ident-Nr.: 157323 - 01.98
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POSCRITTA
Imbriani.
[pg!303]
DANIELE MANIN
[pg!305]
È stata pubblicata un'opera nuova, illustratrice delle vicende del
M.DCCC.XLVIII. S'intitola: Daniele Manin e Venezia (1804-1853).
Narrazione del prof. Alberto Errera di Venezia, corredata da
documenti inediti, depositati dal generale Giorgio Manin al Museo
Correr e da documenti del R. Archivio dei Frari. Firenze, successori
Le Monnier, 1875. È un volume in sedicesimo di vi-524 pagine, oltre
quattro innumerate, che contengono l'occhio ed il frontespizio. La
correzione tipografica lascia molto a desiderare, nè corrisponde alla
fama dell'officina. Per esempio, in una nota del Palmerston (pagina
180) si legge: il governo d'Italia; e deve dire: d'Inghilterra. In un
resoconto (pag. 501 e segg.) si parla di Rimanenza delle Corse
camerali e di Somministrazione di parte d'argento, invece di Casse e
paste; e v'è una trasposizione d'uno specchietto dell'attivo al passivo.
Si fa dire a' giornali parigini, che, appena sbarcato il Manin in
Francia, le sol devenait tout-à-coup la meilleure part de son
existence: sa femme mourait. I giornali parigini avran detto molto
probabilmente dévorait e non devenait. Dico con l'Hugo: j'en passe
et des meilleurs.
La lingua poi di questo volume patriottico ha [pg!306] spesso
più del francese e dell'ebraico, che dello Italiano. L'autore si mostra
inesperto della conjugazione e del regime de' verbi. Scrive: se si
avessero fatti ostacoli (pag. 27); si aveva tentato di tener prigioniera
(pag. 41); si aveva pure cercato la maniera più energica (pag. 55);
ospedali che si avrebbero aperti in seguito (pag. 371), eccetera. Ed
in tutti questi casi andava adoperato l'ausiliario essere, non avere.
Scrive: non curatevi (pag. 333). Ma s'ha a dire: Non vi curate; e la
seconda persona plurale dello imperativo, quand'è preceduta dalla
negazione, non tollera encliticbe pronominali. Scrive: pregato il Palffy
a concedere (pag. 26). Ma il verbo pregare regge la preposizione di;
si prega di fare e non a fare alcunchè. Scrive: non può che ripetere
(pag. 180); non è che un'amplificazione (pagina 155); attribuendo al
che valore di se non. Sconcio gallicismo e sozzo, invece di può solo
ripetere, è una mera amplificazione, oppure non può se non ripetere,
eccetera. Scrive: Noi siamo liberi e possiamo doppiamente gloriarci
di esserlo, giacchè lo siamo (pag. 33), eccetera. Barbarismo: lo è
pronome, non proaggettivo; chè proaggettivo sarebbe e non
pronome, se tenesse le veci di un aggettivo, com'è libero. Scrive:
Siccome il piroscafo partiva (pag. 37); siccome però il Cavedalis
continuava (pag. 211); adoperando siccome nel senso di poichè, là
dove in italiano useremmo semplicemente il verbo al gerundio:
Partendo il piroscafo; ma continuando il Cavedalis. Scrive: notizie di
maggior levatura (pag. IV). Ma la levatura è degli uomini; egli volea
dire: di maggior momento. Scrive: il via va (pag. 407); ma si dice via
vai. Scrive togliermi di dosso le anella (pag. 387), con quanta
improprietà, non è chi non vegga. Le anella soglionsi portare alle
dita: si potrebber torre di dosso solo a chi se le avesse nascoste in
altre parti; ad un soldato, che le occultasse nel zaino, nella
mucciglia, nel sacco, via. Scrive: il di lui comando (pag. 273). Ma va
detto: il comando di lui; o, come venne pure scritto (per esempio da
ser Giovanni Fiorentino, nella [pg!307] Novella II della Giornata IV
del Pecorone — «Era tanto ricco, che le lui ricchezze non avevano nè
fine, nè fondo» — ) ed a me piacerebbe, e gioverebbe alla chiarezza,
ma non è prevalso nell'uso: il lui comando. Scrive d'un incendio: nè
si potè salvare il tetto ed una parte del primo piano (pag. 382). E
probabilmente vuol dire dell'ultimo piano, ch'è il più vicino al tetto,
giacchè, abbruciato il primo, anche i superiori sarebbero
necessariamente crollati. Di simili sgrammaticature ed improprietà,
potrei citarne:
II.
Certo, uno storico dev'essere innamorato del tema suo. Se egli non
pruova una predilezione particolare per l'epoca, pe' fatti, per gli
uomini, dei quali prende a narrare, non conchiuderà nulla di buono.
— «Se, a detta di un ultimo estetico (lo Eckardt,) la scelta geniale
della stoffa è per la fantasia una specie di scelta nuziale; que'
capricciosi, che, alla guisa degli Spartani, ammogliansi a colei, che
prima loro capitò dinanzi nelle tenebre, non rivelano gusto
individuale e rimangono estranei alle loro opere». — Così, benissimo,
al solito suo, il nostro Antonio Tari. — Ma questa simpatia non deve
essere di tal fatta da far velo alla mente mai. Devi compiacerti di
quegli uomini e di quegli eventi; non rappresentar gli uomini e gli
eventi in modo, che a te piacciano; non fingerteli così e così per poi
compiacerti della creazione della tua fantasia. Questa è opera da
poeta, non da istorico, al quale nè l'amor di patria, nè l'amor di
parte, che suol essere anche più forte, ahimè! debbono offuscar
l'intelletto, cui nessuno affetto deve indurre a declinar minimamente
dal vero.
Io affermo presso i popoli moderni non conoscersi più cosa sia
davvero patriottismo ed eroismo. L'eroismo ed il patriottismo non
possono trovarsi nel cuore d'un popolo moderno in quel grado, in
quella limpida schiettezza, che ammiriamo nelle pagine delle storie
antiche. E sapete chi li ha uccisi, o per dir meglio, cionchi e monchi?
Quella, che chiamano civiltà; la mitezza, anzi effeminatezza, anzi
eviratezza de' costumi moderni; il rispetto delle persone e delle
proprietà private, sancito dalle consuetudini della guerra; lo
svolgimento del diritto internazionale; lo affratellamento degli
uomini; e tanti altri pretesi progressi, invocati come una benedizione,
iniziati da' filosofi e da' giuristi, che hanno risparmiato molte lagrime
e molti misfatti, ma che, per fatale compenso, infiacchiscono,
affievoliscono, [pg!314] debilitano i più nobili sentimenti dell'animo
umano ed i più benefici.
Per qual ragione i popoli antichi difendevano con tanta
pertinacia la libertà loro; e, senza intempestivi giuramenti e ridicoli,
combattevano davvero fino allo stremo? Perchè anteponevano
comunemente la morte alla resa? Perchè ci dettero tanti esempli
memorandi di città, che preferirono la distruzione all'aprir le porte? di
castella, onde il nemico si impadronì solo, quando furono un mucchio
di rovine; e nel senso letterale della espressione, non già per modo
di dire e per iperbole, come avviene delle fortezze o delle città
moderne? Perchè quella concordia, quella unanimità ne' partiti
disperati? e plebaglia e femminelle e gaudenti e vegliardi e persino i
fanciulli consenzienti nel proprio scempio, irridenti il vincitore?
Perchè Sagunto, perchè Cartagine?
La risposta è agevolissima: perchè allora la sorte del vinto era
effettivamente e per ogni verso (non già solo metaforicamente e
moralmente), peggior della morte. Il vinto diventava cosa: perdeva
proprietà, famiglia, libertà individuale. Non si trattava della semplice
libertà politica o della mutazione di principato, come nelle guerre
moderne; non solo di interessi ideali e morali, che il volgo, le donne,
i fanciulli, i doviziosi, i dediti al lucro comprendon poco. Il vinto
vedeva confiscati gli averi suoi, farne bottino, ripartirli fra' vincitori; si
vedeva contaminar sotto gli occhi le donne di casa ed i figliuoli e
vendere e sparpagliare come un branco di pecore; lui stesso era
fatto schiavo, venduto adoperato a fatiche esorbitanti, condannato a
peggio, che un ergastolo. Qual meraviglia, se, per evitare tanti mali,
per allontanarli almeno, anche i fiacchi ed i dappoco ostinatamente,
pervicacemente durassero alla fame, alla prepotenza? se
respingessero superbamente ogni patto? Le guerre navali fra turchi e
cristiani erano accanite, perchè? perchè i prigioni od a fil di spada od
incatenati sui banchi de' rèmigi. Se gli abitanti di Strasburgo, di
Metz, di Parigi, eccetera, avessero [pg!315] avuto a temere quel
fato, ch'era la sorte ammessa e convenuta dei vinti nelle guerre
antiche, oh quali resistenze eroiche avremmo forse da ammirare! E
chi sa? resistenza eroica vuol dir forse vittoria: di cosa nasce cosa.
Ma invece ora, anche a' più indomiti, basta lo aver soddisfatto
all'esigenze dell'onor militare, basta aver fatto buona figura, come
dicono. La guerra diventa un torneo fra gli eserciti. Si fa di tutto per
diminuirne gli orrori. E non si considera, se questa diminuzione di
orrori non sia per caso con discapito della grandezza morale degli
animi. Al Machiavelli sagacissimo non poteva isfuggire un tal fatto: —
«Il modo del vivere di oggi, rispetto alla cristiana religione, non
impone quella necessità al difendersi, che anticamente era. Perchè
allora gli uomini vinti in guerra o s'ammazzavano o rimanevano in
perpetuo schiavi, dove menavano la loro vita miseramente; le terre
vinte, o si desolavano, o n'erano cacciati gli abitatori, tolti i loro beni,
mandati dispersi per il mondo, tanto che i superati in guerra
pativano ogni ultima miseria. Da questo timore spaventati, gli uomini
tenevano gli esercizî militari vivi, ed onoravano chi era eccellente in
quelli. Ma oggi questa paura in maggior parte è perduta; de' vinti
pochi se ne ammazza, niuno se ne tiene lungamente prigione,
perchè con facilità si liberano. Le città, ancora che elle si sieno mille
volte ribellate, non si disfanno; lasciansi gli uomini ne' beni loro, in
modo, che il maggior male, che si teme, è una taglia; talmente, che
gli uomini non vogliono sottomettersi agli ordini militari e stentare
tutta vita sotto quelli, per fuggire quelli pericoli, de' quali temono
poco». —
L'assedio di Venezia riconduce naturalmente nella mente
l'assedio di un'altra città, simile nella costruzione a Venezia,
fabbricata anch'essa sovra isolette in mezzo alle acque ed accessibile
solo per mezzo degli argini, dalla terra ferma, come Venezia solo pel
ponte della Laguna. Io parlo di quella Temistitan asteca, (che
sorgeva, dov'ora è la Messico [pg!316] castigliana), espugnata dal
Cortese ne' M.D.XXI. E si noti, che i Temistitanesi si trovarono in
condizioni peggiori de' Veneziani. L'estuario era sgombro di navi
austriache, e solcato dalle nostre; mentre il lago di Messico era
signoreggiato da' brigantini spagnuoli. La superiorità delle armi
degl'invasori dell'America sulle difese degli indigeni, era infinita;
l'agglomerazione di bocche inutili, stoltamente eccessiva. Le
descrizioni de' patimenti de' poveri anaguachesi fanno raccapriccio.
Terminate le provisioni, mangiavano insetti, mangiavan radici di
piante lacustri; morivan d'inedia, antropofagheggiavano: de los
niños, no quedó nadie, que las mismas madres y padres los comían
(que era gran lástima de ver, y mayormente de sufrir). Eppure, nè la
fame giunta a tal segno, nè la pestilenza, nè l'inutilità della difesa, nè
le morti (che il Cortez stimava a cendiciassettemile e l'Ixtlilxocitl fa
ascendere a dugenquarantamila,) poterono indurre quel popolo, cui
pur si offeriva una capitolazione onorevole, a cedere; e la città
dovette essere conquistata a palmo a palmo, nello stretto significato
della espressione, abbattendone a mano a mano gli edificî e
ricolmandone i canali, ed ammazzando quanti s'incontravano. Se
Guatimozino avesse avuto polvere da sparo, non c'è dubbio al
mondo, ch'e' si sarebbe fatto saltare in aria; e non c'è dubbio al
mondo; che i sudditi avrebbero acconsentito senza mormorare a
perir tutti così. A' tempi nostri, nello stato della civiltà nostra, con le
molli tempre nostre, sarebbe assurdo il pretendere, che si
rinnovassero simili esempli. Ma questa impossibilità del pieno
eroismo ed assoluto, non è forse da compiangere, da deplorare?
Paragonato all'assedio di Temistitan, quello di Venezia sembra come
un assalto di scherma di fronte al duello fra Achille ed Ettore.
Comunque sia, l'assedio di Venezia è divenuto per gl'Italiani una
leggenda, i cui santi protagonisti sono Guglielmo Pepe e Daniele
Manin. Ma la fama del Manin ha oscurata quella del Pepe,
quantunque, trattandosi d'un assedio, parrebbe giusto, che il
[pg!317] primo alloro toccasse al capo militare e non già al capo
civile, la cui sola missione doveva essere di somministrare al primo i
mezzi di prolungare e sostener la difesa. Certo è, che il Pepe ha una
sola statua, a Torino, e postagli dalla pietà della vedova; ed un busto
a Catanzaro, che per esser posto nell'atrio dello Asilo Infantile,
sembra una satira. E busto e statua sono opere infelici e non
ritraggono adeguatamente la bellezza veneranda del vegliardo,
ch'era stato un tempo il più bel giovane di Napoli e dello esercito di
Gioacchino. — Al Manin invece (se non è strettamente vero quel, che
dice lo Errera, che — «Torino, Milano, Firenze, Genova e quante
sono le illustri città d'Italia, gli eressero un monumento o una lapide,
o del suo nome intitolarono una via o un Istituto» — perchè, per
esempio, e tacendo di molte altre, nè Napoli, nè Bologna, nè
Catania, città d'Italia anch'esse e tra le più illustri, gli han decretati
onori siffatti); al Manin il plauso è più concorde, più prolungato. Ma
perchè? Per gli atti delle sue dittature ed amministrazioni? Niente
affatto. Il vero motivo di quegli onori, sproporzionati alle opere, ve lo
accenna il dabben Cibrario, dicendo: — «Io ho sempre rispettato e
rispetto tutte le opinioni, che muovono da intimo convincimento, e
trovo naturalissimo, che a Venezia, con sì splendide memorie di
repubblica, vi fossero repubblicani. Onorerei Daniele Manin di tutto
cuore, quand'anche fosse morto repubblicano; ma più l'onoro e
l'amo per avere con nobile e raro esempio riconosciuto più tardi e
dichiarato, che la salvezza d'Italia stava nella bandiera e nella spada,
che il Re di Sardegna avea consacrata a redimere questa gran madre
d'eroi, saturnia terra.» —
Così è. La popolarità Italiana del Manin comincia nel
M.DCCC.LVI. Il presidente e dittatore di una effimera repubblichetta
e microscopica, sarebbe ora dimenticato dalla nazione, se, come
altri, avesse perfidiato nello sterile repubblicaneggiare (e mi si
[pg!318] perdoni l'epiteto poco parlamentare) stolido; rimarrebbe al
più al più venerato da un partitello, da un manipolo, da una
chiesuola, da una setta. Noi non lodiamo ed onoriamo il presidente
ed il dittatore; ma un poco il presidente, che, sebbene di mala
grazia, seppe ripudiar la repubblica il tre luglio M.DCCC.XLVIII e far
votare la fusione col Piemonte; e moltissimo l'esule, che essendo
stato presidente e dittatore, ancorchè di repubblica effimera e
microscopica, seppe passare bravamente il Rubicone, rinnegare il
passato, rinnegare lo assurdo ideale giovanile, ravvedersi,
distruggere il partito repubblicano, far tacere le discordie, che
avevan cagionato in gran parte le catastrofi e le vergogne del
quarantotto, persuadere tante teste deboli ed incolte, unite però a
cuori generosi e braccia forti, della necessità e della bontà della
Monarchia unitaria. Questo atto il rende caro alla nazione tutta e
pregiato. Questo atto rivela più fortezza d'animo, che la presa
dell'Arsenale e la difesa di Venezia, e giovò molto più all'unificazione
d'Italia ed alla liberazione. Tolto questo, la vita di lui sarebbe quella
di un agitatore e d'un rivoluzionario volgare, come ce n'ha tanti.