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SOCIOLINGUISTICA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO

Berruto

1. L’italiano come gamma di varietà

1.1 Le varietà dell’italiano


Il primo tentativo di modellizzazione dell’articolazione in varietà dell’italiano contemporaneo è attribuito a Pellegrini. L’autore
riconosce nel repertorio verbale di un parlante italiano medio quattro registri espressivi fondamentali: dialetto, koinè dialettale,
italiano regionale e italiano standard. Per designare le dimensioni di variazione interna alla lingua usiamo la terminologia di Coseriu,
che chiama diatopiche le varietà geografiche, diastratiche le varietà relative agli strati sociali e diafasiche quelle situazionali relative
alla funzione svolta nel contesto. Prendendo spunto dalla quadripartizione di Pellegrini sono state fatte numerose proposte di
classificazione delle varietà fondamentali dell’italiano.

Mioni sostiene invece che le varietà dell’italiano siano l’italiano aulico, l’italiano parlato informale e l’italiano colloquiale-informale.
Inoltre Mioni mette in relazione queste varietà con la stratificazione sociale dei parlanti assumendo che un borghese padroneggi tutte
e tre le varietà, un piccolo borghese padroneggi solo la seconda e la terza e un contadino solo la terza. Mioni suddivide dunque le
varietà di italiano sulla base della competenza e dello strato sociale dei parlanti, giungendo dunque alla seguente quadripartizione:
italiano standard formale, standard colloquiale informale, italiano comune regionale e italiano regionale popolare.

Un altro modello è quello di De Mauro che sintetizza le precedenti formulazioni in una quadripartizione che vede una gerarchia
formata da italiano scientifico, italiano standard, italiano popolare unitario e italiano regionale colloquiale. Questo tipo di schema è
ottimo per valorizzare il lessico ma non per l’importanza della pronuncia la cui considerazione deve promuovere più in alto, in una
gerarchia di differenziazione, la dimensione geografica.

Uno dei modelli più importanti che tenta di cogliere la poliedricità della situazione attraverso la moltiplicazione delle varietà è il
modello di Sanga, che enumera 8 varietà fondamentali per la sezione italiana di un repertorio della sociolinguistica odierna: italiano
anglicizzato, italiano letterario (standard), italiano regionale, italiano colloquiale, italiano burocratico, italiano popolare (unitario),
italiano dialettale e italiano-dialetto. Le varietà sono ordinate da un massimo ad un minimo di diversità e ogni varietà è collegata con
lo strato sociale che le è proprio. L’italiano anglicizzato (sia orale che scritto) è caratterizzato dalla presenza di anglicismi ed è
utilizzato dall’alta borghesia con contatti internazionali; l’italiano colloquiale è la realizzazione informale dell’italiano regionale
usato sia dall’alta borghesia che da altri ceti; l’italiano burocratico si basa su un ideale scritto artificioso ed è usato dai ceti medi del
terziario e avrebbe funzione di modello per l’insegnante nella scuola; l’italiano dialettale (principalmente orale) è invece la
realizzazione dell’italiano popolare da parte di soggetti fortemente dialettofoni ed è un linguaggio usato prevalentemente dal ceto
popolare; l’italiano dialetto è invece caratterizzato dal passaggio di espressioni italiane ad espressioni dialettali. Il modello di Sanga
copre un ampio spazio di differenziazioni, ma anche numerosi problemi. Innanzitutto vi è un’eterogeneità delle categorie: gli assi
diatopico, diastratico e diafasico sono mescolati con caratteri interni all’aspetto linguistico; in secondo luogo il tentativo di collocare
uno specifico tipo di italiano a una classe sociale porterebbe soltanto alla schematizzazione delle classi sociali.

Una novità nella tipologia dei repertori proposta per le varietà dell’italiano è introdotta da Trumper e Maddalon i quali operano una
distinzione tra uso orale e uso scritto. Trumper propone due sottorepertori diversi per l’uno e per l’altro: italiano standard, italiano
sub-standard e italiano interferito sub-standard (per l’uso scritto) e italiano regionale formale, italiano regionale informale e italiano
regionale trascurato fortemente interferito (per l’uso orale). Il modello di Trumper presenta numerose innovazioni: oltre alla divisione
in due sottorepertori, va notata l’assenza dell’italiano standard dal repertorio orale, che tiene conto del fatto che è un eccezione
trovare parlanti la cui pronuncia sia del tutto priva di coloriture regionali. Le varietà di Trumper sono designate in termini di
caratteristiche linguistiche in base alla quantità di elementi sub-standard contenuti e alla maggiore o minore interferenza con il
dialetto.

Un’altra proposta in merito alla classificazione delle varietà dell’italiano contemporaneo è quella di Sabatini, che introduce accanto
allo standard un’entità a cui sinora non era stato dato specifico riconoscimento e cioè l’italiano dell’uso medio. Inoltre lui tiene
separate le categorie, senza mescolarle nella definizione delle varietà. Sabatini individua: italiano standard, italiano dell’uso medio,
italiano regionale delle classi istruite, italiano regionale delle classi popolari. Le prime due varietà sono entrambe nazionali e si
distinguono in diafasia (essendo una tipica dell’uso formale e l’altra dell’uso informale). Tuttavia il modello di Sabatina pone
comunque dei problemi: il primo è costituito dalla separazione fra italiano regionale e italiano dell’uso medio; il secondo riguarda
l’italiano dell’uso medio che sembra coprire un ampio raggio di variazione diafasica e che sembra dunque un nuovo standard
piuttosto che contrapporsi ad esso.

Sobrero e Romanello, invece, come nel modello iniziale di Pellegrini, distinguono due sole entità: l’italiano comune e l’italiano
regionale, ripartendo però ciascuna in due fasce ulteriori, basse ed alta. L’italiano comune alto sarebbe come l’italiano standard
presente in altre classificazioni; l’italiano comune basso corrisponderebbe a una varietà connotata geograficamente a giudizio di
puristi e non per i parlanti; l’italiano regionale alto è una coinè regionale o interregionale, non connotata come dialettale; l’italiano
regionale basso è fortemente connotato come dialettale.

Secondo Berruto, in base ai caratteri della situazione italiana, la differenziazione diatopica è da considerarsi come la più basilare e
quindi in qualsiasi schema bisognerebbe riconoscere la presenza degli italiani regionali standard. Inoltre, sempre secondo Berruto,
bisognerebbe tener conto della differenziazione sociale. Inoltre la differenziazione diafasica deve essere tenuta separata da quella
sociogeografica, in quanto concerne il singolo individuo parlante e taglia le dimensioni geografica e sociale. Tutto ciò dimostra che è
impossibile creare uno schema esaustivo delle varietà dell’italiano che tenga conto di tutte le dimensioni pertinenti.
1.2 L’architettura dell’italiano contemporaneo
Il modello dell’architettura dell’italiano si basa su tre premesse:
1. Occorre evitare di mescolare le dimensioni di variazione e nello stesso tempo tenere e dar conto del fatto che esse si intersecano;
2. Almeno nell’uso orale, la differenziazione geografica ha un ruolo primitivo e importante, a parte. Ecco perché nello schema la
dimensione diatopica è stata messa sullo sfondo, in un certo senso a priori;
3. Bisogna considerare anche la variazioni in diamesia.

Nel modello (img. p24) possiamo distinguere un centro, dove sono raccolti i fatti tendenzialmente unitari, standardizzati normativi e
normalizzanti e una periferia, che raccoglie i fatti tendenzialmente non unitari, denormalizzanti o devianti dalla norma accettata, che
costituiscono un’area più instabile e cioè la sezione non standard e sub-standard delle varietà dell’italiano. Le tendenze in atto sono
dette centripete, se tendono a conguagliare verso il centro avvicinandosi allo standard con funzione unificante; sono centrifughe se
invece tendono ad allontanarsi dal centro aumentando la differenziazione.
Tenendo conto degli assi di variazione:
-la diamesia va dal polo scritto scritto (a sinistra) al polo parlato parlato (a destra);
-la diastratia, dal polo alto (in alto) al polo basso (in basso);
-la diafasia, dal polo formale-formalizzato (in alto a sinistra) al polo informale (in basso a destra).
Si vengono così a formare quattro quadranti: il quadrante in alto a sinistra contiene le varietà verso l’estremo scritto e/o formale e/o
socialmente alto; il quadrante in basso a destra le varietà verso l’estremo parlato e/o informale e/o socialmente basso. Scendendo
dalla metà dello schema verso il basso aumenta il grado di sub-standardità delle varietà. Lungo la dimensione diafasica si può notare
la distinzione tra registri, posti a destra dell’asse, e sottocodici, posti alla sua sinistra. L’asse diafasico è in parte connesso con la
stratificazione sociale dei parlanti, nel senso che le varietà che stanno verso l’estremo alto sono ristrette a gruppi determinati di utenti
di alta classe sociale, invece le varietà che stanno verso l’estremo basso non sono ristrette a gruppi particolari.
L’autonomia della diamesia non è del tutto chiara. La diamesia può essere considerata una sottocategoria della diafasia in quanto uso
scritto e uso parlato rappresentano due grandi classi di situazioni di impiego della lingua. Però è anche vero che l’opposizione scritto-
parlato taglia trasversalmente la diafasia e le altre dimensioni e non è riconducibile completamente all’opposizione formale-
informale. Pertanto inserendo nello schema la variazione diamesica, intendiamo cogliere quegli aspetti di differenziazione che
dipendono dalla natura segnica stessa dell’uso scritto e parlato e non soltanto dalla minore o maggiore formalità di registro. In pratica
un registro molto formale coincide con le caratteristiche tipiche dello scritto, un registro molto informale con quelle del parlato, ma ci
sono anche stadi intermedi. Per cogliere alcune differenziazioni si distingue infatti tra uso orale e grafico (caratteri dipendenti dalla
natura del mezzo) e codice parlato e scritto (caratteri dipendenti dalla pianificazione, dall’elaborazione strutturale, dalla formalità).

Il centro sociolinguistico dell’architettura non coincide con il suo centro geometrico, ma è spostato verso il quadrante scritto,
formale, alto, data la peculiare storia della lingua italiana, il cui standard si è tradizionalmente modellato sull’uso scritto, letterario e
aulicizzante. Dal centro verso il basso aumenta il carattere sub-standard delle varietà, invece dal centro verso l’alto aumenta il
carattere non standard. Le varietà poste nello schema sono da intendere come addensamenti, nodi di articolazione del continuum di
varietà dell’italiano contemporaneo, più che come varietà discrete ben isolabili.
Il centro è costituito dall’attuale porzione di standard dell’italiano, che appare suddivisa in due varietà per dar conto degli effetti di
rinormativizzazione e di ristandardizzazione che recentemente si stanno verificando, con l’assunzione nello standard di tratti finora
sub-standard e con l’avvicinamento dello scritto e del parlato:
• Al centro del centro sta l’italiano standard letterario (lingua descritta e regolata nei manuali di grammatica), che in linea di
principio non è marcata né diatopicamente né socialmente. In realtà oltre ad essere scarsamente utilizzata da concreti parlanti,
manifesta un lieve grado di marcatezza diastratica, dato che essere è rintracciabile solo in piccole élites o gruppi professionali
specifici. Inoltre ha una sfumatura di marcatezza diatopica, dato che rimanda pur sempre a una base fiorentineggiante.
• Sempre al centro si colloca poi l’italiano neo-standard, sensibile a differenziazione diatopica e corrispondente quindi
fondamentalmente nei concreti usi dei parlanti a un italiano regionale colto medio.

Due varietà assai importanti nella dinamica sociolinguistica sono poi l’italiano parlato colloquiale e l’italiano popolare regionale.
Esse sono vicine al centro perché alcuni tratti precedentemente marcati per colloquialità per stigma sociale sono stati catturati dalla
norma e hanno perso marcatezza. Il fulcro di questo movimento tra centro e periferia è naturalmente l’italiano neo-standard, che fa da
mediazione tra le tendenze provenienti dal basso e lo standard.
• L’italiano parlato colloquiale è una varietà marcata in diamesia (tipicamente parlata) e in diafasia (tipica degli usi della metà non
formale della scala di formalità). È l’italiano della conversazione ordinaria. Non va confuso con il registro informale più basso e
trascurato, in cui agiscono per lo più fattori di improvvisazione. Ovviamente è marcato a priori in diatopia.
• L’italiano popolare regionale è innanzitutto marcato diatopicamente. Questa varietà, inoltre, tende alla periferia per marcatezza
diastratica, come varietà dei parlanti poco colti o incolti. E’ come il colloquiale, ma con più regionalismi.

Sul lato dei Registri possiamo collocare l’italiano informale trascurato, dal lato dei Sottocodici possiamo invece collocare un
eventuale italiano gergale o paragergale.
• L’italiano informale trascurato rappresenta la varietà più bassa in diafasia, quella in cui agiscono in maniera più netta i fattori
derivanti dall’improvvisazione, dalla mancanza di attenzione e di controllo nell’elocuzione.
• Sotto l’etichetta di italiano gergale (sottocodice, non registro) possiamo invece raggruppare le varietà colloquiali-espressive
proprie di categorie o gruppi particolari di utenti, che ai tratti dell’informale trascurato aggiungono tipicamente un lessico peculiare,
valido sia per affermare che per rinforzare il senso di appartenenza al gruppo e (nei casi più estremi) per impedire la partecipazione
alla comunicazione ai membri estranei al gruppo. Si tratta di un polo di varietà molto instabili e mutevoli: esempi possono essere il
linguaggio giovanile, i gerghi studenteschi, ecc… In queste varietà al polo più basso e sub-standard della variazione diafasica emerge
il cosiddetto modo pragmatico, vale a dire un modo di strutturare il discorso che si affida di più alla semantica che non alla sintassi e
codifica grammaticalmente il meno possibile.
Nel quadrante inferiore destro del nostro schema, a un livello minore di informalità e di sub-standardità, potremmo collocare una
varietà come
• l’italiano familiare, una varietà di lingua caratterizzata dal formarsi presso gruppi di amici e famiglie, cioè gruppi in cui la densità
della rete comunicativa finisce per creare inevitabilmente usi linguistici peculiare del gruppo.

Al polo opposto dell’asse diafasico, nel quadrante superiore sinistro dello schema, si troveranno evidentemente le varietà
caratterizzate da una massima elaborazione a livello morfosintattico, semanticolessicale e testuale, quali:
• l’italiano formale aulico, impiegato in situazioni pubbliche e solenni sul lato dei registri;
• l’italiano tecnico-scientifico, impiegato per temi specialistici, sul lato dei sotrocodici.
Accanto a questi andrebbero poste più dettagliatamente le lingue speciali, fortemente caratterizzate da un proprio lessico; mentre
leggermente più verso il centro dell’architettura andrebbe posto l’italiano burocratico, che accentua i caratteri di codificazione
precostituita e di esplicitezza grammaticale dell’italiano standard letterario, senza giungere però al grado di elaborazione specialistica
delle altre due. Queste varietà trovano la loro realizzazione più tipica nello scritto ma nello stesso tempo quando vengono impiegate
oralmente conservano i caratteri dello scritto puro.

1.3 Natura dei continua


Per continuum si intende un insieme di varietà che sfumano l’una nell’altra, le cui varietà estreme sono facilmente identificabili.
Questa sovrapposizione tra le varietà attraverso un passaggio graduale fa sì che la differenza sia minima tra varietà contigue e
aumenti proporzionalmente procedendo verso gli estremi opposti del continuum. Generalmente si dà per scontato che le due varietà
agli estremi del continuum siano rispettivamente la varietà alta e la varietà bassa di una situazione di diglossia, o comunque simile
alla diglossia; e che quindi il continuum sia orientato da una varietà di prestigio o standard a una varietà non di prestigio o sub-
standard.
Il concetto di continuum nasce nell’ambito degli studi di creolistica, in particolare studi del post-creolo Giamaicano e il creolo della
Guyana. I poli di questi continuum vanno da un basiletto (varietà bassa) ad un acroletto (varietà alta) attraverso una successione di
mesoletti, a cui appartiene la maggior parte dei parlanti; questa situazione sembra rispecchiare quella italiana, dove l’acroletto riflette
l’ita standard e il basiletto il dialetto locale ‘puro’. Tuttavia, quelli creoli sono continuum molto lineari, mentre il continuum di
varietà italiane non è lineare, bensì multidimensionale. Possiamo distinguere quattro tipi di continua:
• Un continuum generico, costituito da un insieme di varietà non discrete (non misurabili) non orientato;
• Un continuum con polarizzazioni, costituito da un insieme di varietà non discrete orientato (che va cioè da un polo alto a un polo
basso, con le varietà agli estremi ben definite e isolabili);
• Un continuum con addensamenti, vale a dire costituito da un insieme di varietà non discrete, orientato ma non polarizzato, in cui le
diverse varietà coincidono con addensamenti dei fasci di tratti lungo il continuum, in maniera che gli addensamenti principali
possono trovarsi anche non agli estremi del continuum;
• Un gradatum, costituito da varietà almeno in parte discretizzabili. Il concetto di gradatum in realtà si oppone a quello di
continuum, in quanto abbiamo la successione graduale delle varietà disposte sullo stesso asse e passando da una varietà all’altra si
scende o si sale, verso uno dei due poli.

Il continuum con addensamenti corrisponde alla situazione italiana. I tratti variabili tendono a disporsi lungo un asse in maniera
molto distribuita, ma tuttavia con addensamenti in punti corrispondenti alle verità principali della gamma; questi punti di
addensamento sono concepibili in termini di cooccorrenza di tratti o come frequenza d’uso nei parlanti. Le varietà risultano quindi
ben riconoscibili, anche se con un’area di sovrapposizione.
Per dare conto alla multidimensionalità occorre complicare ulteriormente le cose: i quattro tipi sopra elencati possono riferirsi a
repertori lineari o a repertori a variazione non lineare. Un’altra possibilità è quella di descrivere i continua multidimensionali come
continua di continua. La gamma di varietà dell’italiano sarebbe allora definibile come un continuum non lineare ad addensamenti
(nella prima ipotesi) o come un continuum tridimensionale di continua. (es. pag 33-37) → Dall’esempio citato, vengono fuori otto
varianti (“non sono affatto a conoscenza di che cosa sia stato loro detto”, ecc.). La cooccorrenza delle varianti esiste solo
tendenzialmente ed è tutt’altro che rigida. Le relazioni di cooccorrenza sono per lo più sfrangiate, non discrete. Inoltre, ogni
formulazione può essere collocata precisamente nella varietà che rappresenta, ad esempio “non sono affatto a conoscenza di che cosa
sia stato loro detto” è in italiano formale, “non so mica cosa gli han detto” in italiano parlato colloquiale, ecc. Ma questo in termini di
addensamento. In realtà, il raggio di dispersione delle varietà è più ampio perché lo standard può spaziare dalla prima frase fino
all’altra (negli esempi la n. 8) da un massimo di formalità a un minimo di formalità. Un’analisi più accurata dovrebbe scindere il
continuum multidimensionale, o l’insieme di continua, in singoli continua organizzati secondo una sola dimensione di variazione. Si
è constatato, però, che le cose si complicano per il fatto che uno stesso tratto può essere implicato in più di una dimensione di
variazione e isolarlo su una singola dimensione rischia di far torto allo status di quel tratto nel complesso del repertorio. Una terza
possibilità sarebbe quella di isolare una dimensione come la più significativa e azzerare le altre, trattando quindi la gamma di varietà
nei termini di un continuum con addensamenti.

Possiamo trattare un continuum in termini di scale di implicazione. Le scale di implicazione sono matrici a doppia entrata, che
rappresentano dati in maniera tale che tra loro esista un rapporto di implicazione, vale a dire ordinate in base a una disposizione in cui
né nelle linee orizzontali né in quelle verticali ci siano discontinuità nei valori dei tratti. Esse permettono di prevedere i rapporti di
cooccorrenza tra valori di variabili sociolinguistiche. (es. p38-40)

Per concludere il discorso sulla natura del continuum delle varietà dell’italiano, bisogna soffermarsi sui rapporti fra le varietà e i
parlanti. I parlanti membri di una comunità linguistica hanno accesso e possiedono in maniera ben differenziata la gamma di varietà.
I fattori che intervengono sono molteplici, ma i principali sono da ricondurre alla stratificazione sociale e in particolare al grado
d’istruzione, al tipo di occupazione e alle aspirazioni sociali. Ma l’assegnazione dei parlanti a classi o strati sociali e il
riconoscimento stesso degli strati, oggi in Italia sono molto problematici.
I parlanti colti padroneggeranno una fetta di continuum più ampia e potranno svariare su più registri.
Il repertorio individuale è sempre una sottosezione del repertorio della comunità, a volte assai ridotta. La conseguenza di ciò è che la
collocazione dei registri può variare parecchio da parlante a parlante: quello che per un parlante con una gamma di varietà più
ristretta è il registro più alto a disposizione, per un parlante con una gamma di varietà più ampia sarà un registro medio. Inoltre va
anche considerata la capacità di un parlante nell’adeguare il grado di regionalizzazione del suo italiano in relazione alla situazione,
passando dall’uno all’altro di quelli che sono definiti stili contestuali.
Al contrario di ciò che avviene nelle situazioni anglofone, in Italia è possibile notare come i parlanti dei ceti più bassi sono molto
meno in grado di variare la propria pronuncia adeguandola a un modello più standard che non i parlanti socio-culturalmente più
favoriti; gli anglofoni tendono invece a differenziarsi molto soprattutto nella pronuncia in situazioni di parlato non sorvegliato,
mentre convergono in quelli più sorvegliati.
La grammatica di base del singolo parlante può comprendere tratti o settori di altre varietà, non pienamente solidali con la varietà di
base. Ogni parlante, insomma, ha la sua varietà, che spazia fra i tratti del continuum globale. Un problema è che i confini tra le
varietà del continuum non sono netti nemmeno riguardo ai tipi di parlanti con cui corrispondono. È esperienza comune che individui
medio-colti a volte usano un italiano quasi popolare o addirittura del tutto popolare. Ovviamente questo accade nel loro caso soltanto
quando la lingua verrà impiegata nell’uso orale, mostrando dunque una competenza scritta e orale.

1.4 Varietà marginali e semplificazione linguistica


Quando parliamo di varietà marginali ci si riferisce a quelle varietà di lingua che stanno ai margini della variazione (di tutti e 4 i
piani). Possono essere:
-varietà di apprendimento: interlingua;
-varietà di decadenza: varietà impoverite, ridotte, conservate dalle seconde e spesso terze generazioni di emigrati italiani all’estero.

Bisogna delineare il concetto di semplificazione linguistica. Semplificazione linguistica è un rapporto fra due forme o strutture
linguistiche definibile come il processo secondo cui a una forma o struttura X di una lingua si contrappone o si sostituisce una
corrispondente forma o struttura Y della stessa lingua più semplice, dove più semplice significa “di più immediata comprensibilità”.
I tratti che caratterizzano la semplificazione si ritrovano a tutti i livelli della lingua:
-Lessico: un vocabolario più ridotto con termini generici, scarsità di subordinate;
-Morfologia: mancanza di flessione;
-Fonologia: strutture monosillabiche e bisillabiche.

Fenomeni di riduzione della grammatica e di restringimento delle funzioni si hanno anche nei registri semplificati (Ferguson), rivolti
da parlanti competenti a riceventi ritenuti poco competenti: baby talk, foreigner talk (usato con gli stranieri) e simili, ma anche in
varietà di registro particolari come il linguaggio telegrafico, gli appunti, ecc.

Il parametro della semplificazione/complicazione costituisce un’ulteriore dimensione che agisce nel continuum di varietà di lingua.
Semplificazione non deve essere confusa con impoverimento, perché quest’ultimo si riferisce ad una perdita di potere referenziale e
non referenziale o ad una diminuzione del potenziale espressivo.
Nello schema di pag.48 sono distinte tre fasce di varietà, da un massimo di semplificazione a un massimo di complicazione.
• Prima fascia: varietà in cui la semplificazione o la complicazione è operata volutamente per rivolgersi a parlanti poco competenti.
All’estremo di massima semplificazione abbiamo il foreigner talk. Una sottocategoria del foreigner talk è il teacher talk. Ci sono poi
gli stili per scopi speciali, registri impiegati quando serve una riduzione essenziale del contenuto e della forma del messaggio:
linguaggio telegrafico, stile da appunti, stile di comunicazione radio. Un’altra categoria è il baby talk. Un certo grado di
semplificazione voluta la manifestano anche alcune lingue speciali e alcune lingue di servizio (comunicazione radio, inserzioni).
All’estremo di massima complicazione abbiamo invece la gran parte delle lingue speciali e i sottocodici delle scienze.
• Seconda fascia: varietà tipiche di parlanti nativi in cui si manifesta semplificazione non voluta. Lingue in via di estinzione o
decadenza, sono varietà parlate da parlanti terminali o preterminali, ultime generazioni che ancora hanno una competenza ridotta
della lingua. È questo il caso delle varietà alloglotte (comunità che fanno parte di una più ampia comunità di un’altra lingua) o di
varietà di emigranti rimaste presso la seconda, la terza o ultima generazione nel paese ospite. Possono verificarsi in questo caso anche
fenomeni di logorio linguistico, come il language attrition, che comprende una netta semplificazione della morfologia. Nella stessa
fascia abbiamo il settore centrale del continuum, costituito dalle varietà diastratiche e diafasiche dell’italiano. Qui abbiamo un
graduale incremento di complicazione. L’italiano standard va già considerato una varietà con fenomeni di complicazione e non può
quindi rappresentare l’ideale centro del continuum. All’estremo di massima complicazione abbiamo le varietà diafasiche e
diastratiche alte.
• Terza fascia: varietà frutto di una semplificazione non voluta, ma forzosa, presso parlanti non nativi che si ricostruiscono il sistema
imparando la lingua: interlingue, varietà pidginizzate. Nelle varietà pidgin: vi è una grande distanza linguistica e culturale tra la
lingua nativa e le lingue non native in contatto; è una maggioranza dominata ospitante a trovarsi ad imparare la lingua della
minoranza dominante ospitata, di solito straniera; lo sviluppo delle varietà è autonomo, secondo meccanismi propri, e non avviene
verso il target della varietà standard o della varietà della lingua seconda con cui si è in contatto, ma crea una propria grammatica che
in genere non dipende da quella della lingua che fa da input. Spesso ciò accade in situazioni coloniali. La semplificazione quindi è
una dinamica del tutto normale in situazioni di sistemi di contatto. Inoltre bisogna tener conto dell’opposizione fra modo pragmatico
e modo sintattico, quali due poli opposti della strategia di strutturazione linguistica dell’enunciazione verbale. Il modo pragmatico,
caratterizzato dal prevalere della semantica sulla sintassi, è tipico delle varietà a sinistra dello schema ed è direttamente proporzionale
al grado di semplificazione. Il modo sintattico, caratterizzato invece da morfosintassi elaborata, è tipico delle varietà sulla destra.
5. Agli inizi del Terzo Millennio

5.1.Architettura della lingua e nuove varietà diafasiche


La dinamica più rilevante nell’attuale architettura dell’italiano sembra sia legata a una risalita di tratti dal basso verso l’alto: il parlato
cambia e si rinnova sempre più dal basso. Sembra in effetti aumentata la portata della diafasia (specialmente con la gamma di nuove
situazioni d’uso create dalla comunicazione digitale) e diminuita la portata della diastratia (si parla infatti sempre più spesso di un
indebolimento dell’italiano popolare) e della diatopia. Una dinamica del genere è intrinseca nella ristandardizzazione recente
dell’italiano. La diamesia ha subito svariati cambiamenti e questo è accaduto soprattutto grazie all’affermazione delle nuove
tecnologie comunicative. Si è così consolidata una nuova serie di usi della lingua basati su supporto elettronico, che hanno dato luogo
a un insieme di sottovarietà denominabili nel loro insieme lingua della comunicazione elettronica (comunicazione mediata dal
computer), la cui natura è di dialogicità immediata e sincrona. La CMC viene ad occupare una posizione particolare sull’asse
diamesico, mettendo in crisi la tradizionale distinzione tra parlato e scritto: si tratta infatti di una comunicazione linguistica che si
avvale del mezzo grafico, ma che ha caratteristiche strutturali tipiche del parlato spontaneo. La lingua della CMC ha dunque una
collocazione diamesica speciale (pag.56). Le combinazioni tra le caratteristiche parlato/scritto e fonico/grafico danno luogo a quattro
possibili tipi generali di realizzazioni. La CMC va ovviamente ad occupare la casella “parlato grafico”. Ma ciò non basta perché la
CMC è una produzione autentica spontanea mentre la trascrizione di parlato è una riproduzione post factum. Inoltre la CMC si
contraddistingue per interattività ed espressività, che sono tipiche del parlato fonico.

5.2. La dimensione diatopica e i rapporti fra le dimensioni di variazione


La dimensione distopica, a differenza delle altre tre dimensioni, non è rappresentabile come un continuum polarizzato e orientato,
con un asse che vada da un polo al polo opposto ed entro cui si situino gradazioni e addensamenti intermedi, ma costituisce un
continuum lineare orizzontale. Ogni località geografica del territorio dove si parla tradizionalmente italiano ha in una certa misura
una sua varietà di italiano, con alcune differenze rispetto alle località limitrofe. Le diverse varietà diatopiche sono in genere
raggruppate sotto la nozione di italiano regionale. Gli italiani regionali sono il risultato dell’influenza del dialetto retrostante
sull’italiano come si è venuto consolidando nelle varie regioni. Il rapporto fra tratti diatopicamente marcati e le dimensioni diastratica
e diafasica è molto significativo. Due dinamiche molto evidenti nell’ultimo ventennio, come effetto combinato di vari fattori, sono
infatti la fusione, presso le nuove generazioni di parlanti che hanno l’italiano come unica lingua di socializzazione primaria, di tratti
regionali diversi e la progressiva perdita di marcatezza diatopica di molto italiano parlato.
1. Fusione di tratti regionali diversi: Cortinovis e Miola hanno studiato la diffusione nel linguaggio giovanile di Torino e Milano di un
suffisso siciliano come -usu (incazzusu, fitusu …). Insomma, presso le nuove generazioni di parlanti c’è stato un progressivo scemare
della marcatura regionale e si è andata configurando la formazione di un italiano composito, molto poco marcato diatopicamente e/o
con tratti di varia provenienza regionale.
2. Perdita di marcatezza regionale: Cortellazzo sintetizza molto bene la situazione constatando che nelle giovani generazioni,
italofone fin dalla nascita, i tratti locali risultano sempre più attenuati. Adolescenti e giovani adulti hanno spesso un italiano
difficilmente ascrivibile a una precisa caratterizzazione regionale. Si sono creati standard regionali o macroregionali mediamente
colti, spesso poco marcati o marcati macroregionalmente (per cui si dice settentrionale, meridionale e non più siciliano, piemontese).

5.3. Varietà e semplificazione


Un contributo rilevante alle implicazioni pratiche dello studio della semplificazione linguistica viene dai lavori sulla semplificazione
pianificata volta a rendere accessibile l’informazione a utenti socioculturalmente svantaggiati o a rendere più semplice e
comprensibile il linguaggio burocratico e amministrativo. La riformulazione di un testo si basa su vari principi: semplificazione
lessicale, semplificazione mediante cancellazione o parafrasi, ecc…
2. Tendenze di ristandardizzazione

1. Lo standard
Nell’ultimo quarto del Novecento si ha una ristandardizzazione dell’italiano, c’è un avvicinamento tra scritto e parlato → tratti del
sub-standard vengono attratti nella sfera dello standard, dando luogo a un italiano neo-standard, varietà cardine nell’architettura
dell’italiano contemporaneo. Il processo di ristandardizzazione in atto è stato colto negli anni Ottanta. L’italiano ha conquistato nuove
classi di impieghi in cui precedentemente era usato il dialetto ed è divenuto lingua della socializzazione primaria e lingua d’uso di
un’ampia fetta della popolazione; ciò si è riverberato sulla struttura e sullo status sociolinguistico dell’italiano: da una parte ha perso
il carattere di lingua burocratica che aveva negli anni Cinquanta e dall’altra i tratti della varietà standard stanno mutando.
Va fatta una distinzione fra definizione funzionale e strutturale di una lingua standard:
- caratterizzazione funzionale: stabilità flessibile, dovuta a istituzioni codificanti; intellettualizzazione (rendere possibile la
produzione di testi su temi astratti); funzione unificatrice, lo standard serve come legame fra parlanti di varietà sociogeograficamente
diverse e contribuisce a farli sentire membri di un’unica comunità linguistica; funzione separatrice, si oppone ad altri standard
nazionali (simbolo di un’identità nazionale); funzione di prestigio, modello ammirato; e funzione di modello di riferimento, è una
norma codificata.
- codificazione formale: il criterio di codificazione può essere assunto come potenziale tratto discriminante per la nozione di standard,
qualora si presupponga l’esistenza di un codice linguistico come corpo di regole normative su cui poggiano le prescrizioni d’uso.
La proprietà di essere esplicitamente codificata è fondamentale per la sua nozione di lingua standard. In Italia una lingua standard
dotata di tutte le proprietà, è esistita a partire dal Cinquecento e ha preso poi le forme di una varietà sociogeografica particolare. Si
pone quindi il problema della distinzione fra una definizione funzionale, che fa appello a criteri sociali, e una definizione linguistica
che faccia appello a criteri sociolinguistici.

(Ammon dice che lo standard non può essere definito in termini di sovraregionalità perché esistono elementi sovraregionali che non
fanno parte della lingua standard. Dice che nessuno dei criteri sopra elencati può essere preso come criterio assoluto definitorio: la
nozione di standard è quindi la somma di questi criteri, senza che nessuno prevalga sugli altri e sia fondamentale).

Una caratterizzazione linguistica dello standard può prendere due direzioni, una normativa (insieme di tratti che fungono da modello
per l’uso corretto) e una descrittiva (insieme di tratti comuni non marcati lungo i diversi assi). La definizione linguistica è però
intimamente correlata con quella sociale-funzionale: quella normativa implica la funzione di modello di riferimento e della
codificazione (ma anche sovraregionalità e tendenza all’invarianza non citate sopra). Quella descrittiva è più libera rispetto agli
attributi sociali e funzionali, però, riferendosi a un insieme di tratti comini non marcati, deve essere almeno sovraregionale. In ogni
caso, la distinzione fra standard dal punto di vista funzionale e standard dal punto di vista strutturale è utile in linea di principio e può
intervenire se si vuole separare lingua standard e varietà standard di lingua.

Dal momento in cui nel Cinquecento si codificava come standard una particolare varietà del diasistema dei volgari, marcata
geograficamente, socialmente e diafasicamente (lingua scritta letteraria), è cominciato un processo parziale divaricazione: oggi è
improprio identificare la varietà standard dell’italiano con il fiorentino colto tanto che, per quanto riguarda la pronuncia, l’italiano
standard descritto nelle grammatiche è stato definito fiorentino ‘emendato’ (privato dei tratti caratteristici - spirantizzazione delle
affricate palatali e realizzazione fricativa delle occlusive sorde intervocaliche).
Accettando questa formulazione, nessuno in Italia ha come LM lo standard. La pronuncia standard è artificiale, riservata a
determinati gruppi professionali. Tenendo conto che esistano anche parlanti che non rivelano alcun tratto regionale, ci sarebbe una
contraddizione fra le nozioni di standard in senso socio-funzionale e standard in senso linguistico. Dal pdv lessicale e morfologico, si
sono sviluppati mutamenti indipendentemente dal fiorentino e lo stesso fiorentino ha accolto regionalismi. Questo allontanamento è
particolarmente evidente nell’ultimo secolo. Il risultato è che l’italiano toscano non concorda oggi con diversi punti degli altri ita reg.

Il problema dello standard è strettamente legato a quello della norma. Parlando di norma linguistica si possono intendere tre cose:
- norma prescrittiva: modello di comportamento cui ci si deve uniformare il più possibile; il comportamento deviante è errato.
- norma descrittiva: indica ciò che è meno marcato, che va più nel senso delle aspettative e a cui il parlante si conforma.
- norma statistica: si riferisce a ciò che è più frequente, il comportamento esibito dalla maggior parte delle persone.
Secondo la norma prescrittiva, una varietà (lo standard) è migliore delle altre; per la norma descrittiva ogni varietà di lingua ha una
norma propria e quindi non esiste una norma assoluta, bensì diverse norme co-esistenti. La varietà standard, inoltre, non va confusa
con il diasistema degli italiani regionali né con la somma dei tratti comuni: lo standard è dato da ciò che è comune alle diverse varietà
+ ciò che è proprio dello standard (che per definizione non è condiviso dalle altre varietà).

2. Il neo-standard
Nello sviluppo dell’italiano dopo gli anni Sessanta, si sono affermati come standard forme del linguaggio popolare, familiare, volgare
o regionale, dunque, non accettati dalla norme e non descritti dalle grammatiche. A questo insieme di fatti si è dato il nome di
‘neostandard’ (Mioni ‘italiano tendenziale’); questa varietà è più semplice, più vicina alla parlata colloquiale, più variata in diatopia.
Serianni ammette che nel parlato c’è stata un’affermazione di tendenze innovative, che hanno portato ad un nuovo ‘italiano medio’,
ma è molto più cauto circa la possibilità di delineare un nuovo standard. Sabatini ha fornito una lista di 35 tratti fonologici,
morfologici e sintattici panitaliani, usati dalle persone di ogni ceto e provenienza, che rappresentano la diffusione e l’accettazione,
nell’uso parlato e scritto di media formalità, di un tipo di lingua che si differenzia dallo standard ufficiale, soprattutto perché è
ricettivo dei tratti del parlato.
3. Tratti del neostandard

3.1 MORFOSINTASSI

a. Frasi topicalizzate e segmentata


Sono costrutti originariamente marcati e specifici del parlato, frasi con principi di strutturazione diversi rispetto a quello normale
della frase dichiarativa non marcata, in cui il soggetto è tema e dato e sta in prima posizione, e che possono dar luogo a ordini dei
costituenti diversi rispetto a quello tipico dell’italiano SVO.

- dislocazione a sinistra (qui consideriamo anche costruzioni simili come tema sospeso) è un costrutto in cui nella posizione
del tema un elemento della frase che secondo l’ordine normale non sarebbe in posizione tematica; porta a sinistra l’elemento
riprendendolo con un pronome clitico. L’elemento dislocato è il centro d’interesse del parlante. Questo costrutto era già
presente in antichità, ma non nella norma del ‘500.
- dislocazione a destra: distinguere due costrutti diversi, la dislocazione a destra propriamente detta (non ha né pause né
variazioni della curva intonativa e ha la funzione di costruire l’elemento dislocato come tema motivato per il parlante) e il
‘ripensamento’ (caratterizzato da una pausa e dall’interruzione della curva intonativa fra la frase e l’elemento dislocato - le
mangio, le mele). Legato a problemi di pianificazione del parlato. In entrambi i casi si tratta di una costruzione marcata per la
posizione del tema, che viene a trovarsi sulla destra, invertendo l’ordine normale che prevedrebbe la successione tema-rema.
- c’è presentativo: c’è/ci sono che introduce un SN, il quale viene specificato da una relativa esplicativa (c’è un gatto che
gioca in giardino). Il c’è […] funziona da segnale rematico, serve a spezzare una frase in due blocchi monorematici più
semplici e a mettere in rilievo un elemento attraverso la segmentazione così ottenuta. Evita che una frase contenga in blocco
troppa informazione nuova, facilitando la codificazione e la decodificazione, mediante la distribuzione dell’informazione su
due proposizioni. Infatti, introduce un tema che diventa tema della frase relativa che segue.
- frase scissa: SN con il verbo essere (è Mario che ha tirato la coda al gatto). Anch’essa consente lo spezzamento
dell’informazione in due blocchi, ma è marcata per contrastività del SN estratto. Isola il focus indipendentemente dalla sua
natura grammaticale: si possono mettere a focus anche il predicato verbale, gli avverbi, la negazione, ecc.

b. Il che polivalente
Gli usi del che come connettore generico costituiscono un continuum che va dall’italiano standard all’it pop regionale basso. Qui il
che connettivo ha una gamma amplia di impieghi: introduttore generalizzato di relativa, oppure usato per introdurre qualsiasi frase
che riporti un evento. È difficile discernere bene a quali varietà siano da riportare o limitare i vari tipi di usi del che polivalente.
Alcuni usi possiamo ritenerli in via di integrazione nello standard: il che esplicativo-consecutivo (vai tu avanti, che sai la strada –
anche se qui può essere anche ché), il che consecutivo-presentativo (io sono una donna che lavoro), il che introduttore di completive
pseudo relative (io li vedo che scendono), il che enfatizzante-esclamativo (che sogno che ho fatto!).

c. Tempo, modo e aspetto del verbo


Nel sistema verbale dell’italiano appare un insieme di fenomeni, sia per l’uso dei tempi, sia per l’uso dei modi e le maniere per
rendere fatti aspettuali, non morfologizzati dal sistema verbale italiano.
Ristrutturazione dei rapporti fra i tempi dell’indicativo: accanto ad alcuni tempi andati in disuso (trapassato remoto), ci sono altri che
sembrano in espansione (imperfetto). Questo tempo tende a coprire tutti i valori cosiddetti controfattuali: impieghi di ‘cortesia’
(volevo un chilo di mele), di creazione di mondi possibili, come nella narrazione di sogni o giochi infantili (correvo su un prato), nel
periodo ipotetico dell’irrealtà (se venivi prima…), nel discorso indiretto per indicare il futuro nel passato (mi ha detto che veniva),
ecc. Nel primo e nell’ultimo caso, l’imperfetto è un potente concorrente del condizionale. Il passato prossimo sembra anch’esso in
espansione, a spese del passato remoto, ma anche al posto del futuro anteriore (fra un mese ho finito gli esami). Il futuro perde ambiti
d’uso anche nei confronti del presente (vengo domani), ma è molto vivo negli usi epistemici (chissà se sarà in casa). Un topos attuale
è la ‘morte’ del congiuntivo: parlare di morte è esagerato, ma è sicuramente in recessione per quanto riguarda le frasi subordinate,
soprattutto in dipendenza da verbi di opinione. Per quanto riguarda i valori semantico-funzionali nelle frasi subordinate, il
congiuntivo ha un doppio valore semantico e sintattico: esprime incertezza, dubbio, possibilità, desiderio e indica la subordinazione
della frase. A volte può essere alternato con l’indicativo (non so se Carlo sta bene), ma non in alcuni casi (cerco un gatto che non
graffi le poltrone). Esistono attestazioni della presenza dell’indicativo al posto del congiuntivo nell’italiano antico, ma dal
Cinquecento all’Ottocento si consolida il congiuntivo. Tuttavia, il neo-standard sembra sulla via della progressiva estensione
dell’indicativo. Fra le cause di questo fenomeno, c’è sicuramente la tendenza alla semplificazione: in alcuni casi l’uso del
congiuntivo è superfluo e la sua decadenza è dovuta al fatto che è una struttura ridondante.
Nell’italiano contemporaneo ha preso molto piede la costruzione stare + gerundio che esprime l’aspetto progressivo dell’azione; in
passato si usava solo per la duratività di uno stato e non per un processo trasformativo, ora ha sia l’aspetto progressivo che continuo.
In espansione è anche l’uso di si + 3ps per indicare la prima persona plurale (si va x andiamo). È un tratto toscano che presenta
sintomi di diffusione, anche se ancora marcato in diatopia. È difficile stabilirne la diffusione, può essere confuso con il ‘si’
impersonale.

d. Pronomi
Fenomeni di ristandardizzazione e ristrutturazione più ampi dell’italiano contemporaneo, specialmente nei pronomi personali. Il
sistema pronominale personale dello standard è sovraccarico di differenziazioni e forme, conta almeno 28 elementi tra tonici e clitici,
che realizzano in maniera non regolare e con doppioni, quattro fondamentali opposizioni grammaticali: numero (singola/plurale),
genere (maschile/femminile), caso (soggetto/oggetto/oggetto indiretto/ avverbiale), animatezza (animato/inanimato, anche se non si
usa più). Il tutto è complicato da differenziazioni diatopiche e diafasiche (lei\ella), dalle numerose forme polisemiche (vi clitico
oggettuale, obliquo, avverbiale), incongruenze formali (loro è sia parola piena che tonico, che clitico).
- pronomi personali soggetto: nell’italiano medio si è risolto mantenendo solamente lui, lei, loro, lasciando allo scritto
piuttosto sorvegliato le forme egli, ella, esso.
- clitici dativali: tendenza a uniformare il microsistema dei clitici obliqui dativali, conguagliando l’opposizione
maschile/femminile e singolare/plurale su uno gli sincretico. Comunemente accettato l’uso di gli per loro, mentre il maschile
gli per il femminile le fa più resistenza. A lungo termine, non è infondato prevedere un conguaglio di gli, dato che da una
parte i casi obliqui di terza persona sono meno connessi coi partecipanti, d’altra parte gli entra in un gioco di opposizioni
molteplici, opponendosi a lui per atonia, a loro per numero, a le per genere, a lo per caso, ed eventualmente a ci per il tratto
+animato. Gli tenderebbe a rimanere l’unico vero pronome personale atono obliquo di terza persona e ci ne costituirebbe una
variante (vorrei dargli/darci un’occhiata).
- ci: il ci è in prevalenza rispetto al vi come locativo. E’ anche in espansione in accompagnamento ad alcuni verbi o in casi di
verbi pronominali (portano specializzazione semantica rispetto al corrispondente non pronominale – starci > essere
d’accordo), oppure con valore rafforzativo, in cui il ci diventa un morfema legato (vederci > vedere bene), oppure ancora
come dativo etico con verbi che implicano un forte coinvolgimento del soggetto (mi rileggo la tesi di laurea).
- ne: tendenza ad automatizzarsi come ripresa clitica ridondante, specialmente con verbi come parlare dando luogo a
dislocazioni a sinistra o a destra o a delle frasi relativa con ripresa clitica (della Francia ne parleremo nella prossima puntata).
- lo: clitico usato per riprendere anaforicamente o cataforicamente una proposizione o un predicato (lo credo bene che hai
fame). Talvolta dà vita a verbi con clitico grammaticalizzato (capirlo, crederlo, saperlo). Il clitico può tendere poi a risalire in
prima posizione (lo devo aiutare), oppure no (devo aiutarlo): i pareri sono contrastanti.
- pronomi dimostrativi: l’uso di ciò è soppiantato da questo/quello quando non segue una relativa. Codesto è in disuso.
Inoltre, vi è un movimento a catena: quello viene usato anche come aggettivo desemantizzato, senza più valore di indicativo o
deittico, ma come semplice sostituto dell’articolo determinativo.
- pronomi interrogativi: cosa come pronome interrogativo neutro ha guadagnato terreno rispetto allo standard che cosa/che; è
una semplificazione che si vede soprattutto al nord, dove c’è un influsso anche del sostrato dialettale.
- pronomi relativi: anche questo è un sistema sovrabbondante; il quale tende ad essere sostituito nei casi retti da che e nei casi
obliqui da cui, ma resta vivo nello scritto, con effetti di sovratono.

e. Altri fenomeni
- congiunzioni subordinanti: tendenze alla specializzazione. Perché sta diventando la forma normale di congiunzione finale,
mentre siccome e dato che prevalgono come causali. Così è molto frequente nel parlato con valore consecutivo-finale-
esplicativo (giriamo di qua così imbuco via...). Perché è anche usato nel parlato come introduttore di una frase principale con
valore esplicativo-argomentativo (all’incirca al posto di infatti). Inoltre, sembra che si stia diffondendo un uso più esteso di
per + infinito presente con valore causale (mi sono rotto un braccio per andare a sciare).
- forme interrogative: come mai è usato di frequente al posto di perché, appare in espansione anche com’è che. L’influsso
dell’inglese ha portato alla diffusione della doppia interrogativa.
- concordanze: largamente accettata risulta la concordanza del predicato verbale quando il sogg è un nome collettivo seguito
dal suo complemento partitivo (un gruppo di ragazzi si sono affacciati). Altrettanto diffusa è la mancata concordanza del
predicato verbale con un soggetto al plurale, quando il soggetto è posposto, in particolare con la forma esistenziale o locativa
c’è (c’è molti pini).
- nomi giustapposti: sintagmi in cui il nome reggente è solo giustapposto alla dipendenza, mentre la norma prevederebbe
l’inserzione di un di (la legge del 1964 > la legge 1964). Ne risulta una struttura modificando + modificatore (N+N) con due
formule: una in cui il legame implicito vale una preposizione specificante (scuola guida, treno merci, fine settimana, sala
parto), una in cui il legame implicito equivale a una relativa appositiva (in cui il secondo N funge da agg - indagine pilota,
uomo rana, donna poliziotto). Nato di recente, mutuato dall’inglese, il costrutto in cui di due nomi giustapposti il primo funge
da modificatore e il secondo da modificato (secondo un ordine estraneo all’italiano – Vasco-pensiero).
- elativo: per il superlativo degli aggettivi sono diventate frequenti le forme analitiche (quanto mai, assai) o prefissazioni
(stra-, extra-, ultra-). Si sono diffuse anche forme di elativizzazione o intensificazione per i nomi secondo quattro moduli:
. estensione del suffisso aggettivale -issimo anche ai sostantivi (campionissimo)
. ripetizione del nome (caffè caffè)
. prefissazione con super- (superbollo, supermulta).
. uso avverbiale di gran per elativizzare gli aggettivi e i sostantivi (gran bella moglie, gran signore).
- metaplasma: spostamenti codificati della classe grammaticale di appartenenza di serie di parole. Gratis, bis, niente, no,
bene, super, ecc. vengono usati spesso come aggettivi dando luogo a una classe di aggettivi invariabili. In espansione anche
l’impiego di aggettivi in funzione avverbiale (mangiare sano, guidare veloce). Un altro modulo frequente è l’uso sostantivato
di aggettivi (il privato nel senso di ‘la sfera privata’, l’immaginario ‘tutto ciò che pertiene al mondo della fantasia’).

Si possono quindi individuare alcune tendenze di ristandardizzazione che si stanno verificando nella morfosintassi:
- una prima direzione vede l’ottimizzazione del rapporto tra forme, strutture e funzioni, attraverso la semplificazione e
l’omogeneizzazione di paradigmi e l’eliminazione o la riduzione delle irregolarità. Questo non significa che l’italiano sta diventando
una lingua ‘più semplice’. Fatti di semplificazione e regolarizzazione concernono un dato microsistema, paradigma o struttura che
porta poi a una ristrutturazione. Ad esempio, l’eventuale scomparsa del congiuntivo con i verbi d’opinione può dar luogo all’esigenza
di reintroduzione avverbiale che esplicita la modalità della frase (credo che venga -> credo che probabilmente viene).
- una seconda direzione è quella di sostituire costrutti di tipo sintetico a costrutti di tipo analitico e alla grammaticalizzazione, cioè
desemantizzazione di elementi come deittici e pronomi clitici che tendono a diventare elementi vuoti o morfemi grammaticali. Anche
l’alternanza di fatti sintetici e fatti analitici è comune allo sviluppo delle lingue. Molti dei fatti di ristandardizzazione morfosintattica
dell’italiano acquistano significato se osservati in un’ottica romanza generale.
- una terza direzione è connessa con l’ordine SVO: diffusione di SN o composti in cui il modificatore precede il modificato.

Veri e propri mutamenti avvengono solo su tempi lunghi, non nell’arco di pochi decenni. I fenomeni che abbiamo osservato
riguardano la norma, non il sistema vero e proprio.
3.2 LESSICO E FORMAZIONE DELLE PAROLE
I fatti lessicali sono meno interessanti per cogliere le tendenze interne del sistema linguistico, poiché il lessico è il livello di analisi
più esteriore della lingua, esposto maggiormente alle influenze extralinguistiche e alle mode del momento. Tuttavia, è indubbio che
negli ultimi decenni c’è stata una larga accettazione nel neo-standard di termini in origine molto marcati socialmente,
geograficamente, gergalmente ed espressivamente, che hanno perso gran parte della loro marcatezza e vengono comunemente usati
anche nel parlato non enfatico né espressivamente motivato.

a. Perdita di espressività
C’è stata una perdita di espressività data da:
- standardizzazione del temrine del registro basso che costituiva una coppia sinonimica con un altro termine del registro
formale: arrabbiarsi\adirarsi, per forza\necessariamente;
- desemantizzazione di termini fortemente espressivi e contestualmente marcati: balle ‘sciocchezze’, casino ‘confusione’.
- locuzioni nominali di origine espressiva che si usano sempre più spesso in luogo di quantificatori\avv negativi\avv
esclamativi: un mucchio, un sacco, un mondo;
- Riduzione degli allotropi: giovane\giovine, lacrima\lagrima.

b. Neologismi
Per quanto riguarda la formazione delle parole, solo una parte è costituita da neologismi in senso stretto, dato che ci sono sia
neologismi semantici (curva per indicare i posti allo stadio), sia parole già esistenti specializzatesi in un’associazione contestuale
particolare (pillola per ‘contraccettivo femminile’), sia espressioni sintagmatiche che tendono a essere usate come sintagma fisso
(maggioranza silenziosa, darsi una regolata, rivoluzione culturale). Escludendo queste categorie, rimangono due fonti classiche di
neologismi in senso proprio:
- i meccanismi di formazione delle parole: evidenziatore, gommone, paninoteca, ventiquattrore, ecc.
- i prestiti e calchi da altre lingue: nel dopoguerra ne sono entrati tanti e successivamente i contatti internazionali si sono
sempre più intensificati, anche le innovazioni scientifiche e tecnologiche hanno contribuito alla diffusione di molti
forestierismi. Gli anglicismi non sono più del 10%, e la gran parte dei forestierismi e degli anglicismi tende a concentrarsi
nello scritto invece che nel parlato quotidiano; inoltre, la presenza di anglismi è più considerevole nei linguaggi settoriali e
presso certi gruppi di parlanti; infine, sono abbastanza numerosi i calchi, i quali turbano meno la struttura della lingua, che li
accoglie rispetto ai prestiti la cui forma non rispetta le regole di formazione delle parole nella lingua di arrivo.
Va fatto cenno anche a quei termini stranieri che in italiano subiscono sviluppi autonomi dal punto di vista semantico e
formale (golf, capo d’abbigliamento - night-club che si semplifica in night - il sostantivo snob che diventa aggettivo, ecc.)
Inoltre, spesso il prestito serve da base lessicale per costruire derivati autoctoni, sia prefissati che suffissati. Infine,
specialmente nella terminologia tecnico-scientifica, una parte di anglicismi che penetrano in italiano è costituita da prestiti di
ritorno di origine latina e greca.

c. RFL
- suffissi: fra le classi suffissali in netta espansione:
- Suffissati nominali in -ista con il valore di chi aderisce a qualche movimento o attiene a qualche attività particolare es.
femminista, nomi di mestiere come progettista, caratteristica di chi fa o si occupa di qualcosa come generativista;
- Suffissati nominali in -ismo spesso correlati con i precedenti (decisionismo, stragismo, maomismo…)
- Suffissati nominali in -zione e in -mento, spesso sinonimi anche se il primo mette l’accento sull’azione e il processo e il
secondo indica meglio l’effetto e il risultato, cfr. regolamento/regolazione;
- Suffissati verbali in -izzare, suffisso che ha anche una connotazione anglicizzante e internazionalizzante;
- Suffissati aggettivali in -ale, suffisso anch’esso anglicizzante e particolarmente produttivo nel settore tecnico-scientifico
(operazionale, medicale).
- suffisso -eria per indicare esercizi commerciali, largamente produttivo, frequentemente unito anche a basi straniere
(champagneria, jeanseria). L’ambito commerciale rimette in auge anche suffissi tradizionalmente poco produttivi come -
ereccio (effetti letterecci, prodotti caserecci).
- derivazione zero
- prefissi: nel neo-standard sono largamente produttivi i prefissoidi come inter-, mega-, tele-, para-, mini-, post- che creano
anche nessi consonantici estranei alla struttura dell’italiano (poststrutturalista, postbellico), super-, pluri-, bio-, euro-.
- composti: frequente è anche la coniazione di parole complesse per cumulo di suffissi, cioè nomi composti come
nazionalizzabilià oppure composti plurimembri come teleradiocomunicazioni, sociopsicolinguistico che possono essere scritti
anche con trattino. A metà fra derivazione e composizione troviamo numerosi termini coniati con lo pseudosuffisso -màtica
telematica, informatica ecc. a cui rimandano per echi di significante i derivati tecnologici in -ica (robotica).
- sigle e le abbreviazioni: le sigle sono pronunciate come parole e possono anche dare luogo a derivati; le abbreviazioni sono
accorciamenti di parole più lunghe

Nel complesso, per quel che riguarda il lessico e la formazione delle parole il sistema dell’italiano sembra orientarsi secondo tre
tendenze fondamentali:
- la preferenza per espressioni sintetiche invece che analitiche (prefissazioni, suffissazioni e composizioni, sigle);
- l’azione di fatti semplificanti ed economici (abbreviazioni, sigle, prefissi e suffissi molto produttivi e polifunzionali);
- la spinta a conformarsi a uno standard europeo, prendendo cioè dalle lingue europee alcuni moduli lessicali, incrementando quelli
già propri in italiano che abbiano un parallelo in inglese, tedesco, francese, ecc.
Naturalmente, anche nel lessico è presente la tendenza generale a diminuire la distanza tra standard scritto e parato medio, con
l’assunzione nel neo-standard di termini un tempo substandard. I fenomeni profondamente innovativi sono molto pochi e marginali: i
più rilevanti sono l’accoglimento di forestierismi senza adattamento alla morfologia dell’italiano e la coniazione di sigle e di derivati
prefissali che violano le regole morfofonologiche e fonotattiche della struttura della parola in italiano.
3.3 TESTUALITA’, PRAGMATICA E COSTUME LINGUISTICO
Nell’italiano contemporaneo c’è una progressiva tendenza a semplificare la struttura del periodo, nel duplice senso paradigmatico
(concentrazione su un numero più limitato di costrutti molto frequenti) e sintagmatico (preferenza per costruzioni paratattiche
rispetto a costruzioni elaborate).

a. Congiunzioni e struttura del periodo


- Si usa un numero ridotto di connettivi fondamentali dal largo spettro semantico e polifunzionali: addensamento su un nucleo
di congiunzioni cardine: perché, se, quando, come, mentre. Si preferiscono costruzioni poco marcate semanticamente.
- vi è un deciso incremento della nominalizzazione, sia sotto forma dell’impiego di frasi nominali, sia sotto forma di un
aumento dei costituenti nominali di una frase.
- sono diminuite la lunghezza e la complessità media del periodo, mentre in alcuni settori sono aumentate → è stato osservato
l’uso di perifrasi verbo + complemento invece del semplice verbo (dare lettura per ‘leggere’, effettuare il pagamento per
‘pagare’). Questo è un modulo tipico del linguaggio burocratico ma in diffusione anche nella lingua comune appena un po’
sostenuta. Alcune di queste perifrasi hanno una particolare sfumatura aspettuale (dare comunicazione per ‘comunicare’
aggiunge un aspetto processuale).
- diffuse sono anche formule riempitive desemantizzate che diluiscono il discorso (viene ad essere x ‘è’, quello che è, a livello
di, di tipo). Queste formule lasciano maggior agio alla pianificazione linguistica del parlante e lasciano fluire meglio il
discorso, facilitando anche la decodificazione all’ascoltatore. Evitano anche di compattare troppa informazione in un’unica
unità semantica, dunque, anche se sono superflui da un punto di vista semantico, sono utili da un punto di vista funzionale.
Stesso discorso vale per la diluizione di un gruppo nominale in un nome seguito da relativa (parliamo di libri che sono stati
ben accolti dalla critica > parliamo di libri ben accolti dalla critica). Una certa giustificazione pragmatica possono avere
anche i riempitivi e intercalari molto frequenti nell’italiano parlato, come cioè.

b. Pragmatica
Dal pdv pragmatico, fenomeni evidenti sono:
- il mutamento nel sistema dell’allocuzione: si tende sempre più ad usare l’allocutivo tu anche in situazioni formali, oltre alla
conclamata sostituzione del voi tipico del periodo fascista.
- la detabuizzazione di sfere semantiche e lessicali tradizionalmente interdette: lessemi normalmente osceni si diffondono
nell’uso perdendo anche parte della loro marcatezza (Cazzo e casino sono emblematici di questa ‘trasgressione’ verbale ormai
regolarizzata). Una seconda sfera di discorso prima tabuizzata e venuta in primo piano è il parlare di sé. Il tabù della persona
e della sua sfera privata o intima è intenzionalmente violato: oggi si parla molto più di fatti personali, sessuali, psicologici. I
mutamenti delle abitudini di comportamento linguistico sono in stretta connessione con nuove fonti di linguaggio che il
mutare della società innesca. Per la loro natura, i fatti di costume linguistico danno l’impressione di un ricambio accelerato
della lingua, ma in realtà la loro incidenza su un mutamento effettivo della norma o del sistema è molto meno diretta di quel
che si potrebbe pensare. La moda di un certo periodo non lascia effetti sensibili e duraturi sulla struttura linguistica e
sull’architettura nelle varietà di italiano.

c. Altri fenomeni
- Convenzione grafica di utilizzare virgolette non solo per il discorso diretto, ma anche per intendere il significato particolare che va
assegnato ad una data parola.
- La duplice reggenza preposizionale dello stesso SN su modello anglosassone.
- Espansione dell’uso delle maiuscole per enfatizzare nomi comuni.

3.4 FONOLOGIA
Nessuna pronuncia regionale è riuscita a diventare effettivo modello nazionale unitario. È invece avvenuta in modo massiccio,
specialmente nel Settentrione, la diffusione di una pronuncia fondamentalmente basata sulla grafia che non attua le distinzioni non
rappresentate graficamente (come l’apertura e la chiusura di E e O). La situazione presso le classi colte è la presenza di diversi
accenti standard regionali ben consolidati e in equilibrio stabile. Tali standard fonetici regionali sono differenti specialmente nella
curva intonativa, che rimane il carattere più radicato dell’accento regionale. Fra i giovani, invece, sembra che emergano meno
particolarità fonetiche regionalmente marcate. Fra i caratteri più noti degli standard fonologici regionali che costituiscono sul
versante della pronuncia il cosiddetto neo-standard vanno citati:
- Una certa indifferenza per le realizzazioni aperte e chiuse di e e di o
- Un allargamento delle strutture fonologiche accettabili, con una progressiva accettazione di terminazioni consonantiche delle parole
come sport, jeans, stop
- Realizzazione variabile del raddoppiamento fonosintattico
- Progressivo abbandono di fatti eufonici come la i- prostetica, le varianti delle preposizioni articolate fuse come pel, col, e l’elisione
o il troncamento dell’articolo davanti a vocale.

Quanto ai rapporti fra gli standard regionali, gli influssi reciproci sembrano scarsi proprio perché i vari accenti regionali sono stabili e
consolidati.
4 Stato attuale e prospettive
In linguistica, è arduo fare previsioni che vadano al di là delle ovvietà. In questa ovvietà rientra la tendenza di avvicinamento tra
scritto e parlato. Non mancano le preoccupazioni di alcuni linguisti sul decadimento dell’italiano: è indubbio che l’essere diventato
lingua di massa ha causato alcuni fenomeni strutturali importanti e ha reso dominanti usi non dotti, ma tutto questo non autorizza a
giudizi critici allarmati sulla sorte della lingua. Per il linguista risulta interessante chiarire quali siano le varietà di lingua
all’avanguardia dei cambiamenti che stanno avvenendo e quindi suscettibili di prefigurare l’evoluzione futura dello standard. A
questo proposito, molti autori hanno sottolineato l’importanza dell’italiano popolare che sembra essere il maggior centro di
innovazione linguistica della lingua italiana.
Le opinioni, invece, discordano per quanto riguarda gli italiani regionali: da un lato, si pensa che assorbiranno i dialetti, portando a
un’opposizione italiano-varietà regionali di italiano (al posto di italiano-dialetti locali); dall’altro lato, si ritiene che le varietà
regionali di italiano siano delle entità provvisorie che rappresentano una fase di transizione verso l’italiano nazionale.
I tratti sub-standard di metà Novecento sono stati indubbiamente promossi, o sono in via di promozione, a tratti standard; il loro
inventario sembra essere destinato ad arricchirsi di nuovi tratti derivanti dallo scivolamento dei dialetti in varietà basse di italiano, e
dalle varietà diafasiche più basse, secondo un processo a catena.
La (ri)standardizzazione in molti casi consiste in una perdita di marcatezza di elementi prima marcati che, attratti nell’orbita dell’uso
normale, coesistono con la forma standard come varianti più o meno libere dal punto di vista sociolinguistico. Un secondo aspetto è
che una buona parte dei tratti apparentemente innovativi nell’italiano contemporaneo erano in qualche misura già attestati
nell’italiano delle origini in una prospettiva panromanza. Una sorta di radicamento nel passato che da un lato ha il carattere di
conservazione e della sopravvivenza, dall’altro quello della reviviscenza e rinnovata vitalità.

5 Agli inizi del Terzo Millennio

5.1 La ricerca sull’italiano neo-standard


Nella prima decade del terzo millennio sono stati fatti nuovi studi con nuove prospettive di analisi e interpretazione dei fenomeni,
con agganci più diretto alla teoria linguistica generale e all’analisi sociolinguistica. In questo decennio avviene anche una novità
metodologica notevole: l’applicazione di un approccio generativo ai fatti sub-standard e ai fenomeni di ristandardizzazione.
Contemporaneamente, è incrementata l’attenzione agli usi settoriali della lingua, in particolare nei vecchi e nuovi media. Negli anni
‘80 prevalevano le critiche, ora principalmente gli studi vertono su 3 obiettivi: i problemi costituiti dagli usi semplificanti e
banalizzanti della comunicazione digitata, la connessa lamentela sulla lingua povera di giovani e adolescenti e la ridotta portata
internazionale dell’italiano nel quadro della globalizzazione mondiale e del multilinguismo dell’UE.
Nuova standardizzazione:

5.2 Morfosintassi
I tratti propri di varietà basse emergono significativamente anche nell’italiano di parlanti colti e/o di registro controllato (parlato
giornalistico alla radio). Invece, i tratti ritenuti diatopicamente marcati risultano tratti in buona misura panitaliani o comunque
interregionali (verbi sintagmatici ritenuti tipici di varietà settentrionali: metter su, buttare via o dell’accusativo preposizionale tipico
dell’italiano meridionale). Generalizzata è anche la diffusione della risalita dei clitici, più comune negli italiani regionali meridionali
(lo voglio fare, ti vengo a trovare).

- Aggettivi prenominali: nonostante sporadiche occorrenze, non risulta in diffusione la tendenza a collocazioni prenominali di
aggettivi restrittivi, richiedenti obbligatoriamente collocazioni postnominali (risulta esserci un clandestino mercato).
- Pronomi personali: l’intrecciarsi di una complessa griglia di forme è un terreno propizio a dinamiche di ristrutturazione. Ciò porta a
una semplificazione del microsistema con neutralizzazione o riduzione delle opposizioni di numero e genere, mentre le opposizioni
di caso resistono meglio.
- Ci + verbo: il ruolo sintattico di ci è diventato quello di un complemento del verbo avere e in quanto tale contribuisce a definire il
valore lessicale della predicazione. Nascita del verbo centrare ‘aver a che fare con’ oppure c’entrare con clitico in proclisia
riscorporato nella grafia.
- Ne + verbo: diffusa la tendenza a fissarsi sul verbo di ne clitico genitivale obliquo e partitivo. Il fenomeno è particolarmente
frequente nelle proposizioni relative ed emerge anche nello scritto. Questa presenza ridondante del ne è un’estensione
desemantizzante che trae la sua genesi dalla frequenza delle dislocazioni a sinistra e delle frasi relative analitiche con ripresa
pronominale clitica. Al contrario, è diffusa anche l’omissione di ne laddove sarebbe obbligatorio (al lui succedono di tutti i colori).
-Sovraestensione di le: a invadere lo spazio di gli/loro dativi, tipico tratto di italiano popolare regionale; presente anche in una
gamma di variazione più ampia, sia in impieghi deittici (le ho dato x a una persona di sesso maschile), sia in impieghi anaforici (mio
papà era con me, le piaceva andare a dormire presto). A spiegare tale fenomeno contrario alla ben nota estensione di gli, intervengono
fattori di sovrapposizione fra pragmatica sociale e morfosintassi, data la possibile associazione della forma Lei di cortesia
neutralizzato per genere. Per ora è più frequente la sovraestensione di gli per le, mentre è sporadica quella di le per gli. Un’altra
sovraestensione è l’impiego del possessivo di terza persona singolare suo con riferimento plurale (tutti hanno le sue ragioni).
- Congiuntivo: stabile in subordinate rette da verbi di volontà, ma lascia spazio all’indicativo anche in contesti alti. Ma la sostituzione
del congiuntivo con l’indicativo è lontana da valicare la frontiera parlato\scritto.
- Che: che polivalente con valore eventivo, complementatore generico che inserito in molteplici costrutti iniziali di frase con valore
focalizzante aventi un avverbio nella posizione specificatore (non che […], mica che […], solo che […], ecc.).
- Frasi ipotetiche: usi particolari: ellissi della congiunzione condizionale nella protasi (ciò che non bastasse…); clausole ipotetiche
libere, cioè subordinate condizionali introdotte da se (qui se si comincia…ecco ora capisco…).
- Nomi invariabili: incremento di questa classe (euro). Questo fenomeno tocca la quasi generalità dei prestiti e può essere inquadrato
in una tendenza semplificante a organizzare i sostantivi in tre classi di flessione (maschili in o\i, femminili in a\e, nomi con altre
terminazioni invariabili).
Influenza anglosassone:
- Doppia interrogativa: nonostante l’apparente mancanza di produttività sembra in espansione.
- Superlativo relativo ordinale.
- Grazie di/per + infinito presente.

Alcuni tratti di superficie, fra lessico e morfosintassi ma che non toccano le strutture del sistema, sono due casi di estensione dell’uso
di avverbi in -mente
- primo caso: maggiormente usato, spesso al posto di più / di più comparativo (chi utilizza maggiormente i social network?);
- secondo caso: uso di leggermente al posto di un po’/abbastanza (sono leggermente pazza).
Sono entrambi antieconomici dato che introducono alternative sinonimiche non funzionali. La loro genesi è dovuta alla tendenza a
elevare il registro, a tecnicizzare il discorso. Anche l’uso di circa come modificatore di cifre piccole si colloca in questa tendenza
complicante. Così come l’estensione d’uso di tipo nel senso di ‘per esempio’.
Tra i fatti linguistico-pragmatici totalmente superficiali e di costume sono “plastismi” (formule di linguaggi settoriali prive di
particolare funzionalità che vengono assunte per imitazione nella lingua comune come dei clichés). Si segnalano anche altri tratti:
- L’uso marcatamente e inizialmente milanese, ma ora diffuso di piuttosto che con valore disgiuntivo e non di ‘o, oppure’;
- L’uso di quant’altro col valore di ‘eccetera’ di provenienza burocratica;
- L’uso di forme attenuative (un momentino, un tantinello, e in generale diminutivi con valore di mitigazione);
- L’uso della formula negativa non esiste! Con il significato di ‘non è vero, è impossibile / assurdo, non ha senso’;
- L’uso di vocativo di indirizzo cari tutti, frequente nello scritto e la formula di augurio buon tutto;
- Dinamiche nel sistema dei saluti come l’affermarsi generalizzato di buona giornata, buona serata come sostituti complementari
risemantizzati per buon giorno, buona sera; salve impiegato come saluto generale neutralizzato; ciao ciao come saluto di congedo.

5.3 Lessico
Nella formazione di neologismi hanno grande produttività suffissi e suffissoidi (-ismo -ista -logo -logia) o prefissoidi (euro- extra-, e
prefissoidi elativi mega- maxi- iper- post- la cui produttività giunge alla lessicalizzazione come parola autonoma), suffissazioni
desuete (-aggine e -itudine, nella lingua dei giovani i collettivi -ame -ume) e di genere (-a anche per i mestieri - ministra, sindaca).
Notevole fortuna nel linguaggio giornalistico hanno avuto i nuovi formativi -poli e l’americano -gate (sexgate). Diffusi anche mal-
come prefissoide, parallelo a mala- come primo membro di parole composte. Composti nome + nome (baby-spacciatore, batterio-
killer…).
Per quel che riguarda i mutamenti di significato, di frequenza d’uso e di estensione dei contesti di applicazione, lessemi che meritano
di essere segnalati per la loro pervasività sono: importante, criticità, intrigante, tempistica, valoriale, attrattivo, relazionarsi.
Quanto ai forestierismi, l’impressione è che la presenza e la frequenza degli anglismi siano accresciute, soprattutto per l’influsso
della lingua dell’informatica e della comunicazione digitata, ma dell’economia. Abbondano poi i prestiti integrali, prestiti adattati e
assimilati, calchi palesi e nascosti. Mentre continua la pervasività di ibridismi costituiti da una radice lessicale inglese e un morfema
derivazionale italiano (chattista, killeraggio, debuggare, performante) e i composti nominali misti come cyberspazio.
Numerose le parole macedonia e da rimarcare la nascita del prefisso e- da elettronica ma pronunciato all’inglese [i].
3. Italiano popolare

1. Problemi di definizione
- De Mauro (1970): “modo d’esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che
si chiama lingua ‘nazionale’” e rappresenta una norma d’uso della lingua italiana che può essere chiamata italiano popolare unitario;
- Cortelazzo (1972): “il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per lingua madre il dialetto”.

Le due definizioni hanno fondato due linee interpretative diverse, una attenta alle spinte comunicative ed espressive, l’altra rivolta al
risultato, un italiano che appare ‘imperfetto’. Cortelazzo suggerisce di analizzare l’italiano popolare propriamente come una varietà
di apprendimento fossilizzata, cioè come un sistema approssimato a partire da una L1 (dialetto) a una L2 (italiano standard), quindi
un grado di approssimazione all’italiano standard sentito come accettabile ai fini di una comunicazione non sofisticata.
- Altri studiosi definiscono l’it pop come quello delle classe subalterne, altri riferendosi all’italiano popolare come registro basso.
Si è d’accordo che l’italiano popolare sia una varietà di lingua (co-occorrenza di tratti linguistici con determinati tratti extra).
- Non c’è dubbio quindi che la via da percorrere sia quella che fa riferimento ai caratteri sociolinguistici e che porta a definire
l’italiano popolare come una varietà sociale dell’italiano, caratterizzata in diastratia, tipica di strati sociali bassi, incolti e semincolti.

2. Problemi di sostanza
- Un primo argomento dibattuto è la sua ‘unitarietà’ attribuita da molti autori. Spesso, infatti, si sente parlare di ‘italiano popolare
unitario’. Una buona parte dei tratti morfosintattici che contraddistinguono l’it pop sembrano diffusi indipendentemente dalla
provenienza regionale, ma un it pop veramente unitario non esiste: la marcatezza diatopica è preliminare a tutte le altre dimensioni di
variazione, perciò si potrebbe parlare di italiani popolari regionali. Comunque, va considerato unitario nel senso che si tratta pur
sempre di italiano e ha tratti sub-standard della gamma ammessa dall’it.
- Un secondo punto critico a proposito di italiano popolare riguarda la delimitabilità con altre varietà nella gamma di variazione della
lingua italiana contemporanea (it parlato colloquiale e it regionale). Abbiamo detto che l’italiano popolare è una varietà diastratica,
mentre l’italiano parlato colloquiale è un registro. Designare l’italiano popolare come un registro dell’italiano implicherebbe che esso
coesista nei parlanti con altri registri dell’italiano, mentre l’it pop è nei parlanti come unica varietà di italiano a disposizione. Per
quanto riguarda il rapporto con l’it reg, possiamo dire che la marcatezza regionale e quella sociale si sommano per dare luogo a tanti
italiani regionali popolari. Quindi, un it pop sarà sempre un it reg e un it reg socialmente basso sarà sempre un it pop.
- Un terzo problema è che i lavori descrittivi hanno preso per lo più in considerazione testimonianze scritte (e infatti a lungo si è
considerata la lingua scritta delle persone non istruite), ma in primo luogo l’italiano popolare è una lingua parlata, e solo
secondariamente scritta.
- Tra i problemi ancora aperti c’è la nascita dell’italiano popolare. Secondo De Mauro, l’italiano popolare sarebbe nato inei primi
decenni del Novecento, in particolare in occasione ella Grande Guerra, dunque, a seguire dei mutamenti culturali, sociali ed
economici succeduti alla formazione di uno stato unitario e alla prima industrializzazione. Nell’uso scritto è ampiamente
documentato che incolti e semincolti nei secoli passati usavano già un italiano regionale popolare molto marcato, simile all’italiano
popolare novecentesco. Presso parlanti che avevano il dialetto come esclusivo codice parlato, dovevano avere nello scritto un codice
vicino a quello che oggi conosciamo come italiano popolare e possiamo attestarlo già nel Cinquecento/Seicento. È improprio
affermare che l’it pop nasca negli ultimi cento anni ed è chiaro che le varietà del 500/600 e quelle di 800/900 siano diverse. Del resto,
sarebbe strano se una qualche varietà non aulica non avesse cominciato a delinearsi sin dal momento in cui l’italiano si è diffuso
come lingua letteraria nazionale.
- Un’altra questione riguarda la possibilità di concepire l’ it pop come una varietà di apprendimento di una lingua seconda da parte di
parlanti dialettofoni. Da questo pdv, l’ it pop è stato considerato una varietà di transizione del passaggio da dialetto a italiano più
standard, quindi come una fase transitoria e instabile destinata a essere soppiantata col progresso verso la competenza di italiano
standard. Tuttavia, è una varietà a cui i parlanti si arrestano perché hanno scarse possibilità di migliorare il loro grado di competenza
verso l’italiano standard. Solo negli adolescenti potrebbe essere considerato una fase di transizione che con il procedere della carriera
scolastica può migliorare. Sarebbe più corretto definire l’ it pop come varietà di apprendimento fossilizzata. Il caso normale è quello
che chi ha l’italiano popolare come unica varietà di lingua italiana a sua disposizione sia primariamente dialettofono. Tuttavia, in
certe fasce della popolazione urbana e soprattutto in famiglie di emigrati italiani all’estero troviamo l’italiano popolare come lingua
di socializzazione primaria.
- Altri problemi: la variabilità e la differenziazione interna che portano a considerare l’esistenza di sottovarietà. Circa la variazione
sincronica, bisognerebbe sottodistinguere un italiano popolare basso, molto marcato e deviante, interferito dal sostrato dialettale e un
italiano popolare meno marcato. Riguardo la variazione diacronica, è molto evidente la differenza fra gli scritti di inizio Novecento e
scritti degli anni Sessanta, dovuta ai mutamenti nelle condizioni socioculturali, che hanno portato a una certa ‘standardizzazione’
dopo la Seconda guerra mondiale. Infine, da considerare anche la possibile esistenza di italiani regionali popolari con statuto diverso,
in relazione alla diversa collocazione sociolinguistica dell’italiano nel repertorio locale. Un eventuale italiano popolare toscano
sarebbe la forma più tipica di italiano popolare, in quanto varietà sociale bassa dell’italiano regionale più prossimo allo standard
(essendo l’italiano standard a base toscana).
L’it pop presumibilmente varierà con il tempo in connessione a mutamenti e condizioni socioculturali. Infine, se il toscano è alla base
dello standard, forse è quella toscana la forma più tipica dell’it pop? Ma il problema è che nella situazione toscana, l’italiano
popolare è una varietà diversa dal dialetto o sono la stessa cosa? È difficile rispondere dato che in Toscana non si può distinguere
italiano basso, sub-standard e dialetto.
3. Problemi di metodo e di descrizione
Fra i problemi dell’italiano popolare c’è anche l’analisi dei tratti. Si deve innanzitutto distinguere fra tratti:
- obbligatori: si realizzano sempre
- facoltativi: possono eventualmente emergere
- variabili: emergono con una frequenza collegabile a diversi fattori linguistici ed extralinguistici.
L’italiano popolare può risultare caratterizzato sia in termini di presenza/assenza (tratti che esistono solo in italiano pop.) sia in
termini di maggiore/minore frequenza (tratti che esistono anche in altre varietà, ma che qui hanno una frequenza significativamente
più alta). Possono risultare caratterizzanti anche tratti sporadici, che compaiono di rado ma se lo fanno, lo fanno nell’it pop.
Riguardo alla natura linguistica dell’italiano popolare, ci sono 3 meccanismi linguistici in azione nel determinare forme e strutture:
- l’interferenza con il sostrato e adstrato dialettale
- l’ipercorrettismo (esagerazione nella realizzazione di tratti non ben posseduti)
- la semplificazione
Agirebbero quindi sia fenomeni di contatto che fenomeni di evoluzione interna, riconducibili ad analogia e a semplificazione di
settori in cui l’italiano standard presenti ricchezza di forme e paradigmi. L’ipercorrettismo può essere interpretato come interferenza,
attraverso il transfer negativo (si cerca la massima distanziazione dal codice secondario), col risultato di produrre forme marcate in
ita in corrispondenza di una forma non marcata che sia analoga a quella del dialetto.
L’it pop ha anche una tendenza all’economia e a un miglioramento della funzionalità strutturale, presente in generale in fatti di
ristrutturazione di determinati settori della lingua. Una versione forte della semplificazione vede l’ipotesi di it pop come
pidginizzazione, ma non è corretto chiamarlo tale (diverse motivazioni e retroterra sociali).
Le ragioni dei meccanismi linguistici che operano in italiano popolare: l’espressività, la promozione sociale, l’elaborazione culturale,
il bisogno comunicativo delle masse, ecc. Queste considerazioni extralinguistiche spiegano il motivo per cui lo si usa, ma non come è
fatto internamente.
Infine, un problema descrittivo e teorico è dato dalla distribuzione dei tratti caratterizzanti nei diversi livelli di analisi: non si sa in
che misura esista un italiano popolare poco marcato per la pronuncia e molto marcato per la morfosintassi, o viceversa. Uno implica
l’altro o i livelli non sono correlati? Mancano studi specifici su tali questioni. Quali tratti co-occorrono assieme e quali sono
indipendenti? Esiste una graduatoria di marcatezza? È possibile costruire una scala di implicazione fra i tratti dell’italiano popolare? I
problemi discussi derivano proprio da una mancanza di corpora adeguati e insufficienza di studi approfonditi in termini statistici.

4. Tratti dell’italiano popolare e tratti del parlato colloquiale

Il parlato colloquiale è registro informale anche dei


parlanti colti.

Italiano popolare e italiano colloquiale sono


delimitabili sia pure all’interno di un continuum con
addensamenti. Condividono molti tratti ma
presumibilmente con modalità diverse. In ogni caso,
sembrano tratti diagnostici dell’italiano popolare:
-il tema libero senza ripresa clitica (anacoluto);
- la costruzione del periodo ipotetico con il congiuntivo
imperfetto (condizionale sia nella protasi che
nell’apodosi);
- gli scambi di ausiliare;
- la sovraestensione e scambi di preposizioni;
- generalizzazione di desinenze nominali;
- analogie e regolarizzazioni nel paradigma
dell’articolo.

L’omissione del verbo essere sia in funzione di ausiliare


che in funzione di copula sia a volte in funzione di
verbo pieno non è molto frequente in italiano popolare,
mentre in italiano colloquiale si manifesta più
regolarmente. La sovraestensione del ci è da
considerare un tratto diagnostico della morfosintassi di
italiano popolare. Il ci viene esteso a clitico dativale di
terza persona in tutti i contesti, anche al posto di
gli/le/loro.
Sembra che il colloquiale sia un sottoinsieme meno marcato dell’it pop, cioè che tutti i suoi tratti si ritrovano in modo più frequente
anche nel secondo e che il colloquiale non abbia tratti esclusivi. Questo è parzialmente vere per la morfosintassi, ma passando ad altri
livelli troviamo tratti peculiari del colloquiale non ritrovati invece nell’it pop.
5. La frase relativa nell’italiano popolare
È nota come uno stereotipo dell’italiano popolare la costruzione della relativa del tipo ‘l’uomo che Maria gli ha dato un libro’. È stato
analizzato un corpus di italiano popolare (racconti di guerra di anziani parlanti emiliani) e il quadro che ne risulta può essere così
sintetizzato:
- il quale e cui sono del tutto assenti;
- c’è una grande varietà di realizzazioni del locativo, con sovraestensioni di dove a casi in cui il valore di locativo non è più diretto
(lesse la lettera dove io domandavo);
- nei valori locativi, che tende a invadere il dominio di dove, specialmente quando il verbo della relativa è esserci locativo;
- tutti i casi ammettono realizzazioni neutralizzate col solo che polivalente;
- le differenze con lo standard non riguardano solo i casi di che polivalente e di che più clitico per i locativi e i casi obliqui, ma anche
la relativa temporale che qui presenta sempre la resa con che, e la relativa oggettiva che in quasi un terzo delle occorrenze presenta la
ripresa con clitico.
Inoltre, nel corpus c’è una bassa frequenza di ripresa con clitico nell’oggetto rispetto all’obliquo, al contrario di quanto accade
nell’italiano parlato colloquiale in cui sembra più frequente la ripresa col clitico oggetto.
(le occorrenze di due parlanti che mostrano un italiano popolare poco marcato sfasano il quadro, che altrimenti sarebbe diverso e
rientrerebbe nella casistica delle realizzazioni sub-standard della relativa).
Sempre rimanendo al caso dell’oggetto che presenta un numero più significativo di occorrenze si può aggiungere che le due possibili
realizzazioni (che e che + clitico) appaiono tutt’altro che in alternanza libera: la relativa restrittiva favorisce la presenza del solo che,
mentre la relativa esplicativa favorisce la presenza di che + clitico.
Molto forte è anche la correlazione tra la presenza del clitico e il tratto +animato del sintagma nominale antecedente. Al contrario,
scarsa o nulla correlazione c’è con la presenza di un soggetto generico, indeterminato, di terza persona plurale, con la presenza di un
soggetto posposto al verbo della relativa, ecc.

Prendendo in esame un altro corpus di italiano popolare fiorentino si notano notevoli differenze: non è attestata la ripresa clitica con
il sintagma relativizzato a oggetto, la ripresa con clitico sembra meno frequente anche nei casi obliqui compresi i locativi e c’è una
minore dispersione di costrutti, meno distanza dallo standard. Ma per la sua natura, un eventuale italiano regionale popolare
fiorentino vedrà forse prevalere i caratteri di marcatezza geografica su quelli di marcatezza sociale, e quindi sull’asse diastratico sarà
meno deviante e meno caratterizzato rispetto agli altri italiani popolari (regionali).

6. Il continuum della frase relativa in italiano


E’ possibile delineare un continuum di paradigmi di costruzione della frase relativa nell’italiano come gamma di varietà, tenendo
presenti solo l’italiano scritto standard, l’italiano parlato colloquiale e l’italiano popolare, in quanto punti nodali di riferimento.

Questo schema semplifica esageratamente i dati reali: sarebbe impossibile isolare paradigmi che in realtà si sovrappongono. Lo
schema rimane aperto sia a destra sia a sinistra dato che si può ipotizzare che a sx vi sia un paradigma aulico e letterario (il quale in
tutti i casi) e a dx un paradigma con perdita di relatività e neutralizzazione di tutti i casi su un che privo di antecedente nominale.
- Occorrerebbe poi integrare lo schema con dove che può comparire per realizzare il locativo in alternativa a il quale/cui nei
paradigmi I e II, in alternativa che + clitico nei paradigmi III e IV.
- Un’altra possibilità è quella di cui con clitico di ripresa, frequente nell’italiano parlato anche formale, specie se legato a
grammaticalizzazione del clitico come marca sul verbo quindi con certi verbi particolari (di cui ne sappiamo poco).
Nello schema viene ipotizzato un confine netto tra italiano scritto standard e italiano popolare, mentre l’italiano parlato colloquiale è
in sovrapposizione da una parte con l’uno e dall’altra con l’altro. Nell’italiano scritto standard, il paradigma I è più formale del
paradigma II, tipico dell’italiano dell’uso comune. L’italiano parlato colloquiale si situa a cavallo tra i paradigmi II,II,IV ad
esclusione di il quale. L’italiano popolare si distribuisce tra i paradigmi III,IV,V fra i quali il IV è considerato il più ‘regolare’ e il V il
più economico.
Dunque, il paradigma dei relativi in italiano costituisce un tipo particolare di continuum, a due poli contrapposti (il quale/cui e che
polivalente) e con addensamenti che focalizzano la collocazione di ogni varietà. La coesistenza di due modelli basilari, quello
sintetico e quello analitico, nasce nel latino volgare e si mantiene in italiano. Il modello analitico è con il connettivo generico che e
ripresa con un clitico; il modello sintetico è con un pronome relativo declinabile che cumula funzione e caso. Le costruzioni
dell’italiano popolare e dell’italiano parlato colloquiale si riuniscono attorno al polo analitico, che in futuro potrà prevalere
innescando forse una fase di omogeneità. Non è facile prevedere se l’italiano del futuro avrà solo il tipo di relativa analitica. Certo è
che la costruzione analitica della relativa è più semplice e funzionale. La tendenza dovrebbe andare verso una generalizzazione del
che polivalente senza pronomi di ripresa che si limiterebbe a morfematizzare il fatto che si tratta di una frase subordinata. Ad oggi,
però, non ci sono prove di diffusione di questo costrutto ridotto al solo che al di là di ambiti d’uso assai bassi in diastratia e diafasia.
E non ci sono nemmeno indizi netti della vittoria del modello analitico su quello sintetico. Indubbiamente, le costruzioni con che +
clitico sono molto diffuse nel parlato e appaiono in espansione anche nella prosa giornalistica. Rimane ben viva la costruzione
sintetica e domina nello scritto e nel parlato formale. Dunque, c’è un continuum di paradigmi, differenziati a livello sociolinguistico.

Alcuni ritengono che il che non declinabile non sia un pronome relativo, ma un indicatore generico di subordinazione.
7. Altri tratti dell’italiano popolare

a. Morfosintassi
Si tratta comunque di fenomeni soggetti a variazione diatopica:
- Uso dell’aggettivo invariabile in funzione avverbiale (andare veloce), ma è attestato anche il fenomeno contrario, l’uso
dell’avverbio in luogo dell’aggettivo (un posto meglio);
- La semplificazione del paradigma dei possessivi con impiego di suo al posto di loro;
- Accusativo preposizionale, tipico dell’italiano meridionale (con i pronomi il costrutto è ricorrente anche al Nord, specie in posizione
disclocata a sinistra - a me non mi mandi lì);

b. Lessico e RFL
- Malapropismi e ricostruzioni paretimologiche di termini, per analogia con altri termini più familiari (inciamparsi x incepparsi);
- Popolarismi espressivi, es. tribolare, macello, spesso attraverso gli alterati (vitaccia, panzone);
- Popolarismi e genericismi semantici, es. le carte “i documenti”, spesso regionalmente marcati es. imparare x “insegnare” al Sud,
chiamare x ‘chiedere’ in Piemonte;
Nella formazione di parole:
- Abbreviamento di parole derivate mediante cancellazione di morfemi (interrogo x ‘interrogazione);
- Tendenza di rianalisi con conseguente cumulo o aggiunta di morfemi (indispiacente x spiacente);

c. Fonologia
La fonologia dell’italiano popolare è regionalmente molto marcata, ma si possono citare alcune costanti che agiscono assieme alle
caratterizzazioni derivanti dall’influenza del sostrato dialettale, quali, per esempio:
- Semplificazione di nessi consonantici ‘difficili’ attraverso assimilazione o epentesi (tennico, pisicologico) e di foni complessi (al
nord, pasiensa ‘pazienza’);
- Aferesi di sillabe per pronuncia trascurata e concomitante rianalisi (zonero ‘esonero’, dirizzo ‘indirizzo’);

d. Grafia
Molti tratti fonetici hanno un corrispondente nella resa grafica da parte di illetterati. La grafia dell’italiano popolare rivela dunque
l’influenza della pronuncia in molte peculiarità:
- Grafie come Itaglia e gniente che ricalcano una pronuncia palatalizzata della l e n, oppure senpre, banbini che rendono la pronuncia
labiodentale o velare della nasale, o ancora subbito, pasegeri corrispondenti rispettivamente al raddoppiamento della consonante in
Meridione e alla pronuncia scempia al Nord;
- Conglutinazioni e deglutinazioni dell’articolo e di altre particelle (l’aradio, in fermeria, in cinta, linverno);
- Analogie e ipercorrettismi dove non vi è corrispondenza biunivoca tra alfabeto e fonemi (cuello, luogho) e problemi nel rispetto dei
confini di parola (all’avoro) e ancora convenzioni come l’uso delle maiuscole e della punteggiatura.

e. Testualità
E’ fondamentalmente una testualità del parlato spontaneo, non pianificato, con:
- scarsa esplicitazione dei rapporti interfrasali; - struttura del periodo spesso giustappositiva;
- sviluppo tematico caratterizzato da bruschi cambiamenti di topic; - prevalenza di discorso diretto;
- frequenti ripetizioni.
Nello scritto, i parlanti di italiano popolare tendono a scrivere ‘come si parla’.

Alcuni sostengono che l’italiano popolare sia la nuova forza innovativa della nostra lingua e che potrà essere proprio questa varietà la
nuova lingua standard. Le varietà basse sono infatti molto più innovative dello standard e per questo uno potrebbe intendere l’it pop
come un ‘italiano avanzato’. Però l’intera sezione sub-standard ha questo stesso tipo di caratteristiche. In realtà bisogna quindi vedere
le cose in maniera diversa: è l’italiano standard ad essere particolarmente conservativo e rigido.

8. Agli inizi del terzo millennio


Voci autorevoli si sono chieste se nel Duemila esista ancora l’italiano popolare. Viene sottovalutato il fatto che una varietà di lingua
deve essere sempre identificata sia sul piano linguistico che su quello sociale.
- D’Achille (1994) sottolinea che ‘italiano popolare’ è l’etichetta sotto cui viene solitamente studiata la produzione linguistica dei
semicolti e degli incolti quando parlano in italiano e non in dialetto, recuperando così la dimensione sociale della varietà. D’Achille,
però, concorda con alcuni autori che notano un netto indebolimento dell’italiano popolare (e non la sua scomparsa).
- Tuttavia, secondo Berruto, il fatto che l’italiano dei parlanti poco istruiti appaia oggi meno deviante rispetto ai decenni passati non
significa che non esista un nucleo di tratti in correlazione con l’estrazione sociale bassa dei parlanti, significa piuttosto che l’italiano
popolare è diventato meno visibile. Fatti demografici come l’età avanzata dei parlanti che lo hanno come unico tasto attivo sul
versante italiano del repertorio, e la progressiva diminuzione numerica della fascia sociale dei semicolti grazie alla scolarizzazione,
sono chiari fattori della minore appariscenza dell’italiano popolare nel ventunesimo secolo. È indubbio però che esista ancora una
fascia di parlanti che ha come unica varietà disponibile di italiano l’italiano popolare.
- In Alfonzetti (2002) vengono analizzate le strutture della frase relativa in un corpus di parlato siciliano, dove i tipi di realizzazione
considerati tipici dell’italiano popolare (che complementatore generalizzato per tutti i casi, con ripresa o senza ripresa clitica) in
realtà emergono anche nell’uso di parlanti colti. Da un lato viene confermata la tendenza generale alla risalita di tratti sub-standard
nel neo-standard e nel parlato colloquiale, dall’altro la varietà diastratica bassa viene a caratterizzarsi in negativo, per la totale
assenza nel parlato popolare del paradigma il quale/cui che resta il principale tratto diagnostico quanto alla realizzazione della frase
relativa per l’italiano popolare.
- Per alcuni l’it pop è una varietà parlata da anziani, utilizzata anche da giovani in alcune occasioni come elderly talk per rivolgersi
appunto ai parlanti anziani dialettofoni.
4. La dimensione diafasica

1. Italiano colloquiale
Insieme all’italiano popolare, l’italiano colloquiale costituisce il nucleo principale dell’italiano sub-standard. Queste due varietà
condividono in parte gli stessi tratti e quindi risultano parzialmente in sovrapposizione, il che ha spesso portato a confonderle. Il
tratto discriminante fra le due varietà consiste nella correlazione o meno con la provenienza sociale dei parlanti: l’it colloquiale è
adoperato in maniera indipendente dalla classe sociale. L’averlo a disposizione dipende in parte dalla stratificazione sociale: i parlanti
culturalmente sfavoriti hanno accesso solo all’italiano popolare, ma i tratti che lo caratterizzano non correlano con fattori diastratici.

La sua manifestazione tipica è nel canale orale, ma non lo è in modo esclusivo (diari, appunti). Si tratta di una varietà situazionale: si
alterna nello stesso parlante con altre varietà situazionali a seconda del grado di formalità, degli interlocutori richiesti dalla situazione
comunicativa. Può essere considerato un superregistro perché copre una gamma ampia e poco marcata di registri possibili fra un
estremo solo lievemente informale e un estremo marcatamente informale e trascurato. Una buona parte dei tratti neo-standard erano
caratteristici del colloquiale e hanno ora perso marcatezza.
L’it colloquiale si caratterizza principalmente sul lessico (Albrecht lo definisce italiano non aulico unitario); è indipendente dalla
variazione diatopica, si può considerare sovraregionale.
E’ diverso da quello che i linguisti tedeschi chiamano Umgangssprache (ossia lingua della comunicazione orale, del quotidiano, della
socialità) per via del suo carattere sub-standard. L’Umgangssprache è più alto del colloquiale, è più verso lo standard. Questa
differenza dipende sostanzialmente dalla differenza esistente tra i repertori ita e i repertori de. Un carattere in comune è che entrambe
le varietà sono usate nella conversazione non impegnata: l’it colloquiale come detto è caratterizzato fortemente dal lessico; esiste una
serie di termini o espressioni usate largamente nel parlato quotidiano, in genere di origine gergale o regionale, ma che mostrano di
avere un impiego ampiamente interregionale. Una parte di questi termini o espressioni sono riportati nei vocabolari correnti. Questi
elementi lessicali coesistono con almeno un termine sinonimico standard: ciò che denota l’uso della varietà italiano colloquiale è
appunto la scelta del termine sub-standard (automobile/macchina). Buona parte dei termini e diffusa a livello interregionale.
Un altro aspetto interessante dell’italiano colloquiale è che in esso troviamo due occasioni ed esigenze della lingua che nelle altre
varietà hanno un valore solo secondario: la banalità quotidiana (parlare di fatti insignificanti della vita quotidiana) e l’espressività
(partecipazione colorita a eventi e fatti, esagerazione). Il lessico del colloquiale sarà quindi permeato da termini generici e espressivi.

E’ molto difficile da definire, ma qui riportiamo alcuni colloquialismi:


• Andare (concludersi, è andata!) • Balla (bugia) • Beccare (cogliere in fatto)
• Vari fraseologismi con dare, come Darsi arie (essere presuntuoso)
• Vari fraseologismi con fare, come Fare benzina (rifornirsi di carburante), fare il letto, farsi (drogarsi)
• Serie di verbi costruiti con il prefisso descrittivo-espressivo s- come sbafare (mangiare scompostamente), scassare (rompere),
sfottere (prendere in giro).
• genericismi riferiti a persone, a cose e ad eventi (elemento, coso e storia).
• RFL: sono tipici dell’italiano colloquiale derivati nominali in -ata come stupidata, stronzata.

Passando alla morfosintassi e alla testualità:


• Diversi tipi di usi avverbiali di aggettivi (guidare piano, camminare veloce)
• Costrutti elativi, intensificativi con forte e con tutto (è acida forte, tutto pulito)
• Verbi pronominali a doppio clitico (farcela, mettercela tutta, prendersela comoda)
• Alta ricorrenza di frasi segmentate e scisse o pseudoscisse (quello che voglio dire è che)
• Particelle di attenuazione o modali (proprio, appunto, praticamente)
• Si evita la costruzione passiva e si preferisce un costrutto generico impersonale di 3pp senza soggetto (l’hanno portato in ospedale)
• Perifrasi aspettuali di varia natura (non stare + infinito cioè non sto a darti)
• Il che tuttofare, in funzione esplicativo-consecutiva o giustificativa (me lo timbra, che devo uscire)
• Uso abbondante di diminuitivi (un attimino, un momentino, posticino)
• Forme particolari di elativi, con estensioni del suffisso -issimo a classi diverse da quelle che lo prevedono (a postissimo) e
grammaticalizzazione di formule fraseologiche (da matti, un pozzo).

Questi caratteri sono legati alla natura spontanea dell’it colloquiale, quindi spesso vi è assenza di pianificazione che si riversa su frasi
monorematiche e in generale distribuzione dell’informazione su piccoli blocchi.

Per quanto riguarda invece la fonologia non vi sono caratteristiche tipiche del solo it colloquiale; i fatti caratteristici sono legati
fondamentalmente alla velocità di esecuzione.
2. Registri
L’ita colloquiale copre una gamma di registri nella metà informale dell’asse diafasico, poi vi sono naturalmente altri registri sulla
stessa dimensione difficili da delimitare (quello diafasico è l’asse con meno addensamenti). I registri formale e medio coincidono
grosso modo con l’italiano standard e l’italiano neo-standard; in alto formale ed elevato, in basso informale e trascurato.
Molti tratti regionali nella fonologia sono suscettibili a dar luogo a variazioni di registro: da questo pdv i registri bassi sono quelli
regionali marcati. In particolare, il sostrato dialettale incide sulla resa di alcuni fonemi: così, il parlante colto, tenderà ad allontanarsi
da questa pronuncia per cercare di adeguarla allo standard.
I registri sono caratterizzati sia dalle scelte lessicali che dall’accuratezza della pronuncia, sia anche dallo sviluppo testuale.
La variazione di registro in italiano presenta caratteri peculiari: per quanto riguarda la pronuncia sembra meno ampia e meno marcata
rispetto alle altre lingue. I registri bassi sono solamente orali, si usano generalmente per il parlato improvvisato, con assenza o
minima pianificazione. Le occasioni contestuali che vedono l’emergere dei registri più bassi sono di due generi opposti:
- il parlare disattento, svogliato, con scarso interesse per l’enunciazione e i contenuti;
- il parlare con un fortissimo coinvolgimento emotivo.
Cosí la variazione di registro si articola attorno a due parametri essenziali: il controllo dell’elocuzione e la formalità del contesto.

Venendo ai tratti linguistici dei registri bassi, possiamo osservare:


a. Lessico
• Scarsa gamma di variazione lessicale, con un alto tasso di ripetività
• Preferenza per termini generici
• Epiteti, commenti e imprecazioni disfemiche
• Uso frequente di parole abbreviate
• Termini fortemente connotati spesso sinonimici con termini colloquiale o standard (crepare/morire)

b. Morfosintassi
• Scarsa o nulla utilizzazione di connettivi semanticamente ricchi
• Frasi brevi, spesso ellittiche, che danno luogo a una sintassi molto spezzata
• Struttura del discorso molto incentrata sull’io parlante
• Prevalenza di verbi rispetto a sostantivi, aggettivi e avverbi

c. Testualità
• Forte appoggio della produzione verbale alla prosodia, alla paralinguistica e alla cinesica
• Scarsissimo ricorso all’argomentazione distesa
• Frequenti cambiamenti di progettazione e fratture nella continuità tematica

d. Fonologia
• Alta tendenza a troncamenti (fan, dicon, son)
• Tendenza alla semplificazione dei nessi consonantici (proprio/proprio)
• Fenomeni di giuntura con fusione di segmenti ed eventuali ristrutturazioni sillabiche (presempio/per esempio)
• Occasionali realizzazioni marcatamente regionali di fonemi o nessi fonematici difficili per un italiano regionale

Caratteri opposti si ritrovano invece nei registri alti:


a. Lessico
• Ampia variazione lessicale
• Preferenza per termini ed espressioni specifici, ad alta intensione semantica •
Alta frequenza di significati astratti
• Ricorrente impiego di parole dalla struttura interna complessa
• Scelte lessicali auliche (alcuno/nessuno)

b. Morfosintassi e testualità
• Sintassi elaborata
• Frequente uso della subordinazione frasale
• Rapporti tra frasi esplicitati con connettivi di vario genere
• Tendenza allo sviluppo argomentativo del discorso

c. Fonologia
• Velocita di elocuzione minore
• Accuratezza nella pronuncia dei fonemi

Lo studio dei registri formali è comunque assai complesso perché essi tendono spesso a manifestarsi insieme si sottocodici alti.
3. Lingue speciali
Una seconda basilare classe di varietà lungo la dimensione diafasica è costituita dai sottocodici. I sottocodici sono varietà diafasiche
caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari domini extralinguistici e alle relative sfere di significati. La loro
funzione e il loro compito sono quelli di mettere a disposizione un inventario di segni per la comunicazione circa determinati
argomenti e ambiti di esperienza e attività, in modo che questa sia il più possibile univoca, precisa ed economica e quindi più efficace
e funzionale. Sono infatti dotati di un lessico specialistico, estraneo al tronco comune della lingua, in cui vi sono corrispondenze
aggiuntive tra significante e significato.
Il vocabolario tecnico dei sottocodici è una nomenclatura, una terminologia la cui struttura è determinata dai campi extralinguistici di
riferimento (il sottocodice lingua della medicina costituisce con il suffisso -ite i nomi di malattia che designa un’infiammazione acuta
di un organo o di un apparato - artrite, faringite).
Il lessico speciale dei sottocodici si costituisce secondo tre modalità:
• Associando un significante nuovo e specifico a un significato nuovo e specifico
• Associando un significante già esistente nella lingua a un significato nuovo
• Associando un significante nuovo a uno significato già esistente
I tecnicismi possono poi essere o la specializzazione di termini già esistenti nella lingua, o neoformazioni assolute, o prestiti da
lingue straniere. Una buona parte della terminologia dei sottocodici è internazionale (sopracodice).
Nel repertorio delle varietà della lingua i sottocodici coincidono fondamentalmente con le lingue speciali. Oltre che di lingue speciali
si può parlare anche di linguaggi settoriali, linguaggi tecnici, microlingue, ecc…

Distinguiamo tre poli fondamentali:


• Le lingue speciali in senso stretto, cioè i sottocodici veri e propri, contrassegnati da un proprio lessico
• Le lingue speciali in senso lato, che non hanno propriamente un lessico specialistico ma sono comunque strettamente legate a
determinate aree di impiego
• I gerghi, che hanno un lessico particolare con propri meccanismi semantici e di formazione delle parole, ma senza il carattere di
nomenclatura e sono legati a gruppi o cerchie di utenti (i gerghi sono in effetti allo stesso tempo varietà diafasiche e diastratiche).

Le lingue speciali sono il campo di variazione della lingua più mosso, quello in cui continuamente muoiono vecchi termini e ne
entrano di nuovi, ma anche il campo in cui i fenomeni sono più superficiali, più toccati dalle mode e più dipendenti da fatti
extralinguistici. Qui il lessico particolare ha il carattere di essere assolutamente non ambiguo, ogni termine è strettamente legato al
suo oggetto o concetto.
I linguaggi settoriali sono caratterizzati a livello di lessico, ma non si può dire che abbiano un lessico specifico. Sono destinate ad una
larga cerchia di utenti, non al piccolo gruppo. Il raggio d’azione potenziale è massimo per i linguaggi settoriali e minimo per i gerghi.
Lessico specifico è tipico invece dei gerghi, i quali hanno la funzione principale di contrapporre un gruppo ad un altro, e nei quali il
lessico assume un impegno criptico. (caratteristiche e principali differenze fra questi tre poli fondamentali, tabella pag. 179)

Fra le varietà di gruppo che meritano un cenno vi sono linguaggi tipici di un certo ambiente o di una certa fascia di persone che, pur
senza assumere i caratteri veri e proprio di un gergo, presentano aspetti paragergali interessanti. Si tratta tipicamente di varietà poco
stabili che con il mutare o lo scomparire del gruppo di conseguenza mutua o scompare anche il linguaggio stesso; sono varietà
parassitali, la cui struttura dipende dalla lingua comune, ma il lessico viene stravolto, senza intaccare la fonologia. Halliday le
definisce ‘antilingua’ in senso socio-funzionale, nel senso che riflettono una controcultura, una società costruita dentro ad un’altra
società di cui esprime verbalmente l’opposizione alle norme e ai valori. Un esempio di varietà paragergale è il linguaggio giovanile,
il quale poi può cadere in disuso o essere assorbito dalla lingua comune.

(vedi tab. pag.182)


Continuum diafasico con varietà prototipiche: le lingue speciali sfumano da un lato nelle varietà diastratiche, e dall’altro in
conglomerati di stili, formule e tipi di testi, usati in grandi domini, che non possono essere riconosciuti come varietà. Chiamiamo
entità di questo genere Modalità d’uso: comprendono elementi di più sottocodici e varietà diafasiche e si caratterizzano
linguisticamente per certi tipi di testo o generi che sono loro propri (es. lingua della pubblicità).

Le lingue speciali hanno queste proprietà:


- lessico specifico, significati propri del settore, e possono averne una presenza abbondante, ridotta, oppure anche mancanza (es. la
lingua del turismo non ha un lessico specifico del proprio settore, nemmeno il linguaggio politico);
- la terminologia del lessico peculiare può avere natura completa (lingua della chimica) o natura parziale (lingua della moda), oppure
ancora può non avere natura terminologica (lingua dell’oroscopo, il cui lessico peculiare non è organizzato in una tassonomia
esplicita);
- la semantica ha tre caratteri: . natura strettamente denotativa o referenziale
. aspetti metaforici
. presenza di un lessico e di forme pretenziose, ricchi di contenuto ma poco referenziali
. le finalità possono essere: . Fini tecnico-funzionali
. fini criptici
. obiettivi mirati ad agire sul destinatario
. contrapposizione di un gruppo alla società
. gli utenti: vi sono varietà che sono utilizzate solamente da un gruppo ristretto (gergo), altre
che sono accessibili anche ai ‘non addetti’, poi abbiamo una situazione intermedia in cui c’è
un nucleo di termini conosciuto solo dagli specialisti, e una frangia di termini conosciuti
anche dai non specialisti

*Non vanno confusi i lessici specifici con quelli semplicemente peculiari. Per essere specifico, un lessico deve attenere ad un certo
settore del ramo cui si riferisce la lingua speciale. Non è raro che una lingua speciale attinga il proprio vocabolario dal lessico
comune, specializzando il significato di parole già esistenti.
Fra le lingue speciali meritano una considerazione particolare due varietà riportate nello schema dell’architettura dell’italiano:
l’italiano burocratico e l’italiano tecnico-scientifico.

Italiano burocratico
L’italiano burocratico è una varietà complessa, che unisce il carattere di sottocodice a quello di registro formale. Ma dal momento che
non vi è un nucleo ampio di termini tecnici solo della burocrazia, il carattere di sottocodice del linguaggio burocratico risulta poco
marcato. Esso adopera però parti di altri sottocodici (lingua giuridica ed economico-finanziaria) e a differenza dei sottocodici in
senso stretto, che vengono usati solo per parlare di argomenti relativi ad una determinata sfera, è impiegato per parlare di argomenti
diversi.

a. Lessico
• Tecnicismi di varia natura • Connettivi e deittici aulico-letterarizzanti (codesto, ove, pertanto)
• Spiccata tendenza alla nominalità • Repertorio di frasi fatte con locuzioni verbali (dare diffusione, premesso che)

b. Morfosintassi e testualità
• Sintassi impersonale (si allega) • Alta ricorrenza del participio presente (le istituzioni operanti)
• Uso frequente del gerundio (comprendendo le motivazioni) • periodi lunghi, complicati e strutture frasali complesse
• Uso del futuro con valore deontico (ciascun ente vorrà redigere) • forme peculiari di deissi testuale (la richiesta di cui sopra)

L’italiano burocratico è verboso e ridondante, spesso dunque pesantemente artificioso. Altri però sostengono che una delle cose
positive dell’italiano burocratico sia il suo allontanare i forestierismi, che vengono piuttosto sostituiti da i termini burocratici. Ha
dunque un carattere conservativo.

Italiano tecnico-scientifico
L’italiano tecnico-scientifico condivide alcuni tratti evidenti nel linguaggio burocratico, specie per quanto riguarda la sintassi e la
testualità. Anche l’italiano tecnico scientifico, come quello burocratico, sta a meta tra le Modalità d’uso e le lingue speciali in senso
lato, essendo rappresentato da più sottocodici in unione a registri anche molto formali.

a. Lessico
• vocabolario astratto, con semantica denotativa (monosemia referenziale)
• Carattere nomenclatorio, con particolare importanza prima ai sostantivi e poi agli aggettivi, mettendo in secondo piano i verbi
• Largo impiego di denominazioni eponime (principio di Archimede)
• Notevole produttività di formazioni prefissali con prefissoidi (neo-, micro-) e suffissi (-anza/-enza - induttanza, impedenza)

b. Morfosintassi e testualità
• Preferenza per lo stile nominale • Tendenze a riprese con la parafrasi
• Impiego di un insieme particolare di connettivi testuali, come cioè, appunto, per esempio
• Impiego di formule limitative, impersonalizzanti (a quanto sembra)
• Frequente struttura dell’argomentazione con se…allora
• Uso frequente del trattino a unire termini concettualmente fusi (lo spazio-tempo)

Un tratto stilistico del linguaggio tecnico-scientifico che merita di essere segnalato è l’uso di citazioni dalla lingue straniere e
classiche. Inoltre anche il linguaggio tecnico-scientifico gode di prestigio e ha una certa influenza sulle altre varietà di lingua.

4. Agli inizi del terzo millennio


I mutamenti più sensibili dell’ultimo ventennio nel panorama delle varietà dell’italiano sembrano interessare l’asse diafasico. Con il
diffondersi delle nuove tecnologie e della globalizzazioni si sono venuti a moltiplicare impieghi differenti sui sottoassi dei sottocodici
e dei registri, con proliferazione di varietà, o meglio, gamme d’usi. Queste nuove varietà diafasiche e diamesiche sono il frutto del
diffondersi delle nuove tecnologie nel contesto della new economy e della globalizzazione. (tab. pag. 192)

• Italiano manageriale, in alto a sinistra, formale e tecnicistico, sottocodice usato fra imprenditori, dirigenti e tecnici, caratterizzato da
lessico tecnologizzante e tipico del marketing. Nel lessico una forte presenza di tecnicismi inglesi e di sigle; sintassi faticosa e non
esente da anacoluti. L’uso di questo genere di lingua non è ristretto ad ambiti aziendali, ma si sta diffondendo in ambienti che hanno a
che fare con gestioni amministrative.
• Italiano dell’informatica: più in basso e più a destra dell’italiano manageriale; ha minore formalità tecnica ed è più usato nel parlato.
È un linguaggio settoriale, sottoprodotto della lingua speciale dell’informatica, quella utilizzata dagli addetti ai lavori. Il lessico è
aperto ai forestierismi e molte parole sono ormai entrate nel linguaggio quotidiano. Oggi il lessico dell’informatica è pervasivo: molti
termini sono pienamente acclimatati (email, chattare), e numerose sono le risemantizzazioni (scaricare, sito); è un settore molto
dipendente dall’en, da cui vengono la maggior parte dei prestiti.
• Italiano dei nuovi media: in basso a destra, verso il polo del parlato e dell’informalità, è la lingua della comunicazione via internet
(chat, blog, sms), caratterizzata da semplificazioni e abbreviazioni dal punto di vista grafico, impiego delle emoticon, disfemismi,
impasti mistilingue con lingue straniere, dialetti, e italiano fortemente regionale. La lingua dei nuovi media e quella dell’informatica
sono marcate generazionalmente.
• Italiano giovanile: molto più vicino al polo del parlato e dell’informale rispetto a tutti gli altri. Nel parlato dei giovani sì emergono
lessemi tipici di questo sotto-codice, ma in maniera meno marcata di quanto si potrebbe supporre. Sono caratteristici la mancanza di
pianificazione, la presenza di riempitivi e segnali di articolazione del discorso, costrutti sintattici come l’interrogativa a frase scissa.
È una varietà diafasica e diastratica. Sono presenti meccanismi come metafora, metonimia, accorciamento, uso di sigle e affissi (-oso,
-aro, -mega). L’uso di pc e cellulare e la tendenza all’esternazione del privato hanno permesso un ampliamento dei registri bassi.
5. Ai margini dell’italiano

1. Italiano e dialetti
Fenomeni di contatto fra l’italiano e il dialetto, dove questo è stretto e continuo: si manifesta nelle due forme dell’alternanza di
codice all’interno del discorso del parlante, e della formazione di ibridismi derivanti dalla parziale fusione dell’italiano e del dialetto.
Il contatto stretto e la parziale fusione fra sistemi sono tipiche nelle varietà più basse dell’italiano e in quelle più italianizzate del
dialetto. Si ritrovano quindi nel discorso di parlanti che padroneggiano l’italiano e il dialetto e li usano alternativamente, così come
nel discorso di dialettofoni che hanno una scarsa competenza dell’italiano, o meglio competenza solo di varietà basse dell’italiano.

Ibridismi: voci lessicali alla cui forma contribuiscono assieme materiali e regole del dialetto e dell’italiano. Ma la presenza di
materiali e regole di due sistemi diversi nella stessa parola non implica di per sé l’esistenza di una varietà che sia il prodotto della
fusione dei due sistemi, non stiamo parlando di una varietà ibrida. La situazione si complica in quei casi in cui gli ibridismi non
possono essere assegnati né all’uno né all’altro sistema. In questo caso potremmo pensare alla formazione di un sistema fuso, in cui
si mescolano e coesistono regole e materiali del dialetto e dell’italiano nel dare forma alla parola, ma l’emergenza di ibridismi di
questo tipo è comunque sporadica e riguarda singole entità lessicali sparse. La formazione di ibridismi è connessa alla frequenza
delle enunciazioni mistilingui ed è sintomo di un facile passaggio dall’una all’altra grammatica, che sembrano non separate nella
competenza di molti parlanti. Pare tuttavia poco probabile che tale compenetrazione tra grammatica dell’italiano e del dialetto porti al
formarsi di una vera e propria lingua mista italiano-dialetto. Si tratterebbe piuttosto di un tessuto linguistico italiano, con inserzioni
dialettali ed enunciazioni mistilingui italiano-dialetto, e non di una varietà ibrida.

2. Varietà di apprendimento
Un posto interessante fra le varietà marginali hanno le varietà di apprendimento o interlingue e in particolare quelle sviluppate in un
contesto naturale, vale a dire i sistemi transitori propri di stranieri che apprendono l’italiano prevalentemente dall’ambiente in cui
vivono, attraverso il contatto coi parlanti nativi, senza apposita istruzione scolastica o guidata. Queste varietà possono rientrare
grosso modo nella dimensione diastratica. Le interlingue non sono varietà intermedie fra la lingua materna e una lingua seconda,
risultato di interferenza tra le due, bensì come grammatiche semplificate e rielaborate sulla base di tendenze, principi e processi
naturali, che vanno da un minimo a un massimo di avvicinamento alla varietà obiettivo. Anche le interlingue costituiscono un
continuum, che va dalle varietà più rudimentali e semplificate a quelle più elaborate e vicine alle varietà native.
Parecchi studiosi hanno sottolineato i parallelismi che esistono fra lo sviluppo di varietà successive di apprendimento di una L2 e
l’acquisizione della LM. Andersen considera sia l’acquisizione della prima lingua, sia la formazione di interlingue
nell’apprendimento spontaneo di lingue seconde, sia la pidginizzazione come sottocasi di un unico processo generale, la
nativizzazione, vale a dire la creazione di un sistema autonomo individuale sulla base di un certo input di partenza (il materiale
linguistico presente nell’ambiente in cui si vive), attraverso l’applicazione di principi linguistici e cognitivi generali, tendenzialmente
universali. La differenza per l’apprendimento della LM starebbe nelle pressioni sociali verso il modello preciso della comunità,
mentre nella pidginizzazione e nell’apprendimento di L2 la creazione di un sistema provvisorio rimane più indipendente dall’input
utilizzato per costruirli. I pidgin poi si differenziano dalle altre varietà di apprendimento perché si sviluppano in situazioni in cui
l’input è molto ridotto; questo porta ad un maggiore sviluppo delle interlingue nei casi di apprendimento, mentre nel caso dei pidgin
si assiste ad una fossilizzazione di un sistema parecchio lontano sia dalla LM sia dalla lingua target. Se poi il pidgin si sviluppa,
parliamo di creolo.

Un campo privilegiato di osservazione per questo problema è costituito, nel caso dell’italiano, dalle varietà dei numerosi gruppi di
stranieri immigrati a partire dagli anni Ottanta nel nostro paese. Oltre a vari fenomeni di interferenza fonologica e sintattica,
nell’italiano degli immigrati spiccano fatti di semplificazione e ricostruzione di una grammatica basilare, significativi per capire le
strategie principali dello sviluppo delle L2, ma anche i fenomeni che avvengono nelle varietà diastratiche e diafasiche dell’italiano.
Possiamo individuare alcuni tratti, rintracciabili soprattutto nelle interlingue iniziali e anche intermedie di parlanti di diverse lingue
materne.

a. Morfosintassi
Vige il principio fondamentale di avere per ogni parola una sola forma base, senza morfemi flessionali:
• Omissione dell’articolo o generalizzazione su un’unica forma sovraestesa (il orario, il lingua)
• Aggettivi di ogni classe invariabili (facili lingua)
• Generalizzazioni e scambi di preposizioni (clima di imberno, lui America)
• Sistema verbale ridotto ad alcune forme basilari (quando io incontrato un uomo)
• Impiego dei soli pronomi tonici (io sì venuto)
• Costruzioni frasali brevi, con ellissi della copula e degli ausiliari (non cabito)
• Predominio della paratassi e impiego di connettivi interfrasali elementari (trovo un amisci arabo, barla arabo)

b. Lessico e RFL
• Lessico molto ridotto, con uso di frequenti perifrasi analitiche per compensare la mancanza di termini specifici (quando ciai una
cosa male/quando hai una malattia)
• Tendenze generalizzanti e regolarizzanti nella formazione di parole derivate (buonità da buono)

c. Fonologia
• Neutralizzazione di /p/ in /b/ (cabito, imberno), per arabi e africani
Italiano di stranieri in Svizzera tedesca
• participio passato e infinito come forme verbali sovraestese
• incertezza nella terminazione degli aggettivi
• neutralizzazione delle forme dell’articolo su la
• omissione di preposizioni e verbi

Italiano semplificato d’Etiopia


L’unico pidgin documentato a base italiana è il simplified Italian dell’Africa Orientale, formatosi durante il periodo coloniale.
Lessico, fonologia e grammatica sono basati pressoché esclusivamente sull’ita.

a. Morfosintassi
• omissione dell’articolo e casi di agglutinazione (lospedale)
• frequente mancanza di flessione e accordo nel gruppo nominale
• omissioni e scambi di preposizioni
• sistema verbale basato sull’infinito e il participio passato

Per il lessico si hanno informazioni scarse. La fonologia ha interferenze tigrine e amariche (non esistono ts e dz, la a è centralizzata in
e o i), e vi sono semplificazioni di nessi consonantici (pranzo > biranzo).
Quello dell’Etiopia è una forma di ita un po’ modificato, che anche se simile alle funzioni dei pidgin non può essere ritenuto tale,
semmai una varietà pidginizzante dell’ita. Mancano i fenomeni di rianalisi e ristrutturazione per considerarlo tale.

Vedi Cocoliche pag. 210

3. Italiano all’estero
Molto importi sono anche le varietà d’italiano degli emigrati. Una conseguenza generale dei fenomeni di emigrazione è spesso il
rinforzo dell’italiano nel repertorio linguistico degli emigrati di prima generazione: parlanti principalmente dialettofoni trovano
nell’emigrazione le condizioni per passare ad un uso molto più frequente dell’italiano, così come parlanti che già alternano
abitualmente l’italiano al dialetto sono portati da vari motivi a ridurre gli ambiti e le occasioni d’impiego del dialetto. L’italiano dei
parlanti nativi tende ad assumere una stratificazione diversa rispetto alla situazione d’origine. Per vari motivi, si viene ad avere fuori
dall’Italia una situazione in cui l’effettiva e fondamentale varietà d’italiano è l’italiano popolare, impiegato all’estero anche presso
fasce sociali più alte che non in Italia, mentre l’italiano standard è patrimonio di una piccola élite intellettuale. Di conseguenza,
l’italiano all’estero è spesso in ritardo rispetto agli sviluppi che la lingua subisce nella madre patria.
Gonzo e Saltarelli hanno proposto un continuum della lingua degli emigrati che comprende quattro stadi:
• Lo standard, proprio della prima generazione e lingua prima
• Il fading (sistema oscillante, in dissolvenza), proprio ancora della prima generazione; presenta rispetto allo standard una riduzione
del lessico, affievolimento della morfologia flessionale e della sintassi, indebolimento delle conoscenze normative, tendenza alla
semplificazione e riduzione delle funzioni; solo la fonologia rimane grosso modo uguale a quella di partenza.
• Il pidgin, proprio della seconda generazione; mostra una forte riduzione del lessico, della morfologia flessionale e delle funzioni e
abitudini articolatorie incomplete rispetto allo standard.
• Il fragment, proprio della terza generazione; precede la scomparsa della lingua presso i parlanti, almeno nella competenza attiva,
mostra lessico, sintassi e morfologia frammentari, una funzione di impiego solo occasionale e una fortissima interferenza, con
mescolanza con la lingua seconda a tutti i livelli.

Ogni fase fa da input alla successiva. Ci troviamo dunque di fronte a una vera e propria erosione linguistica. Anche se questo schema
tende a lasciare irrisolti svariati problemi, rappresenta in fondo un primo tentativo di discutere la questione relativa all’italiano degli
emigrati. Un effetto evidente che ha a che fare con l’italiano degli emigrati è costituito da fenomeni di interferenza e di ibridazione
con la lingua (nazionale) del paese ospite, parlata nell’ambiente d’arrivo, per cui sono coniate etichette quali italo-americano. Si crea,
insomma, una serie di varietà di italiano interferito che possono essere usati già dalla prima generazione, ma più frequentemente nella
seconda e nella terza. L’italo americano e varietà consimili sono soprattutto caratterizzate per il lessico: potrebbero essere considerati
come italiani parzialmente ri-lessicalizzati. Le sole interferenze morfosintattiche si possono ridurre ad un uso più frequente del
pronome tonico soggetto e della forma progressiva (io lavoro molto perché io voglio fare soldi; stavo lavorando lì da cinque anni).
Nel lessico invece abbondano prestiti, calchi semantici e calchi strutturali. Il caso classico di mescidazione dell’italiano con un'altra
lingua per contatto prolungato all’estero è comunque costituito dal cocoliche, una varietà mista degli immigrati italiani nel Rio de la
Plata. Si tratta di un sistema interferito, la cui formazione è assai favorita dalle affinità tra italiano e spagnolo argentino. Possiamo
individuare tre frasi di contaminazione fra lo spagnolo e l’italiano:
• Nella prima, frequenti elementi lessicali spagnoli vengono inseriti su una struttura morfosintattica italiana
• Nella seconda, cominciano ad avvenire trasferenze nella pronuncia
• Nella terza, si ha il trasferimento di morfemi e particelle spagnole in italiano, spesso con casusli sovrsestensioni.

Per quanto riguarda la morfosintassi:


• Cambi di genere dei nomi (la latte, la miele)
• Adozione del morfema del plurale spagnolo -s (fuciles)
• Adozioni di proforme spagnole (lo che vuoi)
• Adozione di morfemi verbali spagnoli (eramo, andano)
• Enclisi pronominale (dicami/digame) • Interferenze nell’uso di essere e stare
• Frequente accusativo preposizionale (vedo a mio fratello)

Per quanto riguarda la formazione delle parole:


• Adozione di suffissazioni spagnole
• Neoformazioni ibride
4. Agli inizi del terzo millennio
I margini della gamma di varietà dell’italiano nell’ultimo ventennio si sono molto estesi, in particolare per quel che riguarda le
varietà connesse con i fenomeni migratori. Le recenti e cospicue ondate migratorie hanno creato una situazione molto variegata,
portando a contatto con l’italiano parlanti delle più svariate provenienze. L’apprendimento in contesto naturale dell’italiano con L2 è
stato schematizzato in precisi stadi:
• Varietà basica, dove una prima differenziazione fra nomi e verbi consente unsa strutturazione in base al principio che mette in prima
posizione il “controllore” (vale a dire l’entità che controlla un evento), seguito dall’evento stesso, con eventuali riferimenti temporali
affidati ad avverbiali (il governo de etiopia vuole io militari).
• Varietà postbasica, in cui il nascere delle prime opposizioni morfologiche consente una strutturazione sintattica fondata sul rapporto
fra soggetto e verbo, con un intervento di operatori avverbiali più ampio (però io penso donne di più vanno in chiesa come uomini).
• Negli stadi successivi avviene un processo di complessificazione verso le varietà native, con introduzione della subordinazione
frasale, di pronomi tonici anaforici, ecc… la fonetica rimane di solito chiaramente interferita, tendendo a fossilizzarsi presto senza
avanzare ulteriormente verso il modello dei nativi.

Quanto al rapporto fra L1 e l’italiano L2, l’influenza del sistema primario e il trasporto di materiali da questo all’interlingua
assumono peso e caratteri molto diversi in relazione alla distanza strutturale e tipologica tra le lingue. Vietti parla di varietà etniche
dell’italiano, per indicare quelle varietà che caratterizzano chi parla come membro di un gruppo con una particolare provenienza e
che sono contrassegnate da tratti quali: trasposizione di realizzazioni fonematiche, allofoniche e fonosintattiche tipiche della L1 nei
settori del sistema divergenti con L2 (jorni/giorni, l’anno escorso); larga variabilità e interscambiabilità di forma nelle parole
funzionali simili in italiano e per esempio in spagnolo, ecc… In ambiente di emigrazione si può affermare che emerge il
mantenimento del dialetto, piuttosto che dell’italiano, presso le comunità emigrate da molto tempo. Non si escludono, inoltre, nelle
seconde generazioni, casi di mistilinguismo.

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