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20 APRILE

Introduzione - La dimensione verticale del diritto

La seconda parte del corso sarà incentrata sulla dimensione verticale del diritto, parleremo cioè
dell’autorità, del potere, dello Stato e della comunità internazionale, quindi di tutte quelle dimensioni che
sottolineano questa dimensione verticale del diritto. Ma vedremo anche che questa dimensione verticale
del diritto non è una relazione descrivibile top-down, cioè una relazione unidirezionale che va dall'alto
verso il basso, ma in qualche maniera è una relazione bidirezionale. Il diritto, rispetto alla politica, implica
un'esigenza di articolazione della dimensione verticale, cioè il diritto ha la funzione di addomesticare quelle
relazioni verticali, di addomesticare in qualche maniera il potere, l'autorità. Questo tema lo
identificheremo come il Rule of Law, la cui essenza è quella di addomesticare la tentazione del potere di
essere arbitrario, impositivo, di essere cioè forza. Parlando della dimensione verticale del diritto avremo a
che fare soprattutto con la teoria statalista del diritto, cioè con quella teoria secondo la quale è proprio un
potere sovraordinato a essere il detentore del diritto. Per fare questo, inoltre, faremo anche una riflessione
di carattere storico che ci porterà a integrare la dimensione fenomenologica con la dimensione ontologica
e deontologica del diritto, cioè ad esaminare alcune caratteristiche di come il diritto è oggi, come si sta
evolvendo e per questa ragione oltre al diritto dello Stato ci troveremo a discutere della dimensione
internazionale del diritto.

L’autorità – Relazione asimmetrica

Abbiamo già parlato di regole autoritative e di eteronomia. Adesso, però, più che sulle regole, quindi
sull’autorità come caratteristica delle regole (autoritatività), ci concentreremo sull'autorità come una
relazione tra le persone. Perché è proprio questa idea che l'autorità sia da riferire ad una relazione tra le
persone che può creare problemi. Finché, infatti, io parlo di una regola autoritativa rispetto a un soggetto
posso pensare al famoso puzzle man che si domanda come agire e che si ritrova le regole giuridiche come
ragioni possibili, quindi a un soggetto che di fronte ad una molteplicità di ragioni per agire ne sceglie una.
Quando, invece, parliamo dell’autorità parliamo di due soggetti che sono in una posizione diversa. Questa
posizione è una posizione asimmetrica, cioè ci sono un soggetto che ha autorità e che è sovraordinato e un
soggetto che è subordinato. In termini giuridici, ogni relazione asimmetrica di per sé fa pensare ad
un’ingiustizia, nel senso che la giustizia ha a che fare con l'eguaglianza, la proporzionalità, l'equilibrio tra le
parti. Quindi, il tema dell'autorità è interessante perché si è di fronte ad una relazione che,
apparentemente, proprio per la sua struttura asimmetrica, è una relazione ingiusta, che manca di quella
eguaglianza tipica della giustizia. Per questo si crea un problema con l'autorità, perché mai dovremmo
accettare che qualcuno sia sovraordinato a noi e mai qualcuno dovrebbe accettare di essere subordinato a
noi.
Questa è una riflessione che in realtà vale per ogni tipo di autorità, perché ogni tipo di autorità è
solitamente una relazione asimmetrica. La struttura in realtà dovrebbe essere ternaria, cioè dovrebbero
essere tre gli elementi presi in considerazione: un soggetto sovraordinato, un soggetto subordinato, ma
anche un campo di azione al quale è relativa quella autorità. Se prendiamo questi tre elementi come i tre
elementi fondamentali della relazione che possiamo chiamare autorità, possiamo fare molti esempi di
autorità: la relazione tra il docente e discenti, quella tra i genitori e figli, tra il medico e il paziente, tra
l'avvocato e il cliente, ecc.
C'è anche l’autorità epistemica, importantissima nel contesto in cui ci troviamo: il comitato tecnico-
scientifico è l’espressione di un'autorità di tipo epistemico, cioè conoscitivo, è la scienza. Noi stiamo
assistendo ad un fenomeno curioso e cioè che le regole che siamo tenuti a seguire non sono stabilite, come
abitualmente succede, da autorità giuridiche\politiche, ma da tecnici e scienziati.

Come giustificare tale relazione asimmetrica?

La questione è come si possa giustificare una relazione asimmetrica tra le persone. Intuitivamente, noi
sosteniamo di essere eguali. E allora come può questa eguaglianza essere compatibile con queste relazioni
asimmetriche di autorità. A darci qualche indizio è la semantica: l'autorità viene da augere, che significa
accrescere. Lo stesso significato di accrescere introduce un criterio di giustificazione dell'autorità, che è a
vantaggio di chi è subordinato. Cioè, se l’autorità è giustificata dal suo fine di accrescere qualcuno, il
vantaggio di essere in una relazione di autorità è appunto il vantaggio di chi è subordinato, non di chi è
sovraordinato: l’autorità dei genitori nei confronti dei figli ha la funzione di occuparsi della crescita,
dell'alimentazione, della protezione, dell'educazione, dell'istruzione dei figli; così anche nella relazione
medico-paziente è il paziente ad ottenere un vantaggio dal medico, cioè quello di essere curato.
È giusto accettare di agire sulla base del fatto che qualcuno vuole che io agisca in un determinato modo?
Questa relazione ha una sua giustificazione? Questo è il problema dell'autorità.

Differenza tra autorità e potere

Una prima distinzione che possiamo fare assumendo che questo concetto vada bene come descrizione è
quella tra autorità e potere. È una distinzione difficile da tracciare perché qualunque autorità è espressione
di un potere. La differenza si potrebbe individuare, secondo Hannah Arendt, nella possibilità dell’autorità di
agire di concerto. Cioè ogni autorità ha un potere (il potere del medico di dire quali sono le cose che devo
mangiare, per esempio), esercita un potere, il quale molto spesso è un potere normativo, di produrre
norme. Anche il potere è espressione di questo, ma a differenza dell’autorità il potere può essere anche
esercitato da solo. Per esempio, il diritto di proprietà si può tradurre in un potere e consiste nel fatto che io
della mia proprietà posso fare quello che voglio. Il potere, quindi, non per forza implica una relazione con
un altro soggetto, la dà per scontato nel senso che esige che l'altro si astenga dall’interferire con il mio
potere. Ma mentre il potere può essere esercitato individualmente, non presuppone una relazione attiva,
nell'autorità c'è sempre questa dimensione di coordinarsi con un altro. Quando viene riconosciuta una
competenza, questa può essere esercitata indipendentemente dalla relazione che abbiamo con gli altri;
quando, invece, si parla di autorità, si suppone sempre che ci siano un soggetto sovraordinato e un
soggetto subordinato che agiscano di concerto, si agisce insieme, l’autorità ha a che fare con questa azione
comune.
[Distinzione dei Romani tra potestas e auctoritas]
La capacità dell’autorità è quella di mettere insieme persone diverse e fare in modo che queste persone
agiscano in una maniera coordinata.

Differenza tra autorità e coercizione

L’autorità può essere anche distinta dalla coercizione, dalla forza. Questa è una delle ragioni per cui la
dimensione delle sanzioni non è l'unica nozione di forza tipica del diritto, anzi non è nemmeno la più
importante, perché è molto più importante l'autorità rispetto alla coercizione. Sia nel caso della relazione
autoritativa sia nel caso della relazione fondata sulla coercizione c’è sempre una relazione asimmetrica.
Però, la caratteristica dell'autorità è che perché si dia autorità è necessario che chi è subordinato la
riconosca come tale. Quindi, a distinguere autorità e coercizione è un elemento di consenso: solo l’autorità
che io riconosco riesce a farmi agire in un determinato modo (solo il medico che io riconosco come autorità
è capace di fare sì che io prenda le medicine). L'autorità a differenza della coercizione richiede che il
soggetto subordinato riconosca, accrediti l'autorità, cioè le dia credito. Nel caso della coercizione io devo
agire in un determinato modo perché sono costretto; nell’autorità io riconosco l'autorità e agisco come
l'autorità stabilisce.

Differenza tra autorità e contrattazione

L’autorità può essere anche distinta dalla contrattazione in quanto la contrattazione non è una relazione
asimmetrica: nella contrattazione ci sono due parti che sono sullo stesso piano e che cercano di trovare un
accordo.

Differenza tra autorità e persuasione

L’autorità si distingue dalla persuasione in quanto il credito che io riconosco all'autorità è un credito in
senso stretto, cioè è una cosa che io riconosco, in un certo senso, senza elementi, non è il frutto di una
persuasione fondata su un’argomentazione, un convincimento. L'autorità funziona come tale non quando
mi ha convinto che devo seguire le sue regole, ma quando io anticipatamente la riconosco:
sostanzialmente funziona su una presunzione, cioè sulla presunzione che effettivamente ha gli elementi
adeguati per stabilire qual è il corso d'azione che dobbiamo seguire (io riconosco autorità ai miei genitori
sulla base del fatto che mi fido che vorranno che io sopravviva, che mi alimenti bene, che mi istruisca bene
e così via). È una presunzione basata su determinati elementi, per esempio nel caso del docente è basata
sul fatto che io so che prima di insegnare all'università si devono fare dei concorsi volti a valutare la sua
preparazione, lo stesso potremmo dire relativamente all'esercizio della professione medica e così via. La
tendenza moderna per individuare le posizioni di autorità è quella di stabilire una serie di procedure.
Nell'antichità era più importante la verifica sostanziale, cioè a fare il medico non era uno che faceva un
concorso, una procedura, degli studi specifici presentava dei titoli, ecc., ma una persona che sapeva curare,
quindi l'autorità veniva guadagnata sul campo.

L’obiezione dell’anarchico

L’obiezione dell’anarchico riguarda una difficoltà evidente nella descrizione dell’autorità fornita che, nel
caso dell’anarchico, diventa un ostacolo nell’accettazione di ogni autorità. Abbiamo già visto che c’è un
aspetto paradossale dell’autorità per cui al fine di far funzionare l’autorità c’è bisogno che chi è
subordinato riconosca autorità a chi è sovraordinato, cioè al soggetto più forte. L’anarchico vede
sistematicamente nell’autorità una violazione del principio della autonomia, l’obiezione dell’anarchico
consiste nel ritenere che in nessun caso una relazione asimmetrica che ha a che fare con l’eteronomia
possa essere accettata. L’anarchico cioè vede nella struttura di ogni relazione autoritativa un’invasione,
una negazione della libertà del soggetto subordinato. Questa obiezione è un'obiezione generale al principio
dell'autorità, all'esistenza dell'autorità. L’obiezione dell’anarchico è possibile in ogni relazione autoritativa,
ma in alcuni casi è insensata, ad esempio in una relazione professionale o genitoriale.
Nel campo giuridico e politico ci troviamo davanti ad una situazione diversa, perché in questo caso
l'obiezione dell'anarchico si configura come la pretesa del riconoscimento dell’eguaglianza di tutti. Secondo
Aristotele ci sono due forme di dominio sulle persone: il dominio dispotico e il dominio politico. Il dominio
dispotico è il dominio che si ha nei confronti dei figli e degli schiavi, la caratteristica di questo dominio è
quello di poter fare quello che si vuole delle cose proprie. Nell’ambito delle relazioni politiche, invece, chi si
trova in una posizione sovraordinata esercita il dominio sugli eguali, cioè il soggetto sovraordinato è eguale
a tutti gli altri, non ha nessuna proprietà che lo collochi su un altro piano. Questo è molto importante
perché ci fa capire come la situazione che stiamo vivendo adesso, in cui sono gli scienziati a decidere delle
regole, sia una situazione peculiare rispetto alla normalità dell'autorità giuridica e politica. La normalità del
dominio giuridico e politico, infatti, è che tutti siano eguali e liberi e che alcuni di questi esercitano
l'autorità, quindi alcuni di questi sono sovraordinati rispetto agli altri.
Per l'anarchico non c'è mai una ragione che possa giustificare questa sovraordinazione. Secondo
l'anarchico, cioè, non esiste una ragione per la quale si possa accettare che qualcun altro stabilisca come si
debba agire. La ragione di questa inaccettabilità dell'autorità sta nel fatto che, proprio perché le persone
sono libere ed eguali, ognuno deve decidere per sé. Nell’obiezione dell'anarchico alla autorità sembra di
rintracciare un’identificazione tra coercizione e autorità. Quello che l'anarchico non vede è che l'autorità
ha a che fare con l’azione comune. Se io assolutizzo l'elemento dell'autonomia, cioè se io ritengo che non ci
sia mai nessuna ragione che possa giustificare che io debba fare come dicono altri, nemmeno quando si
tratta di un'azione comune, evidentemente io non accetterò mai il concetto di autorità. Il problema è che
l’autorità riguarda le nostre azioni comuni, risolve il problema della coordinazione tra tutti: è chiaro che se
io prendo questi individui singolarmente devo riconoscere che ognuno di essi ha una sua autonomia, ma il
problema del diritto non riguarda quello che ognuno fa per i fatti propri, ma quello che il singolo fa con noi,
quindi quello dell'azione comune e l'azione comune richiede un principio di coordinazione, in ciò risiede,
secondo gli studiosi, la giustificazione dell'autorità. L'azione comune, che è uno degli elementi tipici del
diritto, è una cosa diversa da un'azione individuale. È vero che le azioni comuni sono costruite sulle azioni
individuali di molti, ma dire che io devo fare come dice l’autorità quando devo decidere le cose per i fatti
miei è una cosa diversa dal dire che l'autorità opera quando siamo in più a dovere decidere come agire.
Quindi la risposta all'obiezione dell'anarchico contro l'autorità non può che andare nella linea di fare
vedere all'anarchico che qui in gioco non c'è solo l'azione individuale, ma c'è l'azione comune. Per
quest’azione comune noi dobbiamo trovare un metodo di coordinazione e questo metodo di
coordinazione ha soltanto due possibilità: o l’unanimità, quindi si è d'accordo tutti su quello che bisogna
fare e in questo modo la coordinazione realizza il massimo dell'autonomia di ciascuno, oppure dobbiamo
seguire la regola dell'autorità, cioè volta per volta ci sarà qualcuno che decide qual è il corso di azione che
tutti dobbiamo seguire, posto che l'autorità è tipicamente un espediente per risolvere un problema
pratico, relativo a che cosa fare. Questo era il problema degli angeli, ossia quei soggetti intelligenti che
vogliono coordinarsi, ma sono talmente intelligenti che ognuno di essi è portatore di una versione
intelligentissima per la soluzione del problema pratico che hanno. Ma poiché ognuno ha una soluzione
brillantissima c'è bisogno che qualcuno ne scelga una e che questa si realizzi. Facendo un esempio più
semplice, tenere la destra o tenere la sinistra nel traffico è identico, non c'è una maggiore convenienza a
guidare a destra o a guidare a sinistra, ma solo scegliendo a destra o a sinistra è possibile ordinare il
traffico. Questa è la funzione dell'autorità. Nell’obiezione dell'anarchico manca la considerazione che la
finalità dell'autorità è quella di regolare l'azione comune e che per regolare un'azione comune ci sono varie
strade e bisogna scegliere una di queste.
Delle posizioni anarchiche si ritrovano anche tra alcuni pensatori della filosofia politica. Questa posizione
rende problematico il diritto perché non permette quella presunzione di fiducia. L'atteggiamento
dell'anarchico si vede laddove si insiste per verificare ognuna delle azioni delle autorità e volta per volta
valutare se quella determinata regola prodotta dall'autorità va bene con il mio giudizio oppure no. Quindi
la posizione dell'anarchico è sostenuta da quelle teorie che negano che l’autorità possa avere una sua
giustificazione e che dunque riconducono il problema dell'autorità del diritto a una valutazione singola di
ciascuna delle regole, sulla base, però, e questo è il problema, di parametri individuali. Se non c'è l'autorità
allora è l'individuo a dover decidere della correttezza o meno della regola. Questo non significa
necessariamente che si decide in base ai propri interessi, perché non è detto che l’anarchico non sia una
persona interessata al bene comune, ma deve essere sempre lui a stabilire quello che va bene per il bene
comune. La posizione opposta è quella di rendersi conto che l'azione comune, in assenza di una unanimità
da parte di tutti, talvolta sarà secondo i miei giudizi individuali autonomi talaltra invece sarà contro i miei
giudizi, ma se accetto il metodo dell'autorità dovrò assumere come validi i giudizi dell'autorità. Questo non
perché non abbia io stesso i criteri e le capacità di giudicare, ma perché l'azione di cui si giudica non è la
mia azione individuale, ma è l'azione di tutti, quindi devo tenere conto che ci saranno altri che avranno
idee diverse.

La traduzione dell’autorità in termini di autorizzazione.


Una delle formule che storicamente sono state utilizzate per risolvere il problema del dell'anarchico è
quello della traduzione dell'autorità in termini di autorizzazione. L’autorità come risultato di una
autorizzazione da parte dei liberi ed eguali è una idea di Thomas Hobbes, che scrive nel 1600 e che è un
sostenitore dell'assolutismo politico. L'idea di Hobbes è l'idea moderna per eccellenza in campo di autorità.
Hobbes dice che l'autorità è legittimata a decidere della nostra azione comune perché noi l'abbiamo
autorizzata a farlo. Avendo noi, cioè, autorizzato qualcuno a decidere per noi, questa autorizzazione è alla
base del fatto che tutti dobbiamo sottoporci all'autorità. Lo stato di natura, secondo Hobbes, è lo stato
della lotta di tutti contro tutti e per uscire da questo stato di natura, cioè per trovare un ordine nella
società dobbiamo cedere i nostri diritti e le nostre libertà ad un potere. Questo potere, che lui chiama
Leviatano e che si impone attraverso la paura che suscita con le sanzioni e le punizioni, lo abbiamo però
creato noi, lo abbiamo autorizzato noi. Quindi, in un certo senso, la chiave dell'autorità, secondo Hobbes,
starebbe nel fatto che avendo io autorizzato il potere mi sono auto-obbligato.
Questa idea dell'autorizzazione è alla base di tutta una serie di meccanismi politici di creazione del potere.
Nel caso del Leviatano l’autorizzazione riguarda un potere territoriale, cioè un potere che si trova in un
determinato territorio, che deve difendere il territorio dagli altri e così via.
Thomas Hobbes cambia un brocardo antico che stabiliva la superiorità del diritto sul potere politico e che i
medievali enunciavano nella forma di “lex facit regem”, cioè è la legge a fare il re; Hobbes lo trasforma in
“auctoritas facit legem”, cioè è l'autorità a fare il diritto, ma per autorità si intende un potere autorizzato.
Si potrebbe quindi rendere nella forma “rex facit legem”. Secondo Hobbes prima viene il re e poi viene il
diritto, perché è il re a fare il diritto, attraverso l’auctoritas che sostanzialmente consiste nel meccanismo
dell'autorizzazione.

21 APRILE
Il concetto di autorità come autorizzazione diventa la chiave per capire l’autorità in senso moderno
identificandola con un soggetto politico che è una delle facce della sovranità.
Il modo classico di affrontare questo tema è quello di contrapporre l'autorità in senso politico e l’autorità in
senso giuridico. Queste due facce dell’autorità, la faccia politica e la faccia giuridica, sono difficilmente
distinguibili, però possono e devono essere distinte. Sono difficilmente distinguibili soprattutto se
consideriamo che da alcuni secoli il modo più diffuso di concepire il diritto è quello della teoria statalista
del diritto, che mette insieme questi due elementi, cioè l’elemento giuridico e quello politico.
Il problema di distinguere l’autorità in senso giuridico dall’autorità in senso politico è abbastanza antico,
tanto che lo ritroviamo già sia in Platone che in Aristotele. Platone si domanda se sia meglio il governo
degli uomini o il governo della legge, cioè se sia superiore essere governati da uomini, quindi l'autorità in
senso politico, rispetto ad essere governati dalle leggi, dunque l’autorità in senso giuridico. Questo
problema implica la distinzione del volto politico del governo, intendendo governo come autorità, dal volto
giuridico del governo o dell'autorità. Per Platone è superiore il governo degli uomini solo quando gli uomini
sono i migliori, i più virtuosi, coloro che possiedono le virtù della giustizia, della temperanza e della
prudenza, quindi il governo dei filosofi. Per Aristotele, invece, è superiore il governo della legge (o delle
leggi, del diritto). Questo governo degli uomini comunque ha una sua storia che si incrocia con l’idea di
Hobbes dell'autorità come autorizzazione, come soggetto autorizzato ad esercitare il potere. Qui entra in
gioco la riflessione politica sulle migliori forme di governo che dall'antichità attraversa tutto il pensiero
umano, nella speranza di trovare quelle che meglio si adattano agli esseri umani. A tal proposito
dovremmo fare una riflessione sulla democrazia come forma di governo degli uomini, riflessione che parte
dai Greci, considerati dal pensiero occidentale gli inventori della democrazia. In realtà la nostra enfasi sul
valore positivo della democrazia andrebbe trovato nelle tradizioni medievali più che in quelle antiche,
comunque sicuramente c'è una strada verso la democrazia che in realtà diventa prevalente nella storia
occidentale quando si incontra con quell'altro movimento che è il parlamentarismo. Parlamentarismo che
è iniziato in Sicilia, perlomeno questo dicono gli studiosi. Cioè le prime espressioni di parlamentarismo si
trovano qui in Sicilia e consistono in esperienze di limitazione del potere del sovrano, di limitazione del
potere di chi è a capo da parte di gruppi e soprattutto dell’aristocrazia: il parlamentarismo nasce come una
forma di pressione che coloro che sono sottoposti al sovrano fanno sul sovrano, considerato che per
realizzare il suo governo il sovrano ha bisogno appunto degli aristocrati, dei nobili, dei baroni, cioè di quei
soggetti che esercitavano già un governo su altri territori. L’espressione più nota del parlamentarismo è la
Magna Charta di Giovanni Senza Terra. In realtà, questo evento della Magna Carta è comune a tutta Europa
e precedente in Sicilia. Ora possiamo guardare a questo meccanismo come uno strumento nel quale a
partire da un meccanismo che è quello dei parlamenti si introduce un limite all’autorità in senso politico.
Con il parlamentarismo inizia una esperienza di prevalenza di un meccanismo giuridico, di una procedura,
sul potere di quel soggetto che è considerato anche, in qualche maniera, il detentore di ogni potere, forse
anche semplicemente perché espressione di quel popolo. Con la costruzione dei parlamenti si inizia a
vedere una pluralità di voci, cioè nel parlamento ci sono le voci di altri che non sono il sovrano.
Naturalmente questa storia è molto limitata rispetto a quella che a partire dall'età moderna noi siamo
abituati a frequentare, perché nel frattempo il meccanismo è cambiato ed è quello della rappresentanza, la
quale funziona solo fino a quando c'è il suffragio universale. Cioè coloro che sedevano in Parlamento erano
i grandi proprietari terrieri che esercitavano a loro volta un potere sulle persone. Solo quando questa
rappresentanza politica è espressione di tutti è il momento nel quale noi parliamo di democrazia.
Questa storia che va da concezioni del potere assolutistiche verso concezioni del potere di tipo
democratico è una storia che caratterizza certamente l'evoluzione dello Stato moderno. Questa è la storia
dell'autorità in senso politico. Quello che a noi interessa di questa storia è piuttosto in che modo questa
storia si incontra con il diritto. Per esempio, una delle problematiche fondamentali di questa vicenda è
quella che, posta questa evoluzione verso forme sempre più democratiche e in cui la rappresentanza è
espressione di tutti e quindi la democrazia diventa espressione dei cittadini, si incontra un certo punto con
le costituzioni: c'è una problematica di rapporto tra democrazia e Costituzione. La Costituzione è
tipicamente uno strumento giuridico che ha un volto politico perché è espressione di un progetto politico,
ma un'espressione che è canalizzata attraverso uno strumento giuridico. E allora ci si potrebbe domandare
quale modello della democrazia è più adatto ad avere a che fare con la Costituzione, perché ci sono forme
diverse di democrazia: c'è la democrazia come meccanismo maggioritario che esprime il fatto che ognuno
conta per uno e vince la maggioranza e poi altre forme di democrazia che sono esperimenti che si stanno
facendo come la democrazia deliberativa, la quale è una forma di democrazia molto diversa rispetto a
quella maggioritaria. Queste forme diverse di organizzazione del potere politico mettono in gioco
meccanismi diversi: la democrazia maggioritaria mette appunto il valore di ciascuno; la democrazia
deliberativa, invece, si concentra su altri principi, sui principi relativi alla ricerca del consenso, allo scambio
di ragioni, alla possibilità di intendere il confronto politico non come un confronto tra forze diverse
(maggioranza e minoranza), ma come un dialogo tra forze eguali, in cui una buona argomentazione possa
convincere l’altra parte, implica quindi che il valore di un argomento non dipende da un numero maggiore
di persone che lo sostengono, ma dalla sua forza argomentativa e di conseguenza implica anche una
informazione adeguata delle persone. Abbiamo dunque la forza degli argomenti contro la forza dei numeri.
Questo tema ha delle ricadute, per esempio, nel modo di intendere la Costituzione, perché ci si potrebbe
domandare quale concezione della democrazia sia più adatta ad avere a che fare con la Costituzione. Gli
studiosi, per esempio, fanno la differenza tra un modo di intendere la Costituzione come il custode di un
tesoro che deve essere difeso da attacchi e\o erosione oppure la Costituzione come un progetto da
sviluppare, come portatrice di un seme che deve essere coltivato. Allora la domanda è se una democrazia
con un principio maggioritario sia una buona risposta allo sviluppo della Costituzione o se sia la democrazia
deliberativa il modello migliore per creare un ambiente nel quale la Costituzione può svilupparsi ed essere
applicata.
Il governo degli uomini, quindi, ha anche un suo percorso storico, una sua storia e una sua evoluzione che
non sempre si può fare al di fuori del raccordo con il diritto.
Da che cosa nasce questa idea del governo delle leggi? Qui è interessante ricordare le argomentazioni che
Aristotele usa per difendere la superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini. La prima è che
gli uomini hanno passioni, mentre la legge no, cioè gli uomini hanno la tendenza a lasciarsi prendere dalle
passioni e quindi anche dagli interessi, mentre la legge no. Sebbene infatti la legge sia prodotta dagli
uomini, il processo di formazione da parte di molti funge da purificazione della stessa da tutte quelle
passioni, quegli interessi che caratterizzano l’uomo. Il secondo vantaggio del governo del diritto sul
governo degli uomini Aristotele lo individua facendo il famosissimo esempio del banchetto organizzato
secondo il metodo “ognuno porta qualcosa”. C’è differenza tra il caso in cui qualcuno organizza un
banchetto con un menu deciso da quella persona e quello in cui il banchetto è organizzato con il contributo
di ciascuno. Tale differenza sta nella diversità di contributi che si realizza quando ognuno porta qualcosa. La
legge, il diritto, avrebbe questa caratteristica di essere capace di mettere insieme le diversità attraverso lo
strumento giuridico. Quindi il governo della legge sarebbe il frutto di una valorizzazione del contributo di
ciascuno e dunque sarebbe privo di quella limitatezza che un uomo imprimerebbe al proprio governo.
Qui abbiamo a che fare nuovamente con una origine politica della legge, perché Aristotele parla del caso in
cui la legge venga prodotta dalla moltitudine, dai più, non da uno solo.
Il collegamento con il tema dell’autorità in senso giuridico è da costruire guardando al fatto che l’autorità
in senso giuridico è tipicamente fondata sull’uguaglianza di tutti, anche di chi è sovraordinato rispetto a chi
è subordinato. Un’uguaglianza che non è strutturale, perché la relazione d’autorità è asimmetrica, ma
un’uguaglianza che viene ricostruita attraverso i vincoli che chi è sovraordinato ha nei confronti di chi è
subordinato. In un certo senso, è una misura di giustizia e di proporzione che viene costruita attraverso
vincoli.
Questa idea molto vaga, quella dei vincoli del potere, viene solitamente sviluppata quando si vuole
descrivere il cammino di quello che viene chiamato rule of law. L’essenza del rule of law sembra potersi
definire come controllo dell’arbitrio del potere, vincolo per chi esercita il potere. Vincolo che colloca sullo
stesso piano, pur mantenendo una asimmetria, chi è sovraordinato e chi è subordinato.
La storia antica del rule of law si è costruita attraverso l’individuazione di una serie di meccanismi di
controllo del potere. Per esempio, una di queste è la distinzione medievale tra la iurisdictio e il
gubernaculum. Si tratta della separazione di due competenze diverse: la iurisdictio è il dire giustizia,
amministrare la giustizia, governata in epoca medievale dalla consuetudine, cioè il re o chi per lui fanno
giustizia sulla base della consuetudine; il gubernaculum è quell’aspetto del governo in senso stretto che era
considerato assoluto da parte del re, riguardava tipicamente il potere di fare la guerra e di fare la pace.
Cioè il re aveva un potere assoluto in ciò che riguardava il gubernaculum, mentre invece era limitato dalla
consuetudine per quanto riguardava l’amministrazione della giustizia.
Ciò costituisce un’anticipazione ancora molto vaga di quella che sarà la separazione dei poteri, meccanismo
tipico del rule of law.
Riguardo alla nascita dello Stato ci sono due letture possibili, una che punta verso la continuità tra lo Stato
e altre formazioni politiche del passato, quindi una storia che cerca nei secoli precedenti delle strutture
simili a quello che noi oggi identifichiamo con lo Stato, e un’altra che, invece, vuole enfatizzare la
discontinuità tra lo Stato moderno e le altre formazioni del passato.
La tesi della continuità individua negli inizi del secondo millennio l’origine di quello che poi noi definiremo
come Stato; invece, la tesi della discontinuità trova l’origine dello Stato moderno sostanzialmente tra la
fine del 1700 e gli inizi del 1800. Si tratta ovviamente di ipotesi di lettura e dal punto di vista storico
entrambe le tesi riportano argomentazioni interessanti. Questa vicenda per noi è importante perché ci
consente di individuare una serie di elementi che poi collocheremo nella dottrina dello Stato.
La dottrina dello Stato, a differenza delle due tesi, è una disciplina giuridica e si occupa di individuare gli
elementi fondamentali per la definizione dello Stato. Questa dottrina individua come protagonisti tre
elementi: perché ci sia uno Stato deve esserci un territorio, un potere sovrano ed un popolo. Questi
sarebbero, secondo la dottrina, gli elementi definitori dello Stato e lo sviluppo di questa riflessione riguarda
questi tre elementi. Che cosa significano questi tre elementi?
Per sovranità si intende la pienezza dei poteri, dal punto di vista interno si caratterizza per la presenza di un
soggetto che assume tutti i poteri (concentrazione dei poteri in un soggetto) all’interno di un territorio ma
dal punto di vista esterno la sovranità è indipendente dagli altri poteri.
Questa descrizione della sovranità implica che questa non sia assoluta, anche se, spesso nella storia dello
Stato moderno si è inteso il contrario.
In merito al territorio invece si discute giuridicamente se questa sia una nozione giuridica o meno ma
evidentemente sì e si intende l’ambito di applicazione delle leggi dello Stato. Il territorio caratterizza
proprio i poteri dello Stato, tanto che la dottrina dello Stato chiama diritti territoriali quei diritti tipici dello
Stato moderno, ovvero il diritto di legislazione e giurisdizione dentro il territorio, il diritto di controllo dei
confini del territorio, il diritto di imporre tasse all’interno del territorio, chiamati territoriali perché il
territorio rappresenta il limite di questi diritti.
Il popolo è l’elemento più politico dello Stato ed è curioso trovare questo tra gli elementi definitori dello
Stato perché il popolo non è il punto di partenza della storia di uno Stato ma questa è una nozione che
rappresenta un progetto per lo Stato, un punto di arrivo. Quasi tutti gli stati europei sono stati costruiti
attraverso politiche di uniformazione linguista, istruzione civica della popolazione presente quando è Stato
costituito lo Stato. La nozione di popolo si distingue da quella di popolazione perché quest’ultima è una
nozione più sociologica, cioè riguarda le persone presenti su quel territorio mentre quando si parla di
popolo si parla di una popolazione che ha delle caratteristiche comuni, che esprime un progetto comune.
Nella prospettiva della continuità della storia dello Stato troviamo, per esempio, l’origine del concetto di
sovranità. Al momento della caduta del Sacro Romano Impero iniziarono a formarsi dei regni, che si
caratterizzano per una progressiva rivendicazione di un potere da parte del re (teoria che conferma la tesi
della continuità).
Il brocardo “rex in regno suo est imperator”, ovvero il re nel suo regno è imperatore, è l’espressione di un
iniziale concetto di sovranità. Si colloca questo fenomeno all’interno del Sacro Romano Impero, dove si
distingueva il potere dell’imperatore, caratterizzato dalla plenitudo potestatis, cioè il vero potere sovrano,
e il potere del re, che esercitava dei poteri su concessione dell’imperatore. Ma, ad un certo punto, i giuristi
cominciano a riconoscere che il rex in regno suo est imperator, cioè che la plenitudo potestatis, la pienezza
dei poteri, che prima aveva l’imperatore su tutto il territorio del sacro romano impero, adesso appartiene a
quel soggetto che si chiama rex.
Questa vicenda si combinava con l’esistenza di un altro potere, che aveva una plenitudo potestatis ancora
più importante perché riguardava il terreno spirituale, ovvero quella dei pontefici. La presenza di un potere
spirituale che doveva essere distinto dal potere temporale, ovvero due poteri che avevano, sempre
secondo il principio della limitazione, il potere di controllarsi. La teoria delle due spade era pensata come
un modo di limitare l’uno e l’altra.
In questo contesto l’idea della sovranità, espressa dal brocardo rex in regno suo est imperator, è una
sovranità limitata perché (teoria che conferma la tesi della discontinuità) il re, pur essendo imperatore nel
suo regno, era comunque limitato dall’esistenza dell’altra spada, ovvero del potere temporale. La storia di
questa sovranità non è ancora la storia di quella sovranità che darà luogo allo Stato moderno e cioè l’idea
di una sovranità assoluta.
Jean Bodin dice che il sovrano è legibus solutus, cioè è sciolto dal potere della legge, è al di sopra di essa
nel senso che il potere politico ha il primato sul diritto, ma in realtà nella sua opera c’è ancora la
percezione che il sovrano sia limitato da altre cose, come le leggi della logica o le leggi divine; il potere
politico, però, ha di fatto il primato sul diritto.
Questa è una prima vicenda che attiene all’elemento della sovranità, ma c’è un altro aspetto della storia
dello Stato che ha a che fare con l’organizzazione interna e anche qui ci sono due versioni: una è di Berman
che ha scritto il libro “Diritto e rivoluzione”, che riguarda la nascita dello Stato, il quale individua nella
prospettiva della continuità nell’evoluzione della struttura interna della chiesa l’elemento tipico dello Stato
moderno, la tesi di questo autore è che lo Stato moderno sia riconoscibile per una sua organizzazione
interna, anche giuridica, e che tale organizzazione sia stata “copiata” dalla Chiesa. L’altra tesi è, invece,
quella di Max Weber (pronuncia Veber), sociologo del Novecento che si configura come il principale
rappresentante della tesi della discontinuità poiché egli afferma che per studiare lo Stato dobbiamo
cercare gli elementi di discontinuità rispetto alle formulazioni del passato e la chiave per comprendere ed
individuare la nascita dello Stato sta in una particolare evoluzione di queste strutture politiche che lo
vedono come l’organo che assume il monopolio della produzione giuridica (non a caso Weber è un
sostenitore della teoria statalista del diritto) e il monopolio della forza pubblica, quindi delle sanzioni e
della coercizione. Lo Stato è inoltre caratterizzato da un’organizzazione razionale, per mezzo della pubblica
amministrazione: lo Stato esisterebbe soltanto quando si è già evoluta l’organizzazione interna secondo
quello che noi chiamiamo diritto amministrativo. Tale pubblica amministrazione è organizzata secondo i
criteri dell’impersonalità, della razionalità e della specializzazione.
L’affermazione di Luigi XIV, ovvero “Lo Stato sono io”, per Weber è sbagliata poiché ancora non esisteva un
vero e proprio Stato. C’era il monopolio della produzione giuridica, ma mancava l’organizzazione della
pubblica amministrazione come struttura portante dello Stato, che ha una storia più recente, risale infatti
all’800, nel momento in cui si iniziano ad organizzare quelle che venivano chiamate le corti del re, sulla
base di specializzazioni, attraverso quello che noi chiamiamo sistema burocratico.
L’altro elemento fondamentale per questa storia dello Stato moderno riguarda la forma di legittimazione
del potere, cioè secondo Weber il potere per diventare autorità deve essere legittimato perché senza si
riduce a forza. I criteri di legittimazione del potere sono diversi: ci sono poteri di tipo tradizionale, di tipo
carismatico e di tipo legale-razionale. Per Weber la legittimazione del potere dello Stato moderno avviene
attraverso la legge (legale-razionale), è quindi il diritto a legittimare chi ha il potere. Ad esempio, secondo
la teoria di Weber Cuba non sarebbe identificato come Stato moderno, perché il potere era di tipo
carismatico, fondato cioè sul carisma di un personaggio, in questo caso Fidel Castro.
Naturalmente tra la lettura della continuità e della discontinuità ci sono delle differenze, entrambe le
ipotesi mostrano degli aspetti dell’evoluzione di quella identità che oggi conosciamo come Stato. La teoria
statalista del diritto lo individua come attore per eccellenza del diritto: quest’ultimo è tale quando è
prodotto dallo Stato.

26 APRILE

Le teorie stataliste
Dal punto di vista metodologico, potremmo dire che le teorie stataliste del diritto utilizzando un metodo
paradigmatico, in quanto scelgono una forma in particolare di diritto, quella che considerano la migliore, in
questo caso il diritto prodotto dallo Stato. Di conseguenza, però, sono portate a pensare che le altre forme
di diritto siano difettose.
Abbiamo anche accennato a due teorie che analizzano e discutono la storia dello Stato e abbiamo visto che
ci sono ragioni per sostenere la teoria della continuità, cioè l’idea che lo Stato abbia una storia millenaria;
dall’altra parte abbiamo, però, esaminato la teoria della discontinuità, ovvero quella di Weber, secondo la
quale lo Stato sarebbe un fenomeno nuovo, sorto quando, nel 1800, quell’identità comincia ad assumere le
forme del monopolio giuridico e della forza pubblica e lo Stato è organizzato in modo razionale da una
pubblica amministrazione che si organizza in modo burocratico, il tutto grazie alla legge e cioè ad un
ordinamento razionale.
Abbiamo anche aggiunto una riflessione che si compone, nel 1800, intorno allo studio del diritto statale
che abbiamo chiamato la dottrina statale, disciplina giuridica che si insegna anche all’università. La dottrina
dello Stato è il frutto di una riflessione scientifica (da parte della scienza giuridica) sullo Stato che porta
come suo contribuito alla conoscenza dello Stato l’individuazione di tre elementi fondamentali di cui lo
Stato si compone: il popolo, il territorio e il potere sovrano. Questi tre elementi si appoggiano l’uno
all’altro, dipendono l’uno dall’altro.
Quasi la totalità di queste assunzioni, però, è messa in crisi studiando l’evoluzione dello Stato moderno,
cioè analizzando come si presenta oggi lo Stato. Basta pensare all’omogeneità linguistica e valoriale che
caratterizza il concetto di popolo: nello Stato moderno si riconoscono una pluralità di lingue, di valori, di
tradizioni. La Costituzione non è espressione di un unico sistema di valori, quanto piuttosto il luogo
dell’incontro di espressioni diverse.
Se guardiamo a come lo Stato oggi si presenta, quindi, vediamo che quasi tutte le sue dimensioni
caratterizzanti sono andate verso un processo di evoluzione. Le trasformazioni dello Stato hanno
ovviamente delle ricadute sul diritto e creano scompiglio soprattutto nella teoria statalista del diritto, che
ha identificato il diritto unicamente come un prodotto dello Stato.
Per comprendere e memorizzare l’evoluzione dello Stato possiamo ricorrere a tre parole chiave:
codificazione, costituzionalizzazione, internazionalizzazione.
Queste tre parole riguardano l’evoluzione dello Stato e, di conseguenza, anche quella del diritto.
Potremmo dire che queste tre parole indicano il lavoro che il diritto ha fatto dentro lo Stato, grazie a questi
fenomeni giuridici il diritto è stato capace di trasformare lo Stato.

Codificazione
La codificazione del diritto nello Stato è espressione di un progetto che si realizza attraverso il diritto.
La codificazione inizia nell’800 con il Codice Civile napoleonico, ma è un fenomeno che si trova anche in
altri contesti storici come le dodici tavole o il Corpus Iuris di Giustiniano.
È un fenomeno giuridico nel quale l’istanza fondamentale è quella di fissare il diritto in forma scritta al fine
di renderlo più certo e più facilmente accessibile.
Quest’idea diventa fondamentale agli inizi della storia moderna dello Stato, cioè in quel periodo in cui lo
Stato inizia a rafforzarsi e ad organizzarsi, in quanto si ritiene che il contesto nel quale si verifica la
codificazione fosse caratterizzato da elementi che rendevano il diritto molto incerto. Il contesto è, infatti,
quello della crisi del cosiddetto diritto comune: al diritto romano, infatti, lungo tutto il periodo medievale si
erano aggiunte tradizioni e consuetudini locali e germaniche. Con il passare del tempo, il diritto romano
che era diventato diritto comune in Europa si è completamente sbriciolato in tradizioni locali, secondo un
andamento definito dagli storici particolaristico: si era persa l’unità del diritto, quell’insieme comune di
diritto, e, addirittura, quei principi giuridici del diritto romano rimasti erano considerati residuali.
Questa vicenda è particolarmente interessante perché secondo alcuni, soprattutto nel diritto civile, c’è oggi
una tendenza a recuperare quei principi del diritto comune.
Gli obiettivi della codificazione sono almeno tre.
Il primo è quello dell’unità dell’ordinamento giuridico. La prima unificazione avviene intorno al monopolio
della produzione giuridica, cioè c’è un unico diritto costruito attraverso il sistema delle fonti, il quale viene
gerarchicamente ordinato e alla cui cima troviamo la legge. La legge è, quindi, la fonte per eccellenza del
diritto, ma insieme a quello della fonte del diritto c’è il problema dell’unificazione del soggetto delle leggi,
che fino a quel momento era diversificato.
L’unità consente la realizzazione di un’eguaglianza formale di fronte alla legge.
D’altra parte, c’è anche l’idea che il diritto, attraverso la codificazione, serva anche a razionalizzare lo Stato
e la capacità dello Stato di rafforzare certi assetti.
Dietro a tutto questo ci sono dei presupposti ideologici che bisognerebbe ricondurre al giusnaturalismo
razionalista, ovvero quella forma di comprensione del diritto naturale secondo cui il diritto naturale è una
creatura della ragione umana.
Quest’idea del diritto naturale si può trovare alle origini della codificazione o nella forma di un sovrano
illuminato, ovvero colui che conosce le leggi della ragione e quindi è il candidato migliore a produrre un
diritto razionale, oppure può essere individuato attraverso quella dottrina filosofico-politica di Rousseau,
secondo cui la volontà generale (di tutti) è per definizione razionale e quindi attraverso la sovranità
popolare la razionalità della volontà generale si trasmette al codice.
In entrambi i casi, la migliore espressione della razionalità è da ricondurre alla legge.
Qui c’è il consolidamento progressivo di un diritto legislativo, che dà concretezza alla volontà del legislatore
sia che esso venga concepito come sovrano illuminato sia che venga concepito come espressione della
volontà generale.
Questa superiorità del diritto legislativo, della legge è una superiorità che si pone sul piano morale, cioè la
legge, perché razionale e portatrice di questo progetto di eguaglianza, è superiore ad esempio alla
consuetudine.
La seconda caratteristica del legislatore (la prima caratteristica è la razionalità) è l’onnipotenza giuridica
cioè solo il legislatore produce il diritto. Tale onnipotenza si svilupperà attraverso una impronta tipica che il
legislatore lascia nel codice, che è la sua completezza.
Mentre la razionalità produce un diritto coerente e un diritto che procede attraverso la legge generale e
astratta, l’onnipotenza del legislatore, il fatto che sia l’unica fonte di diritto, imprime al codice la
caratteristica della completezza: non c’è diritto al di fuori del codice e il codice è tutto il diritto che c’è.
Nell’evoluzione di questo fenomeno giuridico della codificazione vedremo che questa onnipotenza del
legislatore andrà evolvendo nella linea dell’individuazione di limiti per il legislatore. La costituzione, ad
esempio, può essere vista come un modo per limitare il potere del legislatore.
In realtà questa storia sarà un po’ più articolata perché nell’1800 si svilupperanno due teorie sui limiti dello
Stato, una tipicamente politica ovvero la dottrina liberale, per cui il legislatore ha dei limiti che sono esterni
e stanno nei diritti degli individui, e una giuridica secondo cui il legislatore ha dei limiti che stanno nel
diritto stesso, ovvero sarebbe il diritto stesso il limite del potere politico (nel caso della legge ci sono i
principi dello Stato di diritto, la separazione dei poteri e poi l’organizzazione interna attraverso il principio
di legalità).
Le caratteristiche che presenta la codificazione sono innanzitutto la generalità e l’astrattezza della legge.
La legge viene intesa come generale perché riferita ad una categoria universale di soggetti, si tende ad
eliminare tutte le differenze.
Siccome il diritto ha bisogno di categorie specifiche per procedere, di determinazioni, universalità di una
categoria significa che, individuata una determinata categoria, tutti gli appartenenti a quella categoria sono
soggetti a quella legge.
La legge è astratta, invece, in quanto il diritto viene veicolato attraverso modelli di azioni, che sono
individuati come il contenuto al quale si applica una certa caratteristica giuridica.
Generalità e astrattezza della legge sono espressione dell’eguaglianza.
Le leggi non devono essere solo generali ed astratte, ma anche chiare, semplici e di numero limitato, cioè
poche, perché questo rende possibile l’obbedienza al diritto.
Queste leggi prodotte dal legislatore si organizzano in maniera ordinata, nella forma di codici, che
forniscono un’organizzazione alla legislazione statale.
Questi codici saranno, proprio come specchio di chi li ha prodotti, coerenti e completi, o meglio devono
coerenti e completi: coerenti perché il legislatore è razionale e completi perché il legislatore è l’unica fonte
di diritto e tutto il diritto è riconducibile al legislatore.
La coerenza e la completezza sono intese come dogmi, cioè non sono caratteristiche descrittive del codice.
Infatti, nel codice spesso si trovano incompletezze e contraddizioni. Il punto è che la scienza giuridica
guarda al codice assumendo che esso debba essere completo e coerente. E quindi, più che di coerenza e
completezza, bisognerebbe parlare di completabilità e di coerentizzazione.
Quando si dice che un codice è coerente si intende dire che in esso non ci sono antinomie. Le antinomie
sono appunto le contraddizioni, il fatto che una determinata fattispecie (modello tipico di azione) venga
disciplinata in maniera contrastante.
Il dogma della coerenza impone che ci siano criteri per risolvere queste antinomie, che sono a loro volta
espressione di quel progetto che è sotteso al codice:
Il primo è il criterio temporale, perché la legge può essere abrogata soltanto da un’altra legge. Il criterio
temporale è espressione di un diritto diverso rispetto al diritto comune, che venne progressivamente
modificato, fino ad essere messo da parte, dalle tradizioni e dalle consuetudini: questo diritto, invece,
essendo prodotto da leggi, viene cambiato solo da altre leggi, per cui una legge più recente prevale su
quella precedente.
Il secondo è il criterio gerarchico, facilmente riconducibile anch’esso a questa unificazione del diritto
attraverso un sistema ordinato e gerarchico delle fonti, per cui se il diritto è stato prodotto dal legislatore
va sempre prima e prevale su tutte le altre forme di produzione delle norme, come ad esempio i
regolamenti.
Infine, abbiamo il criterio della specialità, ovvero la legge speciale prevale su quella ordinaria: quando una
disciplina relativamente ad una materia è più dettagliata prevale su quella generale.
Si possono avere antinomie tra i criteri e anche qui ci sono dei criteri per risolvere i conflitti tra le
antinomie.
L’idea, quindi, non è che le antinomie non ci siano, ma che queste siano risolvibili.
Questo sistema abbastanza semplice entra in crisi quando si prende consapevolezza delle diverse strutture
che possono avere le norme giuridiche, cioè quando si inizia a prendere consapevolezza della presenza dei
principi giuridici, una categoria presente nell’ordinamento anche prima della costituzione, ma che quando
è avvenuta la costituzionalizzazione hanno scavalcato anche il sistema gerarchico, andandosi a collocare al
di sopra delle leggi.
Una delle novità dei principi costituzionali riguarda proprio la risoluzione delle antinomie. Infatti, mentre le
antinomie normative, ovvero quelle tra due leggi, finiscono con l’esclusione di una di esse secondo i tre
criteri, l’antinomia tra principi richiede il bilanciamento tra questi senza l’esclusione di uno di essi. La regola
del bilanciamento è quella della proporzionalità per cui la maggiore importanza di un principio porta alla
prevalenza sull’altro, ma non fino alla compressione estrema dell’altro, il quale deve essere ponderato.
La completezza dell’ordinamento, che, come abbiamo visto, è il portato dell’onnipotenza del legislatore e
che deve essere interpretata nel dogma della completabilità, è sostanzialmente una tecnica volta
all’eliminazione delle lacune.
Queste lacune vengono ritenute fin dall’inizio apparenti, cioè in realtà non ci sono delle vere e proprie
lacune, perché il codice ha la risposta per tutto. C’è una letteratura del ‘900 molto interessante sulle lacune
dell’ordinamento giuridico e la questione è di due tipi. Innanzitutto, la completabilità implica la possibilità
di integrazione dell’ordinamento giuridico, quindi le apparenti lacune vengono risolte con l’integrazione di
una norma per il caso apparentemente non disciplinato.
Come possiamo integrare l’ordinamento giuridico? Questo dipende da come intendiamo l’ordinamento,
cioè dipende dal modo in cui ci accostiamo al diritto. Se ci accostiamo al diritto come fa il nostro
ordinamento giuridico attraverso le lenti dell’eguaglianza allora il modo classico per integrare è quello
dell’analogia, ovvero laddove un caso non sia disciplinato si va a guardare come lo sono i casi simili. C’è una
analogia legis, cercata quindi nelle leggi, per cui si va a guardare come è disciplinata una fattispecie simile,
oppure, al contrario, a partire dal principio della libertà, cioè laddove l’ordinamento non dice nulla
evidentemente quella fattispecie è libera, non c’è nessun obbligo giuridico che la disciplini. Ci può essere
anche una analogia iuris, ovvero il ricorso all’analogia attraverso i principi generali. C’è pure una forma di
integrazione dell’ordinamento indicata come etero integrazione, ovvero il ricorso del codice a strumenti
esterni. Per esempio, fino alla fine degli anni 70 il codice svizzero indicava nel diritto naturale il modo di
integrare l’ordinamento giuridico laddove una fattispecie non fosse regolata. Il problema qui è stabilire a
quale diritto naturale, in questo contesto significava rinviare alla ragione.
Il modo abituale di integrare le lacune è quello di ricorrere a strumenti interni al codice come il caso
dell’analogia o quello a favore della libertà.
Abbiamo già visto che la codificazione non viene soltanto costruita attraverso atti politici, atti di volontà,
creazione del diritto da parte del potere politico. Uno degli obiettivi di un potere politico che si assume
questo compito di produrre il diritto ha anche interesse a costruire una classe di giuristi di un certo tipo,
una certa cultura giuridica. La forma che assume la scienza giuridica nell’età della codificazione è appunto
quella della dogmatica (la scienza giuridica nell’età della codificazione viene chiamata dogmatica). In realtà
questo termine ‘dogmatico’ è molto risalente, l’idea che il giurista abbia a che fare con dogmi (=elementi
non discutibili, punti di partenza che non si mettono in discussione) in realtà accompagna il diritto da tanto
tempo.
Sostanzialmente la vera scienza giuridica come dogmatica è quella che si accompagna alla codificazione del
diritto, quella che si verifica quando il legislatore ha promulgato i codici e si propone di costruire una classe
di giuristi che assecondi il suo progetto politico. Abbiamo già parlato della scuola delle esegesi, del tipo di
formazione che viene data ai giuristi nell’epoca della codificazione, e anche della scuola storica del diritto,
la quale rifiuta la codificazione francese, ma è a favore della costruzione di una scienza giuridica dogmatica,
solo che i dogmi non derivano da Napoleone ma dal diritto comune.
La caratteristica della scienza dogmatica è sostanzialmente che il punto di partenza della scienza è il diritto
positivo, il quale si studia e si commenta nell’ordine che il legislatore gli ha dato (parliamo di ordinamento
e di commentari dei codici, opere in cui si espone articolo per articolo il contenuto di un determinato
codice) oppure si manifesta secondo la scuola storica del diritto attraverso un’opera sistematica. Quello
che la scienza giuridica fa è organizzare gli istituti giuridici in un modo razionale, cioè costruisce sistemi
giuridici dando un’impronta al diritto. Da questi derivano i trattati, intesi come esposizione che ha per
oggetto l’ordine che la scienza dà al diritto. Si distingue tra ordinamento giuridico e sistema giuridico in
relazione al soggetto che ha dato un ordine al diritto: nel caso dell’ordinamento è il legislatore che ha dato
un certo ordine, mentre nel caso del sistema è la scienza giuridica a darlo. Kelsen, ad esempio, sostiene
l’idea che la scienza giuridica abbia come compito la sistematizzazione del diritto, che implica anche una
purificazione da elementi fattuali e relativi alla giustizia.
In questo contesto abbiamo parlato della concezione della scienza giuridica di Bobbio come
metalinguaggio su un linguaggio oggetto: il linguaggio oggetto è quello del legislatore, il metalinguaggio
(linguaggio sul linguaggio) è il linguaggio della scienza giuridica. Per Bobbio, dunque, la scienza giuridica
sarebbe un discorso su un linguaggio, quello del legislatore: il linguaggio del legislatore è il diritto, il
discorso sul linguaggio è la scienza giuridica.
La scienza giuridica ha anche a che fare con l’interpretazione dottrinale del diritto che serve a creare una
dottrina del diritto e a questi compiti aggiunge l’individuazione dei metodi appropriati per interpretare il
diritto: primato della lettera, dell’intenzione del legislatore (di colui che produce il diritto), della analogia
(legis o iuris) per le lacune, quello sistematico.
Tutti questi strumenti vanno nella direzione di un rispetto del diritto come prodotto dal legislatore, vanno
nella direzione dell’individuazione di un soggetto che è il protagonista del diritto, ossia il legislatore.

27 APRILE

Costituzionalizzazione (fine ‘800, inizi ‘900)


La costituzionalizzazione raccoglie una sfida per lo Stato in senso politico, cioè implica una sua
trasformazione e soprattutto vedremo come questo fenomeno riguarda il modo in cui il diritto si evolve
nello Stato.
Fioravanti è uno dei maggiori studiosi delle costituzioni e parte da una definizione generale di costituzione
così da consentire di intendere questa in modo molto ampio. Dice che la costituzione è un ordinamento
generale che ordina i rapporti sociali e politici. Quindi per costituzione intendiamo un ordinamento
generale, un progetto di carattere normativo, che ordina i rapporti sociali e politici. Con quest’ultima parola
noi siamo costretti a ritenere che si diano costituzioni laddove ci sono comunità politiche, quindi ordine dei
rapporti politici, ordine all’interno della comunità politica.
Questa definizione generale di costituzione consente all’autore di individuare una varietà di modelli di
costituzione: Fioravanti distingue il modello antico, il modello medievale e le costituzioni moderne. Noi
potremmo domandarci se ci sia qualche specificità delle costituzioni contemporanee. Secondo Fioravanti
c’è una diversa comprensione della costituzione in queste epoche.

Modello antico
Un’idea di costituzione antica possiamo ricavarla dalle opere di Aristotele e Polibio. Quando questi autori
parlano della costituzione intendono riferirsi ad un ordinamento dei rapporti sociali e politici in due
possibili modi: o come un ordine ideale di questi rapporti sociali e politici, che dovrebbe mirare a creare un
equilibrio sociale tra le diverse forme presenti, oppure come una riflessione sulle forme di governo. Infatti,
nella Costituzione degli Ateniesi il compito di Aristotele è riflettere su quale sia la migliore forma di
governo. Sono le due facce della stessa medagli: la riflessione sulle migliori forme di governo (monarchia,
democrazia, regimi misti, ecc.) è volta ad individuare un progetto da realizzare che porti all’armonia tra le
diverse componenti sociali e politiche.
Aristotele usa a tal proposito la metafora del coro: come in un coro c’è un direttore d’orchestra grazie al
quale tutti i diversi strumenti possono suonare bene, così la costituzione dovrebbe mettere insieme queste
diverse forze, rapporti, componenti in una ideale armonia.
In questa riflessione è molto presente il problema della corruzione dei regimi politici, in particolare assume
un’importanza fondamentale la riflessione sulla tirannia. La riflessione sulla costituzione è, cioè, anche una
riflessione sulle corruzioni di quell’armonia che si hanno, ad esempio, con la trasformazione del re in
tiranno. Qui c’è una valutazione negativa del re quando diventa tiranno, ovvero un soggetto che, essendo
nella stessa posizione del re, utilizza la sua posizione per mirare al proprio interesse piuttosto che a quello
dei subordinati, mentre l’autorità è una relazione asimmetrica che dovrebbe, però, accrescere i
subordinati.
Modello medievale
Secondo Fioravanti, i temi che in epoca medievale si raccolgono sotto la riflessione di costituzione sono
molto simili a quelli antichi. C’è una sfumatura diversa nel concepire la costituzione come ordinamento
dato più che ideale. La differenza tra il modello antico e quello medievale è in quell’armonia che è l’oggetto
della costituzione: essa in un certo senso è assunta come un ordine dato che bisogna rispettare, cioè c’è
un’armonia nelle cose che bisogna rispettare.
In epoca medievale i temi che vengono coltivati quando si parla di costituzione è la tirannia, studiata
soprattutto alla luce del diritto di resistenza, ovvero di quanto occorre resistere al tiranno. Quasi tutti gli
autori che si occupano di riflettere su quello che noi diremmo essere la costituzione costruiscono per la
prima volta una dottrina della resistenza del tiranno, del dovere di resistenza del tiranno, il quale è un
dovere morale fortissimo, per cui a certe condizioni bisogna rischiare la vita.
L’altra caratteristica della costituzione medievale è l’idea che i poteri siano intrinsecamente limitati. Cioè,
quell’ordine dato che è l’orizzonte di riferimento della costituzione, quell’equilibrio tra le cose fa sì che ogni
potere sia limitato. La differenza tra gubernaculum e iurisdictio nasce proprio in epoca medievale.
Inoltre, c’è un protagonismo della comunità politica rispetto al potere. La caratteristica principale del
periodo medievale è che prima viene la comunità politica e poi il re: la comunità politica fonda il potere del
re. Si sviluppa una dottrina per cui si fa una distinzione tra pactum associationis e pactum subietionis.
Questa distinzione tra il patto di associazione e il patto di soggezione chiarisce che prima di esserci un
potere di soggezione, quindi un’autorità, c’è un patto di associazione. Ogni patto di soggezione deriva da
un patto orizzontale: la comunità politica prima si associa e poi accetta la soggezione ad un potere. Questa
distinzione, che nasce nel contesto della riflessione sulla tirannia ma non soltanto, ha l’obiettivo di chiarire
che anche quando la comunità rifiuta il potere al quale è soggetta, per esempio quello del tiranno, resta
una comunità politica. La comunità politica non dipende solo dal potere cui è sottoposta, ma anche dal
patto di associazione. Questa dottrina poi darà origine a quel movimento filosofico-politico chiamato
contrattualismo, che è una dottrina politica su come nasce il potere dello Stato, cioè da questo deriva l’idea
secondo la quale lo Stato è il risultato di un contratto sociale.
La caratteristica di questo assetto è che la protagonista è la comunità politica, quindi che il patto fondativo
è il patto orizzontale, il pactum associationis. Solo dopo, una comunità orizzontalmente organizzata accetta
un potere verticale che è limitato, non solo nelle sue competenze ma anche rispetto ad altri poteri.
Abbiamo parlato della dottrina delle due spade, la quale è concepita proprio come una forma di controllo e
bilanciamento.

Le costituzioni moderne
La differenza con la costituzione dei moderni è che in questa diventa protagonista il tema della sovranità,
in particolare la sovranità assoluta, che viene descritta già nel 1576 da Jean Bodin come un potere
perpetuo ed originario, cioè chi ha il potere sovrano non l’ha ricevuto da nessuno, ma è qualcosa che gli
appartiene intrinsecamente e dal quale non può nemmeno disfarsi.
Questo vale sia nel caso in cui parliamo dello Stato assoluto, con la famosa frase di Luigi XIV “lo Stato sono
io”, ma anche quando questa sovranità, perpetua ed originaria, viene rintracciata nel popolo.
Il tema della sovranità diventa dunque preminente nella costituzione dei moderni. Il tema ricorrente è il
rapporto tra costituzione e sovranità.
Qui si intende per costituzionalismo l’insieme delle dottrine che hanno recuperato nell’epoca moderna
l’esigenza di limite e garanzia che occorre recuperare nello Stato. Sostanzialmente, la costituzione per i
moderni sarebbe quello strumento attraverso il quale nell’epoca moderna, in virtù della centralità della
sovranità, si sviluppa il tema del limite e delle garanzie dei diritti nello Stato.
Forse l’espressione più significativa, il manifesto più chiaro di questo senso della costituzione per i moderni
lo troviamo nell’articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789,
dichiarazione che pone fine alla Rivoluzione francese e da cui inizia la storia dei diritti naturali. Tale articolo
afferma che ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri è stabilita
non ha una costituzione. La costituzione sarebbe l’insieme di una garanzia di diritti e di separazione dei
poteri. La nostra Costituzione ha una parte relativa all’assetto dei poteri, ispirato alla separazione dei
poteri, quindi al limite dei poteri, e, allo stesso tempo, è formata da tutto quell’assetto dei diritti
fondamentali e della garanzia che si dà a questi diritti.
Questa è una differenza importante rispetto al passato perché nel frattempo c’è stata la formazione di
questa entità e c’è la consapevolezza della centralità della sovranità e di cosa significhi il potere sovrano. La
separazione dei poteri e la garanzia dei diritti sono due modi diversi di limitare il potere del sovrano.
Quest’idea di costituzione per arrivare alle costituzioni contemporanee avrà bisogno ancora di qualche
altro passaggio, perché quelle contemporanea sono caratterizzate dall’incorporazione della costituzione
nello stesso ordinamento giuridico. Noi ci potremmo domandare quanto la codificazione del diritto abbia a
che fare con l’incorporazione della costituzione entro l’ordinamento giuridico. In fondo, l’idea che la
costituzione sia la norma fondamentale, quella che si trova al vertice dell’ordinamento giuridico, è
espressione di un processo di costituzionalizzazione, ma allo stesso tempo anche di codificazione.

C’è un dibattito per ci si domanda se non si debba parlare anche di neo costituzionalismo: se il
costituzionalismo è quell’insieme di dottrine che affronta il tema del limite della sovranità attraverso la
separazione dei poteri e la garanzia dei diritti in epoca moderna, il neo costituzionalismo sarebbe
quell’insieme di dottrine che si concentra sulle caratteristiche delle costituzioni contemporanee. Gli
elementi più significativi sono sostanzialmente tre: la differenza tra potere costituente (potere libero da
vincoli) e potere costituito (limitato), volta anche questa a limitare il potere sovrano; il ruolo giusgenerativo
dei principi fondamentali della costituzione, che racchiude l’insieme di diritti fondamentali che stanno alla
base del progetto costituzionale, non tutti i principi riguardano i diritti, ma questi sono particolarmente
importanti; e, infine, la supremazia della costituzione sullo Stato, novità radicale considerando che il punto
di partenza delle dottrine costituzionali è quello di limitare il potere dello Stato.
Se leggiamo questo percorso come un percorso del diritto entro lo Stato, vediamo un ribaltarsi della
situazione perché non è più lo Stato il protagonista del diritto, ma è il diritto il protagonista della vita dello
Stato.
Se è vero che la nascita dello Stato implica la prevalenza della politica sul diritto perché lo Stato assume il
controllo della produzione del diritto, il processo di costituzionalizzazione ribalta questo rapporto: è il
diritto al di sopra della politica, la costituzione al di sopra dello Stato.

Teorie dello Stato di diritto


La parola che esprime il concetto di Stato di diritto è Rechtsstaat (restat).
Questo modello risponde ad una delle versioni del Rule of Law, che è il cuore della filosofia del diritto.
Il rechtsstaat o Stato di diritto è un concetto giuridico inventato lungo l’800 dalla scienza del diritto
pubblicistica tedesca che mette in campo una serie di dottrine giuridiche che hanno l’obiettivo di limitare il
potere dello Stato. Ci troviamo all’interno di questa evoluzione che abbiamo chiamato processo di
costituzionalizzazione.
Lo Stato di diritto è un concetto giuridico elaborato dai giuristi che ritiene che il potere politico debba
essere limitato, ma anche che esso non possa che essere limitato da se stesso, nel senso che se lo Stato
assume il monopolio della produzione giuridica evidentemente la limitazione dell’oggetto prodotto dallo
Stato sarà una forma di autoregolamentazione.
Secondo questa dottrina giuridica del Rechtsstaat il modo principale per limitare lo Stato è quello di
separare i poteri, di distinguere i poteri in base alla loro funzione. Della dottrina molto antica della
separazione dei poteri parla Locke distinguendo il potere legislativo, federativo e giudiziario; Voltaire
parlerà di potere legislativo, esecutivo e giudiziario. È dunque una dottrina che si alimenta di suggestioni e
stimoli provenienti da vari autori. Qui abbiamo l’articolazione giuridica dei poteri dove la caratteristica
della separazione dei poteri è volta a creare dei controlli da parte di un potere nei confronti dell’altro. La
distinzione dei poteri innanzitutto fa sì che un potere non sia assoluto, nel senso che non può essere svolto
dallo stesso organo. La separazione dei poteri implica, quindi, la distinzione dei soggetti possessori dei
poteri e per questo non potrà mai esserci uno Stato assoluto. D’altra parte, i poteri tra di loro fungono da
limiti, controlli. La separazione dei poteri, però, non significa una totale estraneità agli altri poteri,
pensiamo ad esempio al potere d’inchiesta del Parlamento.
La distinzione è volta a creare questi controlli reciproci e, in questo panorama in cui vediamo la superiorità
morale del potere legislativo, quest’ultimo svolge una funzione principale rispetto agli altri poteri, per cui i
poteri non sono tutti posti sullo stesso piano, ma sono subordinati al potere legislativo, il quale però è
subordinato anche a se stesso.
Il principio di legalità, infatti, che è la seconda condizione affinché vi sia uno Stato di diritto, implica che i
tre poteri si svolgano secondo la legge (per leges).
Quest’idea, cioè che lo Stato debba essere organizzato in questo modo, è ispirata alla limitazione del
potere dello Stato. Questo modello, però, pone dei vincoli al potere soprattutto nella linea
dell’eguaglianza. Questo perché la preminenza del potere legislativo si accompagna all’esaltazione della
legge generale ed astratta. Il valore principale che lo Stato di diritto porta, quindi, è l’uguaglianza dei
soggetti di fronte la legge.
Alcuni si domandano se questo sia un modello in cui sono rispettate le libertà dei soggetti. Laddove si parla
di un potere illimitato, anche auto limitato, evidentemente i diritti delle persone possono essere solo il
frutto di una concessione più di un riconoscimento. Effettivamente la dottrina dello Stato di diritto si
accompagna ad una dottrina diversa, chiamata dottrina dei diritti pubblici soggettivi. I diritti pubblici
soggettivi sono quei diritti antesignani dei diritti fondamentali, ma solo parzialmente, perché i diritti
pubblici soggettivi sono concessi dai poteri dello Stato agli individui sulla base di elementi (la libertà, gli
interessi dei soggetti). Qui c’è un dibattito tra Windscheid e Jhering, i quali si domandano se il potere
legislativo riconosca i diritti pubblici soggettivi in base alla capacità di agire libero dei soggetti o debba
concederli in relazione all’esistenza di interessi da parte dei soggetti. È solo una parziale somiglianza con i
diritti fondamentali, i quali sono ritenuti i limiti esterni al diritto tanto che le costituzioni li riconoscono e
non concedono.

Da questa modalità di comprensione dell’organizzazione dello Stato e dei suoi limiti si può distinguere
quella tradizione anglosassone. Mentre a livello continentale il Rechtsstaat è stato il caposaldo
dell’organizzazione dello Stato lungo tutto l’800 e gli inizi del ‘900, molto diversa è la tradizione del
Common Law, più fedele a quella distinzione medievale tra gubernaculum e iurisdictio. Il Common Law,
prima ancora di essere un diritto casistico, è un diritto consuetudinario, cioè è fondato sulla consuetudine
giurisprudenziale, costruisce attraverso il principio dell’obbligatorietà del precedente una giurisprudenza
consuetudinaria: le decisioni dei giudici che confermano il precedente creano una consuetudine che
produce poi le regole. In questa tradizione la cosa più evidente è che sebbene il regno, nel caso
dell’Inghilterra, sia unito intorno ad un capo dello Stato, i giudici in questo sistema sono un potere esterno
al parlamento. I giudici non applicano le leggi del parlamento, ma la tradizione consuetudinaria del diritto
nei vari rami (un po’ complesso nel diritto penale).
La distinzione tra Rechtsstaat e Rule of Law sta nel fatto che, mentre il Rechtsstaat è una forma di auto
limitazione dello Stato, il Rule of Law implica una limitazione esterna del potere dello Stato, cioè c’è
qualcosa fuori che fa riferimento alle tradizioni e alle consuetudini sociali che sono oggetto delle tradizioni
giurisprudenziali. È una particolarità nel Common Law che ci consente di definirlo come un diritto
giurisprudenziale, mentre il diritto continentale è il diritto legislativo per eccellenza, anche se la presenza
dei giudici è importante anche in quello continentale. Anche nella costruzione dei presupposti del
Rechtsstaat si capisce l’importanza del ruolo dei giudici, che hanno il compito di focalizzare l’attenzione sul
caso particolare e nel fare questo il giudice è costretto a mettere sullo stesso piano la pubblica
amministrazione e il cittadino. Nel Rechtsstaat, invece, resta sempre una differenza tra i poteri e i cittadini.
Tutti questi modelli hanno in comune che il principio di limitazione del potere sia di tipo verticale ovvero
che riguardi soprattutto il potere pubblico e che il diritto non sia altro che un set di norme, di poteri
pubblici. La domanda che ci dovremo porre è se l’idea del Rule of Law si debba fermare ad una disciplina
dei poteri pubblici.

28 APRILE
Internazionalizzazione
Lo Stato è uno degli attori della dimensione internazionale. All’interno di esso ci saranno molte
trasformazioni derivanti dal fenomeno dell’internazionalizzazione.
Le domande poste a partire dal processo internazionale del diritto sono diverse e di diversa natura, di
diverso statuto. Sicuramente una delle finalità della riflessione sull’internazionalizzazione è capire quali
conseguenze ha questo processo di internazionalizzazione del diritto sul diritto nello Stato, cosa è successo
al diritto dello Stato a causa di questa sua apertura a dimensioni oltre lo Stato.
Quando si parla di internazionalizzazione, in questa fase, si includono molte altre dimensioni: dimensione
transnazionale e dimensione globale, le quali sono dimensioni che possono essere distinte, ma quando si
parla di processo di internazionalizzazione si includono tutte nello stesso contenitore.
Questa prima domanda, ossia quella sulle conseguenze che l’internazionalizzazione ha sulla trasformazione
del diritto nello stato, è diversa da una seconda domanda, cioè quella su che tipo di diritto sia questo diritto
oltre lo Stato. Questa domanda porta a porsi un’ulteriore domanda, a chiedersi se sia vero diritto il diritto
oltre lo Stato, intendendo con diritto oltre lo stato tutte quelle forme di diritto transnazionale, globale e
internazionale.

Una delle principali questioni di dibattito nella filosofia contemporanea è quella di una ricerca di una teoria
del diritto che abbia un potere di spiegazione anche delle forme di diritto che non sono il diritto statale.
L’idea è che sia ormai finito il tempo di una teoria statalista del diritto, sebbene ancora oggi molti filosofi,
teorici del diritto (impegnati in una definizione del diritto), continuano a sostenere che per definire il diritto
occorre far riferimento allo Stato. La conseguenza più immediata è che se si identifica il diritto con il diritto
dello Stato implicitamente si afferma che le altre forme di diritto sono forme spurie, difettose, di secondo
grado; gli internazionalisti, ad esempio, accetterebbero difficilmente l’idea che il diritto internazionale sia
una forma spuria di diritto. È una forma spuria se si adotta una identificazione tra diritto e Stato: in altre
parole, se si continua ad usare come paradigma, per la definizione del diritto, il diritto dello Stato, ovvero il
modo in cui il diritto si presenta nello Stato.

Questo primo passaggio oltre i confini dello Stato viene identificato come un passaggio bottom-up, ossia
dal basso verso l’alto. La prima dimensione che viene all’attenzione nel processo di internazionalizzazione
del diritto, infatti, è quella che va dallo Stato verso fuori, anche nel senso della proiezione di uno Stato oltre
i suoi confini, come accade per il diritto dell’Unione Europea. Qualcuno potrebbe dire che questa prima
forma di internazionalizzazione di diritto è in realtà una tendenza ad allargare quello che è il diritto come
entità e ad abbracciare una pluralità di Stati, come accade negli Stati federali o come accade nel contesto
di queste organizzazioni internazionali come l’UE.
In particolare, l’Unione Europea ci consente di osservare una delle linee più importanti della
trasformazione del diritto nello Stato, ossia la trasformazione delle fonti che la codificazione aveva posto
come un sistema chiuso, verticale e gerarchico, che poneva la legge al primo posto e che, con la creazione
di questa entità sovranazionale europea, vediamo trasformarsi.
I due principi fondamentali del diritto dell’Unione Europea sono quello dell’efficacia diretta delle norme del
diritto europeo, che consente di richiamare\invocare il diritto europeo in tutto il territorio europeo (in tutti
gli Stati membri) sia nelle controversie di individui nei confronti dello Stato, sia nelle controversie tra
individui; e quello del primato del diritto europeo, per cui nei territori degli Stati membri non si possono
applicare norme contrarie al diritto europeo: questo divieto ha un riscontro positivo, in quanto corrisponde
ad un criterio di interpretazione delle norme del diritto interno conforme al diritto europeo, per cui se non
si possono applicare norme contrarie al diritto europeo, bisogna interpretare le norme degli Stati in
conformità al diritto europeo. Vi è un cambiamento rispetto al resoconto del sistema delle fonti tipico
dell’età della codificazione, gli inizi del consolidamento di questo Stato e in relazione ai presupposti
ideologici che sostengono il fenomeno della codificazione.
Questo fortissimo cambiamento nel campo delle fonti del diritto non è l’unico. Vi è un altro cambiamento,
ovvero quello della costituzione, che viene a collocarsi al di sopra della legge e che, in un certo senso, non
scalza semplicemente il primo: la costituzione, in base al cosiddetto effetto di irradiazione, cambia tutto
l’ordinamento, non si tratta, cioè, di una norma che si colloca per prima cosicché la legge si posiziona
seconda, ma si tratta di una norma che condiziona il modo in cui occorre interpretare tutto il resto delle
norme dell’ordinamento giuridico. Anche da questo punto di vista, la presenza della costituzione si traduce
in un criterio interpretativo, il criterio sistematico, ovvero un criterio che collega le varie parti
dell’ordinamento, che ha a che fare con l’organizzazione razionale del contenuto del diritto e che scalza
quei criteri interpretativi tipici del diritto della codificazione, ossia criterio di interpretazione letterale,
logico-grammaticale e dell'intenzione del legislatore.
Vediamo quindi un diritto che a causa di questa appartenenza ad un’entità sovranazionale grazie alla
costituzione, trasforma le fonti.

Prima della novazione, l’articolo 10 delle Disposizioni Preliminari al Codice Civile, risalente al 1942, aveva
ad oggetto una gerarchia delle norme, nella forma di leggi, regolamenti, norme corporative e usi. I
cambiamenti di tale gerarchia non vanno letti soltanto dal punto di vista gerarchico, appunto, ma anche
relativamente alla capacità di trasformare tutto il resto. Alla gerarchia tassativa e ordinata delle fonti del
diritto non si è semplicemente sostituita una nuova gerarchia, con altri elementi messi in un altro ordine,
ma si ha un’integrazione di sistemi giuridici che si pongono in una rete, interagiscono, dando luogo ad una
situazione che è già possibile definire come un’interazione di tipo pluralistico. Si tratta di un fenomeno
giuridico importante, che descrive i risultati di questa trasformazione del diritto nello Stato, attraverso il
pluralismo giuridico.
Si è già parlato di pluralismo, ma questo tipo di pluralismo è differente rispetto al passato.
Norberto Bobbio, in un capitolo dedicato al pluralismo giuridico, spiega che questo è, per lui, riconducibile
a criteri diversi di collegamento delle norme con un sistema. Secondo Bobbio, il pluralismo giuridico
potrebbe essere descritto nella differenza tra un diritto ed un altro, sulla base di un criterio che può essere
spaziale oppure storico-temporale: in base al criterio spaziale potremmo distinguere, ad esempio, il diritto
della Spagna da quello dell’Italia, distinguibili appunto attraverso il territorio; in base al criterio storico-
temporale, invece, potremmo distinguere l’ordinamento generato dallo Statuto Albertino dall’ordinamento
scaturente dalla Costituzione italiana che non ha niente a che fare con il primo.
Il rapporto del diritto con il tempo è in realtà un bel problema, perché molte delle norme vigenti nello
Statuto Albertino sono vigenti ancora oggi, ma si tende a distinguere la validità temporale di queste
proprio per effetto della novità del dato positivo, del diritto posto in un tempo diverso. Ciò pone il
problema del rapporto fra diritto e rivoluzione, se possa esserci una rivoluzione nel diritto, posto che c’è
questa continuità nelle norme, in quanto una rivoluzione implica una rottura.
Dice Bobbio che il pluralismo è il risultato di una distinzione per materia, così da poter distinguere, ad
esempio, il diritto canonico dal diritto statale, in quanto la regolamentazione della vita religiosa non ha
nulla a che fare con la regolamentazione dei rapporti interni dello Stato. La caratteristica di questo modo di
accostarsi al pluralismo è quella di poter distinguere i vari ordinamenti e tenerli separati: si possono creare
dei ponti, come ad esempio il diritto ecclesiastico, ma si possono anche distinguere.
Questo nuovo assetto delle fonti che viene fuori dall’evoluzione nel senso della costituzionalizzazione e
dall’evoluzione nel senso della transnazionalizzazione, invece, è un pluralismo diverso, perché mi trovo ad
aver a che fare con una pluralità di norme all’interno dello stesso territorio. Questo cambia il modo di
comprendere il pluralismo giuridico, in quanto implica contrasti e un sistema di interazione che occorre
saper gestire.

Affronteremo lo studio della internazionalizzazione attraverso lo studio di quattro paradigmi: lo ius


gentium, lo ius della communitas orbis (anche detto modello vitoriano), il paradigma di Westfalia e il
modello delle Nazioni Unite (dopo la Seconda guerra mondiale). Sono quattro possibili paradigmi volti a
comprendere cosa significa internazionalizzazione del diritto.

Ius gentium
È bene partire dallo ius gentium perché, da un lato, alcuni sostengono che, se si dovesse scegliere un
paradigma per la definizione di diritto, bisognerebbe rivolgersi allo ius gentium, dall’altro perché il tema
dello ius gentium ricorre ciclicamente nel diritto, se n’è parlato per secoli. Il diritto delle genti faceva parte
della tripartizione del diritto secondo i giuristi romani, insieme al diritto civile e al diritto naturale. C’è un
momento in cui il diritto delle genti si colloca nel sotterraneo, ossia quando secondo alcuni è divenuto il
diritto internazionale, in quanto lo ius gentium è considerato il padre del diritto internazionale moderno,
per poi riemergere.
Il diritto delle genti è un diritto cui i Romani stessi hanno dato un nome e riguarda le interazioni tra la
popolazione romana e altre popolazioni (le genti: gruppi di sudditi di altre popolazioni) che hanno a che
fare non solo a livello di autorità politiche. Anzi, il diritto delle genti, pur avendo a che fare sicuramente con
il diritto pubblico, riguardava principalmente i rapporti privati. Era, ad esempio, il diritto che applicava il
praetor peregrinus di fronte al problema di regolamentare le interazioni tra cittadini romani e cittadini
punici che avevano fondato la città di Palermo.
Lo ius gentium è un diritto che, dovendo gestire un rapporto di estraneità (rapporto tra cittadino romano e
altri cittadini di altre popolazioni), doveva essere semplificato in quanto il diritto romano era molto
complesso. Il primo esempio di diritto delle genti di cui abbiamo testimonianze ce lo fornisce Cicerone che,
distinguendo il diritto delle genti da quello naturale e civile, lo ritiene un diritto universale e lo qualifica
come un diritto dei popoli civilizzati. Quando spiega in che cosa consiste questa idea, che è poi tornata in
tanti momenti della storia, Cicerone vuole intendere che si tratta di un diritto di tipo razionale, universale,
valido per tutti perché razionale. A prova di ciò, sostiene Cicerone, ad essere esclusi dal diritto delle genti
sono soltanto quei popoli che si abbandonano alla loro animalità e irrazionalità, cioè quelli che rifiutano di
farsi condurre da standard razionali nel compimento delle loro azioni.
La prima caratteristica del diritto delle genti, dunque, è l’universalità. Sicuramente l’universalità è un punto
di arrivo, rispetto al punto di partenza che è, invece, l’estraneità, ovvero la capacità del diritto di coordinare
le azioni umane anche in assenza di una coappartenenza politica, quindi in caso di appartenenza a popoli
diversi. Ecco perché lo ius gentium può essere eletto a un paradigma diverso dal diritto dello Stato, come
paradigma fondamentale per la definizione di diritto, in quanto, trattandosi di uno standard razionale di
azione, si parla della regola come ragione per agire, ma questa ragione per agire è universalizzabile, nel
senso che è valida anche oltre i rapporti di appartenenza politica.
Ci sono altri autori che forniscono contributi importanti relativi al diritto delle genti, come Gaio, che
distingue il diritto delle genti dal diritto civile. Tale distinzione sta nel fatto che il diritto delle genti è diverso
dal diritto che ogni popolo ha dato a se stesso.
Ulpiano, in uno dei suoi testi (Digesta) distingue, invece, il diritto delle genti dal diritto naturale: il diritto
naturale è ciò che la natura ha insegnato a tutti gli animali e quindi anche all’uomo, mentre il diritto delle
genti è il diritto che la natura umana insegna agli esseri umani. Quindi il diritto naturale riguarda tutti gli
animali incluso l’uomo, mentre il diritto delle genti è proprio della natura umana.

Ciò introduce un altro problema per comprendere il diritto delle genti, ossia quello riguardante la sua
positività. Il diritto delle genti, cioè, è un diritto naturale o positivo. Secondo Ulpiano è chiaramente
positivo.
Un altro giurista, Ermogeniano, riassume la materia del diritto delle genti sostenendo che dal diritto delle
genti sono state introdotte le guerre, separate le nazioni, fondati i regni, distinte le proprietà, apposti i
confini ai fondi, collocati gli edifici, riconosciute le vendite, le locazioni, le obbligazioni, eccettuate alcune
che sono riconosciute dal diritto civile. Da questo elenco si nota soprattutto come siano compresi elementi
sia del diritto pubblico che del diritto privato di oggi, ma anche come il diritto civile sia considerato quasi un
diritto residuale, speciale, caratterizzato dal modo specifico in cui una popolazione ha voluto distinguere
certe obbligazioni, certi istituti di diritto privato. Studiare il diritto delle genti significa, quindi, studiare il
diritto, per poi studiare un diritto speciale, ovvero il diritto civile.

Communitas orbis
Viene anche detto modello vitoriano, facendo riferimento a Francisco de Vitoria, uno dei padri del diritto
internazionale moderno. In realtà è un punto di passaggio tra la concezione classica del diritto delle genti,
considerato come il diritto di riferimento per 1600 anni, e quella moderna. Con Francisco de Vitoria vi sono
tutti gli elementi della concezione classica del diritto delle genti, ma vi è un dato importante che è quello
della maturazione dello Stato moderno, allora presente in Europa nella forma di regni, anche se quando
Vitoria scrive vi è ancora l’imperatore Carlo V. Laddove Cicerone parlava di popoli civilizzati, Francisco de
Vitoria individua la communitas orbis, che raduna i popoli civilizzati e che abbraccia anche le nuove
popolazioni dell’America, che avevano rappresentato una scoperta importante per gli Europei. Il diritto
delle genti resta comunque il diritto delle popolazioni civilizzate, nel senso di capacità dei soggetti di
regolarsi secondo il diritto, secondo standard razionali.

3 MAGGIO
Communitas orbis
Francisco de Vitoria si inserisce in una fase storica in cui c’è già stata una forte evoluzione dei regni europei
nella direzione della formazione dello Stato moderno, con la dissoluzione del Sacro Romano Impero e la
rivendicazione della sovranità da parte dei re (“rex in regno suo est imperator”) che porterà ogni regno a
divenire un soggetto dotato di “plenitudo potestatis” (la completezza dei poteri).
Weber direbbe che siamo di fronte a un modello precedente allo Stato moderno. I sostenitori, invece, della
continuità considererebbero questa realtà come Stato moderno vero e proprio, poiché siamo in presenza
di un territorio, di un popolo e di una sovranità sia interna, con una gerarchia di poteri al cui vertice sta il
sovrano, sia esterna, la quale si traduce nell’indipendenza da altri poteri, per esempio dall’imperatore o da
altri regni. Quindi in questo periodo è maturata una nuova forma di organizzazione politico-giuridica.
Un altro elemento molto importante è stata la scoperta dell’America. Con questo avvenimento, infatti,
viene fuori dal punto di vista giuridico la più completa estraneità. Infatti, mentre in Europa, seppur ci
fossero delle differenze, persisteva un’unica cultura, dovuta al dominio dell’Impero Romano prima e del
Sacro Romani Impero poi, con la scoperta dell’America si interagisce con popoli completamente diversi.
In questo preciso momento si gioca la possibilità di verificare se le forme di coordinazione che erano state
fino a quel tempo utilizzate potevano aiutare in questa “nuova avventura”.
In questo periodo si denota anche la confluenza con le università nelle quali si discuteva con i politici e che
si trovarono, dunque, al centro delle trasformazioni culturali.
In questo contesto, lo ius gentium viene ancora considerato, sulla scia dei giuristi classici, come diverso
rispetto al diritto naturale e al diritto civile e permane l’ambiguità se il diritto delle genti sia un diritto
positivo o naturale.
Rispetto alla tripartizione diritto delle genti/naturale/civile è maturata la convinzione che lo ius gentium sia
diritto positivo, anche se ha un suo collegamento con il diritto naturale in quanto deriva da questo.
Tuttavia, le sue relazioni con il diritto naturale sono contorte, perché il diritto delle genti talvolta regola
istituzioni che non sono giuste dal punto di vista del diritto naturale (esempi che si trovano nel digesto:
schiavitù e proprietà privata).
L’altra caratteristica del diritto delle genti è che deriva dal consenso dei popoli, cioè è un diritto che si
forma nella storia attraverso un cammino comune tra i popoli, matura nel tempo attraverso le interazioni.
Si ricordano le parole di Cicerone: “il diritto dei popoli civilizzati”, “civilizzati” nel senso che nel tempo
hanno costruito una sapienza giuridica (un patrimonio di principi giuridici) che va alla ricerca della giustizia.
Solo che la strada della giustizia è piena di ostacoli, la ricerca della giustizia nei secoli si percepisce grazie
allo ius gentium.

Secondo Jeremy Waldron, importantissimo studioso di diritto, quel fenomeno detto “uso del diritto
straniero, in base al quale Corti Costituzionali di diversi paesi del mondo citano decisioni di altre Corti come
argomenti da prendere in considerazione per giustificare delle proprie decisioni (es: la corte suprema
statunitense, cita la Corte costituzionale canadese), è fondato sullo ius gentium, ovvero su una sapienza
giuridica che appartiene a tutti i popoli. Molti studiosi ritengono che questo fenomeno sia una follia (che
senso ha che la corte suprema americana usi la corte costituzionale sudafricana?). Quale sarebbe il criterio
di validità per cui per la soluzione di un caso in America è rilevante quello che la corte sudafricana ha
deciso? Questo fenomeno viene spiegato molto bene in un articolo di J. Waldron in termini di “ius
gentium”. Questo viene descritto come lo sforzo nella storia per cercare risposte adeguate, che esprimono
il modo in cui il diritto può coordinare l’azione.
Francisco De Vitoria
Secondo De Vitoria, il diritto delle genti è “inter gentes”. Questa definizione, che intende i rapporti tra gli
Stati, sarà quella che lo porterà ad essere individuato come uno dei padri fondatori del diritto
internazionale. Ma Vitoria, seguendo la tradizione dello ius gentium, sostiene che questo sia anche “intra
gentes” dunque riguarda anche le relazioni tra cittadini di diversi Stati.
Quindi si incomincia a vedere il diritto internazionale come un diritto che vede come protagonisti gli Stati,
non conta più l’intra gentes, ma i rapporti tra le nazioni. Il diritto internazionale diventa sostanzialmente un
diritto pubblico. Questo sarà quello per secoli si è pensato fosse il diritto internazionale.
Vi sono altri due elementi che distinguono la posizione di Vitoria rispetto al diritto internazionale moderno.
Il diritto delle genti appartiene alla communitas orbis, cioè è un diritto del mondo, di tutti i popoli. Questa è
un’espressione molto presente durante il Sacro Romano Impero, perché questa si costituiva sia
nell’espressione dell’imperatore, sia nell’espressione del pontefice: l’imperatore era a capo della
“communitas orbis”, del mondo conosciuto; il pontefice era a capo della comunità del mondo, della
cristianità. È dunque interessante come De Vitoria mette insieme l’emersione dei regni insieme in una
comunità. Tale comunità è una comunità giuridica, non è riconducibile né all’imperatore né al pontefice, è
lo ius gentium il diritto di questa comunità.
La conquista dell’America veniva fondata su diversi titoli, due di questi erano la conquista dell’imperatore e
il mandato del pontefice, cioè questi titoli potevano autorizzare tale fenomeno. De Vitoria rifiuta entrambe
i titoli, ma anche il terzo titolo, il quale riprendeva il fatto che si trattasse di territori liberi che chiunque
poteva conquistare.
Ma egli si domanda se gli indios avessero delle proprietà e formassero una comunità politica. E, nonostante
le differenze con gli europei, egli afferma che questi siano capaci di gestire la comunità politica.
Tutti questi elementi ci lasciano intravedere che questa “communitas orbis” non ha a che fare con una
dominanza religiosa o la tradizione di un potere che si tramandava e che arrivava fino all’imperatore, ma
ha a che fare con la capacità del diritto di articolare la coordinazione anche tra i diversi.
De Vitoria dice che tutto il mondo è come una repubblica, il mondo forma una comunità che ha un suo
diritto, il quale è un diritto con forza di legge. Ciò è importante per distinguere questa idea di ius gentium
rispetto al diritto internazionale moderno.
Infine, su che cosa si potrebbe giustificare la presenza degli spagnoli in America? Anche in questo caso De
Vitoria presenta una teoria molto originale, che lascia intravedere uno degli elementi del diritto. Afferma
infatti che questa repubblica che integra tutti i popoli del mondo è una “società di comunicazione”, dove
“comunicazione” ha come significato non l’informazione, ma “comune azione” (coordinazione). Una delle
condizioni per la comunicazione è, secondo Vitoria, il diritto di migrare.

Il paradigma di Westfalia
Se dovessimo seguire la storia dei regni d’Europa a partire dalla scoperta dell’America, verrebbero a
confluire una serie di problematiche. Soprattutto l’emersione di nuovi potenti regni che iniziano a farsi la
guerra, soprattutto per motivi religiosi, perché nel frattempo si denota la riforma protestante. Dopo un
secolo e mezzo circa, con la cosiddetta “pace di Westfalia” (1648) si costruisce un modello di relazioni tra
gli Stati che è effettivamente quello che possiamo definire il diritto internazionale moderno, intendendo
per moderno il diritto internazionale costruito dagli Stati moderni. Questa pace ha dato origine ad un
paradigma delle relazioni internazionali, detto paradigma di Westfalia, che descrive abbastanza bene il
diritto internazionale che gli Stati hanno progettato e che ritengono appropriato per le caratteristiche dello
Stato. Tale paradigma consiste in tre principi che regolarizzano le relazioni tra gli Stati.
Il primo principio è “pacta sunt servanda”, ossia i patti devono essere osservati. Questo è un principio
tipico dello ius gentium. Il modo di interpretare questo principio è quello di individuare come fonte del
diritto internazionale i trattati, cioè i patti. Questo vuol dire che il diritto internazionale, cioè il diritto tra le
nazioni, è un diritto costruito attraverso i trattati, ossia quegli accordi bilaterali o multilaterali tra Stati,
come ad esempio la stessa pace di Westfalia, la quale è un trattato multilaterale, che diventano le fonti
principali del diritto internazionale.
[Possibile confronto tra un diritto della comunità, consuetudinario e tradizionale con forza di legge e un
diritto in cui ad avere forza di legge sono i trattati e i patti (diritto internazionale moderno diritto pattizio)].
Gli accordi tra gli Stati possono avere qualunque contenuto, purché siano veri e propri patti. Per la verità il
diritto internazionale non è da sempre sato solo “pattizio”.
Il secondo principio che emerge dalla pace di Vestfalia e che caratterizzerà dalla fine del ‘600 fino alla Prima
guerra mondiale il diritto internazionale è la possibilità da parte degli Stati di ricorrere alla forza, dunque
alla guerra, per perseguire i propri interessi. Anche questo è oggetto dello ius gentium, in quanto una parte
importante di questo era composta dallo “ius ad bellum”, cioè il diritto di fare guerra, e dallo “ius in bello”,
ossia il diritto che regolava ciò che si poteva fare in guerra. Il diritto internazionale riguarda anche questo
aspetto, si mantengono le motivazioni per dichiarare guerra e ciò che si deve fare durante un conflitto,
però si accetta che la guerra si possa fare per tutelare gli interessi dei popoli, dunque si giustifica il ricorso
alla guerra per necessità, intesa anche come procurarsi le materie prime per la propria sopravvivenza.
Succederà, infatti, che i Paesi europei sulla base di questo accordo smetteranno di farsi la guerra tra di loro
per motivi religiosi, ma inizierà un periodo di conquiste di altri popoli, giustificandosi con la “ricerca di
materie prime” (siamo nel periodo della prima industrializzazione). Dunque, la forza degli Stati diventa una
corsa all’egemonia di materie prime in territori diversi. L’altro aspetto è la disciplina della guerra. In
quest’epoca si parla di “guerre regolari”, ossia le guerre che lo Stato fa seguendo questi principi, dunque in
qualche modo autorizzata.
Il terzo principio è quello della non ingerenza negli affari degli altri, che è il principio fondamentale della
convivenza tra i popoli europei, cioè nessuno deve interferire con le questioni domestiche degli altri.
Siccome le guerre di religione erano state causate molto spesso perché, ad esempio, la Spagna proclamava
guerra alla Germania per via della riforma protestante, questo principio sancisce la possibilità che ognuno
scelga la propria religione.

Un diritto internazionale con queste caratteristiche è acefalo, un diritto dove non c’è un’autorità sopra gli
Stati, ma un diritto che, invece, sancisce l’eguaglianza tra tutti gli Stati (formale, dato che gli Stati sono tutti
diversi fra di loro).
Con queste caratteristiche, inoltre, il diritto internazionale si fonda sul meccanismo “dell’autotutela” che
corrisponde alla prevalenza del diritto pattizio, cioè i patti devono essere osservati, ma se uno Stato non
osserva il trattato stipulato che comportamento si adotta? L’unico meccanismo sanzionatorio possibile in
questo caso è l’autotutela: se uno Stato non rispetta il patto, l’altro Stato è libero di comportarsi in ugual
modo.
L’autotutela è un problema veramente serio, basti pensare che uno dei primi trattati è quello della
consegna della corrispondenza (delle poste). Con questo patto si stabilisce che, per esempio, quando un
cittadino italiano manda una lettera in Spagna ovviamente non può essere il postino italiano a consegnare
la lettera in questione. Lo scritto viene indirizzato fino al confine del paese d’origine e poi viene data in
custodia al paese del destinatario.

4 MAGGIO

Dal punto di vista della definizione del diritto, c’è un elemento evidente nel paradigma di Westfalia, ovvero
il protagonismo degli Stati: il diritto internazionale riguarda gli Stati. Dal punto di vista filosofico-giuridico
diventa decisivo un metodo per la definizione del diritto, ovvero il metodo dell’analogia domestica, cioè
per decidere se il diritto internazionale è un vero e proprio diritto, si usa fare un paragone con il diritto
dello Stato. Per il diritto internazionale questo confronto è negativo: si pensa all’unità del diritto statale e si
arriva alla conclusione che il diritto internazionale è frammentato; si pensa al primato del diritto di tipo
legislativo e nel diritto internazionale, invece, le regole vengono stabilite attraverso accordi tra Stati; si
pensa all’autorità e nel diritto internazionale manca. Il metodo dell’analogia domestica, dunque, va a
scapito del riconoscimento della giuridicità del diritto internazionale.
Per Austin il diritto internazionale non è diritto, addirittura secondo lui il diritto internazionale appartiene
alla categoria della moralità positiva, cioè quello che noi chiamiamo diritto internazionale è l’espressione di
pratiche sociali, consuetudini e principi, che più che avere natura giuridica hanno natura morale. Ad
esempio, il principio “pacta sunt servanda” certamente può essere un principio morale, ma diventa
giuridico nella misura in cui il rispetto delle promesse è l’unico modo per realizzare gli accordi e i contratti,
un principio che produce la fiducia necessaria perché si possano coordinare le azioni.
Se si parte dalla definizione di diritto data da Austin, ossia “il diritto è un insieme di comandi provenienti
dal sovrano sostenuti da minacce di sanzioni”, notiamo che il diritto internazionale non risponde a questa
definizione. Austin cerca quindi di collocare il diritto internazionale in un altro contesto.
Hart, che scrive un secolo dopo Austin, sostiene ancora che il diritto internazionale è un diritto primitivo, a
cui mancano delle cose, ossia mancano le norme secondarie. Le norme secondarie, per Hart, sono norme
che conferiscono poteri, cioè poteri, come il potere legislativo, esecutivo e giudiziario, che possono
modificare le norme esistenti.

Modello delle Nazioni Unite


A seguito della Seconda guerra mondiale, gli Stati hanno la percezione di aver esagerato, dunque si
riuniscono a San Francisco e costituiscono le Nazioni Unite, un trattato tra Stati. La prima cosa che
stabiliscono è quella di cercare di evitare alle generazioni future il flagello della guerra. Rispetto al
paradigma di Westfalia, per cui la guerra era lo strumento per perseguire gli obiettivi degli Stati, in questo
nuovo modello di diritto internazionale il primo obiettivo è, invece, quello di evitare la guerra. Riconoscono
in alcuni casi la necessità e l’inevitabilità della guerra, ma si limita il ricorso ad essa al caso in cui vi sia
un’aggressione ingiustificata e dunque bisogna difendersi, cioè alla guerra difensiva.
Si stabiliscono inoltre le procedure per dichiarare la guerra, procedure molto più rigide rispetto a quelle del
passato, che erano formulate nella forma di una teoria della guerra giusta, cioè bisognava prima di
dichiarare guerra stabilire se si trattava di una guerra giusta o meno, attraverso chi la dichiarava, in quanto
poteva dichiararla solo lo Stato, qual era il suo obiettivo, se era giustificato l’obiettivo che si poneva
attraverso la guerra e, infine, se aveva chance di successo, perché una guerra che non ha chance di
successo è una follia.
La prima caratteristica del modello delle Nazioni Unite è quindi la ulteriore limitazione del ricorso alla
guerra. Nel caso del paradigma delle Nazioni Unite, la guerra può essere autorizzata solo dal Consiglio di
Sicurezza, organo delle Nazioni Unite formato dai grandi vincitori della Seconda guerra mondiale assieme a
Cina e Russia. L'autorizzazione del consiglio di sicurezza è quindi l’unico modo per rendere possibile una
guerra.

Fin da subito, nello stesso Statuto delle Nazioni Unite del 1945, prima ancora della Dichiarazione universale
dei diritti umani del 1948, si ricollega il rifiuto della guerra alla tutela dei diritti umani, quindi la ragione di
rifiutare la guerra è l’esigenza di tutelare i diritti dell’uomo. La guerra si collega ad una situazione che
danneggia i diritti umani, è assurdo pensare il contrario, anche se ancora oggi c’è chi sostiene che vi sia la
necessità di sostenere la guerra. All'inizio del 2000, si arrivò ad affermare e sostenere che per tutelare i
diritti umani bisogna intervenire con la guerra. Un secondo elemento importantissimo, dunque, del
modello delle Nazioni Unite è la comparsa dei diritti umani. Bisogna capire qual è il ruolo dei diritti umani
nel diritto internazionale. Qui viene fuori una cosa abbastanza evidente, cioè i diritti umani vengono
concepiti come obblighi degli Stati. Che caratteristiche hanno questi obblighi degli Stati? Qualcuno
potrebbe pensare che questi obblighi siano auto-obbligazioni, decisi dagli Stati stessi, è una forma di auto-
limitazione nel linguaggio del Rechtsstaat, lo Stato che capisce di dover limitare i suoi poteri, ma così
facendo diventa onnipotente perché un domani potrebbe cambiare la sua volontà.
In questo modello inizia ad emergere un’idea che in realtà nel diritto internazionale non tutto sia diritto
pattizio, che era stata la regola del paradigma di Westfalia: vi sono infatti delle norme imperative, alle quali
in un secondo momento verrà dato il nome di ius cogens. Sono norme che si impONGono sugli Stati, tali
per cui, qualora degli Stati facessero un accordo contrario a queste norme imperative, il trattato sarebbe
nullo. Si tratta di un cambiamento significativo per il diritto pattizio, perché all''idea che il diritto
internazionale fosse prodotto fra accordi tra Stati, seguiva la convinzione che si potesse fare un patto su
qualunque cosa, si potessero fare alleanze secondo le intenzioni dello Stato, invece le norme imperative
rappresentano il limite al potere pattizio degli Stati. Salta anche il meccanismo di auto-tutela (facciamo un
accordo internazionale per il funzionamento delle poste, tu non consegni la mia posta, io smetto di
consegnare la tua), perché le norme imperative impONGono che abbiamo fatto un trattato, se anche tu
smetti di rispettarlo, io sono tenuto a rispettarlo. Le norme imperative sono norme che non possono essere
violate, anche nel caso in cui qualcuno le violi.

L'elemento dei diritti umani è un elemento importantissimo nella nuova configurazione del diritto
internazionale. L’elemento della tutela dei diritti delle persone non era del tutto assente nel diritto
internazionale classico, cioè quello del paradigma di Westfalia. Secondo alcuni, ma è un dibattito ancora in
corso, i diritti umani starebbero provocando una costituzionalizzazione del diritto internazionale. Alcuni,
cioè, sostengono che effettivamente vi sia una serie di valori, insieme alla tutela dei diritti umani, nel diritto
internazionale che potrebbero far pensare ad una sorta di costituzionalizzazione.
I diritti umani sicuramente si incontrano con una serie di fenomeni che non sono stati provocati dai diritti
umani, ma che comunque servono lo stesso fine. Si tratta di due elementi presenti nel diritto
internazionale classico. Il primo è il cosiddetto diritto umanitario, che è probabilmente l’erede dello ius in
bello, ad esempio da sempre non si possono uccidere gli ambasciatori e non si devono attaccare i civili.
Lungo il 1800, il diritto della guerra, che è una parte importante del paradigma di Westfalia, si sviluppa
grazie al movimento della croce rossa: teorici, avvocati e giuristi costruiscono questo diritto umanitario,
che si configura in maniera diversa rispetto allo ius in bello: quest’ultimo, infatti, era un diritto che
obbligava gli Stati a non fare determinate cose, è un diritto in cui le parti erano le parti belligeranti, mentre
il diritto umanitario è caratterizzato dalla neutralità, cioè è un diritto che non discute su chi ha ragione o
torto, non prende le parti. Grazie a questa neutralità svolge un ruolo di tutela nei confronti dei civili, ad
esempio, in quanto non dovrebbero essere oggetto di guerra: nella guerra era lecito uccidere un soldato,
ma in quanto soldato e non persona, era quindi vietato uccidere i civili. Il diritto umanitario va quindi
maturando in una serie di espedienti, ad esempio i corridoi umanitari, ovvero zone nelle quali si può
passare senza essere attaccati per portare aiuti, il fatto che il personale medico debba aiutare chiunque e
non possa essere attaccato. Si tratta di una tradizione, che lungo il 1800 inizia ad essere codificata. Tali
codici sono poi confluiti in una serie di convenzioni (convenzione di Ginevra).
Il diritto umanitario fa riferimento al senso di umanità con cui bisognava bilanciare le necessità dello Stato,
quindi l’umanità doveva essere un freno per non compiere azioni crudeli. In questa tradizione nascono i
crimini contro l’umanità, cioè la concezione che alcuni crimini rappresentino una violazione non già
soltanto nei confronti dell’individuo contro i quali si compiono, ma nei confronti dell’interà umanità,
offendono l’umanità. Ancora una volta c’è qualcosa come l’umanità che deve reagire contro questi crimini,
che infieriscono contro l’umanità perché contrari al diritto. In passato il crimine contro l’umanità per
eccellenza era la pirateria, ma poi l’elenco si estende fino a comprendere sterminio, aggressioni razziali,
stupri di massa, ecc. Ciò mira a stabilire un principio di universale giurisdizione, ovvero un principio per cui
qualunque Stato abbia notizia di uno di questi crimini ha, in nome dell’umanità, il dovere di giudicarli. A
partire dalla Seconda guerra mondiale, la universale giurisdizione viene esercitata dai tribunali speciali di
guerra, una serie di tribunali ai quali è stato dato il compito di giudicare alcuni di questi conclamati crimini
contro l’umanità. Alcuni studiosi parlano di un processo di umanizzazione del diritto internazionale, che ha
a che fare con questa attenzione ai soggetti vulnerabili.

La terza caratteristica del modello delle Nazioni Unite è la cooperazione internazionale. Si tratta di uno dei
compiti dello statuto delle Nazioni Unite, uno degli obiettivi dello statuto è quello dello sviluppo della
cooperazione internazionale attraverso il diritto internazionale. Uno degli elementi è la codificazione del
diritto internazionale, che è stato messo in atto attraverso la creazione di un organo permanente delle
Nazioni Unite, ossia la commissione per il diritto internazionale, una commissione di circa trenta giuristi di
varie parti del mondo che funziona dal 1947 e che ha la funzione della codificazione del diritto
internazionale. Questa idea è strettamente collegata alla cooperazione del diritto internazionale, perché il
diritto internazionale servirebbe alla cooperazione internazionale, cioè la sua principale funzione è quella
di consentire la cooperazione internazionale, attraverso l’individuazione di obiettivi comuni. Questo è il
compito dell’altro organo delle Nazioni Unite, ovvero dell’assemblea generale e del segretario generale,
che hanno la funzione di individuare non solo obiettivi, ma anche strategie per raggiungerli. Ad esempio, lo
sviluppo sostenibile, con tutte le strategie per ottenerlo è forse l’obiettivo più celebre; un altro obiettivo è il
Rule of Law; anche i diritti umani sono un obiettivo della cooperazione internazionale.
L'altra faccia della medaglia della cooperazione verso obiettivi è quella della risoluzione dei conflitti. Nel
cooperare, la conseguenza più naturale è quella che si creino delle controversie. Cooperazione e conflitto
vanno assieme: il modo di risolvere il conflitto è un modo di cooperare. Il conflitto, cioè, si genera laddove
vi è un’interazione e vi è un modo di cooperare nella risoluzione del conflitto, ossia quello di ricorrere a
mezzi pacifici. I mezzi pacifici sono un altro elemento fondamentale del diritto internazionale, o meglio la
promozione di mezzi pacifici per la soluzione di controversie. Mezzi pacifici sono tribunali, corti, ma anche
la promozione al ricorso di arbitrati, la cui presenza è sempre molto meno evidente di quanto siano le
guerre; è più facile vedere i problemi, ma non dobbiamo sottovalutare il ricorso a mezzi di soluzioni
pacifiche all’interno del diritto internazionale. Le relazioni internazionali sono colme di strumenti che
consentono la soluzione di controversie e questa è la caratteristica del diritto internazionale dopo la
Seconda guerra mondiale.

Sempre nel contesto della cooperazione ci sono le organizzazioni internazionali, che si dividono in due
tipologie: le organizzazioni internazionali costituite dalle Nazioni Unite e le organizzazioni non governative
(ONG). Le organizzazioni governative sono sostenute da Stati e servono a coordinare l’azione degli Stati alla
luce degli obiettivi che ha la comunità internazionale e che quindi hanno tutti. Sia queste organizzazioni
governative, create da altri organi, sia quelle non governative hanno delle caratteristiche della
settorizzazione e della specializzazione, cioè queste organizzazioni sono specializzate in determinati settori
al fine di rendere possibile una cooperazione specifica in un determinato settore. Le organizzazioni non
governative hanno come loro caratteristica principale quella di essere enti privati, ma che si propONGono
con finalità pubbliche: sono entità senza scopro di lucro, quindi con finalità spesso altruistiche, sono cioè
organizzazioni che non solo puntano alla protezione dell’ambiente, ad esempio, ma che ambiscono a
fornire prestazioni altruistiche, per favorire gratuitamente altri esseri umani. È un dato interessante che
rientra nel processo di umanizzazione del diritto internazionale. Queste organizzazioni partecipano
all’obiettivo di migliorare la vita delle persone; molte di queste ONG, hanno lo stesso obiettivo del diritto
umanitario (alleviare le sofferenze in guerra), come Amnesty International, il cui contributo va nella linea
della tutela dei diritti umani.
Solitamente si pensa che i destinatari degli obblighi giuridici siano soggetti autorizzati, qui si ha un
fenomeno giuridico (in quanto la finalità di queste organizzazioni è quella di contribuire a tutelare i diritti
umani) da parte di soggetti che però non sono Stati, soggetti, che non sono solo movimenti sociali, ma che
hanno una organizzazione interna e che interagiscono con le istituzioni internazionali.
Le organizzazioni non governative nel contesto di diritti umani possono collaborare alla produzione di
regole in materia di diritti umani, ad esempio collaborano alla stesura di trattati dei diritti umani,
collaborano anche nell’individuazione di ciò che consiste una violazione di diritti umani. Un'espressione di
questo lavoro si trova in un sempre più alto tasso di quelli che vengono detti amici curiae, ovvero esperti
non interessati alla causa che si sta decidendo, che forniscono informazioni ai giudici: sia i tribunali speciali,
sia le corti speciali si servono di queste ONG per definire se vi sia stata una violazione dei diritti. Le ONG
hanno, inoltre, un compito di controllo nella tutela di diritti, svolgono la funzione pubblica di vigilanza
dell’adempimento degli obblighi. Tutto questo settore presenta delle caratteristiche problematiche. La
principale è data dal fatto che non sono obbligati all’eguaglianza: ad esempio, se io vivo in uno Stato e sono
trattato in modo diverso rispetto ai miei concittadini, sono quindi discriminato, ho il diritto di rivendicare
davanti lo Stato di essere trattato in modo uguale; rispetto al lavoro delle ONG, non posso rivendicare di
non essere stato oggetto di attenzione da parte di quell’organizzazione. Questo perché la provenienza delle
ONG dalla società civile conferisce loro la caratteristica tipica della società civile, cioè la libertà e la
spontaneità, quindi la ONG può scegliere liberamente chi tutelare, mentre lo Stato invece no. Il lavoro di
queste ONG in un certo senso risulta quindi insufficiente, anche se è un lavoro che spetta alle istituzioni,
che hanno appunto l’obbligo di trattare tutti in egual modo. Un secondo problema delle ONG è il
cosiddetto deficit di democrazia: proprio perché si tratta di organizzazioni libere, che decidono di dare un
contributo, non si può chiedere ad esse di prendere in considerazione l’opinione di tutti.
5 MAGGIO

Il modello di cui abbiamo parlato è caratterizzato da una intensa cooperazione su diversi fronti. Una
caratteristica di questa cooperazione è la presenza di quelli che vengono chiamati attori non statali. Dentro
questo gruppo, possiamo collocare le ONG, le agenzie internazionali (se si vuole sottolineare il fatto che
non si tratta di Stati come organi sovrani, ma di rappresentanti degli Stati, che comunque in qualche modo
possono discostarsi dall’azione statale). Le ONG formano parte di quella che è la società civile
internazionale, che è espressione spontanea degli individui. È una società civile trasversale, non è
espressione culturale di una comunità politica, ma di gruppi di individui che spontaneamente decidono di
impegnarsi in qualche settore. Accanto a questi ci sono una serie di altri operatori, i più rilevanti dei quali
sono gli operatori commerciali, le multinazionali, gli operatori nel campo dell’informazione, le piattaforme
globali. Tutto questo mondo è anche costruito attraverso la cooperazione, una cooperazione
internazionale, oltre i confini statali. Questi darebbero luogo, secondo alcuni, seguendo gli schemi del soft
law, a sistemi giuridici indipendenti.
Il soft law presenza caratteristiche diverse rispetto all’hard law: l’hard law è un diritto prodotto dallo Stato,
mentre il soft law è prodotto da attori, come ad esempio la lex mercatoria e la lex informatica, ovvero il
diritto degli operatori commerciali e il diritto di internet a livello internazionale, sulla scia della lex
mercatoria.
È un diritto sfuggevole, perché proveniente da attori molto diversi, un diritto diverso in relazione al campo
di cui si parla, ossia c’è un panorama molto diversificato e settorializzato, specializzato in settori
apparentemente senza contatto tra di loro. A tale diritto si rimprovera quindi la sua frammentazione, una
frammentazione che è sicuramente un dato evidente. Questo panorama fenomenologicamente appare
senz’altro frammentato. La questione che si pongono gli internazionalisti e gli studiosi di questo nuovo
contesto giuridico è la stessa che si pongono circa la codificazione. In tale epoca ci si chiedeva se l’unità
dell’ordinamento giuridico fosse sostanzialmente un postulato, un sistema giuridico costruito da giuristi,
dunque non un dato che troviamo già nel mondo, ma il frutto di una costruzione razionale del legislatore
che dice ‘sono io la fonte di diritto, e io che sono illuminato e razionale, farò un diritto ordinato, l’idea che il
diritto stia nelle norme che il legislatore ha prodotto; ma Kelsen dice che non è cosi, in quanto
l’ordinamento giuridico ha un suo carattere disorganico dal momento che il legislatore opera in base a
esigenze, mentre è il giurista che costruisce il sistema giuridico. La domanda che si pone l’ordinamento
giuridico statale per il sistema giuridico è valida anche relativamente al diritto internazionale; c’è rispetto a
questo panorama, qualche linea di sviluppo che miri verso l’unificazione, ci sono delle forze sotterranee
che sono legate allo ius gentium, che mettono assieme queste cose. Questo è ciò che guida il lavoro della
Commissione di diritto internazionale, che permette di sviluppare il diritto internazionale e di codificarlo. La
codificazione significa mettere assieme tutte le norme che regolano questo settore, dunque è un modo di
dare unità ad un diritto che si trova nelle consuetudini.

Nella convenzione di Vienna del 1969, ma anche all’articolo 38 dello statuto della Corte internazionale di
giustizia dell’Aia, possiamo osservare come la ricerca giuridica e la riflessione dei giuristi abbia percorso la
strada della unificazione del sistema delle norme del diritto internazionale. Si nota come ci sia stato un
impegno per formulare un sistema delle fonti, come i codici si proponevano di fare, cioè trovare una
gerarchia delle fonti. Nel sistema delle fonti del diritto internazionale questa gerarchia non è presente, ci
sono delle fonti che sono importanti, ma tutte le altre concorrono alla formulazione del diritto
internazionale.
La consuetudine, che è la fonte principale del diritto internazionale, è una modalità di produzione del
diritto fondata sulla ripetizione nel tempo di un comportamento uniforme, accompagnata dalla ‘opinio
iuris ac necessitatis’, ossia si usa nel tempo una determinata regola, convinti della obbligatorietà e della
necessità di quella regola. Questo procedimento che è sicuramente un meccanismo di coordinazione
dell’azione attraverso regole è stato nella storia dell’umanità la principale modalità di produzione del
diritto. Con lo Stato moderno, è stata introdotta la produzione della legge attraverso procedure apposite e
questa modalità di produzione di diritto è diventata secondaria, ma non è scomparsa del tutto. Il diritto
internazionale è prodotto principalmente da consuetudini.
Vi sono principi generali del diritto delle nazioni civilizzate che richiamano molto i principi dello ius
gentium, intendendo civilizzate nel senso di Cicerone, le nazioni che vogliono partecipare alle Nazioni
Unite.
Sempre l’art. 38 dello statuto della corte internazionale di giustizia afferma che è molto importante per il
diritto internazionale l’insegnamento dei più insigni giuristi. Nel diritto internazionale è molto importante il
ruolo dei giuristi e addirittura viene considerato fonte del diritto internazionale. La scuola storica del diritto
aveva sostenuto che il diritto non può venire fuori, ma il giurista deve ricavare dalle consuetudini e
tradizioni il diritto del popolo; da questo punto di vista, il diritto internazionale potrebbe essere definito
come un diritto fondato sul lavoro, la dottrina che costruiscono i giuristi. Jean d'Aspremont esamina questo
aspetto del diritto internazionale sottolineando, in modo provocatorio, come paradossalmente il diritto
internazionale è quello che i giuristi credono che sia il diritto internazionale.
Se andiamo a vedere il diritto dei trattati dovremmo dire che mancano le norme imperative. Bisognerebbe
considerare tali norme come le costituzioni, e quindi al di sopra degli accordi? Il contenuto di queste norme
imperative potrebbe essere un canale per l’unificazione di questo sistema di valori. Ad esempio, se valesse
la frammentazione di cui parliamo, il diritto degli operatori commerciali non avrebbe nulla a che fare con i
diritti umani, invece troviamo una serie di esigenze che le multinazionali devono rispettare che hanno a che
fare con la tutela dei diritti umani.

Il paradigma delle relazioni internazionali riguarda il ruolo dello Stato in questo contesto. Fin ora abbiamo
parlato di caratteristiche trasversali che coinvolgevano gli Stati. Cosa è successo allo Stato? C'è stata
qualche evoluzione nel modo di concepire giuridicamente lo Stato?
Una cosa molto significativa che è accaduta allo Stato organizzato giuridicamente è che si è passato da un
modello in cui lo Stato aveva dei diritti (diritti territoriali dello Stato) ad una concezione chiamata ‘service
conception of States’, l’idea che lo Stato sia a servizio dei diritti. Il tema è che lo Stato più che avere dei
diritti ha delle responsabilità. In un certo senso, lo statuto delle Nazioni Unite ci fa intravedere questo, in
quanto gli Stati si accollano degli obblighi. La dottrina internazionalistica, sancita da una risoluzione delle
Nazioni Unite del 2005, che descrive questa nuova concezione dello Stato, è chiamata responsibility to
protect (R2P). Questa dottrina è una dottrina internazionalista che descrive in modo diverso, rispetto
aquella che era la disciplina che si occupava dei diritti territoriali dello Stato (dottrina dello Stato), la
responsabilità degli Stati non solo nei confronti dei diritti dei cittadini, ma anche oltre i territori dello Stato.
Lo Stato ha la responsabilità della tutela dei diritti umani anche verso coloro che non sono suoi cittadini, a
tal punto che talvolta occorre agire a tutela dei cittadini di altri Stati. Vi è un dibattito sui cosiddetti ‘Stati
falliti’, espressione con cui ci si riferisce a quegli Stati che non rispettano le norme del diritto internazionale
e che si collocano fuori dal diritto internazionale e rispetto ai cittadini dei quali gli altri Stati hanno delle
responsabilità. Qui viene meno il principio della non-ingerenza del paradigma di Westfalia. Questo ci
consente di dire che lo Stato da protagonista del diritto è diventato a servizio dei diritti delle persone.

Per quanto riguarda i diritti territoriali dello Stato, cioè i diritti che la dottrina dello Stato aveva identificato
sono molteplici, sono le competenze che noi riconosciamo allo Stato e che vengono resi in termini di diritti.
Sono il diritto di giurisdizione in senso ampio, cioè sia la legislazione sia il potere di giudicare; il diritto di
punire, strettamente collegato all’esercizio della forma pubblica, che viene riconosciuto agli Stati e che è,
insieme a quello tributario sono l’espressione più evidente della sovranità; il diritto di imporre tasse; il
diritto a decidere dell’uso delle risorse naturali e sociali presenti sul territorio; il diritto di controllare le
frontiere e di decidere delle ammissioni. Sono diritti territoriali anche il diritto della guerra e della pace e il
diritto di coniare le monete.
Vi sono due possibili giustificazioni del perché lo Stato abbia questi diritti. La prima è che questi diritti sono
dello Stato perché sono gli individui a formare lo Stato, quindi quest’ultimo raccoglie questi diritti dagli
individui. Però gli individui non hanno questi diritti, quindi c’è una discontinuità tra i diritti degli individui
che formano lo Stato e i diritti dello Stato. Questo è importante al fine di valutare il modo di comprendere
il potere dello Stato sul territorio, perché una delle strade possibili per costruire una relazione tra diritti
degli individui e diritti dello Stato consiste nell’affermare che il territorio altro non è se non la somma delle
proprietà degli individui che formano lo Stato. Per cui il territorio italiano sarebbe quello formato dalle
proprietà che noi abbiamo in quanto proprietari. Ovviamente questo ragionamento non si può fare. C'è un
salto di qualità tra la proprietà privata dei cittadini e il potere sul territorio dello Stato, eppure
riconosciamo allo Stato il potere di decidere dell’uso delle risorse naturali come un proprietario fa della
propria terra. Ma questo non funziona, perché il territorio dello Stato è inclusivo di una serie di elementi
che non corrispondono a quelli degli individui, sono ambienti che Francisco De Vitoria avrebbe chiamato
‘beni comuni’, ovvero, a disposizione di tutti, dei cittadini ma anche di chi viaggia, di chi passa il territorio,
dunque non vi è questa corrispondenza. Il diritto internazionale schematizza ancora di più i diritti
territoriali dello Stato, riconoscendo che c’è uno Stato e, per riconoscere questo, si serve di un suo criterio,
ovvero della capacità che ci sia nel territorio una forza capace di mantenere l’ordine su quel territorio. Nel
diritto internazionale si riconoscono due diritti che dipendono dalla lettura sbagliata dei diritti territoriali: il
diritto di decidere sulle risorse naturali e sociali e il diritto di contrarre debiti. Il debito pubblico si
incrementa per svolgere delle attività e questo debito viene riconosciuto come un diritto degli Stati. Una
conseguenza di questo diritto di contrarre debiti è che al dittatore di turno viene riconosciuto il diritto di
contrarre debiti, contrae debiti per cose inutili e in maniera ingiustificata e, quando il debitore non c’è più,
il debito viene intestato al paese e non al dittatore. Abbiamo una concezione sbagliata dei diritti territoriali.
Questa dottrina viene meno anche al fatto che gli altri Stati siano coinvolti e chiamati in causa laddove in
un determinato Stato non si rispettano i diritti delle persone.
La seconda giustificazione dei diritti territoriali consiste nel considerare che tali diritti siano in realtà diritti
di gruppi di persone, ma allora bisognerebbe esaminare perché quei gruppi hanno quei diritti. La questione
può essere ricondotta a questa linea di soluzione del problema: i gruppi hanno diritti di natura pubblica
laddove rispettano certe condizioni, laddove rispondono a organizzazioni di un certo tipo. Si può parlare di
diritti territoriali dello Stato di gruppi quando quei gruppi sono caratterizzati dalla libertà e il rispetto delle
persone, il coinvolgimento delle persone della formazione del diritto, l’idea che il diritto ha una natura
cooperativa e che quindi il diritto è il risultato di una cooperazione delle persone e non l’imposizione da
parte di qualcuno. Gli studiosi individuano la categoria di questi gruppi come schemi di cooperazioni. I
diritti territoriali dello Stato possono essere riconosciuti a gruppi di questo tipo. Questi diritti territoriali
dovrebbero essere compatibili con l’inclusione di altri individui che accettano le regole e vogliono
cooperare, cioè concepire le nazioni come schemi di cooperazione implica assumere un atteggiamento
inclusivo nei confronti del non cittadino. Laddove si danno le condizioni della cooperazione bisognerebbe
essere accoglienti: se ciò che ci tiene uniti è una cooperazione, dovremmo essere capaci di integrare quelli
che vengono per cooperare.

Hersch Lauterpacht, giurista austriaco-inglese, giudice della Corte internazionale della giustizia, in un saggio
in cui propone di discutere la definizione e la natura del diritto internazionale e il suo posto nella
giurisprudenza, afferma che stabilire cosa è il diritto internazionale presuppone una definizione di cosa è il
diritto. A tal proposito, egli decide di utilizzare la definizione austiniana di diritto, che secondo lui è ancora
valida e traduce un’esperienza dello Stato moderno. Quando si guarda al diritto internazionale, dice,
avendo la definizione di diritto che ha scelto come più adatta, notiamo che ci sono almeno sette cose
assenti nel diritto internazionale. La conclusione è che queste assenze non distruggono del tutto il carattere
giuridico del diritto internazionale. Le 7 cose che mancano sono:
1. Un’autorità sovrana che faccia diritto. Egli afferma, nel 1954, che è vero che ci sono i trattati prodotti
dagli Stati, ma i trattati non sono obbligatori per quelli che non ne fanno parte, che non li firmano. Ci
sarebbe un’obiezione, in quanto ci sono le norme imperative, che obbligano tutti.
2. Un’autorità sovrana esecutiva, un potere esecutivo sovrano, che abbia il potere di imporre le sanzioni.
Lauterpacht afferma che il diritto internazionale si serve della auto-tutela o della guerra come sanzione o
delle rappresaglie. Qui c’è in realtà un problema non con il potere esecutivo, ma con il potere di
sanzionare.
3. Una uniforme osservanza del diritto, ma nemmeno il diritto dello Stato è osservato in modo uniforme e
costante.
4. La limitazione della portata della materia del diritto internazionale, che secondo Lauterpach è un diritto
pubblico, in quanto sta pensando al diritto degli Stati. Potremmo dire a Lauterpach che il diritto
internazionale riguarda anche le relazioni private, operatori commerciali e multinazionali
5. Un’autorità che abbia una giurisdizione obbligatoria, volta ad accertare il diritto. La corte internazionale
di giustizia non ha giurisdizione obbligatoria, ce l’ha per coloro che firmano i trattati che la costituisce.
6. L’indeterminatezza delle regole del diritto internazionale, la difficoltà di accertare cosa è il diritto
internazionale.
7. La comunità politica. Il diritto presuppone una comunità politica e sebbene nella comunità
internazionale ci sia un crescente senso di unità morale dell’umanità, evidentemente la comunità politica
non c’è.

10 MAGGIO

Comunità politica
L’esigenza di una comunità politica è un tema importante e parlare di questo significa trattare una delle
quattro dimensioni necessarie per comprendere la natura del diritto, ossia la dimensione normativa, la
dimensione sanzionatoria, la dimensione dell’ordine sociale e quella della giustizia. In questo caso parliamo
della dimensione dell’ordine sociale, cioè la comunità politica è una delle modalità dell’ordine sociale che
ha a che fare con il diritto. Se l’ordine sociale tipico del diritto è una comunità politica, rispetto al rapporto
tra diritto e politica, si possono distinguere diritto e politica? Se perché ci sia diritto è necessaria la politica,
diritto e politica possono essere distinti? Evidentemente no. Il contributo teorico più importante in tema di
ordine sociale è la teoria istituzionalista del diritto, che afferma che il diritto nasce da forze sociali che si
organizzano secondo degli scopi. La teoria istituzionalista di Santi Romano è strettamente collegata alla
nozione di Stato, poiché Santi Romano quando pensa a queste forme sociali che si organizzano intorno ad
uno scopo pensa che poi tutti questi diversi ordini si integrino nell’ordine statale. Lo Stato non produce il
diritto, questo è prodotto dall’organizzazione statale, poi però lo Stato deve riconoscerlo, sanzionarlo, dare
forza. In Santi Romano l’elemento dell’ordine sociale e l’elemento statale sono collegati e infatti lui non
parla di comunità politica ma di Stato.
Ma se vale la tesi istituzionalista al di là della sua lettura statalista, evidentemente è possibile che ci sia un
ordine sociale giuridico che possa distinguersi dall’ordine sociale politico?
La tradizione ha individuato nella comunità politica un elemento necessario perché vi sia il diritto. Un
autore recente, ovvero Raz, spiega questa caratteristica del diritto sostenendo che per riconoscere il diritto
dobbiamo avere a che fare con un ordinamento comprensivo, cioè il diritto per essere definito come tale
deve coprire tutto quello che è necessario per la coordinazione umana. L’ordinamento giuridico deve
regolare tutti gli aspetti necessari per la coordinazione. Quest’idea va contro il carattere frammentato del
diritto internazionale, cioè una delle differenze tra il diritto statale e quello internazionale è che
quest’ultimo è organizzato in diversi sistemi o corpi.
Quest’idea di Raz viene probabilmente da una lunga tradizione che sosteneva che la principale
caratteristica della comunità politica era la sua autosufficienza. Le comunità politiche, secondo personaggi
da Aristotele in poi, venivano definite come comunità perfette, dove perfette significa che in esse si trovava
tutto ciò che era necessario per la vita degli uomini. Quindi questa definizione della comunità politica come
comunità perfetta e la tradizione che ha progressivamente identificato il diritto con il diritto dello Stato,
anche se bastava parlare del monopolio della produzione giuridica, ha portato ad immaginare che per
esserci diritto deve esserci una comunità politica. Ma possiamo criticare l’unione di questi elementi
secondo diversi criteri poiché possiamo, ad esempio, affermare che per definire il diritto è sufficiente
parlare della dimensione normativa e sanzionatoria senza che sia necessario parlare della dimensione
politica. Possiamo anche notare che questa comunità politica come comunità perfetta in realtà non è mai
esistita, forse la polis in alcune sue espressioni si è avvicinata a quest’idea, ma mai è esista una comunità
perfetta. Il diritto ha sempre avuto a che fare con relazioni di estraneità, con articolazioni tra individui
diversi, da un lato, dall’altro la comunità politica ha sempre vissuto in un contesto di interazione con gli
altri. Oggi questo tema è ancora più evidente: le comunità politiche non sono affatto autosufficienti e
perfette. La interdipendenza tra le comunità politiche è fortissima non solo dal punto di vista della
produzione di beni, ma anche dal punto di vista degli individui che guardano la comunità politica. Uno dei
caratteri tipici dello Stato è il popolo e relativamente a questo parlando di dimensione dell’ordine sociale
sappiamo che questo non è un dato di partenza, ma di arrivo. Cioè nello Stato moderno c’è stato un
processo di unificazione, di uniformazione linguistica, culturale e anche intorno ai valori giuridici
costituzionali.
Oggi secondo gli studiosi questa comunanza non è affatto quella che viene raccontata dalla narrativa dello
Stato moderno. L’identità politica delle persone non corrisponde più ai confini territoriali dello Stato, si
forma oltre questo. Questo ha delle implicazioni sul modo di costruire e di leggere l’ordinamento giuridico
perché l’ordinamento interno diventa il contesto nel quale è possibile trovare una coordinazione in un
contesto di discordo. Jeremy Waldron dice che in realtà l’ordine costituzionale non è l’ordine in cui noi ci
sentiamo tutti uniti perché la pensiamo allo stesso modo, ma è una cornice nella quale è possibile trovare
soluzioni al disaccordo. La costituzione non è la proclamazione dei principi che ci uniscono piuttosto alcune
regole che ci consentono di risolvere i problemi di disaccordo.
Da una parte le comunità politiche sono diventate, o forse sono sempre state, dei contesti di disaccordo
nei quali è poi possibile mettersi d’accordo e dall’altra parte l’identità politica degli individui non è più
plasmata da quei progetti politici interni alla comunità politica. C’è anche, però, il fatto che la comunità
internazionale è importante per una serie di valori e non è possibile pensare alla tutela dei diritti umani se
non capiamo che essa è possibile attraverso un accordo tra gli Stati. C’è un’esigenza di cooperazione
internazionale che va oltre il territorio e che crea contesti di cooperazione e coordinazione che hanno
bisogno del diritto, il quale sappiamo che è un metodo per la coordinazione dell’azione. Da un lato la
comunità politica non sembra essere così autosufficiente, dall’altro ci sono dimensioni dell’interazione che
richiedono la presenza del diritto per regolare le azioni comuni. La domanda è se c’è un ordine sociale
tipico del diritto che può essere distinto da quello politico? A questa domanda non si può rispondere senza
valutare quali sono le caratteristiche della coordinazione giuridica.

Esercizio della forza


Per quanto riguarda le sanzioni a livello internazionale la tesi più comune, sostenuta anche da Kelsen, è che
la sanzione del diritto internazionale per eccellenza sia la guerra. Secondo Kelsen, la cui teoria normativa
riconosce un posto importantissimo alla sanzione poiché secondo lui la struttura della norma contiene la
sanzione, c’è un diritto internazionale che è diritto. Lui ha bisogno di individuare la sanzione nel diritto
internazionale, sanzione che è definita in termini di conseguenze negative derivanti dalla violazione di una
norma, di un precetto. Effettivamente vede che la guerra è una conseguenza negativa che deriva dalla
violazione dei trattati e quindi la sua teoria funziona per il diritto internazionale. Questa lettura del diritto
internazionale fa un po’ a pugni con lo sviluppo del diritto internazionale poiché nella storia del diritto
internazionale c’è sempre stato il desiderio di limitare la guerra e questo è ancora evidente nell’ultimo
paradigma, quello delle Nazioni Unite, dove c’è appunto il ripudio della guerra, la quale non è considerata
un modo per risolvere i conflitti a livello internazionale perché la guerra è il maggiore nemico della tutela
dei diritti umani e per questo bisogna evitarla. Bisogna ricorrere alla guerra solo quando non c’è un’altra
alternativa. Se valesse la teoria di Kelsen innanzitutto la tendenza dovrebbe essere quella di far sì che il
diritto internazionale non sia diritto, ovvero privare il diritto internazionale di quell’elemento che lo rende
diritto, ovvero la presenza delle sanzioni regolate dal diritto internazionale. Questa è sicuramente una
ragione per dubitare della teoria di Kelsen, del suo modo di comprendere il diritto, in quanto la definizione
del diritto deve rendere conto del diritto proprio per quello che è.

La linea di riflessione che noi abbiamo seguito e che possiamo seguire ancora adesso è che l’elemento della
forza, in particolare della sanzione non sia un carattere distintivo del diritto. Siamo nel contesto della critica
delle teorie sanzionatorie del diritto.
Hathaway e Shapiro hanno provato a capire se effettivamente si può sostenere che nel diritto
internazionale c’è questo elemento della forza però a partire da una certa lettura della forza: questi autori
hanno provato a sostenere che il diritto internazionale è diritto ed è diritto nella misura in cui è
caratterizzato dalla forza, solo che considerare la guerra la sanzione per eccellenza non va bene. Loro però
allo stesso tempo mostrano altri caratteri del diritto che non sono quello della sanzione. La tesi che loro
sostengono è che noi identifichiamo l’elemento della forza attraverso due caratteristiche, cioè pensiamo
che la forza sia propria dello Stato e che questa sia violenta. Sappiamo che la forza non è necessariamente
violenta ma è la forza della sua autorità, tale che fa sì che la regola si imponga, la quale però richiede il
riconoscimento da parte dei soggetti perché la si applichi.
Questi autori affermano che questi due elementi non corrispondono alla descrizione della forza del diritto
nemmeno dentro allo Stato, innanzitutto perché dicono che la forza che lo Stato esercita molto spesso è
delegata e non propria. Non dubitiamo che sia lo Stato ad esercitare la forza anche quando lo Stato delega
a qualcun altro l’esercizio della forza, quindi anche quando lo Stato non la usa internamente ma la
esternalizza (dà ad un altro quella competenza). Nel diritto internazionale l’esercizio della forza è delegato.
La forza non è necessariamente violenza, anzi abbiamo spesso fatto il paragone tra la normatività e la
costrizione o coercizione concludendo che sono cose diverse. Molto spesso quelle che noi chiamiamo
sanzioni non sono esercizio della forza fisica, ma sono di carattere economico che esistono anche nel diritto
internazionale, imposte a quegli Stati che infrangono i trattati o violano dei diritti.
È possibile pensare secondo quei due autori ad un diritto che non usa affatto la forza fisica, ma che usa
forza. Loro fanno uno studio sul diritto canonico e sul diritto medievale dell’Islanda che hanno la
caratteristica di non usare la forza fisica, anche se oggi il diritto canonico la usa, ma la vera sanzione del
diritto canonico e che si riscontra anche nel diritto medievale dell’Islanda è quella out casting ovvero
espulsione di qualcuno dai benefici della cooperazione. Il diritto canonico impone la scomunica a chi non
segue le regole ovvero una forma di out casting, di espulsione mentre nel diritto medievale dell’Islanda
colui che veniva giudicato colpevole veniva espulso.
Nel diritto internazionale una forma di sanzione che richiama questo meccanismo di espulsione è quella
dell’autotutela, ovvero si realizza un trattato e nel momento in cui tu vieni meno a quei doveri io vengo
esonerato ad adempiere quei doveri e così viene meno una cooperazione. Le sanzioni a livello
internazionale dimostrano l’importanza della cooperazione per il diritto internazionale, la vera sanzione
starebbe nell’impossibilità della cooperazione. Il problema non è la sanzione, come sostengono i due autori
che dicono che in realtà la sanzione è un’altra cosa, ma ad essere centrale è l’elemento della cooperazione.
Qui si comprende anche uno dei misteri del diritto internazionale in relazione al soft law, ovvero quello che
gli Stati obbediscono ad un diritto non obbligatorio, non vincolante e questo come si spiegherebbe? Alla
luce di questa necessità alla cooperazione, ovvero lo Stato segue le regole che lui stesso non ha prodotto,
che non sono accompagnate da sanzione perché questo lo inserisce in un circuito di cooperazione.
Possiamo sostenere con Hathaway e Shapiro che la questione è sempre una questione di forza solo che la
forza può essere non violenta e delegata a terzi oppure possiamo alla luce di questa ricerca concludere che
l’elemento più importante per capire il diritto e riconoscere nel diritto internazionale una forma di diritto
non necessariamente secondaria, imperfetta e primitiva è la capacità di coordinare le azioni e quindi di
creare un ordine dinamico di cooperazione, cioè una forma di organizzazione sociale.
La domanda che resta è se ci sia qualcosa che caratterizzi la coordinazione secondo il diritto. Non è solo la
normatività o la forza oppure l’ordine sociale e ci resta solo il criterio della giustizia. In
qualche modo la caratteristica definitoria ha a che fare con il modo in cui il diritto svolge questa
cooperazione e con il tema della giustizia.

11 MAGGIO

In un saggio del 2019, Raz rivede una propria posizione del 1979 circa il Rule of Law, in cui sosteneva che
questo non fosse una caratteristica fondamentale del diritto: secondo Raz il Rule of Law poteva essere
collegato al diritto, ma non rende quest’ultimo quello che noi intendiamo per diritto.
In questo recente saggio, invece, Raz sostiene che il Rule of Law è la virtù che il diritto dovrebbe possedere.
Il Rule of Law è quindi una delle principali virtù che il diritto potrebbe avere, il che significa che vi sono altre
virtù. Già da questa affermazione capiamo che la tesi per cui la natura del diritto sia collegata al Rule of
Law non è valida, in quanto il diritto ha altre virtù. Studiando il Rule of Law ci porta a comprendere la
natura del diritto e la sua importanza, il suo ruolo nella nostra vita.
In un’opera del 1980 di un altro giurista, Finnis, si legge che il nome comunemente dato alla situazione in
cui un sistema giuridico si trova giuridicamente in buono stato è il Rule of Law e che il Rule of Law è la virtù
specifica dei sistemi giuridici.
Tra Raz e Finnis non ci sono differenze, sia giuspositivisti sia giusnaturalisti ritengono il Rule of Law una
virtù essenziale del diritto, con la differenza che Raz afferma che ci siano più virtù nel diritto, mentre Finnis
una sola. Le prime tre domande della filosofia del diritto, ossia cosa è, com’è e come deve essere, si
incrociano tutte con l’individuazione del Rule of Law. Il Rule of Law, infatti, abbiamo detto che è la chiave
per capire che cosa è il diritto, per rispondere a questa domanda dobbiamo capire come è il diritto e il Rule
of Law, essendo un ideale, si prospetta come il dover essere del diritto (terza domanda).

Contenuto
Una caratteristica del Rule of Law è che il suo contenuto può variare.
Il diritto cambia ed è possibile continuare a parlare di diritto, anche se cambia, se si riflette sulle sue finalità
e le sue modalità, più che sulle sue proprietà essenziali. Una delle risposte che potremmo dare è che il Rule
of Law si adatta a contesti diversi perché è capace di adattarsi a virtù esistenti. Non è un ideale fermo nella
storia, ma qualcosa da valutare nel tempo, in relazione al contesto.

Fuller, quando parla di Rule of Law come la virtù dei sistemi giuridici, parla di otto desiderata (aspirazioni),
cioè di otto caratteristiche che il diritto dovrebbe avere:
1. Carattere prospettico e non retroattivo del diritto, il fatto che il diritto mira al futuro e regola le nostre
azioni future e non passate. Il diritto è pieno di norme retroattive, ma il diritto per essere tale deve
guardare al futuro. La retroattività è consentita nel caso in cui si traduca a favore del reo: ad esempio,
quando c’è una norma penale che introduce un alleggerimento di pene, è possibile applicare questa norma
retroattivamente, perché va a favore di chi è stato condannato con un regime più severo. Che un diritto
così concepito sia a favore del reo implica la capacità del Rule of Law di favorire chi è soggetto al diritto. Ciò
sta a significare anche che parlare di Rule of Law implica un bilanciamento tra una serie di esigenze.
2. Praticabilità, cioè il diritto non dovrebbe comandare cose impossibili. Questo è collegato all’idea che il
diritto è una ragione per agire: se quello che il diritto mi propone è impossibile, io non posso seguirlo.
Dunque, il diritto non può avere qualsiasi contenuto.
3. Promulgazione o pubblicità, il diritto deve essere promulgato e pubblicizzato. È una delle caratteristiche
più antiche.
4. Chiarezza e comprensibilità.
5. Non contraddittorietà e la coerenza tra le norme. Se l’ordinamento giuridico mi impone due
comportamenti opposti, io non posso seguirle entrambe.
6. Stabilità nel tempo, perché un diritto che cambia sempre è insensato, in quanto deve avere un minimo di
stabilità. Questo è un problema tipico dei paesi con civil law, ‘una parola del legislatore e si ribalta una
biblioteca’, cioè se cambia la parola del legislatore, si ricomincia da 0. La tradizione del common law è,
invece, paradossalmente molto più stabile, perché è molto più difficile cambiare una consuetudine che
cambiare una legge. Compare questo modo di descrivere il Rule of Law che mette in difficoltà, quando si
può cambiare, sulla base di cosa?
7. Generalità, che è un carattere fondamentale, che garantisce l’eguaglianza, il trattare tutti in maniera
eguale. La generalità implica trattamento eguale dei casi eguali e trattamento diverso dei casi diversi.
8. Congruenza tra funzionari e regole, cioè l’applicazione delle regole da parte di funzionari sottoposti alla
stessa legge, e imparzialità nell’applicazione.

I desiderata di Raz, invece, sono undici. Il Rule of Law deve avere a che fare con un diritto:
1. Ragionevolmente chiaro
2. Ragionevolmente stabile
3. Pubblicità
4. Generalità
5. Prospettività
6. Le ragioni delle decisioni devono essere dichiarate, si devono motivare
7. Processi equi e senza pregiudizi
8. Uso di argomenti rilevanti e di rilevanti informazioni per il caso concreto
9. Decisioni ragionevoli
10. Il governo deve agire secondo preesistenti convenzioni (anche locali)
11. Sostenuto da una cultura pubblica
Cosa distingue le prime cinque caratteristiche dalle quattro seguenti? Mentre le prime sembrano
fotografare le norme, la seconda parte è relativa alla dinamica di applicazione del diritto, riguardante il
processo ma anche ogni tipo di decisione. Jeremy Waldron dice che in ogni descrizione di Rule of Law c’è
una parte statica e una parte dinamica. Nella lista di Fuller troviamo anche la distinzione tra parte dinamica
e statica al punto 8: si parla delle autorità che applicano le norme e si dice come si devono applicare le
norme. La prima parte parla del diritto in enunciazione, la seconda del diritto in azione: quello che gli
inglesi distinguono in diritto dei libri e diritto dell’azione.
Il diritto deve essere applicato secondo il suo tenore, per quello che è. Da questo punto di vista il Rule of
Law è il contrario dell’abuso di potere: l’abuso di potere da parte del legislatore si può concretare nel fare
delle norme senza prendere in considerazione che sono i cittadini che devono applicarle, facendo quindi
delle norme improponibili. È un modo di declinare un potere che non è arbitrario, che funziona per quello
per cui esiste, da qui la frase ‘secondo il suo tenore’.

Finnis nel 1992 aggiunge altri punti agli otto di Fuller:


9. Indipendenza dei giudici
10. Pubblicità dei processi
11. Revisione dei processi, i processi si possono controllare
12. Accesso alla giustizia anche per persone con poca possibilità, perché se noi facciamo funzionare il
diritto attraverso leggi e processi, ma ci sono quelli che non hanno accesso alla giustizia, si creano dei
problemi.

Giustificazioni
Perché è bene che il diritto possieda la virtù del Rule of Law? Il senso del Rule of Law è che quest’ultimo ci
protegga da un potere arbitrario. Un’azione arbitraria è l’uso del potere indifferente alle ragioni per cui il
potere esiste, quindi il Rule of Law ha a che fare con la stessa finalità naturale del potere.
Finnis afferma che il Rule of Law è un rimedio per i pericoli che stanno dietro all’avere governanti. Si parla
del governo degli uomini, i ‘rules’ sono le persone, si sta affermando che il governo della legge è migliore
rispetto al governo degli uomini.
Fuller afferma che nel Rule of Law c’è il rispetto per un agente razionale e libero. Razionale perché capace
di capire, libero perché la libertà è confermato dalla prospettività del diritto, implica che la norma si
presenti come guida delle mie azioni future, non passate.
Waldron sostiene che la finalità del Rule of Law è trattare le persone con rispetto perché centri attivi di
intelligenza, cioè gente che si sa regolare e che prende in considerazione le regole giuridiche come guida
delle proprie azioni.
Fuller dice che la forma di coordinazione giuridica è diversa dalla forma di coordinazione manageriale. La
forma di coordinazione giuridica non ci tratta come deficienti o delinquenti, ma come persone intelligenti
che conoscono l’esigenza della coordinazione dell’azione.
Il limite al modello arbitrario, l’idea che il Rule of Law tratti quelli che sono soggetti al suo potere come
centri di intelligenza non sono ancora sufficienti. Per capire il Rule of Law dobbiamo riflettere sul fatto che
non è una descrizione di un ideale che riguarda i rapporti tra il potere e i subordinati, non è solo dall’alto
verso il basso (modello verticale unidirezionale) e nemmeno dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto
(modello verticale bidirezionale).
1. Il modello verticale unidirezionale è tipicamente un modello manageriale, questa è una possibile accusa
al rechtsstaat, che è un modello storico del Rule of Law, inteso però come modello verticale unidirezionale.
2. Il modello verticale bidirezionale implica vincoli di reciprocità tra autorità e i subordinati, dove i
subordinati sono individui di fronte al potere. Questa idea introduce un criterio di giustificazione del
potere, la bidirezionalità sta nel fatto che coloro che stanno al potere hanno degli obblighi nei confronti di
chi è subordinato, ci sono vincoli di reciprocità.
3. Modello orizzontale il Rule of Law implica relazioni di eguaglianza tra i soggetti sia tra sovraordinati e
subordinati. Non solo efficiente ma equo sistema di cooperazione. ‘una forma di vita, un modo di
organizzare le nostre relazioni’.
Bisogna tenere insieme il principio di legalità e il principio di fedeltà del diritto. Per la realizzazione del Rule
of Law ci vuole un certo modo di capire le azioni politiche. Per realizzare il Rule of Law, anche il cittadino
ordinario deve capire che seguire la regola è qualcosa di dovuto non al governo, ma agli altri.

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