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CHAPTER 2
PROBLEM SOLUTIONS
Fundamental Concepts
Electrons in Atoms
2.1 Cite the difference between atomic mass and atomic weight.
Solution
Atomic mass is the mass of an individual atom, whereas atomic weight is the average (weighted) of the
atomic masses of an atom's naturally occurring isotopes.
Solution
The average atomic weight of silicon ( ASi ) is computed by adding fraction-of-occurrence/atomic weight
products for the three isotopes—i.e., using Equation 2.2. (Remember: fraction of occurrence is equal to the percent
of occurrence divided by 100.) Thus
27.90% of 66
Zn with an atomic weight of 65.926 amu ; 4.10% of 67Zn with an atomic weight of 66.927 amu; 18.75%
Solution
The average atomic weight of zinc AZn is computed by adding fraction-of-occurrence—atomic weight
products for the five isotopes—i.e., using Equation 2.2. (Remember: fraction of occurrence is equal to the percent
AZn = f64 A64 + f66 A66 + f67 A67 + f68 A68 + f70 A70
Zn Zn Zn Zn Zn Zn Zn Zn Zn Zn
= 65.400 amu
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— Tua romni, tua romni, bel rai! esclamò con impeto la zingara,
battendo palma contro palma.
Prima di congedarla il conte disse a Luscià:
— Va e conducimi qualcuno della tua gente, perchè io tratti con esso
della tua sorte.
E la giovinetta se n’andò questa volta lentamente, tutta pensosa della
grande novella ch’ella recava alla sua gente.
Aveva promesso di tornare prima di sera; ma non venne.
Il conte l’aspettò per tre giorni di seguito, poi disse alla figlia del cuoco
di prendere seco una torta e di andarne in traccia fin nelle tende.
La ragazza tornò dopo mezz’ora sola, colle mani vuote. L’offerta aveva
incontrato il gradimento di tutti: il pasticcio era stato sequestrato e
divorato in sua presenza. Ma Luscià era scomparsa dall’accampamento.
Nessuno degli zingari pareva saperne nulla: alle sue domande si
stringevano nelle spalle, come si trattasse di cosa che non li riguardasse:
un ragazzetto che la seguì un pezzo fuori delle tende, avevale detto che la
giovane figlia di mami Nad era stata condotta al baro pani, al mare, ma
non sapeva altro.
IV.
V.
VI.
Cihari fu di parola: prima che la settimana finisse venne dal conte e gli
indicò una lunga carovana che saliva prestamente la china. Era il
balubassa che arrivava.
Nick coi suoi uomini scendeva in gran fretta ad incontrarlo.
I nuovi venuti, giunti in cima alla collina, si fermarono aspettando il
permesso del conte.
Essendo Cihari ridisceso a recarglielo, salirono dalla strada nel Ronco di
San Nazario, terreno dissodato di fresco, ricchissimo di erba, che il
proprietario aveva loro per speciale deferenza concesso.
Trassero i carri in circolo, staccarono i cavalli; tirarono le tende; e in
meno di mezz’ora il villaggio primitivo sorse come per incanto; non vi
mancava nulla: nè il gridìo dei ragazzi che schiamazzavano nei dintorni,
nè l’affaccendarsi delle donne, nè le spire turchine di fumo dei focolari,
nè la tranquilla beatitudine degli uomini che riposavano sul limitare.
Il conte Emanuele pensava con viva emozione ai suoi antichi padri, che
dopo un lungo e travaglioso ramingare, erano venuti forse in quella
stessa guisa, così poveri e cenciosi, a posarsi sul terreno concesso poi
alla loro progenie.
Poco prima del tramonto il conte venne in persona a trovar Dan al Ronco
di San Nazario.
Cihari l’introdusse.
L’accampamento era il doppio più grande di quello di Nick: lo
formavano nove tende, quattro per banda ed una in fondo, rimpetto
all’ingresso, raccolte in un cerchio elittico, aperte dalla parte interna,
occupate quasi interamente dai carri, che servivano di letto pei bambini,
di canterano e di guardaroba, pieni zeppi di ciarpe, di barattoli, di cose
senza nome e senza colore, alla rifusa, a mucchi informi, donde
spuntavano braccia nude e gambe calzate di lunghi stivali. Le donne,
sedute, agucchiavano silenziose, e un brulichio di bambini seminudi
ingombravano lo spazio nel mezzo.
Il balubassa, geloso della propria dignità, non si mosse punto all’arrivo
del conte; l’aspettò seduto colle gambe incrociate innanzi alla sua tenda
in fondo, la più alta, la più grande di tutte, — sul confine del doppio suo
regno di padre e di capo.
Aveva l’aspetto d’un uomo molto innanzi negli anni, ma non decrepito: il
suo volto pingue, un po’ floscio, rivelava una grande robustezza e
serbava le traccie di una primitiva arditezza; due lunghi baffi bianchi gli
scendevano giù sul petto. L’abito degli slavi danubiani mezzo greco,
mezzo ungherese, il portamento maestoso, gli davano un’aria di re
orientale. Fumava in una lunga pipa. Sdraiato alla sua destra un
giovinetto macilento, smunto, guardava il conte con occhio cupo,
malinconico; era il povero Suceawa, l’ultimo dei figli di Dan, moribondo
superstite di una numerosa schiera di fratelli.
Dan parlò a Cihari sommessamente; — egli comprendeva perfettamente
la lingua del paese, ma, per decoro, si serviva d’interprete.
Cihari disse al conte porgendogli un piccolo sgabello:
— Dan, figlio di Michel, nostro capo, fa augurio, o derai, che i vostri
cavalli abbiano lunga vita, e vi prega di sedere e dirgli l’animo vostro.
Il conte rispose:
— Voi Cihari sapete ciò ch’io voglio; ditelo a Dan e riferitemi le sue
intenzioni.
Dan gli fe’ dire da Cihari che la cosa non era regolare: ma che avrebbe
acconsentito a patto che egli facesse alla tribù i doni che si convenivano
alla stirpe della fanciulla.
Suceawa si contorse gemendo, e saettò al conte un’occhiata di odio
ineffabile.
Cihari enumerò poi le pretese del balubassa.
Intanto il vecchio lisciava i suoi lunghi baffi bianchi e scrutava,
coll’avidità di un mercante, il volto del conte.
Questi accettò le condizioni senza discuterle, avrebbe pagato in danaro la
dote di Luscià, regalato un cavallo al balubassa e un abito nuovo a tutti i
suoi capi squadra.
Dan fe’ recare una tazza colma di acqua, fe’ bere il conte, v’intinse egli
le labbra, poi la infranse. — Così la strana alleanza fu suggellata; — e
servirono d’augurio i sordi gemiti di Suceawa.
VII.
VIII.
IX.
X.
XI.
La notte era alta ancora, quando una bianca figura, rasentando il muro
del giardino, salì sulla spianata e scomparve nella tenda di Nick; una
vecchia cavalla, a cui passando sfiorò la groppa, nitrì festosamente, e, dai
vicini accampamenti, tutte le altre bestie le risposero.
La campagna dormiva e russava nel canto vasto dei grilli e delle
cavallette; appena impallidivano alcune stelle in scialbo orliccio, che
profilava i ciglioni oltre la Sesia.
L’astro di Venere, al confine dell’orizzonte, ammiccava maliziosamente
all’apparente quiete delle tende e a cento mani solerti, affaccendate
all’ultime prede sulla collina di Peveragno.
Poco dopo il pianeta si tuffava nell’ombra dei boschi, e, come ad un
segnale, gli accampamenti si ridestavano. Le tende si ripiegavano in
fretta nei carri stipati di cenci, di sciarpe, di donne, di bambini, si
disponevano in fila, scendevano sulla strada; la marcia si ordinava
rapida, silenziosa.
Quando, verso l’alba, il conte si affacciò alla finestra della torre, la
carovana era lontana parecchie miglia, si svolgeva come un lungo
serpente nella pianura, si tuffava nei vapori densi delle risaie, spariva. Il
torrente del destino aveva ripreso il suo limo.
Unica traccia della loro dimora, le cime scalvate dei colli, simili a lembi
di deserto e di barbarie caduti in mezzo ai colti. Come dopo un
temporale, nei vigneti e nei campi, i contadini verificavano i danni
lasciati da quel flagello umano, e sorgeva un coro d’imprecazioni,
consueta espressione dell’odio che la razza, maledetta per un arcano
peccato originale, suscita sul suo cammino.
Il conte Emanuele, triste, oppresso dal pensiero di quella infinita
sciagura, discese nell’appartamento di Luscià, povera rondinella che lo
scirocco del destino aveva buttato sotto il suo antico tetto feudale...
Trovò la camera vuota: Luscià era scomparsa, portando seco le sue gioie
e il suo abito da sposa.
Egli non smaniò, non fe’ ricerche; chiuse nell’anima questo disinganno
cogli altri, e si rassegnò a portarlo.