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4^ lezione 19-10-2021

L’esserci consente di lasciare tracce. C’è una strana ricorrenza nei romanzi di fine
ottocento, una metafora, quasi sempre un mollusco che lascia dietro di sé come
traccia una bava, per esempio bava di lumaca compare nelle confessioni d'un
ottuagenario e in Federigo Tozzi, autore che sembra naturalista ma sta nella psico-
narrazione, le sue descrizioni sono piene di crepe, fratture, punti di non coincidenza;
anche de Roberto usa la stessa metafora, qualcosa anche in Pirandello che già si
sposta kafkianamente dal lato dei vermucci. La lettera al padre di Kafka è un testo
decisivo per la scrittura novecentesca, le cui molte corrispondenze si trovano ne la
coscienza di Zeno sebbene Svevo fosse arrivato a Kafka tardi. Esiste nell’aria per
proiezioni d’ombra e territori comuni un immaginario che finisce per essere più
potente dell’autoconsapevolezza degli scrittori stessi: molti finiscono per muoversi
nella stessa direzione inconsapevolmente, non si rendono conto che stanno
riempiendo i loro romanzi, che credono essere ben scritti, di digressioni, punti non
risolti, di contraddizioni che restano aperte, di monologhi interiori, di indiretti liberi.
Verga è uno degli esempi principali, crede di essere perfettamente verista nella
descrizione della casa del nespolo de i malavoglia, ma non è così: la voce d’autore
imprevedibilmente arriva dentro la casa del nespolo. Nel ‘900 accade questo, cioè si
mettono tutti a descrivere ad esempio personaggi brutti: Giacomo Debenedetti, nel
saggio “il romanzo del novecento” parla di un’invasione dei brutti, dei deformi,
degli sconciati (come dice Pirandello). All’improvviso le pagine di narrazione
cominciano a proliferare di brutti: è l’umanità del genere nel darwinismo negativo che
con la corte dei miracoli invade il mondo. L’effetto della prima guerra mondiale è
stato determinante per creare la quantità di rovine che incorniciano il vuoto e che
consentono l’arrivo non solo dei personaggi brutti ma anche di quelli che Francesco
Orlando chiama “oggetti desueti”. Nel ‘900 tutti raccolgono scarti, resti, rifiuti, ossi di
seppia, perché diventa la letteratura un ripostiglio del ciarpame: tutto quello che il
mondo borghese, legato alla logica del conveniente scarta, tutta quella parte di
residui di cose inutili, superate, a volte dimenticate, finiscono dentro le pagine del
romanzo, come se l’ultimo scopo del narratore fosse questo, cioè creare nelle
pagine di carta un rifugio per tutto ciò che non era più funzionale, secondo le parole
di Engels quando parlava con Marx, “cose che non seguono l’imperativo funzionale
del mondo borghese”. Scartato: la logica del guadagno scarta, e i narratori rimettono
quelle cose nella carta. Secondo Orlando non è un caso che proprio nel ‘900 i libri si
riempiono di oggetti desueti, e di essere umani scartati, spinti ai margini, dimenticati.
C’è un gesto che fa Ungaretti durante la prima guerra mondiale in trincea: crea una
mitologia, una storia legata al porto sepolto e allegria, afferma di aver iniziato a
scrivere in guerra (anche se in realtà già aveva pubblicato prima). Il gesto di
Ungaretti non è reale ma è vero (molto più profondo e necessario): vuole che
immaginiamo un soldato in trincea che scopre di essere poeta, e non vuole sparare.
I bossoli erano avvolti dalla carta, Ungaretti gettava via i bossoli e su quella carta
scriveva: questo è il gesto controcorrente dell’uomo del ‘900. Una traccia
importantissima è quella lasciata dalla penna ordigno: la penna stilografica
leggermente inclinata, per quel contraccolpo dei vuoti, non si ha più un sistema di
riferimento unico, delle ideologie dominanti, qualcosa che ci consenta un cammino
lineare, una successione logica e cronologica, non avere più in cielo un Dio.
L’essere umano è diviso, da Freud in poi, prima in tre parti e poi in centomila
pirandellianamente, e fuori la realtà e dentro la relatività ristretta e poi generale
attraverso il sistema della fisica e Einstein: non esiste più un io, un mondo. È la
penna che Zeno Cosini impugna per tutta la scrittura de la coscienza di Zeno, l’unica
cosa che Zeno riesce ad afferrare, è una penna contagiosa, infettiva, la malattia di
Zeno passa attraverso la penna; appena descrive qualcuno, lo infetta, ai nostri occhi
ci sembra malato, e nelle ultime pagine l’intera terra sarà inquinata. La coscienza di
Zeno è una straordinaria, sorprendente e destabilizzante macchina narrativa,
definizione di Lavagetto nella prefazione.
Per capire la penna ordigno di Zeno dobbiamo capire come era la penna vera che
Svevo impugnava (conservata al museo di Svevo e Joyce a Trieste); lavorando
dentro l’immaginario dell’uomo novecentesco vediamo che la struttura metallica con
lamina all’interno era identica a quella degli ordigni bellici della prima guerra
mondiale, per questo la chiama penna ordigno.
Grazie alla struttura straordinaria che mette in piedi Svevo quando nel 1919 decide
di riprendere la penna in mano per fare letteratura: già aveva scritto ben due
romanzi, autopubblicati, alla fine dell’800 ma fu scartato; fu Joyce a spronarlo a
pubblicare la coscienza di Zeno. Gli ultimi critici joyciani stanno recuperando gli
effetti della scrittura sveviana dentro l’Ulisse: uno di questi è un dato meteorologico,
il sole che buca le nuvole e che entra in una giornata nuvolosa. Il lasciare traccia per
effetto di guerra, quando tutto è cancellato ed è rovina, gli scrittori prendono la
penna e si mettono a scrivere come contrappeso alla distruzione, e lo fanno tutti
nello stesso momento, con uno stile simile del quale non tutti sono consapevoli, ma
l’inclinazione è tutta dallo stesso lato. Un mettersi di traverso, andare
controcorrente, essere inconcilati con l’andamento distruttivo del mondo. Gli dicono
che tutto è finito, rovina, e si mettono dal lato opposto a fare da contrappeso,
creando un contraltare di carta, scrivono lettere piene d’amore.
Svevo aveva scritto due romanzi, si trova nella città soglia, sa di essere dentro la
Mitteleuropa, con la psicanalisi che circola 40 anni prima di quando arriverà in Italia,
con Schopenhauer e Nietzsche, fondamentali come letture. Scrive l’inetto, ma
l’editore si rifiuta di pubblicarlo con questo titolo: ma l’inetto non si adatta.
Nel 1902 Svevo nel suo diario scrive di aver abbandonato quella “ridicola e dannosa
cosa” che è la letteratura. Dopo il fallimento di senilità (la condizione della vecchiaia
è cruciale per lo stile di Svevo) aveva deciso di abbandonare la letteratura; dice due
aggettivi che somigliano agli stessi che aveva scritto Manzoni a Cohn, quando gli
aveva consigliato di volgersi al pratico e all’utile, lasciando perdere le lettere. Svevo,
quando decide di rimettersi a scrivere, acquista in filigrana la silhouette di Quijote
che esce “dallo sbadiglio di libri” (come diceva Michel Foucault) e decide di mettersi
fisicamente di traverso per riparare ciò che è distorto, dicendo che è il mondo che
non va nella direzione giusta, non lui. È ridicolo e sublime al tempo stesso, proprio
della narrativa umoristica. Quijote fisicamente scende nel mondo e infatti dà di cozzo
e si rompe il naso: qui sta la differenza secondo Pirandello fra umorismo e ironia,
Quijote si fa male davvero, il sangue è vero. Dice poi che è dannoso, contagioso: a
furia di leggere Quijote finisce per fare la stessa vita della cavalleria che legge, si
imbozzola in un mondo di carta.
Quando Svevo dice che vuole smettere con la letteratura, dà un addio troppo carico
di segni e di attaccamenti per essere definitivo; del resto, rimanda al proposito di
Zeno Cosini dell’u.s, cioè l’ultima sigaretta.
Svevo non smette di scrivere in realtà, cambia verbo per far capire che quello che
sta facendo non ha a che fare con la letteratura sebbene continui a farlo, inizia ad
accumulare foglietti, a scribacchiare (termine quasi onomatopeico, si sente il suono
della penna sulla carta): Mazzacurati dice che si viene a creare una sorta di “foresta
a vegetazione umana” per ben 25 anni; lo chiamano il silenzio di Svevo, nulla è
stato più simile a quella nebulosa di cicalecci, suoni, discorsi epidermici che descrive
Barenghi ne poetici primati, nebulosa da cui nasce il big bang della letteratura, il
parlottare che diventa fare poesia. Accumula tutti questi fogli dicendo “scribacchiate
ogni giorno formiche letterarie, scrivete sempre, non perdere questo esercizio e a
fine giornata buttate pure tutti i fogli ma non smettete mai di scrivere”. Primo Levi
dice “tutto nasce sempre dalla poesia”.
Nel 1919, in una notte buia e tempestosa, Svevo scrive: la penna trascese, una
spinta dal basso verso l’alto, verticale, “la forza antigravitazionale della bellezza”,
esce sulla carta la figura tentennante di Zeno Cosini. Dopo la coscienza di Zeno,
quando ha 70 anni Zeno riprende la penna in mano scrivendo le continuazioni,
quarto romanzo di Svevo. Egli afferma che la vita è veramente vita solo se scritta,
messa su carta, la chiama vita letteraturizzata. È una macchina narrativa
straordinaria perché sulle rovine di guerra, nel 1919, Svevo non ha un lettore alla
sua altezza, pertanto nella macchina narrativa crea un sistema per allenarlo, si
diventa lettore della scrittura novecentesca quando si legge la coscienza di Zeno,
l’autore qui vi costruisce il suo lettore ideale; non c’è nessuno a quei tempi in
Europa che lavori in questo modo così sperimentale.
Dobbiamo tenere presente l’immagine della mano, ultima cosa che uno scrittore
vede, ma anche le poesie di Ungaretti e i romanzi di Pirandello sono pieni di mani.
Come dice Barenghi, appoggiandosi all’antropologo Gottschall, la mano e la storia
sono la stessa cosa, sono due utensili; la letteratura è una cassetta degli attrezzi
che ci consente di sopravvivere, la mano che scrive lascia una traccia, che ha a che
fare con i nostri umori, con il nostro tessuto sanguigno: basti leggere il mestiere di
vivere di Pavese per capire quanto sangue scorre in quell’inchiostro; ma soprattutto
Gregor Samsa, con quel corpo gonfio di liquido nero che è tutte e due le cose,
inchiostro e umor tetro della malinconia, la depressione, quel fondo scuro che si
trova dovunque nella scrittura novecentesca, è allegoria della depressione, che si
trova persino nel principe dell’opera il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Lettura della poesia di Levi che Barenghi pubblica per intero nel suo libro, pag 173.
Parla di secrezione, dice che quello che accade con la mano e la penna è un
secernere, verbo ricorrente in Svevo. Coda di verme schiacciata, umore tetro, bava
di lumaca, è una secrezione che diventa poesia. Nella poesia immagina l’ostrica
perlifera meleagrina che si rivolge all’uomo, perché uno dei meccanismi
dell’antropocentrismo è immaginare e vedere come siamo visti dal di fuori, dagli altri,
ad esempio da un'ostrica che cerca una comunità creaturale, siamo tutti creature del
dolore. Da un granello tagliente, fastidioso che irrita l’ostrica, il mollusco dell’ostrica
attiva un contrappeso, un meccanismo di difesa, calcificando, intorno si un guscio
sempre più tondo e liscio fino a diventare bellissimo, la perla. Barenghi non sa
spiegare in altro modo il mito per gli esseri umani da Vico in poi, dice che è come la
formazione della perla che rende ciò che ci fa male, che è doloroso, ci irrita e lascia
inconciliati liscio, tondo e bello come una perla. La perla si riferisce all’uomo con il tu;
“sangue caldo” vuol dire anche quanto siamo sensibili al dolore e all'irritazione;
“precipitoso e grosso”, perché per un’ostrica che sta sempre ferma noi siamo
itineranti, migranti, siamo precipitosi, facciamo guai, siamo fallibili.

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