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2. “We will be the easiest pharmacy retailer for customers to use” is an example of an organization’s
__________.
a. Strategy
b. Competitive priority
c. Mission statement
d. Statement of belief
Ans: C
Learning Objective: LO 2.1: List the properties of a mission statement and how corporate strategies are
developed
Cognitive Domain: Knowledge
Answer Location: Corporate Strategy Development
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Application of knowledge
3. A company that produces products in high volume would most likely be trying to compete on which
competitive dimension?
a. Cost
b. Quality
c. Customer Service
d. Flexibility
Ans: A
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Comprehension
Answer Location: Operations Strategy Choices
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Application of knowledge
4. A company that produces products with a wide variety of customization options would most likely be
trying to compete on which competitive dimension?
a. Cost
b. Quality
c. Customer Service
d. Time
Ans: C
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Comprehension
Answer Location: Customer Service
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Application of knowledge
5. The use of economies of scale most closely aligns with which competitive dimension?
a. Cost
b. Quality
c. Customer Service
d. Time
Ans: A
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Knowledge
Answer Location: Cost
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Application of knowledge
6. Attempting to compete on the basis of quality will most likely result in which of the following?
a. Lower costs
b. Lower levels of customer service
c. Higher amounts of product returns/warranty claims
d. Higher costs
Ans: D
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Comprehension
Answer Location: Cost
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Application of knowledge
8. Which of the following is least likely to be a core competency of a fast-food restaurant chain?
a. Cost reduction leading to low-cost product
b. Inventory control to ensure adequate product availability
c. Flexibility to allow customers many customized product offerings
d. Quick preparation of product
Ans: C
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Instructor Resource
Wisner, Operations Management
SAGE Publishing, 2017
10. Which of the following describes the capabilities and skill sets possessed by a firm that distinguish the
firm from its competition?
a. Core competencies
b. Business intelligence
c. Analytical toolbox
d. Managerial levers
Ans: A
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Knowledge
Answer Location: Core Competencies
Difficulty Level: Easy
AACSB Standard: Application of knowledge
11. High-volume and automated processes most closely align with which combination of operations and
firm strategies?
a. Facility Location, Customer Service
b. Purchasing, Quality
c. Process Design, Cost
d. Product Design, Quality
Ans: C
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Analysis
Answer Location: Operations Strategy Choices
Difficulty Level: Medium
AACSB Standard: Systems and processes in organizations
12. Innovation and use of new technology most closely align with which combination of operations and
firm strategies?
a. Process Design, Customer Service
b. Purchasing, Cost
c. Logistics, Customer Service
d. Product Design, Quality
Ans: D
Learning Objective: LO 2.2: Describe how companies create operations strategies for competitive
advantage
Cognitive Domain: Analysis
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Fra’ migliori storici del secolo rimangono il già detto Bettinelli e Carlo
Denina (1731-1813) da Revello in Piemonte. Avendo egli in una
commedia criticato l’insegnamento gesuitico, fu sbalzato di cattedra, e
con ciò messo in reputazione. Perdoniamogli le Rivoluzioni di Germania
e le Vicende della letteratura; ma nelle Rivoluzioni d’Italia diede la
prima storia compiuta del nostro paese, mal raccontata e tutta a
digressioni, pure esatta nei fatti, bastantemente arguta nel vedere le cause
e le conseguenze, e meno filosofista che non portasse la moda.
Allegammo di questi scrittori abbastanza per chiarire come poco
accurassero la lingua, e i Toscani stessi non conoscevano il pregio della
parlata. La Crusca dormiva; l’edizione nuova, assistita dal Bottari, non
migliorò dalle antecedenti se non per aggiunte. Alcuni seguitavano a
spigolare ne’ classici, frivola e facile maniera d’arricchire d’inerte
opulenza; dove notevoli sono le Voci italiane non registrate dalla Crusca
del Bergamini veneziano, modello e miniera dei moderni, altri de’ quali
riprodussero il paradosso del Bastero, che la lingua nostra derivi dalla
provenzale. Meglio il nizzardo Alberti da Villanova eseguì un dizionario,
dove trovassero luogo anche le parole di scienza e quelle di arti, raccolte
dalle bocche; e riuscì meno male, perchè da solo. Il Rabbi compilò i
Sinonimi e aggiunti italiani. Il Manni occupò tutta la vita in trascrivere e
annotare classici.
Nojati dalle incertezze cagionate dal valersi d’una lingua nella quale non
si pensa, molte anche persone d’ingegno e di cultura scriveano in
dialetto; e forse in tutti quelli d’Italia fu scritto; il siciliano un vero poeta
possedette in Giovanni Meli.
Prevalsa la francese, forestieri che adoprassero la nostra lingua non
rammento; pur era coltivata ancora di fuori: Paolo Rolli stampava autori
nostri in Inghilterra, dove il Baretti si lagna che troppe sconvenienze gli
Italiani riproducevano; Annibale Antonini salernitano fece a Parigi un
dizionario, una grammatica e molte edizioni di classici; Lodovico
Bianconi, filosofo e medico bolognese, nel 1718 cominciò ad Augusta un
giornale francese Novità letterarie d’Italia; e in francese scriveano molti
nostri, principalmente piemontesi.
Del resto da una parte si pretendeva la purezza consistere tutta ne’
vocaboli abburattati; da un’altra negavasi al dialetto più bello il
privilegio di lingua nazionale. Alcuni dunque erano pedanti; come il
Corticelli, l’Amenta, il Biscioni, il Gagliardi, il Buongiuoco, il Branda, il
tirolese Vannetti. Il sanese padre Alessandro Bandiera, unici tipi del bello
scrivere proponendo il Boccaccio e se stesso, presunse raffazzonar il
Segneri e mostrare come avrebbe dovuto, a quella nobile facilità,
surrogare frasi svenevoli e periodare contorto. Altri buttavansi al
libertino, come la più parte dei Lombardi e i traduttori e gli scrittori di
scienze, riconoscendo unica regola l’uso, ma quest’uso deducendo dal
proprio paese ciascuno, dal parlar ibrido della società educata sui
Francesi; e ripeteano cose, cose, quasi le cose potessero dirsi senza le
parole. L’erudito conte Gian Francesco Napione (1748-1830), nell’Uso e
pregi della lingua italiana, sconfortò i suoi Piemontesi dallo scrivere
latino e francese, e dettò regole che al Cesari parvero lasse, rigide a
Melchiorre Cesarotti 1730-1808. Questo professore padovano, la propria
infelice pratica volle ridurre a teoriche nel Saggio sulla filosofia delle
lingue, ove le dottrine di Dumarsais e De Brosses applica all’italiano,
elevandosi sopra la ciurma de’ grammatici per considerare la favella in
relazione coll’universo sapere; combatte quei che credono morta la
nostra, e vuole la si ringiovanisca accogliendo vocaboli e forme di
stranieri; perchè l’innovazione non trascenda, sia regolata da un consesso
di dotti. Disastrosi suggerimenti, e rimedio meschino.
Il Cesarotti va contato fra i rinnovatori perchè osò venire alle braccia coi
sommi, e credersene trionfante. Educato in molteplici studj e diverse
favelle, ai circoli veneti, lasciantisi rimorchiare dalla facile coltura dei
Parigini, egli infuse il gusto francese, rendendosi caposcuola
coll’imitare. Dettò relazioni accademiche non nojose, con gusto giudicò i
contemporanei: insensibile però alle bellezze ingenue e virili di una
letteratura primitiva, tradusse Demostene con veste moderna e fronzoli
pedanteschi, egli che pure aborriva le affettazioni. Non bastandogli avere
di fastosa poesia rimpinzata l’atletica nudità di Omero traducendolo,
volle in una Morte d’Ettore ridurre il poeta meonio qual lo vorrebbe la
colta società [271]; e guardandolo dal lato men filosofico, cioè civiltà
riconoscendo solo nel raffinamento, gli attacca frivole critiche, ne
ammorza le vivezze, ne mutila le sublimi audacie; torna dignitosi gli Dei,
ragionevoli gli uomini; surroga la politezza all’eloquenza, il cerimoniale
all’immaginazione: laonde a Roma esposero la caricatura d’un Omero
vestito alla francese, con abito listato, scarpe a punta, gran parrucca, due
lunghi ciondoli d’oriuolo, e in mano l’Iliade italiana. Chi vuol giudicare
i sommi deve trasvolare a certe forme caduche, ed apprezzare il vero lato
umano, la rivelazione della natura nostra: chè un peccato contro le
convenienze storiche o etnografiche è veniale, mentre è mortale se
ripugna all’indole e al cuore umano.
Meglio riuscì con Ossian, poeta caledonio contemporaneo di Caracalla,
di cui Macpherson pretendea avere raccolto dalle bocche de’ montanari
le rapsodie, le quali il secolo che impugnava la credibilità del Vangelo,
accettò e giudicò pari a quelle d’Omero e d’Isaia, se non anche superiori.
Il Cesarotti nel tradurlo poteva impunemente sbrigliarsi, e ornare a suo
modo le mediocrità dello Scozzese; e i forestieri stessi confessano ch’e’
val meglio nella versione del nostro, il quale nei confronti tra il bardo
caledonio e Omero, decreta quasi sempre la palma al primo. Italia n’andò
pazza, e le nostre muse gettato a spalla l’Olimpo e Imene e le Grazie, più
non ripeterono che nebbie ed ombre e abeti e arpe scosse dal vento e
fantastiche melanconie.
Il qual fatto rammenta le burle che agli ammiratori de’ Classici
preparava Giuseppe Cades, improvvisando disegni in qualunque stile gli
si chiedesse, e che poi agl’intelligenti pareano Rafaelli e Michelangeli.
Anche Casanova scolaro di Mengs fece capitare a Winckelmann due suoi
quadri, come scoperti ne’ contorni di Roma; ed esso li comprò per tesori
antichi, e ne diè pomposa descrizione nella sua storia. Carlo III fece
arrestare per ladro uno che vendeva pitture di Ercolano, le quali
riscotevano la meraviglia degli antiquarj e il denaro degl’Inglesi; ma il
supposto ladro provò che erano sua fattura, e di simili ne eseguì stando in
prigione. Oh adoratori dell’antico!
Gaspare Gozzi 1713-86 conte veneziano, figlio della poetessa Angela
Tiepolo, fratello di Carlo poeta, con sorelle poetesse, viveva in un
«ospedale di poeti», circondato da angustie domestiche, viepiù cresciute
quand’egli «apprese da Petrarca a innamorarsi,.... e s’ammogliò per una
geniale astrazione poetica» [272] con una Bargagli, la quale recogli per
unica dote campi d’Arcadia e il nome d’Irminda Partenide, e insegnava a
fare versi a tre figliuole, ed ajutava il marito a comporre e tradurre, ma
lasciava a capopiedi l’economia. Pertanto Gaspare fu costretto
abborracciare traduzioni moltissime e disuguali; fin ponendo il proprio
nome a lavori d’inesperti, e così svaporare una potenza poetica, non
inferiore a verun altro, come mostrò nei Sermoni. Con volto lungo,
pallido, malconcio, ma aria ingenua, occhi lenti eppure significanti
ingegno, guardava, rideva, e a questo modo formò l’Osservatore, serie
d’articoli vivaci, che titillano l’orecchio, ma lasciano l’animo vuoto, nè
tampoco ritraggono gli ultimi tempi di quella repubblica, dissipandosi in
novelluccie e mariolerie generiche e scolorate. Egual indole appare ne’
moltissimi altri suoi lavori, in lingua però meglio corretta e stile sobrio e
a modo: perocchè declamava contro i poeti, che insofferenti d’ogni
regola, avean ridotta l’arte a una canna di bronzo applicata ad un
mantice, sicchè facesse gran rumore; e richiamava alla semplicità.
L’accademia de’ Granelleschi (pag. 496) proponeasi medicare il gusto
con scede villane, e col far guerra accannita al Chiari, al Goldoni, ai versi
martelliani, alle affettazioni misteriose; e tanto quanto ravvivava l’amore
del toscano, della vivacità, della naturalezza. Di questa han bisogno
supremo e nella testura e nell’esposizione le favole, e talvolta ne hanno
quelle del Pignotti, e spesso colore e grazia: ma quantunque toscano,
manca d’atticismo, dà nel nuovo e nel francese, in luogo della bonarietà
mette l’epigramma, oltre un’impazientante lungaggine, la
sovrabbondanza d’epiteti, la monotonia dei metri. Più semplici, meno
eleganti sono quelle del Bertola.
Gli Animali parlanti di Giambattista Casti (1721-1802) da
Montefiascone, sono imitazione d’imitazione, sazievole come dev’essere
una favola di ventisette canti, con politica da caffè e stile da
improvvisatore. Così la penso io; ma è di moda l’ammirarlo. Meretricio
pretaccio, portava in giro novelle da postribolo, vivaci drammi giocosi,
poverissime liriche, e un Poema Tartaro, appetito per allusioni agli
amorazzi e agl’intrighi di Caterina di Russia [273]. Eppure Giuseppe II
l’amò, ed or l’incitava a mettere in canzone il povero re di Svezia sotto la
figura di re Teodoro; ora di comporre un dramma dopo che n’avea fatto
far la musica (Prima la musica poi le parole): ora rideva seco a spalle
della czarina; e se qualche momento lo scherno paressegli soverchio, gli
dava trecento ungheri perchè andasse a fare un viaggio, poi presto il
lasciava tornare, e volealo successore al correttissimo Metastasio come
poeta di Corte [274]; e il ministro Kaunitz lo metteva a fianco di suo figlio
in un viaggio per Europa. Careggiato da quelli per cui la letteratura è un
passatempo e il letterato un buffone, egli varcando di sala in sala, di
Corte in Corte, in ciascuna cuculiava le altre, talchè infine tutti i principi
se ne trovarono canzonati [275]. Quand’essi cessarono di poter pagare,
ricoverò all’ombra della Repubblica francese e finì altre sudicerie,
cinicamente terminando insieme di vivere e di burlare.
A contrapposto gli metteremo Gian Carlo Passeroni (1713-1802)
nizzardo, eccellente prete e grossolano, che rimò capitoli a profluvio e
favole, ma principalmente una Vita di Cicerone in centun canto, ove (al
modo che Sterne imparò da lui) coglie ogni appiglio per digredire sui
costumi, con lingua sempre facile e corretta, e una bonomia che lo fa
caro, per quanto la schiettezza discingasi in inurbanità e la scorrevolezza
in una spensata verbosità, che toglie punta alla satira, sapore ai sali.
Ed altri s’arrabbattavano per isfangarsi col mettersi sopra orme altrui.
Giovanni Fantoni di Fivizzano (1755-1807), arcadicamente Labindo, si
fece oraziano fin ne’ metri e nelle frasi, bizzarramente mescolandovi
concetti e modi ossianeschi; perchè Flacco imprecò ai primi naviganti,
ed egli a quei che tentavano «l’inviolabile regno dei fulmini»; applause a
Rodney, a Vernon, ad Elliot ammiragli inglesi, a Washington che «copre
dai materni sdegni l’americana libertà nascente»; sentì che i guaj d’Italia
venivano dalla scostumata sonnolenza; promette, se «il turbo errante
delle guerre transalpine dal sabaudico confine minacciando scenderà»,
volere nuovo Alceo «difender dai tiranni la tremante libertà»; le ultime
odi dedicò «a coloro il cui nome e le cui mani non si contaminarono
nell’ultimo decennio del secolo XVIII».
Degl’Inglesi al contrario si rifece Angelo Mazza parmigiano (1741-
1817), che, come lui, tocca i fatti moderni, sfugge la negligenza
frugoniana e l’ostentato barbarismo, sfoggiando dottrine per cantare Dio,
l’anima, l’armonia, e creandosi difficoltà pel gusto di superarle, come
nelle stanze sdrucciole ove gli rimase il primato; e drappeggiandosi nelle
circonlocuzioni, si sostiene in un’elevatezza che dà nell’oscuro e
somiglia a nobiltà. Gli fusero una medaglia col titolo di Homero viventi,
e da se medesimo assicuravasi l’immortalità. A scuola migliore si nutrì
Lorenzo Mascheroni (1750-1800), matematico, che invitando a visitare il
museo di Pavia la poetessa Suardi, fra gli arcadi Lesbia Cidonia, formò il
migliore de’ tanti poemi descrittivi e didattici d’allora.
In un secolo fiacco, le migliori poesie sono le satiriche, la più potente
ispirazione venne da sdegno. Già indicammo i sermoni fieri di Settano e
i placidi del Gozzi. Ne fece alcuni sentiti ed espressi robustamente
Giuseppe Zanoja d’Omegna, secretario all’Accademia di belle arti
milanese. Angelo d’Elci nato a Firenze «ove penuria ha splendide
apparenze», visse in molte città, poi al rompere delle rivoluzioni ricoverò
a Vienna e v’ebbe ricche nozze e tomba, e a Firenze regalò una preziosa
raccolta d’edizioni. Satireggiò con robusto andamento, ma
epigrammatico e sconnesso; vuol terminare l’ottava con arguzie; per
istudio di brevità riesce oscuro: poco si legge perchè sopravvisse ai
costumi che avea beffati, e ci par migliore nelle satire latine.
Più alta lode v’acquistò Giuseppe Parini (1729-99), abate milanese, che
fastidendo la smorfiosa eleganza, la scipita scorrevolezza, l’inacquata
facilità de’ contemporanei, si fece superbo, dignitoso, stringato; ove
passando misura, dal leggiadro va nel contorto, dal nobile nell’insolito, e
di latinismi e di perifrasi ed artifizj annuvola sentimenti destinati alla
moltitudine. Ma fu forse il primo da Dante in poi, che di proposito
assumesse di togliere la poesia dalle corruttrici futilità, per renderla
coadjutrice all’incivilimento, espressione della società, banditrice degli
oracoli del tempo. Ad ogni sua ode prefigge uno scopo sociale; più
ancora al Giorno, ove ironicamente descrive la vita effeminata dei
giovani signori lombardi, raffacciandovi l’eguaglianza naturale degli
uomini, il rispetto dovuto ai servi e alle arti utili. Non era di que’
mediocri che lasciano l’arte al punto dove la trovano; e quando il Baretti
lesse que’ versi, confessò gli faceano vincere la sua antipatia per gli
sciolti; e il Frugoni esclamò: — Perdio! mi davo a intendere d’esser
maestro, e mi accorgo che non sono tampoco scolaro». Infatto il Frugoni
trattava di vena qualunque argomento gli si affacciasse; e finito lo
strimpello della sua lira, metteva nel dimenticatojo e il soggetto e il
modo con cui l’avea trattato. Al Parini era mestieri di lunga meditazione,
stento paziente, anni di riposo; e mentre i primi suoi getti sono
meschinità, che solo un improvvido editore potè voler recare in luce, col
ritoccare e soprattutto levare giungeva a quella perfezione che tanto lo
avvicina a Virgilio.
E collo stento pure e collo sdegno arrivò a grandezza Vittorio Alfieri
(1749-1803) conte astigiano. Il bisogno di vedere gli atti e le relazioni
della vita umana atteggiati ai nostri occhi da personaggi, diede origine
alla drammatica; ma il rappresentare un conflitto d’accidenti e passioni e
caratteri, che produca azione e riazione, viluppo poi catastrofe,
costituisce il sommo dell’arte in un’adulta civiltà. Se fa parodia del
presente, è commedia: se offre l’uomo d’altri tempi alle prese colla
sventura, è tragedia; degna soltanto allorchè s’addentra nella natura
umana e nel governo provvidenziale del mondo.
Primi i Greci intesero la distinzione del tragico dal comico, e come
l’essenza ne sia costituita dal diritto morale della coscienza, e dalle
facoltà che determinano il volere umano e l’azione individuale. Nella
loro tragedia i personaggi, fusi d’un pezzo come bronzo, operano in virtù
della propria indole, non in vista di merito o di vizio; e il coro esprime la
coscienza morale nel carattere più elevato, che rifugge ogni falso
conflitto, e cerca un esito alla lotta.
I nostri Cinquecentisti poco conobbero di quei sommi, e s’attennero
piuttosto a Seneca, misero espositore di massime esagerate in versi
affettatamente concisi o in azioni assurdamente atroci. Nessun genio qui
nuova via aperse, ma collo studio e coll’imitazione si arrivò fino alla
Merope, ove Scipione Maffei mostra intelligenza dell’antichità, orditura
semplice, esposizione pura. La varietà degli studj impedì l’autore da
quella perfezione di forme, che perpetua le opere; Voltaire lo felicitava
come il Varrone e il Sofocle d’Italia; e intanto per gelosia sotto finto
nome ne pubblicava una virulenta censura. Le altre tragedie del secolo,
non escluse quelle del Conti, appena meritano ricordo, e sol come
tentativo non va dimenticato il Galeazzo Sforza di Alessandro Verri, che
osò spastojarsi dalle regole classiche per accostarsi a maggiore
imitazione della natura, qual sogliono Spagnuoli e Inglesi.
Vanno classificati a parte i teatri de’ Gesuiti, che in ciascun collegio
aveano un repertorio con tragedia, commedia, opera, ballo, dialoghi,
rappresentati dagli alunni stessi. N’erano esclusi l’amore e gli altri
sentimenti pericolosi, e fin le donne; per lo più sacri i soggetti; il che
poteva avviare quella riforma, cui dovrà pur giungere il teatro, di non
stimolare le passioni, ma chetarle e dirigerle. Le tragedie latine di
Bernardino Stefanio della Sabina gesuita, levarono gran rumore come
fossero un rinnovamento di questo genere, e se n’ha a stampa il Cristo, la
Flavia, la Sinforosa [276]. Oltre le italiane del padre Granelli, e
l’Eustachio del bresciano padre Palazzi, e la Sara in Egitto del padre
Ringhieri, sette di Giuseppe Carpani romano furono ristampate più volte.
Il Paciaudi, reggendo l’Università di Parma, vi avea ridesto l’uso di
recitare in latino, e si rappresentarono il Trinummus di Plauto, le Nubi di
Aristofane, imitate dal Martirano, e il Cristo dello stesso Martirano, che
si trovò molto sconveniente. Ivi pure si era cercato restaurare il teatro
coll’istituire un premio; ma non l’ottennero che mediocri, poi
s’interruppe fino al 1787, quando fu data la medaglia al Monti per
l’Aristodemo, con un viglietto di mano del duca.
Alfieri, educato nell’indipendenza d’un ricco, con istudj saltellanti,
consuma la gioventù negli errori d’uomo non ordinario che ancora non
ha trovato ove fissarsi; e poichè all’attività sua nè la patria nè i tempi
offrivano sfogo, s’appassiona per la libertà, ma non di un culto serio che
accetta grandi abnegazioni, bensì declamatrice, convulsa negli atti, nel
fondo astratta quale allora si predicava, e unita a tutte le passioni e le
debolezze aristocratiche. Ai servi, al secretario non parlava mai che per
cenni; facile a strapazzate e calci, che poi riparava con denaro. Sol tardi,
fra le dame e i cavalli volle anche la distrazione dello scrivere, e piegò di
preferenza alla tragedia. Non ne sapeva se non quanto avea visto sui
teatri, non conosceva nè gli Spagnuoli, nè i due grandi tedeschi suoi
contemporanei, e appena Shakspeare dalla cattiva traduzione francese,
cui ammirò e dimenticò per restare originale. A sentirlo, non conosceva
nemmeno i capolavori francesi; eppure è affatto francese nella forma, nel
cercare la purezza fin a rischio della monotonia, nel rattenere
l’immaginazione da ogni volo romantico, nel fare retoriche le passioni:
se non che, invece della monarchia, egli idolatra la repubblica.
Già innanzi negli anni s’applicò al greco per vedere i classici
nell’originale [277], dai quali però quanto scostossi! Lo stile dei Greci è
ingenuo, il suo tutt’arte ed enfasi; per essi l’intreccio è il mezzo onde
manifestare i caratteri e i costumi, per lui è il fine; mancano anch’essi di
complicazioni, ma vi suppliscono colla varietà degli accessorj e colla
ricchezza delle particolarità. La conoscenza dell’uomo vero, la filosofia,
il gusto, la misura, che primeggiano ne’ Greci, maestri di vera semplicità
e vera grandezza, mancano all’Alfieri: il dialogo di lui non ha mai
l’agevole movimento, nè l’abbandono somigliante alla natura, quale nei
Greci: questi vanno scuciti nell’orditura, egli sempre artatamente
concatenato: in quelli tutto vive e si muove, in lui il meccanismo
talmente si complica da arrestare l’azione per non lasciar luogo che alle
parole. Mentre gli eroi dei Greci non sono mai indecisi, operando pel
proprio carattere o per la fatalità, l’Alfieri s’accostò ai Francesi facendoli
abbondare di parole, invece di quel che costituisce il dramma, cioè la vita
operosa: quel patetico che deve svolgersi nella rappresentazione dei
caratteri, invano gli si cercherebbe; vagheggia l’ideale al punto di cadere
nell’astratto, e lo riduce alla soppressione del vero; e in luogo di
personaggi reali, misti di vizj e di virtù, colle passioni dell’uomo in
generale, e de’ tempi e di loro in particolare, non trovi sempre che
l’autore, eroi senza antitesi, senza esitanze, senza gradazione, tutti d’un
pezzo: un tipo di tiranno, di donna, di sacerdote, di marito, comune a
tutte le età e le nazioni. Come la sua scena è indeterminata a segno da
crederla ora piazza comune, ora gabinetto recondito, così generiche sono
le tinte, nè Cosimo personeggia altrimenti che Creonte, nè la Pazzi che
Antigone o Micol, senza la varietà delle gradazioni che fa difficile il
dipingere le donne: la concisione stessa, la vulgare forza delle
interjezioni è un’infedeltà, esprimendosi con essa tanto il taciturno
Filippo II, quanto il garrulo Seneca.
Porlo a ragguaglio di Shakspeare varrebbe paragonare una formola
algebrica colla persona viva: ma anche i suoi contemporanei Schiller e
Göthe per dotta intelligenza penetrano nell’anima e ne’ tempi; egli,
troppo scarso erudito per conoscerli, troppo rigido per potere
conformarsi all’indole dei secoli e degli uomini, dalla storia non toglie a
prestanza che nomi, poi personaggi e avvenimenti cola entro un modello
uniforme, non mai pensando fare della tragedia nè il ritratto di un tempo,
nè lo svolgimento d’una passione.
Eppure que’ Francesi, dai quali avea dedotto e i pensamenti e l’arte, esso
li sprezza ed esecra [278]; sprezza Rousseau, benchè lo copii; sprezza i
predecessori; sprezza l’Italia; sprezza i filosofi e gl’increduli, non meno
che i devoti e gl’ignoranti; sprezza la nobiltà donde usciva e la plebe da
cui aborriva; sprezza i re e il pubblico, mentre degli uni e degli altri
sollecita il favore. Ogni passione in lui si converte in rabbia, rabbia di
studio, rabbia di libertà, rabbia d’amore; e dal disprezzo e dalla bile
attinge un’energia, così opposta alla fiacchezza laudativa del suo tempo,
che parve originalità.
E l’originalità sua fu tutta critica; vedere i vizj del suo tempo, e volervi
dare di cozzo. Perchè si sdilinquiva alla soavità di Metastasio e ai lezj
de’ Frugoniani, egli si fece aspro, epigrammatico, rotto, inelegante, di
ferro (come diceva) dove gli altri erano di polenta. Perchè nei Francesi
tutto era eleganza d’espressione, arguzia di concetti, lusso di poesia,
raffinata galanteria, insipida abbondanza, futile ricerca del naturale, esso
vi oppose una nudità gladiatoria, un assoluto rigore di volontà; e alle loro
cortigianerie di parole e di sentimenti un odio de’ tiranni che si rivela fin
nello stile, con tanta retorica e sì poca precisione. Perchè gl’Inglesi
mettono il triviale accanto al sublime, egli non devierà mai una linea
dalla dignità. — Volli, volli sempre, fortissimamente volli» dic’egli [279]:
ma che un genio tutto collera e dispetti e disordinata vita s’imponesse
lavori freddi, simmetrici, spogli d’azione, sarebbe inesplicabile ove non
si conoscesse che è una passione anche l’andare a ritroso. Si direbbe che
considera le barriere come appoggi, onde si piace a moltiplicarle; ripone
merito nell’assoggettarsi a tutte le regole; non ha il bisogno d’esplorare
soggetti nuovi, ma piglia i già trattati, col proposito di correggerne i
difetti; le riforme riduce a negazioni, vantando che non introduce
personaggi in ascolto, non ombre visibili, non tuoni o lampi o agnizioni
per mezzo di viglietti, di croci, di spade, non gli altri mezzucci soliti; ma
gli accade come a molti, di prendere per difetto le qualità che non
possiede.
In fatto la tragedia ridusse a scheletro; non mai dipingere, non mai per
amore di bellezza divagare dalla rigida unità, per la quale egli non
intendeva il convergere de’ fatti e de’ sentimenti molteplici; bensì ad un
proposto fine spingersi come s’una strada ferrata, senz’arrestarsi a un bel
prospetto o a cogliere un fiore. — La mia maniera in quest’arte
(dic’egli), e spesso malgrado mio la mia natura imperiosamente lo vuole,
è sempre di camminare quanto so a gran passi verso il fine; onde tutto
quello che non è necessarissimo, ancorchè potesse riuscire di sommo
effetto, non ve lo posso assolutamente inserire». L’innovamento suo si
ridusse dunque ad escludere gli accessorj della tragedia francese, nulla
surrogandovi però. I confidenti e gli attori secondarj, operanti per
devozione verso i loro principali, anzichè per sentimento proprio, e
scoloriti perchè riflesso altrui, e’ gli sbandì [280]; ma i personaggi suoi
fanno le loro confidenze al pubblico ne’ soliloquj. Ridotti a
pochissimi [281], eliminato ogni episodio, sono costretti alla verbosità, ad
analizzare se stessi, e rivelare i proprj sentimenti quand’anche si tratti di
profondi dissimulatori, come Filippo II, Nerone che «parea creato per
nascondere l’odio sotto il velo delle carezze» (Tacito); a dire quello che
faranno, invece di farlo attualmente alla guisa de’ tragici tedeschi e
spagnuoli.
E sull’arte si arrestano i giudizj che delle sue tragedie danno sì egli, sì
qualche critico: fra’ quali possono ancora leggersi e il Capacelli abile
nella scena, e il Calsabigi che conosceva il teatro greco, inglese e
francese, senza perciò elevarsi a riflessi generali, e de’ costui consigli si
giovò l’Alfieri, il quale tre volte variò maniera, segno che non aveva ben
divisata la sua via; ciascun’opera sua fece e rifece, perchè non lancio di
genio, ma fatica di critica; il Filippo schizzò in francese «per la quasi
totale dimenticanza dell’italiano, mal saputo dapprima»; poi tradusse in
prosa italiana, poi verseggiò rifacendolo ben quattro volte, infine
stampollo, poi lo ricorresse di nuovo, fin tre e quattro volte modificando
un verso.
Pari fatica adoprò attorno alla forma di ciascuna: ma «chi ha osservato
l’ossatura d’una delle mie tragedie (dic’egli) le ha quasi tutte osservate.
Il primo atto brevissimo; il protagonista per lo più non messo sul palco
che al secondo; nessun incidente, molto dialogo; pochi quart’atti; dei
vuoti qua e là nell’azione, i quali l’autore crede d’avere riempiti o
nascosti con sua certa passione di dialogo; i quinti atti strabrevi,
rapidissimi, e per lo più tutti azione e spettacolo; i morenti brevissimo
favellanti; ecco in iscorcio l’andamento similissimo di tutte queste
tragedie».
Come è poi orribile il mondo ch’egli dipinge! catastrofi sempre
spaventose, tiranni che l’inferno non vomitò i peggiori, ribaldi che tali si
professano. Solo la fatalità, cioè la punizione irreparabile d’un Dio, può
far tollerare sulla scena greca alcuni fatti, ripugnanti dalla moderna,
come una fanciulla invaghita del proprio padre, o il padre che sacrifica la
figlia, o la madre che i figliuoli trucida. Quanto alla tragedia romana,
sebbene nella Virginia e nei due Bruti abbia osato introdurre il popolo,
dovette ricorrere a passioni personali ed esagerate per destare
quell’interesse che un’enfasi vulgare e una nobiltà fittizia non poteano
trarre dalle pubbliche. E anche nelle private non deriva che dal contrasto:
ora come concederlo a una Rosmunda, nelle sue brutali passioni non
arrestata da delitto o turpitudine nessuna? e come reggere a quei cinque
atti di continuo furore? [282]. Nello scopo allora vulgare di vilipendere i
papi, le declamazioni della Congiura dei Pazzi dicono meno che non la
nuda storia di quel fatto. Il suo confessarsi inetto a soggetti moderni
ritorna alla necessità che in questi v’è di particolareggiare, e togliersi
dalla generalità che negli antichi è permessa dalla lontananza. E appunto
il Saul sorvola agli altri suoi drammi, perchè il poeta non isdegnò
scendere alle specialità del popolo ebreo, e avventurarsi a quel fare
lirico, da cui altrove inorridisce.
Ben disse egli dunque d’avere piuttosto disinventato che inventato; diede
all’Italia un teatro nuovo, ma non nazionale: eppur sempre piace, perchè
vi regna quel che manca a’ suoi contemporanei, l’emozione; piace viepiù
recitato, perchè l’attore può introdurvi il sentimento della verità istorica e
umana che manca all’autore, e colle pause e coll’espressione del viso
infondervi torrenti di poesia, di cui sono poco più che accenno le parole
di lui. Poi la tragedia d’Alfieri non è puramente letteraria; v’è il fermo
proposito di gittare razzi fra la letteratura, sopita in grembo a molle
eleganza; v’è la politica, ingrediente insolito fin allora; e a lui vorrà
tenersi conto dell’avere incessantemente parlato d’Italia, d’aver voluto
fare la scena ispiratrice di magnanimi sentimenti; sicchè, come scriveva
il Calsabigi, «gli uomini debbano imparare in teatro ad essere liberi,
forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti d’ogni violenza,
amanti della patria, veri conoscitori dei proprj diritti, e in tutte le passioni
loro ardenti, retti, magnanimi».
Se non che sprezzando il suo secolo, egli ricorse al passato; egli,
contemporaneo di Washington, vide solo Bruto e Timoleone, non
istudiando i progressi nè i bisogni della società moderna; fomenta gli astj
che non producono se non ruine; fa esecrare la servitù, piuttosto che
amare la libertà; rintuzza ogni sensibilità, tranne l’abbominio pe’ tiranni,
sui quali, non già sul popolo, concentra l’attenzione.
Fa sempre effetto una riazione decisa. Fra la pompa sfolgorante dei teatri
dell’Opera, ove gli eroi di Metastasio comparivano cinti da gran corteo
per cantare arie lunghe, facili, molli, tutte idol mio e inique stelle e
abisso di pene, ove si vedea sempre la languida virtù trionfare sul vizio
incredibile, ecco l’Alfieri mostrare una scena nuda, unica, pochissimi
attori, tutti accigliati e convulsi, che parlando a monosillabi
svilupperanno un’azione, terminata impreteribilmente fra ventiquattro
ore, e dove non la virtù, non il vizio trionfano, ma una inconscia
malvagità della razza umana e della civile società. In contraddizione poi
alle commedie, egli mostrava un’altra vita che quella de’ cicisbei o del
caffè, altro eroismo che il battersi in duello o il perdere intrepidamente
un patrimonio al faraone; i pregiudizj restavano scandolezzati, scosse le
credenze, le corone offuscate dall’alito della sua collera; e tutto ciò
contribuiva a farlo scopo dell’attenzione. Applausi furibondi alzavansi in
udire da Antigone,
Non nella pena,
Nel delitto è l’infamia. Ognor Creonte
Sarà infelice; del suo nome ogn’uomo
Sentirà orror, pietà del nostro;
oppure da Creonte:
ed Emone rispondergli:
Acchiusa spesso
Nel silenzio è vendetta;
o quegli altri: