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STORIA DELL’ITALIANO SCRITTO

Antonelli

1. GRAMMATICA E LINGUISTICA STORICA, L. Tomasin

1. Questioni preliminari
Nella fase fondante della linguistica come scienza, l’italiano assume un ruolo centrale in quanto oggetto di studio della romanistica e
in quanto l’Italia rappresenti “la Romània in miniatura”: la grammatica storica delle lingue romanze rappresentava la palestra
privilegiata della linguistica. Per Meyer-Lübke il dominio italoromanzo è considerato l’erede più diretto della latinità, mentre quello
galloromanzo è quello che vi si è allontanato di più. Lo stesso afferma Ascoli, accentuando anche l’enorme varietà dialettale italiana:
la grammatica storica italoromanza è inseparabile dalle varietà dialettali, che devono essere confrontate con la varietà letteraria.

2. Le grammatiche storiche dell’italiano: un percorso


2.1 Fino a Rohlfs
Il primo esempio di una sintesi di grammatica storica dell’italiano si ha nel saggio Die italienische Sprache (1888) di D’Ovidio e
Meyer-Lübke, il quale costituisce l’inizio di ulteriori approfondimenti e lavori di sintesi. Il saggio si caratterizza per la sua acutezza
complessive e per la quantità di dati offerti: presenta esempi di autori antichi (Cavalcanti, Dante), ma anche moderni (Ariosto,
Castiglione, Salviati, Galilei). Gli esempi più numerosi si hanno per i dialetti meridionali, dei quali D’Ovidio era esperto. Nel saggio,
alla descrizione fonetica e morfologica dell’italiano, segue quella dei vernacoli. La prima parte è intervallata da excursus che
comparano la lingua italiana con i dialetti. La parte di fonetica e grafica si apre con la trascrizione fonetica del testo di un fiorentino
colto, in cui gli autori colgono il raddoppiamento fonosintattico, la pronuncia [ʃ] per /tʃ/ e la gorgia.
Prosecuzione di questo saggio è la Italienische Grammatik (1890), in cui Meyer-Lübke accredita fin troppo largamente l’azione del
sostrato. Novità sono la trattazione delle questioni accentuali, la parte sulla formazione delle parole ed il modo in cui la trattazione
della lingua comune si integra con quella dei dialetti. La disomogeneità nell’ordine e nel modo in cui i dialetti vi sono trattati,
rispecchia le disparità ancora esistenti nella conoscenza dell’Italia dialettale. Dalla Grammatik di Meyer-Lübke, Matteo Bartoli e
Giacomo Braun traggono una Grammatica storica della lingua italiana e dei dialetti toscani, in cui escludono tutte le varietà non
toscane. In essa si ha un linguaggio più comprensibile ai non addetti ai lavori.
Nel 1949-54 Gerhard Rohlfs pubblica la sua Historische Grammatik der italienischen Sprache, in cui si ha un salto di qualità, sia per
i dettagli che per la struttura dell’opera. La Fonetica si apre con la trattazione comparata dei sistemi vocalici, che trova qui
un’esposizione organica e completa (effetto dei progressi della dialettologia italiana dopo la grande stagione dell’AIS, di cui Rohlfs è
stato raccoglitore). Anche nell’opera di Rohlfs lingua letteraria e dialetti proseguono di pari passo: ogni argomento è trattato prima
nella lingua letteraria e nel toscano, poi nei dialetti settentrionali e poi in quelli meridionali. Rohlfs mostra però delle difficoltà nella
trattazione sintattica dei vari dialetti, evidenti sia nella prima che nella seconda edizione.

2.2 Dopo Rohlfs


Nel 1972, Tekavčić pubblica la Grammatica storica dell’italiano, diversa dall’opera di Rohlfs sia nella struttura complessiva, sia nei
principi dichiarati dall’autore: la grammatica di Meyer-Lübke rappresentava il vertice della fase neogrammaticale, quella di Rohlfs
l’incontro tra grammatica storica e neolinguistica, quella di Tekavčić si concentra sulle dinamiche del mutamento protoromanzo.
Tekavčić travalica la mera descrizione fenomenologica e indaga presupposti, moventi e conseguenze dei fatti osservati. Per Tekavčić
lo studio delle forme e lo studio delle loro funzioni sono indissolubilmente legati. La seconda edizione dell’opera è un fallimento. La
Storia linguistica dell’italiano di Martin Maiden non è una storia della lingua nel senso tradizionalmente inteso in Italia, ma un
tentativo di render conto della storia interna che dai volgari toscani antichi conduce, attraverso la lingua letteraria di età moderna,
fino all’italiano standard. Secondo Maide, l’italiano è cambiato poco dai tempi di Petrarca e Boccaccio ad oggi, soprattutto in
fonologia e morfologia. Afferma che è più opportuno parlare di ‘antico toscano’ che non di ‘antico italiano’, poiché il toscano non era
universalmente accettato come lingua italiana. Nel 2000 Arrigo Castellani pubblica la Grammatica storica della lingua italiana, di
cui, ormai ottuagenario, pubblica solo l’Introduzione, che è più un lavoro conclusivo che di apertura di una nuova analisi. Nell’opera
si distacca dall’impostazione grammaticale tradizionale, coinvolgendo anche la storia culturale (esterna alla lingua). Castellani
sostiene l’identità tra fiorentino antico e italiano. La parte più innovativa dell’opera di Castellani è il capitolo sulle Varietà toscane nel
Medioevo: emerge l’idea che i dialetti confinanti con Firenze abbiano esercitato un grande influsso sul fiorentino già dalla prima
metà del ’300, che si manifesta pienamente nel ’400: quindi bisogna tener conto della componente toscana non fiorentina della nostra
lingua. Le varietà toscane, che occupano la parte maggiore dell’Introduzione, sono descritte sulla base dello spoglio di tutte le
testimonianze note: così Castellani recupera nel microcosmo toscano una complessità drasticamente semplificata dagli altri autori. Il
metodo di Castellano lega linguistica e accertamento filologico diretto, cioè conoscenza puntuale delle testimonianze antiche. Ad
esempio, scopre che la forma sé è l’unica esistente nelle varietà toscane antiche, mentre sei non esiste.

3. Storia, problemi e metodi: alcuni nodi concettuali


3.1 Linguistica storia e geolinguistica
Nella sua Grammatica Rohlfs tenta di concertare il metodo storico con il metodo geografico e con la rappresentazione descrittiva. La
geografia linguistica nasce in polemica con alcuni assunti del metodo grammaticale, come la contrapposizione con la loro prospettiva
dell’immanenza della linguistica, in favore invece di una prospettiva più culturalista. In realtà, secondo Vàrvaro più che un
rovesciamento della prospettiva neogrammaticale, il metodo geografico ne è un’integrazione. L’opera di Rohlfs mostra come queste
professioni di fede e modelli epistemologici contrapposti perdono gran arte della loro portata di fronte all’efficacia o meno dei loro
concreti conseguimenti, mostrando la precarietà delle dichiarazioni metodologiche. Quindi l’opera di Rohlfs rappresenta un
adeguamento dei principi della geolinguistica ai criteri della dottrina storico-comparativa. Non si riesce a trovare né nel metodo di
Schuchardt né nel metodo di Gillieron una chiave alternativa ai metodi storico-comparativi tradizionali. La grammatica storica
rappresenta un adeguamento dei principi della geolinguistica ai criteri della dottrina storico-comparativa (ossia neogrammaticale). Le
due prospettive sono dunque complementari, adatte a trovare soluzioni a problemi diversi.
3.2 Grammatica storica e diacronia
In seguito alla distinzione saussuriana tra sincronia e diacronia, grammatica storica e grammatica diacronica sono spesso usate come
sinonimi. La grammatica storica studia il cambiamento linguistico, ma essa si fonda sulla comparazione di stati simultanei di questo
cambiamento. Nella linguistica romanza, la ricostruzione dei passaggi intermedi tra due fasi note consiste nello stabilire le condizioni
(proto)romanze o preletterarie degli esiti attestati. Considerare il mutamento linguistico come unica posta in gioco della grammatica
storica è riduttivo.
La grammatica storica di Rohlfs è di nuovo un eccellente esempio per respiro e approfondimento. Non si può dire che il mutamento
linguistico, ossia un qualsiasi segmento temporale posto tra l’età del latino e quella dei dialetti contemporanei, sia al centro
dell’opera: ciò che valorizza non sono le dinamiche concrete del mutamento, ma il momento comparativo. La diacronia è quindi
presupposta e necessariamente implicata, ma non costituisce l’unico oggetto della trattazione, la quale si concentra sulla
comparazione tra oggetti sincronici più che sul decorso di mutamenti diacronici.
Presa di coscienza di ciò si ha nella Grammatica dell’italiano antico di Salvi e Renzi, in cui si ha un dichiarato approccio sincronico.
In ciò si avverte l’influsso del generativismo, per il quale ogni grammatica non deve presentare una prospettiva storica, ma
meramente sincronica.

3.3 Grammatica storica e storia interna


Altra polarità fondamentale negli studi storico-linguistici è la contrapposizione tra storia esterna e storia interna di una lingua: la
seconda coincide in gran parte con la grammatica storica.

4. Alcune questioni aperte


Ci sono 3 punti critici della grammatica storica italo-romanza, la cui discussione ha segnato fasi importanti del dibattito sulla storia
linguistica interna dell’italiano:

4.1 La lenizione consonantica in Toscana (e nell’italiano)


La lenizione consonantica si presenta in tutta la Romània occidentale, e quindi anche in Italia settentrionale, ma tocca solo
parzialmente le varietà toscane, manifestandosi così in italiano in maniera apparentemente irregolare (confliggendo con con la
normale regolarità del mutamento fonetico). Il primo a tentare di spiegare il fenomeno è Meyer-Lübke, che ipotizza un diverso
trattamento delle consonanti occlusive intervocaliche in posizione protonica e postonica: ipotesi fallace, come anche quella di Merlo
che ipotizzò una piena regolarità ed ampia estensione originaria della sonorizzazione in Toscana, in seguito ridotta dai dotti.
Sia secondo Rohlfs che Castellani, il fenomeno ha origine settentrionale, ma per il primo la penetrazione dal nord si ha con prestiti di
gruppi di lessemi; per il secondo si tratta di una moda che inizia alla fine dell’Impero romano d’Occidente o durante la dominazione
gotica: non tute le forme si sono affermate, poiché non tutti hanno accettato la sonorizzazione. L’ipotesi di una moda è comunque
dubbia: un prestito di massa di questo tipo sarebbe anti-economico, ed è un concetto difficile da inquadrare nella fenomenologia
usuale del contatto linguistico. Inoltre, tale moda ha interessato anche voci quotidiane, di solito al riparo da fenomeni legati al
prestigio linguistico, e resta inspiegabile la distribuzione disomogenea sia delle consonanti colpite sia degli ambiti lessicali. Vi è una
diversa distribuzione della sonorizzazione tra varietà toscane nord-occidentali e varietà gallo-italiche, il ché scoraggia l’ipotesi di una
sorta di ‘vento da Nord’.
Wanner, Cravens e Canalis hanno ipotizzato che i casi di sonorizzazione toscana si debbano a una regola che dava luogo nel toscano
preletterario a una libera alternanza tra fonemi sordi e sonorizzati, autonomamente dall’influenza settentrionale; la fonologizzazione
sarebbe avvenuta bloccando il processo in stadi diversi che riflettono sia una progressione di intensità (k è lenita più spesso rispetto a
t e p), sia a processi di diffusione lessicale.

4.2 La formazione dei plurali in -e e in -i


I plurali in -s della Romània occidentale sono evidenti continuatori delle forme accusativali, mentre i plurali in -i ed -e di molti
dialetti italoromanzi, soprattutto toscani, derivano apparentemente dal nominativo. Tuttavia, contro quest’ultima spiegazione si sono
più volte contrapposte tesi che sostengono l’origine di questi plurali nell’accusativo. I plurali in -e della prima declinazione non
deriverebbero dal nominativo poiché i plurali degli aggettivi in -ca, -ga non mostrano palatalizzazione (maiche, paghe) come ci si
aspetterebbe da normale trattamento fonetico (dico, dici). Inoltre, le carte latine altomedievali mostrano in Italia un certa regolarità
nella derivazione dall’accusativo, facendo ipotizzare che anche in Italia -AS possa essere l’antecedente delle moderne forme in -e. Si
possono in questo caso avere due trafile fonetiche: a) Ipotetica palatalizzazione di A ad opera di -S, e quindi una fase -es, da cui poi -
e; Contestazioni: in questo caso da -AS ci si attenderebbero esiti identici anche nella 1° e 3°declinazione. b) Una palatalizzazione di -
S affine a quella di monosillabi come noi, poi, sei, quindi una fase ricostruita *-aj, da cui poi -e. Contestazioni: si postula una fase
intermedia di cui non abbiamo tracce né antiche né moderne. Un’ipotesi abbastanza convincente si ha sul piano morfologico più che
fonologico: la necessità di adottare forme diverse e riconoscibili che distinguano singolare e plurale. In questo caso, la mancata
palatalizzazione potrebbe spiegarsi in termini di riallineamento al tema del singolare. I plurali in -i della seconda declinazione si
reputano in genere derivanti dalla -I del nominativo. Ma ci sono anche altre ipotesi, come quella che sostiene che il mantenimento del
tema palatalizzato abbia interessato sistematicamente le voci sdrucciole: le uniche due forme non sdrucciole rimanenti sono amici e
porci, troppo poco per sostenere che esse abbiano esteso il fenomeno per analogia.

4.3 La formazione degli articoli determinativi


Il polimorfismo italoromanzo degli articoli determinativi, ossia la presenza di forme consonante + vocale (lo) e vocale + consonante
(el/il) è un altro nodo discusso ma, a differenza dei due precedenti, sciolto. Tutte le forme italoromanze composte da vocale + l (il
toscano il e tutte le analoghe forme settentrionali): (IL)LU(M) > lo > l > il/el. Quindi il non deriva da ILLUM apocopato, ma da lo
derivante a sua volta da ILLUM aferetico. Nel dominio italoromanzo, in area galloitalica (Nord) si ha quasi solo la forma più recente,
mentre in area centromeridionale permangono le condizioni originarie.
2. STRUTTURALISMO E GRAMMATICA GENERATIVA, A. Andreose

1. Questioni preliminari
Lo strutturalismo è penetrato tardi in Italia e non si è radicato profondamente, per questo le prime descrizioni dell’italiano di
impostazione strutturalista sono state realizzate all’estero. Importante è la Scuola di Copenaghen, nella quale troviamo Magnus
Ulleland, autore della Italiensk grammatikk (1966). Dagli anni ’60 sono uscite delle grammatiche italiane per parlanti non nativi, tutte
realizzate da studiosi stranieri e presentanti un alto grado di analiticità descrittiva.
In tutti gli studi sull’italiano in età pre-generativista, si ha un’evidente asistematicità delle descrizioni sintattiche. Le basi per una
buona analisi della lingua sono state offerte dalla grammatica generativa (GG), teorizzata negli anni ’50 da Noam Chomsky. Fin da
subito la GG trova in Italia diversi sostenitori e le grammatiche che escono negli anni ’60-’70 adattano subito l’apparato formale in
funzione del nuovo orientamento. Una vera e propria svolta si ha solo nel 1988, quando escono 3 importanti grammatiche
dell’italiano: la Grammatica italiana di Luca Serianni, ti taglio tradizionale; le altre due sono ispirate a principi lingugistici
innovativi: la Grande grammatica italiana di consultazione (GGIC) di Lorenzo Renzi, che si rifà al modello teorico della GG; la
Grammatik der italienischen Sprache (GLI) di Christoph Schwarze, si rifà al modello teorico della grammatica lessico-funzionale.

1. La GGIC di Renzi presenta un’analisi sistematica dei dati linguistici, volta a dotare l’italiano di una grammatica specialistica,
completa e rigorosa e al contempo divulgativa. I concetti grammaticali tradizionali vengono riveduti, riformulati, arricchiti. Nella
sintassi si ha l’introduzione di categorie e termini nuovi, con una trattazione che parte dalla frase per giungere alle parti del discorso.
L’obiettivo non è descrivere la competenza di un parlante italiano ideale, ma l’insieme degli usi linguistici e dialettali presenti in
Italia, prendendo in considerazione sia la lingua parlata quotidiana che quella scritta.
2. La GLI di Schwarze è un’opera al tempo stesso di consultazione e di riferimento. Si distingue dalla precedente grammatica per
minore ampiezza, per maggiore tecnicismo terminologico, per l’organizzazione dei contenuti più tradizionale (andamento ascendente
dalle categorie lessicali alla frase). Inoltre, si concentra maggiormente sulla morfologia, descrivendo tutti i fenomeni di flessione. Il
focus resta però sempre la sintassi. Anche in questo caso, la lingua analizzata è quella quotidiana non dialettale. I dati sono ricavati
più che altro dai parlanti, meno dai testi scritti.

A queste opere se ne sono aggiunte altre: la Grammatica italiana (GI) di Cecilia Adorno (2003); il volume Le regole e le scelte (RS)
di Michele Prandi (2006); la Nuova grammatica italiana (NGI) di Salvi e Vanelli (2004), pensata ad uso degli insegnanti e studenti
universitari. La più recente è la Grammatica: parole, frasi, testi dell’italiano (GPFTI) di Ferrari e Zampese (2016), che mette al
centro l’esame delle proprietà sintattiche e semantiche della frase e dei suoi costituenti.
Oggi nella ricerca linguistica esistono diversi modelli teorici, che si riflettono negli studi grammaticali. Ciò non significa che
manchino categorie o principi descrittivi ampiamente condivisi, che segnano un netto scarto rispetto al modello tradizionale.

Nei prossimi paragrafi segue una rassegna dei tratti innovativi più rilevanti delle grammatiche dell’italiano uscite dal 1988.

2. La sintassi
2.1 La frase e i costituenti
2.1.1 Definizioni di frase
I modelli grammaticali tradizionali presentano una definizione di frase di tipo semantico-funzionale (prospettiva limitata).
- Definizione semantico-funzionale: la frase è un’unità di senso compiuto articolata in un soggetto e in un predicato.
Le grammatiche che si ispirano alla GG fanno ricorso al concetto di:
- Costruzione grammaticale: sequenza di parole governata da regole. Questa sequenza di parole contiene molteplici relazioni di
costruzione: l’accordo in genere e numero e l’ordine delle parole sono relazioni di composizione governate da regole. Quindi, la frase
è l’unità massima in cui vigono delle relazioni di costruzione. Questa definizione (risalente a Bloomfield) fa riferimento solo a
proprietà di carattere sintattico-formale.
Altre grammatiche tengono anche conto delle proprietà semantiche, avvicinandosi quindi a formulazioni più tradizionali: per Prandi e
De Santis la frase può essere concepita secondo 2 prospettive:
- come atomo del discorso, è la più piccola unità linguistica in grado di trasmettere un messaggio indipendente;
- come struttura complessa, è un struttura grammaticale costruita combinando le parole secondo schemi formali.
Il bisogno di definire il concetto di frase è proprio di quelle teorie grammaticali che la considerano come l’unità fondamentale della
sintassi. Tale prospettiva non è comune a tutta la linguistica moderna. Altre teorie (come la grammatica lessico-funzionale), invece,
considerano le funzioni grammaticali codificate nel lessico, non dipendenti dall’organizzazione gerarchica della frase, e intendono la
frase semplice come espressione che contiene un verbo di modo finito e che nella sua struttura formale e semantica è organizzata
attorno a questo verbo.

2.1.2 I sintagmi o costituenti


I sintagmi o costituenti sono unità sintattiche più ampie della parola e più piccole della frase. E’ un concetto fondamentale sia per la
GG che per le teorie da essa discese, come la GLF. Per la GG, i sintagmi sono le unità intermedie tra frase e singole parole. La sua
esistenza è dimostrata dal fatto che ogni parlante nativo è in grado di riconoscerlo: esso non è solo una nozione di tipo linguistico, ma
un’unità postulata dalla conoscenza implicita che il parlante nativo ha della lingua. I test di costituenza sono stati creati per stabilire
se una sequenza di parole forma o meno un sintagma e si basano sulle operazioni che il nativo compie intuitivamente. Diversi test:
- test di spostamento: se una sequenza di parole può occupare diverse posizioni all’interno della frase è un sintagma (Luca è passato;
È passato Luca).
- test di sostituibilità o della proforma: se una sequenza può essere sostituita da un pronome personale o da altre forme costituisce un
sintagma (Lui è passato).
- test di enunciabilità in isolamento: se una sequenza può essere pronunciata in isolamento, costituisce un sintagma (Chi è passato? Il
cane).
- test di coordinabilità: se due o più sequenze di parole possono essere coordinate tra loro costituiscono dei sintagmi (Il cane e un
gatto sono passati).
2.1.3 Tipi di sintagmi e classi di parole
I sintagmi possono essere di diverso tipo e ciò che li distingue è la testa, ossia la parola che determina la natura e le possibilità
formali di connessione del costituente, l’elemento principale ed ineliminabile. A volte la testa può rappresentare l’intero sintagma
(Chi è uscito? Il cane), altre volte la sola testa non basta (ad esempio i V transitivi e Prep richiedono necessariamente altri elementi).
Di solito la testa presenta delle espansioni, elementi linguistici che la espandono. Non tutte le teste possono essere espanse.
I sintagmi che possono/devono essere espansi sono:
- sintagmi nominali (SN), la cui testa è un nome (N) (La scalata del monte);
- sintagmi aggettivali (SA), la cui testa è un aggettivo (A) (molto utile a tutti);
- sintagmi verbali (SV), la cui testa è un verbo (V) (mangia la mela);
- sintagmi preposizionali (SP), la cui testa è una preposizione (P) (anche con il coltello);
- sintagmi avverbiali (SAvv), la cui testa è un avverbio (Avv) (molto lentamente).

Le categorie di parole che possono essere espanse (N, A, V, P, Avv) sono dette categorie lessicali. Articoli, dimostrativi, quantificatori
(indefiniti, numerali, interrogativi), pronomi, complementatori (cong. subordinanti)… che non possono essere espansi sono dette
categorie funzionali. L’approccio strutturalista e generativo si avvale di criteri distribuzionali per classificare le parole, basati sul
modo in cui le parole si dispongono nella frase: le parole che possono occupare la stessa posizione appartengono alla stessa categoria.
In questo modo, una stessa parola può rientrare in più categorie a seconda dei singoli casi. Il modello tradizionale si avvale invece di
principi di tipo semantico-morfologico.
Gli articoli e i dimostrativi, che possono occorrere in posizione pre-nominale, ma non cooccorrere sono detti determinanti.
Gli indefiniti, numerali e interrogativi quantificano il SN, e sono quindi quantificatori.
I pronomi (personali, riflessivi e clitici) sono detti anche protosintagmi.
Sì e no, che da soli possono costituire un’intera frase, sono detti profrasi.

2.1.4 La struttura interna del sintagma


Nei sintagmi le espansioni possono trovarsi prima o dopo la testa. Le espansioni si distinguono anche per la relazione semantico-
sintattica che instaurano con la testa. Molte teste presentano proprietà valenziali, che determinano il numero di argomenti che essa
può/deve ammettere. Una testa può essere espansa da elementi non argomentali (detti extranucleari o non nucleari).
Le espansioni non argomentali sono definite modificatori: tutti gli elementi che, in una costruzione, espandono una testa lessicale.
Complemento: nella GLI sono definiti come funzioni grammaticali determinate dalla valenza del V o del N. In altri modelli sono quei
modificatori che fungono da argomenti extranucleari (a questo ci atteniamo in questa trattazione).
Un principio della GG è che i sintagmi al loro interno siano organizzati gerarchicamente: esistono dei livelli intermedi tra la testa
lessicale e il sintagma che rappresenta la sua espansione (detta proiezione) massima. I modificatori non si trovano tutti nello stesso
tipo di relazione con la testa:
- Il modificatore che precede la testa si trova a un livello gerarchico superiore a quello della testa e del complemento;
- La testa e il complemento si trovano allo stesso livello, ma occupano posizioni distinte (due diversi nodi terminali).

Sulla base di ciò, Chomsky ha elaborato la teoria X-barra, per la quale tutti i costituenti sintattici sono organizzati secondo una
struttura gerarchica base, uguale per ogni sintagma (struttura astratta, schema p.59). Essa può essere mantenuta o modificata nelle
fasi successive di derivazione attraverso dei movimenti. Per la proprietà di ricorsività, un sintagma può contenere (dominare) uno o
più sintagmi dello stesso tipo.

2.2 La valenza
2.2.1 Valenza sintattica: gli argomenti
Il termine valenza, attinto dal linguaggio della chimica da Tesnière, indica il numero di attanti che partecipano direttamente
all’evento descritto dal verbo, l’elemento centrale della frase. Il termine valenza si riferisce alla capacità di una testa di selezionare il
numero e il tipo degli elementi fondamentali che possono completare la struttura del sintagma. Questi elementi sono detti argomenti.
Ci sono due livelli di valenza: la valenza sintattica (o Schema/struttura argomentale), cui pertiene il concetto di argomento; la valenza
semantica (o schema/struttura attanziale o griglia tematica), cui pertengono i concetti di attante e ruolo tematico.
La testa impone sui suoi argomenti delle restrizioni di tipo semantico (restrizioni di selezione), ad es. con punire entrambi gli
argomenti devono essere animati, o assimilabili ad esseri animati.
I verbi possono essere divisi in classi in base alla valenza: monovalenti (sbadigliare); bivalenti (amare); trivalenti (dare); zerovalenti
(atmosferici). Anche le preposizioni selezionano uno o più argomenti. Anche nomi, aggettivi, avverbi possono farlo, ma non
obbligatoriamente (≠ verbi).
Gli argomenti possono essere costituiti da vari tipi di sintagmi a seconda delle proprietà di sottocategorizzazione del verbo (es.
guardare seleziona due SN, partecipare un SN e un SP).
La valenza non è un proprietà esclusiva dei V; anche le Prep possono avere argomenti, però, a differenza del V, tali categorie non
prevedono che i loro argomenti vengano realizzati obbligatoriamente.

2.2.2 Valenza semantica: gli attanti e i ruoli tematici


Chomsky ha sviluppato la teoria tematica (teoria θ), che si fonda sul criterio tematico (criterio θ): ogni verbo, a seconda del suo
significato, assegna a ciascuno dei suoi argomenti un ruolo tematico (o semantico), cioè un ruolo specifico nell’evento che descrive.
Sono le proprietà semantiche e lessicali del V a determinare il numero degli argomenti e la loro realizzazione categoriale.
C’è un rapporto biunivoco tra attante e ruolo tematico: l’attante è un argomento in un dato ruolo tematico; l’argomento rappresenta la
realizzazione sintattica dell’attante.
Si distinguono verbi che descrivono un’azione, ossia un evento iniziato da un essere animato con decisione volontaria. Tali verbi
assegnano i ruoli di: agente (entità animata che attiva e inizia l’evento descritto dal verbo), tema o oggetto (entità, animata o non,
coinvolta in maniera non attiva nell’evento verbale), termine o dativo/destinatario/ricevente (entità animata verso cui è indirizzato
l’evento), strumento o situazione (entità inanimata che esegue l’azione), esperiente o paziente (entità animata che sperimenta l’evento
di verbi che descrivono eventi psichici), possessore (entità animata che possiede un determinato elemento), luogo o locativo (luogo o
condizione in cui avviene l’evento), meta (luogo condizione verso cui è proiettato l’evento).
I ruoli tematici vengono classificati secondo una scala di salienza semantica, basata su due varianti:
- animatezza dell’entità che svolge il ruolo
- controllo che esercita sull’evento descritto (tabella p.65).

Tale gerarchia ha un ruolo determinante nell’organizzazione della struttura sintattica e semantica della frase.
Il ruolo tematico esprime la funzione semantica di un argomento e differisce da quelle che sono la sua realizzazione categoriale e la
sua funzione grammaticale. Infatti, uno stesso ruolo tematico può realizzarsi sintatticamente in modi diversi, o meglio, verbi che
possiedono la stessa valenza semantica possono avere diversa valenza sintattica. (Es. A Piero piace la pasta \ Piero ama la pasta)

2.2.3 Gli argomenti del verbo e la struttura della frase


La GG distingue tra nucleo e margini della frase. Il primo comprende gli elementi fondamentali e necessari (verbo e suoi argomenti);
frasi composte da soli elementi nucleari sono dette nucleari o minime. I margini comprendono gli elementi extranucleari, che sono
facoltativi e, se tralasciati, la frase resta grammaticale (≠ se si omette un argomento nucleare; diversa la questione del Sogg sottinteso,
perché in questo caso è presente a livello astratto, ma non ralizzato graficamente). Gli argomenti del verbo possono essere non solo
sintagmi, ma anche proposizioni, cioè frasi che svolgono la funzione di sintagmi, dette proposizioni argomentali (es. Luca sostiene di
non essere stato lui). La frase in cui tutti i costituenti sono sintagmi è detta frase semplice; se almeno uno dei costituenti è un
proposizione si ha una frase complessa. La frase ellittica è quella in cui un verbo consente che alcuni argomenti rimangano
inespressi.
La distinzione tra elementi nucleari ed extra-nucleari differenzia l’impostazione moderna da quella tradizionale, che includeva
indiscriminatamente quasi la totalità dei SN e dei SP aventi funzioni diverse da quella del Sogg, ponendo così sullo stesso piano
elementi argomentali e non. La linguistica moderna supera invece questa distinzione e dà una classificazione degli elementi extra-
nucleari basata sulla loro funzione nella frase e sulla tipologia dell’elemento da essi modificato.

2.3 Le funzioni grammaticali


2.3.1 Le funzioni grammaticali nella grammatica generativa e lessico-funzionale
Il sistema descrittivo della frase proposto dalla grammatica contemporanea si articola su 3 livelli:
- della struttura semantica, in cui le entità che partecipano all’azione ricevono dei ruoli tematici assegnati dal V;
- della struttura sintagmatica, in cui i diversi ruoli vengono realizzati sintatticamente da argomenti verbali;
- della struttura funzionale o grammaticale, funzioni grammaticali che gli argomenti del V svolgono nella frase (sogg, ogg. Dir, ecc.).

A ogni funzione grammaticale corrispondono precise proprietà sintattiche. A ciascun verbo è assegnato, parallelamente ai
partecipanti, un dato numero di funzioni grammaticali, quindi il concetto di valenza verbale è esteso anche alle funzioni
grammaticali: sul piano semantico, a ogni verbo è associato un certo numero di argomenti e ruoli tematici; sul piano sintattico, a ogni
verbo è assegnato un certo numero di funzioni grammaticali.
Nella GLF le funzioni grammaticali sono intese come le relazioni sintattiche che strutturano una frase; non si definiscono in termini
di configurazioni sintagmatiche come nella GG, ma sono elementi primitivi della teoria.
Le funzioni grammaticali che un verbo può assegnare sono: soggetto, oggetto, obliquo, complemento. L’aggiunto è una funzione
grammaticale che non appartiene alla valenza del V (Leggo sul divano).
Il quadro funzionale è l’insieme delle funzioni grammaticali assegnate dal verbo al costrutto. La GG concepisce la frase come un
sintagma complesso, che presenta al suo interno la stessa struttura gerarchica che è alla base dei sintagmi (schema 47 p.70): gli
argomenti del verbo sono disposti in maniera asimmetrica e gerarchica nel sintagma. Esistono argomenti che non fanno parte del SV,
ed elementi che formano il SV con il V: il Sogg non fa parte del SV, per cui è detto argomento esterno del verbo. Gli argomenti
diversi dal sogg sono parte del SV e sono quindi argomenti interni del verbo. Secondo la GG, quindi, l’unico modo non ambiguo per
definire le funzioni grammaticali è in termini configurazionali, ossia in base all’organizzazione gerarchica della frase in costituenti. Il
Sogg è il SN che fa da specificatore al SV; l’Oggetto è l’SN che fa da complemento al SV.

2.3.2 Proprietà delle principali funzioni grammaticali


Rispetto al modello classico, la linguistica Novecentesca identifica in modo più rigoroso ed esplicito le proprietà che distinguono le
diverse funzioni grammaticali a livello sintattico, semantico e comunicativo. Ci sono tuttavia diverse teorie alla base
dell’individuazione delle funzioni grammaticali: quelle su cui c’è più accordo sono sogg e ogg dir.
1. Il soggetto in italiano ha 3 proprietà sintattiche: porta il caso nominativo (solo nei pronomi liberi); si accorda in persona, numero e
genere con il verbo della frase di modo definito; rimane inespresso con il verbo non finito (reso con Ø). Inoltre, il soggetto è
l’argomento del V con il ruolo tematico più saliente.
I verbi possono essere inaccusativi o non inaccusativi: nel primo caso, il sogg va in genere dopo il verbo; nel secondo caso prima.
(Guarda esempi da p.72)
2. L’oggetto diretto viene detto dalla grammatica tradizionale complemento oggetto, funzione realizzata da un SN o da una
proposizione, secondo proprietà sintattiche precise: ha il caso accusativo nelle forme di pronomi clitici che distinguono tra acc e dat;
è soggetto nella frase passiva; se è un clitico, nella frase con un verbo composto si accorda con il participio passato. In genere
l’oggetto diretto non clitico si trova subito dopo il verbo. Di solito ha il ruolo di tema e non può mai essere agente (caratteristica
fondamentale è appunto la non agentività).
3. L’oggetto indiretto è il complemento di termine del modello tradizionale, realizzato da un SP introdotto dalla preposizione a, che
può essere pronominalizzato con un pronome clitico dativo. Di solito ha il ruolo di termine o esperiente. A differenza del sogg e
dell’ogg dir, può corrispondere nella frase anche a elementi extranucleari, indicando il benefattivo, ossia l’entità a vantaggio o a
scapito della quale si attua l’evento verbale (solitamente SP = per + SN). Può essere un dativo etico, ossia designare una persona che
partecipa emotivamente all’evento (es. Che cosa mi combini?).

Il modello della GLF differisce dalle prospettive delle altre grammatiche in quanto include tutti i SP introdotti da a all’interno della
categoria dell’obliquo-a.
2.4 Classi di verbi
2.4.1 Transitivi e intransitivi, inergativi e inaccusativi
I verbi transitivi selezionano almeno un argomento con la funzione di oggetto diretto; i verbi intransitivi non possiedono nessun
complemento diretto. I verbi transitivi-intransitivi mescolano i due precedenti. Questa partizione non è esaustiva, per cui la GG
propone di classificare ulteriormente gli intransitivi in due sottoclassi: i verbi inaccusativi (o intransitivi-essere) e i verbi inergativi (o
intransitivi-avere). I secondi, come i transitivi, selezionano l’ausiliare avere nei tempi composti, mentre i primi l’ausiliare essere.
Negli inaccusativi il Sogg ha le caratteristiche dell’ogg dir delle frasi transitive, e si riconoscono per:
- possibilità di pronominalizzare un sintagma con il ne partitivo (es. sono arrivate due lettere);
- possibilità di comparire in costruzioni principali assolute (es. una volta incontrati i ragazzi, sono tornato a casa);
- di solito il soggetto si trova dopo il verbo (es. è tornata la luce).
- assegnano spesso il ruolo semantico di tema al sogg, come i V transitivi lo assegnano all’ogg dir.
- il sogg è caratterizzato da non agentività.

Ipotesi dell’inaccusatività: la GG ha formulato un’ipotesi per dar conto del fatto che il sogg dei V inaccusativi ha caratteristiche in
comune con il canonico ogg dir. Si suppone che esso si trovi a livello astratto nella posizione tipica dell’ogg dir, ossia all’interno del
SV, ma non con il caso accusativo, bensì nominativo.

3. La struttura sintattica e comunicativa della frase


3.1 Tema e rema
La frase ha una struttura sintattica, per cui si divide in SN e SV, e una struttura comunicativa (o funzionale), che si articola in tema
(Topic) e rema (Comment). Il tema è ciò di cui si parla; il rema è ciò che si dice a proposito del tema.

3.2 Soggetto semantico e predicato


Relativa alla struttura semantica della frase, è la distinzione tra soggetto semantico, ossia l’argomento del verbo preso come
riferimento nella comunicazione, e predicato, che descrive una proprietà del soggetto semantico. Il sogg semantico è l’argomento più
saliente del verbo, di solito il soggetto sintattico della frase. Ma può anche essere l’oggetto indiretto preposto al verbo (es. A Maria
piacciono i treni). Nelle coordinate, il soggetto viene omesso nella seconda frase ed è coreferenziale con quello della prima.
Benché la struttura tema-rema coincida in molti casi con quella di sogg semantico-predicato, la sovrapposizione non è completa.
Questo si nota nelle frasi marcate.

3.3 Frasi predicative e presentative


Sulla base della loro struttura semantica o comunicativa, le frasi vengono suddivise in predicative ed evento-presentative. Le frasi
predicative si articolano in soggetto semantico e predicato. Le frasi eventivo-presentative consistono del solo predicato e sono
apparentemente prive di tema, il quale è facilmente recuperabile dal contesto. Queste frasi servono a presentare un evento nella sua
totalità, oppure a introdurre nel discorso una nuova entità. Sono costituite dal verbo più il suo soggetto sintattico.

3.4 Ordini marcati degli elementi della frase


L’ordine marcato prevede che i costituenti di una frase non occupino le loro posizioni canoniche, ma siano stati spostati per esprimere
un particolare significato. L’italiano ha una grande varietà di ordini delle parole, che lo differenzia dalle altre lingue moderne, e ciò è
l’effetto di alterazioni dell’ordine basico dei costituenti, la quale segue precise regole ed è dovuta a determinate cause.
Una terza dicotomia è rappresentata da dato-nuovo, sulla quale si fonda l’interazione linguistica: sulla base del già detto, delle
conoscenze comuni e desumibili dal contesto, il parlante presuppone che alcune informazioni siano condivise dall’ascoltatore (dato)
e propone altre informazioni (nuovo). Punto massimo di salienza della frase e distinto dal nuovo è il focus. In italiano vi sono diversi
procedimenti linguistici che permettono al parlante di mettere l’ascoltatore nella condizione di identificare agevolmente la parte
nuova della frase, ossia appunto il focus informativo. Questa messa in rilievo può essere ottenuta con mezzi fonologici (innalzamento
del tono, detto enfasi) o con spostamenti di ordine sintattico, spostando il costituente-focus a fine frase (dando vita a frasi
sintatticamente marcate: questi processi sono detti di focalizzazione. Avulsa dal contesto, la frase si adatta a molteplici interpretazioni
(si sta parlando di focus esteso). Frasi che si adattano a molteplici contesti pragmatici sono dette non marcate pragmaticamente.
La dicotomia dato-nuovo non coincide necessariamente con le altre due, ma il parlante, per ragioni di economia linguistica, cerca di
far combaciare il predicato, il rema e il nuovo.

3.5 Costruzioni marcate


Sono diffuse soprattutto nei registri medio-bassi, ma non solo. La GG pensa che un costituente possa essere spostato fuori dalla
struttura della frase vera e propria, nella periferia della frase, per essere marcato come nuovo/fuoco, ipotizzando che il sintagma
corrispondente alla frase sia incluso all’interno di un altro costituente, detto sintagma complementatore. Dal pdv prosodico, tali
posizioni sono fuori dal segmento intonativamente unitario, perciò sono dette frasi segmentate.

- dislocazione a sinistra (o dislocazione stretta), presuppone che un costituente non nasca in posizione iniziale, ma che ci venga
spostato in quanto topic. Questo spostamento lascia tracce (segnalazioni di co-referenze, spesso riprese clitiche) all’interno della
struttura frasale che segue. Se l’elemento dislocato è un ogg indir, sarà preceduto da preposizione.
- tema sospeso o anacoluto, è come la dislocazione a sx ma non presenta connessioni al resto della frase attraverso marche
grammaticali (Mio fratello, gli è capitato un problema). Qui è obbligatoria la ripresa clitica. In alcuni casi l’anteposizione serve a
marcare la contrastività (Bianca, ho visto ieri, non Lisa). L’elemento contrastivo è posto a inizio frase es è marcato con l’enfasi.
- dislocazione a destra sposta l’elemento tematizzato alla fine della frase. E’ anche detto ripensamento.
- frase scissa si ha la suddivisione in due unità frasali, con la struttura verbo essere + elemento contrastato + che + frase senza
elemento contrastato (È a Marco che ha dato le chiavi).
4. Sintassi della frase complessa
Alcuni aspetti che evidenziano come il paradigma moderno pervenga ad un’adeguatezza descrittiva, impensabile per il modello
tradizionale.

4.1 Proposizioni all’infinito


Le proposizioni possono essere classificate sulla base del modo del verbo (finito o non finito). Le proposizioni all’infinito pongono
una serie di questioni sintattiche. Elemento importante nelle infinitive è la sintassi del soggetto, per cui ci sono 3 classi di
costruzione: a controllo, a sollevamento, percettive, accomunate dal fatto che l’infinitiva non contiene al suo interno nessun sintagma
che svolga la funzione grammaticale del soggetto.
1. a controllo: quando un’infinitiva è retta da un V a controllo, il sogg non espresso dell’infinito è coreferente con un elemento della
frase matrice, detto controllore (es. Pamela pensa di partire). Si ipotizza che nelle frasi con V che non prevedono tratti d’accordo con
il sogg, la posizione del sogg sia occupata da un elemento con proprietà pronominali, ma che non viene realizzato graficamente (si
parla quindi di una categoria vuota). (es. Pamela pensa di _ partire) Il controllore del sogg non espresso dell’infinitiva è il sogg della
frase matrice. Se il V seleziona come argomento solo l’infinitiva, il controllore è il sogg della reggente, come abbiamo detto. Se
invece regge altri complementi, è possibile:
a. il sogg inespresso dall’infinitiva è controllato dal soggetto del V reggente e indica un evento futuro (minacciare,
promettere → es. Mario ha promesso a Silvia di _ portarla al mare)
b. il sogg inespresso dall’infinitiva è controllato dall’oggetto diretto del V reggente e indica un evento futuro (pregare,
supplicare → es. L’ho pregato di _ non divulgare il segreto)
c. il sogg inespresso dall’infinitiva è controllato dall’oggetto indiretto del V reggente e indica un evento futuro (chiedere,
consigliare → es. Il direttore ha detto agli impiegati di _ attenersi al protocollo)
d. il sogg inespresso dall’infinitiva è controllato dal soggetto del V reggente, l’infinito può essere solo composto e NON indica un
evento futuro (annunciare, raccontare → Berlusconi ha annunciato al partito di _ essersi autosospeso)

2. A sollevamento: Nelle costruzioni a sollevamento non si danno due elementi coreferenti, come nelle costruzioni a controllo, ma un
solo elemento, il soggetto dell’infinitiva, che può essere “sollevato” dalla subordinata e spostato nella posizione di soggetto della
sovraordinata. I verbi a sollevamento sono volere, potere, dovere, sembrare, parere, cominciare a, continuare a, finire di, stare per.
3. Percettiva: Nella costruzione percettiva un verbo di percezione (ascoltare, guardare, sentire…) regge un oggetto diretto e una
proposizione all’infinito. Tali strutture sono diverse da quelle a controllo. Mentre in queste ultime il soggetto dell’infinito è
rappresentato dalla categoria vuota PRO, nelle costruzioni percettive il “soggetto” è presente, ma per ragioni strutturali riceve il caso
accusativo e si comporta come un oggetto diretto.

4.2 Complessi verbali


Oltre ai costrutti considerati fin qui si danno costruzioni in cui l’infinito forma con il verbo un complesso verbale, che si comporta
sintatticamente come fosse un verbo composto. In queste costruzioni non si ha più una frase complessa (bifrasale), in cui un verbo
regge una proposizione all’infinito, ma una frase semplice (monofrasale), formata da un complesso verbale e dai relativi argomenti. I
verbi che possono comparire in questo tipo di costruzione sono: fare, lasciare (fattitivi o causativi); sentire, vedere ecc. (di
percezione); dovere, potere, sapere, volere ecc. (modali); cominciare, finire, stare ecc. (aspettuali); andare, venire ecc. (di
movimento). I test che permettono di stabilire che due verbi formano un complesso verbale sono tre: 1. I clitici sono adiacenti al
verbo reggente e non all’infinito di cui costituiscono i complementi; 2. L’oggetto diretto può diventare il soggetto della costruzione
del si passivante; 3. L’infinito e i suoi eventuali complementi non possono essere negati indipendentemente dal verbo reggente.
Un’altra classe di verbi che possono comparire in complessi verbali è quella dei verbi a ristrutturazione: dovere, potere, sapere,
volere ecc.; cominciare, finire, stare ecc.; andare, venire ecc. Tali verbi permettono costruzioni bifrasali in cui l’infinito rappresenta
un elemento distinto dal verbo reggente. In tali strutture il clitico è adiacente all’infinito che lo regge.
3. GRAMMATICA PER LA SCUOLA, R. Calla

1. Questioni preliminari
La storia della grammatica ad uso didattico curricolare comincia nel Settecento, con il diffondersi delle scuole nei centri urbani. Gli
strumenti prodotti sono caratterizzati da brevi regole corredate da esempi, che presuppongono studenti già edotti del latino e della
terminologia metalinguistica. La storia delle grammatiche dell’italiano costituisce un sottoinsieme della storia della didattica
dell’italiano. Il mutare delle condizioni linguistiche di partenza dei discenti e l’evolversi delle teorie pedagogiche, hanno inciso sulle
pratiche didattiche, stimolando la redazione di nuovi strumenti d’apprendimento. L’idea che la conoscenza delle regole sia utile per
l’apprendimento linguistico è stata molto dibattuta. Il primo a metterla in dubbio fu Grégoire Girard (non impariamo a parlare
studiando le regole della grammatica come non impariamo a camminare studiando le regole dell’equilibrio). Ciò è vero per
l’apprendimento della lingua materna, ma meno vero per l’apprendimento di lingue straniere.
Nel 1913 Giuseppe Lombardo Radice confuta Girard, dicendo che non si cessa mai di aver bisogno di riflettere sulla lingua e di porsi
problemi di regole: la grammatica è utile per l’apprendimento. Bruno Migliorini nel 1941 antepone la pratica alla teoria: la lingua è
un’abilità e la conoscenza astratta e teorica delle regole serve a poco, mentre conta molto metterle in pratica. Nel 1975, anche il
GISCEL (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica) riprende la tesi di Girard.

Altra domanda è: in quali scuole, a quale età e come insegnare la grammatica? Nella Legge Casati del 1859 emerge l’idea che la
grammatica vada insegnata alle scuole elementari e secondarie inferiori, poiché l’italiano, non essendo parlato dalla maggior parte
della popolazione, andava insegnato come il latino. In seguito, si elimina l’insegnamento della grammatica nelle scuole elementari e
rurali, invitando i maestri a limitare la teoria. Nel 1905, fissando l’obbligo scolastico fino ai 12 anni, si reintroduce la grammatica a
partire dalla terza classe. Questi dibattiti sull’opportunità o meno di insegnare precocemente la grammatica hanno fatto si che la
didattica della lingua si trasferisse progressivamente nelle scuole medie e nel primo biennio superiore. Nelle scuole elementari, negli
anni ’30 scompare il libro di grammatica e si usano altri strumenti per insegnare la lingua (libri di traduzione dal dialetto, sezioni
specifiche dei sussidiari, eserciziari). Tale dibattito, mai del tutto risolto, si è fatto vivace nei momenti di cambiamento socio-
economico del paese: appena dopo l’unità e negli anni ’70 del ’900 con gli effetti dell’industrializzazione e dell’inurbamento, periodi
in cui si pone il problema dell’inclusione di larga parte della popolazione.
La produzione editoriale scolastica dopo l’Unità aumenta a dismisura: nei primi 13 anni dopo il 1861 si stampano 102 grammatiche
scolastiche! Ancora più ingente è la produzione degli ultimi 60 anni, che si è intensificata con la scuola media unificata.
Serianni distingue 5 fasi fondamentali nella storia del testo di grammatica per le scuole: dall’Unità alla riforma Gentile; dal 1923 al
1951; dal 1951 al 1968; dal 1968 al 1983, periodo detto crisi della grammatica; dal 1983 ad oggi.
Ci sono alcuni snodi importanti nella storia della didattica dell’italiano:
- 1861-1GM: si tenta di alfabetizzare in ita una maggioranza dialettofona, in cui prevale l’apprendimento normativo della
grammatica.
- Anni ’60 – inizio ’80 del ’900: prevale un’educazione linguistica come approccio socialmente inclusivo e orientato alla convivenza
regolata delle varietà diafasiche e diatopiche. La didattica dell’italiano, prima legata alla sola analisi logica, si dilata a tutto l’universo
linguistico.
- Oggi: acquisito l’italiano da gran parte della popolazione, la lingua parlata dai singoli studenti fuori dalla scuola non è più ignorata.
La scuola stessa ha fatto propria la lingua della quotidianità. In più, l’estraneità all’italiano della tradizione letteraria non è più indice
di marginalità sociale, nonostante la lingua sia necessaria per l’esercizio della cittadinanza. Nella situazione sociolinguistica odierna,
la scuola è rimasta l’unico istituto che trasmette le varietà formali. Per questo negli ultimi 20 anni si è avuto un ritorno alla
grammatica.

2. Metodi didattici e modelli di lingua


2.1 L’insegnamento dell’italiano e quello del latino
Le prime grammatiche didattiche, ad uso delle scuole ecclesiastiche, presuppongono la conoscenza del latino e vi si rifanno per
l’impianto complessivo e la terminologia. Anche nell’800 ci sono strumenti per insegnare in parallelo le due lingue. Tuttavia, nel
1756 l’abate Pier Domenico Soresi offre una grammatica per coloro che non hanno ancora studiato il latino, sostenendo la priorità
dell’italiano. Non presupponendo nessuna nozione, Soresi fornisce regole pratiche e spiega la funzione degli elementi linguistici.
Tuttavia, la terminologia latina rimane ancora per molto tempo nelle altre opere. Nella produzione scolastica ci sono due filoni: uno
presuppone la conoscenza del latino, usato per le secondarie inferiori e per le scuole tecniche e normali; l’altro ne prescinde, per le
scuole rurali ed elementari. L’analisi logica resta confinata al primo gruppo di grammatiche. Nel ’900 si pone il tema della
funzionalità della grammatica italiana allo studio delle lingue moderne, affermata in parole, ma nei fatti l’insegnamento delle lingue
straniere dipende dalla tradizione dei paesi di partenza (logicista quella del fr, comunicativa e antigrammaticale per l’en).

2.2 Metodologie didattiche


I filoni principali della grammaticografia dell’Ottocento si basano sulle categorie individuate da Ulisse Poggi, che nel 1875 viene
incaricato di scrivere una Relazione dell’esame delle grammatiche. Le categorie individuate sono:

a) I “tradizionalisti”, il gruppo più consistente che non si allontana dal modello di Corticelli. Forniscono brevi regole da memorizzare
corredate da esempi. A questo filone appartiene Basilio Puoti, che divide la sua grammatica in due parti, l’etimologia (le “parti del
discorso”) e la costruzione, cioè la sintassi.

b) I “metodisti”, che derivano il loro nome dalle scuole di metodo nate in Piemonte e in Lombardia per formare i maestri. Le
grammatiche metodiste danno importanza all’analisi logica sostituendo alla terminologia latina dei casi quella dei complementi e
forniscono definizioni brevi ed esempi da memorizzare.

c) I “razionalisti”, pochi e di scarsa fortuna, che collocano la grammatica nell’ambito di una teoria del linguaggio e non sono inclini
all’osservazione dell’uso. Ad esempio considerano io, tu, egli come “nomi indicativi” quando svolgono funzione referenziale e
deittica, invece “pronomi di persona” quando hanno funzione anaforica.
d) I “teorico-pratici”, che si rifanno ai metodi induttivi delle teorie positiviste di Girard, che propone poche e efficaci regole calibrate
sui discenti e molti esercizi, rifugge le astrattezze delle regole logicizzanti e sostituisce la grammaire de pensées alla grammaire de
mots. Il metodo teorico-pratico riscosse grande successo nelle scuole elementari degli anni Ottanta dell’Ottocento. Questa
impostazione conferisce grande centralità al maestro e di conseguenza i libri di grammatica possono essere riservati al maestro che
deve mediare il contenuto o ai discenti o, quando indirizzati ai ragazzi, possono assumere un’impostazione discorsivonarrativa. Un
esempio di grammatica teorico-pratica è quella di Carbonati (1864).

Dalla classificazione di Poggi non vengono considerate le grammatiche contrastive italiano-dialetto, che nascono in quegli anni, e
quelle induttive.
Dopo l’istituzione della scuola media unica nel 1940, si ha la pubblicazione di due volumi d’autore: La lingua nazionale di
Migliorini (1941) e l’Introduzione alla grammatica di Devoto (1941). Migliorini antepone la pratica alla teoria e dà enorme
importanza al lessico nella prima sezione, mentre solo nella seconda sezione si ha la trattazione teorica. L’opera ha enorme fortuna e
sopravvive a lungo. Devoto, invece, dà grande rilievo alla sintassi, convinto che le capacità di analisi e rielaborazione strutturale sono
prioritarie nell’apprendimento della lingua. Scava a fondo nei processi linguistici, cosa che rende l’opera più complessa e quindi
meno fortunata nella scuola.
Negli anni ’70 si ha una profondo rinnovamento metodologico, che conclude la riflessione sulla didattica iniziata il decennio
precedente. Con le Dieci tesi del GISCEL si abbandona l’insegnamento tradizionale, tassonomico e normativo, e si passa dalla
grammatica all’educazione linguistica, che tiene conto del rapporto tra sviluppo delle capacità linguistiche e sviluppo fisico, affettivo,
sociale, intellettuale dell’individuo. La pedagogia linguistica assume quindi una funzione socializzante e inclusiva, che parte
dall’individuazione del retroterra linguistico-culturale dell’allievo per arricchirne il patrimonio linguistico. Si punta allo sviluppo di 4
abilità di base: parlare, scrivere, ascoltare e leggere. Tuttavia, al rinnovamento della linguistica non è seguito un rinnovamento della
grammatica di riferimento: tutti i dibattiti che sorgono in questo periodo non producono un’altrettanto ricca produzione di manuali
scolastici. Comunque, la prospettiva didattica delle 4 abilità del GISCEL è entrata nei programmi ministeriali, in quelli del 1979 e
nelle proposte della Commissione Brocca (1991) per la scuola superiore, fino ai programmi del 2012. L’approccio per abilità non si
sostituisce, ma si somma alla riflessione sulla lingua, per cui, con le molte aggiunte apportate (sezioni dedicate allo sviluppo delle 4
abilità, nozioni di semiotica, comunicazione, sociolinguistica, molti esercizi), le grammatiche scolastiche degli ultimi decenni sono
diventate simili a enciclopedie, più utili all’aggiornamento degli insegnanti che alla formazione degli allievi. La ricerca di nuovi
metodi didattici sembra risolta nel non scegliere, ma nell’offrire un accumulo di brandelli di sapere eterogenei da cui l’insegnante
può trarre ciò che preferisce. Esempio sono le Indicazioni nazionali (2004, 2007, 2012), che additano obiettivi ampissimi senza
fissare programmi. Sarebbero forse opportuni manuali più essenziali, meno ossessivamente definitori e tassonomici, con una migliore
selezione e gerarchizzazione degli argomenti e una minor frammentazione del discorso.

2.3 Lingua e dialetto


Nella storia della scuola italiana ci sono 2 filoni, uno che vede nel dialetto un ostacolo per l’apprendimento dell’italiano, l’altro che vi
riconosce un punto di partenza ineludibile. Nel 1863 si abolisce l’uso del dialetto a scuola e, in seguito, a prevalere sarà sempre la
prima prospettiva, determinando sentimenti di esclusione e inferiorità nei dialettofoni. I programmi del 1905 prevedono di correggere
fin da subito le interferenze dialettali, cosa che si accentuerà con il fascismo, il quale reprime i dialetti e le minoranze linguistiche. I
programmi per le scuole elementari del 1945 ignorano il dialetto; quelli del 1955 lo citano solo per vietarne l’uso a scuola. Il filone
filodialettale, conosce solo brevi ma intensi periodi di successo: Soave e Cesari sono i primi a sostenere l’utilità del confronto tra
italiano e dialetto. Solo nel 1867, però, con i programmi Coppino si ha l’applicazione di questo principio nel manuale di Nazari
(inaugura nella pratica il metodo di Ascoli, il quale promuoveva un apprendimento per differenza, indicando appunto le differenze tra
il dialetto e la lingua). L’italianizzazione delle zone di confine dà un nuovo impulso alla produzione di strumenti scolastici basati
sulla comparazione italiano-dialetto e l’insegnamento contrastivo (grammatiche di Monaci e Trabalza). In seguito, nel 1923, con la
riforma Gentile, Radice porta nella pratica questo metodo: i maestri devono padroneggiare il confronto tra italiano e dialetto e
trasmetterlo agli alunni. Tuttavia, con l’avvento del fascismo, il dialetto scompare dalla scuola. Solo i programmi del 1979
riaffermano che la scuola deve fare riferimento ai dialetti e alle altre lingueper sviluppare l’educazione linguistica, e tale è tutt’ora la
posizione degli studiosi. Tutte queste proposte, tuttavia, non si sono tradotte nella manualistica, forse anche perché in larga parte
d’Italia il dialetto non è più mezzo ci comunicazione quotidiana.

2.4 Modelli di lingua


Fino a inizio ’900 è prevalso il modello classicista, normativo, che intende la grammatica come l’arte che insegna a parlare e scrivere
correttamente e, identificando il parlato con lo scritto, non ammette forme e costrutti alternativi, ma si fonda sui modelli letterari.
Tale modello è insensibile alla variazione e alla pluridimensionalità della lingua. Una ripresa de classicismo a fine ’800 si ha con i
manuali di Fornaciari. Anche i puristi, altrettanto normativi, ammettono forme letterarie trecentesche desuete. Il manzonismo di fine
’800 mostra una rigida aderenza all’uso fiorentino in ogni sua varietà. La proposta di Manzoni avrà ampio successo, con una serie di
grammatiche pubblicate nel ’900. Più composto il manzonismo di Morandi, che prevede la pronuncia fiorentina ma senza
spirantizzazione né raddoppiamento fonosintattico. Fornaciari, con Grammatica e Sintassi italiana dell’uso moderno mostra una
rivisitazione aggiornata dello spirito classicista, che tiene conto della mutevolezza storica della norma senza rinunciare ad indicarla e
tenta di mediare tra eredità degli scrittori e fiorentinismo (viene definito una ricetta adatta a tutti i palati). Mentre la lingua nazionale
si unificava nei fatti, fasce crescenti di popolazione la acquisivano in parallelo al dialetto, aumentando le commistioni nelle quali si
riconoscono gli italiani regionali. Bisogna aspettare però gli anni ’70-’80 del ’900 per trovare un ideale di lingua aperto alla
variazione e al parlato, più duttile e perciò più complicato da gestire e da insegnare. La presa d’atto delle varietà diventa
legittimazione dell’adeguatezza delle diverse forme linguistiche alle differenti circostanze comunicative. Ne consegue lo spostamento
del baricentro didattico dall’alternativa corretto/sbagliato alla graduazione tra opportuno e non opportuno. Viene però censurata la
mescidazione dei registri. Ma tale filone resta minoritario.
3. La didattica della grammatica
3.1 Le forme della grammatica per la scuola
Fino a inizio ’900 il libro di grammatica non è dedicato agli alunni, ma al maestro, che deve poi mediarne il contenuto dettando
regole ed esempi e proponendo regole, esempi ed esercizi. Il metodo induttivo-positivista ispirato a Girard sviluppa invece un dialogo
maieutico che stimoli l’apprendimento a partire dall’osservazione. Se destinate agli alunni, queste grammatiche si arricchiscono di
dialoghi che imitano la naturalezza dell’apprendimento nella vita scolastica o familiare; ricordiamo a proposito le Regole elementari
di Trenta (dialoghi di tipo catechistico). Quando sono destinati agli scolari, le grammatiche dialogiche ispirate al metodo induttivo si
arricchiscono di un contesto discorsivo-narrativo che imita la presunta naturalezza del discorso pedagogico. In questo modo, si
introduce anche una pedagogia comportamentale, di buone maniere, di senso del dovere e del saper vivere borghese; la Grammatica
di Giannettino di Collodi. Questa narrativa di argomento grammaticale ha successo e procede fino a inizio ’900 con De Amicis. Il
tono discorsivo, anche se in assenza di una cornice narrativa, sollecita il lettore ginnasiale a mettere in dubbio le definizioni
tradizionali. Anche se minoritario, il filone dialogico-narrativo risorge periodicamente, sempre nel tentativo di vivificare la materia
stimolando la riflessione sul linguaggio.
Tra ’8-’900 hanno grande successo anche i compendi per tavole (metodo razionalista e metodista), pensati per i docenti come tracce
per le lezioni o per gli studenti come supporto alla memorizzazione. Segue per ciascuna tavola una struttura fissa fatta di intestazione,
definizione schematica, classificazione delle categorie ed esercizi di ripetizione. Presupponendo già le nozioni di base, non sono
destinati alle scuole elementari.
Le grammatiche per le scuole rurali, volte all’alfabetizzazione elementare e all’acculturazione di base, comprendono anche nozioni di
igiene, economia domestica, agricoltura e allevamento, morale cattolica. Spesso hanno una struttura per mesi, scandendo il discorso
secondo i tempi della vita contadina. Le informazioni grammaticali si riducono a regolette catechistiche sulle parti del discorso, a
tabelle flessive, e ad elenchi di forme irregolari ed errori da evitare.

3.2 Comprendere, semplificare, graduare


Le grammatiche scolastiche sono spesso un prodotto secondario, ricavato da grammatiche generaliste più ampie dello stesso autore.
Quindi, per compendio e semplificazione, si deriva una versione minore da una maggiore dello stesso autore o di un autore celebre
(es. Rodinò adatta la sua Grammatica per i licei arcivescovili e i seminari di Napoli, 237 pagine di editio maior e 80 di editio minor).
Caratteristica delle grammatiche elementari fino a tempi recentissimi è l’analisi delle parti del discorso, mentre la sintassi è
argomento da corso superiore. Nello scalare a un livello inferiore una grammatica pensata per un livello superiore, si ha una tendenza
a irrigidire la norma: si elimina l’andamento discorsivo, si semplificano gli esempi, si omettono intere sezioni. Tipico delle
grammatiche scolastiche è poi il principio di gradualità: suddivisione in lezioni intercalate da riepiloghi; trattazione in volumi
separati. Ciò è volto ad assecondare la progressione dell’apprendimento. Il primo esempio esplicito di organizzazione della materia
non sulla base dell’assetto disciplinare, ma in funzione dei discenti è di Goidanich: per assecondare la progressione
dell’apprendimento, vi sono due corsi (elementare e superiore) che separano la classificazione delle parti del discorso dalla
morfologia, e la microsintassi dalla sintassi di frase. Il criterio generale è distinguere le nozioni urgenti da quelle meno urgenti.

3.3 Gli apparati didattici


Tipici delle grammatiche per la scuola, consistono in tavole e schemi riassuntivi, elenchi, esercizi, ausili mnemonici, domande di
verifica che servono, oltre all’illustrazione delle regole, alla schematizzazione dei concetti e alle tassonomia. Questi apparati sono
talmente connaturati alla didattica della lingua, che nemmeno le grammatiche dialogiche e narrative vi rinunciano. Ci sono sempre le
tavole della flessione verbale, spesso con gli stessi verbi modello. In alcuni casi, invece, si possono avere diagrammi ad albero e
rappresentazioni con freccette, linee di congiunzione, caratteri e tratti che imitano la scrittura manoscritta, riquadri colorati. Nelle
grammatiche per le scuole medie degli ultimi 20 anni, si tende alla schematizzazione con espedienti grafici, con conseguente
destrutturazione della forma libro: ogni poche righe di discorso continuo si hanno elenchi, schemi, tabelle.
Gli esercizi non sono invece una costante: ne sono sprovviste molte grammatiche, specie d’autore e soprattutto per i livelli superiori
di istruzione. Ci sono invece sempre per le elementari e medie, limitati a poche tipologie molto costanti. Inizialmente sono modellati
sull’insegnamento del latino, ma con lo specializzarsi delle grammatiche anche gli esercizi si diversificano. La forma tipica è quella
delle domande di verifica a fine argomento. Molto diffusi anche gli esercizi di riconoscimento e analisi, che propongono frasi o brevi
testi in cui trovare certi elementi, o di condurre per intero l’analisi grammaticale e logica. Negli anni ’90, la maggior parte degli
esercizi riguarda morfologia e sintassi, mentre al lessico e alle 4 abilità (del GISCEL) è riservata un’attenzione marginale.
Spesso, i testi degli esercizi e degli esempi sono specchio di un clima culturale e di una visione del mondo. Nel 1800 gli esercizi delle
grammatiche spesso non testavano solo la lingua, ma anche ad esempio la capacità di distinguere il bene dal male (frasi da
catechismo). Durante il fascismo si insiste sui concetti di amor di patria, affetto filiale, rispetto della religione. Anche la grafica ha
funzione didattica: grassetto, corsivo, maiuscolo e maiuscoletto, spazieggiato sono usati per gerarchizzare il testo ed evidenziare i
termini chiave, definizioni ed esempi.

3.4 Esempi d’autore ed esempi d’uso


Gli anni ’70 del ’900 sono un discrimine anche per la scelta degli esempi: da allora le citazioni d’autore sono pressoché scomparse,
per effetto della presa d’atto della marginalità della letteratura come fonte di modelli linguistici alla società. Alcuni autori nascondono
frasi letterarie negli esercizi senza indicarne l’autore.
4. GRAMMATICHE PER STRANIERI, G. Mattarucco

1. Questioni preliminari
La storia delle grammatiche d’italiano per stranieri inizia con La Grammaire italienne composée en francoys, di Jean-Pierre de
Mesmes (Parigi, 1549). Nel XVI sec. l’italiano è la lingua più prestigiosa in Europa, sicché molti lo studiano (es. Luigi XIV,
Stendhal).
Lorenzo Da Ponte contribuisce a diffondere l’italiano in area anglosassone. Joyce studia italiano e sarà attivo a Trieste. Per gran parte
di questi professori e discenti, la grammatica è fondamentale: sembra quasi identificarsi con la conoscenza della lingua.
Nei secoli si sono quindi avute molte grammatiche italiane per stranieri, da grammatiche pure a manuali compositi. Non si hanno
però tradizioni distinte, ma i libri più fortunati circolano da un paese all’altro, vengono tradotti, riadattati. A volte all’estero si usano
volumi scritti in italiano in Italia, altre volte testi in lingue ponte, come latino, francese, inglese.

2. Geografia e storia
2.1 Le prime grammatiche di italiano per stranieri \\ 2.2 Grammatiche e grammatici
FRANCIA. La storia delle grammatiche d’italiano per stranieri può cominciare con La Grammaire italienne di Jean-Pierre de
Mesmes (1549). Uscita a Parigi, è una grammatica in francese rivolta a francesi da un autore francese. La Grammaire italienne
costituisce una traduzione-rielaborazione di varie fonti tra cui sono citate solo le Prose della volgar lingua. Nel 1659 Claude
Lancelot, solitario di Port-Royal e autore della Grammaire générale et raisonnée, pubblicò anonimamente la Nouvelle méthode pour
apprendre facilement et en peu temps la langue italienne. Il manuale è diviso in tre parti: fonologia e morfologia; sintassi; metrica. La
Prefazione è una sintesi di storia linguistica e letteraria dalle origini al XVII secolo e parla della diffusione dell’italiano in Europa. Il
lavoro di Lancelot (1659) è rivolto ai giovani: nelle petites écoles di Port-Royal gli allievi venivano seguiti nell’intero percorso
educativo, dall’infanzia in poi. Come nei testi per le lingue classiche, così nella Méthode italienne Lancelot cerca di rendere gli
insegnamenti adeguati e graduali. Consapevole del fatto che i ragazzini hanno scarsa capacità di concentrazione ma buona memoria,
fa leva su quest’ultima proponendo alcune regole in francese composte in ottosillabi facili da ricordare. Nei consigli di lettura forniti
nella Prefazione, Lancelot si preoccupa di trovare testi adatti ai discenti sia per livello linguistico, sia nei contenuti, al tempo stesso
stimolanti e conformi alla morale.
Altri autori di grammatiche italiane in francese:
a) Jean Vigneron (italianizzato in Giovanni Veneroni) acquisì una notevole padronanza della nostra lingua e divenne a Parigi un
maestro molto richiesto. Il suo Maitre italien risale all’ultimo quarto del Seicento e ha fortuna in tutta Europa, fino all’Ottocento,
anche per la varietà dei testi di lettura.
b) Niccolò Giosafatte Biagioli, letterato ligure e insegnante di italiano a Parigi, fu autore di una Grammaire italienne pubblicata nel
1805. Intendeva far conoscere a fondo la natura e il genio della lingua italiana. La teoria è corredata da esercizi relativi ai vari
argomenti, capitolo per capitolo, e seguita da un Traité de la poésie italienne.

INGHILTERRA. Il primo manuale completo d’italiano per inglesi, stampato al Londra nel 1550, è Principal Rules of the italian
grammar di William Thomas; anche in questo caso il modello linguistico è il fiorentino aureo, secondo le prescrizioni di Bembo.
Thomas era un avventuriero che conosceva molto bene l’Italia e soprattutto Venezia, dove soggiornò. Tra i nomi più noti per la
diffusione dell’italiano in Inghilterra, Alessandro Citolini, fuggito all’estero nel 1565 per motivi religiosi, pubblica una Grammatica
de la lingua italiana rimasta manoscritta. Nello stesso periodo anche Michelangelo Florio emigra in Inghilterra e lascia una
grammatica manoscritta (le Regole de la lingua thoscana). Il figlio John Florio, insegnante di italiano alla corte di Giacomo I,
traduttore e protagonista della Cena delle ceneri di Giordano Bruno, cura il manuale composito Firste Fruites, con una parte
grammaticale ripresa da Citolini, che però non menziona.

GERMANIA. A discenti tedeschi è rivolta una grammatica in latino, Institutionum florentinae linguae libri duo, pubblicata a Firenze
nel 1569 da Eufrosino Lapini, sacerdote, precettore e letterato fiorentino. Qualche anno prima probabilmente era stata composta da
un precettore comasco una piccola grammatica italiana manoscritta per Giovanna d’Austria in vista delle sue nozze con Francesco I
de’ Medici. La prima grammatica scritta in tedesco è la Grammatica italica, pubblicata ad Amburgo nel 1616 da Heinrich Cornelius
Anchinoander, insegnante di tedesco a Ferrara e di italiano ad Amburgo. Nella Prefazione, Anchinoander spiega di essersi servito del
tedesco perché non tutti conoscono il latino: la sua opera è destinata, oltre che a studiosi, anche a commercianti e viandandanti. Tra le
numerose grammatiche per tedeschi, si deve a Karl Ludwig Fernow, archeologo e storico dell’arte appassionato dell’Italia e studioso
dei dialetti italiani, l’Italienische Sprachlehre, una grammatica ragionata, rigorosa e attenta alle varietà locali.

SPAGNA. La prima, vera grammatica a uso degli spagnoli è l’Arte muy curiosa, pubblicata nel 1596 da Trenaldo de Ayllòn, cui si
deve anche una traduzione del Canzoniere, rimasta inedita: non a caso, gli esempi sono in buona parte petrarcheschi; quanto ai
modelli grammaticali, Trenaldo si richiama all’autorità di Antonio Nebrija, autore della Grammatica della lingua castellana del 1492,
la prima di una lingua volgare stampata in Europa. Nel XX secolo Francisco de Borja Moll cura una Gramatica italiana con
abundantes ejercicios y vocabularios (1937).

RUSSIA. Un’allieva di Propp, Julia Dobrovolskaja, nel 1946 riceve la proposta di insegnare italiano a Mosca e legge la grammatica
di Migliorini. Si è adoperata molto come italianista e traduttrice in Russia; poi, dagli anni Ottanta, si è trasferita in Italia, insegnando
russo. È autrice di un dizionario bilingue russo e italiano. Gli autori delle grammatiche sono sia stranieri, sia italiani o di origine
italiana, per lo più traduttori e insegnanti. Molti autori scrivono anche grammatiche di altre lingue e in quelle italiane si basano sulle
opere di grammatici italiani.
3. Dall’Italia al mondo
3.1 Toscana favella
Sono molti gli stranieri che frequentano le città italiane, soprattutto tedeschi. Per loro, il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici
istituisce a Siena la prima cattedra di toscana favella nel 1589, affidata a Diomede Borghesi. Nel 1632 viene nominato un lettore di
lingua toscana presso l’Accademia fiorentina, Benedetto Buommattei.

3.2 Riprese, adattamenti e traduzioni


Inizialmente, gli autori di tutte queste opere riprendono altre opere precedenti, con tagli e aggiustamenti. In seguito, si formano
edizioni d’autore legittimate. L’enorme produzione grammaticale del XX secolo comprende molti testi per stranieri scritti in italiano,
ma anche adattamenti e traduzioni per destinatari di paesi vari.

3.3 Grammatiche internazionali e plurilingui


Alcune grammatiche d’italiano per stranieri erano scritte in latino, come gli Institutionum florentinae linguae libri duo di Eufrosino
Lapini. Il latino viene scelto come metalingua adatta a un pubblico di destinatari di varia nazionalità anche da diversi autori.
a) Scipione Lentulo, un patrizio nativo di Napoli al quale si devono traduzioni e opere in italiano, nel 1567 pubblica a Ginevra una
grammatica di ampia circolazione. I suoi modelli principali sono Lodovico Dolce e Bembo.
b) Catherin Ledoux (Catharinus Dulcis), originario della Savoia e attivo come insegnante d’italiano in Germania, fu autore di un
manuale composto da una parte grammaticale e da altri testi di vario genere.
c) Nei Paesi Bassi, Carolus Des Mulerius e Johannes Roemer ricorrono al latino per le loro grammatiche.

Furono composte anche grammatiche per imparare due lingue contemporaneamente, come quella per toscano e castigliano pubblicata
da Giovanni Mario Alessandri a Napoli (1560). In realtà è una grammatica contrastiva di spagnolo per italiani. Vera grammatica
bilingue è quella pubblicata nel 1638 da Jean Alexande Longchamps a Roma e divisa in due parti, una Grammaire italienne in
francese e un Trattatello della lingua francese in italiano. Solo nel trattato di francese sono inseriti prospetti di declinazioni e
paradigmi verbali (con le due lingue a fronte).

4. Grammatiche per tutti


4.1 Destinatari e motivazioni
Le grammatiche fin qui ricordate appaiono in prevalenza rivolte ad adulti. Molte presuppongono un pubblico maschile, a giudicare da
esempi e testi di corredo. I destinatari espliciti della Grammaire italienne di Jean-Pierre de Mesmes sono nobili e mercanti,
intellettuali e diplomatici, personaggi diversi per mestiere, comunque uomini. Non mancano però riferimenti alle donne. Ad esempio,
Eufrosino Lapini dedica gli Institutionum florentinae linguae libri duo del 1569 a Giovanna d’Austria, per la quale già nel 1565 era
stata allestita una grammatichetta manoscritta.
In Italia, nel 1500, nei Commentarii di Ruscelli, le donne vengono associate agli stranieri e ai giovani perché non conoscono il latino.
Nel 1674 Matthias Kramer dedica la sua grammatica alle signore per facilitare l’apprendimento anche a chi non conosce il latino.
Le grammatiche per le dame sono tipiche dell’Illuminismo, come Grammaire italienne a l’usage des dames di Antonini.
Nel 1792 a Parigi fu pubblicata da una donna, Peppina Curioni, una grammatica per le donne.
Quanto all’età dei destinatari non sempre è chiara, ma sono di certo pensate a uso di ragazzini la grammatica manoscritta nel 1579 da
Sigismund Kohlreuter, le Regole per la toscana favella di Gigli e il lavoro di Claude Lancelot (1659). Lancelot cerca di rendere gli
insegnamenti adeguati e graduali. Ritiene che la metalingua debba essere la L1 degli apprendenti, e compone le regole in versi
ottosillabi così che siano più facili da ricordare. Le tavole secondo lui non vanno bene se si tratta di introdurre nozioni nuove, ma
solo per riprendere e schematizzare fatti già noti, facendo appello alla memoria visiva (elementi salienti in inchiostro rosso).

4.2 Grammatiche, dizionari, manuali


Le grammatiche per stranieri si ritrovano spesso congiunte a qualcos’altro: tipicamente dizionari, repertori di fraseologia, dialoghi e
letture varie, piccole antologie poetiche. Ai First Fruites di Florio (1578), composti da una serie di dialoghi bilingui, con un piccolo
trattato grammaticale, anche questo in forma dialogica, seguono i Second Frutes [sic] (1591), ovvero nuovi dialoghi uniti a una
raccolta di proverbi. Nelle Recherches italiennes en françoises, Antoine Oudin (1640-43) antepone un compendio grammaticale di
poche pagine a un ampio dizionario italiano-francese, poi completato con la sezione francese-italiano (nel 1642). La grammatichetta
è sintetica e piuttosto convenzionale, mentre il vocabolario è interessante perché registra sia le forme della Crusca sia quelle popolari,
di gerghi e dialetti. Nelle Regole di Girolamo Gigli (1721) la stessa grammatica è sotto forma di dialogo fra maestro e scolaro. Ci
sono, inoltre, degli esercizi e una Raccolta di tutte le voci italiane di buon uso. Oggi, per i primi livelli d’italiano, prevalgono manuali
divisi in unità, nelle quali forme e fenomeni sono presentati gradualmente, in base alle esigenze comunicative, attraverso attività e
testi vari, con riflessioni grammaticali più o meno esplicite. Sussidi di questo tipo vengono in genere affiancati da dizionari bilingui,
mentre alle grammatiche, intese come libri a sé stanti, si ricorre in fasi successive di apprendimento.

4.3 Esempi e modelli linguistici


Paradigma linguistico e canone dei manuali dipendono da molti fattori: periodi e tendenze, interessi dei grammatici, fonti dei singoli
testi. La componente letteraria è fondamentale e prevale il toscano, ma talvolta si registrano anche altre varietà. Giungono citazioni in
primis da Petrarca e Boccaccio, in misura minore dalla Commedia e da altri autori del Due-Trecento. Le tre corone figurano fin dal
titolo dell’opera di William Thomas del 1550 (Principal Rules of the Italian Grammar, with a Dictionarie for the better Undersandyng
of Boccace, Petrarcha, and Dante). I manuali riflettono il clima politico cui appartengono: durante il fascismo prevalgono gli esempi
con il voi su quelli con il lei, che spesso esaltano il regime. Quindi le grammatiche per gli stranieri da un lato restano attaccate alla
tradizione, dall’altro mostrano una grande variabilità: i grammatici intervallano esempi inventati da loro stessi o da altri e citazioni di
classici o altri autori interessanti. Così, ogni manuale contiene e trasmette frammenti diversi di lingua e cultura italiana.
5. PUNTEGGIATURA, A. Ferrari

Non ci sono molti studi sistematici sulla punteggiatura. A quelli che ci sono, manca il riferimento a una teoria della punteggiatura che
permetta di capirne a fondo gli assetti. Dal ’500 a oggi, si è avuta una vera e propria rivoluzione funzionale della punteggiatura.
Nell’800, la punteggiatura viene improntata non più tanto alla morfosintassi, quanto alla costruzione del senso della frase.
L’obiettivo del paragrafo è quello di spiegare i cambiamenti riscontrati. I cambiamenti che si sono verificati dal 1500 ad oggi non
sono solo riassestamenti in direzione di una maggiore coerenza del singolo segno, ma si parla di una rivoluzione funzionale.
L’attenzione sarà concentrata soprattutto sulla virgola: è su di essa che si misura in modo più trasparente la distanza tra il fondamento
comunicativo e quello morfosintattico.

2. La punteggiatura italiana contemporanea tra grammaticografia e linguistica


L’uso contemporaneo della punteggiatura italiana è fondamentalmente comunicativo. Nei loro usi odierni i segni interpuntivi possono
avere le seguenti funzioni: possono, come virgola e punto, segmentare il testo nelle sue unità costitutive, creando a volte gerarchie; e
possono, come il punto interrogativo o i puntini di sospensione, avere un valore interattivo, e indicare la funzione illocutiva dell’unità
che chiudono o attivare significati impliciti.
Le regolarità sintattiche e prosodiche che riscontriamo sono epifenomeni, cioè fenomeni secondari che, a seconda dei casi, emergono
con maggiore o minore forza, ma che non costituiscono la vera sostanza della punteggiatura, la quale è di natura comunicativa.

2.1 Il punto di vista delle grammatiche


Le grammatiche italiane tradizionali oscillano tra una concezione prosodica e una concezione sintattica della punteggiatura. È così ad
esempio nella Grammatica italiana di Serianni (1988), dove per la virgola si dice che «indica fondamentalmente una pausa breve»,
ma, per spiegarne gli usi, si presenta poi un elenco di regolarità sintattiche. Serianni dice che «tra le varie forme che regolano la
lingua scritta, quelle relative alla punteggiatura sono le meno codificate. Alle incertezze pratiche si aggiunge il disaccordo degli
studiosi sulla definizione e sulla classificazione delle singole unità interpuntive». A trent’anni da quest’affermazione le cose sono
cambiate: si è capito che il fondamento della punteggiatura italiana è comunicativo, e che dunque il concetto di codificazione non
può seguire strade di carattere formale.
A favore di un’analisi comunicativa della punteggiatura in generale e della virgola in particolare vi sono diversi argomenti:
a) sono sempre più correnti e sentiti come normali gli usi antisintattici della punteggiatura, quegli usi che introducono una soluzione
di continuità all’interno di segmenti sintatticamente coesi; basti pensare alla combinazione delle congiunzioni coordinanti con un
segno di interpunzione forte (. E, . Ma, . O). La ragione di queste spezzature della sintassi è comunicativo-testuale: il punto fa di
un’unità potenzialmente coesa dal punto di vista semantico due atti illocutivi autonomi, con il risultato di fare della reggente e
dell’elemento staccato l’oggetto di due enunciazioni singole.
b) gli usi interpuntivi dati dalla sintassi come facoltativi, se calati nella realtà dei testi, sono spesso non facoltativi. Ad es, le regole
della punteggiatura dicono che a ridosso di un circostanziale va usata la virgola, ma in realtà, come nei testi a pag.173, non sta bene.
c) quando c’è davvero facoltatività, la presenza o l’assenza della virgola tende a far emergere interessanti differenze di significato
(es.173, la virgola porta ad un climax argomentativo - , a quarant’anni).
d) molti casi di uso della punteggiatura regolare dal punto di vista sintattico nascondono una ratio chiaramente comunicativa. È così
il caso delle subordinate relative. Quando sono restrittive e non chiedono la virgola, esse formano un’unità semantico-comunicativa
unitaria con l’antecedente; quando le relative sono appositive, il loro contenuto è semanticamente autonomo e informativamente
facoltativo rispetto all’antecedente.

2.2 Il punto di vista della linguistica


Il contributo interpretativo che la punteggiatura offre alla testualità consiste nel far affiorare sulla superficie del testo i vari segmenti e
le varie gerarchie semantico-pragmatiche nascosti dalla linearità della sintassi. Quali aspetti vengano segnalati dipende dal tipo di
segno interpuntivo preso in considerazione e dal modello teorico di articolazione testuale a cui si fa riferimento.

La virgola che apre e/o chiude (virgola non coordinativa): un capoverso si articola in enunciati con una funzione illocutiva autonoma
e una funzione testuale. Gli enunciati si articolano a loro volta in unità informative provviste di un ordinamento gerarchico. In primo
piano vi è il nucleo, che definisce la funzione illocutivo-testuale dell'intero enunciato. Esso è accompagnato facoltativamente da
un’unità di quadro, che precede il nucleo e che può indicare di volta in volta le coordinate utili per l’interpretazione denotativa del
nucleo; sempre facoltativamente, ci può essere poi anche un’unità di appendice, la quale arricchisce, precisa o modula il contenuto
del nucleo o del quadro, con informazioni che si collocano sullo sfondo informativo dell’enunciato. Sia l’individuazione degli
enunciati e delle unità informative, sia quella del loro ordinamento e collegamento sono il risultato di due operazioni cognitive
diverse, che si intrecciano: un’operazione top-down, che tiene conto del contenuto globale del testo e dei suoi macroandamenti
tematici, logici ed enunciativi; e un’operazione bottom-up, che prende in considerazione le indicazioni date dalla combinazione di
lessico, morfosintassi e punteggiatura. È in questa seconda operazione che entra in gioco la funzione comunicativa della virgola.
Ogni volta che c’è una virgola che apre e/o chiude vi è anche un confine di unità informativa; quale sia la specifica funzione di
questa – nucleo, quadro, appendice – viene deciso, sempre con di operazioni cognitive top-down, dalla distribuzione sintattica del
segmento e dal suo contenuto denotativo. Questa analisi informativa della virgola spiega tutte le sue apparizioni, obbligatorie,
facoltative o antisintattiche:
- Se una relativa appositiva è tendenzialmente accompagnata da una coppia di virgole, è perché essa costituisce un’unità informativa
autonoma (di appendice) rispetto alla reggente.
- Una relativa restrittiva è invece senza virgole perché il suo contenuto è semanticamente linearizzato con quello dell’antecedente.
- Una circostanziale prereggente sarà tipicamente chiusa da una virgola perché essa svolge la funzione di unità informativa di quadro
rispetto alla reggente, che è un nucleo. Nel caso in cui la circostanziale segua la reggente, la presenza o l’assenza della virgola
dipende dalla relazione informativamente restrittiva o non restrittiva che essa intrattiene con la reggente; nel primo caso non ci sarà,
nel secondo invece la virgola è la benvenuta.
- Quando la virgola è testualmente facoltativa, compare nel caso in cui lo scrivente abbia voluto creare un’unità informativa
autonoma e non compare se la scelta comunicativa è la linearizzazione semantica.
Nei suoi usi contemporanei, la virgola che apre e/o chiude segnala dunque la presenza di un confine di unità informativa. Il contrario
non è tuttavia vero: si può dare il caso di confini informativi non segnalati dalla virgola. Tale dissimmetria lascia aperti due
importanti spazi di variazione. Prima di tutto, essa prevede differenze da lingua a lingua: ad esempio, il francese – anch’esso
caratterizzato da una punteggiatura comunicativa – tende a marcare interpuntivamente i confini di unità informativa più spesso di
quanto non lo faccia l’italiano. In secondo luogo, l’assenza di biunivocità tra confine di unità informativa e virgola lascia spazio alle
variazioni individuali. Chi sceglie un uso fitto della virgola, vorrà mettere in scena tutte le articolazioni informative che
caratterizzano il testo, mentre chi ne fa un uso leggere devolve il lavoro interpretativo al lettore.

2.2.2 Le relazioni tra virgola e prosodia


L’analisi della virgola che apre/chiude mostra quale sia la relazione tra punteggiatura e prosodia, la quale si rivela un rapporto
indiretto. Abbiamo visto che la virgola, nello scritto, crea unità informative, le quali hanno nel parlato una prosodia dedicata; il
lettore, leggendo ad alta voce, restituisce in modo più o meno fedele la prosodia che è abituato ad attivare nella conversazione
parlata. Questa attivazione dipende da percorsi cognitivi complessi, il che fa pensare che la relazione tra virgola e prosodia sia:
- indiretta: la corrispondenza più univoca e sistematica vige tra la virgola e il punto in cui compare. Nel parlato, il passaggio da
un’unità informativa all’altra è caratterizzato da continuità prosodica (confine intonativo non terminale): dato che la virgola segna
sempre un confine informativo, la microfrattura intonativa emergerà quindi sistematicamente ogni volta che il lettore ne incontrerà
una nel testo.
- sottospecificata: ogni tipo di unità informativa ha la sua specifica prosodia; per capire di quale unità si tratti non basta la presenza
della virgola, ma entrano in gioco anche altri fattori come la distribuzione dell’unità informativa all’interno dell’enunciato o la
macro-struttura semantico-pragmatica.
- parziale: la punteggiatura partecipa alla definizione prosodica dell’unità anche in modo parziale: un segmento delimitato da virgole
può essere un’unità di quadro, di appendice o un nucleo. Per decidere, bisogna considerare la struttura morfosintattica e semantico-
denotativa di ogni unità all’interno dell’enunciato.
Per creare l’andamento prosodico, la punteggiatura deve dialogare quindi con tutti gli altri livelli di lingua.

3. L’uso della punteggiatura italiana in diacronia: il primo Novecento e il secondo Settecento


La punteggiatura italiana non è sempre stata comunicativa. L’interpunzione era morfosintattica (funzionamento vicino a quello
dell’interpunzione tedesca odierna). Punto di partenza, il secondo Settecento, in cui l’uso della punteggiatura era ancora nettamente
morfosintattico; punto di arrivo, il 1912, con il manuale di ortoepia e ortografia di Malagoli, che descrive un uso della punteggiatura
decisamente comunicativo. Nei decenni successivi, l’impronta comunicativa è diventata sempre più profonda, raggiungendo il picco
massimo negli anni Settanta-Ottanta del Novecento, quando la punteggiatura ha cominciato a svolgere massicciamente il suo lavoro
comunicativo-testuale a prescindere dalla sintassi. Uno style coupé che a fine Novecento e a inizio del nuovo millennio è rientrato era
quello dei giornali, in cui andava di moda il punto che spezza la sintassi e l’uso di frasi senza verbo. Il passaggio da fine Cinquecento
al Settecento è perfezionamento del criterio morfosintattico. A fine Cinquecento, la punteggiatura combinava il criterio sintattico
imperfetto con quello pausativo, dando luogo a una punteggiatura fittissima, via via diradata grazie alla razionalizzazione secentesca.

3.2 Il primo Novecento: il manuale di Giuseppe Malagoli


Il manuale di Malagoli (1912) regista un uso decisamente comunicativo: questo anche se – come succede ancora nella Grammatica
italiana di Serianni (1988), ma le regolarità continuano a essere espresse in termini sintattici.
- Per quanto riguarda la frase semplice, hanno carattere comunicativo sia le regolarità, sia le eccezioni. Ad esempio, si dice che nella
sequenza sogg-V la virgola non ci sta, ma «la cosa è diversa quando il sogg venga dopo il V, oppure quando il sogg sia complesso».
Malagoli dà una spiegazione in termini di ambiguità, ma in realtà la fenomenologia in gioco è di natura comunicativa: un sogg o un
ogg dislocato a destra coincide con un’unità informativa autonoma.
- Un ragionamento simile si applica alla coordinazione sintagmatica tramite e oppure o: la virgola non va posta davanti alla
congiunzione quando le parti coordinate formano un unico concetto; tuttavia se le parti simili della proposizione si vogliono
distinguere, la virgola sarà necessaria.
- Quanto alle subordinate circostanziali, Malagoli dice che si separano con la virgola quando sono preposte a quella da cui
dipendono, e che invece, se posposte, non hanno segno di interpunzione se indicano circostanze contemporanee o in stretto rapporto
con il fatto principale.

Le regolarità sono quindi di natura comunicativa.

3.3 Il (secondo) Settecento: le grammatiche di Salvatore Corticelli e di Francesco Soave


Di tutt’altro genere è l’immagine dell’uso della virgola che emerge nelle due grammatiche più rappresentative del secondo
Settecento: le Regole di Corticelli (1745) e la Gramatica ragionata di Soave (1771).
- Le Regole di Corticelli denunciano un uso radicalmente morfosintattico della virgola. La virgola si combina sistematicamente con le
congiunzioni coordinanti, a meno che esse siano replicate, nel qual caso la loro prima occorrenza è sprovvista di virgola; lo stesso
vale per i pronomi relativi e con le congiunzioni in genere. Nessuna apertura verso regole con fondamento comunicativo.
- La Gramatica ragionata dedica alla punteggiatura una trattazione molto veloce e superficiale (Port-Royal è più attento a costruire
sistemi logico-sintattici piuttosto che occuparsi di un livello linguistico, quello della punteggiatura, il cui funzionamento era collegato
all’apparire di certe forme superficiali). Per quanto riguarda l’uso della virgola, come Corticelli, Soave sposa una concezione
strettamente sintattica. Rispetto alla trattazione di Corticelli, ci sono due novità significative, una teorica e una normativa. Dal primo
punto di vista, si può osservare che Francesco Soave si premura di giustificare le regole proposte, in particolare la coordinazione
sindetica dei sintagmi: per il grammatico, «la virgola serve a distinguere le proposizioni una dall’altra»; ora, poiché la congiunzione
di sintagmi è l’unione di due proposizioni in cui si cancella la parte comune, la virgola deve obbligatoriamente accompagnare la
congiunzione e. Dal punto di vista normativo, Soave apre alla possibilità di non avere la virgola. Questa apertura registra l’inizio
dello scollamento tra morfosintassi e regolarità interpuntive. Il movimento è tuttavia ancora molto timido. Lo stesso Soave continua a
privilegiare la ratio morfosintattica.
4. Il secondo Ottocento: la svolta
È in questo periodo che prende corpo quella svolta verso un uso della punteggiatura a base comunicativa che troverà un primo assetto
a inizio Novecento. La svolta non è sistematica, né del tutto omogenea: le grammatiche che adottano un punto di vista comunicativo
convivono con grammatiche dalla concezione morfosintattica; le prime contengono ancora rimasugli della concezione settecentesca.
Il punto di vista morfosintattico e quello comunicativo si distribuiscono all'interno dei due grandi modelli grammaticali che si
fronteggiano nel secondo Ottocento: quello toscano-manzoniano di Petrocchi (1887), di Morandi, Cappuccini (1894) e di Zambaldi
(1905) e quello di tradizione puristico-classicista, rappresentato da Corticelli e da Puoti, che continuavano a essere ristampati. La
concezione comunicativa della punteggiatura tende a stare dalla parte delle grammatiche di impronta manzoniana, e quella
morfosintattica tende a essere assunta dalle opere a vocazione puristica.

4.1 La grammatica di Puoti e quella di Zambaldi


Le due grammatiche che mostrano in modo netto l’affrontarsi delle due concezioni interpuntive sono quella di Puoti (1850) e di
Zambaldi (1905).
- Puoti, legato a un modello di scrittura fortemente classicheggiante, descrive e pratica una punteggiatura morfosintattica. Riguardo
alla virgola, essa deve comparire ogni volta che si passa da una proposizione all’altra, quindi prima di tutte le frasi subordinate,
coordinate e relative. La concezione conservativa dell’uso della punteggiatura è confermata dalle scelte dello stesso Puoti.
- Il manzoniano Zambaldi propone una descrizione dell’uso della punteggiatura lontana da quella registrata da Puoti e vicina a quella
delle grammatiche tradizionali odierne. La virgola non si usa nella coordinazione sindetica e con le argomentali, mentre ci vuole con
le altre subordinate e deve comparire quando ci sono gli incisi. Sono tendenze sintattiche che in realtà nascondono una ratio
comunicativa. Nella sua scrittura Zambaldi si attiene alle regole da lui descritte, con tuttavia alcune oscillazioni e una differenza
tendenziale. L’indecisione vale per il caso delle relative, che a volte sono accompagnate dalla virgola anche se restrittive.

4.2 Altre grammatiche del secondo Ottocento


La conservatività dell’uso interpuntivo non è necessariamente accompagnata da una descrizione linguistica obsoleta e da una sua
comprensione superficiale, e le regole proposte dalle grammatiche manzoniane sono sì ormai rivolte al Novecento, ma spesso sono
ancora traballanti e non del tutto omogenee.
- La grammatica di Fornaciari (1881) è una grammatica puristico-classica. Tuttavia, presenta un trattamento della punteggiatura che
si stacca in modo evidente dalle altre grammatiche puristiche ottocentesche. L’uso interpuntivo descritto e praticato da Fornaciari
resta nel suo insieme conservativo, legato a una ratio morfosintattica: le subordinate circostanziali postreggente sono
sistematicamente seguite dalla virgola, anche quando sono consecutive correlative e più in generale hanno un valore semantico
restrittivo; o la virgola è messa tra frasi coordinate tramite o o e. Ciò detto, non mancano aperture a usi più moderni di carattere
comunicativo, descritti tuttavia in modo imperfetto, più come eccezioni motivate che come nuove tendenze d’uso. È come se
Fornaciari avesse intuito il cambiamento in corso, ma, dati i suoi riferimenti costanti alla lingua del passato, cercasse di combinare in
modo ragionato i due tipi di regolarità (morfosintattica e comunicativa).
A questo proposito, è interessante il caso delle relative. Il nostro autore intuisce che si va designando una distinzione interpuntiva tra
le restrittive e le appositive; egli limita la restrittività e la presenza della virgola solo ai casi in cui la testa della relativa sia un
pronome o un sostantivo con significato generico (cosa, fatto…).
Appurata la conservatività degli usi della virgola descritti e praticati da Fornaciari, non si può però non osservare la modernità e
lucidità della trattazione della punteggiatura offerta dalla Sintassi italiana dell’uso moderno. La si misura soprattutto riguardo al
punto fermo: l’uso del punto viene trattato come una questione testuale. Per spiegare l’impiego del punto, non si limita a dire che esso
chiude il periodo, ma si ragiona sul senso del periodare ampio e del periodare breve, regolato prima tendenzialmente dalla retorica. A
ciò va aggiunto che Fornaciari decide di inserire la trattazione della punteggiatura nella Sintassi, sottraendola sia alla fonologia sia
alla grammatica.
- Le grammatiche manzoniane di Petrocchi (1887) e di Morandi, Cappuccini (1894), per quanto riguarda la punteggiatura, sono in
linea con quella di Zambaldi: l’apertura alla funzione comunicativa è ormai un dato di fatto. La trattazione e l’uso riscontrato nelle
parti esplicative mostrano che la coordinazione sintetica di sintagmi non è più accompagnata dalla virgola, che lo stesso vale per le
subordinate argomentali e che la distinzione interpuntiva tra relative appositive e restrittive è ormai una realtà. Si incontrano però
incertezze, qualche differenza e abitudini settecentesche. Le incertezze riguardano le relative restrittive, che a volte, soprattutto
quando scelgono un introduttore della serie il quale, continuano a mantenere la virgola. Va notato comunque che l’apertura rilevata
nei confronti dell’uso comunicativo della punteggiatura non ha riscontro nelle regole e nelle spiegazioni che vengono fornite. Quando
Morandi e Cappuccini elencano i casi in cui non ci vuole la virgola frasale, convocano come fattori determinanti la lunghezza e
brevità della frase o la presenza di forme lessicali, appoggiandosi dunque a dati di tipo chiaramente morfosintattico. E’ interessante
vedere come il testo contenga una punteggiatura che scandisce in modo trasparente la sua architettura informativa (pag.193)

4.3 Appunti sull’interpunzione manzoniana


La punteggiatura praticata dalle grammatiche manzoniane è più moderna perché esse, a differenza di quelle puristico-classiche,
guardano alla scrittura a loro contemporanea. Su questa scrittura Manzoni con i Promessi sposi ha esercitato un influsso evidente, ha
realizzato un modello di lingua. È noto che tale influsso si è esercitato soprattutto sulla fono-morfologia e sulla sintassi; ma anche per
la punteggiatura durante la revisione dell’edizione del 1842 Manzoni mostrò una singolare attività nel migliorare l’aspetto ortografico
e interpuntorio del suo testo. Il risultato è un uso interpuntivo (iper)abbondante. La sovrabbondanza della punteggiatura dei Promessi
sposi deriva dal fatto che Manzoni coniuga un’interpunzione morfosintattica del Settecento con una punteggiatura comunicativa che
guarda verso il Novecento, con un ulteriore tratto di derivazione francese. La pratica interpuntiva bifida di Manzoni si misura a
livello macroscopico, ma emerge attraverso incoerenze anche se si guarda a singole strutture sintattiche. Rappresentativo a questo
riguardo è il caso delle subordinate relative: in generale vale la tendenza comunicativa ad accompagnare con virgole solo le relative
appositive; questa scelta comunicativa moderna è marcata da eccezioni. Per quanto riguarda la combinazione della virgola con la
congiunzione e, si rileva invece un movimento contrario: la tendenza di impiego è morfosintattica, ma è accompagnata da eccezioni
che possono essere interpretate in termini comunicativi. In generale la ratio morfosintattica emerge nel caso della coordinazione
frasale, della subordinazione oggettiva, della subordinazione circostanziale postreggente; mentre l’attenzione all’articolazione
informativa si ha quando si guarda alle relative, quando compaiono elementi circostanziali interni all’enunciato e quando ci sono
soggetti tematici.
I Promessi sposi sono caratterizzati dalla combinazione instabile di una punteggiatura morfosintattica e di una punteggiatura
comunicativa, che ipermarca gli snodi informativi dell’enunciato. La punteggiatura risulta quindi abbondante, non sempre coerente,
caratterizzata da scelte di matrice diversa. Questa scrittura ha influenzato la scrittura letteraria e non del secondo Ottocento.

5. Prima del Settecento


La storia della funzione della punteggiatura dal secondo Cinquecento al Settecento è la storia del perfezionamento dell’uso
morfosintattico, uso che a partire dal secondo Ottocento vira decisamente verso una funzionalità di tipo comunicativo. Nel
Cinquecento l’aver capito l’importanza della punteggiatura per la leggibilità sfocia in un martellamento interpuntivo dei testi per noi
del tutto inusitato, il che discende da un uso interpuntivo che alla ratio morfosintattica somma la ratio intonativo-pausativa. Questa
situazione è confermata da Lombardelli, l’autore del primo trattato sulla punteggiatura.
Rispetto al Cinquecento, nel Seicento tutto si razionalizza. L’interesse dei trattatisti secenteschi sembra frutto di una mentalità molto
più ordinata: essi si pongono il compito di cogliere la funzione dei quattro segni base (virgola, punto e virgola, due punti, punto
fermo), di cui viene uniformemente riconosciuta la diversa intensità. La razionalizzazione sta soprattutto nella selezione del solo
criterio morfosintattico (vs sintattico + intonativo-pausativo). Ciò risulta confermato dalla Prattica di Rogacci, che propone regole
improntate alla superficie morfosintattica della frase. La trattazione della punteggiatura offerta da Bartoli nell’Ortografia italiana
(1671) occupa una posizione a parte. Il suo è infatti un punto di vista straordinariamente attuale, non solo per l’uso interpuntivo che
descrive e pratica, il quale si apre a qualche scelta comunicativa, ma soprattutto per la concezione teorica, senz’altro pragmatico-
comunicativa. Lo spostamento verso una concezione comunicativa caratterizza anche il trattamento di ogni singolo segno di
punteggiatura.
6. GRAFIA E PRONUNCIA, G. Vaccaro

1. Questioni preliminari
ORTOGRAFIA. L’errore ortografico è sempre stato stigmatizzato perché, a contrario degli altri livelli di lingua, l’ortografia si
apprende per un insegnamento esplicito. L’insegnamento dell’ortografia si basa su una norma relativamente stabile nel tempo, a
impianto fondamentalmente fonetico, lasciataci in eredità dalla tradizione con una progressiva definizione o standardizzazione di
alcuni aspetti che hanno prodotto un sistema abbastanza rigido. La trattazione della grafia e della fonetica nelle grammatiche italiane
è tuttavia breve e limitata a pochi aspetti, esemplificata spesso nei medesimi modi, priva di norme generali e concentrata piuttosto sui
singoli casi. Le cause di questa scarsa attenzione sono le seguenti:
a) La sostanziale equivalenza tra sistema grafematico e sistema morfematico. Tale corrispondenza è biunivoca in un
numero abbastanza alto di casi: delle 21 lettere dell’alfabeto, 11 hanno un valore univoco (a, b, d, f, l, m, n, p, r, t, v); 8
hanno valore polivalente (c, e, g, i, o, s, z,u); 1 ha solo valore diacritico (h), 1 è funzonalmente sovrabbondante (q).
Abbiamo poi 5 digrammi (gn; gl + i; sc + i; ci + a, o, u; gi + a, o, u) e due trigrammi (sci + a, e, o, u; gli + a, e, o, u).
b) Solo con l’Unità e, conseguentemente, con la scolarizzazione obbligatoria si pose il problema di “insegnare” l’ortografia.
Il paradigma scolastico era quello dell’istruzione classica; il modello delle grammatiche non poteva che ispirarsi a una
visione dell’italiano in prospettiva marcatamente diacronica e letteraria.

Gli argomenti trattati sul fronte ortografico riguardano principalmente il piano della lingua poetica, e la gran parte delle trattazioni
ottocentesche è concentrata principalmente su fenomeni metrici prima che su fenomeni effettivamente grafici. Si ha quindi una
visione prodromica di grafia e fonetica rispetto alla grammatica vera e propria, confermata dal fatto che questi capitoli sono di solito
premessi alle trattazioni grammaticali. Le regole di grafia e pronuncia erano in genere raccolte in volumetti di uso pratico.

FONETICA. Sulla sostanziale assenza di una trattazione relativa ai fatti fonetici influisce la grande difficoltà di indicare delle norme
più o meno fisse, delle linee di massima. Inoltre, vi è una sostanziale assenza di una norma di pronuncia normativa. Lepschy (1978)
nega direttamente l’esistenza di una norma standard; secondo Serianni (1988), invece, «un italiano di questo tipo c’è ed è in
espansione» e ha «alla base il modello fiorentino colto depurato di alcuni tratti idiomatici (gorgia e spirantizzazione delle affricate
alveolopalatali)». Altri vedono in espansione la pronuncia di Milano, e negli anni ‘60 e ‘70 ha fortuna l’italiano de Roma.
L’assenza di una norma codificata si giustifica con la sostanziale appartenenza dell’italiano al solo ambito scritto almeno fino
all’Unità. L’esigenza di una trattazione della questione della pronuncia nacque con l’istruzione elementare unica, ma si sviluppò in
modo determinante con l’affermazione dei mezzi di telecomunicazione. Tuttavia, mentre per l’ortografia esisteva almeno una norma
già in uso, nulla di simile esisteva dal punto di vista della fonetica. Sul fronte scolastico non è mai stata affrontata compiutamente la
sistemazione di una norma che andasse al di là dell’indicazione delle opposizioni nell’apertura vocalica. Gli aspetti fonetici sono stati
in gran parte delegati agli strumenti lessicografici. L’assenza di una norma codificata ha portato alla compresenza di due modelli
fonetici non perfettamente sovrapponibili: il fiorentino colto e il romano colto. Al primo modello si rifanno i dizionari toscani della
fine dell’Ottocento; al secondo si rimanda per la prima volta nel Prontuario di pronunzia e di ortografia (1939) creato per gli
annunciatori dell’EIAR. La fine del regime fascista e la conseguente censura culturale sulle opere lessicografiche prodotte durante il
ventennio condussero all’oblio di quello strumento e ciò portò nel 1959 la RAI ad avviare la realizzazione di un nuovo Dizionario di
ortografia e di pronunzia, affidato a Migliorini (1969); questo assunse un carattere intermedio tra le due pronunce, ammettendo
spesso entrambe. Il progressivo tramonto della pronuncia fiorentina è riscontrabile nel GRADIT (Grande dizionario italiano
dell’uso). De Amicis stigmatizza le pronunce errate delle varie parlate regionali.

1.2 La formazione del sistema


Fino all’800, lo spazio dedicato alle questioni ortografiche nelle grammatiche era assai ridotto, sulla base della convinzione che fosse
competenza degli insegnanti e sull’assunto che una corretta pronuncia generasse automaticamente una corretta ortografia.
Fino all’Unità le grammatiche non si occupano di questioni ortografiche, che sono tra l’altro spesso confuse con fatti fonetici
(presenza o meno di anafonesi come consiglio e conseglio, dittonghi, alternanza di fonemi come rosso e roscio). La continua
commistione tra i due ambiti è tipica dei trattati di fonetica del Cinquecento, che tendeva a razionalizzare e uniformare, mediante
l’applicazione rigida di un preciso modello, un settore – quello della scrittura – che fino a quel momento appariva affetto da grandi
oscillazioni. La fluidità del sistema grafico e l’oscillazione tra soluzioni prossime alle scrizioni etimologiche (ti per tS) e soluzioni
viceversa più aderenti agli esiti fonetici (lgl per gl) sono caratteristiche costitutive della lingua italiana a partire dalla sua fase
aurorale. La progressiva affermazione del volgare genera un sistema che tende a uniformarsi nelle linee di fondo e a mettere in atto,
almeno in gruppi sociali ristretti e coesi, fenomeni comuni, tesi alla disambiguazione degli omografi (graficamente e per è).

Con la diffusione della stampa a caratteri mobili, a partire dalla fine del 1400 ebbe inizio un lento processo di regolarizzazione della
grafia: con il crescere nella società del bisogno di scrittura e di lettura, l’editoria diventa un’industria che ha la necessità di strumenti
linguisticamente omogenei. Nel Cinquecento si è determinato un progressivo processo di semplificazione grafica che portò alla
creazione di sistemi ortografici abbastanza omogenei. Questa questione era però meramente letteraria.
Ragioni storiche, politiche e culturali hanno fatto sì che alla lingua scritta fosse dato spesso il ruolo di bandiera dell’italianità; ciò ha
portato di conseguenza alla stabilizzazione di un sistema linguistico fortemente conservativo, quadro di riferimento univoco al di
sopra di un quadro fonetico soggiacente multiforme. La norma, prima di imporsi tramite trattazioni grammaticali, si diffonde
attraverso il modello fondamentalmente petrarchesco proposto da Bembo nell’edizione aldina del Canzoniere di Petrarca del 1501, e
poi soprattutto grazie all’asse “modernizzante” Salviati-Vocabolario della Crusca. I principi della grafia bembiana erano:
- l’assimilazione dei nessi consonantici latini BS, CT, MN, PT, X;
- l’uso esclusivamente etimologico dell’h;
- l’eliminazione sistematica dei nessi ch + a, o, u;
- l’uso dei digrammi grecizzanti ch, th, ph;
- l’uso costante del nesso ti + vocale.
Il modello bembiano aveva ispirato un lungo dibattito tra vesti arcaizzanti dei testi e normalizzazione grafica. Nell’oltre mezzo
secolo trascorso dall’edizione aldina di Petrarca curata da Bembo, si era imposta una prassi grafica assai più semplice, che rispettava
il principio di scrivere come si parla (cadute rapidamente in disuso k, x e y e i digrammi grecizzanti). Della proposta bembiana si era
imposta, ad esempio, l’assimilazione dei nessi consonantici latini.
Negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decameron, Salviati (1584) deve conciliare due sistemi inconciliabili e opposti: la grafia e la
pronuncia antiche in opposizione a quelle moderne. Salviati intervenì massicciamente sulla grafia: assimilò i nessi consonantici;
cancellò l’h all’interno di parola, e la inserì nelle voci del verbo havere; semplificò alla sola c i digrammi sc presenti nelle forme del
tipo bascio. Pervasivo fu anche il trattamento delle consonanti intervocaliche, spesso raddoppiate (femmina) e più raramente
scempiate (eterno). Le regole enunciate negli Avvertimenti saranno adottate pressoché integralmente dagli accademici e poi diffuse su
amplissima scala dal Vocabolario del 1612. Oltre alle soluzioni propugnate da Salviati (e soprattutto la resa di ti + vocale con z), il
Vocabolario stabilizzerà la doppia z per l’affricata palatale intensa sia sorda, sia sonora (pazzo e mezzo). Del pari si affermano le
soluzioni x > ss, ex > es ed exc- > ecc-. Anche nel settore delle consonanti doppie le scelte della Crusca si sono affermate
nell’italiano moderno. La norma grafica fissata dalla Crusca si è rapidamente imposta ed è divenuta modello: la cristallizzazione del
sistema grafico è dunque avvenuta lontano dalla trattazione grammaticale, che – tranne che in pochi periodi – si è limitata a rade
indicazioni o a vagheggiati ma mai attuati progetti di riforma.

2. Il caso delle vocali: aperte e chiuse


Le grammatiche italiane mostrano un’attenzione ai fatti grafici e fonetici solo in pochi e ben determinati momenti della storia
linguistica italiana, con una selezione dei casi trattati, un modo di trattarli e l’esemplificazione con cui trattarli il cui modello è
individuabile nella Grammatica di Giannettino di Collodi (1883): e quindi pronuncia aperta o chiusa della e e della o, pronuncia
occlusiva o affricata della c e della g, pronuncia sorda o sonora della s e della z, uso dell’h in principio di parola, mantenimento della
i come mero segno grafico, uso delle doppie. Mentre Collodi stigmatizza l’uso scorretto del timbro della vocale, nelle grammatiche
novecentesche, invece, si osserva soltanto il valore oppositivo di e e o aperte e chiuse: la neutralizzazione dei due gradi, anche se
produce un inevitabile impoverimento della lingua, non è grave perché rientra nelle tendenze omologatrici dell’uso linguistico; la
distinzione deve essere conservata quando costituisce un tratto distintivo. Nella gran parte delle grammatiche la possibilità oppositiva
si limita a liste esemplificative. Patota (2006) mantiene la distinzione solo per le parole che si distinguono esclusivamente per la
vocale aperta o chiusa; Sensini sostiene che questa distinzione è rispettata solo dai toscani e dagli attori.

3. Sorde o sonore: la s
La mancanza di un modello linguistico condiviso appare particolarmente evidente nel caso della s scempia, in cui la pronuncia sorda
o sonora ha valore ha valore distintivo solo in pochi casi, al punto che alcuni dubitano la fonematicità di \z\. Il DOP divide i casi di s
sorda e sonora. Si ha dunque s sorda quando è l’iniziale di un secondo componente (affittasi, qualsiasi); in -ese e i suoi derivati; in
-osi, -ose, -osero, -oso e desinenze del passato remoto e del participio passato; in -oso e -osa suffissi e derivati e in alcune parole
isolate non predicibili (ad es. casa, cosa, così, mese…). Viene comunque segnalata la generalizzata pronuncia macroregionale di [z]
nell’Italia settentrionale e di [s] nell’Italia centrale e meridionale. I foni si alterano senza che sia possibile stabilire una regola. Nelle
grammatiche scolastiche si tende a preferire una pronuncia sempre sonora.

4. La scrizione dell’accento
Se l’indicazione degli accenti sulle parole nello scritto risulta tra le parti più stabili e più uniformemente trattate nella
grammaticografia italiana, la sezione sulla posizione dell’accento nelle parole è tra quelle in cui il trattamento maggiormente si
dicotomizza tra grammatiche di consultazione e grammatiche scolastiche. Per quanto riguarda la forma di accento da usare si è
imposto lo schema à, è, é, ì, ò, ó (usabile solo all’interno di parola), ù. Sul primo fronte, infatti, sono costantemente indicati come da
scrivere obbligatoriamente accentate le parole ossitone, i monosillabi con possibili omografi (ché ‘perché’, dà ‘verbo’, là ‘avverbio’,
lì ‘avverbio’, né congiunzione’, sé ‘pronome’, sì ‘avverbio’, tè, dì) e i polisillabi composti con monosillabi che, usati da soli, non
portano accento grafico (tre, re, blu, su : ventitré, rossoblù, tiramisù). Disaccordi nell’uso di sé stesso accentato o no: a partire da
Serianni (1988) sempre più grammatiche hanno prescritto l’accento, mentre la gran parte si limita a indicarlo come facoltativo.

5. Tra demotivazione normativa e ortografia prescrittiva


Negli anni Cinquanta-Sessanta si assiste a una svalutazione dei problemi di ortografia sulla scorta della pedagogia di don Lorenzo
Milani, che considerava l’errore e la correzione un importante strumento di lavoro nell’ambito di una dinamica educativa fondata
sull’inclusione. Le proposte di don Milani hanno portato a una svalutazione degli aspetti ortografici, paragrafematici e grafematici.

6. Proposte di riforma del sistema ortografico


La norma grafica è rimasta sostanzialmente quella fissata nel Cinquecento, ma è esistita una lunga tradizione di riforme e
razionalizzazione della grafia e dell’alfabeto. I tentativi di riforma si dividono in due correnti opposte:
a) Gli etimologisti: scarsa minoranza, persistono ancora nell’Ottocento. Un esempio è Gherardini, che volle rimodulare la grafia
italiana sulla base del riconoscimento delle radici latine.
b) I fonetisti: maggioranza, cercano una precisa corrispondenza tra segno e suono. Il primo a proporre l’uso per il volgare di un
“alfabeto fonetico” fu Leon Battista Alberti, che nella Grammatichetta propose lo schema di un nuovo alfabeto che mostrasse
l’autonomia del volgare dal latino. Le proposte di riforma successive investiranno pressoché gli stessi problemi individuati da
Alberti: e dunque la mancata individuazione del grado di apertura vocalica per e e o; la mancata distinzione della differenza tra s e z
sorde e sonore, tra i e u vocali e le corrispettive semiconsonanti; il problema dei digrammi e dei trigrammi, e dunque la mancata
corrispondenza grafema-fonema.
In questo panorama Trissino, nel 1524, fu il più avanzato riformatore. Le proposte del letterato vicentino consistono anzitutto
nell’introduzione delle lettere greche ε e ω per e e o aperte; l’uso di ζ (all’inizio di parola) e ç (all’interno di parola) per z sonora; tra i
vocale e j semiconsonante e tra u e v. Nella grammatica del 1529 si trovano altre 4 innovazioni: ki per ch + semivocale, ſ per s
sonora, lj per gli. Con la fine del Cinquecento e con l’affermazione di una grafia “moderna” di base salviatesca e cruscante, le
proposte di riforma in senso fonetico vennero meno. Solo con il riaffioramento, in epoca postunitaria, di una questione della lingua si
ebbero nuovamente delle proposte in questo senso, come quella di Petrocchi, che però non hanno avuto fortuna.
Le uniche riforme ortografiche sono state quelle di Bembo, della Crusca e di Salviati.
7. NOME E AGGETTIVO, E. Picchiorri

1. Questioni preliminari
Il rapporto instaurato dalle prime grammatiche italiane con la tradizione latina è ben rappresentato dai settori del nome e
dell’aggettivo, che per alcuni aspetti risentono profondamente dei modelli, mentre per altri conoscono innovazioni spesso legate alle
esigenze di descrizione specifiche del volgare. Significativo è, ad esempio, l’atteggiamento assunto nei confronti della descrizione
del nome per mezzo degli accidenti, che nei grammatici latini erano generalmente cinque o sei (qualitas, genus, figura, numerus,
casus): alcuni tra i primi grammatici italiani ripropongono lo schema classico più o meno fedelmente, mentre molti decidono di
abbandonare questo modello descrittivo recuperandone tuttavia quando necessario singole categorie.

1.1 Nome sostantivo e nome aggettivo


Tra gli elementi della tradizione latina che le prime grammatiche recepiscono più compattamente è la classificazione dell’aggettivo
come sottoclasse del nome. Le principali grammatiche rinascimentali accolgono la suddivisione del nome nelle due sottoclassi del
nome sostantivo e nome aggettivo. Solo nell’Ottocento l’aggettivo guadagna la dignità di classe di parole anche in Italia, sulla scia
della riflessione teorica francese. La trattazione congiunta delle due parti del discorso costituisce un problema non solo per
l’organizzazione della materia e la terminologia, ma anche per l’individuazione delle rispettive funzioni del nome e dell’aggettivo.
A partire da Bembo (1525), il criterio per distinguere le due sottocategorie del nome è di tipo sintattico: i sostantivi “possono stare in
piedi da soli”, gli aggettivi “si appoggiano a questi e non possono stare altrimenti”. Conseguente è il fatto che la funzione appositiva
sia riconosciuta come caratteristica propria dell’aggettivo ma non del sostantivo. Viene elaborata una categoria intermedia tra
sostantivi e aggettivi, quella dei nomi ambigui (in seguito detti di mezzo o partecipanti), che è largamente presente nelle grammatiche
tra Cinquecento e Settecento perché risponde all’esigenza di contemplare la possibilità che un sostantivo abbia valore di apposizione,
cioè accompagni un altro nome per determinarlo. Sono considerati nomi ambigui voci come re, console, padre, che si comportano da
sostantivi quando “stanno per sé” e fungono da aggettivi quando si accompagnano a un nome. La categoria sparisce in concomitanza
con l’affermazione della separazione tra nome e aggettivo. In tutti i casi, la categoria sembra riguardare pochi tipi nominali ben
individuati; non si prende mai in considerazione l’idea che questa funzione possa essere svolta da qualsiasi nome.

1.2 Le allotropie
Mentre sul versante descrittivo la trattazione del nome e dell’aggettivo è a lungo condizionata dalla tradizione latina, su quello
prescrittivo spicca fin dagli esordi una caratteristica tipica della grammaticografia italiana, cioè la consuetudine ad ammettere
l’allotropia. Allotropi sono presenti negli scritti degli auctores, e gran parte della morfologia nominale è dedicata, più che
all’enunciazione di regole, all’illustrazione delle eccezioni, come i singolari la fronda e la loda e i plurali le frondi e le lode. Nella
maggior parte dei casi le alternative non sono poste sullo stesso piano, sono ragionate e dicotomizzate, i membri del binomio sono in
genere l’uso poetico e quello prosastico. L’atteggiamento verso le allotropie nominali permette di osservare il progressivo affiorare di
un elemento di novità: si vede l’ingresso sulla scena dell’uso vivo. Con Buommattei l’uso comincia a essere preso in considerazione
nella valutazione di nomi “di doppia uscita”. Nel Settecento, Soave procede all’eliminazione di molte allotropie ormai giudicate
appartenenti solo alla lingua del passato; a partire dalla metà dell’Ottocento il rapporto con l’uso muta definitivamente, fino a
rovesciarsi, tanto che in Fornaciari i tratti della lingua antica non confortati dall’uso coevo vengono giudicati non accettabili.

2. Il genere e il numero
2.1 Il neutro
Il trattamento del neutro mostra come la storia della grammaticografia italiana non si muova necessariamente verso un progressivo
allontanamento dai modelli latini, ma possa fare percorsi non lineari e successivi recuperi di concetti precedentemente rifiutati.
L’individuazione dei generi del nome nelle prime grammatiche si caratterizza per una notevole oscillazione. La schiera di coloro che
si limitano a riconoscere solo il maschile e il femminile (Alberti, Bembo, Trissino…) è nutrita, mentre diversi grammatici (es. Corso)
contemplano, sul modello di Donato e Prisciano, altri due generi: comune, per sostantivi provenienti dalla terza declinazione latina e
quindi non connotati morfologicamente quanto al genere (come giovane), e incerto, per sostantivi che oscillano tra maschile e
femminile (come fonte e fine), ai quali si aggiunge in qualche caso una quinta categoria, il genere confuso o indifferente (aquila).
Il rifiuto della categoria del neutro appare piuttosto compatto, sebbene ci siano diversi affioramenti: Corso (1549) riconosce
l’esistenza di voci neutre dal punto di vista del significato, ma non caratterizzate da una specifica marca morfologica. I sostenitori
dell’esistenza del neutro in italiano crescono nel secondo Cinquecento: Ruscelli illustra le numerose manifestazioni di questo genere
in italiano (aggettivi/pronomi indefiniti come niente, altro, chiunque e sui continuatori dei neutri latini come ossa, braccia) e Salviati,
che puntualizza che il neutro esiste non solo dal punto di vista semantico, ma anche morfologico. Buommattei (1643) critica
l’opinione che i nomi come braccio/braccia possano essere considerati neutri, sostenendo che rientrino più semplicemente nel
maschile quando sono singolari e nel femminile quando sono plurali; ammette tuttavia l’esistenza di voci neutralmente poste come
gli aggettivi sostantivati e i pronomi. L’idea che i residui del neutro latino possano essere considerati neutri anche in italiano non
varca i confini del Seicento: quasi tutti i grammatici del 1700 accolgono la categoria del neutro solo dal punto di vista semantico.
Le grammatiche contemporanee, pur non considerando il neutro tra i generi dell’italiano, fanno spesso riferimento alla nozione dal
punto di vista semantico per aggettivi sostantivati come il bello o il vero.
2.2 Le classi flessive
Mentre la flessione dell’aggettivo non comporta particolari di classificazione, per il nome non si è elaborata una distribuzione in
classi flessive universalmente condivisa, e tale incertezza affonda le proprie radici nella grammaticografia rinascimentale, che
presenta classificazioni talvolta modellate sul sistema latino e molto diverse nei criteri adottati. La maggior parte delle grammatiche
contemporanee distingue tre classi sulla base del singolare; però nel nome italiano l’unica categoria flessiva è il numero, perciò
queste classi non vanno individuate soltanto sul singolare, ma su singolare e plurale insieme. L’attuale partizione in tre classi (-a, -o, -
e e invariabili), comune a partire dal primo Novecento, è passata attraverso una storia piuttosto stratificata.
- Alberti: la classificazione si presenta semplificata, mancando non solo il riferimento al tipo quattrocentesco le parte, ma anche a
quello poeta/poeti, braccio/braccia e virtù;
- Fortunio: quadro più complesso e articolato, classifica i nomi in base alle desinenze tenendo conto solo alcune volte del genere e
omettendo del tutto il riferimento agli invariabili;
- Bembo: classificazione basata sul genere; nel maschile, indipendentemente dalla desinenza del singolare, il plurale è sempre in -i e
che nel femminile i nomi in -a hanno il plurale e in -e e quelli in -e hanno il plurale in -i.
- Trissino: scelta innovativa, distingue le classi sulla base del numero; è il primo a individuare la classe degli invariabili.
L’assenza di una classificazione stabile nel primo Cinquecento fa sì che molti grammatici si rivolgano al modello latino, adottando
una ripartizione in classi (spesso chiamate declinazioni) basata sulla desinenza del singolare. A partire dal Seicento, con l’eccezione
di Buommattei, la divisione in quattro declinazioni è quella più seguita. Nel primo Ottocento si incontra ancora scarsa omogeneità:
molte grammatiche propongono partizioni basate sul genere, mentre altre riducono il numero delle classi accorpandole in base
all’uscita del plurale.
- Fornaciari (1879) e Petrocchi (1887) prescindono dal genere e individuano cinque declinazioni che tengono conto del singolare e
del plurale insieme (-a/-e, -a/-i, -o/-i, -e oppure -i/-i, invariabili), dunque con una notevole anticipazione dei modelli descrittivi più
recenti, che però non trova fortuna nelle grammatiche del Novecento, nelle quali la semplificazione dello schema alle tre sole classi
più produttive risponde spesso anche alle esigenze della destinazione scolastica.

2.3 Il plurale di mano e quello dei nomi in -co, -go


Per i problemi di natura classificatoria, uno dei casi nei quali l’atteggiamento prescrittivo tende a prevalere su quello descrittivo è la
formazione dei plurali, e in particolare l’ammissibilità o il rifiuto di alcuni tipi specifici. Fin dal Cinquecento si assiste
all’emarginazione di alcune forme non presenti o rare negli autori del Trecento (plurale in -e di nomi e aggettivi femminili della
seconda classe - le gente, le parte). Tra le molte indicazioni prescrittive per la formazione del plurale, due casi interessanti sono quelli
di mano e dei nomi in -co e -go.
Mano: Il dibattito sul plurale di mano mette in luce come la grammaticografia cinquecentesca – e in particolare le Prose della volgar
lingua – compia, rispetto alla lingua degli autori trecenteschi, un’operazione di selezione e di normalizzazione che si ripercuote sulla
tradizione successiva. Nonostante sia una forma di uso dantesco, il plurale le mano è quasi da subito escluso dalle forme accolte dai
grammatici, che lo avvertono come voce popolare o marcata in diatopia. Emarginato dalla grammatica cinquecentesca, il plurale
mano scompare nei secoli successivi: Bembo omette ogni riferimento, e chi menziona il sostantivo cita in genere solo il plurale mani.

-co e -go: Il caso dei plurali dei nomi in -co, -go mostra che l’assenza di indicazioni nelle grammatiche cinquecentesche consente alla
tradizione successiva una maggiore libertà di riferirsi all’uso, rendendo meno stringente l’osservanza all’autorità degli scrittori. Il
problema è ignorato fino a Salviati (1584-86), che fornisce una lista di parole con plurale in velare o in palatale e accenna
all’esistenza di forme oscillanti. Buommattei (1643) rinuncia a indicare una regola nella distribuzione dei due tipi e osserva che
«bisogna rimettersi all’uso». Rogacci (1711) offre una serie di forme per le quali sono ammessi i due esiti, ed è il primo a tentare la
formulazione di una norma empirica: la forma in velare si ha quando la consonante è intensa o preceduta dal l, n, r, s, mentre quella
in palatale quando la consonante è preceduta da vocale (eccezione: porci). Le grammatiche successive indicano sempre per -co e -go
alcuni casi di allotropia, con un’oscillazione rispetto a determinati tipi (dialogi e astrologi) che è spesso priva di indicazioni
prescrittive. Nell’Ottocento si moltiplicano i tentativi di trovare norme empiriche efficaci. Superato il problema degli allotropi
letterari, le grammatiche contemporanee constatano l’assenza di una distribuzione regolare degli esiti, spesso indicandone le ragioni
storiche, e fornendo alcune norme di massima, in genere quella basata sull’accento, a cui si aggiunge, per le sonore, l’osservazione
che i nomi di cosa tendono a presentare l’uscita in -ghi (dialoghi, cataloghi) e quelli di persona in -gi (teologi, psicologi).

3. Categorie e classificazioni
3.1 I tipi di nome
L’attuale classificazione di tipi nominali secondo criteri semantici vede una partizione consolidata tra comuni e propri e tra concreti e
astratti, a cui si aggiungono talvolta ulteriori distinzioni tra nomi individuali e collettivi, tra numerabili e non numerabili. La
stabilizzazione di questo sistema è graduale e passa attraverso una casistica molto ricca, ma asistematica delle grammatiche del 1500,
in cui alcuni autori individuano addirittura una cinquantina di diversi tipi nominali.
Fin dalle prime grammatiche si definisce comunque in modo stabile l’opposizione, su modello latino, tra nomi propri e comuni:
Alberti parla di nomi propri e appellativi, prima attestazione in italiano di una coppia di termini che avrà fortuna nei secoli
successivi. Anche la categoria dei nomi collettivi è individuata fin dal Cinquecento. Si istituzionalizza più tardi l’opposizione tra
concreti e astratti. La categoria degli astratti, a cui accennano alcune grammatiche secentesche, diventa stabile tra Sette e Ottocento,
ma continua a essere considerata a lungo secondaria. La categoria dei non numerabili è quella di più recente affermazione nella
tradizione grammaticale, anche perché priva di specifiche ricadute sull’uso linguistico. Tra le indicazioni che non hanno immediato
seguito, è interessante segnalare, già dal Cinquecento, la frequente presenza di osservazioni legate ai campi semantici delle parole,
che saranno sviluppate e rese sistematiche solo in epoche successive. Ad esempio, Trissino (1529) propone una distinzione tra nomi
univoci, che hanno un solo significato, e nomi equivoci, cioè polisemici.
3.2 I tipi di aggettivo
La considerazione dell’aggettivo come sottoclasse del nome non impedisce l’individuazione di diverse tipologie già in epoca
rinascimentale. Molto spesso si illustra il nome aggettivo con esempi di qualificativi, come Fortunio e Bembo, nei quali la
classificazione è di fatto assente; nei grammatici più vicini alla linea “classificatoria” si trovano numerose categorie e sottocategorie
desunte dai grammatici latini e già in Trissino (1529) si illustrano gli aggettivi di relazione e gli etnici. La premessa alla
classificazione degli aggettivi si trova in Giambullari (1529), che distingue gli aggettivi che indicano qualità e aggettivi che indicano
quantità. Questo concetto viene poi sviluppato da Salviati, con il quale si arriva alle classi di perfetti e imperfetti (=qualificativi e
determinativi). Resta a lungo parcellizzata l’organizzazione delle sotto-categorie. Nel Settecento la classificazione dell’aggettivo
stenta a trovare una sua stabilizzazione. Soave (1818) adotta per primo il termine qualificativo. Nella seconda metà dell’Ottocento
l’assetto descrittivo dell’aggettivo conquista definitivamente uno spazio rilevante, anche in concomitanza con l’affermazione della
trattazione separata del nome. Il quadro si fa vicino a quello odierno con Morandi, Cappuccini (1894), che presentano due principali
classi: qualificativi e determinativi; e questi ultimi si dividono in determinativi di quantità, numerali, possessivi, indicativi. Con
l’eccezione degli aggettivi interrogativi ed esclamativi, si tratta delle stesse classi prese in considerazione da Serianni (1988).

4. La formazione delle parole


4.1 I composti
Anche nell’ambito della formazione delle parole sono i modelli latini a stimolare la riflessione sul tema nelle grammatiche
rinascimentali, che molto spesso adottano gli accidenti della specie e della figura per descrivere la morfologia derivativa: nel
Cinquecento i problemi relativi alla formazione delle parole sono trattati soprattutto dai grammatici più fedeli alla tradizione latina,
(Trissino, Corso o Dolce). Non crea problemi interpretativi la categoria dei nomi derivati, individuata dall’accidente della specie, che
corrisponde a quella odierna dei suffissati; al contrario, la nozione di composto presente nelle prime grammatiche non coincide con
quella affermatasi modernamente: i grammatici cinquecenteschi ereditano dalla tradizione latina la denominazione di figura
composta per riferirsi a nomi derivati. Per alcuni, oltre alla figura semplice e a quella composta compare anche una figura ricomposta
(quando a una parola base sono aggiunti un prefisso e un suffisso: felice, infelice, infelicità); questi processi rientrano a pieno nella
derivazione e non nella composizione. Con Buommattei (1643) si arriva a una definizione moderna della parola composta, “quella
che si forma a partire dalle semplici”. Nelle grammatiche fino al Settecento le osservazioni relative alla formazione delle parole sono
sporadiche, mentre in questo secolo si fanno più dettagliate, in concomitanza con la diffusione di alcuni tipi di composti,
specialmente quelli neoclassici, utilizzati nei linguaggi scientifici. Un tema ampiamente presente nelle grammatiche odierne, quello
del plurale dei nomi composti, prende corpo a partire dal primo Ottocento con Puoti (1847), che offre una casistica dettagliata dei
casi nei quali il primo dei due elementi resta invariato, come capogiri, antropofaghi, e distingue il diverso comportamento delle
forme composte con capo.

4.2 Gli alterati


Risale al Cinquecento il topos secondo il quale la grande quantità di diminutivi sarebbe una testimonianza della ricchezza del
toscano. In una prima fase le grammatiche tendono a individuare soprattutto l’opposizione che si colloca sull’asse dimensionale, cioè
quella tra diminutivi e accrescitivi, mentre mettono a fuoco più tardi quella tra vezzeggiativi e diminutivi, collocata sull’asse
apprezzativo. Inizialmente si individua l’opposizione su asse dimensionale (accrescitivi e diminutivi). Nel Seicento si comincia a
tener conto in misura maggiore dell’elemento connotativo. Buommattei (1643) individua cinque diverse categorie suddivise in due
gruppi: nel primo si pongono gli augumentativi (braccione) e gli improbativi o riprensivi (popolaccio), nei secondi i diminutivi
(carretto), i dispregiativi (omiciatto) e i vezzeggiativi (fratellino); qui un suffisso non è necessariamente legato ad un tipo di alterato,
ma può assumere connotazioni diverse.
Nel Settecento il tema degli alterati si collega anche a quello più generale della neologia: alcuni grammatici sostengono la legittimità
della creazione per analogia di nuovi alterati. Sul piano della descrizione, il Settecento non aggiunge novità, se non la notazione circa
la possibilità di cumulare suffissi, oppure il cambiamento di genere negli accrescitivi (donnone). Nell’Ottocento, si affiancano alla
descrizione degli aspetti semantici osservazioni sulle regole di formazione degli alterati. Il blocco, ad esempio, non consente di
aggiungere un suffisso alterativo fonologicamente coincidente con la parte finale della parola (fantoccioccio*); alcuni nomi non
ammettono tutti i tipi di alterati, altri non ne permettono proprio l’uso (falò, cielo, pietà). A fine secolo cambia spesso anche il modo
di presentare gli alterati, perché si preferisce partire da una rassegna dei suffissi, di cui si specifica di volta in volta il valore, con il
vantaggio di poter evidenziare i casi di polisemia. Adottano lo stesso approccio anche le grammatiche contemporanee. Nel
Novecento il quadro si completa di alcuni elementi ulteriori, come l’individuazione della categoria di suffisso attenuativo per gli
aggettivi in -astro, -iccio, -igno, -occio, -ognolo, e la segnalazione di variazioni diatopiche nella distribuzione dei suffissi.
8. PRONOME E ARTICOLO, S. Fornara

1. Questioni preliminari
1.1 Alcuni dati di partenza
Nelle grammatiche contemporanee ai pronomi è dedicato maggiore spazio che agli articoli. Ciò è in relazione alla quantità di tipi
pronominali e di sottoclassificazioni, che è maggiore e più problematica rispetto a quella degli articoli che vengono sostanzialmente
distinti in 2 categorie: determinativi e indeterminativi. I pronomi sono invece suddivisi in una serie più ampia di sottoclassificazioni.
A questa disparità di tipi e classificazioni corrisponde una notevole differenza nella quantità delle forme ammesse e descritte: esigua
per gli articoli, rilevante per i pronomi. Questi dati iniziali potrebbero far pensare a una notevole semplicità grammaticale
dell’articolo rispetto al pronome; l’impressione non è del tutto scorretta, ma neppure del tutto fedele al vero: la loro storia, a partire
da una parentela in origine, ha infatti seguito vicende molto diverse e forse sono quelle dell’articolo le più travagliate.

1.2 Punti di contatto


Le due categorie in discussione hanno un parentela d’origine, un legame iniziale caratterizzato dal progressivo ampliamento delle
funzioni grammaticali di una sola parte del discorso (il pronome latino ILLUM), che mostrava alcune tracce già nei grammatici
latini, a partire da alcuni usi terminologici che sono stati poi ereditati dai primi grammatici del volgare: è il caso dell’espressione
pronomen articulare, assegnata da alcuni di loro soprattutto alle forme del dimostrativo HIC, HAEC, HOC (Prisciano).
La vicinanza tra articoli e pronomi è all’origine di alcune incertezze nella collocazione dei primi, come si nota nella prima
grammatica del volgare, di Leon Battista Alberti (1440); anche Fortunio (1516) li colloca insieme ai pronomi. È importante avere ben
presente questa situazione di imbarazzo iniziale, derivata dalla necessità di trovare una sistemazione a una categoria nuova del
volgare, per la quale il riferimento alla tradizione latina non poteva rappresentare una soluzione. Un fatto molto evidente che
distingue le due categorie dei pronomi e degli articoli: la prima categoria è sempre presente, la seconda ha una presenza intermittente.
La codificazione dell’articolo è uno dei punti più controversi della grammatica del volgare.

1.3 La codificazione del pronome


La presenza del pronome come categoria autonoma è una costante, anche alle origini, proprio perché eredità della grammatica latina.
A conferma di questo legame è utile anche solo il confronto tra le definizioni date dalle grammatiche latine e quelle che si leggono
nei primi grammatici del volgare: entrambe concordano nel definire il pronome come la parte del discorso posta in sostituzione del
nome. Altri grammatici, come Alberti e Fortunio, mostrano scarso interesse teorico per la definizione di questa categoria e
preferiscono passare subito alla descrizione delle forme pronominali. Bembo riduce la definizione all’essenziale («quelle voci, che in
vece di nomi si pongono») e non fa una divisione in tipi pronominali, preferendo un elenco di forme con la descrizione degli usi,
senza ricorrere a denominazioni di derivazione latina. La classificazione diventa più articolata in autori successivi, Trissino, Corso e
Giambullari: è in concomitanza con un ritorno della tradizione latina che si apre il nodo cruciale della codificazione del pronome dei
secoli successivi, cioè la classificazione dei tipi e delle funzioni.

2. L’articolo
2.1 Una parte del discorso?
La posizione particolare dell’articolo nella storia della grammatica dell’italiano ha avuto almeno un’importante conseguenza nel
percorso della sua sistemazione teorica: il manifestarsi di dubbi circa l’opportunità di considerarlo una parte del discorso autonoma,
oppure una sottocategoria di altre parti del discorso legate a esso per ragioni di carattere storico o sintattico-funzionale. Considerando
i principali grammatici del Cinquecento, dopo Fortunio e la sua decisione di collocare gli articoli tra i pronomi, Bembo preferisce non
prendere una posizione netta a riguardo. Trissino è il primo ad assegnare all’articolo piena autonomia. Lo seguirono quasi tutti i
grammatici successivi. Inoltre, nelle prime grammatiche dell’italiano venivano distinte parti variabili e invariabili del discorso, il che
diede origine ad un altro problema di sistemazione dell’articolo.
Nel Seicento si è a favore dell’invariabilità. Rimane irrisolta la questione sull’autonomia. I due più rilevanti trattati grammaticali del
Settecento, ovvero le Regole di Corticelli e la Gramatica ragionata di Soave, collocano l’articolo nei capitoli sul nome.
Questo atteggiamento viene superato solo nell’Ottocento: l’articolo è una parte del discorso autonoma.
Il Novecento non segna variazioni significative; nella Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, l’articolo è considerato
nella classe dei determinanti (comprende anche gli aggettivi).
Salvi sintetizza i motivi alla base di questa revisione della consueta distinzione delle parti del discorso; identifica i 3 criteri usati nella
storia del pensiero linguistico per l’individuazione delle parti del discorso:
1. Il criterio nozionale (o semantico), in base al significato delle parole;
2. Il criterio morfologico, in base alla flessione delle parole;
3. Il criterio sintattico-funzionale, in base alla funzione che svolgono nella struttura della frase e alla loro distribuzione sintattica.
Secondo la sua analisi, solo il terzo criterio appare soddisfacente, poiché supera i limiti dei primi due. In definitiva, non ci sono
ragioni per mantenere una classe indipendente per gli articoli, che si comportano in tutto e per tutto come gli altri determinanti.
In questa prospettiva le parti variabili del discorso dovrebbero ridursi da cinque a tre: nomi/pronomi; aggettivi/determinanti;
verbi/ausiliari.
2.2 Tipi e definizioni
Le grammatiche odierne individuano i seguenti tipi di articoli: determinativo, indeterminativo, partitivo e articolo zero.

a. Determinativo: le grammatiche odierne partono dal presupposto che la differenza tra determinativo/indeterminativo non consiste
propriamente nel fatto che il primo designa un nome in modo specifico e individuale e il secondo in modo generico, bensì nel fatto
che il loro uso rifletta due meccanismi fondamentali: 1. l’opposizione “classe” / “membro”, 2. l’opposizione “noto” / “nuovo”; in
particolare, insistono sulla seconda coppia, assegnando al termine determinativo o definito il significato di “già noto”.
Le grammatiche del passato offrono invece definizioni più generiche. Più si va indietro nel tempo, più la definizione diventa
generica. Nel Settecento, l’opposizione tra determinativo e indeterminativo non è ancora patrimonio comune alla trattatistica
grammaticale, che utilizza il termine articolo per indicare sempre il primo tipo. In quest’epoca le definizioni si riferiscono spesso alla
funzione di indicatore di genere, numero e caso. Un’eccezione è rappresentata da Buommattei (1643), che dedica all’articolo un
intero libro della sua opera. I grammatici del Cinquecento, in generale, non vanno oltre la constatazione della variabilità dell’articolo.
Eccezione Salviati, che non solo comprende la caratteristica che in italiano accomuna l’articolo indeterminativo a quello
determinativo (quella di determinare con precisione la nozione del nome cui si riferisce); ma anche descrive la diversità dei due
articoli, consistente nell’opposizione “noto” / “nuovo”.

b. Indeterminativo: L’articolo indeterminativo si presenta abbastanza tardi sulla scena della grammatica italiana. Nel Cinquecento, il
primo autore a considerare una e uno non solo come numerali, ma come articoli, fu Salviati, che creò la categoria
dell’accompagnanome. Il suo spunto rimase isolato. Buommattei (1643) menziona tra i nomi numerali di tipo principale la forma
uno. Nel Settecento permane questa classificazione. Altri autori, come Corticelli (1745), menzionano le forme uno e una solo tra i
pronomi. Nella Gramatica ragionata di Soave (1771), la forma uno viene citata nella parte prima del nome e del pronome.
Solo nell’Ottocento un, uno e una entrano nella grammatica dell’italiano come categoria specifica degli articoli. Per la distinzione tra
articoli determinativi e indeterminativi un punto d’arrivo è rappresentato dalla Grammatica di Fornaciari (1879), che offre una
sistemazione molto chiara.

c. Partitivo: il partitivo nasce dall’incontro delle forme dell’articolo determinativo con la preposizione di. In genere viene definito in
modo molto breve come forma che serve per indicare una parte, una quantità. Nei secoli precedenti il partitivo non viene mai trattato
come tipo di articolo, ma compare in relazione ai casi, ai segnacasi e agli accompagnanomi. Andando più indietro nel tempo i cenni
all’uso partitivo dell’articolo diventano sempre più rari.

d. Articolo zero: omissione dell’articolo. L’espressione ‘articolo zero’ compare solo negli ultimi decenni del Novecento; tuttavia, più
o meno tutti i grammatici che, nel corso dei secoli, hanno trattato l’articolo si sono anche soffermati sui casi della sua omissione.

2.3 Forme ammesse


Alla complessità dello statuto dell’articolo come parte del discorso autonoma fa da contraltare la sua esigua varietà di forme. È dalla
metà dell’Ottocento che le forme dell’articolo sono stabili, con qualche limitata oscillazione nelle forme del plurale. Nel Settecento si
registrano alcune variazioni: Corticelli (1745) prevede le medesime forme, Gigli (1721) ammette per il plurale anche la forma li in
alternanza a gli. Nei secoli precedenti la presenza della forma plurale li è una costante. Un esempio significativo è dato dall’articolo
maschile singolare el, rifiutato da tutti i grammatici eccetto (nel Quattrocento) Alberti. Ciò si spiega per il fatto che si tratta di una
forma tipicamente quattrocentesca, e la lingua che Alberti (1440) descrive nella sua Grammatichetta è proprio la lingua in uso a
Firenze ai tempi in cui egli scriveva. La maggior parte dei grammatici a lui successivi non fa menzione di questa forma. In definitiva,
per l’articolo maschile, i grammatici cinquecenteschi concordano nell’ammettere le forme il e lo per il singolare e i, li, gli ed e per il
plurale. Nessun problema riserva invece l’articolo femminile, accettato da tutti i grammatici sin dal Cinquecento.

2.4 Regole d’uso


La maggior parte delle pagine dedicate all’articolo contiene la descrizione degli usi ammessi. Ad esempio limitandoci all’articolo
determinativo: davanti a vocale, a s complicata, a n palatale, con nomi stranieri, le sigle, i prenomi, i cognomi, i titoli
Due esempi significativi di evoluzione delle regole nell’uso degli articoli che toccano i piani morfosintattico e ortografico sono:
1) l’uso di il e lo davanti a s complicata, a z e ad altri gruppi consonantici come gn e gl;i principali grammatici del 1500, sulla scia di
Bembo, prevedono l’uso di lo davanti a s complicata; Salviati è l’unico a menzionare le parole comincianti per gn e gl prescrivendo
l’uso di lo davanti a s, mentre solo Buommattei parla di parole singolari che cominciano per z prescrivendo l’uso di il e per il plurale
gli. Nel 1700 Rogacci indica l’uso di lo davanti a s più consonante, una proposta condivisa anche da Soave che ne indica l’uso
davanti a z. Nel 1800 prosegue questa tendenza anche se si nota una sempre maggiore attenzione ai casi particolari. Nel Novecento,
prima di arrivare alle indicazioni odierne, si registra una tendenza alla semplificazione (lo davanti a z, s+consonante e gn).
2) il problema dell’elisione e del troncamento delle forme indeterminative uno e una: ha senso considerare il problema solo a partire
dal momento in cui prende corpo la distinzione tra articolo determinativo e indeterminativo, dunque nella prima metà dell’Ottocento.
Tuttavia, gli autori iniziano a occuparsi della questione più tardi: prima le informazioni che si ricavano solo di tipo implicito,
attraverso la ricognizione degli esempi d’uso riportati. Possiamo concludere che verso la fine dell’Ottocento la regola è stabilizzata.
3. Il pronome
3.1 I pronomi personali
In buona parte delle grammatiche odierne, la trattazione del pronome personale (il primo tipo di pronome a essere sempre affrontato)
si apre con un chiarimento: è definito etimologicamente come quella parte del discorso che sta al posto del nome, ma tale definizione
non è esaustiva, mette l’accento soltanto su una funzione specifica del pronome, ignorandone altre (es. alcune forme pronominali,
quelle di prima e di seconda persona, svolgono la stessa funzione dei nomi). La differenza tra i pronomi di prima e seconda persona
da un lato e i pronomi di terza persona dall’altro sta nel valore deittico dei primi e il valore anaforico dei secondi. Una classe
apparentemente stabile e chiusa come quella dei pronomi non è in realtà un’entità monolitica, ereditata senza problemi dalla
grammatica latina. Fortunio (1516) prendeva in considerazione solo il pronome di terza persona, segnale del fatto che intuiva questa
differenza. Altri autori, tra cui Bembo (1525), ponsero tutti i pronomi sullo stesso piano. Nel Seicento Buommattei (1643) si sofferma
sulla funzione anaforica del pronome, ma la distinzione tra pronomi di prima/seconda e terza persona è ancora latente. Un passo in
avanti si ha con Corticelli (1745), che distingue i pronomi di prima e seconda persona, definiti come primitivi, dimostrativi e
sustantivi, dai pronomi di terza persona, che non sono mai definiti sustantivi. Decisiva è la posizione di Soave (1771) che definisce
io, tu, noi, voi, sé come sostantivi universali e non come pronomi. Nell’Ottocento si ha un atteggiamento simile a quello odierno:
Puoti (1939) ricorre alla definizione di nomi personali per io, tu e sé e di pronomi per tutti gli altri. La riflessione sulla diversità delle
forme di prima e seconda persona e quelle di terza tende a scomparire dall’ultimo quarto dell’Ottocento per tornare in maniera
costante solo in tempi molto recenti (cioè dagli anni Ottanta del Novecento).

3.2 Lui e lei in funzione di soggetto


Fino al Novecento i grammatici hanno dibattuto sulla possibilità di usare lui e lei in funzione di soggetto. Questo era consentito dalla
Grammatichetta dell’Alberti il quale, descrivendo la lingua usata a Firenze nel Quattrocento, il fiorentino argenteo, notava quest’uso.
I grammatici del Cinquecento erano in disaccordo con lui perché si basavano sugli usi delle Tre corone che prediligevano egli/ella.
Per spiegare le eccezioni che si riscontravano nei testi, Fortunio giunse a correggere i manoscritti (ad esempio lei con colei) e Bembo
cercava in ogni modo una giustificazione, affermando ad esempio che, nell’espressione come lui, lui sta per colui. Giambullari nota
che a volte l’uso poetico non rispecchia la norma. Nel Seicento si rifiuta l’uso di lui/lei come soggetto. Nel Settecento invece si
insiste sulla differenza di registro: lui e lei in funzione di soggetto è tipico della lingua familiare e non è ammissibile nello scritto.
Ancora all’inizio dell’Ottocento Puoti considera quest’uso erroneo.
L’influsso della prassi scrittoria manzoniana si rivela decisivo, anche se permangono posizioni contrarie, come quella di Collodi
(1883). Tra i grammatici “manzoniani”, Morandi, Cappuccini (1894) dimostrano una certa autonomia di giudizio nei confronti di
Manzoni stesso; Petrocchi dà prova del suo “oltranzismo” rovesciando la tradizione. Nel Novecento si riconosce l’uso di lui/lei
soprattutto in ambito familiare ma non è considerato una sgrammaticatura. Oggi, come precisa Serianni, la situazione è rovesciata
perché si preferisce la coppia lui/lei a quella egli/ella.

3.3 Classificazione
Nel Cinquecento i grammatici adottano nei confronti del pronome due strategie per certi versi opposte: alcuni (Fortunio, Bembo)
preferiscono elencare le forme, senza indugiare su definizioni e classificazioni; altri (Trissino) non si limitano a elencare le forme, ma
concentrano la loro attenzione proprio sull’individuazione di classi pronominali.
Trissino distingue i pronomi in:
1. Specie primitiva (dimostrativi, relativi, reciprochi);
2. Specie derivata (possessivi);
3. Particule pronominali (clitici).

Giambullari segue Trissino, apportando piccole differenze:


1. Pronomi separati (dimostrativi, relativi, regionali, possessivi);
2. Pronomi congiunti (clitici).

Corso invece distingue tre divisioni con altrettanti sottogruppi:


1. La prima divisione comprende i pronomi determinati, io, tu, quegli, indeterminati e partecipanti che hanno funzione anaforica come esso;
2. La seconda divisione suddivide gli indeterminati in base al significato (qualità come tale, quale, o quantità come quanto, tanto);
3. La terza riguarda la natura dei pronomi (prima o derivata);

Buonmattei distingue:
1. Pronomi separati (dimostrativi, relativi e possessivi);
2. Pronomi congiunti (clitici).
Distingue poi tra pronome sustantivo, che non si appoggia a nessun’altra parte del discorso, e aggiuntivo, che corrisponde all’aggettivo pronominale.

Gigli distingue 8 categorie:


1. Primitivo; 2. Derivativo; 3. Possessivo; 4. Dimostrativo (si distinguono quelli che indicano una dimostrazione prossima come questo, costui, io e
quelli che indicano una dimostrazione generale come egli, quello, colui); 5. Relativo; 6. Neutro (questo, quello, il, lo come nella frase questo non
voglio); 7. Universale (indeterminato); 8. Monosillabo (clitici e articoli).

Corticelli propone più distinzioni. Distingue tra primitivi e derivativi, funzione di sostantivo o aggettivo e poi li divide in gruppi:
1. Dimostrativi; 2. Relativi; 3. Possessivi; 4. Universali indeterminati (generalità, qualità, diversità e distribuzione).

Puoti individua tre macrocategorie, a cui dedica un’ampia trattazione:


1. Pronomi sostantivi; 2. Pronomi aggettivi; 3. Pronomi relativi.

Fornaciari delinea una categorizzazione vicina a quella attuale:


1. Personali e possessivi;
2. Dimostrativi e indefiniti;
3. Relativi e interrogativi.

Nel Novecento si stabilizza la distinzione tra pronomi e aggettivi pronominali (Devoto e Serianni).
3.4 Un caso significativo: il relativo
Il problema della classificazione non si riduce a una questione di etichette. Le oscillazioni nella collocazione delle singole forme
nelle categorie individuate sono all’ordine del giorno. A esemplificare questo aspetto, prendiamo in esame il caso dei pronomi
relativi. Nella classificazione attuale (Serianni, 1988) viene individuata una forma invariabile soggetto e oggetto (che), una forma
invariabile complemento (cui), una forma variabile di base soggetto, oggetto e complemento (quale); a queste forme si aggiungono i
pronomi doppi dimostrativo-relativi o indefinito-relativi (chi, quanto e quale), che conglobano in sé due pronomi distinti: un
dimostrativo e un relativo, oppure un indefinito e un relativo; infine, vanno considerate anche le congiunzioni relative, rappresentate
dai quattro avverbi dove, ove, donde, onde. Procedendo a ritroso, si nota che questa classificazione è il frutto di una stabilizzazione
raggiunta piuttosto precocemente: è infatti possibile risalire fino alla metà del Settecento, con Corticelli e Soave, senza trovare grandi
variazioni e differenze rispetto al quadro attuale. All’inizio del Settecento si trovano i primi segnali di un’incertezza classificatoria
che ha origini molto più antiche. Nel Cinquecento il panorama è ancora più confuso: sembrano rientrare nella famiglia dei relativi
forme collocate in altre categorie pronominali (ad es. sé, medesimo, ello, esso). Nel Cinquecento risulta evidente che la categoria dei
relativi sia ancora piuttosto fumosa e le definizioni fornite dai grammatici rimandano al valore anaforico del nesso relativo (ciò
spiega la presenza tra i relativi di forme come sé o esso). La ragione di queste soluzioni si deve alla grammatica latina, che
identificava un nomen relativum (QUI QUAE QUOD) e dei pronomina relativa, cioè forme del pronome personale di terza persona
come IS e il riflessivo SUI che hanno valore anaforico.
9. VERBO, C. Gizzi

1. Questioni preliminari
Nella storia della grammatica italiana il verbo conosce una tensione tra aderenza ai modelli ereditati dalla classicità e quelli
innovativi. Dal 1500 sono sempre più radicali i tentativi di superare le griglie tradizionali in favore di schemi liberi dalla tradizione,
ma sono tentativi caduchi perché inadeguati. I modelli più innovativi maturano attraverso aggiustamenti progressivi.
Già la trattatistica greco-latina riconosceva la centralità della coppia nome-verbo come elemento costitutivo dell’oratio perfecta.
Questo ruolo cresce man mano che si riconosce l’importanza del rapporto tra verbo e sintassi. Anche nella Grammatica di Port-Royal
il verbo è la parte più nobile del discorso, sempre composto da copula più participio. Questa posizione trova riscontro nella
grammatica di Soave, il quale sostiene che compito del verbo è affermare o negare l’esistenza; il verbo essere è l’unico a esprimere
l’esistenza ed è quindi l’unico verbo; tutti gli altri verbi sono così chiamati perché contengono il verbo essere + un aggettivo ed
esprimono una proprietà del soggetto. Il tempo può definire il verbo, come suo tratto essenziale. Il tempo è considerato in Pisciano
come uno degli accidenti del verbo, anche in Buommattei e Soave; la concezione aristotelica del tempo emerge in Moise: «Il verbo è
la parte del discorso che, esprimendo il tempo, afferma l’esistenza o la passione o l’azione o il modo di una persona». Per Fornaciari
è proprio il tempo che distingue il verbo da un nome astratto. Le grammatiche successive si soffermano sul rapporto tra soggetto e
verbo, dando quindi una definizione sintattica: Serianni definisce il verbo come una parte variabile che indica:
a) un’azione che il soggetto compie o subisce;
b) l’esistenza o lo stato del soggetto;
c) il rapporto tra soggetto e nome del predicato.
Quanto agli elementi legati alla morfologia flessiva del verbo (persona, numero, tempo, aspetto e modo), la linguistica attuale ne
propone l’attribuzione alla frase nel suo complesso, riservando al verbo solo le sue proprietà lessicali (numero e argomenti).

1.2 Transitività e diatesi (attivo, passivo, riflessivo)


Le categorie di transitività e diatesi sono di eredità latina e sono state precocemente adattate alla classificazione del verbo volgare.
Problemi sono posti dalla presenza di una coniugazione passiva di tipo perifrastico, dall’inquadramento dei verbi pronominali e dalla
combinazione tra categorie relative alla transitività/intransitività da un lato e alla diatesi dall’altro, nonché alla collocazione dei verbi
impersonali. Nel corso del Cinquecento si accese la discussione sullo statuto della perifrastica passiva italiana. L’analisi della
struttura argomentale del verbo e della sua variazione (diatesi) resterà intrecciata anche nella terminologia, in particolare per quanto
riguarda i verbi intransitivi, neutri e assoluti. Buommattei parla di verbo personale e distingue fra transitivo («quello che riceve dopo
sé un caso diverso da quel che regge») e assoluto («quello che non ammette casi dopo di sé né diverso né simile a quello che regge»);
fanno parte di questa categoria sia i non transitivi come ad esempio stare, correre e nascere, sia i transitivi usati assolutamente come
ad esempio sognare. Per la diatesi, fino al primo Ottocento rimarrà in vigore la classificazione latina, con l’impiego del neutro che
verrà progressivamente abbandonata nel corso del Novecento. Corticelli menziona l’attivo, il passivo e il neutro, che comprende sia i
verbi che possono essere trasposti al passivo, sia verbi come pentirsi, detti neutri passivi. La designazione di diatesi riflessiva
corrente compare solo intorno alla metà dell’Ottocento. In Migliorini (1941) si trova la categoria dei riflessivi intransitivi (intransitivi
pronominali o inaccusativi pronominali). Quanto agli impersonali, qualche autore cinquecentesco li affronta insieme alla diatesi altri
li riconducono, insieme agli assoluti, a un caso particolare degli attivi. A partire dal XVII secolo sembra ben assestata la tendenza a
separare il problema dei verbi impersonali e quello dei complementi del verbo (ossia della distinzione fra transitivi e intransitivi).
Con Buonmattei si ha una distinzione tra verbi impersonali per natura e quelli usati impersonalmente con il si.

1.3 Coniugazioni
Un altro settore in cui fin dalle origini della tradizione grammaticale italiana si assiste ad un mutamento degli schemi antichi è la
classificazione delle coniugazioni. Sia Alberti sia Fortunio individuano due sole classi basate sulla vocale d’uscita della terza persona
singolare dell’indicativo presente. Trissino perviene a una classificazione tripartita combinando l’osservazione della terza persona
dell’indicativo presente con la prima del passato remoto e con l’infinito. A partire da Bembo (1525), sono le terminazioni degli
infiniti a guidare la classificazione delle maniere, pur nella consapevolezza che la partizione antica non si adatta alle esigenze di
descrizione delle forme volgari. Quanto ai verbi in -rre, Giambullari (1552) propone di raggrupparli in una quinta coniugazione,
Corso (1550) ritiene necessario ricondurli al gruppo di quelli con la e “breve”, non accentata. Con l’avallo delle Prose, il modello
quadripartito latineggiante (-are, -ére, -ere, -ire) sopravvive fino all’Ottocento, con l’eccezione di Buommattei (tre coniugazioni).
Nell’Ottocento lo schema quadripartito si ritrova ancora nel tradizionalista Puoti (1834) e persino in Morandi, Cappuccini (1894).

1.4 Oscillazioni terminologiche e difficoltà di classificazione


Estrema è la mutevolezza della terminologia, osservabile non solo nella pionieristica fase cinquecentesca, ma anche in quelle
successive. Quanto ai criteri terminologici, sono state individuate tre “vie” principali:
a) chi voleva mantenersi fedele alla tradizione latina faceva uso di termini che di fatto erano calchi o traduzioni dal latino;
b) uso di perifrasi dei termini originari latini; chiara volontà di separarsi dalla tradizione corrente;
c) mediazione tra le due precedenti attraverso l’introduzione di termini innovativi che a volte si distaccavano e altre volte si ponevano
in dialogo con i termini tradizionali.
A prevalere è una terminologia ancorata alla tradizione latina, che tende a preferire il tecnicismo rispetto alla perifrasi, tipico
bembiano. L’ondivago processo è esemplificato dai tempi verbali del passato dell’indicativo, che si contraddistingue per alcune
innovazioni che faticano a trovare posto nella griglia classificatoria perché prive di un univoco corrispondente latino: passato
prossimo e trapassato remoto. Nel 1500 diversi grammatici li omettono dal paradigma verbale (Fortunio). Corso le chiama perfetto o
perfetto doppio, e distingue tra passato prossimo e remoto secondo un criterio di prossimità al momento dell’enunciazione.
La dimensione temporale è prevalente nella percezione dei grammatici, ma essi non sono estranei a considerazioni di tipo aspettuale
come indica l’adozione di termini come determinato/indeterminato che solo nel Settecento diventerà prossimo/remoto per poi
stabilizzarsi con la proposta di Fornaciari nel 1879.
Alla fluttuazione terminologica occorre aggiungere un ultimo elemento di instabilità relativo allo sviluppo della trattazione di casi
particolari o eccezioni. La nozione di verbo irregolare si manifesta sin dall’esperimento albertiano prevedendo distinzioni specifiche
per insiemi di verbi dotati di caratteristiche comuni, ma distinte dagli schemi individuati come generali: il concetto percorre la storia
della grammatica italiana. Se si considerano lo spazio e l’articolazione che i fenomeni d’irregolarità conoscono nella tradizione
grammaticale italiana, se ne ricava l’impressione che nel trattare il verbo, tale filiera abbia finito per dare più spazio e più peso alla
ricerca dell’eccezione che a quella della regola.

2. Congiuntivo, condizionale, ottativo.


Data l’impossibilità di stabilire corrispondenze precise con il sistema latino, è complicata la definizione dei modi e in particolare la
progressiva individuazione del condizionale come modo a sé stante, che coincide con l’abbandono dell’ottativo/desiderativo greco-
latino. Le grammatiche italiane ereditano le incongruenze classificatorie della tradizione, che affiancava ai modi criteri semantici e
sintattici, come si evince anche dalle denominazioni dei cinque modi principali: indicativo/dimostrativo; imperativo/comandativo;
congiuntivo/soggiuntivo; desiderativo/ottativo; infinito/indefinito. Nel desiderativo\ottativo confluiscono il condizionale e il
congiuntivo indipendenti. Alberti aveva notato che nel volgare vi era un modo che non si trovava nel latino, il condizionale, che egli
chiama assertivo. La prima attestazione del termine condizionale si ha nelle Prose, con cui però Bembo indicava sia il congiuntivo
nelle completive (io voglio che…) sia il futuro anteriore, che la grammatica cinque-seicentesca chiama congiuntivo futuro.
La tendenza dei grammatici successivi è di inglobare il condizionale nel congiuntivo o nell’ottativo. Trissino (1529), tenta
un’innovazione e parla del condizionale come il modo che rende la causa del dubbio nel periodo ipotetico e lo chiama soggiuntivo
redditivo. Corso (1550) si sofferma sull’uso del condizionale indipendente, e lo accosta all’indicativo piuttosto che al congiuntivo.
Nel Settecento, con la Gramatica ragionata di Soave (1771), il condizionale è riconosciuto nella sua autonomia: sparisce l’incongrua
categoria dell’ottativo, sebbene il condizionale non si liberi dal suo legame con il congiuntivo. La classificazione proposta da Soave
si affermerà nel corso dell’Ottocento nonostante la riemersione dell’ottativo in alcune grammatiche. La linguistica recente individua
nella mancanza di restrizioni morfosintattiche del condizionale uno dei tratti di differenziazione dal congiuntivo, e per tal via ne
conferma lo statuto autonomo di modo (specifiche proprietà morfosintattiche).

3. I modi non finiti del verbo


Tra i modi non finiti del verbo, l’infinito compare stabilmente; il participio invece compare a lungo come parte a sé stante per
influsso della tradizione greco-latina (che vi riconosce caratteristiche del nome e del verbo – Prisciano dice che il discrimine sta nella
possibilità di declinarlo in genere e in numero); il gerundio ha uno stato incerto in quanto compare nel paradigma ma a volte è trattato
col verbo, a volte col participio e a volte autonomamente. Soave dedica un capitolo a participio, gerundio e nomi verbali. Puoti
considera il gerundio un modo indefinito che esprime indeterminatamente un’azione. Fornaciare considera tutti e 3 modi del verbo.
L’interesse dei grammatici punta sulla morfologia dei modi finiti (spesso si traduce in minute regole di formazione) e su alcuni usi
dei modi non finiti. Anche qui il confronto con i corrispondenti latini permane a lungo nell’impostazione relativa ai tempi e
nell’esame della diatesi. Per l’infinito è normalmente indicato un tempo futuro espresso dalle perifrasi aver a, esser per. Quanto al
participio, si rileva a differenza del latino l’assenza del futuro. La sistemazione più fortunata è proposta già da Bembo e da
Buommattei (1643), il quale propone di parlare di presente e passato. Non presentano particolari difficoltà morfologiche né il
participio presente né il gerundio semplice, e sono anche simili nella formazione. Più complessa è la morfologia del part. Passato.

4. La polimorfia
La presenza di un buon numero di allotropi morfologici è notoriamente uno dei tratti caratterizzanti dell’italiano letterario. Tale
tendenza è ben rilevabile nel campo dei verbi. Di fronte all’alternativa fra due morfemi verbali si osservano sia casi di classificazione
stilistica, di matrice tipicamente bembiana (una forma per la prosa, una per la poesia), sia altre forme di gradazione, siccome la
grammaticografia italiana è poco incline alle alternanze totalmente libere o non connotate.
Qui ci soffermeremo su qualche esempio che, non essendo vincolata al dipolo poetico/non poetico, conosce un più ampio ventaglio di
soluzioni:
- alternanza tra le forme etimologiche in -a (amava < AMABAM) e analogiche in -o (amavo, rifatto su amo) della prima persona
dell’indicativo imperfetto. La seconda forma era comune nel fiorentino argenteo, prescritta da Alberti nella Grammatichetta. Bembo
a non fa nemmeno cenno alla variante analogica, che è invece menzionata, per deplorarla, da (1516). Salviati respinge l’uso popolare
moderno in favore di quello trecentesco. Buommattei (1643) discute i pro e i contro delle due forme, mettendo in valore la natura
distintiva dell’uscita in -o, utile a evitare la collisione con quella della terza persona; egli cerca un compromesso, si preferisce -a, ma
non viene sanzionato chi usa -o. Soave (1771) sostiene le forme in -a con intransigenza; la sua netta preferenza potrebbe derivare da
un uso effettivamente assai ampio, anche nel parlato settecentesco, delle forme in -a, le quali oltre che dall’etimologia erano
sostenute dall’impiego in molti dialetti, e quindi radicate in molti dei nascenti italiani regionali. Soave ammette -o solo nell’uso
familiare, Collodi (1884) ammette l’una e l’altra forma. La definitiva affermazione del tipo oggi più comune sembra registrarsi nelle
grammatiche a partire da Fornaciari (1879).
- forme di quinta persona dell’imperfetto in -i (avevi ‘avevate’), diffuse in molti dialetti e attestate nella prosa degli autori toscani e
isolatamente nei testi antichi e più spesso a partire dal XVI secolo. Le forme ignote ai classici della letteratura trecentesca non
riescono a superare lo statuto di varianti popolari, generalmente rigettate anche dei grammatici più favorevoli alla legittimazione
dell’uso toscano.
- non circoscrivibile al dominio dell’alternanza tra forme poetiche e della prosa è anche l’oscillazione tra la terminazione unica (che
origina dal congiuntivo) -iamo per la quarta persona dell’indicativo presente, e le corrispondenti uscite etimologiche -amo -emo -imo,
largamente diffuse in vari dialetti e presenti anche nel fiorentino antico. Così, dopo la normalizzazione in favore di -iamo sancita da
Bembo (1525), le forme etimologiche sono rilanciate da Bartoli (1680), che ne richiama la diffusione panromanza, svincolandola
dalla concreta diffusione nella stessa culla dell’italiano. La legittimazione delle desinenze etimologiche passa attraverso il gusto
soggettivo e la retorica. Questa disputa ha più rapida soluzione visto che già da Corticelli (1745) della forma -emo si dice che «non è
oggi in uso». È probabile che in questo caso l’ampia convergenza dei dialetti sulle forme in -amo, -emo abbia favorito per reazione il
precoce accoglimento di una forma percepita come caratteristicamente toscana e legittimata da un lungo stato di servizio letterario.
- l’alternanza delle forme dea\dia e stea\stia è oggetto di discussione già in Bembo, che individua le varianti in -e- come
caratteristiche degli antichi e dunque favorite (dominanti nel fiorentino della fase più antica documentata), mentre le forme in -i- si
affermano progressivamente nella fase argentea. Buonmattei sostiene che l’uscita delle forme antiche dall’uso non toglie autorità dal
modello dei trecentisti perché essi le usavano quando erano in uso anche nel popolo a loro contemporaneo. I seicentisti recuperano le
forme antiche: è un caso di conservazione inerziale di una forma antica che né la lingua letteraria né il parlato fiorentino possono
giustificare, sintomo della radicata tendenza alla conservazione propria della grammaticografia italiana.
10. INVARIABILI, I. Consales

1.Questioni preliminari
Per gli indeclinabili si eredita la terminologia proposta dai grammatici della tarda latinità e se ne mantiene la tassonomia; le categorie
trasmesse sono quelle che riconosciamo tuttora: l’avverbio, la preposizione, la congiunzione e l’interiezione. Tuttavia alcuni principi
classificatori su cui la moderna trattazione poggia si distaccano gradualmente da quelli del mondo antico: schemi troppo articolati
vengono semplificati, confini liquidi tra una categoria e l’altra diventano distinzioni più nette. È soprattutto a partire dal Settecento
che la classificazione degli invariabili trova una certa stabilità formale, che si consolida nel secolo successivo.

2. Preposizioni
Tutti gli antichi grammatici sono concordi nel considerare la preposizione come una parte invariabile del discorso con funzione
relazionale (Trissino ne nega l’autonomia semantica). L’etimo spiega l’essenza di questa parte del discorso – l’essere collocata prima
dell’elemento che subordina. Le preposizioni si definiscono anche in contrapposizione agli avverbi, i quali possono sia precedere che
seguire il verbo a cui si riferiscono.

2.1 Preposizioni e segnacasi


Il tentativo di applicare le strutture del latino al volgare emerge nel costante riferimento ai casi della grammatica latina (Giambullari
dice che a esprime dativo e accusativo). Tale impostazione teorica fa scaturire una differenziazione fra preposizioni e segnacasi,
elementi grammaticali che premessi ai nomi e ai pronomi ne specificano la funzione logico-sintattica assolvendo la funzione svolta in
latino dalle desinenze dei casi. La maggioranza dei testi grammaticali separa di, a e da dalle restanti preposizioni, identificando nei
tre invariabili i segnacasi: vi si riconducono le funzioni, rispettivamente, del genitivo, del dativo e dell’ablativo. Solo nella seconda
metà del Settecento, autori come Corticelli e Soave chiariscono che anche i segnacasi sono, in realtà, preposizioni.

2.2 Preposizioni: classificazione


Bembo (1525) vi fa un rapido accenno, ma si inizia a parlare dell’agglutinazione della preposizione con l’articolo soprattutto a partire
dal 1600. La presentazione delle preposizioni si basa sui criteri più disparati: chi asseconda un criterio formale (Buonmattei,
categorie della specie e della figura), oppure logico-semantico (categorie del caso e della significazione); molti grammatici si basano
sui complementi e sulle relazioni sintattiche. Ancora a metà Novecento le nostre grammatiche non offrono una distinzione netta fra le
preposizioni monosillabiche proprie di, a, da, in, con, su, per, tra, fra, che non rivestono mai altre funzioni grammaticali e sintattiche,
e le numerose improprie, che sono elementi lessicali di varia natura impiegati anche con altri valori (durante, mentre).
Vi sono poi diverse categorizzazioni che mutano nel tempo: Trissino (primitive, derivative, semplici, composte come intra), a volte
anche i prefissi vengono contati come preposizioni (arci-, dis- s-). Nell’800, prendono piede categorie più vicine a quelle attuali:
semplici e congiunte (Moise). Su rimane esclusa dalle semplici almeno fino a metà ’900, ritenuta avverbio con funzione prepositiva.

3. Avverbi
Per secoli i nostri grammatici si riallacciano alle definizioni della tradizione antica: facendo perno sull’etimo, si concentrano sulla
funzione prevalente e lo descrivono come una parte invariabile del discorso che si pone accanto al verbo, in genere in posposizione, e
ne esplica gli accidenti, ne determina il significato o ne annulla la validità (avv di negazione). La confluenza, nella categoria, di
forme di origine e funzioni eterogenee (Salvi definisce l’avverbio «il centro di raccolta di parole molto diverse che hanno in comune
solo la proprietà di essere invariabili») rende labili i confini con altri invariabili, come la preposizione e la congiunzione; alcuni testi
di tardo Ottocento includono fra gli avverbi le particelle ci, ne, vi; da diversi autori, invece, sono considerate avverbi le congiunzioni.

3.1 Avverbi: classificazione


Sotto l’aspetto formale molti grammatici classificano gli avverbi sulla scorta di due grandi ripartizioni, spesso compresenti.
1. La prima suddivisione separa gli avverbi che non possono essere analizzati in una parte lessicale e in una suffissale, ossia i
primitivi, da quelli che, invece, derivano da altre parole, ossia i derivati. L’attenzione dei grammatici si concentra, al riguardo, sugli
avverbi in -mente, corrispondente al latino -ter, ne riconoscono la derivazione dalla forma femminile* dell’aggettivo e segnalano la
regola di aggiustamento con la soppressione della vocale finale per gli aggettivi in -e.
2. La seconda suddivisione contrappone gli avverbi semplici, che constano di una sola parola, i composti, che sono formati da più
elementi univerbali, ma ancora riconoscibili, o separati, in polirematiche.
Alcuni autori rinascimentali come Corso distinguono tra avverbi semplici, composti e ricomposti (per geminazione, adhora adhora),
ma questa tripartizione viene presto abbandonata.Dal Settecento in poi gli avverbi originati dalla fusione di più elementi iniziano a
essere distinti dalle locuzioni avverbiali: si origina così una nuova tripartizione tra avverbi semplici, composti e locuzioni.
Sotto il rispetto funzionale, colpisce la smania classificatoria di molti autori. Ad eccezione di alcune categorie, che ricorrono
costantemente fino ai nostri giorni, come quelle di luogo, tempo, quantità, qualità, affermazione e negazione, si riscontrano a lungo
difformità tipologiche e terminologiche.

4. Congiunzioni
Già le prime grammatiche a stampa non si discostano dalle odierne nel definire la congiunzione come una parte invariabile o
indeterminabile del discorso che serve a congiungere, a collegare più parole. Il latinismo congiunzione è condiviso, in genere, da tutti
i grammatici, con pochissime varianti formali.

4.1 Congiunzioni: classificazione


I criteri che animano una prima grande classificazione si mantengono costanti nel tempo, con poche variazioni. A partire dal
Cinquecento, quasi tutti i grammatici ripartiscono le congiunzioni in base a due aspetti, o accidenti: quello formale (figura), e quello
relativo al tipo di collegamento che la congiunzione può determinare, indicato come (specie).
Sotto l’aspetto formale, alcuni recuperano la distinzione priscianea tra congiunzioni semplici (una sola parola), e composte (due
parole). Nell’Ottocento alcuni ripartiscono le congiunzioni sulla base dell’unione tra i loro elementi costitutivi. Fornaciari (1897) e
Petrocchi (1887) tengono conto degli aspetti formali e funzionali e individuano congiunzioni semplici e primitive (o proprie); avverbi
usati come congiunzioni (allora, ora); frasi congiunzionali, ossia frasi che fungono da congiunzioni. 
Sotto l’aspetto del tipo di collegamento che le congiunzioni instaurano nella frase, le nostre grammatiche offrono assetti e
classificazioni difformi; soprattutto difettano a lungo di una ripartizione netta e sistematica tra coordinati e subordinati, sovente e
mescolate fra loro, anche perché mancano cenni alla paratassi e all’ipotassi, o alla gerarchia logico-sintattica tra frasi. Le diverse
congiunzioni sono classificate da altri criteri: l’adesione alle grammatiche latine, la frequenza d’uso, l’appartenenza alle congiunzioni
proprie o improprie. Può accadere, così, che in un medesimo gruppo siano inserite congiunzioni paratattiche e ipotattiche. Questo
genere di esposizione caratterizza ancora le grammatiche del XIX secolo. Con Soave inizia ad affiorare una classificazione più simile
a quella dei testi manualistiche odierni, ma bisognerà aspettare almeno Fornaciari (Sintassi italiana dell’uso moderno, 1881) per
trovare una distinzione fra costruzioni paratattiche e ipotetiche. Nei manuali del Novecento la differenza fra costruzioni paratattiche e
ipotattiche è un dato acquisito.

Un ruolo ingombrante è giocato dalla tradizione grammaticale Latina. I testi cinquecenteschi mostrano categorie di difficile
comprensione per un lettore moderno. Tuttavia, alcuni tipi di collegamento moderni sono riconosciuti già dalle prime grammatiche
italiane, con terminologie che ancora oggi si conservano. Presto compaiono termini come copulative, disgiuntive e conclusive.
- fra le copulative talvolta vengono inseriti connettivi che non sono congiunzioni (come gli avverbi medesimamente, similmente).
- Erico, tra le disgiuntive annovera accanto o, overamente, overo. Ma è stata a lungo considerata copulativa (Trissino, Corso), ma si
tratta di una derivazione dalla tradizione grammaticale Latina, in Prisciano infatti la congiunzione sed viene considerata tra le
copulative. Nel 1600 Manzini riconduce la congiunzione ma a “un gruppo che i grammatici chiamano avversanti”.
- le conclusive sono indicate già nelle grammatiche del 1500 che adottano la dicitura collettive o razionali. La denominazione
conclusive compare in Buommattei, mentre sono chiamate illative da Corticelli.
- la coordinazione esplicativa è solitamente definita dichiarativa e i nostri grammatici vi fanno rientrare disparati connettivi tra cui
spesso avverbi con funzione asseverativa come: ben, benso, sai, cioè.

In merito ai rapporti di subordinazione, molte grammatiche accennano alla polifunzionalità del connettivo che (avverbio nella prima
grammatica stampa dell'italiano). Romani riconduce la formazione di locuzioni congiuntive come dopo che, finché, in luogo che
all'aggregazione di che con funzione pronominale, ovvero relativa con nomi appartenenti a rapporti accidentali o tra avverbi concreti.
- i connettivi introduttori di interrogative indirette sono designati come congiunzioni dubitative o domandative. Buommattei
accomuna che pronome interrogativo, come, perché, quando e le espressioni con il rafforzativo Domin(e).
- Soave raggruppa le congiunzioni temporali in una classe a sé stante e le chiama di ordine e distribuzione (avanti, innanzi, prima, in
seguito, poi).
- Prisciano ispirato da Apollonio aveva distinto le causali in 5 specie, su questa scia Trissino ascrive le congiunzioni che, perché alla
categoria delle sottocontinuative: connettivi adatti a una causalità in cui il secondo termine consegue necessariamente al primo.
Giambullari aggiunge altri connettivi come finché, perché, in quanto. Il connettivo causale è annoverato da Trissino tra le
congiunzioni effettive, che esprimono “un fatto che è il risultato di un altro”.
- Molto fluttuanti sembrano essere le categorie che esprimono la subordinazione condizionale e quella consecutiva. I grammatici del
1500, basandosi sul modello latino, presentano la classe delle congiunzioni continuative, che esprimono una relazione di causa-
effetto. Giambullari annovera se, se non. Alcuni autori definiscono continuative le congiunzioni da che, da poiché, in modo, onde;
Rossi include poiché, pure, quando.
- le finali sono chiamate assolutive o perfettive da Giambullari. Nelle grammatiche seicentesche spesso sono inglobate nel gruppo
delle causali (affinchè, per, perché).
- le concessive sono spesso confuse con le avversative con cui condividono anche la dicitura seguendo la tradizione Latina che sotto
il nome di adversative raggruppava sia coordinative come tamen che subordinative come etsi.
- alle congiunzioni di maniera alcuni ascrivono le modali come, secondo che, ma anche consecutive come cosicché, talché, e anche
generalizzanti come comunque, o ancora comparative quali come se, siccome se, meglio che.
- le limitative sono chiamate diminutive da Giambullari e Gigli o limitative da Buommattei.

5. Interiezioni
Le grammatiche fin dal Rinascimento includono l’interiezione tra le categorie grammaticali invariabili. Diverse sono le definizioni
che glia autori danno (esprimere passioni, gli affetti dell’animo, provenienti non dall’uso ma della natura) e diverse sono le
denominazioni utilizzate (inframesso, interposto, dal latino inserzione, Buonmettei dice interposizione – non solo perché possono
essere precedute o succedute da altri elementi, ma anche perché la loro rimozione non pregiudica la coerenza semantica del
costrutto). A partire dall’Ottocento e soprattutto dal primo Novecento, a proposito delle interiezioni si fa riferimento anche alle
onomatopee (dette anche voci imitetive in riferimento agli animali). Circa la grafia, le interiezioni sono espresse anche da suoni che
non fanno parte del repertorio fonologico italiano. La maggior parte degli autori usa il grafema h per l’aspirazione, funzionale anche
ad evitare omografie. Il costante riferimento ai casi latini emerge anche qui: ad esempio, oh che esige l’accusativo soprattutto se
seguito da un nome o un pronome; deh si accompagna al vocativo; ah, ahi, eh, ehi vogliono l’accusativo. 

5.1 Interiezioni: classificazione 


Manca a lungo una classificazione di tipo formale: interiezioni primarie, secondarie e locuzioni interiettive figurano sovente
mescolate nella trattazione. Un'eccezione è rappresentata da Buommattei, che distingue tra interposti semplici (una parola) e
composti (più parole). Ripartizioni più articolate nell’Ottocento: Ponza classifica le interiezioni in naturali (ahi, eh), arbitrarie (viva,
vai) e miste (ahime, ohibo). Quanto, invece, al criterio semantico, la trattazione procede, quasi sempre, catalogando le interiezioni in
base alle emozioni che esprimono. Una medesima interiezione può rappresentare reazioni e sentimenti diversi, ed è il contesto a
suggerirne l’interpretazione. Alcune interiezioni non hanno mutato nel tempo (ahi, ahime), altre sono scomparse dall’uso (baco per
intimorire i bambini), altre hanno mutato il loro significato (ahi per contentezza).
6. Ripieni
Sono riconosciuti da alcuni grammatici come una categoria autonoma; sono elementi che si ritengono di maggiore efficacia, o
chiarezza, o eleganza al discorso, ma che non sono strettamente necessari, elementi che abbiano soprattutto una funzione rafforzativa
o esornativa. Sono considerati tipici della lingua toscana, e devono essere usati con parsimonia. In questa catergoria si mescolano
elementi eterogenei: avverbi asseverativi, aggettivi, interiezioni, particelle pronominali e congiunzioni vere e proprie.

6.1 Ripieni: classificazioni


Si soffermano con maggiore attenzione sul fenomeno Buommattei (1643) e Corticelli (1745). Corticelli individua quattro tipi.
- ripieni che conferiscono forza: ecco con funzione presentativa a inizio frase; bene come marcatore di un concetto nuovo; bello e
tutto come intensificatori; già con funzione temporale e come rafforzativo degli avverbi non e mai;
- ripieni che danno ornamento: egli pronome espletivo; esso indeclinabile anteposto a un pronome personale come rafforzativo;
- accompagnanomi, articoli indeterminativi con il significato di “un certo”, “un tale”
- accompagnaverbi, particelle pronominali mi ti ci si vi accanto a verbi intransitivi pronominali.
Molte di queste voci sarebbero oggi riconosciute come “marcatori di discorso”; tuttavia la categoria del ripieno si palesa come più
ampia, dal momento che comprende anche alcune forme pronominali e articolari.

7. Una revisione della dottrina tradizionale?


Di recente la classificazione tradizionale degli invariabili è stata messa in discussione da Salvi (2013), che concorda con alcune
intuizioni dei grammatici del passato: rileva come dal punto di vista sintattico-funzionale alcune categorie grammaticali siano
trasversali rispetto alla distinzione delle parole in parti del discorso e come alcuni invariabili andrebbero, piuttosto, classificati come
variabili.
Fra gli avverbi, ad esempio, si contano quelli che svolgono una funzione analoga a quella degli aggettivi e quelli di tempo e luogo,
che sono affini ai pronomi e fungono da argomenti e da circostanziali (qui, dove, ora, quando).
Fra le congiunzioni, molte subordinanti sono formate da una preposizione e da un complementatore, sovente fusi in grafia (prima
che, perché), e molte coordinanti sono avverbi connettivi (allora, perciò, anzi, tuttavia).
Fra le interiezioni, potrebbero essere inseriti anche gli avverbi sì e no.
Una ridefinizione provvisoria dei tipi di invariabili potrebbe, dunque, individuare quattro classi di parole sulla base delle loro
proprietà concrete: avverbi (modificatori e connettivi usati per la coordinazione); preposizioni che introducono sintagmi e frasi
(preposizioni, alcuni avverbi e alcune congiunzioni subordinanti); operatori sintattici (congiunzioni coordinanti vere e proprie e
complementatori per la subordinazione); elementi olofrastici (interiezioni e profrasi). 
11. LA FRASE SEMPLICE, E. De Roberto

1. Questioni preliminari
Bloomfield, la frase semplice è una forma linguistica indipendente, non compresa in una forma linguistica maggiore.
La grammaticografia italiana ha da sempre favorito l’analisi delle parti del discorso, più che il funzionamento complessivo della frase
semplice. La frase era oggetto di studio di altre discipline, quali retorica, logica, dialettica. La tradizione grammaticale occidentale
non ha sempre riconosciuto nella frase semplice un concetto rilevante per le sue teorie: i grammatici antichi consideravano la frase
una struttura prosodica, semantica, logica e retorica, più che una struttura sintattica; soltanto in un secondo momento si sviluppò la
riflessione sulla sintassi. Anche oggi non è considerata in termini puramente sintattici, ma concepita in priis come atto comunicativo
elementare: è un’entità pluridimensionale, in cui si incrociano diversi livelli di analisi (sintattico, semantico, informativo), come
dimostra anche la diversa terminologia (frase, proposizione, enunciato) in uso oggi nelle diverse branche della linguistica.

2. Metalinguaggio
La terminologia è di derivazione latina: dalle parole latine usate per riferirsi alla frase semplice (phrasis, constructio, oratio, sententia,
periodus) si originano quelle italiane (frase, costruzione, orazione, sentenza, periodo). A partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
frase avrà la meglio sulle altre opzioni. Dietro l’adozione di vari termini si vede l’agire di un mutamento concettuale.
Una formulazione terminologica relativa alla frase risale a Apollonio Discolo (II sec. d.C.), autore del De constructione (Perì
syntaxeos), una delle opere più antiche a livello sintattico. Attraverso le Institutiones grammaticae di Prisciano (V-VI sec) concetti e
termini della tradizione grammaticale greco-latina, tra cui oratio, si propagano attraverso i secoli. Da Boezio emergono ulteriori
distinzioni come quella tra oratio simplex (nome e verbo), e oratio complexa. Oratio è l’opzione terminologica più diffusa in epoca
medievale. Come sinonimo di oratio circola propositio, usato da Cicerone per indicare la premessa maggiore di un sillogismo e da
Boezio nel senso di oratio enuntiativa, cioè caratterizzata da verità.
L’uso di propositio si afferma con la Grammaire di Port-Royal (1619), quando prevale una prospettiva logicizzante nella grammatica.
Nella grammatica italiana proposizione si avvia a diventare il termine privilegiato per riferirsi alla frase dalla seconda metà del
Settecento. La sostituzione di orazione con proposizione contribuì al declino del concetto di “sintagma” che si riaffermerà nel
Novecento. L’uso di frase si afferma nell’Ottocento; fino a questo periodo con frase si intendevano le citazioni o i modi di dire, il
termine metteva quindi in risalto la componente retorica della lingua. Frase inizia poi ad assumere anche un valore grammaticale, ma
ciò non determina la scomparsa di proposizione: i due termini vengono a indicare unità diverse (frase designa la completezza
semantica, proposizione l’unione di soggetto e predicato). Nella grammaticografia tardottocentesca frase si affianca a periodo per
indicare l’unità superiore alla proposizione. Contestualmente si afferma la distinzione tra frase semplice e frase complessa, formata
da più proposizioni.

3. Ricezione delle teorie della frase semplice nelle grammatiche italiane


In età medievale è netta la distinzione tra grammatica prescrittiva (fini didattici o esegetici in quanto propedeutica all’oratoria) e
grammatica speculativa (si propone di svelare i meccanismi e le cause del linguaggio). In queste grammatiche compare per la prima
volta in Europa dopo gli Stoici una teoria sulla struttura della frase. La grammatica modista, sviluppatasi all’università di Parigi tra
XIII e XIV secolo, elabora teorie frasali per spiegare i fatti sintattici. I modisti vogliono una grammatica che sia scientia, coesa e
coerente e autonoma dalla logica, non ars. Vennero insegnate a Bologna, ma queste teorie non furono recepite nelle grammatiche
scolastiche del latino, che costituiscono il modello delle grammatiche volgari orientate verso una concezione empirica. Prevalgono
pertanto interessi morfologici e microsintattici.
Tuttavia, nei primi grammatici compaiono anche elementi che accomunano le grammatiche del volgare a quelle delle altre lingue
europee, portando ad una liberazione graduale della descrizione grammaticale e dell’insegnamento delle lingue moderne dalle
categorie del latino: Bembo rifiuta una definizione semantico-referenziale delle categorie grammaticali a favore di una funzionale-
paradigmatica (es. i pronomi si pongono al posto dei nomi) e funzionale-sintagmatico (es. avverbio che cooccorre con il verbo); il
nome non è più definito ontologicamente ma in base a flessione, genere e numero.
Contemporaneamente si assiste a nuovi orientamenti sotto l’aspetto sintattico nelle grammatiche latine, che dedicano ampio spazio
alla sintassi. Giambullari per primo dedicò ampio spazio alla sintassi. Da Linacre riprende la bipartizione tra genus iustum
(costruzione intera) e genus figuratum (costruzione figurata). L’idea dell’esistenza di due tipi di sintassi permarrà fino a fine ‘800.
Solo a partire dal XVIII secolo, in seguito alla diffusione delle teorie razionaliste, l’analisi si concentra sul livello frasale, più che sui
rapporti tra le singole parti. Le grammatiche del Sette-Ottocento si basano sulle teorie protorealiste di equazione tra proposizione e
giudizio e della relazione tra soggetto e predicato come elemento distintivo della frase. Sul finire dell’Ottocento compare la Sintassi
italiana dell’uso moderno di Fornaciari, in cui la sintassi non è più descritta in modo frammentario, ma è vista come l’insieme delle
regole con cui chi parla deve formulare i suoi pensieri. Considerata come un corpo unico, la proposizione assume un ruolo centrale in
Forniciari. L’opera è divisa in tre parti: parti del discorso e il loro uso separatamente; elementi della proposizione e il diverso tipo di
proposizioni; ordine con cui si devono collocare le parole nella frase.

4. Tipi di frase
La classificazione della frase avviene secondo due criteri, uno di tipo formale e l’altro di tipo semantico e pragmatico.

4.1 La forma
La classificazione formale considera il numero dei costituenti frasali e l’estensione della frase, sviluppandosi a partire dalla
distinzione priscianea e poi boeziana tra oratio perfecta e oratio imperfecta. Queste espressioni originariamente erano riferite alla
logica e indicavano rispettivamente la frase di senso compiuto e il sintagma. Progressivamente nella grammaticografia italiana con
oratio perfecta si intende una frase costituita da nome e predicato e, per indicare una frase più complessa e lunga, si ricorre
all’espressione oratio perfectissima; invece con oratio imperfecta si intende una frase caratterizzata da fenomeni di ellissi, restando
sintatticamente autonoma (es. sogg sottinteso). Per quanto riguarda le frasi mononucleari verbali, esse vengono ammesse sulla base
della centralità assegnata al verbo e sulla capacità di comprendere il nome (es. leggo → si comprende che il soggetto è io), inoltre
alcuni verbi sono considerati privi di soggetto operante (atmosferici). In altri casi si fa ricorso alla teoria dell’argomento interno
(combatte sarebbe in realtà combatte la battaglia); anche in verbi a valenza zero si ipotizza la presenza di un argomento (piove la
pioggia). Dubbi suscita invece la frase nominale (monorematica senza predicato), che, dove considerata, è ricondotta a fenomeni di
ellissi (nella grammatica odierna sono due fenomeni distinti).
Sanzio indica alcuni fenomeni di ellissi:
- alcune formule interrogative (Ma che? Così eh?)
- le proposizioni senza verbo introdotte da ecco (ecco Maria)
- formule di giuramento e frasi proverbiali (simile con simile)

Forniciari tratta come ellissi le interiezioni, i saluti e le imprecazioni. Romani riconosce frasi complete (dotate dei termini essenziali,
sogg e attributo) e incomplete (prive di uno dei termini essenziali per ellissi o contrazione). Un’altra distinzione si ha tra semplice,
complessa e composta (pag.373).

4.2 Il modo frasale ( classificazione semantico-pragmatica)


Nel Novecento sulla classificazione formale dei tipi di frase semplice prevale la classificazione semantico-pragmatica. Le frasi
vengono distinte in base al loro modo: dichiarativo (Fa caldo), interrogativo (Fa caldo?), esclamativo (Fa caldo!), iussivo (Dimmelo),
ottativo (Potessi andare in vacanza). Vi è una corrispondenza tra tipi di atti linguistici, modalità e sintassi. Il concetto di modalità
frasale è stato elaborato da Bally nel 1932 e affonda le sue radici nella teoria aristotelica del linguaggio con la mediazione di Boezio,
che individua 5 tipi di oratio perfecta: deprecativa (o optativa), imperativa, interrogativa, vocativa, enuntiativa (distinta in
affirmativa e negativa). I modi frasali vengono trattati sistematicamente a partire dal 1700, prima si trovano soltanto delle trattazioni
sommarie. È Romani (1826) a dedicare grande attenzione a questo tema: le proposizioni possono variare per qualità, quantità, forma
e uso. Nel parametro della qualità considera il concetto di modo, essenziale di ogni proposizione. Egli collega il modo proposizionale
agli avverbi frasali (certo, forse…). In base al modo, una prima distinzione oppone le proposizioni intellettuali alle affettive; vi si
aggiunge poi un terzo gruppo il cui significato non dipende né dall’intelletto né dalla volontà, ma dal grado di necessità che lega il
predicato al proprio soggetto. Individua poi frasi modificate dall’enfasi con cui sono pronunciate. I modi individuati da Romani
corrispondono ai moderni concetti di modalità epistemica ( intellettuali), deontica e dinamica ( affettive), aletica ( terzo
gruppo). Quel che impedisce di sovrapporre la teoria dei modi di Romani alla nozione novecentesca di modalità è il fatto che l’autore
non riconosce il legame tra il modo e la soggettività di chi le enuncia, ma spesso i modi finiscono con coincidere con il significato del
verbo. Romani è consapevole del rapporto tra modi e strutture grammaticali, tanto da individuare diverse marche modali: particelle,
voci concrete, congiunzioni, voci complesse, locuzioni e desinenze verbali. Per stabilire se un elemento è espressione del modo o no,
ricorre ai test di cancellazione e commutazione. Il quadro delineato da Romani non è stato recepito a autori ottocenteschi, che usano
la tassonomia tradizionale. La tendenza è quella di far coincidere modo frasale e modo del verbo, ma non sempre accade: le
interrogative non hanno un corrispettivo modo verbale. Nella Sintassi Fornaciari propone un modello ridotto individuando
proposizioni di tipo affermativo, negativo e interrogativo. Nelle grammatiche novecentesche il numero dei modi frasali oscilla, a
seconda che la frase negativa sia considerata a sé stante o meno; un trattamento disomogeneo è riservato anche alle esclamative e alle
ottative.

5. Gli elementi della frase semplice: dall’analisi grammaticale all’analisi logica


Le singole parti della proposizione vengono analizzate secondo due modelli: analisi grammaticale (più antico, derivato dalla
grammatica classica, rappresentato dalla teoria delle parti del discorso), e analisi logica (si sviluppa a partire dal Medioevo).

5.1 Soggetto, oggetto e predicato


Le categorie dell’analisi logica si formano presto e derivano dalle nozioni aristoteliche di sostanza e attributo della sostanza. Da qui
Boezio elabora i concetti di suppositum / appositum usati nella grammatica e subiectum / predicatum usati nella logica. La
grammaticografia volgare rinascimentale usa le categorie grammaticali di nome e verbo per indicare il soggetto e il predicato oppure
la terminologia dei casi latini. Nella seconda metà del Cinquecento si assiste al prevalere della coppia soggetto/predicato a quella
supposito/apposito, segno di una ripresa della tradizione logica a scapito di quella grammaticale. In autori come Giambullari e
Salviati, soggetto non rimanda al soggetto grammaticale di una proposizione, ma piuttosto alla sostanza, la testa del SN. L’oggetto
viene indicato con il termine accusativo con cui si definisce la persona che patisce o in cui passa il verbo. Giambullari distingue tre
tipi di oggetto: umano, inanimato e quello formato da una parola che è parte del verbo stesso (oggetto interno). Nel 1700 si ha una
scissione tra nozioni di soggetto, oggetto e predicato da quelle di nome e verbo. Corticelli dedica attenzione ai soggetti non nominali
come infinito sostantivato e le proposizioni soggettive. Soave a introdce definitivamente i termini soggetto, verbo, oggetto.
Nell’Ottocento le nozioni in esame approdano nella dimensione dell’analisi logica:
- i termini nominativo, nome, sostantivo per il soggetto e accusativo per l’oggetto divengono sempre più rari;
- al termine verbo si affianca attributo o predicato che rimandano a un’unità funzionale più che a una categoria grammaticale.
La nozione di predicato permette di considerare anche le forme perifrastiche (complemento predicativo, forme causative, verbo
servile + infinito). Nell’Ottocento si affermano due novità a livello concettuale: la distinzione tra oggetto diretto e oggetto indiretto;
nell’etichetta di complemento indiretto vengono a fondersi sia i complementi argomentali sia i complementi circostanziali.
C’è in generale una maggiore attenzione a fatti relazionali e in particolare all’accordo tra sogg, predicato e ogg.

5.2 Dai reggimenti ai complementi


Il concetto di complemento nasce in Francia in età illuminista come termine facoltativo che si aggiunge al sogg o al predicato, e si
diffonde in Italia nella prima metà del 1800, spesso nella riformulazione di reggimento, nozione priscianea con cui si indicava il caso.
Tra caso e complemento non era quindi avvertita una netta differenza. Per secoli il cardine dell’analisi sintattica era stato il caso che,
sebbene non codificato morfologicamente in volgare, era assimilato alle preposizioni. I grammatici del Cinquecento distinguono i
segni di caso, cioè le preposizioni, e i proponimenti, cioè le preposizioni con valore semantico. Le relazioni semantiche espresse
mediante segnacaso o preposizione erano descritte adattando la terminologia delle reggenze (possessio, mensura, tempus, causa...).
Sebbene già Salviati avesse messo in dubbio la distinzione tra segnacaso e preposizione, essa permane ancora nelle grammatiche sei
e settecentesche. Buonmattei (1643) abbandona i termini di preposizioni e segnacasi, e adotta un criterio di analisi semantico: moto,
stato, compagnia, modo. In Soave e Corticelli si sovrappongono il caso e il valore semantico. Puoti, oltre al caso, segnala la relazione
semantica che il complemento esprime. (tabella pag.388)
Questo modello prende terreno nell’800, ma nella maggior parte delle grammatiche, casi e complementi non figurano più nella stessa
arte dell’opera: il caso sta nella morfologia, i complementi diventano termini proposizionali con il sogg e il predicato. L’abbandono
dei casi latini passa quindi per l’invenzione dei complementi.
Riguardo al numero dei complementi, Fornaciari distingue 4 gruppi: attributivi e appositivi, predicativi, oggettivi, avverbiali, poi
ridotti a attributivi e avverbiali, per un totale di 23 complementi. Egli classifica i complementi a seconda del costituente da cui
dipendono. Questo è un esplicito rifiuto del tradizionale modo di trattare i complementi. Nella classificazione e nella denominazione
dei complementi ci sono tendenze oscillatorie. Alcuni sono più facilmente individuabili di altri.

6. Accordo
Il principio di concordanza tra le parti della frase (concetto medievale di congruitas) è un concetto fondamentale perché non
rispettare questo principio significa compiere delle sgrammaticature. Nonostante la saltuarietà delle osservazioni, inizia a delinearsi
un nucleo di questioni che si ripresenteranno nei secoli successivi.
a) Compaiono riferimenti alla concordanza a senso, soprattutto tra soggetto rappresentato da nome generico o collettivo e verbo
(Bembo, Salviati).
b) Si legittima che con essere e avere con funzione presentativa il verbo va al singolare anche se il soggetto è plurale. Se ci sono due
nomi l’accordo col verbo dipende dalla posizione: se i due sostantivi precedono il verbo l’accordo è al plurale, altrimenti no.
c) Punto di crisi è l’accordo del participio nei verbi composti; il citerio è individuato nella natura dell’ausiliare: il participio legato
all’ausiliare essere si accorda al soggetto, quello legato all’ausiliare avere con l’oggetto. Resta una regola oscillante in quanto ci sono
esempi di autori antichi difficilmente spiegabili.
d) Accordo del genere in presenza di un soggetto maschile e uno femminile. Tra Settecento e Ottocento diviene fondamentale trattare
la concordanza nella parte dedicata alla sintassi: Corticelli (1745) individua 7 regole fondamentali e un fenomeno importante è la
concordanza soggetto + verbo quando c’è un complemento di compagnia (la norma andrà nella direzione dell’accordo grammaticale
con il solo sogg). Si osserva il tentativo di ricondurre le regole di accordo alla struttura logica della frase: Soave dice che l’attributo
della proposizione deve accordarsi con il sogg. Fornaciari (1881) aggiunge l’accordo dei verbi impersonali e di quelli con il si
passivante: nel primo caso generalmente l’accordo è al singolare, ma in un contesto più elevato prevale la costruzione personale; nel
secondo al plurale. Nei verbi riflessivi in funzione passiva (categoria in cui Forniciari racchiude sia le costruzioni con il si passivante,
sia quelle con il si impersonale) usiamo l’accordo al plurale (si richiedono degli ausili). Si tratta di questioni molto specifiche. In
generale, l’accordo semantico viene ammesso fino al 1800, poi si preferisce l’accordo grammaticale.

7. Ordine delle parole


La disposizione delle parole nella frase per secoli ha seguito la dispositio oratoria che prevede l’opposizione tra ordo naturalis e
ordo artificialis, concetti che riguardavano la concatenazione dei pensieri nel discorso e che con Prisciano diventano di natura
linguistica. Si individua quindi una recta ordinatio secondo cui la sostanza (nome) deve essere espressa prima del verbo, che è
l’accidente.
In età medievale l’ordine delle parole è trattato da due diverse prospettive:
a) Nell’ambito della retorica è di pertinenza dell’ornatus; Dante riconosce nell’ordine delle parole un parametro fondamentale per
distinguere 4 gradi della costruzione (insipidus, sapidus, sapidus et venustus, excelsus).
b) Nell’ambito della grammatica speculativa medievale, l’ordine delle parole era considerato il punto d’incontro tra grammatica e
ontologia: l’ordine delle parole influenza il significato.
c) Nella prospettiva didattica era importante per i maestri di scuola. Nelle grammatichette latino-volgari all’ordine SOV del latino si
contrappone l’ordine SVO del volgare. Nelle grammatiche rinascimentali troviamo elenchi di figure retoriche capaci di alterare la
disposizione delle parole.
La deroga più frequente all’ordine SVO si ha nelle frasi passive dove l’agente può trovarsi prima del soggetto (ma nonostante questo
il sogg mantiene il ruolo di nominativo paziente – nella costruzione transitiva delle passive, l’ordine dei costituenti può suscitare
dubbi circe la loro funzione). Giaambullari tratta l’ordine delle parole sia in rapporto alla concordanza, sia alla posizione
dell’elemento reggente in costruzioni transitive: solitamente l’ordine è retto-reggente. Ci sono eccezioni: a parte il linguaggio
poetico, l’elemento reggente segue il retto nelle relative e interrogative, nel passaggio della possessione sul possessore (anteposizione
del possessore), costruzioni figurate (innanzidopo, doponnanzi, ambigue – es pa.395)
L’ordine SVO è riconosciuto come il naturale andamento del raziocinio umano, dunque l’inversione dei costituenti sarà il prodotto
dell’intervento su di esso di un qualche elemento perturbatore. Per Romani tre sono le costruzioni possibili: regolare (la costruzione
ricalca la successione con cui i termini si sviluppano nella mente), irregolare (i termini sono posti fuori dal loro posto naturale),
figurata (fenomeni di soppressione ed ellissi). La lingua italiana ammette tutte e tre le costruzioni, ma con differenze sul piano
diafasico e discorsivo (linguaggio dottrinale: costruzione regolare; linguaggio affettivo: costruzione irregolare e figurata).
Nella Sintassi di Fornaciari (1881) all’ordine delle parole è dedicato grande spazio. Il capitolo che qui più interessa è quello relativo
alla collocazione degli elementi della proposizione. Pur individuando la costruzione regolare nella sequenza SVO, Fornaciari
promuove alcune particolarità a sistema: la posposizione del soggetto gli appare un’opzione persino più spontanea quando la frase
inizia con un avverbio o con un complemento avverbiale, nelle costruzioni presentative e dopo verbo riflessivo. Altri casi sono
ricondotti alla modalità frasale (frasi interrogative, augurative, interiezioni) o, ancora, alla volontà del locutore di rimarcare il
soggetto. La parte nominale del predicato è invece per lo più posposta alla copula, ma per effetti di stile può anche comparire in
prima posizione. Collocazione dell’oggetto diretto: il suo posto naturale è dopo il verbo, ma lo si può anteporre per ottenere effetti
stilistici o imitare la naturalezza del parlare. La stessa pluralità di parametri (sintattico, intonativo, emotivo) è applicata all’esame
dell’ordine degli aggettivi e degli elementi avverbiali.

Le categorie e i fenomeni relativi alla frase semplice hanno avuto una tendenza evolutiva generale; sono oggetto di una progressiva
messa a fuoco e ciò è riconducibile a due cause:
1. interesse per la frase semplice da parte della grammatica generale in quelle fasi storiche che hanno dato spazio al rapporto tra
mente e linguaggio, e l’ipotesi dell’esistenza di strutture generali;
2. cambiamento del pubblico, che riconduce sempre più il ruolo della grammatica all’apprendimento e all’educazione linguistica.
Prima la formulazione della frase era considerato un fenomeno elementare, ma dal 1700 in poi questo concetto si evolve e la frase
semplice diventa qualcosa che comprende le relazioni tra parti del discorso e parole, e l’unità base di sequenze più ampie.
12. SINTASSI DEL PERIODO

1. Questioni preliminari
Lo schema classico della grammatica italiana (che si afferma nel Cinquecento su modelli latini) prevedeva una scansione in capitoli
dedicati alle singole parti del discorso, tralasciando la sintassi. La loro attenzione era rivolta a fenomeni sintattici riguardanti la frase
semplice, mentre la frase complessa resterà a lungo ai margini del discorso grammaticale. La ragione è da ricondursi a una
delimitazione di competenze: l’analisi del periodo, intesa come riflessione sulla più elegante, efficace o persuasiva disposizione delle
frasi all’interno dell’orazione, era infatti considerata oggetto della retorica. Fino all’Ottocento, se accade che qualcuno se ne occupa,
è perché il discorso li ha portati ad affrontare una materia che non si erano proposti di toccare. Il che si verifica in due casi:
a) Trattando di interpunzione. Descrivere o normare l’uso dei segni interpuntivi non può non accompagnarsi, sin dal Cinquecento, a
una riflessione sull’articolazione del periodo, soprattutto quando l’interpunzione è vista come un mezzo per evidenziare le diverse
proposizioni.
b) Trattando delle figure, cioè le costruzioni marcate. L’accoglimento, accanto alla sintassi semplice, di una sintassi figurata (o
irregolare) induce i grammatici a occuparsi, oltreché di fenomeni microsintattici, anche di fenomeni macrosintattici come l’ordine
delle frasi del periodo, l’ellissi di una proposizione, l’anacoluto ecc.
Le prime trattazioni autonome della sintassi del periodo sono di metà Ottocento. La prima trattazione davvero sistematica
sull’argomento arriverà solo nel 1881, data la pubblicazione della Sintassi italiana dell’uso moderno di Fornaciari.

2. Il periodo: terminologia e definizioni


La più antica attestazione in italiano in senso grammaticale del termine periodo risale al 1550 e si trova in Dolce, nei titoli dei
capitoli sull’interpunzione (nell’Umanesimo periodus indicava il punto fermo – nei secoli successivi il legame tra periodo e
interpunzione resta indissolubile; definizioni del Novecento descrivono il periodo come limitato da punti fermi, esclamativi o
interrogativi). Guardando alle definizioni ottocentesche, il periodo è un “giro di proposizioni” che contiene pensieri attorno a una
frase principale. In prospettiva retorica, il periodo è valutato in base a criteri estetici, che hanno poco a che fare con la grammatica;
Aristotele aveva invece proposto come requisiti quello della circolarità e dell’interconnessione. (vedi pag. 405)
Ancora nell’Ottocento il termine periodo fatica a ottenere la legittimazione definitiva. Al suo posto, in qualche grammatica si
preferisce il più generico discorso. In questi casi rispetto alla sequenza “proposizione  periodo  discorso”, si salta il passaggio
intermedio. In Fornaciari si assiste a una distinzione tra periodo semplice, formato da una sola proposizione, e periodo composto. La
differenza ha una matrice retorica e si collega all’antica disputa sull’esistenza di periodi costituiti da una sola proposizione,
possibilità ammessa da Aristotele ma rifiutata da Cicerone. Ma non ci si interroga solo sulla misura minima delle proposizioni del
periodo, bensì anche su quella massima, indicata al più in quattro proposizioni.
La questione della misura del periodo ne coinvolge un’altra, relativa alla distinzione fra sintassi della frase semplice e sintassi della
frase complessa. Per lungo tempo questi due ambiti vengono confusi e sovrapposti. A ciò contribuisce la polisemia dei termini
semplice e complesso. Semplice può voler dire: a. ordine naturale dei costituenti, b. priva di espansioni, c. una sola proposizione,
complesso il contrario. Quindi una proposizione è semplice quando ha solo soggetto + predicato; composta se contiene due o più
soggetti o attributi o predicati; complessa se è ampliata con complementi o sintagmi. Oggi, si dice proposizione semplice quella che
enuncia un solo giudizio, complessa quella formata dall’unione di più frasi semplici. Il periodo complesso si fonda sull’ipotassi,
quello composto sulla paratassi.

3. Le gerarchie del periodo: principali, coordinate e subordinate


Le nozioni di reggenza e di dipendenza sono state elaborate dalla tradizione grammaticale classica e volgare riguardo ai rapporti
gerarchici all’interno della frase semplice. L’estensione di tali nozioni alla frase complessa avviene fra Sette e Ottocento. Un impulso
proviene dalla grammatica filosofica illuminista (Analisi del linguaggio, Mariano Gigli (1818). In Gigli non si parla di frasi ma di
azioni, intendendo con ciò le azioni verbali compiute da un soggetto in una proposizione; la coordinazione è vista come relazione
temporale per cui le due frasi esprimono azioni contemporanee, mentre la subordinazione è l’accompagnamento di un’azione
accessoria ad un’azione principale.
Nei decenni successivi cominciano a diffondersi le categorie tuttora in uso, ma le trattazioni al riguardo sono divergenti.
a) Spesso la descrizione delle relazioni sintattiche tra le frasi si trova nei capitoli dedicati alla congiunzione.
b) Di subordinazione ci si può occupare anche trattando di reggenze verbali, nel momento in cui il concetto di reggenza è esteso al
dominio del periodo.
c) Un’altra nozione utile a illustrare i livelli di articolazione del periodo è quella dell’espansione sintattica.
Nel gruppo eterogeneo delle espansioni, accanto a complementi e avverbi, figurano anche proposizioni subordinate, senza che sia
dato loro alcun rilievo, perché si vuole dimostrare come all’amplificazione della frase possa contribuire ogni sorta di elemento. Ma il
concetto di espansione serve proprio a spiegare il passaggio dalla frase al periodo. Il fenomeno si realizza in 2 modi:
- determinando o restringendo semanticamente uno dei costituenti nominali della frase;
- sostituendo uno dei costituenti con una proposizione.
Quindi, le proposizioni principali stanno a fondamento delle altre e non sono rette da preposizioni; le subordinate ampliano e
determinano le principali e sono sempre rette da congiunzioni.
Alle soglie del Novecento la distinzione fra principali e subordinate sembra ormai essersi fissata nelle modalità ancora oggi diffuse:
le principali sono quelle che possono grammaticalmente reggersi da sole, mentre le dipendenti o subordinate sono quelle che da sé
sole non hanno alcun senso, perché sono compimento richiesto dal predicato (o da un’altra parte) di un’altra proposizione.
Nella grammatica generativa la frase reggente prende il nome di frase matrice.

3.1 I gradi della subordinazione


In una descrizione delle gerarchie e del periodo, un aspetto solitamente evidenziato concerne i gradi della subordinazione. Il primo a
occuparsene è Fornaciari (1881), che ne dà la rappresentazione ancora oggi canonica, per cui le subordinate di primo grado sono tali
rispetto alla principale, quelle di secondo grado sono tali rispetto a un’altra subordinata. Non si fissa un limite alla concatenazione
delle subordinate, ma andare oltre il secondo grado renderebbe il periodo troppo elaborato e creerebbe difficoltà di comprensione.
3.2 Tipi di subordinate
Anche la prima classificazione analitica delle subordinate si incontra in Fornaciari (1881), che individua quattro gruppi in base
all’analogia tra la funzione dei complementi nella frase e la funzione delle proposizioni nel periodo:
a) soggettive (svolgono la funzione di soggetto);
b) attributive (svolgono la funzione di complemento attributivo);
c) oggettive (svolgono la funzione di complemento oggetto);
d) avverbiali (svolgono la funzione di complemento indiretto). A volte sono trattate a parte.
Tralasciando le attributive, la separazione tra avverbiali e le altre coincide di fatto con la suddivisione che oggi si fa in proposizioni
argomentali e avverbiali, argomentali e non avverbiali o completive e circostanziali. Delle avverbiali, poi, si dà una classificazione in
nove tipi (locali, temporali, causali, finali, condizionali, concessive, di maniera, comparative, consecutive). Molte sono le
classificazioni proposte, dato che è sempre possibile trovare un criterio nuovo che giustifichi l’istituzione di una nuova classe; non
sorprende la soluzione di chi rinuncia del tutto, limitandosi a trattare in modo autonomo ogni proposizione secondaria ed evitando di
collocarla forzatamente entro categorie generali.

3.3 La coordinazione
Fino alla metà del XIX secolo e oltre, una sensibilità sull’argomento appare episodica. Al massimo vi si allude indirettamente nei
capitoli dedicati alle congiunzioni. Nelle grammatiche più attente alla trattazione sintattica, invece, l’enfasi cade sull’equipollenza fra
le coordinate e sulla loro intercambiabilità. Ciò serve a mettere in luce il fatto che il legame coordinativo sia possibile
indipendentemente dalla funzione che le proposizioni svolgono nel periodo: coerentemente, gli esempi addotti mostrano come
coordinate possono essere sia una principale e un’altra frase sia due subordinate. La segnalazione di tale proprietà diventerà un
passaggio immancabile nelle grammatiche successive fino ai giorni nostri. Un altro aspetto generalmente sottolineato è la nozione di
reciproca indipendenza fra le proposizioni coordinate, restando ciascuna indipendente dalle altre. Analogamente nelle grammatiche
novecentesche si nota che la coordinazione si realizza accostando più proposizioni indipendenti, tali cioè che ciascuna si potrebbe
reggere da sola. Quanto alle modalità con cui si realizza la coordinazione, di norma se ne individuano due:
a) senza congiunzioni;
b) mediante congiunzioni.
Le classificazioni sono divergenti anche in relazione al valore logico dei nessi coordinativi. La trattazione più analitica si trova in
Goidanich (1918), in cui la coordinazione può essere di cinque tipi: copulativa; avversativa; disgiuntiva; conclusiva; causale. Tranne
che per la presenza della causale anziché della dichiarativa (o esplicativa), la classificazione corrisponde a quella che leggiamo in
Migliorini (1963) o in Serianni (1988).  Merita di essere preso in considerazione, infine, il modo con cui si affronta la questione del
rapporto fra paratassi e ipotassi. Il raffronto è agevolato dalla visualizzazione grafica in Fornaciari (1881), in cui si dispongono su
due colonne frasi subordinate e frasi coordinate aventi lo stesso significato. Dalla comparazione non scaturisce la superiorità
dell’ipotassi sulla paratassi, perché ciascuna delle due opzioni ha delle peculiarità stilistiche tali che, confacendosi ora allo scritto, ora
al parlato, ora alle possibili combinazioni fra i due registri, la soluzione migliore consiste nel saperle variare con equilibrio. Altrove
però si ripropone il topos – oggi rifiutato – della paratassi come modalità primitiva: la scelta fra paratassi i potassi dipenderete non
solamente dall’intenzione di chi parla o scrive, ma anche, e soprattutto, dall’indole della sua intelligenza dal grado di educazione ecc.

4. Modi e tempi verbali nel periodo


4.1 Esplicito/implicito
La distinzione fra proposizioni esplicite e implicite non appartiene alla tradizione latina e medievale, che classificano i modi verbali,
più che sull’opposizione definito/non definito, su quella indipendente/dipendente. Lo schema classico, cui ci si richiama nelle
grammatiche italiane sin dal Cinquecento e che contrapponeva l’indicativo (unico modo capace di “reggersi da sé”) al congiuntivo e
a tutti gli altri modi (per natura e uso, salvo eccezioni, dipendenti), viene in parte variato con l’allargamento del primo gruppo al
condizionale e all’imperativo. L’adozione di un diverso criterio classificatorio dei modi, e quindi delle proposizioni, è resa già
possibile dalla correlazione fra il concetto di dipendenza sintattica e quello dell’indefinitezza, quando la si applica non solo
all’infinito ma anche agli altri modi.  Il punto di collegamento fra una classificazione basata solo sul concetto di dipendenza e una
basata anche sulla distinzione esplicito/implicito va probabilmente rintracciato in Soave (1818). Qui il discrimine sintattico fra modi
definiti e indefiniti è tracciato chiaramente, sebbene non sia ancora suggellato dalla terminologia moderna, anche perché le voci
esplicito e implicito veicolano allungo nozioni diverse, ruotanti attorno alla coppia espresso/sottinteso. In questo quadro, una
proposizione è implicita quando il senso viene espresso da una sola parola che ha per sé stessa il significato di una proposizione
compiuta. Ne consegue che le interiezioni e gli avverbi esprimono proposizioni implicite. L’equivalenza fra un’interiezione e
un’esclamativa, basata sul presupposto che la prima contenga in nuce la seconda, è l’anticamera di un’altra equiparazione, quella fra
modalità esplicita e implicita della subordinazione, che è una costante nelle grammatiche, anche prima dell’assunzione della
terminologia oggi corrente: una frase con il gerundio è assimilabile a una relativa con l’indicativo. Le frasi implicite sono intese
come abbreviazioni di quelle esplicite. Peraltro l’uso del termine implicita nel valore di “abbreviata” è ricorrente in Fornaciari e serve
a spiegare, oltre alla coordinazione non verbale, la corrispondenza tra le forme aggettivali e le frasi relative, chiamate entrambe
attributive. Ma nella Sintassi queste accezioni coesistono con quelle attuali, che vi ricorrono con altrettanta frequenza; la definizione
proposta è la stessa che oggi si leggerebbe in qualunque grammatica di impronta tradizionale: «le proposizioni subordinate si dicono
esplicite quando sono espresse con un modo finito (indicativo, congiuntivo, condizionale), ed implicite, quando sono espresse con
l’infinito, il gerundio, il participio».

4.2 La consecutio temporum


Il tema della consecutio temporum, ossia della correlazione dei tempi verbali all’interno del periodo, viene trattato sin dal
Cinquecento. Così come fanno per i modi, i grammatici sottolineano come alcuni tempi vadano usati solo in frase subordinata: è il
caso del trapassato remoto. Un’analoga restrizione d’uso viene segnalata per il futuro anteriore, che viene annoverato fra i tempi
condizionati, pur potendo figurare anche in frase principale. Le relazioni di tempo nel periodo possono essere analizzate anche da un
punto di vista più astratto e teorico. È quanto fa, ad esempio, Gigli (1818), secondo il quale «il Tempo passato e futuro è sempre tale
in relazione a qualche punto che sulla Linea da noi si determina come presente». Quello che conta è che su tale base si fondi la
distinzione fra modi e tempi assoluti e relativi. In base a essa Gigli conduce un’ampia disamina delle relazioni verbali all’interno del
periodo, con cui si giunge a stabilire che fra una principale all’indicativo e una subordinata al gerundio sussiste una relazione di
contemporaneità; oppure a definire, non solo il futuro anteriore, ma anche il trapassato prossimo sulla base di una relazione di
anteriorità. La relazione di posteriorità invece, viene chiamata in causa per distinguere, all’interno del periodo ipotetico, il
condizionato eseguibile (il verbo cioè che esprime una condizione realizzabile) dal condizionato ineseguibile.  Oltre che nelle
grammatiche più speculative, la tensione alla consecutio temporum è documentabile anche in quelle di taglio didattico-espositivo. Il
discorso può essere limitato a specifiche costruzioni, quali il periodo ipotetico, ma il tema può essere discusso in una prospettiva più
generale. A richiedere regole precise appare soprattutto la costruzione del congiuntivo. La trattazione ottocentesca più sistematica si
trova, ancora una volta, in Fornaciari (1881), il quale illustra le varie modalità di accordo che i tempi dei modi finiti presentano.
Accanto alle corrispondenze canoniche, sono messi rilievo secondo il metodo tradizionale delle analogie tutte le deviazioni dalla
logica temporale che pure si sono radicate nell’uso.

5. Il periodo “irregolare”
Nel discorso grammaticale, accanto agli aspetti canonici o regolari della lingua, si è sempre sentito il bisogno di contemplare anche
tutte quelle deviazioni dalla norma che, per ragioni stilistiche o pragmatiche, hanno ricevuto una legittimazione dall’uso, prima di
tutto letterario. Sin dalle origini, sul modello di Donato, questi errori consentiti venivano chiamati figure, ovvero un modo di parlare
fuori dallo stile comune. Avendo a che fare con lo stile, le figure erano materia da contendere alla retorica, anche perché spesso
riguardavano fenomeni di ordine sintattico; si è parlato così di costruzione figurata, vale a dire di una composizione di parole fuori
dall’ordinario e dall’uso.  Tra le figure normalmente studiate, quelle che coinvolgono la frase complessa sono le ellissi, l’iperbato, la
sinchisi e l’anacoluto. Trattando dell’ellissi, figura la cui varia e incerta casistica la rende oggi difficilmente fruibile, si descrivono le
omissioni di verbi o proposizioni. Si nota, ad esempio, come in una subordinata si possa sottintendere il gruppo “verbo +
complementi”; oppure l’infinito di una costruzione latineggiante. L’iperbato (o inversione, trasposizione) riveste un ruolo centrale nel
parlar figurato, essendo alla base della distinzione fra costruzione diretta e costruzione inversa. Quest’ultima costituisce
un’inversione dell’ordine sintattico normale per ottenere la disposizione più efficace delle frasi nel periodo, che risponde a intenti
pragmatici, in relazione all’enfasi che si vuole porre su ciascun concetto. Al contempo, pur riconoscendo nella costruzione inversa un
utile strumento per dare maggiore energia al discorso ed evitare la monotonia, si mette spesso in guardia contro l’alterazione della
naturale disposizione delle parole che potrebbe generare degli equivoci o delle ambiguità. Fra le fattispecie dell’iperbato sono
annoverate anche le frasi parentetiche, che consistono nell’interrompere una proposizione mettendone in mezzo un’altra.  Nelle
grammatiche postottocentesche la classificazione per figure dei fenomeni regolari viene abbandonata in favore di procedimenti
differenti. Per comprendere in che modo questo avvenga, basti pensare alla riflessione sull’ordine delle parole (e delle frasi) e a come
la nozione di inversione abbia lasciato oggi il posto a quelle di ordine marcato/non marcato.

5.1 Il periodo “parlato”


Anche se già verso la fine dell’Ottocento non prevaleva solo un severo normativismo letterario e certi moduli del parlato non sono
divenuti accettabili solo di recente, è innegabile che il modello privilegiato su cui si basano le grammatiche fino alla prima metà del
Novecento sia quello scritto e letterario. I riferimenti al parlato che vi si trovano sono quindi episodici anche se ricavabili dalle parti
dedicate alle figure grammaticali. Questo avviene anche quando si descrivono la sinchisi e l’anacoluto, costruzioni catalogate a volte
tra gli iperbati. La prima consiste in una confusione di costruzione, mentre la seconda nell’incongruenza, nel mettere una voce isolata
e senza corrispondenza; si tratta di difetti più che di figure del linguaggio, che come tali si devono evitare. Fra gli anacoluti rientra
senz’altro il nominativus pendens. Dagli anni Settanta in poi le grammatiche cominciano a non basarsi più su un’unica varietà di
lingua, ma ad aprirsi alle tante varietà di italiano per troppo tempo estromesse dalla riflessione grammaticale. La prima grammatica
didattica ad accogliere in modo compiuto tali novità è senz’altro Lingua e linguaggi di Francesco Sabatini (1980), in cui la visione
della lingua come comunicazione consente di dare cittadinanza ai registri, alle varietà regionali e dialettali. L’importanza attribuita al
parlato diviene tale da far indicare nella pratica orale la via principale per imparare a costruire il periodo. È così che vengono
legittimate certe costruzioni a lungo bandite o guardate con fastidio dai puristi, quali la frase scissa, che si incontra spesso nella
lingua parlata, avendo lo scopo di richiamare l’attenzione di chi ascolta o legge su una parte del discorso. In questa prospettiva il
problema della concorrenza fra indicativo e congiuntivo nelle subordinate è affrontato con minore rigidità che nel passato, partendo
dal presupposto che la lingua parlata e popolare tende alla semplificazione del complicato sistema delle forme verbali. Una luce
nuova inizia essere gettata anche sul periodo ipotetico con imperfetto irreale: costrutto che, nonostante qualche eccezione
ottocentesca, aveva imbarazzato non poco i grammatici per i tanti riscontri letterari (manzoniani e non solo), e che ora viene spiegato
come una soluzione alla difficoltà di evitare l’estensione del condizionale alla protesi. Nelle grammatiche scolastiche di oggi,
tuttavia, se anche si considera il costrutto abbastanza normale o frequente nell’italiano parlato, se ne può ammettere l’uso anche
nell’italiano scritto, ma solo quando è volutamente vicino al parlato.

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