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TENTH EDITION
Ron Larson
Bruce Edwards
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Chapter 2: Differentiation 82
iii
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insegnar giurisprudenza ai nipoti del vescovo d’Ischia nel romito castello
di Vatolla, ove passa nove anni della più florida gioventù meditando su
pochi libri; si stomaca «della maniera di poetare moderna», ma poco
riesce nella geometria e nella fisica, e s’addentra nelle quistioni sociali,
applicate all’antichità; «benedisse il non aver avuto maestro, e ringraziò
quelle selve, fra le quali, dal suo buon genio guidato, aveva fatto il
maggior corso de’ suoi studj senza niuno affetto di sêtte, anzichè nella
città, nella quale, come moda di vesti, si cangiava ogni due o tre anni
gusto di lettere». E appunto egli si ostina a ritroso del suo tempo: questo
trascura la buona prosa latina, ed egli la coltiva assiduo; ogni attenzione
volgesi alla Francia, ed egli neppur la lingua volle saperne; laonde si
trovò «come forestiero nella sua patria, e non solo vi era ricevuto come
straniero, ma anche sconosciuto». Chiese di esser secretario municipale,
e fu posposto; una cattedra di retorica con cento scudi di provvisione
tenne quarant’anni, poi a settanta ebbe il titolo di storico del Regno. Qui
faceva versi per occasioni, panegirici ai suoi vicerè, diatribe contro
gl’insorgenti oppressi; intanto elevavasi alle più sublimi concezioni, non
con un proposito stabilito ma a tentone, posandosi problemi, da ognun
de’ quali gliene rampollavano di nuovi, che traevanlo a nuovi modi di
risolverli, e a dilatare, tutto solitario, la sfera delle proprie cognizioni e il
metodo, non coll’avventurosa inventiva d’altri suoi paesani, ma
prendendo le mosse dalla devota erudizione.
S’approfonda ne’ classici antichi; da Platone impara le astrazioni
generali e le aspirazioni del sentimento, l’uomo filosofico; da Tacito i
concreti e il riflettere sopra questi; da Erodoto un passo d’oro, che gli fa
balenare agli occhi una storia ideale con tre età; ammira Dante, Leibniz,
Newton e il tre volte massimo Bacone: ma le idee loro non adotta
pienamente, bensì le rimpasta colle proprie, sempre inteso a congiungere
il certo della filologia col vero della filosofia. Sopra Grozio e Cartesio,
venerati allora restauratori della filosofia e della giurisprudenza, volge
principalmente l’acume; e al primo, che spiega la storia coll’individuo e
indaga un diritto universale per mezzo dei fatti particolari e del
linguaggio, appone di aver raccozzato astrazioni sconnesse dai fatti,
giureconsulto de’ filosofi ma non della storia. Cartesio, svolgendo
l’intera serie delle umane cognizioni dal fenomeno della coscienza,
trascura anch’egli il passato per concentrarsi nella superba evidenza del
metodo matematico; e il Vico lo accusa di aver mutilato storia, lingue,
erudizione, riducendole a linee geometriche; e col disprezzo
dell’erudizione inducendo disprezzo degli uomini, e repudiando i mezzi
e gli ajuti che al pensiero offrono le tradizioni delle età passate, pretese
evidenza matematica in verità che non ne sono capaci; laonde il metodo
suo può produrre dei critici ma nissuna grande scoperta [277].
L’uomo non è pura macchina o cifra; nè storia, politica, morale,
eloquenza si regolano a meri calcoli, ma abbisognano congetture,
induzioni, somiglianze; il testimonio della coscienza, l’immediata
percezione non basta a provar l’esistenza, e il penso dunque esisto
riducesi ad una percezione che non colma l’abisso fra la coscienza e
l’universo. Laonde il Vico, combattendo Cartesio per la ragione che
Cicerone combatteva gli Stoici, abbandona il geometrico processo per
gittarsi all’esperienza storica e alle libere induzioni; ripudia la superbia
del senso individuale onde rimettere in onore la tradizione; e per
contrapposto a quella noncuranza degli antichi, sublima la filologia
rendendola la filosofia dell’autorità, l’ordine e la ragione dei fatti, che
ravvicinando le idee lontane, le feconda; non abbracciando soltanto le
lingue, ma i costumi e le azioni degli uomini; e con una critica ch’egli
chiama architetta, s’accinge a ricomporre, supplire, ammendare, i
rottami dell’antichità porre in luce, allogare. Pertanto indaga le vestigia
della sapienza italica nella lingua [278], e attribuisce ai prischi Italiani la
metafisica.
Qualche scolaro del Sigonio gli objettò, nel Giornale de’ letterati, che la
sapienza italica sarebbe dovuta investigarsi nell’Etruria e nelle
confraternite pitagoriche della Magna Grecia, piuttosto che fra i patrizj
del Lazio, gente che colla violenza avea costituito un diritto feudale che
la moltitudine soggiogava a pochi. Il Vico comprese la forza di tale
objezione meglio del critico stesso, e vi applicò la distinzione che già
avea notato fra l’uomo de’ filosofi e quello de’ politici, fra il senso
comune dei popoli e le verità assolute delle scuole, fra la tirannide de’
patrizj e l’equità dei giureconsulti, dai quali derivò il moderno diritto
delle genti, esposto da Grozio.
Fittosi dunque a indagare la storia di Roma nella successione delle sue
leggi, e l’asserita sapienza degli Italiani repugnando alla ferocia delle XII
Tavole, il Vico, per accordare l’autorità colla ragione, il diritto romano
col razionale, ricorre ad un’armonia prestabilita in Dio fra la materia e lo
spirito; da Dio emanano giustizia e virtù; la necessità e l’utilità, o, come
diciam oggi, gl’interessi disviluppano dalla materia le idee di giustizia;
sicchè, mentre gli uomini si acuiscono nel soddisfare i bisogni corporei,
la Provvidenza li conduce ad attuare il tipo eterno della giustizia.
Concepita la storia umana come una progressiva conquista dell’equità,
egli snoda i problemi e le objezioni dei predecessori, in maniera inusata
conciliando il diritto ideale di Platone e il politico di Machiavelli. Ma
poichè la storia non cominciò con Roma, dovette egli investigare come
dallo stato ex lege nascessero le aristocrazie feudali; e immaginò che
l’uomo, imbrutalito ne’ ducent’anni che succedettero al diluvio, sino a
smarrir le tradizioni tutte e il linguaggio, fosse scosso dallo scoppio della
folgore, e allora sospettasse dell’esistenza d’un Dio; dai boschi incendiati
dal fuoco celeste toglie una favilla per i bisogni suoi, per le arti, e per
bruciare i cadaveri; vergognando de’ promiscui connubj, rapisce una
donna e la reca nelle caverne, origine delle famiglie, donde i rifugi, e
l’agricoltura, e il pudore del cielo, dei vivi, dei defunti; i padri si
confederano; il patriziato si stabilisce, conservando i privilegi della
famiglia e dei riti [279]. I forti, chiesti protettori dai deboli, se li rendono
famuli; ma poichè li tiranneggiano, questi si ammutinano onde
strapparne il dominio bonitario de’ campi, lasciando a quelli il dominio
ottimo, e gli auspizj che sono indispensabili a render legali gli atti.
Intanto si ha la città eroica, composta di educabili patrizj e ineducabili
plebei, i quali cominciano lotte interminabili per partecipare anch’essi al
diritto civile: e questo trionfa, e ne viene l’età umana delle repubbliche
libere, quando unico e supremo è il dominio della legge, commesso alle
libere opinioni de’ giureconsulti, che in nome della ragione surrogansi
all’arbitrio del privilegio e della forza. Così gli interessi dominanti nel
Machiavelli e la ragione esaltata da Grozio vengono a conciliarsi nel
fatto, che cancella l’antinomia e la filosofia.
Tutti i fatti parziali sono dunque sottomessi a un ampio concetto; e
qualunque rozzezza, qualunque iniquità trova spiegazione o posto in
quest’ottimismo. Il semplice quanto sublime ordito ingombra egli di
dissertazioni e divagamenti, ove profonde tesori di novità storiche,
filosofiche, filologiche. La vulgata cronologia degli avvenimenti è
dovuta alla boria delle nazioni e dei dotti. Egli primo riconobbe nella
mitologia un senso recondito: e nella poesia, parto d’immaginazioni
vivaci, la chiave della storia primiera. Le tradizioni popolari han pubblici
motivi di vero: i parlari sono i testimonj più solenni delle prische usanze.
Parallelo procede lo svolgersi dei popoli e quello delle umane facoltà,
sicchè le une fan riscontro alla storia degli altri. È natura dei vulghi
l’assomigliare a se stessi l’universo, imporre a tutte le genti la propria
origine; e la mente umana dilettandosi nell’uniformità, ai primi cogniti
riferisce i nuovi, e gli effetti particolari a cause comuni. Per mezzo di tali
degnità viene a scoprirsi che all’incivilimento non presedettero i filosofi,
come Grozio vorrebbe; ed Ercole, Teseo, Pitagora, Dracone, Solone,
Esopo sono personificazioni de’ loro tempi, e nuclei attorno a cui la
tradizione agglomera la vita e gli atti di molti; sono insomma la
personificazione collettiva delle persone eminenti, giacchè il senso
comune sta innanzi e sopra del senso individuale. Omero stesso, che
dapprima egli avea accettato come un poeta cieco, le meditazioni
successive lo strascinarono, lo violentarono a crederlo un mito; non un
poeta ma la poesia; nè mai fu superato, perchè non si supera l’ispirazione
spontanea di tutto un popolo. Anche i sette re di Roma dissolve in
caratteri politici, a ciascuno de’ quali il popolo appropriò gli effetti di
lente rivoluzioni, come alle XII Tavole attribuì anche leggi plebee,
ottenute assai più tardi col trionfo della democrazia.
Se le genti sono selvaggie da principio, svanisce il concetto
dell’antichissima sapienza degl’Italiani: svanisce allorchè sia stabilito
che le lingue son fatte dal popolo, non dai filosofi, nè Roma fu governata
in origine da un senato di sapienti; talchè il Vico progredendo demolì di
sua mano quell’edifizio, nel quale molti nostri, senza conoscerlo,
idolatrano ancora la boria nazionale.
Sempre vedendo riscontri e similarità, il Vico credeva che, al par de’
Romani, tutti i popoli fosser passati per tre governi: monarchia
aristocratica fondata sull’autorità divina; repubblica aristocratica;
repubblica popolare, la quale riesce in monarchia popolare; adunque
dall’uno si va ai pochi, dai pochi ai molti, dai molti all’uno.
Amplia questi teoremi, e l’incivilimento non è opera della filosofia, anzi
essa col tempo scaturisce da quello; la storia positiva non può raccontare
i primordj del genere umano, perchè precedettero ogni scrittura e
monumento: ma se tutte le nazioni dalla barbarie giunsero all’equità, v’è
una storia ideale, eterna, comune a tutte esse nazioni, le quali non sono
che manifestazioni particolari, mentre colla storia ideale si ricostruiscono
le civiltà delle singole nazioni, si trovano i primordj alle storie che ne
mancano, si assorbiscono in leggi immortali di ragione i particolari
fenomeni di Roma, d’Atene, di Sparta, degli uomini, de’ luoghi, de’
tempi. In essa storia il diritto si realizza, cominciando dalla violenza, poi
mascherandola nelle formole solenni, ingentilendosi nelle finzioni che
eludono queste, poi diventando equo, sempre sotto l’impulso prestabilito
delle necessità e delle utilità, delle passioni e degl’interessi, dalla grotta
ove il selvaggio rifugge dal fulmine, sin al trono su cui il popolo colloca,
suo rappresentante, l’imperatore che livella il diritto.
Questa è dunque una scienza nuova dell’intera umanità. La Provvidenza,
che erasi fin allora dimostrata dalla meravigliosa architettura del mondo
naturale, il Vico vuol riconoscerla pure nel mondo delle nazioni, non
fatto dagli uomini ma da Dio stesso; tutto riducendo all’unità d’una
Provvidenza divina, che informa e dà vita al mondo delle nazioni.
Scoperta colla meditazione questa storia ideale eterna, egli vi assetta tutti
i fatti umani; ne’ quali, eliminate le particolarità di luoghi e di
personaggi, sempre appare un eterno consiglio, che ordina le cose
massime e le minime. Perocchè nelle sue manifestazioni la natura umana
procede per certi principj comuni: gli elenchi della vita morale, cioè
religione, giustizia, utilità, bello, filosofia, si collegano per esprimersi in
certe forme di rapporti ne’ diversi stadj dell’umanità. Laonde mito,
etimologia, tradizione, linguaggio si soccorrono per ispiegare
l’attuamento del diritto nelle storie, e per chiarire che in tutte ricorrono i
fatti della romana. L’erudizione non possedendo ancora dati bastanti per
ismentirlo, lasciavagli campo a divinare sopra la mitologia, espressione
lirica della storia primitiva, sopra il vocabolario, deposito delle conquiste
della verità e del diritto, fatte sotto l’impulso della necessità; sicchè colla
poesia ch’è la favella eroica, e colle frasi espresse per via di fatti, rilesse
in tutti i popoli la storia di Roma. Quest’ultima fu conservata dalle leggi;
delle altre sussiste qualche frammento appena, ma potranno ricostruirsi
sull’analogia di quella; nè v’è tradizione ch’egli non si proponga di
ricondurre alla sua preordinata storia romana.
A questo procedimento di tutte le nazioni, operanti egualmente in
circostanze eguali, nella famiglia, nella città, nella nazione, s’opporrebbe
la narrazione biblica. Il Vico, non osando rimpastarla, la rimove,
riconoscendo nel popolo ebreo un andamento particolare e indiscutibile.
Omero pure vi contraddice, cantando costumi corrotti, lunghi viaggi,
divinità avvilite che non hanno a fare col patriziato romano. E il Vico per
offrirne spiegazione ingrandisce la propria scienza, e scopre un’età
divina, una eroica ed una umana; i caratteri doppii, ed i poeti d’età
depravata che fanno se medesimi norma dell’universo, e che ai lontani
paesi attribuiscono i nomi de’ proprj, supponendo viaggi assolutamente
impossibili a quella rozzezza.
Nella civiltà greca come nella romana da principio fu adorata la
Provvidenza, poi fantasticato, poi ragionato. Da qui il succedersi dell’età
divina, dell’eroica, e dell’umana; ciascuna dotata d’idee e di linguaggi
proprj. Vi corrispondono tre specie di costumi; religiosi, violenti,
officiosi: tre giurisprudenze; la mistica, la prudente, che ripone il valore
nella forma materiale della legge a quella attaccandosi per difesa, e
l’umana: tre specie di lingue, di caratteri, di costumi, d’autorità; tre
tempi, i religiosi, i puntigliosi, i civili; tre governi, divino, eroico,
popolare libero sia monarchia o repubblica, dove però i cittadini son tutti
eguali.
Via dunque dalla storia il caso; via l’onnipotenza dei grandi uomini; tutto
essendo provvidenziale e prestabilito, non solo pel nostro ma pei mondi
infiniti possibili. Glien’è riprova la barbarie rinnovata del medioevo,
dove rinascono i simboli, il linguaggio figurato, le clientele, e un Omero
della seconda inciviltà, com’egli arditamente qualifica quel Dante, che al
Gravina era parso l’Omero di una seconda civiltà. Il mondo, che ripigliò
l’antico corso, ricadrà quandochessia nella barbarie.
Benchè egli facesse tutt’uno la scienza e la bellezza, ammirasse i classici
e lo stile storico mezzo fra prosa e verso, e fosse dai contemporanei
lodato come umanista, si rinvolse in una forma scabra e intralciata, che
nocque assai all’intenderlo [280]; oltre che una storia, la quale trova
riscontro nella letteratura, nel linguaggio, nella geografia,
nell’astronomia, nella cosmogonia, se poteva abbracciarsi da un
potentissimo intelletto, non doveva trovarsi accessibile alle intelligenze
normali. Pertanto i contemporanei nol capirono; e fu inteso sol quando
altri già erano arrivati dove lui, e più innanzi.
Però, non che fosse un isolato fenomeno in mezzo ad un mondo troppo
inferiore, egli si erudì nella sapienza del suo tempo; non distratto dalla
Corte e dalla moda come i Francesi, non dagl’interessi politici come
gl’Inglesi, meditava que’ libri che altri scorrono; confutò riverentemente
Cartesio e Grozio, da cui dedusse l’astratta giustizia; forse il Nuovo
Organo di Bacone gli suggerì l’idea d’una scienza nuova; profittò del
Gravina e del Sigonio, e sovrattutto del platonismo di Leibniz; e
criticando il genio, genio si mostrò. Di que’ pochi ch’egli intitola passi
d’oro, cioè verità quasi sfuggite agli antichi, sol una mente come la sua
potette accorgersi, non che interpretarli e indurne leggi universali.
Machiavelli, pensatore sì robusto, aveva accettato la storia di Livio come
indubitabile e nel senso vulgare; il Boccalini, Annibale Scoti ed altri
commentatori di Tacito non faceano che diluirne i potenti riflessi con
languide parafrasi e spiegazioni che nulla insegnavano più dell’originale;
Grozio, Sigonio, Gravina, non che i minori interpreti, nella legislazione
romana vedeano meramente i fatti; mentre il Vico nella storia come nella
giurisprudenza s’approfondisce da scopritore, nè altri mai radunò tante
verità e principj nuovi, nè tanto valse nel convertire i fatti in idee senza
smarrirsi in astrazioni.
Quell’erudizione, meravigliosa pe’ suoi tempi, fu mostrata monca dalle
posteriori scoperte. Se avesse saputo che fra’ selvaggi il Dio è complice
dei delitti, è l’avversario d’una civiltà che incatena gl’istinti, non avrebbe
derivato la religione dallo sgomento. Dinotò gli sviluppi dell’umanità
nelle formole del diritto romano, ma non avvertì ch’era tradizionale,
anzichè spontanea; evoluzione, anzichè passaggio da barbarie a civiltà,
attesochè il gran popolo sorgea di mezzo alle città italiche. Attribuisce la
potenza di Roma alla sua situazione, eppure confessa che i popoli hanno
senno e voglie quali l’educazione li dà. Alle origini dell’improvvisata
sua società trasporta le cognizioni delle società già costituite, i bisogni di
proprietà, di famiglia, di religione, di schiavitù. Al giudizio individuale
di Cartesio surrogando il comune, non s’accorge che spesso l’errore
domina intere generazioni, e i miglioramenti nascono da ragione
individuale che precede la generale; sicchè il senso comune è
l’espressione di uno stadio sociale, anzichè della verità e della ragione.
L’erudizione, che lo avea portato a tanta sublimità, fu pure la sua pietra
d’inciampo, ritorcendolo verso il passato, fin a rinnegare diciassette
secoli di progresso, e l’indefettibilità del cristianesimo, e la non più
disputabile emancipazione dello schiavo: l’ammirazione delle passate gli
tolse l’intelligenza delle età moderne, e lo persuase che il ferreo mondo
fosse in pieno decadimento: osservando declinare l’Italia dopo tanta
floridezza, estese quest’esempio a tutta l’umanità, credendone inevitabile
il precipitare dopo elevatasi, e le cause del deperimento universale cercò
ne’ parziali eventi della nazione che dominava la sua. Il progresso delle
scienze fisiche e la conoscenza maggiore del mondo vennero poi ad
attestare che leggi dell’universo non sono quelle di Roma e di Grecia; le
caute induzioni odierne provando la parentela delle favelle, negarono che
le lingue nascessero spontanee ed isolate per uniforme conato della
natura umana; le tante genti rimaste immobili nella primitiva
selvatichezza, o moventi appena i primi passi nella via della civiltà, le
nazioni stazionarie, fransero il circolo similare, entro cui egli avvolge
inevitabilmente l’umanità, e chiarirono che il cattolicismo,
l’affrancazione dell’uomo, le grandi scoperte impediscono di
indietreggiare pei fatali ricorsi.
Eppure nel sublime sonnambulismo del genio, dominato da quella
melanconìa che dà grandezza, fattosi interamente antico, ficcò la
filosofia nelle favole, e i deserti antestorici popolò coi figli de’ suoi
pensieri, signoreggiando il presente e l’avvenire; e, suo merito supremo,
innovando il metodo delle ricerche storiche, fu il primo ad architettare la
storia come soggetta a una legge certa, ad un’eccelsa moralità,
indipendente da nazioni e da tempo, e la cercò. Poco prima Bossuet
vescovo di Meaux, nel Discorso sulla storia universale avea dato una
filosofia della storia, ponendole per centro il Calvario, quasi tutte le
vicende del mondo fossero preordinate verso il Redentore venturo o
venuto. Il Vico, che probabilmente non n’ebbe contezza, considerò le
nazioni in sè, e i fatti come fasi della vita, sicchè ne coglieva soltanto ciò
che valesse a mostrare la loro opportunità ai disegni di Dio. Trovò i tipi
di ragione; enunciò le lingue far parte intima della storia civile; se in
cercare nelle radici de’ vocaboli le radici dei pensieri errò sovente, aprì il
calle a nobilissimi ardimenti, e divinò quel che altri poi scopersero; alla
filologia ampio senso attribuì come meditazione della parola in quanto
esprime il pensiero dei popoli, ed è interpretata dai fatti ben più che dai
commentatori; avvertì la distinzione fra popolo e plebe: al famoso passo
di Clemente Alessandrino sulla scrittura egizia diede l’interpretazione, di
cui si gloriano i nostri contemporanei; sminuì le meraviglie cinesi, e
presentì l’importanza delle genti scitiche; dettando alcuni canoni di
ragione, mettendo in dubbio alcuni pregiudizj, posando molte quistioni e
alcune snodando, scoprendo spesso, più spesso ponendo sulla via di
scoprire, d’oltre un secolo prevenne gli ardimenti della critica e la
creazione d’una storia ideale dell’umanità, dove i secoli passeggeri si
contemplano nel lume dell’eterna Sapienza. La lotta dell’intelligenza
colla necessità, dell’Oriente coll’Occidente, dell’uno col molteplice,
l’objettivarsi dell’idea nella storia, la manifestazione dell’assoluto, le
altre forme umanitarie di Schelling, di Hegel, di Fichte, di Cousin
rientrano pur sempre nel concetto di Vico, liberato dall’umiliante
corollario dell’inevitabile decadenza.
Non dimentichiamo che, disapprovando le oziose disquisizioni, il Vico
disse la filosofia esser data «per intendere il vero e il degno di quel che
dee l’uomo in vita operare»; e, a differenza dei tanti, rivolti solo ad
esagerare la degradazione, sostenne che «la filosofia, per giovare al
genere umano, dee sollevare e reggere l’uomo caduto e debole, non
convellergli la natura, nè abbandonarlo nella sua corruzione».
CAPITOLO CLIX.
Scienze naturali e matematiche.