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Storia Dell'Italiano Scritto Antonelli: 1. Grammatica E Linguistica Storica, L. Tomasin
Storia Dell'Italiano Scritto Antonelli: 1. Grammatica E Linguistica Storica, L. Tomasin
Antonelli
1. Questioni preliminari
Nella fase fondante della linguistica come scienza, l’italiano assume un ruolo centrale in quanto oggetto di studio della romanistica e
in quanto l’Italia rappresenti “la Romània in miniatura”: la grammatica storica delle lingue romanze rappresentava la palestra
privilegiata della linguistica. Per Meyer-Lübke il dominio italoromanzo è considerato l’erede più diretto della latinità, mentre quello
galloromanzo è quello che vi si è allontanato di più. Lo stesso afferma Ascoli, accentuando anche l’enorme varietà dialettale italiana:
la grammatica storica italoromanza è inseparabile dalle varietà dialettali, che devono essere confrontate con la varietà letteraria.
1. Questioni preliminari
Lo strutturalismo è penetrato tardi in Italia e non si è radicato profondamente, per questo le prime descrizioni dell’italiano di
impostazione strutturalista sono state realizzate all’estero. Importante è la Scuola di Copenaghen, nella quale troviamo Magnus
Ulleland, autore della Italiensk grammatikk (1966). Dagli anni ’60 sono uscite delle grammatiche italiane per parlanti non nativi, tutte
realizzate da studiosi stranieri e presentanti un alto grado di analiticità descrittiva.
In tutti gli studi sull’italiano in età pre-generativista, si ha un’evidente asistematicità delle descrizioni sintattiche. Le basi per una
buona analisi della lingua sono state offerte dalla grammatica generativa (GG), teorizzata negli anni ’50 da Noam Chomsky. Fin da
subito la GG trova in Italia diversi sostenitori e le grammatiche che escono negli anni ’60-’70 adattano subito l’apparato formale in
funzione del nuovo orientamento. Una vera e propria svolta si ha solo nel 1988, quando escono 3 importanti grammatiche
dell’italiano: la Grammatica italiana di Luca Serianni, ti taglio tradizionale; le altre due sono ispirate a principi lingugistici
innovativi: la Grande grammatica italiana di consultazione (GGIC) di Lorenzo Renzi, che si rifà al modello teorico della GG; la
Grammatik der italienischen Sprache (GLI) di Christoph Schwarze, si rifà al modello teorico della grammatica lessico-funzionale.
1. La GGIC di Renzi presenta un’analisi sistematica dei dati linguistici, volta a dotare l’italiano di una grammatica specialistica,
completa e rigorosa e al contempo divulgativa. I concetti grammaticali tradizionali vengono riveduti, riformulati, arricchiti. Nella
sintassi si ha l’introduzione di categorie e termini nuovi, con una trattazione che parte dalla frase per giungere alle parti del discorso.
L’obiettivo non è descrivere la competenza di un parlante italiano ideale, ma l’insieme degli usi linguistici e dialettali presenti in
Italia, prendendo in considerazione sia la lingua parlata quotidiana che quella scritta.
2. La GLI di Schwarze è un’opera al tempo stesso di consultazione e di riferimento. Si distingue dalla precedente grammatica per
minore ampiezza, per maggiore tecnicismo terminologico, per l’organizzazione dei contenuti più tradizionale (andamento ascendente
dalle categorie lessicali alla frase). Inoltre, si concentra maggiormente sulla morfologia, descrivendo tutti i fenomeni di flessione. Il
focus resta però sempre la sintassi. Anche in questo caso, la lingua analizzata è quella quotidiana non dialettale. I dati sono ricavati
più che altro dai parlanti, meno dai testi scritti.
A queste opere se ne sono aggiunte altre: la Grammatica italiana (GI) di Cecilia Adorno (2003); il volume Le regole e le scelte (RS)
di Michele Prandi (2006); la Nuova grammatica italiana (NGI) di Salvi e Vanelli (2004), pensata ad uso degli insegnanti e studenti
universitari. La più recente è la Grammatica: parole, frasi, testi dell’italiano (GPFTI) di Ferrari e Zampese (2016), che mette al
centro l’esame delle proprietà sintattiche e semantiche della frase e dei suoi costituenti.
Oggi nella ricerca linguistica esistono diversi modelli teorici, che si riflettono negli studi grammaticali. Ciò non significa che
manchino categorie o principi descrittivi ampiamente condivisi, che segnano un netto scarto rispetto al modello tradizionale.
Nei prossimi paragrafi segue una rassegna dei tratti innovativi più rilevanti delle grammatiche dell’italiano uscite dal 1988.
2. La sintassi
2.1 La frase e i costituenti
2.1.1 Definizioni di frase
I modelli grammaticali tradizionali presentano una definizione di frase di tipo semantico-funzionale (prospettiva limitata).
- Definizione semantico-funzionale: la frase è un’unità di senso compiuto articolata in un soggetto e in un predicato.
Le grammatiche che si ispirano alla GG fanno ricorso al concetto di:
- Costruzione grammaticale: sequenza di parole governata da regole. Questa sequenza di parole contiene molteplici relazioni di
costruzione: l’accordo in genere e numero e l’ordine delle parole sono relazioni di composizione governate da regole. Quindi, la frase
è l’unità massima in cui vigono delle relazioni di costruzione. Questa definizione (risalente a Bloomfield) fa riferimento solo a
proprietà di carattere sintattico-formale.
Altre grammatiche tengono anche conto delle proprietà semantiche, avvicinandosi quindi a formulazioni più tradizionali: per Prandi e
De Santis la frase può essere concepita secondo 2 prospettive:
- come atomo del discorso, è la più piccola unità linguistica in grado di trasmettere un messaggio indipendente;
- come struttura complessa, è un struttura grammaticale costruita combinando le parole secondo schemi formali.
Il bisogno di definire il concetto di frase è proprio di quelle teorie grammaticali che la considerano come l’unità fondamentale della
sintassi. Tale prospettiva non è comune a tutta la linguistica moderna. Altre teorie (come la grammatica lessico-funzionale), invece,
considerano le funzioni grammaticali codificate nel lessico, non dipendenti dall’organizzazione gerarchica della frase, e intendono la
frase semplice come espressione che contiene un verbo di modo finito e che nella sua struttura formale e semantica è organizzata
attorno a questo verbo.
Le categorie di parole che possono essere espanse (N, A, V, P, Avv) sono dette categorie lessicali. Articoli, dimostrativi, quantificatori
(indefiniti, numerali, interrogativi), pronomi, complementatori (cong. subordinanti)… che non possono essere espansi sono dette
categorie funzionali. L’approccio strutturalista e generativo si avvale di criteri distribuzionali per classificare le parole, basati sul
modo in cui le parole si dispongono nella frase: le parole che possono occupare la stessa posizione appartengono alla stessa categoria.
In questo modo, una stessa parola può rientrare in più categorie a seconda dei singoli casi. Il modello tradizionale si avvale invece di
principi di tipo semantico-morfologico.
Gli articoli e i dimostrativi, che possono occorrere in posizione pre-nominale, ma non cooccorrere sono detti determinanti.
Gli indefiniti, numerali e interrogativi quantificano il SN, e sono quindi quantificatori.
I pronomi (personali, riflessivi e clitici) sono detti anche protosintagmi.
Sì e no, che da soli possono costituire un’intera frase, sono detti profrasi.
Sulla base di ciò, Chomsky ha elaborato la teoria X-barra, per la quale tutti i costituenti sintattici sono organizzati secondo una
struttura gerarchica base, uguale per ogni sintagma (struttura astratta, schema p.59). Essa può essere mantenuta o modificata nelle
fasi successive di derivazione attraverso dei movimenti. Per la proprietà di ricorsività, un sintagma può contenere (dominare) uno o
più sintagmi dello stesso tipo.
2.2 La valenza
2.2.1 Valenza sintattica: gli argomenti
Il termine valenza, attinto dal linguaggio della chimica da Tesnière, indica il numero di attanti che partecipano direttamente
all’evento descritto dal verbo, l’elemento centrale della frase. Il termine valenza si riferisce alla capacità di una testa di selezionare il
numero e il tipo degli elementi fondamentali che possono completare la struttura del sintagma. Questi elementi sono detti argomenti.
Ci sono due livelli di valenza: la valenza sintattica (o Schema/struttura argomentale), cui pertiene il concetto di argomento; la valenza
semantica (o schema/struttura attanziale o griglia tematica), cui pertengono i concetti di attante e ruolo tematico.
La testa impone sui suoi argomenti delle restrizioni di tipo semantico (restrizioni di selezione), ad es. con punire entrambi gli
argomenti devono essere animati, o assimilabili ad esseri animati.
I verbi possono essere divisi in classi in base alla valenza: monovalenti (sbadigliare); bivalenti (amare); trivalenti (dare); zerovalenti
(atmosferici). Anche le preposizioni selezionano uno o più argomenti. Anche nomi, aggettivi, avverbi possono farlo, ma non
obbligatoriamente (≠ verbi).
Gli argomenti possono essere costituiti da vari tipi di sintagmi a seconda delle proprietà di sottocategorizzazione del verbo (es.
guardare seleziona due SN, partecipare un SN e un SP).
La valenza non è un proprietà esclusiva dei V; anche le Prep possono avere argomenti, però, a differenza del V, tali categorie non
prevedono che i loro argomenti vengano realizzati obbligatoriamente.
Tale gerarchia ha un ruolo determinante nell’organizzazione della struttura sintattica e semantica della frase.
Il ruolo tematico esprime la funzione semantica di un argomento e differisce da quelle che sono la sua realizzazione categoriale e la
sua funzione grammaticale. Infatti, uno stesso ruolo tematico può realizzarsi sintatticamente in modi diversi, o meglio, verbi che
possiedono la stessa valenza semantica possono avere diversa valenza sintattica. (Es. A Piero piace la pasta \ Piero ama la pasta)
A ogni funzione grammaticale corrispondono precise proprietà sintattiche. A ciascun verbo è assegnato, parallelamente ai
partecipanti, un dato numero di funzioni grammaticali, quindi il concetto di valenza verbale è esteso anche alle funzioni
grammaticali: sul piano semantico, a ogni verbo è associato un certo numero di argomenti e ruoli tematici; sul piano sintattico, a ogni
verbo è assegnato un certo numero di funzioni grammaticali.
Nella GLF le funzioni grammaticali sono intese come le relazioni sintattiche che strutturano una frase; non si definiscono in termini
di configurazioni sintagmatiche come nella GG, ma sono elementi primitivi della teoria.
Le funzioni grammaticali che un verbo può assegnare sono: soggetto, oggetto, obliquo, complemento. L’aggiunto è una funzione
grammaticale che non appartiene alla valenza del V (Leggo sul divano).
Il quadro funzionale è l’insieme delle funzioni grammaticali assegnate dal verbo al costrutto. La GG concepisce la frase come un
sintagma complesso, che presenta al suo interno la stessa struttura gerarchica che è alla base dei sintagmi (schema 47 p.70): gli
argomenti del verbo sono disposti in maniera asimmetrica e gerarchica nel sintagma. Esistono argomenti che non fanno parte del SV,
ed elementi che formano il SV con il V: il Sogg non fa parte del SV, per cui è detto argomento esterno del verbo. Gli argomenti
diversi dal sogg sono parte del SV e sono quindi argomenti interni del verbo. Secondo la GG, quindi, l’unico modo non ambiguo per
definire le funzioni grammaticali è in termini configurazionali, ossia in base all’organizzazione gerarchica della frase in costituenti. Il
Sogg è il SN che fa da specificatore al SV; l’Oggetto è l’SN che fa da complemento al SV.
Il modello della GLF differisce dalle prospettive delle altre grammatiche in quanto include tutti i SP introdotti da a all’interno della
categoria dell’obliquo-a.
2.4 Classi di verbi
2.4.1 Transitivi e intransitivi, inergativi e inaccusativi
I verbi transitivi selezionano almeno un argomento con la funzione di oggetto diretto; i verbi intransitivi non possiedono nessun
complemento diretto. I verbi transitivi-intransitivi mescolano i due precedenti. Questa partizione non è esaustiva, per cui la GG
propone di classificare ulteriormente gli intransitivi in due sottoclassi: i verbi inaccusativi (o intransitivi-essere) e i verbi inergativi (o
intransitivi-avere). I secondi, come i transitivi, selezionano l’ausiliare avere nei tempi composti, mentre i primi l’ausiliare essere.
Negli inaccusativi il Sogg ha le caratteristiche dell’ogg dir delle frasi transitive, e si riconoscono per:
- possibilità di pronominalizzare un sintagma con il ne partitivo (es. sono arrivate due lettere);
- possibilità di comparire in costruzioni principali assolute (es. una volta incontrati i ragazzi, sono tornato a casa);
- di solito il soggetto si trova dopo il verbo (es. è tornata la luce).
- assegnano spesso il ruolo semantico di tema al sogg, come i V transitivi lo assegnano all’ogg dir.
- il sogg è caratterizzato da non agentività.
Ipotesi dell’inaccusatività: la GG ha formulato un’ipotesi per dar conto del fatto che il sogg dei V inaccusativi ha caratteristiche in
comune con il canonico ogg dir. Si suppone che esso si trovi a livello astratto nella posizione tipica dell’ogg dir, ossia all’interno del
SV, ma non con il caso accusativo, bensì nominativo.
- dislocazione a sinistra (o dislocazione stretta), presuppone che un costituente non nasca in posizione iniziale, ma che ci venga
spostato in quanto topic. Questo spostamento lascia tracce (segnalazioni di co-referenze, spesso riprese clitiche) all’interno della
struttura frasale che segue. Se l’elemento dislocato è un ogg indir, sarà preceduto da preposizione.
- tema sospeso o anacoluto, è come la dislocazione a sx ma non presenta connessioni al resto della frase attraverso marche
grammaticali (Mio fratello, gli è capitato un problema). Qui è obbligatoria la ripresa clitica. In alcuni casi l’anteposizione serve a
marcare la contrastività (Bianca, ho visto ieri, non Lisa). L’elemento contrastivo è posto a inizio frase es è marcato con l’enfasi.
- dislocazione a destra sposta l’elemento tematizzato alla fine della frase. E’ anche detto ripensamento.
- frase scissa si ha la suddivisione in due unità frasali, con la struttura verbo essere + elemento contrastato + che + frase senza
elemento contrastato (È a Marco che ha dato le chiavi).
4. Sintassi della frase complessa
Alcuni aspetti che evidenziano come il paradigma moderno pervenga ad un’adeguatezza descrittiva, impensabile per il modello
tradizionale.
2. A sollevamento: Nelle costruzioni a sollevamento non si danno due elementi coreferenti, come nelle costruzioni a controllo, ma un
solo elemento, il soggetto dell’infinitiva, che può essere “sollevato” dalla subordinata e spostato nella posizione di soggetto della
sovraordinata. I verbi a sollevamento sono volere, potere, dovere, sembrare, parere, cominciare a, continuare a, finire di, stare per.
3. Percettiva: Nella costruzione percettiva un verbo di percezione (ascoltare, guardare, sentire…) regge un oggetto diretto e una
proposizione all’infinito. Tali strutture sono diverse da quelle a controllo. Mentre in queste ultime il soggetto dell’infinito è
rappresentato dalla categoria vuota PRO, nelle costruzioni percettive il “soggetto” è presente, ma per ragioni strutturali riceve il caso
accusativo e si comporta come un oggetto diretto.
1. Questioni preliminari
La storia della grammatica ad uso didattico curricolare comincia nel Settecento, con il diffondersi delle scuole nei centri urbani. Gli
strumenti prodotti sono caratterizzati da brevi regole corredate da esempi, che presuppongono studenti già edotti del latino e della
terminologia metalinguistica. La storia delle grammatiche dell’italiano costituisce un sottoinsieme della storia della didattica
dell’italiano. Il mutare delle condizioni linguistiche di partenza dei discenti e l’evolversi delle teorie pedagogiche, hanno inciso sulle
pratiche didattiche, stimolando la redazione di nuovi strumenti d’apprendimento. L’idea che la conoscenza delle regole sia utile per
l’apprendimento linguistico è stata molto dibattuta. Il primo a metterla in dubbio fu Grégoire Girard (non impariamo a parlare
studiando le regole della grammatica come non impariamo a camminare studiando le regole dell’equilibrio). Ciò è vero per
l’apprendimento della lingua materna, ma meno vero per l’apprendimento di lingue straniere.
Nel 1913 Giuseppe Lombardo Radice confuta Girard, dicendo che non si cessa mai di aver bisogno di riflettere sulla lingua e di porsi
problemi di regole: la grammatica è utile per l’apprendimento. Bruno Migliorini nel 1941 antepone la pratica alla teoria: la lingua è
un’abilità e la conoscenza astratta e teorica delle regole serve a poco, mentre conta molto metterle in pratica. Nel 1975, anche il
GISCEL (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica) riprende la tesi di Girard.
Altra domanda è: in quali scuole, a quale età e come insegnare la grammatica? Nella Legge Casati del 1859 emerge l’idea che la
grammatica vada insegnata alle scuole elementari e secondarie inferiori, poiché l’italiano, non essendo parlato dalla maggior parte
della popolazione, andava insegnato come il latino. In seguito, si elimina l’insegnamento della grammatica nelle scuole elementari e
rurali, invitando i maestri a limitare la teoria. Nel 1905, fissando l’obbligo scolastico fino ai 12 anni, si reintroduce la grammatica a
partire dalla terza classe. Questi dibattiti sull’opportunità o meno di insegnare precocemente la grammatica hanno fatto si che la
didattica della lingua si trasferisse progressivamente nelle scuole medie e nel primo biennio superiore. Nelle scuole elementari, negli
anni ’30 scompare il libro di grammatica e si usano altri strumenti per insegnare la lingua (libri di traduzione dal dialetto, sezioni
specifiche dei sussidiari, eserciziari). Tale dibattito, mai del tutto risolto, si è fatto vivace nei momenti di cambiamento socio-
economico del paese: appena dopo l’unità e negli anni ’70 del ’900 con gli effetti dell’industrializzazione e dell’inurbamento, periodi
in cui si pone il problema dell’inclusione di larga parte della popolazione.
La produzione editoriale scolastica dopo l’Unità aumenta a dismisura: nei primi 13 anni dopo il 1861 si stampano 102 grammatiche
scolastiche! Ancora più ingente è la produzione degli ultimi 60 anni, che si è intensificata con la scuola media unificata.
Serianni distingue 5 fasi fondamentali nella storia del testo di grammatica per le scuole: dall’Unità alla riforma Gentile; dal 1923 al
1951; dal 1951 al 1968; dal 1968 al 1983, periodo detto crisi della grammatica; dal 1983 ad oggi.
Ci sono alcuni snodi importanti nella storia della didattica dell’italiano:
- 1861-1GM: si tenta di alfabetizzare in ita una maggioranza dialettofona, in cui prevale l’apprendimento normativo della
grammatica.
- Anni ’60 – inizio ’80 del ’900: prevale un’educazione linguistica come approccio socialmente inclusivo e orientato alla convivenza
regolata delle varietà diafasiche e diatopiche. La didattica dell’italiano, prima legata alla sola analisi logica, si dilata a tutto l’universo
linguistico.
- Oggi: acquisito l’italiano da gran parte della popolazione, la lingua parlata dai singoli studenti fuori dalla scuola non è più ignorata.
La scuola stessa ha fatto propria la lingua della quotidianità. In più, l’estraneità all’italiano della tradizione letteraria non è più indice
di marginalità sociale, nonostante la lingua sia necessaria per l’esercizio della cittadinanza. Nella situazione sociolinguistica odierna,
la scuola è rimasta l’unico istituto che trasmette le varietà formali. Per questo negli ultimi 20 anni si è avuto un ritorno alla
grammatica.
a) I “tradizionalisti”, il gruppo più consistente che non si allontana dal modello di Corticelli. Forniscono brevi regole da memorizzare
corredate da esempi. A questo filone appartiene Basilio Puoti, che divide la sua grammatica in due parti, l’etimologia (le “parti del
discorso”) e la costruzione, cioè la sintassi.
b) I “metodisti”, che derivano il loro nome dalle scuole di metodo nate in Piemonte e in Lombardia per formare i maestri. Le
grammatiche metodiste danno importanza all’analisi logica sostituendo alla terminologia latina dei casi quella dei complementi e
forniscono definizioni brevi ed esempi da memorizzare.
c) I “razionalisti”, pochi e di scarsa fortuna, che collocano la grammatica nell’ambito di una teoria del linguaggio e non sono inclini
all’osservazione dell’uso. Ad esempio considerano io, tu, egli come “nomi indicativi” quando svolgono funzione referenziale e
deittica, invece “pronomi di persona” quando hanno funzione anaforica.
d) I “teorico-pratici”, che si rifanno ai metodi induttivi delle teorie positiviste di Girard, che propone poche e efficaci regole calibrate
sui discenti e molti esercizi, rifugge le astrattezze delle regole logicizzanti e sostituisce la grammaire de pensées alla grammaire de
mots. Il metodo teorico-pratico riscosse grande successo nelle scuole elementari degli anni Ottanta dell’Ottocento. Questa
impostazione conferisce grande centralità al maestro e di conseguenza i libri di grammatica possono essere riservati al maestro che
deve mediare il contenuto o ai discenti o, quando indirizzati ai ragazzi, possono assumere un’impostazione discorsivonarrativa. Un
esempio di grammatica teorico-pratica è quella di Carbonati (1864).
Dalla classificazione di Poggi non vengono considerate le grammatiche contrastive italiano-dialetto, che nascono in quegli anni, e
quelle induttive.
Dopo l’istituzione della scuola media unica nel 1940, si ha la pubblicazione di due volumi d’autore: La lingua nazionale di
Migliorini (1941) e l’Introduzione alla grammatica di Devoto (1941). Migliorini antepone la pratica alla teoria e dà enorme
importanza al lessico nella prima sezione, mentre solo nella seconda sezione si ha la trattazione teorica. L’opera ha enorme fortuna e
sopravvive a lungo. Devoto, invece, dà grande rilievo alla sintassi, convinto che le capacità di analisi e rielaborazione strutturale sono
prioritarie nell’apprendimento della lingua. Scava a fondo nei processi linguistici, cosa che rende l’opera più complessa e quindi
meno fortunata nella scuola.
Negli anni ’70 si ha una profondo rinnovamento metodologico, che conclude la riflessione sulla didattica iniziata il decennio
precedente. Con le Dieci tesi del GISCEL si abbandona l’insegnamento tradizionale, tassonomico e normativo, e si passa dalla
grammatica all’educazione linguistica, che tiene conto del rapporto tra sviluppo delle capacità linguistiche e sviluppo fisico, affettivo,
sociale, intellettuale dell’individuo. La pedagogia linguistica assume quindi una funzione socializzante e inclusiva, che parte
dall’individuazione del retroterra linguistico-culturale dell’allievo per arricchirne il patrimonio linguistico. Si punta allo sviluppo di 4
abilità di base: parlare, scrivere, ascoltare e leggere. Tuttavia, al rinnovamento della linguistica non è seguito un rinnovamento della
grammatica di riferimento: tutti i dibattiti che sorgono in questo periodo non producono un’altrettanto ricca produzione di manuali
scolastici. Comunque, la prospettiva didattica delle 4 abilità del GISCEL è entrata nei programmi ministeriali, in quelli del 1979 e
nelle proposte della Commissione Brocca (1991) per la scuola superiore, fino ai programmi del 2012. L’approccio per abilità non si
sostituisce, ma si somma alla riflessione sulla lingua, per cui, con le molte aggiunte apportate (sezioni dedicate allo sviluppo delle 4
abilità, nozioni di semiotica, comunicazione, sociolinguistica, molti esercizi), le grammatiche scolastiche degli ultimi decenni sono
diventate simili a enciclopedie, più utili all’aggiornamento degli insegnanti che alla formazione degli allievi. La ricerca di nuovi
metodi didattici sembra risolta nel non scegliere, ma nell’offrire un accumulo di brandelli di sapere eterogenei da cui l’insegnante
può trarre ciò che preferisce. Esempio sono le Indicazioni nazionali (2004, 2007, 2012), che additano obiettivi ampissimi senza
fissare programmi. Sarebbero forse opportuni manuali più essenziali, meno ossessivamente definitori e tassonomici, con una migliore
selezione e gerarchizzazione degli argomenti e una minor frammentazione del discorso.
1. Questioni preliminari
La storia delle grammatiche d’italiano per stranieri inizia con La Grammaire italienne composée en francoys, di Jean-Pierre de
Mesmes (Parigi, 1549). Nel XVI sec. l’italiano è la lingua più prestigiosa in Europa, sicché molti lo studiano (es. Luigi XIV,
Stendhal).
Lorenzo Da Ponte contribuisce a diffondere l’italiano in area anglosassone. Joyce studia italiano e sarà attivo a Trieste. Per gran parte
di questi professori e discenti, la grammatica è fondamentale: sembra quasi identificarsi con la conoscenza della lingua.
Nei secoli si sono quindi avute molte grammatiche italiane per stranieri, da grammatiche pure a manuali compositi. Non si hanno
però tradizioni distinte, ma i libri più fortunati circolano da un paese all’altro, vengono tradotti, riadattati. A volte all’estero si usano
volumi scritti in italiano in Italia, altre volte testi in lingue ponte, come latino, francese, inglese.
2. Geografia e storia
2.1 Le prime grammatiche di italiano per stranieri \\ 2.2 Grammatiche e grammatici
FRANCIA. La storia delle grammatiche d’italiano per stranieri può cominciare con La Grammaire italienne di Jean-Pierre de
Mesmes (1549). Uscita a Parigi, è una grammatica in francese rivolta a francesi da un autore francese. La Grammaire italienne
costituisce una traduzione-rielaborazione di varie fonti tra cui sono citate solo le Prose della volgar lingua. Nel 1659 Claude
Lancelot, solitario di Port-Royal e autore della Grammaire générale et raisonnée, pubblicò anonimamente la Nouvelle méthode pour
apprendre facilement et en peu temps la langue italienne. Il manuale è diviso in tre parti: fonologia e morfologia; sintassi; metrica. La
Prefazione è una sintesi di storia linguistica e letteraria dalle origini al XVII secolo e parla della diffusione dell’italiano in Europa. Il
lavoro di Lancelot (1659) è rivolto ai giovani: nelle petites écoles di Port-Royal gli allievi venivano seguiti nell’intero percorso
educativo, dall’infanzia in poi. Come nei testi per le lingue classiche, così nella Méthode italienne Lancelot cerca di rendere gli
insegnamenti adeguati e graduali. Consapevole del fatto che i ragazzini hanno scarsa capacità di concentrazione ma buona memoria,
fa leva su quest’ultima proponendo alcune regole in francese composte in ottosillabi facili da ricordare. Nei consigli di lettura forniti
nella Prefazione, Lancelot si preoccupa di trovare testi adatti ai discenti sia per livello linguistico, sia nei contenuti, al tempo stesso
stimolanti e conformi alla morale.
Altri autori di grammatiche italiane in francese:
a) Jean Vigneron (italianizzato in Giovanni Veneroni) acquisì una notevole padronanza della nostra lingua e divenne a Parigi un
maestro molto richiesto. Il suo Maitre italien risale all’ultimo quarto del Seicento e ha fortuna in tutta Europa, fino all’Ottocento,
anche per la varietà dei testi di lettura.
b) Niccolò Giosafatte Biagioli, letterato ligure e insegnante di italiano a Parigi, fu autore di una Grammaire italienne pubblicata nel
1805. Intendeva far conoscere a fondo la natura e il genio della lingua italiana. La teoria è corredata da esercizi relativi ai vari
argomenti, capitolo per capitolo, e seguita da un Traité de la poésie italienne.
INGHILTERRA. Il primo manuale completo d’italiano per inglesi, stampato al Londra nel 1550, è Principal Rules of the italian
grammar di William Thomas; anche in questo caso il modello linguistico è il fiorentino aureo, secondo le prescrizioni di Bembo.
Thomas era un avventuriero che conosceva molto bene l’Italia e soprattutto Venezia, dove soggiornò. Tra i nomi più noti per la
diffusione dell’italiano in Inghilterra, Alessandro Citolini, fuggito all’estero nel 1565 per motivi religiosi, pubblica una Grammatica
de la lingua italiana rimasta manoscritta. Nello stesso periodo anche Michelangelo Florio emigra in Inghilterra e lascia una
grammatica manoscritta (le Regole de la lingua thoscana). Il figlio John Florio, insegnante di italiano alla corte di Giacomo I,
traduttore e protagonista della Cena delle ceneri di Giordano Bruno, cura il manuale composito Firste Fruites, con una parte
grammaticale ripresa da Citolini, che però non menziona.
GERMANIA. A discenti tedeschi è rivolta una grammatica in latino, Institutionum florentinae linguae libri duo, pubblicata a Firenze
nel 1569 da Eufrosino Lapini, sacerdote, precettore e letterato fiorentino. Qualche anno prima probabilmente era stata composta da
un precettore comasco una piccola grammatica italiana manoscritta per Giovanna d’Austria in vista delle sue nozze con Francesco I
de’ Medici. La prima grammatica scritta in tedesco è la Grammatica italica, pubblicata ad Amburgo nel 1616 da Heinrich Cornelius
Anchinoander, insegnante di tedesco a Ferrara e di italiano ad Amburgo. Nella Prefazione, Anchinoander spiega di essersi servito del
tedesco perché non tutti conoscono il latino: la sua opera è destinata, oltre che a studiosi, anche a commercianti e viandandanti. Tra le
numerose grammatiche per tedeschi, si deve a Karl Ludwig Fernow, archeologo e storico dell’arte appassionato dell’Italia e studioso
dei dialetti italiani, l’Italienische Sprachlehre, una grammatica ragionata, rigorosa e attenta alle varietà locali.
SPAGNA. La prima, vera grammatica a uso degli spagnoli è l’Arte muy curiosa, pubblicata nel 1596 da Trenaldo de Ayllòn, cui si
deve anche una traduzione del Canzoniere, rimasta inedita: non a caso, gli esempi sono in buona parte petrarcheschi; quanto ai
modelli grammaticali, Trenaldo si richiama all’autorità di Antonio Nebrija, autore della Grammatica della lingua castellana del 1492,
la prima di una lingua volgare stampata in Europa. Nel XX secolo Francisco de Borja Moll cura una Gramatica italiana con
abundantes ejercicios y vocabularios (1937).
RUSSIA. Un’allieva di Propp, Julia Dobrovolskaja, nel 1946 riceve la proposta di insegnare italiano a Mosca e legge la grammatica
di Migliorini. Si è adoperata molto come italianista e traduttrice in Russia; poi, dagli anni Ottanta, si è trasferita in Italia, insegnando
russo. È autrice di un dizionario bilingue russo e italiano. Gli autori delle grammatiche sono sia stranieri, sia italiani o di origine
italiana, per lo più traduttori e insegnanti. Molti autori scrivono anche grammatiche di altre lingue e in quelle italiane si basano sulle
opere di grammatici italiani.
3. Dall’Italia al mondo
3.1 Toscana favella
Sono molti gli stranieri che frequentano le città italiane, soprattutto tedeschi. Per loro, il granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici
istituisce a Siena la prima cattedra di toscana favella nel 1589, affidata a Diomede Borghesi. Nel 1632 viene nominato un lettore di
lingua toscana presso l’Accademia fiorentina, Benedetto Buommattei.
Furono composte anche grammatiche per imparare due lingue contemporaneamente, come quella per toscano e castigliano pubblicata
da Giovanni Mario Alessandri a Napoli (1560). In realtà è una grammatica contrastiva di spagnolo per italiani. Vera grammatica
bilingue è quella pubblicata nel 1638 da Jean Alexande Longchamps a Roma e divisa in due parti, una Grammaire italienne in
francese e un Trattatello della lingua francese in italiano. Solo nel trattato di francese sono inseriti prospetti di declinazioni e
paradigmi verbali (con le due lingue a fronte).
Non ci sono molti studi sistematici sulla punteggiatura. A quelli che ci sono, manca il riferimento a una teoria della punteggiatura che
permetta di capirne a fondo gli assetti. Dal ’500 a oggi, si è avuta una vera e propria rivoluzione funzionale della punteggiatura.
Nell’800, la punteggiatura viene improntata non più tanto alla morfosintassi, quanto alla costruzione del senso della frase.
L’obiettivo del paragrafo è quello di spiegare i cambiamenti riscontrati. I cambiamenti che si sono verificati dal 1500 ad oggi non
sono solo riassestamenti in direzione di una maggiore coerenza del singolo segno, ma si parla di una rivoluzione funzionale.
L’attenzione sarà concentrata soprattutto sulla virgola: è su di essa che si misura in modo più trasparente la distanza tra il fondamento
comunicativo e quello morfosintattico.
La virgola che apre e/o chiude (virgola non coordinativa): un capoverso si articola in enunciati con una funzione illocutiva autonoma
e una funzione testuale. Gli enunciati si articolano a loro volta in unità informative provviste di un ordinamento gerarchico. In primo
piano vi è il nucleo, che definisce la funzione illocutivo-testuale dell'intero enunciato. Esso è accompagnato facoltativamente da
un’unità di quadro, che precede il nucleo e che può indicare di volta in volta le coordinate utili per l’interpretazione denotativa del
nucleo; sempre facoltativamente, ci può essere poi anche un’unità di appendice, la quale arricchisce, precisa o modula il contenuto
del nucleo o del quadro, con informazioni che si collocano sullo sfondo informativo dell’enunciato. Sia l’individuazione degli
enunciati e delle unità informative, sia quella del loro ordinamento e collegamento sono il risultato di due operazioni cognitive
diverse, che si intrecciano: un’operazione top-down, che tiene conto del contenuto globale del testo e dei suoi macroandamenti
tematici, logici ed enunciativi; e un’operazione bottom-up, che prende in considerazione le indicazioni date dalla combinazione di
lessico, morfosintassi e punteggiatura. È in questa seconda operazione che entra in gioco la funzione comunicativa della virgola.
Ogni volta che c’è una virgola che apre e/o chiude vi è anche un confine di unità informativa; quale sia la specifica funzione di
questa – nucleo, quadro, appendice – viene deciso, sempre con di operazioni cognitive top-down, dalla distribuzione sintattica del
segmento e dal suo contenuto denotativo. Questa analisi informativa della virgola spiega tutte le sue apparizioni, obbligatorie,
facoltative o antisintattiche:
- Se una relativa appositiva è tendenzialmente accompagnata da una coppia di virgole, è perché essa costituisce un’unità informativa
autonoma (di appendice) rispetto alla reggente.
- Una relativa restrittiva è invece senza virgole perché il suo contenuto è semanticamente linearizzato con quello dell’antecedente.
- Una circostanziale prereggente sarà tipicamente chiusa da una virgola perché essa svolge la funzione di unità informativa di quadro
rispetto alla reggente, che è un nucleo. Nel caso in cui la circostanziale segua la reggente, la presenza o l’assenza della virgola
dipende dalla relazione informativamente restrittiva o non restrittiva che essa intrattiene con la reggente; nel primo caso non ci sarà,
nel secondo invece la virgola è la benvenuta.
- Quando la virgola è testualmente facoltativa, compare nel caso in cui lo scrivente abbia voluto creare un’unità informativa
autonoma e non compare se la scelta comunicativa è la linearizzazione semantica.
Nei suoi usi contemporanei, la virgola che apre e/o chiude segnala dunque la presenza di un confine di unità informativa. Il contrario
non è tuttavia vero: si può dare il caso di confini informativi non segnalati dalla virgola. Tale dissimmetria lascia aperti due
importanti spazi di variazione. Prima di tutto, essa prevede differenze da lingua a lingua: ad esempio, il francese – anch’esso
caratterizzato da una punteggiatura comunicativa – tende a marcare interpuntivamente i confini di unità informativa più spesso di
quanto non lo faccia l’italiano. In secondo luogo, l’assenza di biunivocità tra confine di unità informativa e virgola lascia spazio alle
variazioni individuali. Chi sceglie un uso fitto della virgola, vorrà mettere in scena tutte le articolazioni informative che
caratterizzano il testo, mentre chi ne fa un uso leggere devolve il lavoro interpretativo al lettore.
1. Questioni preliminari
ORTOGRAFIA. L’errore ortografico è sempre stato stigmatizzato perché, a contrario degli altri livelli di lingua, l’ortografia si
apprende per un insegnamento esplicito. L’insegnamento dell’ortografia si basa su una norma relativamente stabile nel tempo, a
impianto fondamentalmente fonetico, lasciataci in eredità dalla tradizione con una progressiva definizione o standardizzazione di
alcuni aspetti che hanno prodotto un sistema abbastanza rigido. La trattazione della grafia e della fonetica nelle grammatiche italiane
è tuttavia breve e limitata a pochi aspetti, esemplificata spesso nei medesimi modi, priva di norme generali e concentrata piuttosto sui
singoli casi. Le cause di questa scarsa attenzione sono le seguenti:
a) La sostanziale equivalenza tra sistema grafematico e sistema morfematico. Tale corrispondenza è biunivoca in un
numero abbastanza alto di casi: delle 21 lettere dell’alfabeto, 11 hanno un valore univoco (a, b, d, f, l, m, n, p, r, t, v); 8
hanno valore polivalente (c, e, g, i, o, s, z,u); 1 ha solo valore diacritico (h), 1 è funzonalmente sovrabbondante (q).
Abbiamo poi 5 digrammi (gn; gl + i; sc + i; ci + a, o, u; gi + a, o, u) e due trigrammi (sci + a, e, o, u; gli + a, e, o, u).
b) Solo con l’Unità e, conseguentemente, con la scolarizzazione obbligatoria si pose il problema di “insegnare” l’ortografia.
Il paradigma scolastico era quello dell’istruzione classica; il modello delle grammatiche non poteva che ispirarsi a una
visione dell’italiano in prospettiva marcatamente diacronica e letteraria.
Gli argomenti trattati sul fronte ortografico riguardano principalmente il piano della lingua poetica, e la gran parte delle trattazioni
ottocentesche è concentrata principalmente su fenomeni metrici prima che su fenomeni effettivamente grafici. Si ha quindi una
visione prodromica di grafia e fonetica rispetto alla grammatica vera e propria, confermata dal fatto che questi capitoli sono di solito
premessi alle trattazioni grammaticali. Le regole di grafia e pronuncia erano in genere raccolte in volumetti di uso pratico.
FONETICA. Sulla sostanziale assenza di una trattazione relativa ai fatti fonetici influisce la grande difficoltà di indicare delle norme
più o meno fisse, delle linee di massima. Inoltre, vi è una sostanziale assenza di una norma di pronuncia normativa. Lepschy (1978)
nega direttamente l’esistenza di una norma standard; secondo Serianni (1988), invece, «un italiano di questo tipo c’è ed è in
espansione» e ha «alla base il modello fiorentino colto depurato di alcuni tratti idiomatici (gorgia e spirantizzazione delle affricate
alveolopalatali)». Altri vedono in espansione la pronuncia di Milano, e negli anni ‘60 e ‘70 ha fortuna l’italiano de Roma.
L’assenza di una norma codificata si giustifica con la sostanziale appartenenza dell’italiano al solo ambito scritto almeno fino
all’Unità. L’esigenza di una trattazione della questione della pronuncia nacque con l’istruzione elementare unica, ma si sviluppò in
modo determinante con l’affermazione dei mezzi di telecomunicazione. Tuttavia, mentre per l’ortografia esisteva almeno una norma
già in uso, nulla di simile esisteva dal punto di vista della fonetica. Sul fronte scolastico non è mai stata affrontata compiutamente la
sistemazione di una norma che andasse al di là dell’indicazione delle opposizioni nell’apertura vocalica. Gli aspetti fonetici sono stati
in gran parte delegati agli strumenti lessicografici. L’assenza di una norma codificata ha portato alla compresenza di due modelli
fonetici non perfettamente sovrapponibili: il fiorentino colto e il romano colto. Al primo modello si rifanno i dizionari toscani della
fine dell’Ottocento; al secondo si rimanda per la prima volta nel Prontuario di pronunzia e di ortografia (1939) creato per gli
annunciatori dell’EIAR. La fine del regime fascista e la conseguente censura culturale sulle opere lessicografiche prodotte durante il
ventennio condussero all’oblio di quello strumento e ciò portò nel 1959 la RAI ad avviare la realizzazione di un nuovo Dizionario di
ortografia e di pronunzia, affidato a Migliorini (1969); questo assunse un carattere intermedio tra le due pronunce, ammettendo
spesso entrambe. Il progressivo tramonto della pronuncia fiorentina è riscontrabile nel GRADIT (Grande dizionario italiano
dell’uso). De Amicis stigmatizza le pronunce errate delle varie parlate regionali.
Con la diffusione della stampa a caratteri mobili, a partire dalla fine del 1400 ebbe inizio un lento processo di regolarizzazione della
grafia: con il crescere nella società del bisogno di scrittura e di lettura, l’editoria diventa un’industria che ha la necessità di strumenti
linguisticamente omogenei. Nel Cinquecento si è determinato un progressivo processo di semplificazione grafica che portò alla
creazione di sistemi ortografici abbastanza omogenei. Questa questione era però meramente letteraria.
Ragioni storiche, politiche e culturali hanno fatto sì che alla lingua scritta fosse dato spesso il ruolo di bandiera dell’italianità; ciò ha
portato di conseguenza alla stabilizzazione di un sistema linguistico fortemente conservativo, quadro di riferimento univoco al di
sopra di un quadro fonetico soggiacente multiforme. La norma, prima di imporsi tramite trattazioni grammaticali, si diffonde
attraverso il modello fondamentalmente petrarchesco proposto da Bembo nell’edizione aldina del Canzoniere di Petrarca del 1501, e
poi soprattutto grazie all’asse “modernizzante” Salviati-Vocabolario della Crusca. I principi della grafia bembiana erano:
- l’assimilazione dei nessi consonantici latini BS, CT, MN, PT, X;
- l’uso esclusivamente etimologico dell’h;
- l’eliminazione sistematica dei nessi ch + a, o, u;
- l’uso dei digrammi grecizzanti ch, th, ph;
- l’uso costante del nesso ti + vocale.
Il modello bembiano aveva ispirato un lungo dibattito tra vesti arcaizzanti dei testi e normalizzazione grafica. Nell’oltre mezzo
secolo trascorso dall’edizione aldina di Petrarca curata da Bembo, si era imposta una prassi grafica assai più semplice, che rispettava
il principio di scrivere come si parla (cadute rapidamente in disuso k, x e y e i digrammi grecizzanti). Della proposta bembiana si era
imposta, ad esempio, l’assimilazione dei nessi consonantici latini.
Negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decameron, Salviati (1584) deve conciliare due sistemi inconciliabili e opposti: la grafia e la
pronuncia antiche in opposizione a quelle moderne. Salviati intervenì massicciamente sulla grafia: assimilò i nessi consonantici;
cancellò l’h all’interno di parola, e la inserì nelle voci del verbo havere; semplificò alla sola c i digrammi sc presenti nelle forme del
tipo bascio. Pervasivo fu anche il trattamento delle consonanti intervocaliche, spesso raddoppiate (femmina) e più raramente
scempiate (eterno). Le regole enunciate negli Avvertimenti saranno adottate pressoché integralmente dagli accademici e poi diffuse su
amplissima scala dal Vocabolario del 1612. Oltre alle soluzioni propugnate da Salviati (e soprattutto la resa di ti + vocale con z), il
Vocabolario stabilizzerà la doppia z per l’affricata palatale intensa sia sorda, sia sonora (pazzo e mezzo). Del pari si affermano le
soluzioni x > ss, ex > es ed exc- > ecc-. Anche nel settore delle consonanti doppie le scelte della Crusca si sono affermate
nell’italiano moderno. La norma grafica fissata dalla Crusca si è rapidamente imposta ed è divenuta modello: la cristallizzazione del
sistema grafico è dunque avvenuta lontano dalla trattazione grammaticale, che – tranne che in pochi periodi – si è limitata a rade
indicazioni o a vagheggiati ma mai attuati progetti di riforma.
3. Sorde o sonore: la s
La mancanza di un modello linguistico condiviso appare particolarmente evidente nel caso della s scempia, in cui la pronuncia sorda
o sonora ha valore ha valore distintivo solo in pochi casi, al punto che alcuni dubitano la fonematicità di \z\. Il DOP divide i casi di s
sorda e sonora. Si ha dunque s sorda quando è l’iniziale di un secondo componente (affittasi, qualsiasi); in -ese e i suoi derivati; in
-osi, -ose, -osero, -oso e desinenze del passato remoto e del participio passato; in -oso e -osa suffissi e derivati e in alcune parole
isolate non predicibili (ad es. casa, cosa, così, mese…). Viene comunque segnalata la generalizzata pronuncia macroregionale di [z]
nell’Italia settentrionale e di [s] nell’Italia centrale e meridionale. I foni si alterano senza che sia possibile stabilire una regola. Nelle
grammatiche scolastiche si tende a preferire una pronuncia sempre sonora.
4. La scrizione dell’accento
Se l’indicazione degli accenti sulle parole nello scritto risulta tra le parti più stabili e più uniformemente trattate nella
grammaticografia italiana, la sezione sulla posizione dell’accento nelle parole è tra quelle in cui il trattamento maggiormente si
dicotomizza tra grammatiche di consultazione e grammatiche scolastiche. Per quanto riguarda la forma di accento da usare si è
imposto lo schema à, è, é, ì, ò, ó (usabile solo all’interno di parola), ù. Sul primo fronte, infatti, sono costantemente indicati come da
scrivere obbligatoriamente accentate le parole ossitone, i monosillabi con possibili omografi (ché ‘perché’, dà ‘verbo’, là ‘avverbio’,
lì ‘avverbio’, né congiunzione’, sé ‘pronome’, sì ‘avverbio’, tè, dì) e i polisillabi composti con monosillabi che, usati da soli, non
portano accento grafico (tre, re, blu, su : ventitré, rossoblù, tiramisù). Disaccordi nell’uso di sé stesso accentato o no: a partire da
Serianni (1988) sempre più grammatiche hanno prescritto l’accento, mentre la gran parte si limita a indicarlo come facoltativo.
1. Questioni preliminari
Il rapporto instaurato dalle prime grammatiche italiane con la tradizione latina è ben rappresentato dai settori del nome e
dell’aggettivo, che per alcuni aspetti risentono profondamente dei modelli, mentre per altri conoscono innovazioni spesso legate alle
esigenze di descrizione specifiche del volgare. Significativo è, ad esempio, l’atteggiamento assunto nei confronti della descrizione
del nome per mezzo degli accidenti, che nei grammatici latini erano generalmente cinque o sei (qualitas, genus, figura, numerus,
casus): alcuni tra i primi grammatici italiani ripropongono lo schema classico più o meno fedelmente, mentre molti decidono di
abbandonare questo modello descrittivo recuperandone tuttavia quando necessario singole categorie.
1.2 Le allotropie
Mentre sul versante descrittivo la trattazione del nome e dell’aggettivo è a lungo condizionata dalla tradizione latina, su quello
prescrittivo spicca fin dagli esordi una caratteristica tipica della grammaticografia italiana, cioè la consuetudine ad ammettere
l’allotropia. Allotropi sono presenti negli scritti degli auctores, e gran parte della morfologia nominale è dedicata, più che
all’enunciazione di regole, all’illustrazione delle eccezioni, come i singolari la fronda e la loda e i plurali le frondi e le lode. Nella
maggior parte dei casi le alternative non sono poste sullo stesso piano, sono ragionate e dicotomizzate, i membri del binomio sono in
genere l’uso poetico e quello prosastico. L’atteggiamento verso le allotropie nominali permette di osservare il progressivo affiorare di
un elemento di novità: si vede l’ingresso sulla scena dell’uso vivo. Con Buommattei l’uso comincia a essere preso in considerazione
nella valutazione di nomi “di doppia uscita”. Nel Settecento, Soave procede all’eliminazione di molte allotropie ormai giudicate
appartenenti solo alla lingua del passato; a partire dalla metà dell’Ottocento il rapporto con l’uso muta definitivamente, fino a
rovesciarsi, tanto che in Fornaciari i tratti della lingua antica non confortati dall’uso coevo vengono giudicati non accettabili.
2. Il genere e il numero
2.1 Il neutro
Il trattamento del neutro mostra come la storia della grammaticografia italiana non si muova necessariamente verso un progressivo
allontanamento dai modelli latini, ma possa fare percorsi non lineari e successivi recuperi di concetti precedentemente rifiutati.
L’individuazione dei generi del nome nelle prime grammatiche si caratterizza per una notevole oscillazione. La schiera di coloro che
si limitano a riconoscere solo il maschile e il femminile (Alberti, Bembo, Trissino…) è nutrita, mentre diversi grammatici (es. Corso)
contemplano, sul modello di Donato e Prisciano, altri due generi: comune, per sostantivi provenienti dalla terza declinazione latina e
quindi non connotati morfologicamente quanto al genere (come giovane), e incerto, per sostantivi che oscillano tra maschile e
femminile (come fonte e fine), ai quali si aggiunge in qualche caso una quinta categoria, il genere confuso o indifferente (aquila).
Il rifiuto della categoria del neutro appare piuttosto compatto, sebbene ci siano diversi affioramenti: Corso (1549) riconosce
l’esistenza di voci neutre dal punto di vista del significato, ma non caratterizzate da una specifica marca morfologica. I sostenitori
dell’esistenza del neutro in italiano crescono nel secondo Cinquecento: Ruscelli illustra le numerose manifestazioni di questo genere
in italiano (aggettivi/pronomi indefiniti come niente, altro, chiunque e sui continuatori dei neutri latini come ossa, braccia) e Salviati,
che puntualizza che il neutro esiste non solo dal punto di vista semantico, ma anche morfologico. Buommattei (1643) critica
l’opinione che i nomi come braccio/braccia possano essere considerati neutri, sostenendo che rientrino più semplicemente nel
maschile quando sono singolari e nel femminile quando sono plurali; ammette tuttavia l’esistenza di voci neutralmente poste come
gli aggettivi sostantivati e i pronomi. L’idea che i residui del neutro latino possano essere considerati neutri anche in italiano non
varca i confini del Seicento: quasi tutti i grammatici del 1700 accolgono la categoria del neutro solo dal punto di vista semantico.
Le grammatiche contemporanee, pur non considerando il neutro tra i generi dell’italiano, fanno spesso riferimento alla nozione dal
punto di vista semantico per aggettivi sostantivati come il bello o il vero.
2.2 Le classi flessive
Mentre la flessione dell’aggettivo non comporta particolari di classificazione, per il nome non si è elaborata una distribuzione in
classi flessive universalmente condivisa, e tale incertezza affonda le proprie radici nella grammaticografia rinascimentale, che
presenta classificazioni talvolta modellate sul sistema latino e molto diverse nei criteri adottati. La maggior parte delle grammatiche
contemporanee distingue tre classi sulla base del singolare; però nel nome italiano l’unica categoria flessiva è il numero, perciò
queste classi non vanno individuate soltanto sul singolare, ma su singolare e plurale insieme. L’attuale partizione in tre classi (-a, -o, -
e e invariabili), comune a partire dal primo Novecento, è passata attraverso una storia piuttosto stratificata.
- Alberti: la classificazione si presenta semplificata, mancando non solo il riferimento al tipo quattrocentesco le parte, ma anche a
quello poeta/poeti, braccio/braccia e virtù;
- Fortunio: quadro più complesso e articolato, classifica i nomi in base alle desinenze tenendo conto solo alcune volte del genere e
omettendo del tutto il riferimento agli invariabili;
- Bembo: classificazione basata sul genere; nel maschile, indipendentemente dalla desinenza del singolare, il plurale è sempre in -i e
che nel femminile i nomi in -a hanno il plurale e in -e e quelli in -e hanno il plurale in -i.
- Trissino: scelta innovativa, distingue le classi sulla base del numero; è il primo a individuare la classe degli invariabili.
L’assenza di una classificazione stabile nel primo Cinquecento fa sì che molti grammatici si rivolgano al modello latino, adottando
una ripartizione in classi (spesso chiamate declinazioni) basata sulla desinenza del singolare. A partire dal Seicento, con l’eccezione
di Buommattei, la divisione in quattro declinazioni è quella più seguita. Nel primo Ottocento si incontra ancora scarsa omogeneità:
molte grammatiche propongono partizioni basate sul genere, mentre altre riducono il numero delle classi accorpandole in base
all’uscita del plurale.
- Fornaciari (1879) e Petrocchi (1887) prescindono dal genere e individuano cinque declinazioni che tengono conto del singolare e
del plurale insieme (-a/-e, -a/-i, -o/-i, -e oppure -i/-i, invariabili), dunque con una notevole anticipazione dei modelli descrittivi più
recenti, che però non trova fortuna nelle grammatiche del Novecento, nelle quali la semplificazione dello schema alle tre sole classi
più produttive risponde spesso anche alle esigenze della destinazione scolastica.
-co e -go: Il caso dei plurali dei nomi in -co, -go mostra che l’assenza di indicazioni nelle grammatiche cinquecentesche consente alla
tradizione successiva una maggiore libertà di riferirsi all’uso, rendendo meno stringente l’osservanza all’autorità degli scrittori. Il
problema è ignorato fino a Salviati (1584-86), che fornisce una lista di parole con plurale in velare o in palatale e accenna
all’esistenza di forme oscillanti. Buommattei (1643) rinuncia a indicare una regola nella distribuzione dei due tipi e osserva che
«bisogna rimettersi all’uso». Rogacci (1711) offre una serie di forme per le quali sono ammessi i due esiti, ed è il primo a tentare la
formulazione di una norma empirica: la forma in velare si ha quando la consonante è intensa o preceduta dal l, n, r, s, mentre quella
in palatale quando la consonante è preceduta da vocale (eccezione: porci). Le grammatiche successive indicano sempre per -co e -go
alcuni casi di allotropia, con un’oscillazione rispetto a determinati tipi (dialogi e astrologi) che è spesso priva di indicazioni
prescrittive. Nell’Ottocento si moltiplicano i tentativi di trovare norme empiriche efficaci. Superato il problema degli allotropi
letterari, le grammatiche contemporanee constatano l’assenza di una distribuzione regolare degli esiti, spesso indicandone le ragioni
storiche, e fornendo alcune norme di massima, in genere quella basata sull’accento, a cui si aggiunge, per le sonore, l’osservazione
che i nomi di cosa tendono a presentare l’uscita in -ghi (dialoghi, cataloghi) e quelli di persona in -gi (teologi, psicologi).
3. Categorie e classificazioni
3.1 I tipi di nome
L’attuale classificazione di tipi nominali secondo criteri semantici vede una partizione consolidata tra comuni e propri e tra concreti e
astratti, a cui si aggiungono talvolta ulteriori distinzioni tra nomi individuali e collettivi, tra numerabili e non numerabili. La
stabilizzazione di questo sistema è graduale e passa attraverso una casistica molto ricca, ma asistematica delle grammatiche del 1500,
in cui alcuni autori individuano addirittura una cinquantina di diversi tipi nominali.
Fin dalle prime grammatiche si definisce comunque in modo stabile l’opposizione, su modello latino, tra nomi propri e comuni:
Alberti parla di nomi propri e appellativi, prima attestazione in italiano di una coppia di termini che avrà fortuna nei secoli
successivi. Anche la categoria dei nomi collettivi è individuata fin dal Cinquecento. Si istituzionalizza più tardi l’opposizione tra
concreti e astratti. La categoria degli astratti, a cui accennano alcune grammatiche secentesche, diventa stabile tra Sette e Ottocento,
ma continua a essere considerata a lungo secondaria. La categoria dei non numerabili è quella di più recente affermazione nella
tradizione grammaticale, anche perché priva di specifiche ricadute sull’uso linguistico. Tra le indicazioni che non hanno immediato
seguito, è interessante segnalare, già dal Cinquecento, la frequente presenza di osservazioni legate ai campi semantici delle parole,
che saranno sviluppate e rese sistematiche solo in epoche successive. Ad esempio, Trissino (1529) propone una distinzione tra nomi
univoci, che hanno un solo significato, e nomi equivoci, cioè polisemici.
3.2 I tipi di aggettivo
La considerazione dell’aggettivo come sottoclasse del nome non impedisce l’individuazione di diverse tipologie già in epoca
rinascimentale. Molto spesso si illustra il nome aggettivo con esempi di qualificativi, come Fortunio e Bembo, nei quali la
classificazione è di fatto assente; nei grammatici più vicini alla linea “classificatoria” si trovano numerose categorie e sottocategorie
desunte dai grammatici latini e già in Trissino (1529) si illustrano gli aggettivi di relazione e gli etnici. La premessa alla
classificazione degli aggettivi si trova in Giambullari (1529), che distingue gli aggettivi che indicano qualità e aggettivi che indicano
quantità. Questo concetto viene poi sviluppato da Salviati, con il quale si arriva alle classi di perfetti e imperfetti (=qualificativi e
determinativi). Resta a lungo parcellizzata l’organizzazione delle sotto-categorie. Nel Settecento la classificazione dell’aggettivo
stenta a trovare una sua stabilizzazione. Soave (1818) adotta per primo il termine qualificativo. Nella seconda metà dell’Ottocento
l’assetto descrittivo dell’aggettivo conquista definitivamente uno spazio rilevante, anche in concomitanza con l’affermazione della
trattazione separata del nome. Il quadro si fa vicino a quello odierno con Morandi, Cappuccini (1894), che presentano due principali
classi: qualificativi e determinativi; e questi ultimi si dividono in determinativi di quantità, numerali, possessivi, indicativi. Con
l’eccezione degli aggettivi interrogativi ed esclamativi, si tratta delle stesse classi prese in considerazione da Serianni (1988).
1. Questioni preliminari
1.1 Alcuni dati di partenza
Nelle grammatiche contemporanee ai pronomi è dedicato maggiore spazio che agli articoli. Ciò è in relazione alla quantità di tipi
pronominali e di sottoclassificazioni, che è maggiore e più problematica rispetto a quella degli articoli che vengono sostanzialmente
distinti in 2 categorie: determinativi e indeterminativi. I pronomi sono invece suddivisi in una serie più ampia di sottoclassificazioni.
A questa disparità di tipi e classificazioni corrisponde una notevole differenza nella quantità delle forme ammesse e descritte: esigua
per gli articoli, rilevante per i pronomi. Questi dati iniziali potrebbero far pensare a una notevole semplicità grammaticale
dell’articolo rispetto al pronome; l’impressione non è del tutto scorretta, ma neppure del tutto fedele al vero: la loro storia, a partire
da una parentela in origine, ha infatti seguito vicende molto diverse e forse sono quelle dell’articolo le più travagliate.
2. L’articolo
2.1 Una parte del discorso?
La posizione particolare dell’articolo nella storia della grammatica dell’italiano ha avuto almeno un’importante conseguenza nel
percorso della sua sistemazione teorica: il manifestarsi di dubbi circa l’opportunità di considerarlo una parte del discorso autonoma,
oppure una sottocategoria di altre parti del discorso legate a esso per ragioni di carattere storico o sintattico-funzionale. Considerando
i principali grammatici del Cinquecento, dopo Fortunio e la sua decisione di collocare gli articoli tra i pronomi, Bembo preferisce non
prendere una posizione netta a riguardo. Trissino è il primo ad assegnare all’articolo piena autonomia. Lo seguirono quasi tutti i
grammatici successivi. Inoltre, nelle prime grammatiche dell’italiano venivano distinte parti variabili e invariabili del discorso, il che
diede origine ad un altro problema di sistemazione dell’articolo.
Nel Seicento si è a favore dell’invariabilità. Rimane irrisolta la questione sull’autonomia. I due più rilevanti trattati grammaticali del
Settecento, ovvero le Regole di Corticelli e la Gramatica ragionata di Soave, collocano l’articolo nei capitoli sul nome.
Questo atteggiamento viene superato solo nell’Ottocento: l’articolo è una parte del discorso autonoma.
Il Novecento non segna variazioni significative; nella Grande grammatica italiana di consultazione di Renzi, l’articolo è considerato
nella classe dei determinanti (comprende anche gli aggettivi).
Salvi sintetizza i motivi alla base di questa revisione della consueta distinzione delle parti del discorso; identifica i 3 criteri usati nella
storia del pensiero linguistico per l’individuazione delle parti del discorso:
1. Il criterio nozionale (o semantico), in base al significato delle parole;
2. Il criterio morfologico, in base alla flessione delle parole;
3. Il criterio sintattico-funzionale, in base alla funzione che svolgono nella struttura della frase e alla loro distribuzione sintattica.
Secondo la sua analisi, solo il terzo criterio appare soddisfacente, poiché supera i limiti dei primi due. In definitiva, non ci sono
ragioni per mantenere una classe indipendente per gli articoli, che si comportano in tutto e per tutto come gli altri determinanti.
In questa prospettiva le parti variabili del discorso dovrebbero ridursi da cinque a tre: nomi/pronomi; aggettivi/determinanti;
verbi/ausiliari.
2.2 Tipi e definizioni
Le grammatiche odierne individuano i seguenti tipi di articoli: determinativo, indeterminativo, partitivo e articolo zero.
a. Determinativo: le grammatiche odierne partono dal presupposto che la differenza tra determinativo/indeterminativo non consiste
propriamente nel fatto che il primo designa un nome in modo specifico e individuale e il secondo in modo generico, bensì nel fatto
che il loro uso rifletta due meccanismi fondamentali: 1. l’opposizione “classe” / “membro”, 2. l’opposizione “noto” / “nuovo”; in
particolare, insistono sulla seconda coppia, assegnando al termine determinativo o definito il significato di “già noto”.
Le grammatiche del passato offrono invece definizioni più generiche. Più si va indietro nel tempo, più la definizione diventa
generica. Nel Settecento, l’opposizione tra determinativo e indeterminativo non è ancora patrimonio comune alla trattatistica
grammaticale, che utilizza il termine articolo per indicare sempre il primo tipo. In quest’epoca le definizioni si riferiscono spesso alla
funzione di indicatore di genere, numero e caso. Un’eccezione è rappresentata da Buommattei (1643), che dedica all’articolo un
intero libro della sua opera. I grammatici del Cinquecento, in generale, non vanno oltre la constatazione della variabilità dell’articolo.
Eccezione Salviati, che non solo comprende la caratteristica che in italiano accomuna l’articolo indeterminativo a quello
determinativo (quella di determinare con precisione la nozione del nome cui si riferisce); ma anche descrive la diversità dei due
articoli, consistente nell’opposizione “noto” / “nuovo”.
b. Indeterminativo: L’articolo indeterminativo si presenta abbastanza tardi sulla scena della grammatica italiana. Nel Cinquecento, il
primo autore a considerare una e uno non solo come numerali, ma come articoli, fu Salviati, che creò la categoria
dell’accompagnanome. Il suo spunto rimase isolato. Buommattei (1643) menziona tra i nomi numerali di tipo principale la forma
uno. Nel Settecento permane questa classificazione. Altri autori, come Corticelli (1745), menzionano le forme uno e una solo tra i
pronomi. Nella Gramatica ragionata di Soave (1771), la forma uno viene citata nella parte prima del nome e del pronome.
Solo nell’Ottocento un, uno e una entrano nella grammatica dell’italiano come categoria specifica degli articoli. Per la distinzione tra
articoli determinativi e indeterminativi un punto d’arrivo è rappresentato dalla Grammatica di Fornaciari (1879), che offre una
sistemazione molto chiara.
c. Partitivo: il partitivo nasce dall’incontro delle forme dell’articolo determinativo con la preposizione di. In genere viene definito in
modo molto breve come forma che serve per indicare una parte, una quantità. Nei secoli precedenti il partitivo non viene mai trattato
come tipo di articolo, ma compare in relazione ai casi, ai segnacasi e agli accompagnanomi. Andando più indietro nel tempo i cenni
all’uso partitivo dell’articolo diventano sempre più rari.
d. Articolo zero: omissione dell’articolo. L’espressione ‘articolo zero’ compare solo negli ultimi decenni del Novecento; tuttavia, più
o meno tutti i grammatici che, nel corso dei secoli, hanno trattato l’articolo si sono anche soffermati sui casi della sua omissione.
3.3 Classificazione
Nel Cinquecento i grammatici adottano nei confronti del pronome due strategie per certi versi opposte: alcuni (Fortunio, Bembo)
preferiscono elencare le forme, senza indugiare su definizioni e classificazioni; altri (Trissino) non si limitano a elencare le forme, ma
concentrano la loro attenzione proprio sull’individuazione di classi pronominali.
Trissino distingue i pronomi in:
1. Specie primitiva (dimostrativi, relativi, reciprochi);
2. Specie derivata (possessivi);
3. Particule pronominali (clitici).
Buonmattei distingue:
1. Pronomi separati (dimostrativi, relativi e possessivi);
2. Pronomi congiunti (clitici).
Distingue poi tra pronome sustantivo, che non si appoggia a nessun’altra parte del discorso, e aggiuntivo, che corrisponde all’aggettivo pronominale.
Corticelli propone più distinzioni. Distingue tra primitivi e derivativi, funzione di sostantivo o aggettivo e poi li divide in gruppi:
1. Dimostrativi; 2. Relativi; 3. Possessivi; 4. Universali indeterminati (generalità, qualità, diversità e distribuzione).
Nel Novecento si stabilizza la distinzione tra pronomi e aggettivi pronominali (Devoto e Serianni).
3.4 Un caso significativo: il relativo
Il problema della classificazione non si riduce a una questione di etichette. Le oscillazioni nella collocazione delle singole forme
nelle categorie individuate sono all’ordine del giorno. A esemplificare questo aspetto, prendiamo in esame il caso dei pronomi
relativi. Nella classificazione attuale (Serianni, 1988) viene individuata una forma invariabile soggetto e oggetto (che), una forma
invariabile complemento (cui), una forma variabile di base soggetto, oggetto e complemento (quale); a queste forme si aggiungono i
pronomi doppi dimostrativo-relativi o indefinito-relativi (chi, quanto e quale), che conglobano in sé due pronomi distinti: un
dimostrativo e un relativo, oppure un indefinito e un relativo; infine, vanno considerate anche le congiunzioni relative, rappresentate
dai quattro avverbi dove, ove, donde, onde. Procedendo a ritroso, si nota che questa classificazione è il frutto di una stabilizzazione
raggiunta piuttosto precocemente: è infatti possibile risalire fino alla metà del Settecento, con Corticelli e Soave, senza trovare grandi
variazioni e differenze rispetto al quadro attuale. All’inizio del Settecento si trovano i primi segnali di un’incertezza classificatoria
che ha origini molto più antiche. Nel Cinquecento il panorama è ancora più confuso: sembrano rientrare nella famiglia dei relativi
forme collocate in altre categorie pronominali (ad es. sé, medesimo, ello, esso). Nel Cinquecento risulta evidente che la categoria dei
relativi sia ancora piuttosto fumosa e le definizioni fornite dai grammatici rimandano al valore anaforico del nesso relativo (ciò
spiega la presenza tra i relativi di forme come sé o esso). La ragione di queste soluzioni si deve alla grammatica latina, che
identificava un nomen relativum (QUI QUAE QUOD) e dei pronomina relativa, cioè forme del pronome personale di terza persona
come IS e il riflessivo SUI che hanno valore anaforico.
9. VERBO, C. Gizzi
1. Questioni preliminari
Nella storia della grammatica italiana il verbo conosce una tensione tra aderenza ai modelli ereditati dalla classicità e quelli
innovativi. Dal 1500 sono sempre più radicali i tentativi di superare le griglie tradizionali in favore di schemi liberi dalla tradizione,
ma sono tentativi caduchi perché inadeguati. I modelli più innovativi maturano attraverso aggiustamenti progressivi.
Già la trattatistica greco-latina riconosceva la centralità della coppia nome-verbo come elemento costitutivo dell’oratio perfecta.
Questo ruolo cresce man mano che si riconosce l’importanza del rapporto tra verbo e sintassi. Anche nella Grammatica di Port-Royal
il verbo è la parte più nobile del discorso, sempre composto da copula più participio. Questa posizione trova riscontro nella
grammatica di Soave, il quale sostiene che compito del verbo è affermare o negare l’esistenza; il verbo essere è l’unico a esprimere
l’esistenza ed è quindi l’unico verbo; tutti gli altri verbi sono così chiamati perché contengono il verbo essere + un aggettivo ed
esprimono una proprietà del soggetto. Il tempo può definire il verbo, come suo tratto essenziale. Il tempo è considerato in Pisciano
come uno degli accidenti del verbo, anche in Buommattei e Soave; la concezione aristotelica del tempo emerge in Moise: «Il verbo è
la parte del discorso che, esprimendo il tempo, afferma l’esistenza o la passione o l’azione o il modo di una persona». Per Fornaciari
è proprio il tempo che distingue il verbo da un nome astratto. Le grammatiche successive si soffermano sul rapporto tra soggetto e
verbo, dando quindi una definizione sintattica: Serianni definisce il verbo come una parte variabile che indica:
a) un’azione che il soggetto compie o subisce;
b) l’esistenza o lo stato del soggetto;
c) il rapporto tra soggetto e nome del predicato.
Quanto agli elementi legati alla morfologia flessiva del verbo (persona, numero, tempo, aspetto e modo), la linguistica attuale ne
propone l’attribuzione alla frase nel suo complesso, riservando al verbo solo le sue proprietà lessicali (numero e argomenti).
1.3 Coniugazioni
Un altro settore in cui fin dalle origini della tradizione grammaticale italiana si assiste ad un mutamento degli schemi antichi è la
classificazione delle coniugazioni. Sia Alberti sia Fortunio individuano due sole classi basate sulla vocale d’uscita della terza persona
singolare dell’indicativo presente. Trissino perviene a una classificazione tripartita combinando l’osservazione della terza persona
dell’indicativo presente con la prima del passato remoto e con l’infinito. A partire da Bembo (1525), sono le terminazioni degli
infiniti a guidare la classificazione delle maniere, pur nella consapevolezza che la partizione antica non si adatta alle esigenze di
descrizione delle forme volgari. Quanto ai verbi in -rre, Giambullari (1552) propone di raggrupparli in una quinta coniugazione,
Corso (1550) ritiene necessario ricondurli al gruppo di quelli con la e “breve”, non accentata. Con l’avallo delle Prose, il modello
quadripartito latineggiante (-are, -ére, -ere, -ire) sopravvive fino all’Ottocento, con l’eccezione di Buommattei (tre coniugazioni).
Nell’Ottocento lo schema quadripartito si ritrova ancora nel tradizionalista Puoti (1834) e persino in Morandi, Cappuccini (1894).
4. La polimorfia
La presenza di un buon numero di allotropi morfologici è notoriamente uno dei tratti caratterizzanti dell’italiano letterario. Tale
tendenza è ben rilevabile nel campo dei verbi. Di fronte all’alternativa fra due morfemi verbali si osservano sia casi di classificazione
stilistica, di matrice tipicamente bembiana (una forma per la prosa, una per la poesia), sia altre forme di gradazione, siccome la
grammaticografia italiana è poco incline alle alternanze totalmente libere o non connotate.
Qui ci soffermeremo su qualche esempio che, non essendo vincolata al dipolo poetico/non poetico, conosce un più ampio ventaglio di
soluzioni:
- alternanza tra le forme etimologiche in -a (amava < AMABAM) e analogiche in -o (amavo, rifatto su amo) della prima persona
dell’indicativo imperfetto. La seconda forma era comune nel fiorentino argenteo, prescritta da Alberti nella Grammatichetta. Bembo
a non fa nemmeno cenno alla variante analogica, che è invece menzionata, per deplorarla, da (1516). Salviati respinge l’uso popolare
moderno in favore di quello trecentesco. Buommattei (1643) discute i pro e i contro delle due forme, mettendo in valore la natura
distintiva dell’uscita in -o, utile a evitare la collisione con quella della terza persona; egli cerca un compromesso, si preferisce -a, ma
non viene sanzionato chi usa -o. Soave (1771) sostiene le forme in -a con intransigenza; la sua netta preferenza potrebbe derivare da
un uso effettivamente assai ampio, anche nel parlato settecentesco, delle forme in -a, le quali oltre che dall’etimologia erano
sostenute dall’impiego in molti dialetti, e quindi radicate in molti dei nascenti italiani regionali. Soave ammette -o solo nell’uso
familiare, Collodi (1884) ammette l’una e l’altra forma. La definitiva affermazione del tipo oggi più comune sembra registrarsi nelle
grammatiche a partire da Fornaciari (1879).
- forme di quinta persona dell’imperfetto in -i (avevi ‘avevate’), diffuse in molti dialetti e attestate nella prosa degli autori toscani e
isolatamente nei testi antichi e più spesso a partire dal XVI secolo. Le forme ignote ai classici della letteratura trecentesca non
riescono a superare lo statuto di varianti popolari, generalmente rigettate anche dei grammatici più favorevoli alla legittimazione
dell’uso toscano.
- non circoscrivibile al dominio dell’alternanza tra forme poetiche e della prosa è anche l’oscillazione tra la terminazione unica (che
origina dal congiuntivo) -iamo per la quarta persona dell’indicativo presente, e le corrispondenti uscite etimologiche -amo -emo -imo,
largamente diffuse in vari dialetti e presenti anche nel fiorentino antico. Così, dopo la normalizzazione in favore di -iamo sancita da
Bembo (1525), le forme etimologiche sono rilanciate da Bartoli (1680), che ne richiama la diffusione panromanza, svincolandola
dalla concreta diffusione nella stessa culla dell’italiano. La legittimazione delle desinenze etimologiche passa attraverso il gusto
soggettivo e la retorica. Questa disputa ha più rapida soluzione visto che già da Corticelli (1745) della forma -emo si dice che «non è
oggi in uso». È probabile che in questo caso l’ampia convergenza dei dialetti sulle forme in -amo, -emo abbia favorito per reazione il
precoce accoglimento di una forma percepita come caratteristicamente toscana e legittimata da un lungo stato di servizio letterario.
- l’alternanza delle forme dea\dia e stea\stia è oggetto di discussione già in Bembo, che individua le varianti in -e- come
caratteristiche degli antichi e dunque favorite (dominanti nel fiorentino della fase più antica documentata), mentre le forme in -i- si
affermano progressivamente nella fase argentea. Buonmattei sostiene che l’uscita delle forme antiche dall’uso non toglie autorità dal
modello dei trecentisti perché essi le usavano quando erano in uso anche nel popolo a loro contemporaneo. I seicentisti recuperano le
forme antiche: è un caso di conservazione inerziale di una forma antica che né la lingua letteraria né il parlato fiorentino possono
giustificare, sintomo della radicata tendenza alla conservazione propria della grammaticografia italiana.
10. INVARIABILI, I. Consales
1.Questioni preliminari
Per gli indeclinabili si eredita la terminologia proposta dai grammatici della tarda latinità e se ne mantiene la tassonomia; le categorie
trasmesse sono quelle che riconosciamo tuttora: l’avverbio, la preposizione, la congiunzione e l’interiezione. Tuttavia alcuni principi
classificatori su cui la moderna trattazione poggia si distaccano gradualmente da quelli del mondo antico: schemi troppo articolati
vengono semplificati, confini liquidi tra una categoria e l’altra diventano distinzioni più nette. È soprattutto a partire dal Settecento
che la classificazione degli invariabili trova una certa stabilità formale, che si consolida nel secolo successivo.
2. Preposizioni
Tutti gli antichi grammatici sono concordi nel considerare la preposizione come una parte invariabile del discorso con funzione
relazionale (Trissino ne nega l’autonomia semantica). L’etimo spiega l’essenza di questa parte del discorso – l’essere collocata prima
dell’elemento che subordina. Le preposizioni si definiscono anche in contrapposizione agli avverbi, i quali possono sia precedere che
seguire il verbo a cui si riferiscono.
3. Avverbi
Per secoli i nostri grammatici si riallacciano alle definizioni della tradizione antica: facendo perno sull’etimo, si concentrano sulla
funzione prevalente e lo descrivono come una parte invariabile del discorso che si pone accanto al verbo, in genere in posposizione, e
ne esplica gli accidenti, ne determina il significato o ne annulla la validità (avv di negazione). La confluenza, nella categoria, di
forme di origine e funzioni eterogenee (Salvi definisce l’avverbio «il centro di raccolta di parole molto diverse che hanno in comune
solo la proprietà di essere invariabili») rende labili i confini con altri invariabili, come la preposizione e la congiunzione; alcuni testi
di tardo Ottocento includono fra gli avverbi le particelle ci, ne, vi; da diversi autori, invece, sono considerate avverbi le congiunzioni.
4. Congiunzioni
Già le prime grammatiche a stampa non si discostano dalle odierne nel definire la congiunzione come una parte invariabile o
indeterminabile del discorso che serve a congiungere, a collegare più parole. Il latinismo congiunzione è condiviso, in genere, da tutti
i grammatici, con pochissime varianti formali.
Un ruolo ingombrante è giocato dalla tradizione grammaticale Latina. I testi cinquecenteschi mostrano categorie di difficile
comprensione per un lettore moderno. Tuttavia, alcuni tipi di collegamento moderni sono riconosciuti già dalle prime grammatiche
italiane, con terminologie che ancora oggi si conservano. Presto compaiono termini come copulative, disgiuntive e conclusive.
- fra le copulative talvolta vengono inseriti connettivi che non sono congiunzioni (come gli avverbi medesimamente, similmente).
- Erico, tra le disgiuntive annovera accanto o, overamente, overo. Ma è stata a lungo considerata copulativa (Trissino, Corso), ma si
tratta di una derivazione dalla tradizione grammaticale Latina, in Prisciano infatti la congiunzione sed viene considerata tra le
copulative. Nel 1600 Manzini riconduce la congiunzione ma a “un gruppo che i grammatici chiamano avversanti”.
- le conclusive sono indicate già nelle grammatiche del 1500 che adottano la dicitura collettive o razionali. La denominazione
conclusive compare in Buommattei, mentre sono chiamate illative da Corticelli.
- la coordinazione esplicativa è solitamente definita dichiarativa e i nostri grammatici vi fanno rientrare disparati connettivi tra cui
spesso avverbi con funzione asseverativa come: ben, benso, sai, cioè.
In merito ai rapporti di subordinazione, molte grammatiche accennano alla polifunzionalità del connettivo che (avverbio nella prima
grammatica stampa dell'italiano). Romani riconduce la formazione di locuzioni congiuntive come dopo che, finché, in luogo che
all'aggregazione di che con funzione pronominale, ovvero relativa con nomi appartenenti a rapporti accidentali o tra avverbi concreti.
- i connettivi introduttori di interrogative indirette sono designati come congiunzioni dubitative o domandative. Buommattei
accomuna che pronome interrogativo, come, perché, quando e le espressioni con il rafforzativo Domin(e).
- Soave raggruppa le congiunzioni temporali in una classe a sé stante e le chiama di ordine e distribuzione (avanti, innanzi, prima, in
seguito, poi).
- Prisciano ispirato da Apollonio aveva distinto le causali in 5 specie, su questa scia Trissino ascrive le congiunzioni che, perché alla
categoria delle sottocontinuative: connettivi adatti a una causalità in cui il secondo termine consegue necessariamente al primo.
Giambullari aggiunge altri connettivi come finché, perché, in quanto. Il connettivo causale è annoverato da Trissino tra le
congiunzioni effettive, che esprimono “un fatto che è il risultato di un altro”.
- Molto fluttuanti sembrano essere le categorie che esprimono la subordinazione condizionale e quella consecutiva. I grammatici del
1500, basandosi sul modello latino, presentano la classe delle congiunzioni continuative, che esprimono una relazione di causa-
effetto. Giambullari annovera se, se non. Alcuni autori definiscono continuative le congiunzioni da che, da poiché, in modo, onde;
Rossi include poiché, pure, quando.
- le finali sono chiamate assolutive o perfettive da Giambullari. Nelle grammatiche seicentesche spesso sono inglobate nel gruppo
delle causali (affinchè, per, perché).
- le concessive sono spesso confuse con le avversative con cui condividono anche la dicitura seguendo la tradizione Latina che sotto
il nome di adversative raggruppava sia coordinative come tamen che subordinative come etsi.
- alle congiunzioni di maniera alcuni ascrivono le modali come, secondo che, ma anche consecutive come cosicché, talché, e anche
generalizzanti come comunque, o ancora comparative quali come se, siccome se, meglio che.
- le limitative sono chiamate diminutive da Giambullari e Gigli o limitative da Buommattei.
5. Interiezioni
Le grammatiche fin dal Rinascimento includono l’interiezione tra le categorie grammaticali invariabili. Diverse sono le definizioni
che glia autori danno (esprimere passioni, gli affetti dell’animo, provenienti non dall’uso ma della natura) e diverse sono le
denominazioni utilizzate (inframesso, interposto, dal latino inserzione, Buonmettei dice interposizione – non solo perché possono
essere precedute o succedute da altri elementi, ma anche perché la loro rimozione non pregiudica la coerenza semantica del
costrutto). A partire dall’Ottocento e soprattutto dal primo Novecento, a proposito delle interiezioni si fa riferimento anche alle
onomatopee (dette anche voci imitetive in riferimento agli animali). Circa la grafia, le interiezioni sono espresse anche da suoni che
non fanno parte del repertorio fonologico italiano. La maggior parte degli autori usa il grafema h per l’aspirazione, funzionale anche
ad evitare omografie. Il costante riferimento ai casi latini emerge anche qui: ad esempio, oh che esige l’accusativo soprattutto se
seguito da un nome o un pronome; deh si accompagna al vocativo; ah, ahi, eh, ehi vogliono l’accusativo.
1. Questioni preliminari
Bloomfield, la frase semplice è una forma linguistica indipendente, non compresa in una forma linguistica maggiore.
La grammaticografia italiana ha da sempre favorito l’analisi delle parti del discorso, più che il funzionamento complessivo della frase
semplice. La frase era oggetto di studio di altre discipline, quali retorica, logica, dialettica. La tradizione grammaticale occidentale
non ha sempre riconosciuto nella frase semplice un concetto rilevante per le sue teorie: i grammatici antichi consideravano la frase
una struttura prosodica, semantica, logica e retorica, più che una struttura sintattica; soltanto in un secondo momento si sviluppò la
riflessione sulla sintassi. Anche oggi non è considerata in termini puramente sintattici, ma concepita in priis come atto comunicativo
elementare: è un’entità pluridimensionale, in cui si incrociano diversi livelli di analisi (sintattico, semantico, informativo), come
dimostra anche la diversa terminologia (frase, proposizione, enunciato) in uso oggi nelle diverse branche della linguistica.
2. Metalinguaggio
La terminologia è di derivazione latina: dalle parole latine usate per riferirsi alla frase semplice (phrasis, constructio, oratio, sententia,
periodus) si originano quelle italiane (frase, costruzione, orazione, sentenza, periodo). A partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
frase avrà la meglio sulle altre opzioni. Dietro l’adozione di vari termini si vede l’agire di un mutamento concettuale.
Una formulazione terminologica relativa alla frase risale a Apollonio Discolo (II sec. d.C.), autore del De constructione (Perì
syntaxeos), una delle opere più antiche a livello sintattico. Attraverso le Institutiones grammaticae di Prisciano (V-VI sec) concetti e
termini della tradizione grammaticale greco-latina, tra cui oratio, si propagano attraverso i secoli. Da Boezio emergono ulteriori
distinzioni come quella tra oratio simplex (nome e verbo), e oratio complexa. Oratio è l’opzione terminologica più diffusa in epoca
medievale. Come sinonimo di oratio circola propositio, usato da Cicerone per indicare la premessa maggiore di un sillogismo e da
Boezio nel senso di oratio enuntiativa, cioè caratterizzata da verità.
L’uso di propositio si afferma con la Grammaire di Port-Royal (1619), quando prevale una prospettiva logicizzante nella grammatica.
Nella grammatica italiana proposizione si avvia a diventare il termine privilegiato per riferirsi alla frase dalla seconda metà del
Settecento. La sostituzione di orazione con proposizione contribuì al declino del concetto di “sintagma” che si riaffermerà nel
Novecento. L’uso di frase si afferma nell’Ottocento; fino a questo periodo con frase si intendevano le citazioni o i modi di dire, il
termine metteva quindi in risalto la componente retorica della lingua. Frase inizia poi ad assumere anche un valore grammaticale, ma
ciò non determina la scomparsa di proposizione: i due termini vengono a indicare unità diverse (frase designa la completezza
semantica, proposizione l’unione di soggetto e predicato). Nella grammaticografia tardottocentesca frase si affianca a periodo per
indicare l’unità superiore alla proposizione. Contestualmente si afferma la distinzione tra frase semplice e frase complessa, formata
da più proposizioni.
4. Tipi di frase
La classificazione della frase avviene secondo due criteri, uno di tipo formale e l’altro di tipo semantico e pragmatico.
4.1 La forma
La classificazione formale considera il numero dei costituenti frasali e l’estensione della frase, sviluppandosi a partire dalla
distinzione priscianea e poi boeziana tra oratio perfecta e oratio imperfecta. Queste espressioni originariamente erano riferite alla
logica e indicavano rispettivamente la frase di senso compiuto e il sintagma. Progressivamente nella grammaticografia italiana con
oratio perfecta si intende una frase costituita da nome e predicato e, per indicare una frase più complessa e lunga, si ricorre
all’espressione oratio perfectissima; invece con oratio imperfecta si intende una frase caratterizzata da fenomeni di ellissi, restando
sintatticamente autonoma (es. sogg sottinteso). Per quanto riguarda le frasi mononucleari verbali, esse vengono ammesse sulla base
della centralità assegnata al verbo e sulla capacità di comprendere il nome (es. leggo → si comprende che il soggetto è io), inoltre
alcuni verbi sono considerati privi di soggetto operante (atmosferici). In altri casi si fa ricorso alla teoria dell’argomento interno
(combatte sarebbe in realtà combatte la battaglia); anche in verbi a valenza zero si ipotizza la presenza di un argomento (piove la
pioggia). Dubbi suscita invece la frase nominale (monorematica senza predicato), che, dove considerata, è ricondotta a fenomeni di
ellissi (nella grammatica odierna sono due fenomeni distinti).
Sanzio indica alcuni fenomeni di ellissi:
- alcune formule interrogative (Ma che? Così eh?)
- le proposizioni senza verbo introdotte da ecco (ecco Maria)
- formule di giuramento e frasi proverbiali (simile con simile)
Forniciari tratta come ellissi le interiezioni, i saluti e le imprecazioni. Romani riconosce frasi complete (dotate dei termini essenziali,
sogg e attributo) e incomplete (prive di uno dei termini essenziali per ellissi o contrazione). Un’altra distinzione si ha tra semplice,
complessa e composta (pag.373).
6. Accordo
Il principio di concordanza tra le parti della frase (concetto medievale di congruitas) è un concetto fondamentale perché non
rispettare questo principio significa compiere delle sgrammaticature. Nonostante la saltuarietà delle osservazioni, inizia a delinearsi
un nucleo di questioni che si ripresenteranno nei secoli successivi.
a) Compaiono riferimenti alla concordanza a senso, soprattutto tra soggetto rappresentato da nome generico o collettivo e verbo
(Bembo, Salviati).
b) Si legittima che con essere e avere con funzione presentativa il verbo va al singolare anche se il soggetto è plurale. Se ci sono due
nomi l’accordo col verbo dipende dalla posizione: se i due sostantivi precedono il verbo l’accordo è al plurale, altrimenti no.
c) Punto di crisi è l’accordo del participio nei verbi composti; il citerio è individuato nella natura dell’ausiliare: il participio legato
all’ausiliare essere si accorda al soggetto, quello legato all’ausiliare avere con l’oggetto. Resta una regola oscillante in quanto ci sono
esempi di autori antichi difficilmente spiegabili.
d) Accordo del genere in presenza di un soggetto maschile e uno femminile. Tra Settecento e Ottocento diviene fondamentale trattare
la concordanza nella parte dedicata alla sintassi: Corticelli (1745) individua 7 regole fondamentali e un fenomeno importante è la
concordanza soggetto + verbo quando c’è un complemento di compagnia (la norma andrà nella direzione dell’accordo grammaticale
con il solo sogg). Si osserva il tentativo di ricondurre le regole di accordo alla struttura logica della frase: Soave dice che l’attributo
della proposizione deve accordarsi con il sogg. Fornaciari (1881) aggiunge l’accordo dei verbi impersonali e di quelli con il si
passivante: nel primo caso generalmente l’accordo è al singolare, ma in un contesto più elevato prevale la costruzione personale; nel
secondo al plurale. Nei verbi riflessivi in funzione passiva (categoria in cui Forniciari racchiude sia le costruzioni con il si passivante,
sia quelle con il si impersonale) usiamo l’accordo al plurale (si richiedono degli ausili). Si tratta di questioni molto specifiche. In
generale, l’accordo semantico viene ammesso fino al 1800, poi si preferisce l’accordo grammaticale.
Le categorie e i fenomeni relativi alla frase semplice hanno avuto una tendenza evolutiva generale; sono oggetto di una progressiva
messa a fuoco e ciò è riconducibile a due cause:
1. interesse per la frase semplice da parte della grammatica generale in quelle fasi storiche che hanno dato spazio al rapporto tra
mente e linguaggio, e l’ipotesi dell’esistenza di strutture generali;
2. cambiamento del pubblico, che riconduce sempre più il ruolo della grammatica all’apprendimento e all’educazione linguistica.
Prima la formulazione della frase era considerato un fenomeno elementare, ma dal 1700 in poi questo concetto si evolve e la frase
semplice diventa qualcosa che comprende le relazioni tra parti del discorso e parole, e l’unità base di sequenze più ampie.
12. SINTASSI DEL PERIODO
1. Questioni preliminari
Lo schema classico della grammatica italiana (che si afferma nel Cinquecento su modelli latini) prevedeva una scansione in capitoli
dedicati alle singole parti del discorso, tralasciando la sintassi. La loro attenzione era rivolta a fenomeni sintattici riguardanti la frase
semplice, mentre la frase complessa resterà a lungo ai margini del discorso grammaticale. La ragione è da ricondursi a una
delimitazione di competenze: l’analisi del periodo, intesa come riflessione sulla più elegante, efficace o persuasiva disposizione delle
frasi all’interno dell’orazione, era infatti considerata oggetto della retorica. Fino all’Ottocento, se accade che qualcuno se ne occupa,
è perché il discorso li ha portati ad affrontare una materia che non si erano proposti di toccare. Il che si verifica in due casi:
a) Trattando di interpunzione. Descrivere o normare l’uso dei segni interpuntivi non può non accompagnarsi, sin dal Cinquecento, a
una riflessione sull’articolazione del periodo, soprattutto quando l’interpunzione è vista come un mezzo per evidenziare le diverse
proposizioni.
b) Trattando delle figure, cioè le costruzioni marcate. L’accoglimento, accanto alla sintassi semplice, di una sintassi figurata (o
irregolare) induce i grammatici a occuparsi, oltreché di fenomeni microsintattici, anche di fenomeni macrosintattici come l’ordine
delle frasi del periodo, l’ellissi di una proposizione, l’anacoluto ecc.
Le prime trattazioni autonome della sintassi del periodo sono di metà Ottocento. La prima trattazione davvero sistematica
sull’argomento arriverà solo nel 1881, data la pubblicazione della Sintassi italiana dell’uso moderno di Fornaciari.
3.3 La coordinazione
Fino alla metà del XIX secolo e oltre, una sensibilità sull’argomento appare episodica. Al massimo vi si allude indirettamente nei
capitoli dedicati alle congiunzioni. Nelle grammatiche più attente alla trattazione sintattica, invece, l’enfasi cade sull’equipollenza fra
le coordinate e sulla loro intercambiabilità. Ciò serve a mettere in luce il fatto che il legame coordinativo sia possibile
indipendentemente dalla funzione che le proposizioni svolgono nel periodo: coerentemente, gli esempi addotti mostrano come
coordinate possono essere sia una principale e un’altra frase sia due subordinate. La segnalazione di tale proprietà diventerà un
passaggio immancabile nelle grammatiche successive fino ai giorni nostri. Un altro aspetto generalmente sottolineato è la nozione di
reciproca indipendenza fra le proposizioni coordinate, restando ciascuna indipendente dalle altre. Analogamente nelle grammatiche
novecentesche si nota che la coordinazione si realizza accostando più proposizioni indipendenti, tali cioè che ciascuna si potrebbe
reggere da sola. Quanto alle modalità con cui si realizza la coordinazione, di norma se ne individuano due:
a) senza congiunzioni;
b) mediante congiunzioni.
Le classificazioni sono divergenti anche in relazione al valore logico dei nessi coordinativi. La trattazione più analitica si trova in
Goidanich (1918), in cui la coordinazione può essere di cinque tipi: copulativa; avversativa; disgiuntiva; conclusiva; causale. Tranne
che per la presenza della causale anziché della dichiarativa (o esplicativa), la classificazione corrisponde a quella che leggiamo in
Migliorini (1963) o in Serianni (1988). Merita di essere preso in considerazione, infine, il modo con cui si affronta la questione del
rapporto fra paratassi e ipotassi. Il raffronto è agevolato dalla visualizzazione grafica in Fornaciari (1881), in cui si dispongono su
due colonne frasi subordinate e frasi coordinate aventi lo stesso significato. Dalla comparazione non scaturisce la superiorità
dell’ipotassi sulla paratassi, perché ciascuna delle due opzioni ha delle peculiarità stilistiche tali che, confacendosi ora allo scritto, ora
al parlato, ora alle possibili combinazioni fra i due registri, la soluzione migliore consiste nel saperle variare con equilibrio. Altrove
però si ripropone il topos – oggi rifiutato – della paratassi come modalità primitiva: la scelta fra paratassi i potassi dipenderete non
solamente dall’intenzione di chi parla o scrive, ma anche, e soprattutto, dall’indole della sua intelligenza dal grado di educazione ecc.
5. Il periodo “irregolare”
Nel discorso grammaticale, accanto agli aspetti canonici o regolari della lingua, si è sempre sentito il bisogno di contemplare anche
tutte quelle deviazioni dalla norma che, per ragioni stilistiche o pragmatiche, hanno ricevuto una legittimazione dall’uso, prima di
tutto letterario. Sin dalle origini, sul modello di Donato, questi errori consentiti venivano chiamati figure, ovvero un modo di parlare
fuori dallo stile comune. Avendo a che fare con lo stile, le figure erano materia da contendere alla retorica, anche perché spesso
riguardavano fenomeni di ordine sintattico; si è parlato così di costruzione figurata, vale a dire di una composizione di parole fuori
dall’ordinario e dall’uso. Tra le figure normalmente studiate, quelle che coinvolgono la frase complessa sono le ellissi, l’iperbato, la
sinchisi e l’anacoluto. Trattando dell’ellissi, figura la cui varia e incerta casistica la rende oggi difficilmente fruibile, si descrivono le
omissioni di verbi o proposizioni. Si nota, ad esempio, come in una subordinata si possa sottintendere il gruppo “verbo +
complementi”; oppure l’infinito di una costruzione latineggiante. L’iperbato (o inversione, trasposizione) riveste un ruolo centrale nel
parlar figurato, essendo alla base della distinzione fra costruzione diretta e costruzione inversa. Quest’ultima costituisce
un’inversione dell’ordine sintattico normale per ottenere la disposizione più efficace delle frasi nel periodo, che risponde a intenti
pragmatici, in relazione all’enfasi che si vuole porre su ciascun concetto. Al contempo, pur riconoscendo nella costruzione inversa un
utile strumento per dare maggiore energia al discorso ed evitare la monotonia, si mette spesso in guardia contro l’alterazione della
naturale disposizione delle parole che potrebbe generare degli equivoci o delle ambiguità. Fra le fattispecie dell’iperbato sono
annoverate anche le frasi parentetiche, che consistono nell’interrompere una proposizione mettendone in mezzo un’altra. Nelle
grammatiche postottocentesche la classificazione per figure dei fenomeni regolari viene abbandonata in favore di procedimenti
differenti. Per comprendere in che modo questo avvenga, basti pensare alla riflessione sull’ordine delle parole (e delle frasi) e a come
la nozione di inversione abbia lasciato oggi il posto a quelle di ordine marcato/non marcato.