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La storia del calcio

sommario:□ Il calcio dalle origini a oggi. □ L'evoluzione della


tecnica di gioco. □ Gli schemi tattici. □ Le tecniche di
allenamento. □ Le regole. □ L'arbitraggio. □ Le attrezzature e
gli impianti. □ Gli stadi del calcio. □ Le organizzazioni
internazionali. □ Aspetti legislativi. □ Doping. □ Aspetti
economici. □ Il calcio-mercato. □ Il calcio e la
televisione. □ Calcio e sponsor. □ Il tifo. □ La violenza e le
tragedie del calcio. □ I grandi incidenti delle squadre. □ Gli
scandali del mondo del calcio.

Il calcio dalle origini a oggi


di Adalberto Bortolotti

Le origini
Ricco di fascino è un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di
attendibili antenati di quello che è oggi definito il più grande
spettacolo del mondo. Anche in una ricostruzione breve e
sommaria, appare però fondamentale, nonché storicamente
corretto, procedere a una suddivisione preliminare. Non
prenderemo sistematicamente in considerazione tutti i giochi
con la palla in uso nell'antichità, ricerca che risulterebbe senza
fine, bensì soltanto quelli che presentano sostanziali e
indiscusse analogie con il calcio attuale.
Cronologicamente, le prime manifestazioni di quello che
potremmo definire protocalcio si ebbero in Estremo Oriente,
come dimostrò il francese Jules Rimet, al quale si deve la
creazione e il lancio, nel 1930, del primo Campionato del
Mondo di calcio. Già nel 25° secolo a.C., l'imperatore cinese
Xeng Ti obbligava gli uomini del suo esercito a praticare, fra i
vari esercizi di addestramento militare, un gioco imperniato sul
possesso di un oggetto sferico, molto simile a un pallone di
oggi, formato di sostanze vegetali, tenuto insieme e
ammorbidito in superficie da crini annodati (secondo una
versione più poetica, da soffici capelli di fanciulla). Il gioco era
chiamato Tsu-Chu. Un millennio più tardi, in Giappone aveva
largo seguito il Kemari, finalizzato non più all'avviamento alle
armi, ma al diletto delle classi nobili. Si giocava su un campo
segnalato, agli angoli, da quattro tipi diversi di albero: un pino,
un ciliegio, un mandorlo e un salice. Il pallone, il cui strato
esterno era di pelle, misurava 22 cm di diametro ed era
manovrato con le mani e con i piedi, una sorta di rugby ante
litteram. Peraltro, molto gentile: il gioco, infatti, veniva spesso
interrotto per scambi di scuse e complimenti.
Attorno al 1000 a.C., nella Grecia era in auge l'epískyros (il
nome derivava da sk´yros, la linea centrale che divideva in due
parti il campo) che, insieme a tanti altri e più importanti usi
ellenici, fu trapiantato a Roma dove prese il nome
di harpastum e assunse connotazioni decisamente più brutali.
L'arpasto consisteva nel rubarsi la palla, senza troppi
complimenti, e divenne il passatempo preferito dell'esercito. Lo
praticavano con grande soddisfazione i legionari di Giulio
Cesare, suddivisi in squadre regolari, e furono quindi
probabilmente loro a farlo conoscere ai britanni durante
l'invasione dell'isola, gettando così un seme destinato a
germogliare copioso nella terra destinata a dare ufficialmente i
natali al calcio moderno.
Le fortune di tutti i giochi con la palla declinarono poi
bruscamente nel Medioevo, per un generale deprezzamento
delle attività ludiche. Il divieto di praticarli riguardò dapprima i
soli religiosi. In seguito progressivamente questi giochi furono
messi al bando per tutti, anche perché causa di incidenti e di
violenze che originavano veri e propri tumulti e sottraevano i
soldati alle attività militari.
Anche in altre civiltà, come in quella maya, si praticarono
forme di protocalcio. Nell'antico Messico, per esempio, il gioco
consisteva nel far passare il pallone, che non poteva essere
toccato con le mani, attraverso un piccolo foro nel muro. Il
pallone era di caucciù massiccio e pesava tre chili e mezzo.
Evidente la simbologia erotica, un connotato che, secondo
Desmond Morris autore del fortunato saggio La tribù del
calcio (1981), è presente anche nella versione attuale del gioco.

Il calcio fiorentino
In Europa fu il Rinascimento, con la rivalutazione del mondo
classico e il ritrovato culto per la bellezza e la forza, a favorire il
ritorno alle attività ludiche e agonistiche. Nel pieno splendore
dell'età medicea, Firenze ne divenne la capitale. Già nel 1410
un anonimo poeta fiorentino, cantando le glorie e le bellezze
della città, accennava a una popolarissima forma di
divertimento che veniva espressamente chiamata 'gioco del
calcio'. Piero de' Medici, appassionato cultore di questa attività
agonistica, chiamò alla sua corte i più abili giocatori, dando così
vita al primo esempio di mecenatismo applicato al calcio. I
Medici furono anche i primi a capire che il gioco costituiva una
formidabile valvola di sfogo per il malcontento popolare (alla
stessa guisa dei circenses romani) e quindi si impegnarono a
incoraggiarlo e a diffonderlo.
Le regole prevedevano la contrapposizione di due squadre
formate da un numero variabile di giocatori: 20, 30 o 40 a
seconda delle dimensioni del terreno. La formazione standard
era composta da 27 giocatori: 15 attaccanti (corridori), 4
centrocampisti (sconciatori), 4 terzini o trequarti (datori
innanzi), 4 difensori (datori indietro). Sei arbitri controllavano e
dirigevano il gioco da una tribunetta laterale. Il pallone poteva
essere colpito con i piedi o afferrato con le mani, con le quali
non era però consentito lanciarlo. L'obiettivo di entrambe le
squadre era di collocare il pallone in una porta custodita da uno
dei difensori, il solo che potesse utilizzare le mani, come
l'attuale portiere; il gol era chiamato 'caccia'. Si trattava di
autentiche battaglie, di grande violenza, che si protraevano per
una giornata intera.
Esaminato con la mentalità attuale, il calcio fiorentino mostra
alcune affinità con il calcio moderno e altre con il rugby. Come
osserva Antonio Ghirelli nella sua Storia del calcio in
Italia (1954), nel ventennio fascista al calcio fiorentino fu
attribuito il ruolo di autentico e unico precursore del football,
nell'intento di negare una gloria inglese e sottrarre così alla
'perfida Albione' il merito, oggettivamente indiscutibile, di aver
dato i natali nel 19° secolo al calcio come viene oggi inteso,
nello spirito e nelle regole. È comunque un fatto che anche il
celebre Vocabolario della Crusca (edito per la prima volta nel
1612) annotasse questa definizione: "È calcio anche nome di un
gioco, proprio, e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia
ordinata, con una palla a vento, rassomigliantesi alla
sferomachia, passato da' Greci a' Latini e da' Latini a noi".
Riservato in un primo tempo ai nobili, il calcio fiorentino si aprì
presto alla ricca borghesia dei mercanti e dei banchieri, e in
seguito ai più abili giocatori di tutte le contrade, oltre ai veri
professionisti reclutati dai Medici. In declino a partire dal 18°
secolo, il calcio fiorentino viene ora tenuto in vita
essenzialmente come spettacolo tradizionale e folcloristico, un
modo di ritrovare le proprie radici con infiammate sfide in
Piazza della Signoria, a memoria degli antichi campanilismi.

Le radici del calcio moderno


In Inghilterra ‒ dove era stato probabilmente introdotto, come
abbiamo visto, dalle legioni di Giulio Cesare ‒ sono numerose
le tracce, anche letterarie, dell'assidua pratica del gioco. Nel Re
Lear, Shakespeare fa dire a Kent, che atterra Osvaldo con un
abile sgambetto: "Beccati questa, cattivo giocatore di calcio!". È
però il 19° secolo a inaugurare, insieme con la rivoluzione
industriale e il progresso tecnico e scientifico, anche un
interesse prima sconosciuto per l'attività sportiva. Il gioco della
palla con i piedi, o football, che si era diffuso da tempo a livello
popolare con l'accentuazione dei suoi caratteri brutali e violenti,
cominciò a fare proseliti presso le classi superiori, secondo la
gerarchia sociale dell'epoca: nobili e intellettuali videro nello
sport un mezzo di aulica competizione, nella naturale cornice
del college. In questo ambito si colloca, nella seconda epoca
imperiale britannica, la vera origine del calcio moderno, che
progressivamente trova la sua codificazione nei grandi e
aristocratici campus di Harrow, Rugby e Charterhouse.
Tuttavia, un grande freno alla diffusione universale del gioco
venne dalla disparità di regole fra un istituto e l'altro. A
Charterhouse non era consentito toccare la palla con le mani e
quindi si sviluppò, in modo naturale, quella tendenza al gioco
individuale chiamata dribbling game, consistente nel possesso
della palla da parte di un singolo giocatore che cercava di
evitare (dribblare) quanti più avversari possibili. A Harrow si
giocava 11 contro 11, ai piedi di una collina, con una maggiore
attenzione alla manovra collettiva (passing game). A Rugby si
poteva manovrare la palla con le mani. La tradizione vuole che
quando uno studente di quel college, William Webb Ellis, nel
1823, percorse tutto il campo con il pallone fra le mani, sino a
violare la linea di fondo avversaria, nacque il gioco che dal
nome del college si chiamò appunto rugby e che già nel 1842
varò il suo regolamento ufficiale.
Forse anche per emulazione, qualche anno dopo, nel Trinity
College di Cambridge, venne redatto un primo codice
calcistico. Su questa base, nel 1857, vide la luce il primo club di
calcio non universitario, lo Sheffield Club. Nel 1862, a
Nottingham, nacque il Notts County e da quel momento fu tutto
un proliferare di società calcistiche.
La data storica cui si fa risalire la nascita del gioco del calcio
moderno è il 26 ottobre 1863. Quel giorno, alla Freemason's
Tavern di Great Queen Street, nel rione di Holborn, si riunirono
11 club dell'area di Londra per uniformare i loro regolamenti.
Due erano le tendenze dominanti: la prima intendeva consentire
l'uso delle mani e dei piedi, mantenendo al gioco le sue
caratteristiche originarie di scontro anche fisico; la seconda era
favorevole, invece, al solo uso dei piedi e a un'impostazione
nettamente meno violenta. I fautori di quest'ultimo
orientamento confluirono nella FA (Football Association), che
fu la prima federazione calcistica nazionale.
La separazione dal rugby non fu subito radicale. Il primo match
organizzato dalla FA, al Battersea Park, tra le squadre del
London e dello Sheffield, terminò con la vittoria del London per
due gol e quattro touch-down a zero. Nel 1872 si giocò il primo
incontro internazionale della storia fra le rappresentative di
Scozia e Inghilterra, al West of Scotland Cricket Club, a
Partick. Davanti a 4000 spettatori, che avevano pagato uno
scellino a testa, l'accanitissima sfida terminò a reti inviolate,
malgrado nel rudimentale schema tattico del tempo gli
attaccanti figurassero in numero nettamente preponderante
rispetto ai difensori.

Il professionismo e l'International board


Sempre in Gran Bretagna, due tappe fondamentali
nell'evoluzione del calcio moderno furono raggiunte prima della
fine del secolo. Nel 1885, di fronte al dilagare della pratica
calcistica, che vedeva ormai impegnati un gran numero di club
e moltissimi giocatori, la FA riconobbe la possibilità di
corrispondere al calciatore, per le sue prestazioni agonistiche,
un modesto compenso, che andava pertanto a integrare il
guadagno derivante dal suo lavoro abituale. Era la prima forma
di un fenomeno, il 'professionismo', che avrebbe profondamente
segnato questa disciplina sportiva, portando, come primo
effetto, una svolta decisiva a favore dei club più dotati di mezzi
economici. In Inghilterra, infatti, proprio la possibilità di attirare
con lusinghe di guadagno i giocatori più abili, segnò la
leadership dell'Aston Villa. Il vero professionismo era
comunque ancora di là da venire, ma un ulteriore passo in
questa direzione fu compiuto nel 1897, quando venne istituita, a
Londra, la prima associazione dei giocatori britannici,
embrionale forma di sindacato calciatori, che si sarebbe
trasformata, nel 1907, nella potente e organizzata PFA
(Professional footballer's association). Il fortissimo anticipo
con cui gli inglesi arrivarono a un vero e proprio inquadramento
sindacale dei calciatori, rispetto al resto del mondo, si spiega
anche con una coscienza associativa particolarmente viva nel
paese in generale.
L'altro momento fondamentale fu rappresentato dall'istituzione,
nel 1886, dell'IFAB (International football association board),
a opera delle quattro federazioni britanniche (a quella inglese,
che nel 1863 aveva aperto la strada del calcio moderno, si erano
aggiunte la scozzese nel 1873, la gallese nel 1876, l'irlandese
nel 1880). L'International board, nato per promulgare un
regolamento comune mediando in un testo unico le specificità
dei vari movimenti nazionali, rappresenta tuttora la 'corte
suprema' del calcio, il 'sacro custode' delle regole. Ovviamente
aperto alle delegazioni elette di altri paesi, il suo ruolo di
giudice ultimo e inappellabile resiste dopo oltre un secolo di
vita.
Prima di abbandonare questa rivisitazione delle origini e passare
a trattare del gioco moderno, resta forse da chiarire un aspetto
particolare: il motivo per cui il calcio si gioca in undici. La
spiegazione prevalente rimanda ancora una volta alla realtà dei
college, alle camerate composte da dieci studenti e un
precettore, il primo abbozzo di 'squadra' che dai tempi dei
pionieri è riuscito a mantenersi intatto sino al sofisticato
football del Duemila.

L'espansione in Europa e Sud America


Dalla Gran Bretagna, che gli aveva dato forma e
organizzazione, il football, nell'ultimo trentennio del 19° secolo,
cominciò a espandersi nel continente europeo e sulle rive
sudamericane dell'Oceano Atlantico. La ricca struttura
industriale inglese esigeva un'adeguata rete commerciale
incentrata sui traffici d'oltremare. Il 'germe' del football fu così
esportato dai marinai delle navi britanniche e dai funzionari
delle agenzie che tenevano i rapporti con la madrepatria.
In Argentina, intorno al 1860, una compagnia inglese fu
incaricata della costruzione della rete ferroviaria che, partendo
da Buenos Aires, toccava altri centri sulle sponde del Rio della
Plata. Nello stesso periodo, l'esportazione di frigoriferi inglesi
avviava una fitta rete di scambi anche con Montevideo, capitale
dell'Uruguay. Le due nazioni conobbero il football
contemporaneamente e giocarono il loro primo incontro
internazionale ancor prima che Charles Miller sbarcasse a San
Paolo del Brasile con un pallone sottobraccio e convertisse al
calcio un paese destinato a diventarne un simbolo. In realtà, i
giocatori che si sfidarono nel 1899 a Montevideo, al circolo
sportivo La Blanqueda, portavano quasi tutti nomi
inconfondibilmente inglesi: erano marinai o funzionari, di
stanza o residenti nei due paesi. Il Buenos Aires team superò il
Montevideo team per 3-0.
In Brasile, come si è accennato, il pioniere fu Charles Miller,
nativo di San Paolo ma figlio di un residente inglese che lo
aveva mandato in Inghilterra a completare gli studi. Al ritorno,
il giovane Charles portò con sé un pallone da football e
introdusse il nuovo gioco presso i coetanei. Il calcio fiorì
inizialmente nello Stato paulista e coinvolse soprattutto la
popolazione bianca. Solo in seguito neri e meticci trovarono
cittadinanza nei circoli che praticavano la disciplina importata
dall'Europa e, in una nazione che non ha mai conosciuto veri
conflitti razziali, non tardarono a farsi spazio sino a marcare una
chiara superiorità.
In Europa, pur in circostanze diverse, lo sviluppo del calcio
ebbe la sua matrice comune nelle navi inglesi alla fonda: i
marinai impiegavano il tempo libero in interminabili e accanite
sfide sul molo, sollecitando prima la curiosità, poi l'emulazione.
Non è quindi un caso che a recepire e a diffondere il gioco siano
state per prime le città sedi di affermati porti commerciali o
militari. In Francia il club più antico nacque a Le Havre, nel
1872, lo stesso anno che vide, in Spagna, l'istituzione
dell'Huelva ricreation club. In Italia, il primato fu di Genova,
nel 1893. In Portogallo, in Olanda e nelle altre nazioni
affacciate sul mare il gioco fu introdotto con le stesse modalità.
Un paese non marinaro, la Svizzera, fu tuttavia il più sollecito a
importare il calcio grazie a privilegiati scambi culturali con
l'Inghilterra, che prevedevano una massiccia presenza di
studenti elvetici nei college d'oltremanica. La Svizzera fu poi il
naturale tramite della penetrazione del football nell'Europa
centrale e orientale, senza per questo trascurare il ruolo svolto
da personaggi come il giardiniere dei Rothschild, che fu tra i
fondatori del First Vienna, in Austria, nel 1894, oppure come
Karoly Lowenrosen, che in occasione della Grande Esposizione
di Budapest del 1896, fra le merci importate dall'Inghilterra,
inserì un pallone da football e organizzò sul posto il primo
match calcistico ungherese. In Germania, il calcio fu introdotto
dal professor Konrad Koch, reduce da una lunga permanenza in
Inghilterra per ragioni di studio. Nel primo club tedesco, il
Germania di Berlino, giocava tale Hugo Pauli, che poi fece
conoscere il nuovo sport in Iugoslavia. All'inizio del 20° secolo,
malgrado i mezzi di comunicazione di massa fossero di là da
venire, grazie a questo singolare tam-tam, il calcio era così
giocato in buona parte del mondo, segnatamente in quei
continenti, Europa e Sud America, che a lungo ne hanno
rappresentato le scuole dominanti, se non esclusive.

Il fervore associativo: nasce la FIFA


Ovviamente, la partenza anticipata aveva consentito alla Gran
Bretagna un vantaggio anche sul versante tecnico. Quando nel
resto d'Europa e nel Sud America si muovevano i passi iniziali e
si allacciavano i primi timidi contatti internazionali, le quattro
federazioni britanniche già disputavano da tempo un regolare e
seguitissimo torneo. Chiamato Home championship, il
quadrangolare fra le rappresentative d'Inghilterra, Scozia,
Galles e Irlanda fu inaugurato nel 1884: questa prima edizione
si concluse con il trionfo della Scozia, che vinse tutte le partite.
Rispetto ai tradizionali rivali inglesi, gli scozzesi giocavano un
calcio più organizzato, meno legato all'estro individuale e che
recava già in sé precisi connotati tattici. Come abbiamo visto, in
Sud America, giusto alla fine del 19° secolo, Uruguay e
Argentina avevano aperto la serie infinita delle loro sfide,
peraltro schierando giocatori quasi esclusivamente britannici.
Quando però, ai primi del 20° secolo, Thomas Lipton, il
magnate del tè, mise in palio fra le due nazionali platensi la
Coppa che portava il suo nome, già si erano fatti strada i talenti
indigeni. Scorrendo le formazioni, troviamo ancora molti
Brown e Smith, ma anche i Laforia, i Saporiti, i Camacho e i
Rovegno. In Europa, il primo incontro internazionale sostenuto
da paesi non britannici si disputò nel 1902 a Vienna, fra Austria
e Ungheria: l'Austria si impose con un nettissimo 5-1. La scuola
mitteleuropea, per qualità tecnica, era forse la sola che potesse
avvicinarsi ai maestri d'oltremanica.
La Francia non brillava particolarmente per il valore delle sue
squadre, ma era sicuramente in prima linea nelle iniziative per
lanciare il calcio su scala internazionale. Ospitando nel 1900 le
seconde Olimpiadi dell'era moderna, gli organizzatori
inserirono nel programma, non a titolo ufficiale ma solo come
torneo dimostrativo, un triangolare di calcio che riscosse un
notevole successo di pubblico. Oltre alla Francia e al vicino
Belgio, era stata invitata una rappresentativa inglese, l'Upton
Town, che pur non figurando nell'élite britannica si affermò
nettamente sui debolissimi avversari.
Forte di questo promettente approccio, il giornalista francese
Robert Guérin, affiancato dall'olandese Carl A. Wilhelm
Hirschmann, nel 1902 si recò a Londra, presso il potente
presidente della FA, Frederich Wall, per sottoporgli un progetto
ambizioso: istituire una confederazione per regolare e
organizzare l'attività delle federazioni nazionali, con il fine
ultimo di dar vita a un vero e proprio Campionato del Mondo.
Ottenne un brusco rifiuto, né miglior sorte incontrò due anni
dopo con il successore di Wall, Lord Kinnaird. Gli inglesi erano
troppo gelosi della loro posizione preminente per accettare
l'idea di una super-federazione e non erano neppure entusiasti di
mettere a disposizione di tutti i segreti e i regolamenti dello
sport che avevano inventato. Il 21 maggio 1904, con il pretesto
di un match internazionale tra Francia e Belgio, Guérin inviò a
Parigi i delegati di otto federazioni (oltre alla Francia, Olanda,
Belgio, Germania, Svezia, Svizzera, Spagna e Danimarca) e
fondò la FIFA (Fédération internationale de football
association), di cui fu eletto presidente, con Hirschmann
segretario. Rafforzata da successive adesioni, la FIFA riuscì a
convincere le federazioni britanniche a entrare a far parte del
nuovo organismo nel 1905. Nel congresso di Berna del 1906, il
nuovo presidente della FA, Daniel Burley Wolfall, divenne
anche presidente della FIFA, subentrando al dimissionario
Guérin. Nel suo discorso d'investitura, il dirigente inglese
accantonò subito l'ambizioso progetto di un Campionato del
Mondo, e dopo aver riaffermato il fondamentale ruolo
dell'International board come garante del regolamento
calcistico, propose di sfruttare l'opportunità offerta dal Comitato
internazionale olimpico (CIO) di ospitare un torneo ufficiale di
calcio nell'ambito dell'appuntamento quadriennale dei Giochi
Olimpici.
È da notare che i britannici ottennero di entrare nella FIFA con
tutte e quattro le loro federazioni, nonostante una norma dello
statuto prevedesse la partecipazione di una sola federazione per
ciascuna nazione; questa norma era stata peraltro già applicata
alla Boemia che, in quanto facente ancora parte dell'impero
austro-ungarico, si era vista respingere la richiesta di
affiliazione. Nel caso della Gran Bretagna, invece, al di là di
qualche opposizione di principio, prevalse, pragmaticamente, la
considerazione che quattro federazioni della scuola calcistica
dominante erano sempre meglio che nessuna. Questa anomalia,
che tuttora resiste, va considerata un omaggio agli inventori del
calcio moderno.

Il calcio e le Olimpiadi
Dopo Parigi, anche Saint Louis, sede delle Olimpiadi del 1904,
aveva ospitato a titolo ufficioso un torneo calcistico, ma si era
trattato di un evento assai modesto e limitato all'area
nordamericana, nel quale il Canada aveva prevalso sugli Stati
Uniti. La linea britannica, tesa a fare del torneo olimpico un
vero confronto mondiale, si affermò, com'era logico, nei Giochi
del 1908, ospitati a Londra, che segnarono l'ingresso ufficiale
del calcio nel programma del CIO. Ormai si giocavano regolari
campionati nazionali in tutta Europa e in Sud America e si
stavano moltiplicando, sia pure in modo spontaneo e caotico, i
confronti internazionali. Le Olimpiadi, però, esigevano dai
partecipanti lo status di dilettante puro e questo si rivelò presto
un ostacolo. Non tutti i paesi, infatti, potevano godere
dell'esemplare organizzazione del calcio inglese, dove, a livello
di prima divisione, dilettanti e professionisti erano in grado di
coesistere senza traumi di sorta. Così il giocatore più forte,
famoso e rappresentativo della nazionale olimpica inglese (che
vinse, ovviamente, la medaglia d'oro, battendo in finale la
sorprendente Danimarca) era Vivien Jack Woodward (architetto
di successo), autentico dilettante, ma allo stesso tempo un
tiratore formidabile, in grado di ricoprire tutti i ruoli d'attacco.
Alle successive Olimpiadi del 1912, a Stoccolma, prese parte
anche l'Italia, che era entrata nella FIFA nel 1905 e aveva
iniziato la sua attività internazionale nel 1910 con una netta
vittoria sulla Francia. Ben 11 furono le nazioni partecipanti, ma
la competizione restava confinata in ambito europeo, senza
poter svolgere, come invece era in programma, il ruolo di un
Campionato del Mondo, perché le fortissime rappresentative
sudamericane erano penalizzate dalle difficili comunicazioni del
tempo. Infatti, fra il viaggio di andata e ritorno in piroscafo e la
durata del torneo, per Argentina, Uruguay e Brasile si trattava di
un impegno di due mesi abbondanti, eccessivo per un dilettante,
vero o presunto che fosse. L'Inghilterra vinse ancora, e ancora
in finale sui danesi. Il suo asso era Ivan Sharpe, degno erede di
Woodward. Il riscontro storico è importante, perché fu questa
l'ultima competizione internazionale vinta dagli inglesi sino ai
Mondiali di Londra del 1966, ben 54 anni più tardi. Quanto
all'Italia, affidata al giovane Vittorio Pozzo, fu eliminata dalla
Finlandia, ma batté i padroni di casa svedesi nel torneo di
consolazione, ottenendo nella circostanza il primo successo
all'estero della sua storia. Abbandonata la divisa bianca delle
origini, la squadra già indossava la maglia azzurra divenuta poi
tradizionale. Pochi giorni dopo il successo sulla Svezia, la
nazionale italiana fu però battuta dall'Austria con il netto
punteggio di 5-1. Secondo la poco ortodossa spiegazione fornita
da Pozzo, l'esito non esaltante della spedizione era da imputare
allo scarso impegno negli allenamenti dei calciatori italiani,
distratti dai 'liberi costumi' del Nord Europa. Fu, questa, l'ultima
Olimpiade prima che la grande guerra imponesse un lungo
arresto all'attività sportiva nel Vecchio Continente.

Verso il Campionato del Mondo


La sconfitta degli imperi centrali e il nuovo ordine europeo nato
dalla Conferenza di Versailles ebbero una diretta ripercussione
anche sul panorama calcistico. Austria, Germania e Ungheria
furono escluse dalle Olimpiadi del 1920, che si tennero in
Belgio, ad Anversa, mentre dallo sfacelo dell'impero asburgico
era nata nel 1918 la Cecoslovacchia. Con i due fuoriclasse
Janda e Kada, la nuova arrivata fu la vera rivelazione del
torneo: avrebbe vinto la medaglia d'oro se, nella finale contro il
Belgio, non avesse abbandonato il campo per protesta contro un
arbitraggio sfacciatamente favorevole ai padroni di casa,
venendo quindi automaticamente esclusa dalla classifica. Destò
stupore la sconfitta dell'Inghilterra a opera della Norvegia,
mentre fece il suo debutto internazionale la Spagna (che ad
Anversa presentò il miglior portiere del mondo, il leggendario
Ricardo Zamora) dove, pur svolgendosi una regolare attività
calcistica interna sin dagli ultimi anni del 19° secolo, le rivalità
municipali avevano fino a quel momento impedito di dar vita a
una rappresentativa nazionale. La presenza dell'Egitto, infine,
segnò l'ingresso dell'Africa nel calcio al più alto livello.
Mancava sempre il confronto con le 'stelle' del Sud America. Le
notizie che arrivavano in Europa sul calcio sudamericano erano
vaghe e contraddittorie. Eppure, sin dal 1916 si giocava un
torneo continentale, il Campionato Sudamericano ‒ da cui
discende l'attuale Coppa America ‒ che vedeva Uruguay e
Argentina protagoniste di sfide accesissime. Le Olimpiadi del
1924 a Parigi e quelle del 1928 ad Amsterdam ebbero il merito
di proporre finalmente l'incontro ravvicinato fra le due realtà
rappresentate dal calcio europeo e da quello sudamericano: la
superiorità di quest'ultimo, spettacolare e tecnico, dotato di
grandi individualità, con fasi di gioco funamboliche, ma anche
con un rigoroso ordine tattico, risultò nettissima, per merito in
particolar modo dell'Uruguay.
L'Inghilterra si era chiamata fuori, dopo la sconfitta subita ad
Anversa, protestando contro un regolamento che, a suo avviso,
ad alcuni consentiva di schierare la formazione più forte, mentre
agli inglesi imponeva di utilizzare i dilettanti, lasciando a casa i
campioni. Anche Austria, Cecoslovacchia e Ungheria, le
roccaforti del fiorente calcio danubiano, avevano disertato il
torneo olimpico parigino, ma è verosimile che contro
fuoriclasse quali Andrade, Scarone, Petrone, Cea e Nasazzi non
sarebbe stato comunque possibile prevalere. La vittoria
olimpica dell'Uruguay nel 1924 sollecitò l'Argentina a
partecipare ai Giochi del 1928 e nella partita finale si
confrontarono le due squadre platensi. Solo l'Italia del
commissario tecnico Rangone oppose una valida resistenza
all'Uruguay, da cui fu battuta di misura in semifinale, anche a
causa di un clamoroso rigore negato. Medaglia di bronzo e
prima fra le europee, l'Italia pose proprio ad Amsterdam le
premesse per il suo periodo d'oro, che si sarebbe celebrato negli
anni Trenta, con due titoli mondiali e un oro olimpico nell'arco
di quattro anni, dal 1934 al 1938.
Il grande successo dei tornei olimpici del 1924 e del 1928
costituì anche la spinta decisiva per il varo ‒ sospiratissimo ‒
del Campionato del Mondo di calcio, senza più vincoli
regolamentari a impedire la presenza dei campioni più forti e
rappresentativi di ogni paese. Peraltro, la finale del primo
Campionato del Mondo, disputato in Uruguay nel 1930,
ripropose alla lettera, anche nell'esito, quella olimpica di
Amsterdam. Il Sud America dettava legge e i suoi fuoriclasse
diventarono oggetto di contesa da parte dei più ricchi club
europei, tra i quali, naturalmente, quelli italiani.

L'età d'oro dell'Italia di Pozzo


Dopo un primo abbandono nel 1920, poi rientrato, al congresso
di Amsterdam del 1928 le quattro federazioni britanniche erano
uscite in blocco dalla FIFA, chiudendosi in uno splendido
isolamento. La convivenza con le altre federazioni, del resto,
era sempre stata difficile e i dissensi sullo status del calciatore,
professionista o dilettante, si erano rivelati un ostacolo
insuperabile, nonostante il varo del Campionato del Mondo
avesse contribuito a portare chiarezza, uscendo dagli equivoci
del regolamento olimpico.
A contrastare la superiorità della scuola sudamericana, nel
periodo che va dai primi Mondiali alla guerra, fu dunque l'Italia.
Il calcio italiano aveva conosciuto una crescita impetuosa anche
grazie all'appoggio massiccio offerto dal regime fascista (che
aveva intuito la formidabile efficacia propagandistica del
calcio) alla struttura organizzativa, che diede i risultati migliori
in occasione del secondo Campionato del Mondo, nel 1934. Il
ruolo decisivo attribuito da molti critici al fattore campo nella
conquista del titolo da parte degli azzurri, è però smentito dalla
circostanza che quattro anni dopo la nazionale italiana replicò il
successo in Francia, dove dovette superare ‒ oltre ad avversari
fortissimi ‒ anche un clima di grande ostilità. Fra i due trofei
iridati, inoltre, l'Italia si aggiudicò anche l'oro olimpico del
1936 a Berlino, con una squadra di (veri o presunti) studenti
universitari, escamotage per aggirare l'obbligo dilettantistico
preteso dal regolamento dei Giochi.
In realtà, è innegabile che il calcio italiano avesse raggiunto
altissimi livelli sia tecnici sia tattici. La nazionale, sotto l'abile
guida di Vittorio Pozzo, giocava una variante molto efficace del
'metodo', lo schema di gioco che era il fiore all'occhiello della
scuola danubiana, che l'Italia aveva personalizzato con una più
attenta copertura difensiva e con l'uso del contropiede in
attacco. Nel periodo fra le due guerre, Giuseppe Meazza,
centravanti-goleador in Campionato e mezzala di regia e di
rifinitura in maglia azzurra (alle spalle di attaccanti di
sfondamento quali Schiavio e Piola), fu sicuramente il più forte
e completo giocatore di scuola europea. La Juventus, che vinse
cinque scudetti consecutivi nei primi anni Trenta, era una
squadra formidabile, integrata da fuoriclasse stranieri, quali gli
argentini Luisito Monti, poderoso centromediano, e Mumo
Orsi, funambolica ala sinistra, che in qualità di oriundi diedero
un contributo decisivo anche in nazionale per la conquista del
titolo mondiale del 1934. Quella Juventus, però, non fu
altrettanto efficace in campo internazionale, mentre il Bologna,
sua fiera avversaria interna, vinse due edizioni della Coppa
dell'Europa Centrale, equivalente per prestigio alla Coppa dei
Campioni del dopoguerra. Lo stesso Bologna, al Torneo
dell'Esposizione di Parigi del 1937, smentì il preconcetto
secondo il quale molti successi italiani erano agevolati
dall'assenza delle squadre britanniche, travolgendo il Chelsea,
club di primissimo piano nella League inglese. Fu, questo, un
risultato importante anche sul piano tattico, perché il datato
'metodo' ebbe la meglio sul nuovo 'sistema' che gli inglesi
avevano adottato sin dalla fine degli anni Venti, e che
prevedeva più rigorose marcature difensive e in generale il
primato del calcio fisico su quello tecnico.
Nel 1938, quattro anni dopo aver superato ai Mondiali del 1934
l'élite europea (battendo Spagna, Austria e Cecoslovacchia), il
calcio italiano si guadagnò un'ulteriore laurea sul campo in
Francia, eliminando in semifinale il più forte Brasile
dell'anteguerra, una squadra spettacolare che aveva incantato il
pubblico con le prodezze di Leonidas, detto il 'diamante nero', e
che era unanimemente considerata la favorita per la conquista
del titolo iridato. A questa imponente collezione di successi,
l'Italia univa una dotazione di impianti seconda ‒ forse ‒ solo a
quella dell'Inghilterra. Purtroppo non si presentò una terza
occasione per confermare il momento d'oro del calcio italiano: i
Mondiali in programma nel 1942 non si svolsero, a causa della
Seconda guerra mondiale. In seguito, anche per il calcio,
sarebbe stata tutta un'altra storia.

Il ritorno e la delusione degli inglesi


La prima grande novità calcistica del dopoguerra fu il rientro
nella FIFA delle quattro federazioni britanniche, a chiusura di
un esilio ultraventennale che aveva fortemente penalizzato il
mondo del pallone. L'Inghilterra era tra i paesi vincitori del
secondo conflitto mondiale e ottenne di ospitare le prime
Olimpiadi della pace ritrovata, nel 1948. Sempre a Londra si
tenne il congresso della Federazione calcistica internazionale,
che sancì la riunificazione dei paesi membri con gli stessi
inglesi, scozzesi, gallesi e irlandesi. I fondatori del calcio
moderno sciolsero dunque ogni riserva sulla validità del titolo
di campione del mondo assegnato dalla quadriennale
manifestazione della FIFA, che sino a quel momento avevano
considerato quasi abusivo.
Il torneo olimpico del 1948, aperto solo ai dilettanti ‒ qualifica
che però non era interpretata nello stesso modo in tutti i casi ‒
vide il trionfo di una nazione la cui gioventù era stata
risparmiata dagli orrori e dalle decimazioni della guerra. Infatti,
la vittoria toccò alla Svezia, trascinata dai gol del centravanti
Gunnar Nordahl e dalla creatività di Gunnar Gren. Seconda fu
la Jugoslavia e terza la Danimarca, anch'essa per merito di
eccellenti attaccanti, Hansen e Praest. Fu proprio la Danimarca
a porre fine alle speranze dell'Italia, campione in carica grazie
all'oro di Berlino 1936, e al ciclo leggendario di Vittorio Pozzo,
il commissario tecnico che ha ottenuto il maggior numero di
vittorie nella storia del calcio, non solo italiano.
Per adattarsi al regolamento olimpico, la Federazione italiana
aveva deciso di far partecipare la solita formazione
'studentesca', quindi di qualità non eccelsa. Nell'Italia del
dopoguerra vigeva l'egemonia tecnica del Grande Torino, che
collezionava scudetti e record giocando un calcio estremamente
innovativo, almeno nel panorama nazionale. La squadra
granata, infatti, adottava gli schemi del sistema inglese, mentre
quasi tutte le altre formazioni che partecipavano al Campionato
erano ancora fedeli al metodo. Metodista convinto era
soprattutto l'allenatore Pozzo, che grazie a quella tattica aveva
vinto due Mondiali e un'Olimpiade, nonché due Coppe
Internazionali, l'equivalente dell'epoca degli attuali Europei.
Pozzo escluse quindi dalle convocazioni i giocatori del Torino,
per allestire una formazione metodista, ma poi, in seguito alle
pressioni degli innovatori, a Londra fece giocare la squadra
secondo i dettami del sistema. Ne trasse giovamento la fase
offensiva, mentre i difensori non riuscirono ad adeguarsi alla
nuova impostazione di gioco. Nel debutto contro la debole
formazione messa in campo dagli Stati Uniti, l'Italia illuse i
tifosi, segnando ben nove gol. Di fronte all'eccellente
Danimarca, gli azzurri riuscirono ancora a farsi valere in
attacco, mettendo a segno tre reti, ma a prezzo di sbandamenti
difensivi che consentirono agli avversari di violare per cinque
volte la rete del portiere Casari. Comunque, al di là dell'aspetto
tattico, la Danimarca poteva certamente vantare un impianto
collettivo e valori individuali nettamente superiori a quelli
dell'Italia.
Pozzo pagò duramente il prezzo della sconfitta e fu allontanato
senza i riconoscimenti che il suo eccezionale stato di servizio
avrebbe meritato, tornando a dedicarsi al giornalismo sportivo.
A sostituirlo fu chiamata, quasi a sottolineare il radicale cambio
di rotta, una commissione guidata dal presidente del Torino,
Ferruccio Novo, il più deciso fautore del sistema.
Alle Olimpiadi del 1948 le prime tre classificate, Svezia,
Iugoslavia e Danimarca, avevano schierato le loro migliori
nazionali. Quarta era stata l'Inghilterra, padrona di casa, in
effetti l'unica che avesse rispettato alla lettera il regolamento,
presentando una formazione rigorosamente amatoriale, priva
dei campioni che davano lustro alla League nazionale. Per il
calcio inglese era un momento molto felice e anche questo
aveva avuto il suo peso nel decidere il rientro nel consesso
internazionale. Gli inglesi, insomma, si ritenevano finalmente in
grado di rendere concreta la loro superiorità calcistica sul resto
del mondo che, sino a quel momento, si erano limitati a
teorizzare senza alcuna reale prova a sostegno. L'occasione
tanto attesa furono i primi Campionati del mondo del
dopoguerra, ospitati nel 1950 in Brasile, i primi che l'Inghilterra
decise di onorare con la sua partecipazione.
Guidati da un singolare commissario tecnico, Walter
Winterbotton, che non aveva contatti diretti con i giocatori, gli
inglesi erano reduci da una serie di clamorosi successi. Per tre
volte consecutive si erano imposti nell'annuale Home
championship disputato con Scozia, Galles e Irlanda e anche
nelle partite amichevoli giocate sul Continente avevano ottenuto
ottimi risultati: 10-0 al Portogallo a Lisbona; 4-0 all'Italia
campione del mondo in carica a Torino, il 16 maggio 1948, in
una partita rimasta celebre ‒ oltre che per la clamorosa disfatta
casalinga della squadra azzurra ancora affidata a Vittorio Pozzo
‒ per il gol che l'interno destro Stanley Mortensen aveva
segnato con un tiro scoccato dalla linea di fondo (un'esecuzione
forse più fortuita che abile, ma che è entrata nella terminologia
del calcio: da allora si parla infatti di 'gol alla Mortensen'); e
ancora 5-2 al Belgio a Bruxelles e 3-1 alla Francia a Parigi.
Forti di campioni quali Matthews, Finney, Wright, Ramsey, gli
inglesi si imponevano per una netta superiorità fisica e tattica.
Anche per questo la delusione subita nel loro primo Mondiale
fu ancora più cocente. Dopo un vittorioso ma stentato esordio
contro il modesto Cile, infatti, l'Inghilterra fu battuta ed
eliminata contro ogni previsione dagli Stati Uniti, una
formazione di dilettanti senza pretese.

Il Sud America e il declino dell'Italia


Il Campionato del Mondo del 1950 rappresentò in effetti una
sorta di verifica dei valori calcistici dopo la lunga parentesi
bellica. In quegli anni, in cui quasi tutta l'Europa era stata
costretta all'inattività sportiva e a dirottare la propria gioventù al
fronte, in Sud America l'attività calcistica era proseguita
regolarmente, con le consuete accese sfide fra i tre paesi
dominanti. In particolare il Brasile, dopo il tramonto di
Leonidas, Tim, Domingos da Guia, che avevano conquistato il
pubblico di Parigi nel 1938, aveva visto fiorire una generazione
di nuovi talenti, soprattutto in attacco. Attraverso una severa
selezione interna, si era infine formata una fortissima prima
linea, che vedeva schierati, da destra a sinistra, Friaca, Zizinho,
Ademir, Jair, Chico. Il giovane Ademir, uno fra i più grandi
giocatori di tutti i tempi all'interno di un panorama calcistico,
quello brasiliano, mediamente sempre di ottimo livello, era un
centravanti difficilissimo da marcare, perché partiva da una
posizione arretrata rispetto alle due mezzali, ma si segnalava per
il grande senso del gol, che ne faceva un formidabile
cannoniere. Di minor qualità era il reparto difensivo, ma ciò non
costituiva motivo di preoccupazione per una scuola calcistica da
sempre portata a trascurare la fase di copertura.
Questo Brasile già fortissimo nel Campionato Sudamericano del
1945 aveva realizzato 19 gol in 6 partite, ma era stato costretto
a cedere di fronte ai tradizionali rivali argentini, forti di un
fuoriclasse come Rinaldo Martino, poi ingaggiato in Italia dalla
Juventus, e di un grande centravanti quale Tucho Mendez, che
in finale segnò tre reti proprio al Brasile. L'anno seguente,
l'Argentina replicò il successo, ancora in finale contro il Brasile
e ancora con una doppietta di Mendez. Pedernera, Labruna,
Moreno formavano un trio insuperabile per qualità ed efficacia.
Al momento di avviare la preparazione ai Mondiali del 1950,
che dovevano svolgersi in Brasile, l'Argentina fu però messa
fuori causa da una delle più gravi crisi della sua storia calcistica.
Lo sciopero dei professionisti, dopo un durissimo braccio di
ferro con la federazione, ebbe come conseguenza l'emigrazione
in Colombia di tutti i campioni più rappresentativi. Fra questi,
anche un giovanissimo Alfredo Di Stefano, che già agli esordi
nel River Plate si era dimostrato un fuoriclasse e che nel calcio
di ogni tempo contende a Pelé e a Maradona la palma di miglior
giocatore.
L'Uruguay era rimasto, fino ad allora, all'ombra del duello
Brasile-Argentina, fedele alla sua tradizione di squadra
eminentemente tattica, la più 'europea' fra le sudamericane.
Chiuso il suo periodo di maggior splendore con gli ori olimpici
del 1924 e del 1928 e il primo titolo mondiale del 1930, non
aveva partecipato ai successivi Mondiali in Italia e in Francia e
anche nel Campionato Sudamericano non era stato presente in
modo regolare. Negli anni Quaranta il suo unico successo fu
conseguito nel Campionato continentale del 1942, giocato in
casa, a Montevideo. Anche dall'Uruguay, del resto, si verificò,
sia pure in forma meno massiccia rispetto all'Argentina, la 'fuga'
dei campioni verso la ricchissima lega colombiana Dimayor,
considerata fuorilegge, perché non affiliata alla FIFA. In tal
modo, il Brasile aveva maturato la convinzione che i Mondiali
di casa si sarebbero risolti in una formalità: i rivali vicini si
trovavano in grandi difficoltà e l'Europa non sembrava
preoccupare.
I campioni del mondo in carica erano gli italiani, vincitori delle
ultime due edizioni. L'armistizio e la fase finale della guerra al
fianco degli Alleati avevano evitato all'Italia le sanzioni
riservate ai paesi vinti e che alla Germania erano costate
l'esclusione dalle Olimpiadi del 1948. La nazionale azzurra
aveva ripreso l'attività l'11 novembre 1945, a Zurigo, contro la
Svizzera (4-4) e aveva vinto le tre successive partite interne,
con l'Austria, ancora la Svizzera e con l'Ungheria; ma non era
più la grande squadra di prima della guerra. Le sucessive
sconfitte in Austria (1-5, con il debutto del giovane Boniperti) e
in casa contro l'Inghilterra (0-4 a Torino nel 1948) avevano già
indebolito la posizione del commissario tecnico Vittorio Pozzo,
che fu poi costretto, come abbiamo visto, a dimettersi dopo la
sfortunata esperienza olimpica. Il calcio italiano attraversava
una delicata crisi di ordine tattico, stretto fra le nostalgie del
metodo, cui doveva le sue vittorie passate, e l'ormai universale
affermazione del sistema, al quale pochi suoi giocatori, a
eccezione di quelli del Torino, erano addestrati. In questa
situazione già critica si verificò, l'anno prima del Mondiale
1950, il disastro aereo di Superga, in cui persero la vita tutti i
giocatori del Torino, di ritorno da una partita amichevole
giocata a Lisbona. La tragedia fece piombare il calcio italiano (e
l'intero paese, che del Torino aveva fatto uno dei simboli della
rinascita) nella costernazione. Il Torino, una squadra senza
punti deboli, era stato anche il principale, talvolta quasi
esclusivo, fornitore della nazionale, arrivando a comporne i
dieci undicesimi. Non fu facile ricostruire una formazione
affidabile per l'ormai prossima scadenza mondiale e, inoltre, il
ricordo della recente sciagura indusse la squadra a decidere di
raggiungere il Brasile per nave, con grave pregiudizio della
preparazione. Sconfitta dalla Svezia nel debutto a San Paolo,
l'Italia cedette in fretta il suo titolo e per il calcio azzurro si aprì,
sino alla vittoria nei Campionati europei del 1968, un lungo
periodo privo di vittorie, che lo vide passare dal ruolo di
protagonista del panorama internazionale a quello di modesta
comparsa.

L'epopea sfortunata della Grande Ungheria


Il Mondiale del 1950 fu dominato dal Brasile, che arrivò in
finale battendo con punteggi nettissimi tutti gli avversari, ma
non riuscì poi a conquistare il titolo. Ancora una volta tradito
dalla presunzione e dalla ritrosia per ogni forma di
organizzazione tattica, fu beffato dall'Uruguay, che aveva
almeno due fuoriclasse, Schiaffino e Ghiggia, ma soprattutto
una compattezza difensiva sconosciuta ai suoi più forti rivali.
L'Uruguay si aggiudicava così due titoli su due partecipazioni ai
Mondiali. L'Europa ‒ come previsto ‒ recitò un ruolo di
secondo piano. Soltanto la Svezia, vincitrice dell'oro olimpico,
avrebbe potuto contrastare degnamente il passo ai due colossi
sudamericani, ma gli svedesi vollero restare rigorosamente
fedeli a un loro regolamento interno, che non prevedeva
l'impiego nella rappresentativa nazionale dei giocatori che
avessero scelto la carriera di professionisti all'estero.
Rinunciarono così a Gunnar Nordahl, in quel momento il più
potente ed efficace centravanti del mondo, nonché alla coppia di
mezzali Gren-Liedholm, i tre campioni che, ingaggiati dal
Milan, formarono il cosiddetto Gre-No-Li e fecero la fortuna
del club italiano. Anche con una formazione di ripiego, la
Svezia fu comunque terza (e prima delle europee). Otto anni più
tardi, rimossa quella regola autolesionistica, e nonostante i suoi
campioni fossero ormai alla fine della carriera, si classificò
addirittura seconda, dietro l'imbattibile Brasile del giovanissimo
Pelé. Questo può far capire quale grande occasione la nazionale
svedese avesse sprecato nel 1950, in omaggio a uno spirito
sportivo che veniva ormai oltraggiato in forme ben più gravi.
Il dopoguerra aveva avviato la sempre più massiccia
trasformazione del calcio da mero evento agonistico a
fenomeno ben più coinvolgente, legato alle leggi dello
spettacolo e del business più che a quelle tradizionali dello
sport. Soprattutto i club spagnoli e italiani (Real Madrid e
Barcellona, Juventus, Milan, Inter) si disputavano a prezzi
sempre più alti i campioni stranieri e potevano così contare su
compagini d'altissimo valore, mentre le nazionali erano assai
poco competitive oltre che fortemente condizionate dalle
esigenze del Campionato. Fu quindi naturale che si pensasse di
affiancare alle competizioni riservate alle squadre nazionali
anche tornei e manifestazioni internazionali tra club di nazioni
diverse, un processo cui avrebbe dato un impulso decisivo
l'ingresso del mezzo televisivo nel mondo del calcio. Prima che
questo si verificasse, però, il panorama europeo venne
vivacizzato, sul piano squisitamente tecnico, dalla comparsa e
dalle sfortunate vicende di una delle squadre più belle e più forti
di ogni tempo, la Grande Ungheria.
Dopo i fasti dell'anteguerra, culminati nella finale dei Mondiali
1938, l'Ungheria aveva conosciuto un brusco declino, pur
restando in attività sino al novembre del 1943, quando il
conflitto si era ormai propagato a tutta l'Europa. I punti più
critici furono la sconfitta per 0-7 subita a opera della Germania
nel 1941 a Colonia e, due anni più tardi, quella per 2-7, inflittale
in casa dalla Svezia di Nordahl e Gren, primo successo svedese
in terra ungherese. Liberata dall'occupazione nazista nel
febbraio 1945, per passare peraltro sotto il ferreo controllo
sovietico, l'Ungheria già nell'agosto dello stesso anno affrontava
l'Austria in un doppio incontro, che esaltava una nuova
generazione di forti attaccanti, fra i quali Nyers e Mike che
presto furono attratti dal calcio italiano. Già all'epoca muoveva i
suoi primi passi nella nazionale ungherese un giovane talento
dal potente sinistro, Ferenc Puskas. La svolta si ebbe nel 1949,
quando salì alla carica di commissario tecnico Gustav Sebes,
uomo dalle idee tattiche avanzatissime, anticipatore di un gioco
'universale', che precorse di un ventennio quello poi imposto al
mondo dall'Olanda negli anni Settanta. Nacque così, pezzo
dopo pezzo, l'aranycsapat, la "squadra d'oro", raro esempio di
una formazione che riusciva a fondere la classe dei suoi solisti,
quasi tutti campioni di altissimo livello, in un'armonica
manovra corale. Tatticamente, l'Ungheria riprese,
perfezionandola, una figura del calcio brasiliano, il centravanti
arretrato, che trovò in Hidegkuti un ottimo interprete: un
numero 9 che teneva una posizione da suggeritore, mentre le
punte più avanzate erano le due mezzali, Kocsis e Puskas,
supportati da una grande ala mancina, Czibor. Il regista era il
finissimo mediano Bozsik. Questa disposizione, inedita per
l'Europa, mise in crisi tutti gli avversari, che vedevano il
proprio difensore centrale 'risucchiato' dagli arretramenti di
Hidegkuti, mentre il sinistro di Puskas e lo stacco aereo di
Kocsis provocavano enormi danni agli avversari.
La squadra d'oro rimase imbattuta dal 14 maggio 1950 al 4
luglio 1954, per quasi un quinquennio, nel corso del quale
disputò 31 partite internazionali, vincendone 28 e
pareggiandone 3, con 142 gol segnati (alla media di oltre 4,5 a
gara) e appena 32 subiti. In questo periodo ‒ nel quale va
inserito anche l'oro olimpico di Helsinki del 1952 ‒ incontrò,
quasi sempre in trasferta, tutte le più forti nazionali del mondo e
fece crollare il famoso home record, cioè il primato interno di
imbattibilità dell'Inghilterra, che mai nella sua storia, cioè
dall'inizio del calcio moderno, era stata sconfitta in patria da un
avversario non britannico. Il 25 novembre 1953, nello stadio
imperiale di Wembley, davanti a 100.000 inglesi ammutoliti,
l'Ungheria si impose per 6-3 con tripletta di Hidegkuti
(arretrato, ma non troppo), doppietta di Puskas e gol di Bozsik, i
suoi tre fuoriclasse. Sei mesi dopo, nella rivincita giocata a
Budapest, l'Ungheria vinse ancora, con il punteggio di 7-1.
Ai Mondiali del 1954 in Svizzera, dove, secondo ogni logica ci
si attendeva la sua definitiva consacrazione, l'Ungheria in due
memorabili partite si affermò nettamente su Brasile e Uruguay,
ancora più forti di quattro anni prima. In finale incontrò la
Germania Ovest, che aveva ripreso l'attività internazionale alla
fine del 1950, dopo che nel 1948 la FIFA aveva rimosso il
divieto ai propri affiliati di intrattenere rapporti calcistici con gli
sconfitti della guerra. L'Ungheria, avendo sconfitto con facilità i
tedeschi nelle fasi preliminari, era convinta di poter vincere
altrettanto facilmente anche in questa occasione. Infatti, dopo
otto minuti conduceva già per 2-0. Fu colta di sorpresa, invece,
dalla strepitosa rimonta degli avversari. In seguito si avanzò il
sospetto che i tedeschi avessero fatto uso di farmaci. La
Germania Ovest fu comunque campione del mondo, mentre la
più grande squadra di tutti i tempi non ottenne il titolo più
importante, né ebbe l'occasione di rifarsi. L'insurrezione del
1956 e il conseguente ingresso a Budapest dei carri armati
sovietici smembrarono quasi del tutto la nazionale ungherese, i
cui campioni più significativi rimasero all'estero o vi si
rifugiarono, proseguendo l'attività sotto altre bandiere. Mai più,
almeno sino a oggi, l'Ungheria ha potuto ritrovare un momento
altrettanto fulgido, anche se nel suo carnet figurano i due ori
olimpici consecutivi del 1964 e del 1968, frutto peraltro delle
condizioni di vantaggio in cui si venivano a trovare le nazionali
dell'Est europeo, cui il dilettantismo di Stato consentiva di
schierare ai Giochi la formazione migliore.

La televisione, il Real Madrid e l'Inter


Il Campionato del Mondo del 1954, considerato tuttora quello
di maggior qualità in assoluto, per valore tecnico e spettacolare,
non si ricorda soltanto per l'inaspettata affermazione dei
tedeschi, tornati rapidamente a vincere dopo la sconfitta bellica.
Deve essere detto, fra l'altro, che, se è vero che quella Germania
Ovest probabilmente non avrebbe superato indenne l'esame
antidoping, è altrettanto vero che presentava eccellenti
campioni, primi fra tutti il capitano Fritz Walter, mezzala
completa, e il cannoniere Helmut Rahn, una punta
estremamente efficace in zona gol. La vera novità di questo
Campionato fu, però, il debutto ufficiale della televisione in una
grande manifestazione calcistica. Sino ad allora soltanto gli
addetti ai lavori potevano spingere la loro competenza oltre i
confini nazionali, mentre gli sportivi, che pure seguivano le
vicende calcistiche in misura sempre più massiccia,
conoscevano bene i campioni di casa, ma degli altri avevano
pochi e vaghi riscontri. Ammirare dal vivo fuoriclasse quali
Puskas, Schiaffino, Didí, Julinho, Hidegkuti, Beara, Ocwirk,
Rahn contribuì ad aprire nuove prospettive.
In Italia, per es., dove si giocava un calcio tatticamente molto
bloccato e dove l'Inter aveva vinto due titoli nazionali
consecutivi praticando il 'catenaccio' ‒ una disposizione tattica
di forte accentuazione difensiva, adottata di regola solo dalle
squadre più deboli ‒ il gioco spettacolare di Ungheria, Brasile,
Uruguay e le prodezze di tanti campioni liberi di esprimere il
loro talento determinarono una sorta di rigetto verso le
esasperazioni tattiche. Non a caso, salì alla ribalta (effimera, ma
ugualmente significativa, considerato l'assoluto primato delle
squadre settentrionali) la Fiorentina, che un allenatore amante
del calcio come Fulvio Bernardini aveva impostato nel pieno
rispetto dei canoni tecnici.
La televisione ebbe un ruolo assai importante anche nel lancio
di una manifestazione che, partita in sordina a metà degli anni
Cinquanta, acquisì col tempo un'importanza fondamentale: la
Coppa dei Campioni. Ancora una volta furono i francesi a
lanciare l'idea, osteggiata dalla federazione europea e da quella
mondiale, ma sostenuta fermamente dai club spagnoli, in
particolare dal potente Real Madrid, il cui presidente Santiago
Bernabéu andava allestendo una grande squadra, con l'ingaggio
dei più contesi campioni internazionali. L'idea di una
competizione che coinvolgesse ogni anno le più forti squadre
del continente, in particolare le detentrici del titolo nazionale,
era particolarmente allettante per quei dirigenti che non
trovavano più nel solo Campionato un ritorno economico
adeguato ai loro massicci investimenti. Anche nel periodo
anteguerra si era disputata una Coppa dell'Europa Centrale,
riservata alle formazioni dell'area danubiana e all'Italia, che con
il Bologna vi aveva raccolto due prestigiose affermazioni. Si
trattava però di un calcio non ancora uniformemente diffuso,
che limitava il torneo alle scuole realmente competitive. La
Coppa dei Campioni, invece, nasceva con una prospettiva molto
più ampia, anche se inizialmente limitata dalla diffidenza dei
britannici, sempre restii a misurarsi con il resto del continente.
A portare la Coppa dei Campioni al vertice del gradimento
popolare fu proprio il Real Madrid, il cui calcio scintillante,
libero da vincoli tattici, illuminato da grandissimi campioni,
diventò per tutti un riferimento obbligato. L'argentino Di
Stefano, il francese Kopa, lo spagnolo Gento, più avanti
l'ungherese Puskas (lo sfortunato capitano della Grande
Ungheria) divennero gli ambasciatori di questo calcio che ‒
miscelando diverse scuole all'interno della stessa squadra ‒
risultava anche più affascinante e coinvolgente di quello delle
rappresentative nazionali.
Sulla scia della Coppa dei Campioni, altre competizioni come la
Coppa delle Coppe, riservata alle squadre vincitrici della Coppa
nazionale, e la Coppa delle Fiere, poi divenuta Coppa UEFA,
contribuirono ad arricchire sempre più il panorama di confronti
internazionali. Il Real Madrid impose la sua supremazia nelle
prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni; la superiorità
tecnica era accompagnata da un 'peso politico' che gli valeva,
nei rari momenti difficili, la puntuale protezione degli arbitri.
Ne fecero esperienza anche due squadre italiane, la già citata
Fiorentina di Bernardini e il Milan, giunte sino alla finale, ma
poi incapaci di interrompere l'imbattibilità dei campioni del
Real. Con gli inglesi sempre arroccati nel loro isolamento, la
Coppa dei Campioni fu a lungo una vetrina del calcio latino,
che del resto si segnalava per attingere costantemente talenti
fuori dai propri confini. Quando declinarono, per puri motivi
anagrafici, i campioni del Real, il loro posto venne preso per un
biennio dai portoghesi del Benfica, che si avvalevano di
fuoriclasse nati nell'ex colonia del Mozambico, come Eusebio e
Coluña.
Fu poi il momento degli italiani, con le due squadre milanesi. Il
Milan fece da apripista, coniugando la creatività di Gianni
Rivera e la scaltrezza tattica di Viani e Rocco con il talento
brasiliano del goleador José Altafini e del regista Dino Sani.
L'Inter raccolse il testimone e impose a sua volta un dominio
mondiale, ratificato dai successi nella durissima Coppa
Intercontinentale, che opponeva la vincitrice della Coppa dei
Campioni europea alla squadra che si era imposta nella Coppa
Libertadores, l'omologa manifestazione sudamericana. La
Coppa Intercontinentale assegnava, in pratica, il titolo virtuale
di campione del mondo a livello di club e i neroazzurri se lo
aggiudicarono per due stagioni di seguito, nel 1964 e nel 1965.
Anche l'Inter, come il Real, segnò un'epoca, ma per ragioni
tatticamente opposte. Il Real giocava un calcio libero, affidato
all'estro dei suoi solisti, dove il giocatore più autorevole in
campo, Alfredo Di Stefano, era assai più importante
dell'allenatore, che infatti veniva sostituito ogni anno malgrado i
puntuali successi. Anche l'Inter annoverava grandi campioni,
dal regista spagnolo Suarez, a Sandro Mazzola, figlio di
Valentino, il capitano del Grande Torino, punta di rapidità
fulminea. Sotto gli ordini di Helenio Herrera, il tecnico che tutto
il mondo del calcio conosceva come 'il mago', l'Inter adottava
però ferrei schemi tattici, imperniati su un reparto difensivo
quasi invulnerabile e su un inarrestabile contropiede: gli
ingredienti fondamentali di quello che fu poi etichettato come
'calcio all'italiana', con intenti denigratori. In realtà, applicato da
una grande squadra e dagli interpreti giusti, anche il calcio
all'italiana trovava una sua dignità tecnica. Era senza dubbio più
efficace che spettacolare. Ma sul concetto di spettacolo nel
calcio le opinioni sono e resteranno difformi, mentre i risultati
sono incontestabili.
I successi italiani nella vetrina europea e mondiale dei club
formavano un netto e singolare contrasto col periodo oscuro
della nazionale azzurra, che toccava il punto più basso della sua
storia mancando la qualificazione ai Mondiali del 1958, per poi
essere eliminata, sollecitamente e tempestosamente, da quelli
del 1962 in Cile. Con i ruoli chiave delle sue squadre di club
più forti occupati dagli stranieri, la scuola italiana rischiava il
soffocamento. Né si rivelava un buon rimedio il tentativo di
reclutare sotto la bandiera azzurra, conferendo loro la
cittadinanza italiana, i migliori oriundi del nostro Campionato
(da Sivori ad Altafini). Un fenomeno simile, del resto, avveniva
anche in Spagna, che pure si segnalava per le 'naturalizzazioni
facili', da Di Stefano a Kubala. Era, questa, una dimostrazione
di quanto fossero indipendenti fra loro, se non addirittura
contraddittori, il calcio dei club e quello delle rappresentative
nazionali.

Il Brasile di Pelé e il 4-2-4


Il discorso sulla Coppa dei Campioni e sulle squadre che ne
determinarono le fortune ci ha già introdotto negli anni
Sessanta. È però necessario un passo indietro, perché ‒ sul
fronte internazionale ‒ la fine degli anni Cinquanta fu segnata
da eventi memorabili: la prima vittoria del Brasile in un
Campionato del Mondo, l'affermazione di una linea tattica che,
con inevitabili ritocchi, costituisce tuttora la base del gioco
moderno e la comparsa di quello che è considerato
legittimamente il più grande calciatore di tutti i tempi, Edson
Arantes do Nascimento, noto universalmente come Pelé.
Il Brasile, dopo la cocente delusione (sfociata in autentica
tragedia nazionale) seguita al mancato trionfo nel Mondiale
ospitato in casa nel 1950, si era autocondannato a due anni di
inattività per riprendersi da quell'autentico shock. L'ampio
serbatoio di talenti di quell'immenso paese aveva comunque
fatto sì che ai Campionati del Mondo del 1954, in Svizzera, il
Brasile ripresentasse una nazionale altamente competitiva. Il
memorabile incontro, nei quarti di finale, con la Grande
Ungheria si era chiuso sul 4-2 a favore di questa ed era sfociato
in una gigantesca rissa, che aveva richiesto l'intervento della
polizia sul campo. Puskas, che a causa di un infortunio era
seduto in panchina, al rientro negli spogliatoi aveva addirittura
spaccato una bottiglia sulla testa del mediano brasiliano
Pinheiro. In Brasile la sconfitta era stata giustificata con la
solita tesi della 'truffa' europea, ma agli uomini di calcio più
avveduti essa era apparsa l'ultima dimostrazione che il puro
talento individuale non bastava per raggiungere i traguardi più
alti. Occorreva una razionale organizzazione di gioco, nel cui
ambito i solisti potessero esaltare la loro creatività, senza cadere
però nell'anarchia tattica. In una parola, occorreva ispirarsi
proprio al tanto disprezzato calcio europeo e trarvi ispirazione
per un decisivo cambio di rotta.
Non a caso, l'artefice della svolta fu un oriundo italiano,
Vincenzo Feola, che, chiamato alla guida tecnica del Brasile per
la preparazione ai Mondiali del 1958, selezionò quasi 200
giocatori facendoli passare al vaglio della junta medica, al fine
di scartare tutti coloro che ‒ a prescindere dal talento ‒ non
offrissero adeguate garanzie dal punto di vista atletico: un
concetto rivoluzionario per il calcio brasiliano, basato su una
straordinaria destrezza individuale. I 33 prescelti furono
sottoposti all'addestramento tattico: Feola fece applicare alla
squadra uno schieramento che prevedeva davanti al portiere
quattro difensori in linea, due mediani, uno di copertura e uno
di regia, e quattro attaccanti, dei quali due ali e due punte
centrali. Schema molto offensivo, in sintonia con la vocazione
brasiliana al calcio d'attacco, ma anche molto rigoroso nei
meccanismi di gioco. Non molto dissimile, per la verità, era la
disposizione della Grande Ungheria, a parte la figura del
centravanti arretrato. L'originalità del 4-2-4 brasiliano (come
venne battezzato per comodità di sintesi) consisteva però nella
sua capacità di adeguarsi alle mutevoli esigenze della partita. La
duttilità dell'ala sinistra, Zagallo, che nei momenti di pressione
avversaria retrocedeva sulla linea dei mediani, trasformando il
4-2-4 in 4-3-3, rendeva finalmente il Brasile competitivo anche
nella fase difensiva. Come sempre, i moduli vengono esaltati
dai loro interpreti e quel Brasile aveva grandissimi giocatori in
ogni ruolo. Grazie a loro, il 4-2-4 fu tanto imitato da propagarsi
rapidamente in tutto il mondo, anche se molte squadre dovettero
rendersi conto a proprie spese di come il modulo brasiliano,
applicato a giocatori diversi dai brasiliani, non risultasse
risolutivo quanto si era sperato.
Il Brasile, con una formazione quasi identica, vinse due
Mondiali consecutivi, nel 1958 in Svezia (interrompendo la
tradizione per cui sino ad allora le nazionali sudamericane ed
europee si erano imposte rispettivamente a casa loro) e nel 1962
in Cile, quando Zagallo giocò quasi sempre da mediano, per
dare maggiore solidità a una squadra di giocatori più anziani,
meno freschi dal punto di vista atletico. La leggenda di un
calcio tanto bello e narcisistico da risultare incapace di vincere
subì così una radicale smentita. Prima del debutto ai Mondiali
svedesi, Feola condusse i suoi giocatori in una tournée europea
per abituarli al clima tattico e agonistico. L'Italia approfittò di
questa vetrina per ingaggiare, nel Milan, il ventenne centravanti
José Altafini, soprannominato 'Mazzola' in onore del capitano
del Grande Torino, che sarebbe poi diventato uno dei
realizzatori più efficaci dell'intera storia del Campionato
italiano. A causa della gelosia dei compagni di squadra,
Altafini, che pure aveva debuttato ai Mondiali segnando due
gol, perse poi il posto di centravanti titolare, affidato a Vavà. In
quel Brasile, comunque, si mise in luce per la prima volta il non
ancora diciottenne Pelé, anch'egli entrato in squadra a torneo in
corso, dagli ottavi di finale in avanti, e autore di tali prodezze
(tra cui sei gol nelle ultime tre partite) da lasciare stupefatta la
critica mondiale. Lo stesso re Gustavo di Svezia, dopo la finale
vinta dai brasiliani proprio contro la nazionale padrona di casa,
scese sul campo per complimentarsi personalmente con il
giovanissimo giocatore: era nato un grandissimo campione, che
avrebbe dominato il panorama calcistico internazionale per più
di dodici anni.

Luci e ombre del calcio atletico


Il Mondiale del 1958 aveva visto il debutto nel torneo della
nazionale sovietica, che sino a quel momento si era ritagliata
uno spazio privilegiato nel calcio olimpico, dove le ambigue
regole di iscrizione le consentivano di sfruttare il suo
dilettantismo di Stato. Ai Giochi, infatti, l'URSS schierava la
miglior formazione possibile, a differenza dei paesi dell'Europa
occidentale costretti a rinunciare ai professionisti. Era anche
questo il segno di un calcio che vedeva cambiare
impetuosamente i propri scenari. Gerarchie tecniche che
sembravano consolidate subivano bruschi ridimensionamenti: le
sole nazioni detentrici ciascuna di due titoli mondiali, Italia e
Uruguay, erano state escluse entrambe dalla fase finale
eliminate da squadre prive di una grande tradizione calcistica,
rispettivamente l'Irlanda del Nord e il Paraguay. Mentre la
formazione dell'Uruguay era priva dei talenti migliori,
ingaggiati dai ricchi club europei, l'Italia scontava il fenomeno
opposto: un Campionato inflazionato da giocatori stranieri e
una politica che anteponeva gli interessi delle società
(specialmente dei potenti club delle grandi città del Nord) a
quelli della nazionale, nella quale giocavano moltissimi oriundi,
ma che era priva di un vero spirito di bandiera. La guida tecnica
della squadra azzurra, via via affidata a effimere e inaffidabili
commissioni sollevate dall'incarico al primo risultato
sfavorevole, non era in grado di garantire quel profondo lavoro
di ricostruzione che sarebbe stato necessario per ritrovare gli
antichi splendori.
A prescindere da questi casi particolari, tuttavia, il calcio
conosceva un poderoso sviluppo. Il successo delle competizioni
di club diede all'Europa il decisivo impulso ‒ sempre su
iniziativa francese ‒ per dotarsi di un Campionato continentale,
che aveva avuto un precedente, prima della guerra, nella Svelha
Cup, o Coppa Internazionale. Il Campionato d'Europa per
nazioni vide la luce nel 1960 e ad aggiudicarsi la vittoria nella
prima edizione, la cui fase finale a quattro squadre venne
ospitata dalla Francia, fu proprio l'Unione Sovietica, favorita
dal forfait della Spagna franchista, che rifiutò di incontrarla,
non intrattenendo rapporti diplomatici con la superpotenza
comunista. Nelle file dell'URSS, che pure privilegiava il
collettivo rispetto alle individualità, si impose alla ribalta un
portiere, Lev Jascin, che, insieme a Zamora e a Dino Zoff, va
considerato fra i più forti di ogni tempo e paese.
Pensato sulla falsariga del Campionato del Mondo, anche quello
d'Europa aveva una cadenza quadriennale. Snobbato
inizialmente dagli inglesi (come si era già verificato per tutte le
manifestazioni di cui non erano stati i promotori), ebbe un avvio
stentato, ma decollò sin dalla seconda edizione che, come
vedremo, fu ospitata dalla Spagna, forse per rimediare alla sua
assenza dall'edizione precedente.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati, in effetti, dalla presenza
contemporanea di correnti tattiche diverse. Due titoli mondiali
consecutivi avevano premiato e portato ai vertici il gioco
tecnico e creativo del Brasile, un gioco basato sul palleggio e
sull'abilità dei singoli, sia pure finalmente inquadrati in un
preciso disegno tattico. Con questo tipo di calcio conviveva con
successo anche quello più pragmatico ed essenziale dell'Inter
(dominatrice della scena europea e mondiale a livello di club),
che privilegiava la ferrea difesa e il rapido micidiale
contropiede come principale espressione offensiva. Un calcio
verticale, che aveva lo scopo di raggiungere la porta avversaria
nel minor tempo possibile e con il minor numero di passaggi,
tralasciando il fraseggio orizzontale del quale erano maestri i
brasiliani e i loro seguaci.
L'avvento dell'URSS, estremamente competitiva negli Europei
(prima e seconda alle due edizioni iniziali) e nel cui solco si
ponevano quasi tutte le formazioni dell'Est europeo, nonché il
ritorno degli inglesi e dei tedeschi, naturalmente portati a un
gioco ad alto ritmo, andavano però determinando una nuova
tendenza, che avrebbe raggiunto il suo culmine nei Mondiali del
1966, da ricordare per molti motivi. Il calcio atletico,
caratterizzato dal vigore fisico, dalla velocità nella corsa e dalla
potenza nei contrasti, più che dall'abilità tecnica, si affermò
prepotentemente sulla scena internazionale, procurando anche
danni notevoli. Infatti, un giudizio superficiale poteva generare
l'equivoco che il talento di un calciatore si sarebbe in futuro
misurato soltanto in muscoli, chili e centimetri. Inoltre, fatto
ancora più pericoloso, essendo molto labile il confine tra calcio
a forte impatto fisico e calcio brutale e violento, diveniva forte
la tentazione, per le squadre e i giocatori di minore abilità
tecnica, di colmare con la sopraffazione e gli interventi
intimidatori, il divario con i più dotati. Da questa antitesi fra
atletismo e tecnica sarebbe poi scaturita l'efficacissima sintesi
della scuola olandese, capace di abbinare il vigore e la destrezza
in un tipo di gioco che, non a caso, sarebbe stato definito 'calcio
totale'.
I maestri finalmente in cattedra
Il Brasile, sia pure senza Pelé, infortunato ma sostituito
splendidamente dal giovane Amarildo, replicò anche in Cile,
nel 1962, il successo ottenuto ai Mondiali di Svezia del 1958,
senza doversi impegnare contro rivali particolarmente
agguerriti. L'onesta Cecoslovacchia era arrivata sino alla finale
grazie alle prodezze del suo portiere, che però nella partita
conclusiva non fu all'altezza delle precedenti prestazioni. La
Spagna, guidata da Herrera, era uscita precocemente di scena e
l'Italia, che partecipava nuovamente alla fase conclusiva di un
Mondiale dopo la mancata qualificazione di quattro anni prima,
aveva risentito di un ambiente ostile ed era stata eliminata
proprio dal Cile, paese organizzatore, anche con la 'complicità'
dell'arbitro inglese Aston, apertamente favorevole ai padroni di
casa. Un Campionato, quello cileno, decisamente non ispirato
all'esemplare sportività che aveva caratterizzato l'edizione
svedese. Al poco edificante repertorio di prevaricazioni,
favoritismi, irregolarità, si era accompagnato anche lo scarso
livello tecnico generale delle squadre partecipanti. Il terzo posto
finale della nazionale cilena fu il frutto di manovre che avevano
avuto lo scopo di garantire alla squadra di casa ‒ per ragioni di
incassi e di quieto vivere ‒ il piazzamento migliore possibile.
Due anni dopo, la Spagna sfruttava a sua volta in pieno il fattore
campo, aggiudicandosi la seconda edizione del Campionato
d'Europa nella finale contro l'URSS, partita più ricca di fair
play che di spettacolo.
In questo clima, l'assegnazione all'Inghilterra della fase finale
del Mondiale del 1966 si configurava come il tentativo di
riportare il calcio nell'ambito della più assoluta regolarità.
Contrariamente alle aspettative, però, i Mondiali d'Inghilterra
furono anch'essi dominati dalla faziosità. Le nazionali
sudamericane, che avevano affrontato in forze l'avventura in
Europa anche per l'attrazione esercitata dalla possibilità di
giocare nella culla del football, furono presto eliminate: il
Brasile dai picchiatori bulgari che provocarono scientemente
l'infortunio di Pelé, l'Argentina e l'Uruguay da arbitraggi
sfavorevoli al limite della persecuzione. Gli argentini, per la
loro strenua opposizione ai padroni di casa, furono bollati dalla
stampa inglese con l'epiteto di animals. Nella finale contro i
rivali tedeschi, l'Inghilterra si laureò campione del mondo,
come tutta la nazione pretendeva, grazie a un gol che ai più
parve dubbio e tuttavia fu compiacentemente convalidato
dall'arbitro e anche dal guardalinee.
D'altra parte, il calcio inglese, per arrivare nelle migliori
condizioni a questo importante appuntamento, aveva proceduto,
come il Brasile nel 1958, a una razionale riorganizzazione
tattica. Il commissario tecnico Walter Winterbottom, fedele al
tradizionale ma ormai obsoleto 'WM' puro (il sistema di gioco
che gli inglesi avevano inventato negli anni Venti ed esportato
in tutto il mondo) e fino a questo momento sopravvissuto a tutte
le disfatte, fu sostituito da Alf Ramsey. Ex terzino di valore,
Ramsey aveva giocato nei Mondiali del 1950, quando il calcio
inglese aveva conosciuto la crisi più grave della sua storia con
l'eliminazione a opera degli Stati Uniti. Ramsey impose alla sua
squadra l'abbandono, che per certi versi risultò addirittura
traumatico, degli schemi abituali. Davanti a una linea di quattro
difensori disposti alla brasiliana, assemblò un centrocampo
foltissimo nel quale convivevano Nobby Stiles (giocatore non
elegante ma estremamente efficace, incaricato regolarmente di
neutralizzare il più pericoloso fra gli avversari con un controllo
individuale asfissiante), Bobby Charlton (calciatore ricco di
talento, centravanti di numero ma in realtà mobilissimo, come
Di Stefano), e due esterni molto dinamici, Ball e Peters. In
avanti restavano così soltanto due attaccanti fissi, le 'torri' Hunt
e Hurst. Fu in particolare l'abolizione delle ali, che avevano
sempre costituito il vanto e il 'marchio di fabbrica' del calcio
inglese, a scatenare violente reazioni da parte di critica e
opinione pubblica; solamente i risultati positivi consentirono a
Ramsey di restare al suo posto, al momento in cui la vittoria al
Campionato del Mondo gli portò, insieme al titolo di baronetto,
anche il consenso popolare.
In sostanza, Ramsey era partito dal 4-2-4 brasiliano, corretto
all'europea sino ad arrivare a un 4-4-2 o 4-3-1-2, tenendo conto
della versatilità di Bobby Charlton (il solo fuoriclasse della
compagnia, insieme con il difensore centrale Bobby Moore).
Ma poiché i due terzini avevano spiccato il senso della
propulsione, in fase di attacco l'Inghilterra poteva premere
sull'avversario a pieno organico, mentre era pronta a
raccogliersi e a presidiare efficacemente la propria area in fase
difensiva. Questa abilità nell'adattarsi alle mutevoli esigenze
della partita costituì la base della sua ritrovata competitività. Un
decisivo contributo al trionfo inglese venne, però, come
abbiamo visto, dalla generalizzata propensione del calcio
mondiale di quegli anni a favorire i padroni di casa.
Dopo il titolo europeo conquistato dalla Spagna a Madrid nel
1964 e l'alloro mondiale degli inglesi a Wembley nel 1966, di
tale propensione godette anche l'Italia che, nel 1968, si
aggiudicò la terza edizione del Campionato d'Europa, a Roma,
tornando ad affermarsi in campo internazionale: erano trascorsi
esattamente trent'anni dall'ultima vittoria ottenuta al Mondiale
del 1938 giocato a Parigi. Tuttavia, neppure in occasione di
questo successo tanto atteso mancarono le ombre. La prima
finale con la Iugoslavia si chiuse in pareggio grazie a
interpretazioni arbitrali assai benevole nei confronti degli
azzurri. La ripetizione della partita consentì all'Italia di sfruttare
il suo organico più ampio e di imporsi, questa volta con pieno
merito, su avversari meno provvisti di valide alternative.
L'Italia tornò così ai vertici, a solo due anni di distanza
dall'episodio più mortificante della sua storia calcistica. Ai
Mondiali d'Inghilterra del 1966, infatti, il calcio italiano si era
presentato con giustificate ambizioni. Dopo la negativa
esperienza cilena, la federazione era corsa ai ripari, affidando la
squadra azzurra a una gestione stabile e autonoma come non si
verificava dai tempi di Vittorio Pozzo. Un giovane tecnico
emergente, Edmondo Fabbri, che godeva del pieno appoggio
del presidente federale Giuseppe Pasquale, aveva reimpostato la
nazionale sottraendola all'influenza delle società; aveva
costituito, infatti, un nucleo fisso di giocatori (il club Italia)
mettendo a punto per loro un tipo di gioco in controtendenza
rispetto al Campionato. Molti giovani di valore, che in parte si
erano rivelati nella nazionale olimpica del 1960, ne costituivano
l'ossatura: Rivera, Mazzola, Bulgarelli, Salvadore, Rosato
sembravano poter assicurare un brillante futuro a una squadra
che si era via via disfatta degli oriundi, optando
coraggiosamente per l'autarchia. I primi risultati furono ottimi e
ottenuti con un gioco spumeggiante, che riavvicinò alla
nazionale il grande pubblico. Purtroppo, però, Fabbri era tanto
preparato e valido sul piano tecnico quanto ombroso e
sospettoso di carattere. Ai Mondiali inglesi, inaugurati da una
vittoria sul Cile che assunse anche il valore di una rivincita del
'sopruso' di quattro anni prima, si chiuse in se stesso e prese
decisioni discutibili (come quella di mandare in campo
Bulgarelli, non ancora ristabilito da un infortunio, quando non
erano previste le sostituzioni a partita in corso). L'Italia finì con
l'essere eliminata dalla Corea del Nord, una squadra fino a quel
momento assolutamente sconosciuta nel panorama del calcio
internazionale. Partiti con l'appoggio dell'entusiasmo popolare,
gli azzurri furono accolti al loro ritorno all'aeroporto di Genova,
dal lancio di pomodori, da parte di una folla inviperita.
Fabbri fu liquidato e poi squalificato per aver lanciato pubbliche
accuse di cospirazione ai componenti dello staff medico (i
giocatori italiani sarebbero stati 'dopati' alla rovescia, per farli
perdere). Il suo lavoro, però, aveva agito in profondità ed era
stato prezioso e decisivo. L'avvento alla presidenza federale di
un illuminato dirigente come Artemio Franchi e la promozione
a commissario tecnico del vice di Fabbri, Ferruccio Valcareggi,
coincisero con un biennio di grandi successi: l'Italia vinse gli
Europei del 1968 e due anni dopo si classificò seconda ai
Mondiali messicani. È da notare che, nel frattempo, si era
messo in luce un grande attaccante, Gigi Riva, figura che invece
era mancata alla nazionale di Fabbri. Con una punta di valore
mondiale, in grado di garantire un'eccezionale media di gol
realizzati, e con un portiere (prima Zoff e Albertosi che si
avvicendavano l'uno all'altro, poi, per molti anni, il solo Zoff,
divenuto atleta simbolo della nazionale) degno dei campioni del
passato, il gioco all'italiana ritrovava una sua indiscutibile
efficacia. La nazionale di Valcareggi, che pure non incantò mai
sul piano squisitamente estetico, si mantenne per sei anni ai
primissimi posti del ranking mondiale come mai era accaduto
nel dopoguerra, ispirandosi al modello di schema tattico, cinico
ma vincente dell'Inter da cui, del resto, provenivano molti dei
giocatori azzurri.

Il ritorno della tecnica e di Pelé


La resa dei conti avvenne nel 1970 sugli altipiani del Messico.
Per la prima volta nella storia un Campionato del Mondo si
giocava in altura ed era anche la prima volta che la sede veniva
scelta al di fuori dell'alternanza obbligata fra Europa e Sud
America. I problemi posti dall'altitudine, già sperimentati alle
Olimpiadi che si erano disputate due anni prima nella stessa
cornice, si rivelarono pesanti e non tutte le squadre seppero
affrontarli con la necessaria preparazione. Il dominante calcio
atletico, basato su una fisicità esasperata e su un gioco
aggressivo che richiedeva un dispendio notevole di energie,
trovò nelle condizioni ambientali un notevole ostacolo.
L'Europa mise in campo le risorse migliori: Germania Ovest e
Inghilterra, le protagoniste del precedente Mondiale che
presentarono formazioni forse ancora più forti e complete di
quattro anni prima, e l'Italia, campione continentale in carica.
Dall'altra parte il Brasile, determinato a riconquistare il titolo
dopo la sfortunata esperienza ai Mondiali disputati in
Inghilterra, attendeva gli avversari sul suo terreno preferito: il
gioco brasiliano, basato sul prolungato possesso della palla, su
raffinati fraseggi a basso ritmo, sulla tecnica individuale, meglio
si adattava a ridurre i disagi dell'alta quota, acuiti dalle
accelerazioni violente. Erano passati dodici anni da quando Pelé
aveva vinto il suo primo titolo mondiale e ora, a trent'anni, il
grande campione era l'anima di una squadra che il suo ex
compagno Zagallo, la preziosa ala tornante di Feola cui era stata
affidata la guida della Seleção, aveva messo insieme seguendo
un principio inedito e rischioso: riunire i migliori talenti del
calcio brasiliano indipendentemente dalla loro compatibilità
tecnica.
La prima linea del Brasile era così formata da cinque giocatori
che nelle rispettive formazioni di club portavano tutti la maglia
numero 10: cinque leader, che solo il carisma di Pelé riusciva a
far convivere senza contrasti. Questa singolare situazione si
risolse in un trionfo per le enormi potenzialità della squadra, ma
anche per alcune circostanze propizie. A parte l'altura, infatti,
avvenne che le tre grandi squadre europee furono costrette a
scontrarsi duramente fra di loro: Germania Ovest e Inghilterra
disputarono un quarto di finale all'ultimo sangue, concluso nei
tempi supplementari a favore dei tedeschi, che vendicarono con
un'incredibile rimonta lo 'scippo' di Wembley. Ancora provata,
la Germania Ovest incontrò in semifinale l'Italia e ne venne
fuori quel 4-3 a favore degli azzurri che è ormai entrato nella
leggenda e al cui ricordo è stata dedicata una targa nel
monumentale stadio Azteca di Città del Messico. Quell'Italia
cinica e sfrontata, riscattatasi nel corso del torneo da un avvio
deludente, nella finale tenne testa degnamente al grande Brasile
per oltre un'ora fermando il punteggio sull'1-1; poi crollò
fisicamente e fu travolta dai brasiliani. La tecnica aveva avuto il
suo grande riscatto e Pelé, unico calciatore al mondo ad aver
vinto tre titoli iridati, era tornato più saldo che mai sul suo
trono. L'Italia, che si attendeva degni festeggiamenti per il suo
exploit, fu accolta al rientro in patria da una folla inferocita, che
costrinse tecnico e giocatori a rifugiarsi in un hangar
dell'aeroporto di Fiumicino. Oggetto di questa ostilità era il
commissario tecnico Valcareggi, che aveva fatto giocare
soltanto negli ultimi sei minuti, ormai ininfluenti, della finale
Gianni Rivera, l'idolo dei tifosi italiani, l'autore del gol decisivo
nel 4-3 inflitto ai tedeschi.

La 'rivoluzione olandese'
Con il trionfo messicano del Brasile (che si aggiudicava
definitivamente la Coppa Rimet, destinata alla nazione che
avesse per prima conquistato tre titoli mondiali) si apriva la
stagione del calcio degli anni Settanta, straordinariamente ricca
di novità epocali. Già sul finire del decennio precedente non
erano sfuggiti, agli osservatori più attenti, i primi annunci di un
fenomeno che avrebbe costituito un vero spartiacque nella storia
del calcio: nel 1969, alla finale della Coppa dei Campioni, era
imprevedibilmente approdata una formazione olandese, l'Ajax
di Amsterdam, che il tecnico Rinus Michels aveva costruito
basandosi su canoni assolutamente innovativi rispetto alla
tradizione. Composta da un nucleo di giovani talenti allevati
con cura nel vivaio del club, quindi abituati da anni a giocare
con un grande senso del collettivo, l'Ajax esprimeva sul campo
un tipo di gioco che non si era mai visto. La sua autentica
rivoluzione consisteva nell'abolizione dei ruoli: i difensori si
sganciavano in attacco e gli attaccanti rientravano in copertura
nell'ambito di una manovra ad alto ritmo, che non concedeva
agli avversari né punti di riferimento fissi, né, di conseguenza,
la possibilità di adottare efficaci contromisure. Il suo uomo di
maggior talento, Johan Cruijff, si muoveva con una rapidità
impressionante, abbinata a una tecnica di primissimo ordine.
Quasi a significare la sua rottura con il passato, portava sulla
maglia il numero 14, non identificandosi in nessuno degli
undici ruoli tradizionali. In realtà era un attaccante completo,
con un grande senso del gol, ma che variava di continuo la sua
posizione sul campo e aggrediva la porta partendo da lontano,
con micidiali accelerazioni.
Alla finale europea ‒ dove era arrivato dopo una serie di vittorie
rocambolesche, di sensazionali rimonte, di punteggi nettissimi ‒
l'Ajax incontrò l'avversario peggiore che potesse capitargli: il
Milan. Impostato dall'allenatore Nereo Rocco sui canoni più
avanzati del calcio all'italiana, animato in campo da Gianni
Rivera, bloccato in difesa su rigorose marcature individuali e
con la regia del grande Cesare Maldini, il Milan riuscì, infatti, a
disattivare con estrema facilità i rivoluzionari meccanismi di
gioco olandesi. Cruijff fu subito escluso dalla manovra e la
difesa in linea dell'Ajax, che applicava in modo sistematico la
trappola del fuorigioco (avanzando simultaneamente a ranghi
compatti per lasciare le punte rivali in posizione irregolare),
venne neutralizzata dal tempismo di Rivera, in grado di cogliere
l'attimo giusto per lanciare a rete, in una zona del campo
praticamente deserta, il cannoniere Pierino Prati. La sconfitta
dell'Ajax fu quasi un massacro e lì parve chiudersi quel
tentativo di inventare un gioco nuovo e di imporlo come
modello vincente. Il trionfo milanista si rivelò, invece, il canto
del cigno del calcio tradizionale. L'Ajax era stato tradito dalla
sua inesperienza e, forse, da una certa dose di presunzione, ma a
partire dalla stagione seguente i club olandesi, prima con il
Feyenoord e poi, per tre anni di seguito, con lo stesso Ajax,
furono i dominatori delle competizioni europee riservate ai
club.
Più laboriosa si rivelò, invece, la trasposizione nella
rappresentativa nazionale di quel modulo. L'Olanda aveva
collezionato una lunga serie di sconfitte, conoscendo proprio
negli anni Cinquanta e Sessanta il suo periodo più oscuro. Un
anno dopo che l'Ajax, pur sconfitto in finale, aveva stupito e
incantato la critica internazionale, la nazionale olandese fu
esclusa dai Mondiali messicani, perché eliminata in fase di
qualificazione, come già era successo nelle tre edizioni
precedenti. I giocatori erano praticamente gli stessi che
giocavano nell'Ajax, ma va anche detto che non erano troppo
sensibili allo spirito di bandiera, a cominciare proprio da
Cruijff, che nel corso della sua lunga e straordinaria carriera
antepose sempre l'interesse personale all''amor di patria'. Il
modello olandese, comunque, ebbe un immediato impatto su un
calcio che già avvertiva forte l'esigenza di un cambiamento. Il
gioco 'totale' (con figure inedite come il pressing, cioè
l'aggressione sistematica e in forze dell'avversario in possesso
di palla, in ogni zona del campo; la già citata tattica del
fuorigioco, con spettacolari e sincrone avanzate dell'intera linea
difensiva; il tourbillon determinato dai continui scambi di
ruolo), se applicato da interpreti di valore, si rivelava altamente
spettacolare. Tornavano di moda gli alti punteggi, che il
pragmatico, seppur efficacissimo, calcio all'italiana aveva
invece contribuito a congelare, privilegiando la fase difensiva e
rarefacendo la fase d'attacco.
Il calcio olandese, cui si ispirarono tecnici d'avanguardia di ogni
paese, era in effetti diverso da tutti i precedenti tipi di gioco,
anche se, ovviamente, non poteva non riproporre alcune
soluzioni già sperimentate. La linea difensiva a quattro, per es.,
si rifaceva al 4-2-4 brasiliano, che però non prevedeva il ricorso
alla trappola del fuorigioco.
In precedenza, l'interscambio dei ruoli era già stata adottato con
successo dalla Grande Ungheria, ma su ritmi meno frenetici e
con una chiara prevalenza dell'abilità tecnica sul vigore atletico.
La vera originalità del modulo olandese fu di giocare un calcio
fisico con la proprietà tecnica tipica dei campioni sudamericani.
Come era già capitato all'Ungheria degli anni Cinquanta, anche
l'Olanda chiuse la sua grande stagione senza aver colto allori: fu
seconda in due Campionati del Mondo consecutivi, sempre alle
spalle della nazionale padrona di casa (la Germania Ovest nel
1974 e l'Argentina nel 1978), e quest'ultima circostanza
costituisce qualcosa di più di un'attenuante, se si tiene conto
della rilevanza che in quel periodo, come abbiamo visto,
assumeva il fattore campo.

Germania Ovest-Olanda, Beckenbauer-Cruijff


Occorre ricordare ancora una volta che, per quanto sapiente e
innovativo sia il modulo tattico adottato, la qualità dei singoli
giocatori resta un fattore determinante per le fortune di una
squadra: come furono gli assi del Brasile, nel 1958, a esaltare il
4-2-4 che, riproposto da altre formazioni di minor talento si
rivelò assai meno efficace, così il 'calcio totale' dell'Olanda non
avrebbe suscitato tanto ‒ e giustificato ‒ clamore, se a imporlo
con la maglia dell'Ajax o della nazionale, non fosse stato un
gruppo di autentici fuoriclasse. Infatti, tramontata quella
generazione di campioni, l'Olanda continuò ad adottare il
medesimo schema, ma non seppe ripetere lo stesso spettacolo
né gli stessi risultati. Peraltro, a metà degli anni Settanta si
trovarono a convivere e a disputarsi la ribalta due grandi scuole:
quella olandese e quella tedesca forte, a sua volta, di eccellenti
campioni guidati da Franz Beckenbauer, il 'Kaiser'.
Beckenbauer si era rivelato giovanissimo ai Mondiali del 1966
in Inghilterra come impetuoso mediano laterale (memorabile il
suo duello in finale con il leader della squadra inglese Bobby
Charlton) e aveva confermato il suo valore quattro anni dopo in
Messico, nel ruolo di libero difensivo da lui interpretato con
assoluta originalità: non più, o non solo, l'ultimo baluardo in
fase di copertura, ma il vero regista della difesa, il primo a
riproporre la manovra e ad aggiungersi ai centrocampisti
quando la squadra riprendeva l'iniziativa. Non a caso, da allora,
si definisce 'libero alla Beckenbauer' chi segue questa
impostazione tattica.
La Germania Ovest era rimasta costantemente ai vertici del
calcio internazionale con una serie impressionante di
piazzamenti (seconda ai Mondiali del 1966, terza a quelli del
1970), ottenuti restando fedele ai canoni tradizionali del calcio,
rinnovati però da un grande atletismo collettivo e da alcune
individualità di notevole spicco. Accanto a Beckenbauer si
segnalavano i centrocampisti Overath e Netzer, mentre in
attacco dominava il centravanti Gerd Müller, uno dei più grandi
realizzatori di tutti i tempi. Nel 1972 i tedeschi avevano
finalmente conseguito un importante successo internazionale,
dominando i campionati europei in Belgio e proponendosi, così,
come i favoriti per il Mondiale che, due anni dopo, avrebbero
ospitato per la prima volta. Con il Brasile impegnato nella
laboriosa gestione del dopo-Pelé e l'Inghilterra ripiombata in
una fase di stanca per mancanza di ricambi agli 'eroi' del 1966,
non si profilava una concorrenza spietata. L'Olanda, da parte
sua, restava un'incognita interessante anche se, del resto, una
competizione lunga e faticosa come il Campionato del Mondo
sembrava la meno adatta al calcio olandese, innovativo e
coinvolgente, ma anche molto dispendioso dal punto di vista
delle energie. Inoltre, la nazionale olandese era spesso
penalizzata, in occasione degli appuntamenti internazionali, da
furiose rivalità interne. Cruijff, infatti, era un leader in campo,
ma non un capo carismatico seguito e rispettato da tutti, come
lo era Beckenbauer per i tedeschi.
L'altra squadra ‒ oltre alla Germania Ovest ‒ favorita per il
Mondiale del 1974 appariva l'Italia. Il rendimento della
nazionale azzurra, dopo il Messico e le polemiche che ne erano
seguite, aveva subito una brusca flessione. Il Belgio l'aveva
eliminata dalla fase finale degli Europei del 1972, anche a causa
delle precarie condizioni del goleador Riva, reduce da un lungo
e grave infortunio. Il commissario tecnico Valcareggi era però
riuscito a superare indenne la crisi e, per quanto conservatore
per natura, si era tuttavia convinto a rinnovare gradualmente
l'ossatura della squadra. Al nucleo storico si erano aggiunti la
mezzala di regia Fabio Capello e il centravanti Giorgio
Chinaglia, un vero campione anche se non facile da gestire.
Chinaglia era il simbolo della Lazio, che si apprestava a
infrangere nel Campionato italiano ‒ sia pure per un anno
soltanto ‒ la consolidata egemonia delle squadre del Nord. In
coppia con Riva, costituiva potenzialmente un attacco
esplosivo. Nel novembre del 1973, sette mesi prima del
Mondiale in Germania Ovest, l'Italia colse un risultato storico:
la prima vittoria sul suolo inglese, che sino a quel momento era
stato un inviolabile tabù per gli azzurri. Nell'occasione, contro
un'Inghilterra protesa in un cieco assalto, sotto la pioggia
battente, emerse ancora una volta la straordinaria efficacia del
contropiede. La difesa italiana, arroccata in forze davanti al
portiere Zoff, si rivelò insuperabile e a pochi minuti dal termine
una poderosa incursione di Chinaglia fu trasformata in gol da
Capello. Al di là del valore degli avversari, quell'impresa ebbe
un'eco straordinaria e alimentò attorno alla Nazionale un clima
di grande fiducia. Proprio mentre l'Olanda stava imponendo al
mondo un calcio nuovo, la vecchia e collaudata ricetta italiana
("primo, non prenderle") si proponeva ancora come la più
affidabile. In effetti, al momento in cui l'Italia iniziava la sua
avventura mondiale, Zoff non subiva gol in nazionale da due
anni e mezzo.
Fu, quel Mondiale del 1974, uno scontro appassionante non
soltanto di squadre, ma anche di mentalità. La gerarchia
tradizionale subiva continue smentite. Sempre in Germania, alle
Olimpiadi del 1972, il torneo calcistico era stato vinto dalla
Polonia; un fatto sottovalutato dalla critica e da essa considerato
circoscritto al ristretto ambito del calcio olimpico, che
notoriamente favoriva i dilettanti di Stato dell'Est europeo. La
Polonia, invece, forte di autentici campioni e capace di offrire
un gioco solido e spettacolare insieme, lontanissimo da quello
assolutamente prevedibile della scuola orientale, anche nel
1974, con la stessa formazione eliminò l'Inghilterra dalle
qualificazioni mondiali e si ritagliò un ruolo da protagonista.
Nello stesso modo, la prolungata imbattibilità di Zoff e della
difesa italiana fu interrotta, dopo 46 minuti della partita
inaugurale, non a opera di un'avversaria già affermata, ma dalla
rappresentativa di Haiti, pittoresco esempio dello sconosciuto
calcio caraibico. L'Italia rimontò e vinse, ma quella faticosa
vittoria fu seguita dal pareggio con l'Argentina e dalla sconfitta
contro la forte Polonia (in una partita assai chiacchierata, perché
i polacchi denunciarono un tentativo di corruzione da parte
dell'Italia), che la costrinsero a un rapido ritorno a casa. Così si
concluse, con amarezza in fondo immeritata, la gestione tecnica
di Valcareggi, il primo commissario tecnico vittorioso dai tempi
di Pozzo.
Uscita di scena l'Italia, Germania Ovest, Olanda e Polonia
dominarono un Mondiale che vide il Brasile di Zagallo recitare
soltanto un dignitoso ruolo di comprimario. L'Olanda incantava
le folle e la televisione contribuiva a diffondere il fascino di
quel gioco nuovo e senza calcoli, che si traduceva in ricchi
bottini di gol, mentre il sistematico ricorso a pressing e tattica
del fuorigioco impediva regolarmente agli avversari di segnare.
La Germania Ovest giocava risparmiando energie (si consentì
anche una diplomatica sconfitta con la Repubblica Denocratica
Tedesca nella fase iniziale del torneo, in un inedito confronto
diretto fra tedeschi che riempì le cronache non solo sportive),
ma fu infine costretta a uscire allo scoperto nella semifinale
contro la Polonia, forte del bravissimo portiere Tomaszewski:
uno splendido scontro, di alto livello agonistico, che alla fine fu
vinto di misura dalla Germania Ovest. Così, la finale con gli
olandesi, che avevano sconfitto nettamente il Brasile, divenne la
sfida ultima fra il calcio conservatore e quello della 'grande
riforma', o almeno fu interpretata in quest'ottica da una critica
sempre pronta a proporre nette contrapposizioni più che a
mettere in rilievo come il progresso, anche nel calcio, si attui a
piccoli passi e con infinite mediazioni. L'Olanda andò in
vantaggio dopo un minuto e credette di avere già vinto. La
Germania Ovest, tradizionalmente tenace, la raggiunse
caparbiamente e poi la batté. Il fattore campo, anche per la
bravura dell'arbitro inglese Taylor, ebbe un'importanza solo
relativa, mentre risultò decisiva la presunzione degli interpreti
del calcio totale, che pensavano di essere troppo forti per
qualsiasi avversario. Non fu, comunque, la vittoria del vecchio
sul nuovo, perché proprio da quel Mondiale il calcio olandese
uscì consacrato; si trattò, semplicemente, della vittoria di una
grande squadra, sempre ai vertici delle grandi competizioni.
Beckenbauer si tolse una soddisfazione nei confronti di Cruijff,
il rivale per il quale non nutriva simpatia e che a sua volta non
lo amava. La contesa fra i due campioni dominava ormai tutta la
scena europea: anche nella Coppa dei Campioni ai tre successi
consecutivi dell'Ajax di Cruijff seguì l'analoga tripletta del
Bayern di Beckenbauer. Gli altri, per il momento, stavano a
guardare.

L'addio di Cruijff
Il ferreo duopolio Germania Ovest-Olanda, secondo ogni
ragionevole previsione, era destinato a confermarsi nel
Campionato d'Europa del 1976, considerati come una concreta
possibilità di rivincita rispetto al Mondiale tedesco di due anni
prima. In effetti, le due squadre favorite giunsero senza
problemi nel quartetto delle finaliste, completato dalla
Iugoslavia, paese ospitante, e dalla solida Cecoslovacchia,
squadra di scarsa fantasia ma di robusto collettivo, provvista di
sufficiente cinismo tattico per opporsi alle formazioni più
quotate senza il minimo timore reverenziale. Il duello tra
Beckenbauer e Cruijff si spostava su ribalte diverse, senza
tuttavia perdere il suo ruolo di principale attrattiva del
cartellone calcistico.
Proprio in quegli Europei, disputatisi in proibitive condizioni
atmosferiche, si verificarono due fatti importanti: la
Cecoslovacchia batté prima l'Olanda in semifinale e poi la
Germania Ovest in finale e la perenne conflittualità all'interno
della squadra olandese, lacerata da rivalità insanabili, determinò
la rottura definitiva di Cruijff con la propria nazionale. Cruijff,
che pure in campo rappresentava il perno del gioco totale, si
faceva guidare nelle scelte e negli atteggiamenti da un assoluto
individualismo. Aveva già lasciato l'Ajax per il Barcellona,
cedendo alle lusinghe economiche di un favoloso contratto
proprio alla vigilia dei Mondiali 1974: una decisione che la
federazione olandese aveva dovuto subire, senza mai accettarla
del tutto. Per partecipare alle finali del Campionato d'Europa,
poi, aveva preteso un compenso straordinario, il che gli aveva
del tutto inimicato la maggioranza degli altri giocatori. La
sconfitta fece precipitare la situazione. Cruijff lasciò l'Olanda,
chiudendo la sua carriera in nazionale senza quei successi che la
sua classe e il suo talento naturale avrebbero sicuramente
meritato. In questo, fu costretto a invidiare il suo rivale
Beckenbauer, vero e proprio collezionista di trofei.
L'abbandono di Cruijff e dei giocatori a lui più legati, parve così
chiudere la breve ma esaltante stagione della Grande Olanda.
Invece, una formazione olandese di minore qualità, ma solida e
unita più che in passato sotto il profilo morale, riuscì a
raggiungere ancora la finale nel Mondiale del 1978, anch'essa,
come la precedente, giocata contro la nazionale di casa: questa
volta al posto della Germania Ovest c'era l'Argentina e il fattore
campo si fece sentire in modo ben più pesante. L'Argentina
aveva organizzato il Mondiale con la ferma determinazione di
vincerlo per offrire evasione e sfogo alla popolazione oppressa
dalla dittatura militare e per dare all'opinione pubblica mondiale
‒ che la guardava con giustificato sospetto ‒ una dimostrazione
di alta efficienza organizzativa. Il trionfo finale, che sotto il
profilo sportivo fu anche un meritato, e persino tardivo,
riconoscimento per una delle scuole calcistiche più forti di ogni
tempo, lasciò aperti molti interrogativi su quell'esito scontato.
Oltre all'Olanda, altre due squadre si dimostrarono all'altezza
del titolo: il Brasile, forse vittima di una combine tra Argentina
e Perù, e l'Italia, uscita dal periodo di crisi e ammirata come la
miglior nazionale, in chiave tecnica e tattica, di quel Mondiale.

La 'zona mista' di Bearzot


Per l'Italia, con il Mondiale 1974, si era registrata la
conclusione traumatica del lungo, e tutto sommato felice, ciclo
tecnico di Valcareggi; contemporaneamente, grandi campioni
come Rivera, Sandro Mazzola, Riva, chiudevano la loro milizia
in maglia azzurra. Il delicato periodo di passaggio fu gestito,
con mano salda e assoluta noncuranza dell'impopolarità, da un
uomo esperto come Fulvio Bernardini, che collezionò sconfitte
e feroci critiche, ma riuscì a formare un nucleo di freschi talenti
accomunati dalla qualità tecnica (i 'piedi buoni', il cui simbolo
era considerato il giovane Giancarlo Antognoni) e dalla
disciplina di squadra. Quando Bernardini, esaurito il compito di
traghettatore, consegnò la nazionale al suo collaboratore Enzo
Bearzot, si aprì una fase importante: Bearzot riuscì a dare alla
squadra un impianto di gioco che mediava felicemente i valori
tradizionali della scuola italiana con i nuovi fermenti seguiti alla
rivoluzione olandese. Non a caso il suo schema di gioco fu
definito 'zona mista'. L'Italia, cioè, conservava la sua forza
difensiva, basata essenzialmente su rigorose marcature
individuali, ma da metà campo in su si apriva a una manovra
più libera e corale, con fruttuosi interscambi che spezzavano la
rigidità dei ruoli.
Trascinata da un giovane cannoniere, Paolo Rossi, un attaccante
di fisico leggero ma dal grande istinto del gol, l'Italia incantò in
Argentina il pubblico e la critica, ma non andò oltre un quarto
posto finale, sicuramente inadeguato ai suoi meriti. Due anni
dopo, nel 1980, ospitando per la seconda volta i Campionati
d'Europa, la squadra azzurra si apprestava ad arricchire il suo
medagliere, quando fu travolta da uno scandalo senza
precedenti. Il 'totonero', il fenomeno delle scommesse
clandestine e degli accordi preventivi sul risultato di molte
partite al fine di ottenere vincite illecite, coinvolse parecchi
calciatori di primo piano, fra i quali lo stesso Paolo Rossi e
l'altro attaccante più quotato del momento, Bruno Giordano,
colpiti da pesanti squalifiche. Privato delle sue punte più forti e
dell'appoggio del pubblico, che per un giustificato calo di
fiducia disertò gli stadi, Bearzot concluse l'Europeo disputato in
casa con un deludente quarto posto, mentre la Germania Ovest
ne approfittava per collezionare l'ennesimo titolo continentale.
In tali condizioni, va considerata in un certo senso prodigiosa
l'immediata ripresa della nazionale azzurra, che nel 1982, in
Spagna, vinse il suo terzo titolo mondiale, il primo del
dopoguerra dopo la doppietta, ormai lontanissima, del 1934 e
1938. Alla vittoria contribuì in modo determinante lo stesso
Paolo Rossi, che aveva esaurito il periodo di squalifica proprio
alla vigilia del Mondiale. Bearzot lo volle unire alla squadra
sfidando le ire dei benpensanti e le critiche dei tecnici, che lo
ritenevano irrimediabilmente arrugginito dalla forzata e
prolungata inattività. In effetti, l'esordio dell'Italia fu stentato e
Rossi fu la causa principale delle difficoltà iniziali. Ma proprio
quando il 'linciaggio' di Bearzot toccava il culmine, gli azzurri
si scossero ed eliminarono in successione l'Argentina campione
in carica (dove giocava il nuovo astro mondiale, Diego
Maradona) e il Brasile, la formazione favorita. Con tre gol al
Brasile, impresa mai riuscita a nessun altro calciatore, Rossi
interruppe la serie negativa, finendo per laurearsi
capocannoniere del torneo con sei reti concentrate nelle ultime
tre partite. Nella finale, fu ancora la Germania Ovest ‒ squadra
di eccezionale continuità ai massimi livelli ‒ ad affrontare gli
azzurri, che però si imposero in modo estremamente netto
dando prova di una superiorità indiscutibile.
Ancor più dell'esaltante ma estemporaneo secondo posto
conquistato in Messico nel 1970, fu il trionfo spagnolo a
proiettare di nuovo e stabilmente l'Italia nell'aristocrazia
internazionale del calcio. Il suo gioco, a lungo giudicato dalla
critica estera come espressione di puro difensivismo, privo di
ogni slancio spettacolare, aveva ritrovato credibilità e consensi,
oltre che imitatori. Frattanto, la riapertura delle frontiere,
dapprima contingentata, poi sempre più massiccia, aveva ridato
piena competitività alle formazioni di club, senza che ne
risentisse il rendimento della rappresentativa nazionale. Bearzot
fallì la spedizione messicana del 1986, tradito (come in parte
era accaduto anche a Valcareggi) dal sentimento di gratitudine
nei confronti dei suoi veterani, in omaggio ai quali aveva
rinviato un'adeguata operazione di ricambio e di
ringiovanimento dei ranghi. Ma fu, quello, l'ultimo Campionato
del Mondo in cui l'Italia ebbe un ruolo da comparsa. Nel 1990,
nei Mondiali organizzati in casa, gli azzurri guidati da Vicini
furono terzi, senza subire una sola sconfitta. Nella successiva
edizione ospitata dagli Stati Uniti nel 1994, sotto la gestione
tecnica di Arrigo Sacchi, autore di un'autentica rivoluzione che
già aveva portato il suo Milan ai vertici europei e mondiali,
l'Italia arrivò sino alla finale, arrendendosi al Brasile soltanto ai
calci di rigore. In quell'occasione, il trascinatore degli azzurri fu
Roberto Baggio, il fuoriclasse che si aggiunse a Rivera e a
Paolo Rossi nel conquistare il Pallone d'oro, riconoscimento
destinato al miglior calciatore europeo della stagione.
Nell'ultimo Mondiale del secolo, quello organizzato e vinto
dalla Francia nel 1998, ancora una volta soltanto ai calci di
rigore, l'Italia allenata da Maldini cedette nei quarti di finale ai
padroni di casa, poi vittoriosi anche in finale contro il Brasile.
Agli Europei del 2000 l'Italia si classificò seconda, ancora
dietro alla Francia; sulla panchina della nazionale sedeva Dino
Zoff, il grande portiere che aveva dato un contributo decisivo
alla conquista del titolo mondiale in Spagna. Peraltro, le ingrate
critiche per il mancato successo indussero Zoff alle dimissioni,
subito dopo la conclusione del torneo. Al suo posto divenne
commissario tecnico della nazionale Giovanni Trapattoni,
reduce da una carriera ricca di vittorie quale tecnico di club.
È da sottolineare la singolare circostanza che, proprio mentre il
mondo del calcio si apriva a nuove realtà ‒ in particolare alle
squadre africane portatrici di un atletismo prorompente ma
sempre più disciplinato dai progressi tecnici e tattici ‒ i titoli
più importanti continuavano a essere conquistati dalle grandi
potenze tradizionali. Al ritorno dell'Italia ai vertici mondiali si
accompagnò, infatti, un momento assai felice dell'Argentina
sotto la spinta decisiva del suo fuoriclasse Diego Maradona,
l'erede naturale di Pelé. La grandezza di Maradona portò la
squadra argentina, nonostante l'assenza di qualche giocatore di
altissimo livello, a vincere il Mondiale del 1986 e a classificarsi
seconda in quello del 1990, disputando due finali contro una
sempre grande Germania Ovest, alla cui guida tecnica era l'ex
campione Franz Beckenbauer. Il Brasile, da parte sua, si
aggiudicò il suo quarto titolo iridato nel 1994 e arrivò in finale
quattro anni dopo, in Francia, perdendo nettamente l'ultima
partita contro gli scatenati padroni di casa anche a causa di un
misterioso malore che aveva costretto il suo campione più
rappresentativo, Ronaldo, a scendere in campo in condizioni
fisiche estremamente precarie. Fra le protagoniste di fine
secolo, dunque, Italia, Argentina, Germania e Brasile erano le
formazioni più titolate a livello mondiale, il segno di una
continuità che aveva resistito a tutte le mode. In questo senso,
va riconosciuto che l'autentica rivelazione calcistica nel
passaggio di secolo è stata la Francia, vincitrice del titolo
mondiale nel 1998 e di quello europeo nel 2000, una doppietta
che in precedenza era riuscita, in ordine inverso, soltanto alla
Germania Ovest nel 1972 e nel 1974.

La Francia e il calcio multietnico


La Francia aveva conosciuto altri periodi di splendore senza
riuscire, peraltro, a concretizzarli se non parzialmente in
risultati positivi. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, la
fioritura di genuini talenti, quali il finissimo creatore di gioco
Raymond Kopa (stella del Real Madrid accanto a Di Stefano) e
il goleador Just Fontaine, consentì alla squadra di esprimere
momenti di grande calcio. Nei Mondiali del 1958, vinti dal
Brasile del diciottenne Pelé, la Francia fu terza e Fontaine fu il
capocannoniere del torneo con 13 gol, quota tuttora insuperata
anche dopo l'allargamento della formula. Quindi, a partire dalla
fine degli anni Settanta, la Francia si ripropose come
protagonista, grazie al miglior reparto di centrocampo del
mondo, imperniato attorno al fuoriclasse Michel Platini che,
trasferitosi in Italia, fu anche l'uomo di punta di una
grandissima Juventus. Ai Mondiali del 1978 i francesi furono
presto eliminati a vantaggio dell'Argentina, padrona di casa,
favorita da innegabili protezioni arbitrali. Quattro anni dopo, in
Spagna, forse la miglior Francia di sempre, guidata dal tecnico
Michel Hidalgo, dopo aver incantato gli spettatori con un gioco
frizzante, ribattezzato 'calcio-champagne', sprecò l'occasione di
disputare la finale contro l'Italia dilapidando un vantaggio, in
apparenza decisivo, nei tempi supplementari della semifinale
con la Germania Ovest. Un'analoga vicenda si ripeté nel
Mondiale messicano del 1986, dove la Francia, una delle
favorite, eliminò l'Italia campione in carica e poi anche il
Brasile nei quarti, ma si arrese ancora alla Germania Ovest in
semifinale concludendo al terzo posto. Insomma, un lungo
periodo di grandissima forma portò ai francesi soltanto il titolo
europeo del 1984 (con Platini capocannoniere) e la medaglia
d'oro ai Giochi Olimpici di Los Angeles nello stesso anno,
peraltro un po' svalutata dal forfait di molte nazioni dell'Est
europeo.
I successi della Francia, però, cominciarono a susseguirsi
proprio alla svolta del secolo. Il calcio aveva ormai abbattuto le
sue frontiere, la libera circolazione dei calciatori all'interno
dell'Europa, ufficializzata con la 'sentenza Bosman' dell'Unione
Europea (che prese il nome dal giocatore belga che interessò per
primo l'Alta Corte), aveva trasformato le più forti formazioni di
club in autentiche multinazionali. In questa progressiva perdita
di identità nazionale e di sovrapposizione di scuole diverse, la
Francia trovò terreno fertile per imporre il suo modello
multietnico. Nella sua rappresentativa di punta confluivano i
giocatori originari dalle ex colonie del Nord Africa e quelli dei
territori caraibici d'oltremare, in particolare Martinica e
Guadalupa, atleti di splendida costituzione fisica, potenti, agili e
flessuosi (di un fenomeno del genere aveva beneficiato anche
l'Olanda con i nativi del Suriname e, più indietro nel tempo, il
Portogallo con i fuoriclasse mozambicani Eusebio e Coluña).
Della squadra francese, che vinse il Mondiale del 1998
disputato sui campi di casa, andandosi ad aggiungere, così, alle
sei nazioni che avevano sino ad allora conquistato il titolo
(Uruguay, Italia, Germania, Brasile, Inghilterra, Argentina),
soltanto 8 giocatori su 22 erano francesi in senso stretto.
Zinedine Zidane, il nuovo Platini, autore di due gol nella finale
contro il Brasile, era figlio di immigrati algerini. Tra i suoi
compagni di squadra, molti avevano origini armena, basca,
portoghese, africana, caraibica.
Due anni dopo, con una squadra largamente confermata, la
Francia, dopo aver chiuso quello del Novecento, aprì l'albo
d'oro del Duemila affermandosi nel Campionato d'Europa
organizzato, in partnership, da Olanda e Belgio, ponendo con
ciò le premesse per un ciclo non effimero, garantito dalla
ricchezza di un vivaio senza più confini territoriali e prodigo di
talenti. Sul piano tecnico, è giusto sottolineare che la Francia,
famosa per il suo calcio offensivo e assolutamente non
opportunista, vinse il suo Mondiale soprattutto grazie alla
solidità della difesa, forte di individualità spiccate quali
Thuram, Blanc e Desailly, che si erano tutti ‒ in tempi diversi ‒
addestrati nella grande palestra del Campionato italiano.
La disponibilità di centrocampisti di qualità, soprattutto Zidane,
campione della Juventus (come il suo modello Platini) e poi del
Real Madrid, unita alla penuria di grandi attaccanti di ruolo, ha
fatto sì che la Francia cercasse la porta avversaria più con una
manovra collettiva e avvolgente che con le iniziative delle
punte. Anzi, rovesciando in un certo senso i canoni tradizionali
del calcio, in quella Francia erano gli attaccanti, in funzione
gregaria, a lavorare per i centrocampisti e non viceversa. Nel
suo piccolo, una rivoluzione anche questa, sia pure obbligata
dall'organico a disposizione.

Una diffusione universale: il primo Mondiale in Asia


Proprio il Mondiale di fine secolo può costituire un eloquente
parametro per riuscire a valutare la complessa evoluzione subita
da questa disciplina agonistica. I primi coraggiosi pionieri che
tentarono di abbattere le frontiere e di avviare contatti universali
nel mondo del pallone avevano dovuto affrontare enormi
ostacoli. Nel 1930, l'edizione inaugurale del Campionato del
Mondo aveva faticosamente radunato in Uruguay 13 nazioni
(alcune delle quali costrette alla partecipazione dagli
atteggiamenti dittatoriali di Jules Rimet). In occasione del
Mondiale francese del 1998, il sedicesimo della serie, valido per
la settima Coppa FIFA, furono necessari quasi due anni (dal 10
marzo 1996 al 29 novembre 1997), 649 partite eliminatorie e
1922 gol per ridurre drasticamente il numero di paesi iscritti alla
competizione da 172 a 30. Trenta nazionali che, con l'aggiunta
della Francia paese ospitante e del Brasile campione in carica,
qualificati d'ufficio, diedero vita al tabellone finale del torneo
che prevedeva un serrato calendario agonistico. La
competizione fu seguita in ogni fase dalle televisioni dell'intero
pianeta. Ormai, tutti i continenti erano presenti nel panorama
calcistico ai massimi livelli.
Nell'ottobre del 2001, la prima, storica qualificazione della Cina
alla fase finale di un Campionato del Mondo, quello in
programma, anch'esso per la prima volta, in Asia (diviso tra
Corea e Giappone) nel giugno 2002, ha aperto un altro immenso
serbatoio di risorse, sulla strada della completa globalizzazione.
Oltre alla Cina altre tre nazionali hanno partecipato per la prima
volta alla fase finale: Slovenia, Ecuador, Senegal. Nel novero
delle trentadue squadre ammesse vi sono state tutte le nazioni
storiche, cioè le vincitrici di una o più edizioni precedenti: il
Brasile con quattro titoli (1958, 1962, 1970, 1994), l'Italia
(1934, 1938, 1982) e la Germania (1954, 1974, 1990) con tre,
l'Uruguay (1930, 1950) e l'Argentina (1978, 1986) con due,
l'Inghilterra (1966) e la Francia (1998) con uno.
Certo, quella del calcio non è stata un'evoluzione indolore. Nel
corso di questa sua prepotente ascesa, il calcio ha dovuto pagare
prezzi molti alti. In primo luogo alla violenza, quasi inevitabile
in un movimento di massa così esteso e perennemente sotto la
luce dei riflettori. La tragedia dell'Heysel, in occasione della
finale di Coppa dei Campioni del 1985 fra Juventus e
Liverpool, determinata dal cieco e brutale assalto
degli hooligans inglesi nei confronti degli spettatori italiani,
oltre a un bilancio delle vittime davvero agghiacciante, provocò
uno shock all'intera organizzazione. La temporanea esclusione
delle formazioni inglesi dalle competizioni europee per club fu
un provvedimento obbligato, ma non valse, ovviamente, a
estirpare alla radice un malessere che il calcio ereditava dalla
società, amplificandolo con la sua enorme cassa di risonanza.
Anche la corruzione, che per principio dovrebbe essere estranea
all'evento sportivo, di fronte a interessi economici sempre più
forti e a un giro di denaro in vertiginosa crescita, ha fatto il suo
ingresso nel mondo del calcio, così come il doping ‒ il tentativo
di incrementare artificialmente le prestazioni ‒ ha rappresentato
una tentazione cui non sempre società e atleti hanno saputo
resistere.
Non sarebbe però giusto sottacere gli enormi meriti del calcio
sotto il profilo dell'aggregazione. Il primo Campionato del
Mondo del Duemila, come abbiamo detto, è stato ospitato in
Asia e anche l'Africa si è già attivata per ottenere l'impegnativa
organizzazione di un torneo dalla partecipazione sempre più
universale, dunque sempre meno elitaria. Malgrado siano partiti
in forte ritardo rispetto alle scuole tradizionali, movimenti
calcistici considerati minori hanno già raggiunto una notevole
competitività sul piano dei risultati. Due nazionali africane,
Nigeria e Camerun, hanno vinto la medaglia d'oro olimpica
nelle due ultime edizioni dei Giochi, ad Atlanta nel 1996 e a
Sydney nel 2000. Dal punto di vista atletico, tecnico e tattico il
gioco è andato profondamente cambiando, senza però mai
rinnegare (e forse questo è il segreto del suo successo
travolgente rispetto ad altre discipline più sensibili alle mode) le
proprie radici e le proprie regole fondamentali. Si è registrata,
specie negli anni più recenti, da parte del governo mondiale del
calcio, una ricerca costante di aggiornamento per salvaguardare
il lato spettacolare del gioco e quindi la sua audience televisiva,
senza però che sia mai stato attuato uno stravolgimento
sostanziale. Dalla cornice esclusiva dei college inglesi
dell'Ottocento, alla ribalta planetaria del Duemila, il calcio ha
compiuto un lungo cammino, senza mai tradire se stesso.

L'evoluzione della tecnica di gioco


di Gianni Leali

Le fasi principali
L'elevata qualità tecnica del calcio odierno, soprattutto ai
massimi livelli, è tutt'altro che un dato scontato, in quanto è
stata raggiunta gradualmente nel corso di una storia lunga e
travagliata. Il successivo evolversi dei sistemi di gioco e della
tattica è stato sempre strettamente congiunto allo sviluppo delle
capacità tecniche dei calciatori, che sono andate continuamente
progredendo in virtù di un'applicazione sempre più assidua e
intensa e di un insegnamento sempre più efficace e razionale. Il
football nacque nel 1863 in Inghilterra, quando i calciatori si
separarono dai giocatori di rugby proprio per prendere le
distanze dallo svolgimento rude di quel gioco in cui sono
consentiti l'aggressione e il placcaggio dell'avversario.
Introducendo regole che punivano l'uso della violenza, il calcio
metteva in primo piano l'abilità più specificatamente tecnica.
Nei primi anni ai calciatori era consentito 'stoppare' il pallone
anche con le mani, mentre solo il passaggio e il tiro in porta
dovevano essere eseguiti con il piede. Queste 'azioni di mano',
sia pur limitate, erano necessarie a garantire un buon flusso di
gioco, dato che l'abilità dei calciatori nel controllare il pallone
con il corpo e con il piede era ancora molto poco sviluppata.
Soltanto nella stagione sportiva 1871-72 fu introdotta la regola
che proibiva a tutti i calciatori, tranne il portiere, di toccare la
palla con le mani. Ciò determinò la necessità di apprendere
nuovi modi per controllare il pallone e di migliorare tutto il
repertorio della tecnica individuale.
All'epoca delle origini, comunque, quando il regolamento
prevedeva il fuorigioco totale (era in fuorigioco, cioè, chiunque
si trovasse davanti alla linea della palla in qualsiasi zona del
campo) e gli allenamenti si svolgevano saltuariamente,
l'impostazione tecnica individuale lasciava molto a desiderare.
L'unico elemento tecnico in cui i calciatori mostravano una
certa abilità era il dribbling, perché il gioco si sviluppava in
forma essenzialmente individualista: colui che di volta in volta
era in possesso del pallone puntava direttamente verso il
portiere avversario e, in dribbling, tentava di andare in gol da
solo. Gli 'stop' erano approssimativi, i pochi passaggi che era
inevitabile eseguire erano per lo più imprecisi, i tiri in porta e i
calci al pallone venivano effettuati prevalentemente con la
punta del piede. Si trattava, in definitiva, di una tecnica
rudimentale, grossolana e improvvisata.
Successivamente, nel periodo di applicazione del 'sistema
piramidale' e del 'metodo', si sviluppò una tecnica che
rispondeva ai più importanti principi di gioco collettivo e
consentiva d'altra parte alle individualità di notevole rilievo di
emergere. Il tocco della palla divenne più leggero e più
morbido, il repertorio degli 'stop' e delle finte si arricchì
enormemente, le preziosità stilistiche e acrobatiche divennero
patrimonio di molti giocatori e l'impostazione tecnica
individuale divenne mediamente di buon livello, con inevitabili
riflessi sul miglioramento del gioco collettivo e dell'aspetto
spettacolare. Nel secondo dopoguerra, con l'affermazione del
'WM' in tutto il mondo, tranne che nei paesi del Sud America, si
ebbe la fase della specializzazione della tecnica in relazione al
ruolo che i giocatori ricoprivano in gara. Nel 'WM', infatti, i
ruoli erano ben distinti e definiti sia per la posizione dei
giocatori in campo sia per i compiti da svolgere. Le funzioni di
difensori, centrocampisti e attaccanti erano completamente
differenti e circoscritte a zone del campo ben delimitate: mentre
i difensori si occupavano di respingere l'offensiva avversaria, i
loro compagni di attacco, a circa 40 m di distanza, assistevano
passivamente all'esito dello scontro; allo stesso modo si
comportavano da spettatori i difensori quando la palla si trovava
nelle vicinanze della porta avversaria. Non esisteva
collaborazione tra giocatori di reparti diversi e ognuno era
responsabile soltanto di ciò che avveniva nella sua zona di
competenza. Anche da un punto di vista tecnico,
l'addestramento era differente per difensori e attaccanti. Ai
primi, per lo più giocatori alti, robusti, vigorosi, venivano
proposte prevalentemente esercitazioni per le varie forme
di tackle, per il colpo di testa, per i rinvii lunghi al volo di collo-
piede; l'allenamento dei secondi era invece finalizzato al tiro in
porta, al dribbling, al cross da fondo campo con conclusione a
rete di testa o di piede. Una tecnica particolare, messa a punto
negli anni Cinquanta dai difensori del 'WM' e consacrata a
livello internazionale nel 1954 quando la Germania divenne per
la prima volta, in modo clamoroso, campione del mondo, è stata
quella del 'tackle scivolato', diffusasi in seguito in Italia
soprattutto sull'esempio di un calciatore straniero che la
praticava in modo magistrale: il difensore tedesco Schnellinger.
Nel 1974, ai Campionati del Mondo in Germania Ovest,
l'Olanda inaugurò il cosiddetto 'calcio totale'; questo tipo di
gioco allargava notevolmente il raggio d'azione di ogni
giocatore, che si alternava ininterrottamente fra attacco e difesa
non rimanendo più ancorato a una sola zona del campo. Di
conseguenza, cominciò a diffondersi (affermandosi poi
definitivamente) un tipo di addestramento tecnico non più
legato alle particolari e differenti funzioni di ciascun ruolo, ma
caratterizzato dal principio dell'eclettismo mirato alla
formazione di calciatori di elevata tecnica generale, capaci di
eseguire con il pallone, in maniera corretta e disinvolta, tutto il
repertorio dei gesti previsti dalla tecnica calcistica individuale e
di agire, con efficacia, in ogni zona del campo e nelle diverse
situazioni di gioco. Anche per il portiere ‒ non più relegato per
tutta la durata della partita sulla linea di porta, ma costretto a
intervenire anche fuori dell'area di rigore per svolgere la
funzione di libero nei momenti in cui, lontano dalla propria
porta, scattava il fuorigioco dei compagni del reparto difensivo
‒ si cominciò ad avvertire l'esigenza di un addestramento più
generale, tendente, in altri termini, a sviluppare non solo le
abilità specifiche all'uso delle mani, ma anche quelle richieste
agli altri giocatori in campo. È da precisare, comunque, che una
sostanziale evoluzione tecnica del ruolo del portiere, soprattutto
per quanto riguarda la maggiore frequenza del gioco di piede, si
è avuta dal 1996 in poi, da quando cioè è stata introdotta la
nuova norma che vieta al portiere l'uso delle mani in caso di
retropassaggio volontario di un compagno.

Requisiti della tecnica nel calcio attuale


Gli eterni nostalgici continuano a sostenere che i calciatori del
passato erano migliori, sotto l'aspetto tecnico, di quelli di oggi.
Questa tesi è naturalmente assurda, soprattutto se riferita al
calcio ai massimi livelli: appare evidente infatti che il livello
tecnico dei calciatori si è dovuto adeguare al ritmo di gioco più
elevato, all'accresciuta dinamica dei contrasti e al
perfezionamento della tattica.
Certamente, il calcio che si gioca attualmente è diverso da
quello del passato, ma è altrettanto innegabile che è
tecnicamente molto più impegnativo sia per i difensori sia per i
centrocampisti sia per gli attaccanti: lo spazio di gioco e di
azione è più ristretto, ed è minore anche il tempo di reazione
che il calciatore, ricevuta la palla, ha a sua disposizione per
proseguire il gioco. Di conseguenza, le azioni tecniche devono
essere eseguite rapidamente, cercando di conciliare precisione e
velocità. Se in passato molti giocatori, anche se lenti, sono
riusciti ugualmente ad affermarsi nel calcio di alto livello in
virtù della loro grande abilità nel controllare e nel trattare il
pallone, nel calcio moderno calciatori di tali caratteristiche
difficilmente riescono a emergere e nell'ambito delle proprie
squadre vengono sempre più spesso sostituiti da elementi dotati
magari di minore abilità tecnica, ma molto più rapidi nei gesti e
nella corsa. L'ex allenatore della nazionale francese, Hidalgo, ha
tracciato il profilo del grande giocatore del calcio moderno
d'élite, che deve possedere un notevole valore nella tecnica
individuale con una qualità di base: la velocità nei gesti, nella
corsa e anche nei tempi di reazione.
Lo slogan un tempo assai diffuso tra gli allenatori ‒ "controlla il
pallone, guarda e gioca" ‒ appare ormai privo di senso dal
momento che, oggi, sui campi di calcio esistono ben poche
possibilità di stoppare il pallone tranquillamente, di spostare il
peso del corpo sul piede di appoggio, quindi volgere intorno lo
sguardo e scegliere la migliore soluzione per proseguire il
gioco. Una buona tecnica consiste, piuttosto, nel controllo
preciso del pallone e dei vari movimenti con esso sotto l'assillo
del tempo e dell'avversario e di questo, ovviamente, si tiene
conto nell'insegnamento e nell'allenamento della tecnica stessa.
Si afferma comunemente che la tecnica sia una dote innata ed è
in effetti innegabile che alcuni giocatori, già in età
relativamente precoce, mostrino più disposizione di altri nel
trattare il pallone. Tuttavia, anche i meno dotati possono
raggiungere risultati apprezzabili mediante un'attività di
addestramento sistematica e ben programmata, comunque
indispensabile anche per i più portati. Sicuramente questi ultimi
assimilano prima le abilità necessarie per il gioco del calcio e
hanno quindi maggiori possibilità di emergere; nessuno, però,
può divenire un campione senza un'applicazione continua,
assidua, attenta e ben guidata da parte di un istruttore, la cui
funzione è determinante per il giusto apprendimento della
tecnica.
Viene in rilievo, allora, il ruolo dell'istruttore che, soprattutto
nell'ambito giovanile, è fondamentale per lo sviluppo
massimale delle capacità potenziali degli allievi e per
l'apprendimento di una tecnica veramente efficace e in sintonia
con le esigenze e le caratteristiche del calcio moderno, in cui la
velocità di esecuzione dei vari movimenti con il pallone (gesti
tecnici) e l'esaltazione di quelle che si definiscono le doti
atletiche (forza, resistenza, capacità di scatto) appaiono fattori
sempre più determinanti per il successo.
Per riuscire nel calcio, in conclusione, è attualmente
indispensabile essere ben preparati atleticamente e in grado di
commettere il minor numero di errori possibile
nell'effettuazione dei gesti tecnici ad alta velocità. In questo, i
calciatori attuali si distinguono da quelli del passato e,
mediamente, sono loro superiori. Se qualche decennio fa era
ancora possibile che alcuni calciatori dalla tecnica debole
potessero giocare con successo come difensori, oggi ciò non si
verifica più a testimonianza che, in generale, la tecnica dei
calciatori di alto livello si è ulteriormente perfezionata,
indipendentemente dal loro ruolo.
Come è cambiato l'insegnamento della tecnica
Oltre al progressivo miglioramento degli attrezzi (palloni e
scarpe da calcio) e dei terreni di gioco, alla sempre più
accentuata professionalizzazione degli atleti, a sistemi e tattiche
(raddoppi di marcatura, pressing, squadra corta) che hanno
ristretto sempre più lo spazio d'azione di ogni singolo calciatore
(con la conseguenza di dover necessariamente velocizzare
l'esecuzione dei diversi gesti tecnici), un fattore di importanza
certamente non trascurabile dell'evoluzione della tecnica è
rappresentato anche dal diverso modo con cui, oggi, essa viene
insegnata e coltivata rispetto al passato.
Al metodo tradizionale di insegnamento degli elementi della
tecnica calcistica (i cosiddetti 'fondamentali': calcio, arresto,
contrasto, colpo di testa, guida della palla ecc.) attraverso
procedimenti addestrativi di tipo analitico ‒ che propongono
cioè numerose ripetizioni di ogni singolo gesto tecnico in forma
pressoché stereotipata e isolata dagli altri fattori del gioco,
tattici e di condizione fisica ‒, si è sostituito il metodo
cosiddetto 'globale'. Esso si caratterizza sostanzialmente, sin
dall'inizio del processo di addestramento, per il continuo
collegamento con situazioni di gioco simili a quelle che si
verificano in gara. La maggior parte degli istruttori e degli
allenatori, attualmente, punta cioè a sviluppare l'abilità tecnica
dei giocatori per mezzo della ripetizione sistematica di
combinazioni di gioco. Nel corso di queste combinazioni, che
presentano anche un significato tattico, l'accento viene messo
soprattutto sulla corretta esecuzione dei movimenti tecnici, in
stretta correlazione con i differenti fattori che intervengono
durante lo svolgimento dell'esercitazione (movimento dei
compagni, posizione degli avversari ecc.). La ripetizione
continuativa di particolari situazioni e combinazioni di gioco,
ciascuna delle quali comporta determinati movimenti tecnici
che devono rispondere ai principi generali del gioco, induce
processi di automatismo che riguardano destrezze non soltanto
di movimento, ma anche e soprattutto di comportamento.
Nella convinzione, ormai pressoché universalmente condivisa,
che soltanto un'abilità tecnica sviluppata e perfezionata in
funzione del gioco possa rivelarsi realmente efficace sul campo
e rispondere alla duplice necessità della rapidità e della
precisione, da alcuni anni gli allenatori dedicano sempre minor
tempo all'allenamento nei palleggi, nella guida della palla tra i
paletti, nei colpi di testa e di piede al pallone sospeso alla 'forca'
o al pallone che rimbalza contro il 'muro'. Anzi, tali tipi di
attrezzature, che una volta erano considerate utilissime, quasi
indispensabili per l'addestramento e il perfezionamento tecnico
del calciatore, vanno scomparendo dai campi di allenamento.
Sempre in questa ottica, circa vent'anni fa, furono aboliti i
NAGC (Nuclei di addestramento giovani calciatori), accusati di
formare più che dei calciatori, dei giocolieri molto bravi
nell'esecuzione dei fondamentali sul posto o in condizioni di
particolare facilitazione (senza la pressione degli avversari e
senza preoccupazioni tattiche), ma spesso non altrettanto
efficaci in partita dove la loro abilità tecnica sembrava
dissolversi. Il limite della scuola dei NAGC consisteva, infatti,
nell'esercitare i bambini con il pallone fuori dalle azioni di
gioco tipiche della partita.
Bisogna precisare, tuttavia, che ancora oggi alcuni tecnici
rivendicano l'importanza dell'addestramento individuale con la
palla sui cosiddetti fondamentali e auspicano il ritorno sui
campi di allenamento di attrezzature specifiche per
l'allenamento tecnico, considerate di grande utilità per
sviluppare e tenere allenate le abilità coordinative, che non
sempre il gioco di per sé o la ripetizione di sue determinate
situazioni riescono a far esercitare. Di questo avviso è, per es.,
anche Joseph Blatter, presidente della FIFA, che ha rivolto un
appello agli allenatori delle squadre giovanili, invitandoli a
insegnare ai ragazzi la tecnica prima della tattica, dedicando più
tempo alla tecnica di base, affinché i calciatori possano
sfruttarla al meglio durante il gioco.
In verità, non disponiamo di conoscenze oggettive tali da poter
stabilire con certezza quale sia la maniera migliore di insegnare,
di allenare e di apprendere la tecnica calcistica. Certo, le teorie
sull'apprendimento motorio attualmente più in auge
considerano, come si è detto, il metodo globale il migliore per
l'acquisizione e il perfezionamento anche dei movimenti con il
pallone. Ma la comparazione con altri metodi, per quanto
riguarda i risultati ottenuti, non è obiettivamente possibile. La
soluzione migliore potrebbe essere quella del compromesso tra
le due concezioni metodologiche sopra citate, quella analitica e
quella globale, che, più che escludersi a vicenda, dovrebbero
essere considerate complementari. In effetti, se l'allenatore si
limita a insegnare ai suoi allievi forme stereotipate, rigide ed
estranee alle reali situazioni della pratica sportiva, il suo
insegnamento non aderisce alla realtà del gioco ma, d'altra
parte, se esclude del tutto o quasi l'allenamento isolato e
individuale dei fondamentali, basando in maniera pressoché
assoluta l'addestramento tecnico su combinazioni di gioco, cioè
su esercitazioni che potremmo definire di tecnica applicata
piuttosto che di tecnica pura, tale procedimento può non
risultare sufficiente a eliminare o a limitare talune carenze
soggettive. Diversi grandi campioni del passato continuarono a
migliorare la loro abilità tecnica anche in età avanzata proprio
grazie all'abitudine che avevano di sottoporsi, al termine di ogni
allenamento con la squadra, a un addestramento individuale
basato su palleggi, arresti del pallone, traversoni, tiri in porta da
varie posizioni, da fermi o in corsa.

La tecnica nella formazione del calciatore


In conclusione si può dire che nel processo globale di
allenamento dei giovani calciatori (come in quello di qualsiasi
altra disciplina sportiva), l'allenamento della tecnica deve
occupare una posizione di primo piano rispetto ad altre
componenti della prestazione, come le qualità fisiche e tattiche.
L'avviamento a uno sport, infatti, non può avvenire se non
attraverso l'apprendimento delle abilità fondamentali che lo
riguardano: così, anche nel calcio, la tecnica, intesa come
corretta acquisizione dei gesti e dei movimenti che si
riferiscono al contatto uomo-palla, è la prima qualità che deve
essere appresa e, quindi, addestrata. Il processo di
apprendimento e di perfezionamento della tecnica non si
esaurisce nel periodo evolutivo, anche se è soprattutto in età
evolutiva che la tecnica deve costituire il lavoro fondamentale
del calciatore in allenamento; su di essa, l'istruttore deve
possedere un ricco patrimonio di conoscenze, specialmente di
ordine biomeccanico, senza le quali la sua opera si rivelerebbe
di scarsa utilità.
La tecnica calcistica ha elaborato norme ben precise atte a
definire la corretta posizione del corpo e l'atteggiamento degli
arti in relazione alla palla secondo che essa debba essere
ricevuta, respinta o guidata, anche se i grandi campioni, in
realtà, spesso modellano queste norme secondo un'impronta
personale o creano essi stessi nuove tecniche. In generale, però,
la tecnica ha ormai un repertorio di modelli stabili, che
l'allenatore deve conoscere approfonditamente e saper
trasmettere ai propri allievi per adattarli al multiforme
linguaggio espressivo del gioco. Questi modelli derivano
dall'esperienza pratica, da riflessioni teoriche e dai risultati delle
ricerche scientifiche sulle caratteristiche degli atleti di alto
livello.
Il calciatore deve apprendere presto le tecniche di base, ma
sapere anche come modificarle e adattarle alle varie situazioni
di gioco. Tutto questo è possibile solo se, durante la pratica
sportiva dei bambini e degli adolescenti, esercitazioni di tecnica
pura sono debitamente alternate a esercitazioni di tecnica
applicata e alla disputa di partitelle o partite di calcio vere e
proprie, preferibilmente su spazi ridotti e con un numero
limitato di giocatori per squadra. Queste partite su spazi ridotti
costituiscono per i giovani calciatori una situazione di
apprendimento difficilmente sostituibile: ogni giocatore viene
impegnato attivamente e costantemente in situazioni di attacco e
di difesa dove ha occasione, entrando più spesso in contatto con
il pallone, di prendere decisioni e di esprimersi. Al calcio,
infatti, ci si prepara soprattutto giocando. Far disputare gare a
ragazzi dalla tecnica individuale ancora molto rudimentale è, a
differenza di quanto ritenevano molti allenatori del passato, un
metodo assolutamente consigliabile. È la gara, e soltanto la
gara, che riesce a dare un significato ai movimenti tecnici:
l'intervento puntuale e tempestivo dell'allenatore nel far rilevare
l'errore commesso dal singolo giocatore ha un valore didattico
determinante e contribuisce a far meglio comprendere all'allievo
l'importanza dell'addestramento tecnico.
È importante, inoltre, che l'istruttore si sforzi di far acquisire ai
suoi allievi la capacità di eseguire i vari gesti tecnici con
entrambi i piedi e alla massima velocità possibile. La bilateralità
(ambidestrismo) e la rapidità espressiva sono, infatti,
caratteristiche sempre più importanti del calcio attuale. In sede
di allenamento, pertanto, non appena l'atleta è in grado di
padroneggiare le strutture di base del processo motorio, occorre
che l'esecuzione venga gradatamente velocizzata, così come è
necessario incoraggiare i principianti all'uso del dribbling,
perché tale gesto tecnico, oltre a offrire una notevole
soddisfazione personale, assume un'importanza fondamentale
nel calcio moderno.
È deleterio, invece, ai fini di una completa formazione dei
calciatori, pretendere dai giovani atleti la ricerca spasmodica del
cosiddetto 'collettivo', per cui essi, non appena entrati in
possesso del pallone, non hanno altra preoccupazione che di
passarlo al compagno, magari prestabilito dagli schemi
dell'allenatore: in tal modo si rischia di uccidere la fantasia, la
creatività, il divertimento e il piacere di giocare.
Infine, se non è raccomandabile assegnare subito un ruolo fisso
al giovane principiante e addestrarlo esclusivamente in funzione
di esso, bensì abituarlo ad alternanze e variazioni di posizioni e
di ruoli per sviluppare qualità e attitudini polivalenti, è però
auspicabile che, quando egli abbia accresciuto il proprio
bagaglio tecnico e la capacità di agire nelle varie zone del
campo, si passi a forme di addestramento aventi l'obiettivo di
raggiungere la massima perfezione nell'esecuzione dei compiti e
delle azioni tipiche del ruolo per cui è più predisposto. Infatti, è
vero che il tipo di football che si pratica attualmente richiede
giocatori capaci di agire con disinvoltura ed efficacia nelle
diverse zone del campo, ma questo non significa che attaccanti,
centrocampisti e difensori non debbano essere anche degli
specialisti. La tesi del calcio moderno ‒ "tutti attaccanti e tutti
difensori" ‒ non significa affatto formazione di calciatori
polivalenti a scapito della specializzazione, bensì formazione di
giocatori sempre più specializzati, ma in grado anche di operare
con efficacia in tutte le zone del campo.
Giova ribadire che è importante dedicare molto tempo
all'allenamento delle abilità tecniche: calciare con l'interno, con
l'esterno, con il collo pieno del piede, guidare la palla, dribblare,
fintare, colpire di testa ecc., sono tutti gesti che costituiscono un
bagaglio assolutamente indispensabile per la formazione del
vero giocatore di calcio. D'altra parte, la forza di una squadra è
data innanzitutto dalla qualità dei singoli giocatori e dunque,
quanto più elevato è il livello tecnico dei singoli, tanto più
spettacolare ed efficace risulterà il gioco dell'intera formazione.

Gli schemi tattici


di Adalberto Bortolotti

Dalle origini al passing game


All'inizio il calcio non aveva regole codificate e valide per tutti.
Dunque è privo di senso, per la fase iniziale, parlare di tattiche o
di strategie di gioco e tantomeno di spirito collettivo. Chiunque
venisse in possesso della palla iniziava un'azione individuale
muovendosi in direzione della porta avversaria finché le forze
sorreggevano il suo slancio. In questa prima forma di calcio, gli
undici giocatori si disponevano alla rinfusa e soltanto il
portiere, l'unico autorizzato all'uso delle mani, aveva una sua
specifica caratterizzazione.
In una fase successiva, dopo che la creazione della Football
Association (1863) aveva posto alcune norme fondamentali per
differenziare il calcio dal rugby, davanti al portiere si disposero
in verticale due giocatori, mentre gli altri otto erano unicamente
proiettati all'attacco. Utilizzando le formule aritmetiche che
sono attualmente di uso comune per classificare gli schemi di
gioco, si dovrebbe parlare di 1-1-8, e se consideriamo che il
modulo oggi più diffuso è il 4-4-2, potremmo dedurne che,
dalle origini a oggi, il calcio si è evoluto esclusivamente in fase
difensiva, sottraendo uomini all'attacco, per irrobustire la fase di
copertura.
Furono gli scozzesi, che alla fine del 19° secolo si
distinguevano per praticare il calcio più sofisticato e meglio
organizzato, a modificare per primi lo schieramento standard,
raddoppiando il numero dei giocatori addetti alla difesa della
propria porta. Per rimanere ai numeri, nacque così il 2-2-6: due
coppie verticali di difensori, che dovevano contrastare, su due
successive linee, lo slancio degli attaccanti. È in apparenza
singolare, dunque, che il primo match internazionale della
storia, che oppose il 30 novembre 1872, a Glasgow, il 2-2-6
scozzese all'1-1-8 inglese, si sia concluso a reti inviolate,
nonostante entrambi i moduli adottati fossero nettamente
offensivi. Sin da allora, divenne evidente che l'efficacia di un
attacco non dipende dal numero degli attaccanti, bensì dal loro
razionale impiego.
Quest'epoca del calcio viene definita del kick and yusch ("calcia
e corri"), espressione che sta a indicare un gioco assolutamente
spontaneo, frutto della libera iniziativa dei singoli, e privo di un
benché minimo collegamento fra i diversi reparti. I difensori,
per esempio, provvedevano unicamente a rilanciare il pallone il
più lontano possibile, senza prendere nemmeno in
considerazione l'idea di mettere in azione i propri attaccanti.
Nei college inglesi, questa fase caratterizzata da un gioco
esclusivamente individuale venne chiamata dribbling game.
Fondamentale fu il passaggio, sempre sotto la spinta decisiva
degli scozzesi, al passing game, cioè alla manovra basata sui
passaggi fra i compagni di squadra: è proprio con il passing
game che il calcio inizia la sua lunga e complessa evoluzione
tattica.

La 'piramide' di Cambridge
Lo sviluppo delle strategie di gioco fu senza dubbio agevolato
dal fatto che il calcio di fine secolo si giocasse soprattutto in
ambiente universitario: l'evento agonistico, infatti, divenne
oggetto di studio, in vista di un suo progressivo
perfezionamento. Il college di Cambridge, uno dei più
prestigiosi d'Inghilterra, ideò una formula rimasta fondamentale
nella storia del calcio e alla quale, in ultima analisi, vanno fatti
risalire tutti gli schemi moderni. Il passing game, come si è
visto, aveva introdotto il concetto della collaborazione fra i
compagni di squadra, anche di reparti diversi. Per ottenere una
più razionale occupazione del terreno di gioco, Cambridge
adottò e diffuse uno schema a piramide: davanti al portiere si
collocavano due difensori (backs); poco più avanti si posiziona
un'altra linea, formata da tre giocatori (definiti half-backs, e poi
semplicemente halfs), che dovevano raccogliere le respinte dei
difensori e tramutarle in suggerimento per la linea degli
attaccanti (forwards), composta da cinque uomini che
occupavano l'intera larghezza del campo.
Quando fu introdotta in Italia, questa impostazione a 2-3-5,
portò a definizioni ancora in uso: 'prima linea' (a partire
dall'alto) per gli attaccanti, 'linea mediana' per quella intermedia
(e mediani furono definiti i suoi interpreti), 'terza linea' per gli
ultimi difensori, chiamati quindi terzini. La rappresentazione
grafica di questo schieramento, comprendente un portiere, due
terzini, tre mediani, cinque attaccanti, assume la forma di una
piramide rovesciata, e col nome di 'piramide' questo schema si
diffuse in tutta Europa. Si tratta di un sistema di gioco già
completo, cui manca però un elemento: la marcatura, cioè
l'abbinamento di un proprio difensore a uno specifico attaccante
avversario, e proprio per questa caratteristica, in un certo senso,
la piramide di Cambridge può essere considerata un antecedente
della 'zona'. È comunque da questa formula che partono i due
schemi gioco destinati alla massima diffusione nel periodo fra
le due guerre: il 'metodo' e il 'sistema'.

Il 'metodo' e il centromediano
Chiaramente ispirato alla piramide, il metodo venne anche
chiamato 'modulo a W', perché la disposizione dei giocatori in
campo disegnava due W poste l'una sull'altra. Come nella
piramide, davanti al portiere prendevano posizione i due terzini,
chiamati a presidiare la propria area di rigore senza specifiche
funzioni di controllo nei confronti degli avversari. La linea
mediana veniva però diversamente articolata: i due mediani
laterali si allargavano sulle due opposte fasce di campo e
finivano per controllare direttamente gli attaccanti esterni
avversari, cioè le 'ali', mentre il mediano centrale, detto
'centromediano', diventava la figura dominante della squadra.
Lievemente arretrato rispetto ai due laterali, aveva il doppio
compito di opporsi al centravanti avversario e di capovolgere il
fronte del gioco con precisi e potenti rilanci che mettevano in
moto la controffensiva. In genere, il suo rinvio veniva raccolto
dalle mezzali, che impostavano la manovra sulle ali, i cui cross
chiamavano in causa, per la conclusione a rete, il centravanti.
Perno del metodo, il mediano centrale venne indicato anche
come 'centromediano metodista', ruolo che assommava le
funzioni svolte attualmente dal 'libero' difensivo e dal regista di
centrocampo. In sintesi, il mediano centrale era l''uomo-
squadra'.
Rispetto alla piramide, inoltre, gli attaccanti non erano più
disposti tutti e cinque su una medesima linea: i due interni, o
mezzeali, erano più arretrati rispetto alle ali e al centravanti. In
tal modo, passando dal 2-3-5 della piramide a un più articolato
2-3-2-3, il metodo raggiunse il perfetto equilibrio numerico fra
giocatori di difesa e di attacco.
Questo schema tattico venne esaltato dalla scuola danubiana, la
cui squadra più rappresentativa fu il Wunderteam austriaco, e
raggiunse i risultati migliori con l'Italia di Vittorio Pozzo, che
proprio grazie al metodo vinse due titoli mondiali consecutivi,
nel 1934 e nel 1938, inframmezzati dalla medaglia d'oro ai
Giochi Olimpici del 1936. Deve essere però precisato che
l'Italia diede del metodo classico un'interpretazione particolare,
potenziando la fase difensiva e adottando l'efficacissima arma
offensiva del contropiede, cioè invogliando la squadra
avversaria all'attacco in massa, al fine di coglierla sguarnita
mediante improvvisi contrattacchi.

Il 'sistema' inglese o 'WM'


Il 'metodo' era la tattica ideale per un gioco essenzialmente
tecnico, basato sull'abilità di palleggio e sui prolungati scambi
di passaggi, e mal si adattava, quindi, al calcio inglese, che si
sviluppava invece in chiave prevalentemente atletica, veloce,
aggressiva, esaltando il tackle, cioè il duro contrasto uomo
contro uomo per la conquista del pallone, ed era alla ricerca di
un modulo di gioco più congeniale a queste caratteristiche.
L'occasione fu offerta dalla modifica alla norma sul fuorigioco,
apportata nel 1925 dall'IFAB(International football association
board), l'ente preposto ai regolamenti internazionali. Sino ad
allora un attaccante che si trovasse più avanzato rispetto alla
linea del pallone era considerato in posizione regolare soltanto
se, al momento in cui partiva il passaggio destinato a
raggiungerlo, almeno tre avversari (normalmente due più il
portiere), si frapponessero fra lui e la porta. Si trattava di una
regola penalizzante per il gioco di attacco: bastava infatti che
uno dei terzini avanzasse, lasciando l'altro a presidio dell'area,
perché il centravanti si trovasse sistematicamente in posizione
irregolare. Come conseguenza, si era sviluppata la tendenza a
mantenere il centravanti arretrato, con il ruolo di rifinitore per
gli interni che, partendo da lontano, potevano arrivare al gol
senza cadere nella trappola del fuorigioco. Nel 1925 l'IFAB
ridusse a due (in pratica uno più il portiere) il numero dei
difensori che un attaccante doveva avere tra sé e la porta, e
stabilì inoltre che non esisteva fuorigioco nella propria metà
campo.
La modifica favorì la ripresa del calcio offensivo. Fu Herbert
Chapman, mediocre ex giocatore ma grande stratega, assunto
dall'Arsenal per risollevare le declinanti sorti del club, a mettere
a punto una nuova tattica di gioco, che da lui si
chiamò Chapman system, e che si diffuse ovunque
semplicemente con il nome di 'sistema'. In questo schema
tattico, la figura determinante rimaneva il centromediano che
però, a differenza di quanto previsto dal 'metodo', veniva
arretrato sulla stessa linea dei terzini, i quali a loro volta si
allargavano sulle fasce laterali, dando vita a una difesa a tre. Il
centromediano, piazzato nel cuore del reparto arretrato, doveva
prendersi direttamente cura ('a uomo', come si direbbe oggi) del
centravanti avversario: nasceva così il ruolo specifico dello
'stopper'. I due mediani laterali avanzavano e formavano, con le
due mezzali, il quadrilatero di centrocampo, mentre le ali e il
centravanti costituivano il terzetto di punta. Rispetto al 2-3-2-3
del metodo, il sistema presentava un 3-2-2-3 e, nella
rappresentazione grafica, la squadra non disegnava più due W,
bensì una W e una M, ed è infatti con il nome 'WM' che il
sistema inglese si diffuse in tutto il mondo. Le differenze fra
metodo e sistema potrebbero apparire poco significative, ma in
realtà non cambiò soltanto la posizione sul campo di alcuni
giocatori, quanto piuttosto l'intera filosofia di gioco. Le
marcature divennero individuali, strette, a volte asfissianti; la
frammentazione della partita in una serie di duelli uomo contro
uomo determinò un calcio più aggressivo, meno tecnico e
fantasioso, più veloce e fisico.
In Inghilterra il successo del sistema fu immediato, anche
perché l'Arsenal, reimpostato da Chapman, uscì da un lungo
periodo di crisi e ottenne una lunga serie di vittorie,
conquistando una Coppa d'Inghilterra e tre titoli assoluti
nell'arco di cinque anni. Questi positivi risultati indussero, come
sempre avviene, molte altre squadre ad adottare il nuovo
schema tattico: tutti i club inglesi si convertirono rapidamente al
sistema, e anche in Germania il successo fu notevole (sotto la
guida del tecnico Otto Nerz, i tedeschi furono la sola nazionale
sistemista ai Mondali del 1934 vinti dall'Italia, che invece, come
abbiamo visto, applicava il metodo). Nell'Europa centrale, culla
della scuola danubiana, e in Italia il processo fu più lento. Nel
Campionato italiano la prima squadra ad adottare il sistema fu il
Genoa, nella seconda metà degli anni Trenta, ma solo le vittorie
in serie del Grande Torino ‒ la cui superiorità era tale che
avrebbe dominato con qualsiasi tattica, e che nel 1943 firmò il
primo scudetto sistemista del calcio italiano ‒ indussero
nell'immediato dopoguerra a una generale conversione. L'ultima
squadra ad abbandonare il metodo fu il Bologna. Alla nuova
realtà, malgrado le resistenze di Vittorio Pozzo, metodista
convinto, dovette arrendersi anche la nazionale azzurra, che
però incontrò non pochi problemi nel cambio di impostazione.

'Mezzo sistema', 'vianema', 'catenaccio'


Come Pozzo aveva intuito e sostenuto, con la conseguenza di
essere rimosso dall'incarico di commissario tecnico della
nazionale italiana, il sistema puro, quale lo concepivano gli
inglesi, non si adattava al calcio italiano. Il passaggio alla nuova
impostazione tattica non era ancora completato, che già si
cominciò ad apportare correzioni e adattamenti al modulo
originario. Nel 1944, vincendo un Campionato di guerra non
riconosciuto ufficialmente, la squadra dei Vigili del Fuoco di La
Spezia, guidata dal tecnico Barbieri, ex genoano e quindi tra i
primi giocatori a praticare il sistema in Italia, aveva applicato il
'mezzo sistema', un ibrido fra metodo e sistema. Uno schema
simile a questo era stato adottato nella stagione 1946-47 anche
dal Modena, che schierava un terzino, Remondini, a guardia del
centravanti avversario e l'altro, Braglia, libero da marcature e
pronto a intervenire in seconda battuta. Quel Modena arrivò
secondo, dietro all'imbattibile Torino, miglior risultato di tutta
la sua storia. Lo stesso Nereo Rocco, alle sue prime armi come
tecnico della Triestina, si segnalò per una tattica che
privilegiava la fase difensiva, sottraendo un uomo all'attacco per
dotare la squadra di un ultimo baluardo, che la rendesse meno
vulnerabile di fronte alle squadre più ricche, in grado di
ingaggiare i più forti attaccanti stranieri.
La variante più famosa e geniale del sistema, rimasta legata al
nome del suo ideatore, è però quella che consentì alla
Salernitana di accedere, nel 1947, alla massima categoria. Il
tecnico Gipo Viani, resosi conto che il parco giocatori della
Salernitana era troppo modesto per affrontare con successo,
uomo contro uomo, le avversarie più forti, mise in atto un
accorgimento semplice ed efficace, schierando con il numero 9,
quindi come nominale centravanti, un giocatore che aveva
invece caratteristiche difensive. Questi, al fischio d'inizio,
retrocedeva e andava a controllare il centravanti avversario,
liberando così dall'incarico il proprio centromediano, che si
portava alle spalle di tutti, per accorrere ovunque si aprisse una
falla e rimediare all'errore di un compagno o allo spunto
vincente di un avversario. Questo sistema di gioco, che
potenziava la difesa e impoveriva l'attacco, fu chiamato
'vianema', e si ispirava al verrou che il tecnico austriaco Karl
Rappan aveva fatto giocare alla Svizzera nei Mondiali del 1938.
Si trattava di una sorta di anticipazione di quel 'catenaccio', che
sarebbe in seguito divenuto il simbolo della vocazione
ostruzionistica del calcio italiano, in un'ottica spregiativa che
andrebbe però rivista in sede critica. In realtà, quando venne
applicato da grandi squadre, il catenaccio si rivelò una tattica
efficacissima, utilizzando la quale l'Inter allenata da Foni vinse
due scudetti consecutivi, nel 1953 e nel 1954. La mossa
decisiva era l'arretramento dell'ala destra interista, Armano, che
in fase difensiva prendeva il posto del terzino Blason, il quale a
sua volta retrocedeva alle spalle degli altri difensori-marcatori
con la funzione di 'spazzino dell'area'. Una volta in possesso di
palla, l'Inter ripristinava le posizioni originarie e in tal modo
rendeva più impenetrabile la difesa, ma non penalizzava
l'attacco, quando manteneva l'iniziativa del gioco. Come
sempre, la tattica era tanto più funzionale quanto più efficaci ne
erano gli interpreti. Disponendo di attaccanti eccezionali
(Lorenzi, Nyers, Skoglund), quell'Inter poteva permettersi di
lasciarli talvolta in inferiorità numerica. Deve essere ricordato
che Blason era già stato il battitore libero della Triestina di
Rocco, che abbiamo ricordato come una delle prime squadre ad
adottare quello che si poteva chiamare 'mezzosistema'.

Sud America: dalla diagonal al 4-2-4


Anche nella scuola sudamericana, che contendeva a quella
europea la leadership mondiale, si era sviluppata la ricerca di un
razionale schema di gioco. Argentina e Brasile preferivano
affidarsi al libero talento dei loro fuoriclasse (e il Brasile spesso
scadeva nell'anarchia). L'Uruguay, invece, si era affermato
proprio in virtù di una rigorosa organizzazione, che curava
soprattutto la fase difensiva, e sul canovaccio del metodo già
negli anni Venti e Trenta aveva adottato una variante
chiamata en abanico ("a ventaglio"), che prevedeva il
centravanti arretrato. Una figura, questa, che si ritrova
nella diagonal, modulo di gioco sviluppato nei primi anni del
dopoguerra dalle due principali squadre brasiliane di Rio,
Flamengo e Fluminense. La diagonal si ispirava al sistema
inglese, ma con una particolare attenzione alla manovra sulle
fasce laterali, dove terzino e ala operavano in tandem,
spostando poi il gioco sul centro (da qui il nome di diagonal).
Qui il mediano, con la maglia numero 5, vero perno della
squadra, agiva in sintonia con il centravanti, più arretrato nei
confronti dei compagni di reparto. Il più celebre centravanti
arretrato del Brasile fu Ademir, tiratore scelto dei Mondiali
1950, dove peraltro la diagonal del Brasile fu
sorprendentemente battuta dall'Uruguay, schierato secondo
dettami assai vicini al catenaccio europeo.
Il centravanti arretrato fu anche il fiore all'occhiello, in senso
tattico, della più forte nazionale degli anni Cinquanta, la Grande
Ungheria, che disponendo di autentici fuoriclasse poteva
permettersi un modulo assai spregiudicato: tre difensori in linea,
come nel sistema puro, due mediani di filtro e rilancio, il
centravanti arretrato (Hidegkuti) in linea con le due ali, mentre i
due teorici interni, Kocsis e Puskas, costituivano in realtà le
punte più avanzate, quasi un doppio centravanti. Rispetto al
sistema classico, o 'WM', il sistema ungherese fu definito 'MM'
(3-2-3-2).
La vera rivoluzione tattica si verificò in Sud America nel 1958 a
opera del Brasile, affidato alla guida dell'oriundo italiano
Vicente Feola. Mentre quasi tutta l'Europa, sotto la spinta
dell'Italia, giocava con il libero fisso in difesa, il Brasile si
presentò con tre linee parallele: quattro difensori (due terzini e
due centrali); due mediani, uno di contenimento e uno di regia
(il grande Didí); quattro attaccanti. Il 4-2-4 può essere
considerato l'antecedente di tutte le tattiche moderne, perché
dalle sue correzioni, in senso difensivo, discendono prima il 4-
3-3 (con un'ala sottratta all'attacco e aggiunta al centrocampo),
poi l'ancora attualissimo 4-4-2, dove difesa e centrocampo
presentano una disposizione speculare (due laterali e due
centrali) e dove gli attaccanti, ridotti a due, si spostano
sull'intero fronte e creano varchi per gli inserimenti dei
compagni più arretrati. È, in altri termini, la 'zona' che si
contrappone al calcio all'italiana, basato su marcature
individuali e il libero fisso, alle spalle della linea difensiva.

Il 'gioco totale' degli olandesi


Il 4-2-4 brasiliano, con i suoi derivati, stentò a trovare
applicazione in Europa, dove resisteva il più pragmatico calcio
all'italiana, esaltato dai successi dell'Inter di Herrera. Perché si
verificasse un vero cambiamento, occorreva un'autentica
rivoluzione: nei primi anni Settanta, l'Olanda (una nazione che
sino ad allora era rimasta molto ai margini del calcio d'élite),
con i suoi club, soprattutto l'Ajax, e la sua nazionale, ma anche
grazie all'eccezionale fioritura di un gruppo di talenti che
avrebbero saputo applicare con successo qualsiasi modulo,
attaccò il punto fermo di ogni strategia sino allora teorizzata: la
fissità dei ruoli. Il 'calcio totale' del tecnico Rinus Michels
prevedeva infatti una completa intercambiabilità di funzioni fra
i giocatori in campo: persino il portiere poteva usare i piedi e
uscire dall'area per partecipare alla manovra. Si trattava di una
rivoluzione 'culturale' prima ancora che tecnica. I difensori
appoggiavano l'attacco, gli attaccanti retrocedevano a coprire la
propria area e, quindi, al calciatore specializzato si sostituiva il
calciatore universale. Un fuoriclasse, Johan Cruijff, divenne il
simbolo del nuovo calcio. Come disposizione iniziale, l'Olanda
non si discostava troppo dal 4-3-3, ma la differenza era
determinata dagli spostamenti in campo, dal ritmo altissimo, da
figure di gioco innovative come il fuorigioco sistematico
(avanzata sincrona e improvvisa di tutti i difensori, per mettere
in posizione irregolare gli attaccanti avversari) o il pressing,
cioè l'aggressione all'avversario in possesso di palla, attuata da
due o tre giocatori contemporaneamente.
Il calcio totale olandese sembrò, all'epoca della sua
affermazione, la soluzione ideale, ma quel modulo ‒ come tutti,
del resto ‒ era strettamente legato all'abilità degli interpreti:
quasi tutti i tentativi di imitazione fallirono e la stessa Olanda,
nella successiva generazione, non replicò i suoi successi. Fu una
squadra italiana, sul finire degli anni Ottanta, il Milan allenato
da Arrigo Sacchi e del quale non a caso facevano parte tre
campioni olandesi, Gullit, Van Basten e Rijkaard, a proporre la
più attendibile rivisitazione del calcio totale. Quel Milan vinse
più all'estero che in Italia, e fu ammirato nel mondo come
l'esempio di un calcio spettacolare, basato sul contributo
collettivo nel quale si fondevano le prodezze dei singoli.

Le varie anime della 'zona'


La storia dell'evoluzione tattica del calcio è fatta di continue
contaminazioni. Dopo la rivoluzione olandese, si susseguirono
fasi di restaurazione, con periodici ritorni di marcature
individuali e di libero fisso. Una delle più efficaci sintesi tra i
vari moduli fu quella adottata dall'Italia di Bearzot, che vinse il
titolo mondiale nel 1982, adottando uno schema di gioco
definito 'zona mista'. La difesa rispettava i canoni del calcio
all'italiana, con rigorosi controlli individuali e il battitore libero
(però di manovra, come il grande Scirea). Negli altri reparti,
invece, gli azzurri si disponevano a zona, con frequenti
interscambi. Specie in Italia il dibattito fra difesa a uomo e
difesa a zona assunse toni accesi, come si era verificato anni
prima tra i fautori del metodo e quelli del sistema. Il primo
scudetto conquistato da una squadra schierata rigorosamente a
zona fu quello vinto nel 1983 dalla Roma, allenata dallo
svedese Nils Liedholm. Quest'ultimo aveva già conquistato il
titolo quattro anni prima alla guida del Milan, che però non si
difendeva rigorosamente a zona, in quanto la coppia centrale
della retroguardia prevedeva Bet in funzione di stopper e
Franco Baresi in veste di libero.
A poco a poco, la difesa a zona si è affermata, perdendo però
qualche caratteristica tipicamente olandese, penalizzata dalle
nuove regole. Alcune modifiche della norma sul fuorigioco, per
esempio, hanno reso troppo rischioso il ricorso sistematico a
questo espediente difensivo, così come il divieto di
retropassaggio al portiere e l'espulsione per fallo commesso in
una chiara azione da gol hanno consigliato di correggere lo
schieramento rigorosamente in linea del reparto difensivo.
L'ultima evoluzione ha così riguardato prevalentemente l'assetto
della difesa. Da quella classica a quattro uomini, si è passati a
quella a cinque (tre centrali, di cui uno assai simile al vecchio
libero, e due laterali, i terzini di un tempo), o a quella a tre, in
cui gli esterni vanno a integrare il centrocampo, retrocedendo
soltanto in situazione di pericolo. Attualmente i moduli più
applicati sono l'inossidabile 4-4-2, che garantisce tuttora la
migliore copertura degli spazi, il 4-3-3, che privilegia la fase
offensiva, con due attaccanti esterni e uno centrale, il 3-4-1-2,
che prevede la presenza di un trequartista, in genere giocatore
molto tecnico e fantasioso, che occupa lo spazio fra le due linee
di attacco e di centrocampo e ha la funzione principale di creare
opportunità da gol per le due punte. Altre varianti prevedono la
difesa a quattro o a cinque giocatori.
Ogni squadra, in realtà, adotta lo schema più congeniale ai
giocatori che ha a disposizione, piuttosto che forzare le
vocazioni tecniche dei singoli in un modulo astratto. Di
conseguenza, infinite sono le varianti, frequenti i ritorni al
passato (la difesa a tre è la rivisitazione del sistema), ma
l'ultima vera rivoluzione resta, per ora, quella olandese degli
inizi degli anni Settanta. Da allora, vi è stato solo un paziente
lavoro di perfezionamento e di adattamento, ma nessuna
intuizione veramente originale. Il calcio del Duemila attende
ancora il suo Chapman o il suo Michels.

Le tecniche di allenamento
di  Gianni Leali

Dalle origini del calcio agli anni Cinquanta


Riguardo alla fase pionieristica del calcio, non mancano notizie
anche piuttosto dettagliate sull'evoluzione delle regole di gioco,
sui primi tipi di schieramento e sull'introduzione delle diverse
tattiche, nonché su alcuni incontri internazionali
particolarmente significativi. Siamo invece privi di un'adeguata
documentazione sulla durata e le modalità di allenamento.
Questo, con ogni probabilità, doveva svolgersi in maniera assai
semplice, consistendo in qualche incontro, una o due volte la
settimana, nelle ore libere, sul 'campo dei giochi', dove ci si
addestrava in gare improvvisate, a una o a due porte, in
formazioni regolari o ridotte. L'idea di una vera e propria
preparazione specifica non era ancora presa in considerazione.
In Europa, soltanto dopo la Prima guerra mondiale si cominciò
a considerare la necessità di una buona preparazione fisica ai
fini della prestazione del calciatore, anche se l'attenzione era
ancora orientata quasi esclusivamente sul perfezionamento
tecnico. Nel volume Tecnica del giuoco del calcio (1928),
l'ungherese Géyza Széhany metteva in rilievo la grande
importanza della resistenza e consigliava attività quali la corsa
di durata, il nuoto, il ciclismo. È ben vero che si tratta di
consigli generali, senza alcun preciso indirizzo sistematico, ma
ciò che importa è che la resistenza viene considerata un fattore
determinante per la prestazione calcistica.
Alcuni anni dopo, in Caligaris insegna (1934), Ermanno
Marielli rivolge pesanti critiche agli allenatori delle grandi
società, cui imputa l'empirismo da ex calciatori, affermando che
occorre variare il lavoro dei giocatori in base al ruolo, alle
caratteristiche fisiche e al peso corporeo. Per i giocatori
sovrappeso, per esempio, vengono consigliati salti alla corda
per un'ora intera, con intervalli di 5 o 10 minuti.
Secondo le notizie giornalistiche riguardanti i ritiri collegiali
della nazionale italiana ‒ che fu per due volte consecutive
campione del mondo (1934 e 1938), conquistando nel frattempo
(Berlino 1936) anche l'alloro olimpico ‒, la preparazione fisica
(o attività ginnico-atletica, come si era soliti definirla) veniva
effettuata a scaglioni e variava in base ai ruoli. Per i portieri
prevedeva soprattutto esercizi di agilità e salti alla corda, senza
giri di campo o attività di corsa; per i terzini, brevi tratti di corsa
veloce (sprint), esercitazioni di salto, ginnastica di
mobilizzazione; per i mediani, corsa di fondo, alternata con la
marcia, fino a raggiungere un totale di 4-5 km e alcune
ripetizioni di sprint; per gli attaccanti, la massima importanza
era data agli esercizi di scatto, con molteplici varianti (arresti
repentini, cambi di direzione ecc.).
Per la questione dell'allenamento fisico, almeno fino alla fine
della Seconda guerra mondiale, non sembra si siano tentate
nuove strade né sperimentati nuovi metodi. Il maggior interesse
calcistico, in quei tempi, era orientato sulla dialettica dei vari
sistemi di gioco, anche se proprio l'introduzione di schemi più
razionali per quanto riguardava la distribuzione dei giocatori sul
campo e dei ruoli loro assegnati avesse cominciato a sollecitare,
come naturale conseguenza, il problema di un allenamento
fisico specifico per le forme di movimento che il particolare
compito esigeva.
Fu però negli anni subito dopo la Seconda guerra mondiale che
la preparazione atletica cominciò a essere considerata una
componente essenziale dell'allenamento calcistico e l'attenzione
degli esperti a orientarsi sulle metodiche più adatte a portare il
calciatore, nel modo più rapido e continuativo possibile, a
esprimere la sua 'vitalità di gioco': arrivare per primi sulla palla,
saltare più in alto dell'avversario, resistere alle sue cariche,
mantenere inalterati i riflessi per tutta la durata dell'incontro
erano elementi che quasi tutti i tecnici consideravano ormai
fondamentali per il conseguimento della vittoria.
Il problema della preparazione atletica nell'allenamento
calcistico venne affrontato per la prima volta in modo
sistematico e razionale ‒ anche se incerta e incompleta fu la
soluzione prospettata ‒ dall'ungherese Francisco Platko, in Arte
y ciencia del futbol moderno (Santiago del Cile, 1946). Platko,
divenuto allenatore dopo aver giocato per molti anni e in molti
paesi, affermava, tra l'altro, che "è un problema molto discusso
se il giocatore di calcio abbia bisogno di poco o di molto
allenamento" e, con notevole intuito, insisteva sul fatto che esso
dovesse essere comunque caratterizzato dall'alternanza di fasi
intense con altre relativamente leggere. Questa alternanza deve
manifestarsi sia nella successione delle varie forme di attività
nel corso della seduta, sia nella successione delle varie sedute.
Per l'attività di corsa, per esempio, Platko consigliava di
alternare corse rapide con corse lente. Mancano, purtroppo,
nella sua opera esempi di sedute complete di allenamento, che
possano dare un'esemplificazione concreta dei principi teorici
da lui enunciati.
Un modello di seduta di allenamento, descritto sinteticamente
da Jean Cornilli, istruttore ai Corsi per allenatori in Francia, in
Le football dévoilé (1951), prevedeva: a) messa in azione; b)
esercizi addominali; c) esercizi di agilità e di acrobatica
elementare (capriole, cadute ecc.); d) esercizi tecnici con il
pallone; e) defaticamento. La successione delle esercitazioni
indica che, nell'ambito della seduta di allenamento, viene
attuato il cosiddetto metodo progressivo-parabolico. A tale
metodo si attengono anche le pubblicazioni tecniche edite a
cura della FIGC (1950-1952), le quali, corredate da alcune
nozioni generali sui criteri di valutazione, sulla morfologia e
costituzione umana, sulle leggi di crescenza, mettono in
evidenza le caratteristiche generali della contrazione muscolare
statica e dinamica. Il gioco del calcio, pur rimanendo valutato
nella sua globalità, comincia a essere studiato e analizzato nelle
sue componenti. Esercizi di forza sono debitamente alternati
con altri di distensione e di mobilità articolare. Si introduce il
concetto di preatletismo generale, orientato parallelamente
verso il potenziamento delle qualità muscolari e di quelle
organiche. Viene presa in esame la tecnica della corsa e del
salto, con particolare riferimento ai movimenti e alle esigenze
calcistiche.

Dal 1954 ai Mondiali del 1970 in Messico


Nel 1954, in Svizzera, la Germania Occidentale vinse i
Campionati del Mondo. Nella finale contro la rappresentativa
ungherese, considerata la grande favorita del torneo, la squadra
guidata da Sepp Herberger lasciò stupefatti gli spettatori di tutto
il mondo (per la prima volta, infatti, le partite vennero trasmesse
per televisione). Questo successo fu universalmente considerato
una vittoria della condizione fisica sulla tecnica e sulla tattica.
Da qualche anno, infatti, la nazionale ungherese aveva riscosso
ovunque consensi e vittorie per il suo gioco bello ed efficace
che alla fantasia e all'abilità dei singoli sapeva unire uno
spettacolare movimento collettivo. Lo stesso Herberger rispose,
almeno parzialmente, al grande interesse suscitato dalla vittoria
dei calciatori tedeschi riguardo ai metodi di allenamento
adottati, in un film didattico apparso qualche anno più tardi.
Contrariamente a quanto sarebbe stato logico attendersi (e cioè
l'esaltazione del condizionamento fisico dal punto di vista
organico e muscolare), l'idea prevalente era che la forma di
allenamento più idonea per il calciatore consistesse nel ripetere
metodicamente i movimenti che sarebbe stato chiamato a
compiere durante la gara.
Più esplicitamente, l'argomento fu trattato in una pubblicazione
redatta da un giovane allenatore, allievo dello stesso Herberger,
Hennes Weisweiler, che in seguito sarebbe divenuto famoso per
aver condotto a prestigiosi risultati la squadra da lui allenata per
molti anni: il Borussia Mönchengladbach. Il libro di
Weisweiler, dal titolo Der Fussbal-Taktik, Training und
Mannschaft, pubblicato per la prima volta nel 1959, è stato
successivamente più volte rielaborato. Nel capitolo dedicato alla
condizione fisica, già nella prima edizione si fa riferimento ad
alcune controversie ‒ che si faranno sempre più aspre negli anni
seguenti ‒ relative alla eccessiva 'morbidezza' dell'allenamento
calcistico nei confronti di altre specialità e discipline sportive.
L'autore, in particolare, si dichiara apertamente contrario
all'utilizzo, nell'allenamento dei giocatori di calcio, delle
metodiche specifiche dell'atletica leggera, da più parti proposte
in alternativa a quelle adottate dalle squadre. Secondo
Weisweiler, per il gioco del calcio non devono essere attuati
procedimenti di allenamento rigidi ed eccessivamente
sistematici: il calciatore non è né un velocista, né un
mezzofondista, né un maratoneta, e nemmeno un sollevatore di
pesi. Egli deve semplicemente giocare a calcio, e per far questo
gli occorrono la forza, la velocità, la resistenza necessarie per
utilizzare la propria tecnica al servizio della squadra: ciò
richiede un allenamento specifico, che non può essere preso a
prestito altrove. Le misurazioni oggettive con cui si cerca di
valutare l'insieme delle prestazioni di un calciatore sono
destinate a offrire un quadro incompleto, perché non dicono
nulla del grado di tensione fisica e psichica con cui viene
condotta ogni azione. Riconosciuto il valore accessorio di un
buon addestramento alla corsa e al salto, di un'adeguata
ginnastica di rafforzamento per i muscoli del tronco, delle spalle
e delle gambe, Weisweiler insiste sulla preponderante efficacia
delle forme di allenamento basate sui giochi, con e senza
pallone: è soltanto per mezzo del gioco che il calciatore può
essere stimolato a partecipare a un lavoro di allenamento
sufficientemente intenso e opportunamente vario. Le attività
calcistiche fondamentali, sempre secondo l'autore, sono i giochi
3:1, 4:2, 3:2, 1:1, 3:3, oltre a forme ridotte e semplificate di
pallamano e di pallacanestro.
I Mondiali del 1958, disputati in Svezia, furono vinti dal Brasile
soprattutto grazie all'eccelso valore tecnico dei giocatori: i due
Santos, Didí, Vavà, Pelé, Garrincha possedevano tanta tecnica e
tanta fantasia da non temere rivali in tutto il mondo. Tuttavia, in
uno studio sulla preparazione delle squadre partecipanti,
l'ungherese Arpad Csamadi affermò di essere rimasto sorpreso
dalla serietà e dalla disciplina con cui i giocatori brasiliani,
considerati generalmente poco disposti a sottoporsi a forme di
allenamento intense e impegnative, seguivano le varie
esercitazioni preparatorie, anche di natura squisitamente
atletica.
Nel 1961, a cura della Commissione tecnica dell'UEFA, fu
organizzato a Macolin, in Svizzera, il Primo corso
internazionale per allenatori di calcio. Il programma
comprendeva anche alcune relazioni, conferenze, dimostrazioni
pratiche, riguardanti l'allenamento per il condizionamento
fisico. Il relatore principale fu Walter Winterbottom, che per
molti anni era stato il selezionatore della rappresentativa
nazionale inglese. Dopo aver esposto i risultati di alcuni suoi
studi sulla prestazione di corsa del calciatore in gara,
Winterbottom illustrò e diede dimostrazioni pratiche di due
forme di allenamento basate sul 'metodo del circuito' (circuit
training): una per la resistenza muscolare, l'altra per la
resistenza organica. La dimostrazione suscitò grande interesse
nei partecipanti. Il circuit training calcistico, con opportune
aggiunte o modifiche in relazione all'età e allo sviluppo tecnico
degli allievi, fu poi pubblicato in manuali e riviste specializzate,
e molti allenatori cominciarono a metterlo in pratica sul campo,
inserendolo nei loro programmi di allenamento. Occorre notare,
però, che secondo Winterbottom tale circuito doveva
comprendere tutta l'attività per il raggiungimento e il
mantenimento della condizione fisica, sostituendo
completamente ogni altra forma di esercitazione.
Nel 1962, sempre a cura dell'UEFA, venne organizzato il
Secondo corso internazionale per allenatori di calcio, che si
svolse presso la Scuola di sport di Hennef-Sieg (Bonn). Erano
da poco terminati i Campionati del Mondo in Cile, vinti per la
seconda volta consecutiva dal Brasile, che aveva schierato una
formazione comprendente gli 8/11 della stessa squadra che
aveva trionfato quattro anni prima in Svezia. Per quanto
riguarda i problemi del condizionamento fisico, Winterbottom
presentò un programma di interval training, cosiddetto 'dei 45
secondi'. Si trattava di uno fra i primi tentativi di applicazione
all'allenamento calcistico di una metodica che a quel tempo
godeva di grande prestigio, per i risultati già conseguiti in altre
discipline sportive. L'interval training di Winterbottom, però,
anche per alcune deviazioni dalla forma originaria che lo
rendevano particolarmente intenso e faticoso, non trovò largo
seguito. Si sviluppava invece la tendenza generalizzata a
inserire nel programma di allenamento dei calciatori nuove
elaborazioni di metodiche in uso in altri sport quali isometria,
body-building, power-training, naturalmente adattate alle
esigenze del calcio.
Nel 1966, a Londra, la finale del Campionato del Mondo vide
contrapposte Inghilterra e Germania Occidentale, le due
nazionali che già da alcuni anni venivano giudicate le tipiche
rappresentanti del calcio cosiddetto atletico. Con questa
denominazione veniva a quei tempi indicato il tipo di gioco
praticato dalle squadre di scuola anglosassone e nordeuropea,
considerato il più spettacolare ed efficace. Di fronte
all'eccellenza dei risultati, per mantenersi al passo, tutte le altre
scuole cercarono di uniformarsi allo spirito di quel gioco e ai
metodi di preparazione che ne erano alla base.
L'anno successivo ai Mondiali d'Inghilterra, secondo la prassi
ormai consueta, venne indetto dall'UEFA il Convegno
internazionale per allenatori di calcio, che si svolse a Zeist, in
Olanda, dal 25 giugno al 2 luglio 1967. Fra i molti oratori e
dimostratori che si alternarono al microfono e sui terreni di
allenamento, i più seguiti, naturalmente, furono l'inglese Allen
Wade e il tedesco Helmut Schön. Le loro relazioni
dimostrarono ampiamente, seppure ce ne fosse stato bisogno,
l'importanza della preparazione atletica nell'allenamento
calcistico e dello sviluppo, attraverso l'esercizio, delle qualità
fisiche richieste al calciatore: resistenza muscolare, resistenza
organica, forza, velocità. Le procedure di allenamento dovevano
avere una stretta attinenza con le esigenze calcistiche e,
soprattutto, con combinazioni di gioco eseguite alla massima
velocità possibile. Oltre alle relazioni di Wade e Schön, suscitò
notevole interesse anche l'illustrazione, da parte dello scozzese
Roy Small, di una seduta di interval training calcistico: questa si
basava su una distanza di 100 m da ripetersi globalmente per 15
volte con un intervallo di recupero variabile tra 60 e 75 secondi
fra una ripetizione e l'altra. Il programma completo avrebbe
compreso l'inserimento di questo tipo di lavoro, per quattro
settimane consecutive, durante il periodo di allenamento
precampionato.
I Mondiali d'Inghilterra, in ultima analisi, avevano evidenziato
il fatto che il calcio moderno non poteva più basarsi
esclusivamente su una tecnica raffinatissima o su accorgimenti
tattici particolari capaci di neutralizzare l'eventuale superiorità
dell'avversario, ma richiedeva anche e soprattutto giocatori
dotati di elevato dinamismo.
I Campionati del Mondo del 1970 in Messico, così come era
avvenuto per le Olimpiadi che si erano svolte nella stessa sede
due anni prima, richiamarono, al seguito degli atleti e delle
squadre, medici, biologi, ricercatori. Con l'obiettivo principale
di esaminare le reazioni dell'organismo umano in condizioni di
massima prestazione in altitudine, veri e propri laboratori
scientifici attraversarono l'oceano per svolgere la loro opera
direttamente alle elevate quote dell'altipiano messicano. La
nazionale italiana, già campione d'Europa due anni prima a
Roma, ottenne il titolo platonico di vicecampione del Mondo
dopo aver superato la Germania Occidentale, depositaria del
calcio atletico, al termine di una partita protrattasi per due ore e
rimasta famosa per il suo risultato altalenante fino agli ultimi
minuti. Fu il Brasile, comunque, a vincere quei Mondiali e a
riportare in auge la scuola sudamericana.

Dai Mondiali del Messico ai nostri giorni


Negli ultimi trent'anni nel football si sono verificati notevoli
cambiamenti sul piano tecnico-tattico e fisico. Ciò è avvenuto
soprattutto grazie al calcio totale praticato dagli olandesi ai
Mondiali del 1974 in Germania Ovest e dal Milan di Sacchi nel
periodo 1987-91, che ha contribuito in maniera decisiva ad
affermare concetti di gioco quali il pressing, i raddoppi di
marcatura, la ricerca costante della superiorità numerica in fase
sia difensiva sia offensiva tramite il movimento ininterrotto da
parte di tutti i giocatori della squadra.
Lo studio del condizionamento fisico, di conseguenza, ha
acquisito sempre maggiore importanza ed è divenuto sempre
più intenso e accurato, specialmente in Italia dove peraltro, a
partire dal 1991, il Settore tecnico della FIGC organizza
annualmente a Coverciano (Firenze) un corso specifico per
l'abilitazione a preparatore atletico del calcio: iniziativa per ora
ancora unica al mondo, ma destinata a diffondersi altrove per la
validità dei risultati ottenuti e per il forte interesse suscitato
nelle Federazioni calcistiche di altri paesi. I preparatori atletici
diplomati a Coverciano, infatti, per aver dimostrato elevata
competenza e professionalità, sono molto stimati e apprezzati
dagli allenatori di calcio, che li considerano ormai collaboratori
assolutamente indispensabili nel difficile e delicato compito di
far raggiungere ai calciatori un buon livello di forma già
all'inizio del campionato e, ciò che più conta, di far loro
mantenere un ottimo standard di prestazioni per i molti mesi
successivi di intensa attività agonistica.
Un cambiamento importante verificatosi nel mondo del calcio
negli ultimi anni è rappresentato dalla crescente importanza
assunta (soprattutto per quanto riguarda gli introiti economici)
da meeting e tornei che si svolgono già dopo pochi giorni di
preparazione precampionato. Ciò fa sì che, per molte squadre, il
periodo da dedicare alla sola preparazione sia assai più limitato
rispetto al passato, quando in alcune settimane di training erano
inserite soltanto partite di importanza minima o nulla. Per
ovviare alla carenza di tempo da dedicare allo sviluppo delle
qualità fisiche nel periodo precampionato e per accelerare il
raggiungimento di una buona condizione fisica, è divenuto
sempre più frequente il caso di calciatori professionisti che,
secondo il criterio inaugurato alcune stagioni fa da Giampiero
Ventrone alla Juventus, sono seguiti anche in vacanza da un
preparatore atletico della loro società.
Con l'inserimento a pieno titolo dei preparatori atletici
nell'organico delle squadre di calcio, si è intensificata la
sperimentazione sulla metodologia dell'allenamento, con il
supporto sia delle teorie sviluppate dagli studiosi in laboratorio
sia della ricerca tecnologica, cui si deve la diffusione di
strumenti e apparecchiature di grande efficacia per la
valutazione funzionale dell'atleta e per il miglioramento del
controllo e della pratica dell'allenamento. Così, per esempio, è
diventato ormai abituale l'impiego da parte dei preparatori
atletici di un certo numero di macchine e strumentazioni:
cardiofrequenzimetri per determinare con precisione lo sforzo
cardiaco e quindi il carico di lavoro di una determinata
esercitazione, strumenti per la rilevazione immediata della
quantità di acido lattico presente nel sangue e della percentuale
di massa grassa nel corpo dell'atleta (plicometri), la pedana
computerizzata di Bosco (ergo jump) che permette, tramite salti
verticali, di determinare in tempo reale i valori delle varie
espressioni di forza (forza esplosiva, forza esplosiva elastica,
forza esplosiva elastica-reattiva) e la percentuale delle fibre
muscolari lente e rapide degli arti inferiori, gli elettrostimolatori
e le sempre più sofisticate macchine di muscolazione da
palestra per l'incremento localizzato della forza nei vari distretti
muscolari.
In sostanza si può senz'altro affermare che il mondo del calcio,
per quanto riguarda l'allenamento delle qualità fisiche, ha
registrato una profonda trasformazione, passando da una fase
empirica e artigianale a una che si può definire scientifica e
'industriale', cui si devono in gran parte i notevoli passi avanti
che si riscontrano nella preparazione atletica dei calciatori. Tale
trasformazione ha determinato una razionalizzazione
dell'allenamento, con la messa a punto, sulla base di una
conoscenza più precisa delle caratteristiche fisiologiche e
dell'entità dello sforzo del giocatore in gara, di metodiche più
efficaci per lo sviluppo delle qualità fisiche utili al calciatore e
con l'applicazione sui singoli soggetti di carichi e tipi di lavoro
effettivamente adatti alle loro caratteristiche individuali e alle
loro specifiche carenze e necessità.
In particolare, due aspetti rappresentano i grandi temi della
preparazione atletica moderna dei calciatori: l'allenamento della
forza e l'allenamento differenziato.
Diversamente dal passato, anche relativamente recente, in cui la
metodologia dell'allenamento era orientata prevalentemente allo
sviluppo della resistenza, attualmente, sia in precampionato sia
durante la fase agonistica, il potenziamento muscolare,
soprattutto dei gruppi muscolari maggiormente sollecitati nella
prestazione calcistica, sembra essere diventato la
preoccupazione principale della maggior parte dei preparatori
atletici. Sprint in salita, multibalzi, pliometria, salti di ostacoli,
tonificazione di addominali e dorsali, lavoro in palestra alle
macchine con grossi carichi da spostare con gli arti inferiori
trovano pertanto sempre maggior spazio nella preparazione
atletica dei calciatori. È opinione ormai ampiamente diffusa che
l'allenamento debba essere basato più sulla forza che sulla
resistenza, perché i momenti atleticamente più importanti di una
partita sono quelli in cui il giocatore compie prestazioni
influenzate in maniera decisiva dalla forza (tiri, scatti, arresti e
cambi di direzione improvvisi, contrasti, stacchi per colpire di
testa ecc.).
Una delle ragioni che hanno determinato un'accentuazione
rispetto al passato dell'allenamento differenziato, individuale o
a piccoli gruppi con soggetti con caratteristiche pressoché
similari, è che attualmente le squadre sono composte da rose di
giocatori sempre più nutrite, per far fronte a un calendario
agonistico che prevede una maggiore quantità di partite
ufficiali. Essendo così aumentato il numero di giocatori da
allenare, con caratteristiche morfostrutturali e fisiologiche
differenti e in un diverso stato di preparazione (come accade
normalmente, per esempio, tra titolari e riserve), è logico che si
ricorra più frequentemente ad allenamenti differenziati, anche
per la convinzione ormai imperante della necessità di un
allenamento specifico in relazione al ruolo e ai relativi compiti
tattici che i giocatori sono chiamati a svolgere in gara.

Le regole
di Mario Valitutti

Le origini
Le regole del calcio sono state codificate gradualmente nel
corso degli anni, in un percorso non sempre univoco. Per il
periodo delle origini accade, quindi, che siano pervenute a noi
versioni contrastanti sia per quanto concerne le date della loro
adozione sia per ciò che attiene ai loro contenuti.
Le prime regole risalgono al 1848 quando un gruppo di studenti
si riunì a Cambridge per tracciare un codice di comportamento,
nel tentativo di introdurre nella pratica del gioco un minimo di
uniformità. Secondo tale codice: "una rete è valida quando la
palla viene calciata attraverso i pali della porta e sotto il nastro
che unisce i pali"; "quando un giocatore riceve la palla deve
calciarla senza correre con essa, trattenendola. In ogni caso la
palla non può mai essere toccata con le mani se non per
fermarla"; "in nessun caso è consentito abbracciare un
avversario, colpirlo con le mani oppure ostacolarlo. Nessun
giocatore deve impedire agli altri di catturare il pallone in una
di queste maniere".
Seguono nel 1857 le 'regole di Sheffield' emanate dal primo
club di calcio non universitario, lo Sheffield Club: "ogni
giocatore deve essere dotato di un cappellino di flanella di
colore rosso oppure blu scuro e indossare il cappellino a
seconda della squadra di appartenenza"; "la palla può essere
colpita con la mano ma è vietato portarla sotto braccio"; "un gol
non può essere segnato con la mano e neppure con un calcio
libero dopo una presa".
Pochi anni dopo, nel 1862 le regole redatte da J.C. Thring della
Uppingham School sanciscono che: "un gol è valido quando la
palla attraversa la porta sotto la sbarra eccetto quando viene
portata con la mano"; "la palla non può essere calciata se è in
aria"; "un giocatore è considerato fuorigioco quando si trova
davanti alla linea del pallone".
Infine, il 26 ottobre 1863 i rappresentanti di 11 club e
associazioni sportive londinesi si riunirono presso la Free
Mason's Tavern di Londra per dare vita a una struttura unitaria,
la Football Association. Il loro scopo primario era quello di
codificare in maniera organica e omogenea il gioco del calcio,
concordando modalità comuni di azione e procedendo alla
stesura di un regolamento ufficiale cui avrebbero dovuto
attenersi tutte le società aderenti. Le prime riunioni della
Football Association furono caratterizzate da un'accesa
dialettica. Si fronteggiavano due opposte tendenze,
rappresentate da un lato dal segretario dell'Associazione, E.C.
Morley, deciso a eliminare la matrice rugbystica del nuovo
gioco (lo hacking, lo scalciare gli stinchi dell'avversario,
l'aggredirlo con durezza), e dall'altro dal tesoriere
dell'Associazione nonché presidente del Football Club
Blackheath, F.M. Campbell, rigido difensore di quella
impostazione. Prevalsero le ragioni di Morley e l'8 dicembre fu
varato il regolamento, secondo il quale nessun giocatore
avrebbe potuto correre con la palla tra le mani o caricare
l'avversario. Il calcio, come oggi lo intendiamo, aveva
finalmente intrapreso la sua strada.
Le regole del 1863, pur avendo il pregio di portare a unità le
norme in precedenza emanate da più parti e di imporle a tutti gli
associati alla Federazione, non erano ancora sufficienti a gestire
e regolare un gioco che era venuto assumendo importanza e
dimensioni non trascurabili nella società e nel costume
dell'epoca. Basti pensare che non si faceva cenno alla durata
dell'incontro, al numero dei giocatori da schierare in campo, ai
giudici di gara, al punteggio da assegnare per la vittoria e il
pareggio, all'altezza delle porte e così via.
Nel regolamento figuravano, invece, le dimensioni massime del
campo di gioco (200 yard, pari a 182 m, di lunghezza; 100 yard,
pari a 91 m, di larghezza), l'ampiezza delle porte, la validità del
gol ("un gol viene segnato quando la palla passa attraverso i pali
o sopra lo spazio tra i pali a qualsiasi altezza, a meno che essa
non vi sia stata fatta passare con le mani"), la disciplina del
fuorigioco ("quando un calciatore ha calciato la palla, qualsiasi
appartenente alla stessa squadra è considerato in fuorigioco se si
trova più vicino della palla stessa alla linea della porta
avversaria"), le distanze su calcio d'inizio o su calci piazzati (10
yard pari a 9,15 m), i comportamenti in campo ("nessun
giocatore potrà correre tenendo bloccata la palla o passare la
palla a un compagno con le mani o prendere la palla con le
mani mentre essa è in gioco"; "non è consentito ostacolare,
abbracciare, spingere o colpire un avversario; portare protezioni
in ferro o legacci di cuoio sulla superficie delle scarpe").
Negli anni seguenti l'applicazione delle regole non fu univoca,
in quanto inizialmente aderirono alla Football Association
soprattutto le squadre studentesche e una parte dei 'club
calcistici' che erano considerati dei circoli al pari di quelli
culturali o del bridge. Un momento decisivo fu rappresentato
nel 1886 dalla creazione dell'IFAB (International football
association board), costituito da due membri per ciascuna delle
quattro Federazioni britanniche (Inghilterra, Scozia, Galles,
Irlanda) e finalizzato all'armonizzazione e all'univoca
interpretazione delle regole del gioco. Le tappe principali
dell'evoluzione subi-ta negli anni da tali regole sono riportate in
tab. 1.

Tabella 1

Le regole principali
Terreno di gioco. Nel 1897 vennero precisate le dimensioni del
campo: lunghezza da 90 a 120 m, larghezza da 45 a 90 m; per
gli incontri internazionali lunghezza da 100 a 110 m, larghezza
da 64 a 75 m. Nel 1875 sui pali comparve la traversa e le misure
delle porte vennero fissate in 7,32×2,44 m. Nel 1891 furono
installate le reti e fu abolito il giudice di porta.

Composizione delle squadre


Il numero dei componenti di ogni squadra inizialmente non era
codificato. Trattandosi il più delle volte di contese scolastiche,
classe contro classe, ci si accordava sul campo: in gare ancora
giocate sia con le mani sia con i piedi si affrontavano 10 o 20
giocatori per parte. Si racconta che, nel calcio pionieristico, le
squadre fossero formate per lo più da 10 giocatori, più il giudice
di porta, collocato all'interno dei pali. Poiché accadeva spesso
che questi respingesse il pallone, accendendo feroci discussioni,
si decise di autorizzarlo a intervenire, dapprima solo con i piedi,
poi anche con le mani: nacque così il goal keeper, il portiere. La
composizione delle squadre di 11 calciatori fu comunque
codificata da una direttiva del 1877. Riguardo alle sostituzioni,
nel 1965 è ammessa quella del portiere infortunato; nel 1967
(1969 in Italia) ne sono previste due (una deve riguardare il
portiere); nel 1994 le sostituzioni diventano tre (una deve
riguardare il portiere); dal 1995 le tre sostituzioni prescindono
dai ruoli.

Durata dell'incontro
Anche da questo punto di vista, inizialmente ci si rimetteva alle
intese raggiunte sul campo. Per lo più si dava luogo a sfide
interminabili la cui conclusione dipendeva dalla segnatura di un
certo numero di gol. La durata dell'incontro venne fissata in 90
minuti, secondo alcune fonti, nel 1877, secondo altre nel 1896.
Dal 1995, in Italia, è prevista, allo scadere dei due tempi di
gara, la segnalazione da parte del 'quarto uomo' dei tempi di
recupero. L'innovazione è stata adottata dalla FIFA in occasione
del Mondiale del 1998.

Punteggio
Nel 1881 si decise di assegnare due punti per la vittoria e un
punto per il pareggio. Nel 1994, seguendo l'esempio
dell'Inghilterra e di numerosi altri paesi, anche in Italia la
vittoria viene premiata con tre punti (rimane un punto per il
pareggio).

Fuorigioco
Il regolamento del 1863 prevedeva il fuorigioco totale: si
trovava in tale posizione il giocatore che, in qualsiasi zona del
campo, fosse più vicino al limite di fondo campo avversario
rispetto alla palla nel momento in cui questa veniva calciata in
avanti da un compagno. Successivamente la regola ha subito tre
variazioni: nel 1866 era ritenuto in fuorigioco, in qualunque
zona del campo, chi non avesse davanti a sé almeno tre
giocatori avversari; nel 1907 si considerava in fuorigioco chi,
nella sola metà campo avversa, non avesse davanti a sé almeno
tre giocatori avversari; nel 1925 era in posizione di fuorigioco
chi, sempre nella sola metà campo avversa, non avesse davanti
a sé almeno due giocatori avversari. Questa ultima regola è
tuttora in vigore con una sola variante introdotta nel 1990: non è
considerato in fuorigioco il calciatore in linea con il penultimo
avversario (in genere l'ultimo è il portiere). Le decisioni del
1925 comportarono rilevanti conseguenze tattiche che,
inizialmente, furono avvertite solo in Inghilterra dove
l'allenatore Herbert Chapman rivoluzionò lo schema di gioco
con l'adozione del cosiddetto 'sistema'. Nel continente si dette
importanza alla nuova regola molti anni più tardi.

Giudici di gara
Ai primordi del calcio anglosassone l'etica del fair play riteneva
superflua la figura dell'arbitro e per dirimere le situazioni di
gioco controverse intervenivano i capitani delle due squadre.
Tuttavia, il gentlemen's agreement, non fu più in grado di
governare l'andamento degli incontri quando essi si fecero
altamente competitivi e il pubblico divenne più numeroso e
sovente tumultuoso. Emerse quindi l'esigenza di affidare la
conduzione della gara a soggetti terzi. Dagli atti risulta che nel
1871 il controllo della gara venne affidato a due giudici di
campo (umpires) scelti dalle parti e a un terzo giudice (referee)
seduto fuori campo con compiti di appello. Il fischietto non
esisteva ancora e pertanto i giudici di campo erano muniti di
bandierina per sospendere il gioco. Nel 1891 il referee ebbe in
dotazione fischietto e taccuino e fece il suo ingresso in campo;
gli umpires furono dislocati lungo le linee laterali con il solo
compito di segnalare il punto in cui il pallone usciva dal campo.
Nel 1894 le decisioni dell'arbitro sono diventate inappellabili.
Nel 1989 in Italia, limitatamente alle serie A e B e alla Coppa
Italia, viene ammesso un quarto ufficiale di gara che si colloca
all'altezza della linea mediana del campo. Nel 1996 i
guardalinee diventano assistenti dell'arbitro.

Sanzioni
Le sanzioni, integrazioni e modifiche alle regole del gioco
furono introdotte a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento.
Si fa risalire agli anni 1872-73 l'istituzione dei calci liberi o di
punizione, mentre nel 1903 compare il calcio di punizione
diretto. Nel 1951 viene punito il fallo di ostruzione intenzionale.
Nel 1992 viene sanzionato con un calcio di punizione indiretto
il retropassaggio di piede al portiere che tocchi la palla con le
mani.
Il calcio di rigore compare nel 1891 (v. tab. 2). Inizialmente si
poteva calciare da qualsiasi punto del terreno di gioco purché a
distanza di 11 m dalla porta (si tracciava un semicerchio dal
centro della porta con un raggio di 12 yard e il pallone poteva
essere posto su un punto qualsiasi del semicerchio). La porta era
difesa solo dal guardiano (così veniva chiamato a quei tempi il
portiere). Successivamente (1902) vennero delimitate con le
attuali misure le aree di porta e di rigore e si stabilì che il calcio
di rigore dovesse essere battuto sempre dallo stesso punto, a 11
m dalla porta sulla linea perpendicolare di questa (la cosiddetta
'lunetta'). Nel 1931 si decretò che il portiere non potesse
muoversi prima che la palla fosse calciata dal dischetto. Una
disposizione del 1997 consente al portiere di muoversi solo
lungo la linea di porta.
Il calcio d'angolo fu introdotto nel 1873. Nel 1913 fu deciso che
il calciatore che batteva il corner non potesse toccare il pallone
una seconda volta prima che esso fosse stato giocato da un
compagno o da un avversario. Nel 1924 (secondo alcune fonti
nel 1927) divenne regolare il gol realizzato direttamente dal
calcio d'angolo.
La rimessa laterale con entrambe le mani è una regola risalente
al 1882.
Le espulsioni vennero regolamentate per la prima volta nel
1874, concedendo ai giudici di gara di espellere un giocatore
recidivo nell'inosservanza delle regole di gioco. Nel 1927 è
riconosciuta all'arbitro la facoltà di espellere un giocatore che
usi nei suoi confronti un linguaggio grossolano o ingiurioso.
Nel 1990 viene sancita l'espulsione del difensore che commette
fallo sull'attaccante che si trovi in una chiara azione da rete; nel
1991 l'espulsione del giocatore che interrompe con la mano
un'azione da gol e del portiere che interviene con le mani fuori
dell'area di rigore; in occasione del Mondiale 1994, la FIFA
raccomanda di sanzionare con l'espulsione il fallo commesso da
tergo (la decisione viene codificata nel 1998).

Tabella 2

Le regole attuali
Attualmente assicurano solide fondamenta e assoluta precisione
al gioco del calcio 17 Regole, promulgate per la prima volta nel
1939. I loro contenuti essenziali possono essere così sintetizzati:
1. Terreno di gioco
Deve essere rettangolare, lungo almeno 90 m (100 m per le gare
internazionali) e largo almeno 45 m (64 m per le gare
internazionali), e delimitato da linee. Ciascun lato del campo
comprende un'area di rigore all'interno della quale è segnato il
punto, posto a 11 m dalla linea di porta ed equidistante dai pali,
da cui tirare il calcio di rigore. A ciascun angolo del terreno
deve essere infissa un'asta con bandierina. Le porte consistono
di due pali verticali infissi a uguale distanza dalle bandierine
d'angolo e congiunti alla sommità da una sbarra trasversale. La
distanza che separa i due pali è di 7,32 m e il bordo inferiore
della sbarra trasversale è situato a 2,44 m dal suolo.
2. Pallone
Deve essere di forma sferica, di cuoio o altro materiale
approvato, con una circonferenza minima di 68 cm e massima
di 70 cm. Il suo peso all'inizio della gara deve essere compreso
fra i 410 e i 450 g.
3. Numero dei calciatori
Ogni gara è disputata da due squadre composte ciascuna da 11
calciatori al massimo, uno dei quali giocherà da portiere.
Nessuna gara potrà aver luogo se l'una o l'altra squadra dispone
di meno di sette calciatori. In panchina potranno sedere altri
calciatori: secondo il tipo di competizione, da un minimo di tre
a un massimo di sette. Nelle gare ufficiali è consentita la
sostituzione di non più di tre calciatori. Nelle altre gare si può
superare questo limite, se c'è accordo fra le parti.
4. Equipaggiamento dei calciatori
L'equipaggiamento e l'abbigliamento dei calciatori non devono
in alcun caso risultare pericolosi. Ciò vale anche per i monili di
qualsiasi genere. L'equipaggiamento completo di un calciatore
comprende: maglia, calzoncini (gli eventuali scaldamuscoli
devono essere dello stesso colore di quello dominante dei
calzoncini), calzettoni, parastinchi, scarpe. Il portiere deve
indossare una maglia di colore diverso da quello di tutti gli altri
calciatori, dell'arbitro e degli assistenti dell'arbitro.
5. Arbitro
Ogni gara si disputa sotto il controllo di un arbitro, le cui
decisioni sui fatti relativi al gioco sono inappellabili. L'arbitro
può ritornare su una sua decisione soltanto se ritiene che essa
sia errata o, a sua discrezione, su segnalazione di un assistente,
sempre che nel frattempo il gioco non sia stato ripreso.
6. Assistenti dell'arbitro
È prevista la designazione di due assistenti dell'arbitro, che
avranno il compito di coadiuvarlo nel vigilare sul rispetto delle
regole del gioco durante la gara. Il regolamento attuale prevede
anche la figura del 'quarto ufficiale' (o 'quarto uomo'), che può
sostituire uno dei tre ufficiali di gara (arbitro e suoi assistenti)
che fosse impossibilitato a svolgere le sue funzioni. Inoltre il
'quarto ufficiale' coadiuva l'arbitro, su richiesta dello stesso, in
tutte le funzioni burocratiche prima, durante e dopo la gara, e
infine lo assiste nella procedura delle sostituzioni dei calciatori
durante la partita.
7. Durata della gara
Salvo diversi accordi, la gara si compone di due periodi di
gioco di 45 minuti ciascuno, intervallati da una sosta che non
deve superare i 15 minuti. Ciascun periodo deve essere
prolungato per recuperare tutto il tempo perduto per le
sostituzioni, l'accertamento degli infortuni dei calciatori e il loro
trasporto al di fuori dal terreno di gioco, le manovre tendenti a
perdere deliberatamente tempo, ecc. La durata del recupero per
interruzioni è a discrezione dell'arbitro. Per le gare che
terminano con il risultato di parità, i regolamenti delle
competizioni possono prevedere disposizioni relative ai tempi
supplementari o ad altre procedure accettate dall'IFAB, che
consentono di determinare la squadra vincitrice della gara. Una
gara sospesa definitivamente prima del suo termine deve essere
rigiocata, salvo disposizioni contrarie previste nel regolamento
della competizione.
8. Calcio d'inizio e ripresa del gioco
La scelta della parte del campo viene stabilita con sorteggio per
mezzo di una moneta. La squadra che vince il sorteggio sceglie
la porta contro cui attaccherà nel primo perio--do di gioco.
All'altra squadra verrà assegnato il calcio d'inizio della gara.
Nel secondo tempo le squadre invertono le rispettive metà del
campo.
9. Pallone in gioco e non in gioco
Il pallone non è in gioco quando ha interamente superato la
linea di porta o la linea laterale, sia a terra sia in aria, o quando
il gioco è stato interrotto dall'arbitro.
10. Segnatura di una rete
Una rete è considerata valida quando il pallone ha interamente
superato la linea di porta tra i pali e sotto la sbarra trasversale,
sempre che nessuna infrazione alle regole sia stata
precedentemente commessa dalla squadra in favore della quale
la rete è concessa.
11. Fuorigioco
Un calciatore si trova in posizione di fuorigioco quando è più
vicino alla linea di porta avversaria sia rispetto al pallone sia al
penultimo avversario. La posizione di fuorigioco di un
calciatore deve essere punita solo se, nel momento in cui il
pallone è toccato o giocato da uno dei suoi compagni, il
calciatore, a giudizio dell'arbitro, prende parte attiva al gioco,
intervenendo nel gioco stesso, oppure influenzando un
avversario, oppure traendo vantaggio da tale posizione. Non vi
è infrazione di fuorigioco quando un calciatore si trova nella
propria metà del terreno di gioco; si trova in linea con il
penultimo avversario; riceve direttamente il pallone su calcio di
rinvio oppure su rimessa dalla linea laterale, oppure su calcio
d'angolo. Per tutte le infrazioni alla regola del fuorigioco,
l'arbitro accorda alla squadra avversaria un calcio di punizione
indiretto, che deve essere eseguito nel punto in cui l'infrazione è
stata commessa.
12. Falli e comportamenti antisportivi
I falli e i comportamenti antisportivi devono essere sanzionati
con: a) calcio di punizione diretto, accordato alla squadra
avversaria del calciatore che, a giudizio dell'arbitro, commetta
per negligenza, imprudenza o vigoria sproporzionata uno dei
falli seguenti: dare o tentare di dare un calcio a un avversario,
fare o tentare di fare uno sgambetto a un avversario, saltare su
un avversario, caricare un avversario, colpire o tentare di
colpire un avversario, spingere un avversario. Viene accordato
calcio di punizione diretto anche per le seguenti altre azioni
fallose: contrastare un avversario per il possesso del pallone,
venendo in contatto con lui prima di raggiungere il pallone,
trattenere un avversario, sputare contro un avversario, giocare
volontariamente il pallone con le mani (a eccezione del portiere
quando si trova nella propria area di rigore); b) calcio di rigore,
accordato quando uno dei suddetti falli sia commesso da un
calciatore entro la propria area di rigore, indipendentemente
dalla posizione del pallone, purché lo stesso sia in gioco;
c) calcio di punizione indiretto, accordato alla squadra
avversaria quando il portiere, trovandosi nella propria area di
rigore, trattenga per più di sei secondi il pallone con le mani, o
tocchi nuovamente il pallone con le mani, dopo esserne entrato
in possesso, prima che lo stesso sia stato toccato da un altro
calciatore, o tocchi con le mani il pallone passatogli
deliberatamente con il piede da un calciatore della propria
squadra, o tocchi con le mani il pallone passatogli direttamente
da un compagno su rimessa dalla linea laterale, o compia
manovre che, a giudizio dell'arbitro, siano dettate unicamente
dal proposito di perdere tempo. Un calcio di punizione indiretto
è parimenti accordato quando un calciatore giochi in modo
pericoloso, o impedisca la progressione a un avversario (senza
contatto fisico), od ostacoli il portiere nell'atto di liberarsi del
pallone che ha tra le mani, o commetta altri falli, per i quali la
gara è stata interrotta per ammonire o espellere un calciatore.
Per quanto riguarda le sanzioni disciplinari, un calciatore deve
essere ammonito (cartellino giallo) quando si renda colpevole di
uno dei falli seguenti: comportamento antisportivo, esplicita
disapprovazione con parole o gesti, trasgressione ripetuta delle
regole del gioco, ritardo nella ripresa del gioco, disattesa della
distanza prescritta nei calci d'angolo e nei calci di punizione,
entrata o rientro nel terreno di gioco senza il preventivo assenso
dell'arbitro, abbandono deliberato del terreno di gioco senza il
preventivo assenso dell'arbitro. Un calciatore deve
essere espulso (cartellino rosso) dal terreno di gioco nel caso in
cui si renda colpevole di un fallo violento di gioco o di condotta
violenta (l'IFAB ha assimilato al fallo violento il tackle da
dietro che metta in pericolo l'integrità fisica di un avversario),
nel caso in cui sputi contro un avversario o qualsiasi altra
persona, quando impedisca alla squadra avversaria di segnare
una rete o la privi di una chiara occasione da rete toccando
volontariamente il pallone con le mani, quando annulli una
chiara occasione da rete a un calciatore diretto verso la porta
avversaria commettendo su di lui un fallo punibile con un calcio
di punizione o di rigore, nel caso in cui usi un linguaggio
offensivo, ingiurioso o minaccioso, nel caso in cui riceva una
seconda ammonizione nel corso della stessa gara. Gli Organi di
giustizia sportiva possono utilizzare quale mezzo di prova, al
solo fine dell'irrogazione di sanzioni disciplinari, riprese
televisive o filmati sia per correggere errori di persona sia per
punire episodi di condotta violenta avvenuti a gioco fermo o
estranei all'azione di gioco, sfuggiti al controllo degli ufficiali di
gara. Contro le sanzioni irrogate le parti possono produrre
immagini televisive che dimostrino che il tesserato non ha
commesso l'infrazione.
13. Calci di punizione
Nel calcio di punizione indiretto la rete viene convalidata
soltanto se il pallone entra in porta dopo aver toccato un altro
calciatore; nel calcio di punizione diretto il calciatore può tirare
direttamente nella porta avversaria.
14. Calcio di rigore
Un calcio di rigore è assegnato contro la squadra che commette,
nella propria area di rigore e con il pallone in gioco, uno dei
falli punibili con un calcio di punizione diretto. Il pallone deve
essere posizionato sul punto contrassegnato all'interno dell'area
di rigore. Il portiere deve restare sulla propria linea di porta fino
a quando il pallone è stato calciato. Il calciatore incaricato di
battere il calcio di rigore non può giocare o toccare una seconda
volta il pallone prima che lo stesso sia stato giocato o toccato da
un altro calciatore
15. Rimessa dalla linea laterale
È accordata quando il pallone ha interamente superato la linea
laterale sia a terra sia in aria. Il calciatore incaricato di eseguirla
deve fare fronte al terreno di gioco, avere, almeno parzialmente,
i due piedi sulla linea laterale, tenere il pallone con le mani e
lanciarlo da dietro la nuca e al di sopra della testa. Una rete non
può essere segnata direttamente su rimessa dalla linea laterale.
16. Calcio di rinvio
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un
calciatore della squadra attaccante, ha interamente superato la
linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in
porta.
17. Calcio d'angolo
È accordato quando il pallone, giocato per ultimo da un
calciatore della squadra difendente, ha interamente superato la
linea di porta, sia a terra sia in aria, senza peraltro entrare in
porta.
Oltre a queste norme fondamentali, fanno altresì parte
integrante del regolamento altre istruzioni supplementari
dell'IFAB che si riferiscono alle modalità di esecuzione dei tiri
di rigore per la determinazione della squadra vincente; alla
definizione dell'area tecnica (che si estende lateralmente 1 m
per parte oltre le panchine e in avanti fino a 1 m dalla linea di
fondo) e al 'quarto ufficiale' di gara. Un'altra norma introdotta
nelle competizioni ufficiali organizzate dalla FIFA (Campionati
Mondiali) e dalla UEFA (Campionati Europei) è quella del
'golden gol', in base alla quale la squadra che segna per prima
una rete nei tempi supplementari vince la partita. Tale regola ha
trovato applicazione anche nei Mondiali del 2002, ma se ne
studiano modifiche.

L'arbitraggio
di Angelo Pesciaroli

La figura dell'arbitro è nata insieme al gioco del calcio del quale


garantisce il regolare svolgimento in tutti i paesi e a tutti i
livelli, dai settori giovanili sino ai campionati di vertice
nazionali e mondiali. In Italia, gli arbitri in attività per i
campionati delle varie serie sono circa 24.000 (oltre 10.000 gli
anziani tesserati in altri ruoli), nel mondo sono oltre due
milioni.
L'AIA (Associazione italiana arbitri) ha un'organizzazione
piramidale: le strutture di base sono costituite dalle sezioni,
circa 200, che ogni anno organizzano corsi di formazione e
curano l'aggiornamento tecnico. Al di sopra delle sezioni vi
sono i comitati regionali che ne controllano e coordinano
l'attività. La CAN (Commissione arbitri nazionale) D organizza
e designa gli arbitri per i campionati nazionali di dilettanti,
maschile e femminile, e del calcio a cinque; la CAN C per le
serie C1 e C2; la CAN per le serie A e B.
Ogni federazione nazionale, in proporzione alla propria
popolazione calcistica, ha il diritto di scegliere ogni anno un
gruppo di arbitri che assumono la qualifica di 'internazionali'.
Per l'Italia gli arbitri internazionali sono attualmente dieci, il
numero massimo consentito dal regolamento. Esiste anche un
ruolo internazionale di assistenti internazionali (i guardalinee),
di arbitri del calcio a cinque e del calcio femminile. I nomi sono
segnalati all'inizio di ogni anno solare alla FIFA che designa
questi arbitri per le manifestazioni da essa organizzate, ovvero i
Campionati Mondiali di tutti i livelli. Lo stesso gruppo di arbitri
internazionali è utilizzato anche dalle confederazioni
continentali, nelle quali si articola la FIFA, per le proprie
manifestazioni (di nazionale e di club, come i Campionati
Europei e la Champions League).
La FIFA è la depositaria del regolamento del gioco che
aggiorna ogni anno attraverso un proprio organo tecnico, l'IFAB
(International football association board). Esso è composto da
otto membri che si riuniscono ogni anno in una località
britannica, in omaggio al paese dove furono gettate le basi del
calcio moderno. Storicamente, infatti, l'IFAB è nato prima della
FIFA: fu costituito nel 1886 quando le quattro Federazioni
britanniche (di Inghilterra, Galles, Scozia e Repubblica
d'Irlanda), si associarono per dar vita a un organo incaricato
dell'emanazione e dell'armonizzazione dei regolamenti. La
FIFA entrò a far parte dell'IFAB solo nel 1913. La
composizione dell'organo rispecchia ancora questa tradizione:
degli otto componenti, quattro (tra cui il presidente e il
segretario generale) sono rappresentanti della FIFA; gli altri
quattro sono i segretari delle Federazioni britanniche.
Mentre in Inghilterra gli arbitri, che cominciarono a essere
utilizzati con una certa regolarità a partire dal 1880, sono restati
dilettanti per quasi un secolo, in Italia la loro origine è stata
professionistica. Nei primi anni di attività calcistica regolare (la
Federazione calcistica italiana venne fondata nel 1898), chi era
stato capitano di una squadra diventava automaticamente
arbitro. Per le partite del Campionato italiano, appena istituito, i
direttori di gara non dipendevano dalla Federazione, ma erano
forniti direttamente dalle società che se li scambiavano fra loro.
Le cronache narrano che la prima partita internazionale
dell'Italia, vinta per 6-2 contro i francesi all'Arena di Milano, il
15 maggio 1910, fu diretta da un inglese da tempo trasferitosi in
Italia, Goodley, che era stipendiato come arbitro dalla Juventus.
Insieme a Goodley, gli arbitri più frequentemente impiegati in
quell'epoca pionieristica furono Weber e Nasi, soci e giocatori
dell'FC Torinese, Allison, socio e giocatore del Milan, e altri
tesserati di società. L'AIA si sarebbe costituita solo nel 1911 (il
primo presidente fu Umberto Meazza) e da allora in poi avrebbe
provveduto alle designazioni.
All'inizio del 20° secolo, dunque, in Italia i giocatori erano
dilettanti e gli arbitri stipendiati. In seguito però il dilettantismo
è stato alla base del grande sviluppo dell'organizzazione
arbitrale per oltre cinquant'anni. Il primo a lanciare l'idea di fare
dell'attività di arbitro una vera e propria professione fu, nel
1958, Diego De Leo, un arbitro vicentino che si dedicò poi alla
carriera da professionista in Sud America. Ancora per molti
anni, in Italia, si andò avanti con i rimborsi spese e con modesti,
anche se sempre crescenti, gettoni di presenza.
Di professionismo arbitrale, anche se non ancora
istituzionalizzato, si può parlare solo nell'ultimo decennio del
20° secolo, quando FIFA e UEFA cominciano ad attribuire ai
direttori di gara sostanziosi premi di presenza ai Mondiali, agli
Europei e alle partite delle Coppe. Alla vigilia dei Campionati
di Giappone-Corea del 2002, la convocazione a un Mondiale
(un mese tra ritiro preventivo e competizione) viene
ricompensata con un appannaggio di circa 20.000 euro. Per le
Coppe europee, il gettone di presenza è sui 2500 euro a partita,
con aumento progressivo per le ultime partite della Champions
League.
In Italia, la necessità di prevedere per gli arbitri allenamenti
quasi quotidiani, con congrui rimborsi spese per mancato
guadagno, è stata riconosciuta nel 1990, quando il presidente
della Federcalcio Antonio Matarrese mise alla guida degli
arbitri di serie A l'ex internazionale Paolo Casarin. Si deve però
arrivare al 1999 per veder assegnato agli arbitri di vertice (i 35
che dirigono le partite di serie A e B), oltre alle diarie di
presenza-gara, un congruo rimborso mensile. Attualmente gli
arbitri internazionali più bravi guadagnano all'incirca 100.000
euro netti all'anno, i più giovani, appena entrati nella CAN,
superano i 50.000 euro.
Il professionismo di fatto è ormai una realtà anche in altri paesi:
gli arbitri spagnoli, per esempio, guadagnano più di quelli
italiani e possono anche avere uno sponsor, i cui proventi
vengono però in massima parte destinati alla scuola nazionale di
formazione. Anche i guadagni degli arbitri tedeschi sono più
elevati di quelli dei loro colleghi italiani.
Le attrezzature e gli impianti
di Fino Fini

Le prime norme sulle attrezzature e sugli impianti utilizzati per


il gioco del calcio risalgono al 1863, quando in Inghilterra, per
salvaguardare l'incolumità dei giocatori, la Football Association
‒ all'atto della sua costituzione ‒ vietò l'uso di calzature che
avessero suole con chiodi sporgenti, piastre metalliche o
materiali di guttaperca indurita. D'altra parte, al fine di garantire
una maggiore stabilità ai giocatori, sia nei movimenti sia nel
controllo della palla, sugli sdrucciolevoli terreni erbosi inglesi,
resi ancora più infidi dalle frequenti piogge, nel 1891 fu
autorizzato l'uso di scarpe fornite di tacchetti (o bulloni) e di
strisce da applicare alle suole, purché tali supporti fossero di
cuoio. L'altezza dei tacchetti e delle strisce non doveva essere
superiore a 12,7 mm. La stessa misura costituiva il diametro
minimo consentito per i tacchetti. Nel 1951, l'altezza massima
delle strisce e dei tacchetti venne portata a 19 mm. All'inizio, la
tomaia era interamente di cuoio, molto rigida, con un rinforzo
anteriore (spuntergo) a protezione delle dita. Nel tempo,
l'utilizzo di materiali più duttili e meno pesanti ha modificato
notevolmente le caratteristiche delle scarpe da calcio, che sono
divenute sempre più leggere e pratiche; i tacchetti, di cuoio o di
gomma, consentono una presa sempre migliore sul terreno di
gioco e una più efficace torsione della calzatura. Le scarpe che
si producono attualmente assicurano il massimo comfort e la
migliore protezione del piede su qualsiasi tipo di campo. Dotate
di ammortizzatori capaci di esaltare la reattività e la potenza
degli atleti, hanno tomaie di pelle sintetica, più leggera ed
elastica rispetto al cuoio naturale. Le stringhe sono studiate per
consentire insieme la massima aderenza al terreno e la
flessibilità del collo del piede, essenziale per un buon controllo
del pallone.
Nelle prime regole dettate dalla Football Association non vi era
alcuna indicazione né sul peso né sulla circonferenza
del pallone. Soltanto nel 1872 vennero stabiliti i valori minimi e
massimi (rispettivamente 68 e 71 cm) consentiti per la misura
della circonferenza dell'attrezzo, valori rimasti tuttora pressoché
immutati (68-70 cm). Quanto al peso, all'inizio di ogni partita
esso non doveva essere inferiore a 340 g e superiore a 425; nel
1900, per gli incontri internazionali, il peso minimo fu portato a
368 g. Con il tempo, ci si rese però conto dell'eccessiva
leggerezza del pallone, il cui peso venne quindi fissato, nel
1937, a un minimo di 396 g e un massimo di 453, poi
arrotondati a 410 e 450. Per la confezione dello strato esterno
del pallone furono utilizzate a lungo pezze rettangolari di cuoio
grezzo, cucite all'interno l'una con l'altra. Dentro questo
involucro era inserita una sfera di gomma, la camera d'aria,
gonfiabile per mezzo di un piccolo budello di gomma telata, poi
ripiegato e coperto con una stringa che fungeva da chiusura
dell'involucro esterno. La ruvidezza del materiale utilizzato e la
non perfetta sfericità del pallone, che inoltre, in caso di pioggia,
assorbiva una grande quantità di acqua e quindi aumentava
notevolmente di peso, costringeva i giocatori, per attutire la
violenza dell'impatto con l'attrezzo, ad annodarsi un fazzoletto
attorno alla fronte o a utilizzare delle bende. In Inghilterra, era
frequente l'uso di un cap a protezione della testa. Il
miglioramento delle tecnologie e dei materiali e l'eliminazione
della camera d'aria interna hanno reso possibili non solo la
perfetta sfericità, ma anche una fattura molto più funzionale e
sofisticata del pallone, grazie all'uso di cuoi sempre meno ruvidi
e di materiali sintetici uniti a pelli leggerissime; inoltre
l'applicazione di apposite vernici sulla superficie esterna
consente ormai la completa impermeabilizzazione del pallone.
Questo inizialmente era di colore marrone, tipico del cuoio; poi,
anche per esigenze di riprese televisive, ha subito alcune
varianti: è diventato a spicchi bianchi e neri nel 1970, tricolore
in occasione dei Mondiali di Francia 1998. Per il Mondiale
2002 è stato presentato un pallone dorato, con l'inserimento di
disegni e di colori legati alla tradizione dei due paesi ospitanti,
la Corea e il Giappone.
Quanto al terreno di gioco, secondo le prime regole del 1863
esso era costituito da uno spazio delimitato soltanto da
bandierine. La lunghezza massima del campo era fissata in 200
yard (182 m), la larghezza massima in 100 yard (91 m). Da
quando, nel 1897, furono sostituite da linee sia laterali sia di
fondo campo, le bandierine si utilizzarono solo per indicare i
quattro angoli del terreno di gioco. La porta era inizialmente
costituita da due pali posti a una distanza (misurata dal loro
interno) di 7,32 m, senza nessuna delimitazione in altezza; in
seguito, venne aggiunta una fettuccia posta in orizzontale fra i
due pali, a 2,44 m di altezza, misura rimasta tuttora immutata.
Nel 1875 era stato introdotto l'uso, all'inizio facoltativo, di una
traversa fissa, che fu resa obbligatoria nel 1882; nel 1891 venne
ufficialmente disposto l'uso di reti a chiusura posteriore delle
porte. Nel 1897, l'IFAB stabilì le nuove dimensioni del terreno
di gioco: lunghezza massima 120 m, minima 90 m, larghezza
massima 90 m, minima 45 m. Per quanto riguarda gli incontri
internazionali la lunghezza massima venne fissata a 110 m, la
minima a 100 m, la larghezza -massima a 75 m, la minima a 64
m. Il perimetro del terreno di gioco deve essere perfettamente
rettangolare e tracciato con una linea continua. L'altezza delle
bandierine nei quattro angoli non deve essere superiore a 150
cm; la larghezza massima delle linee di delimitazione del
campo è fissata a 12 cm.

Gli stadi del calcio


di Marco Brunelli

Nel mondo vi sono 11 impianti in grado di ospitare incontri di


calcio con una cornice di pubblico di almeno 100.000 spettatori
(capienza ufficialmente riconosciuta dalle istituzioni calcistiche
internazionali). È singolare, però, che solo due di questi
impianti appartengano a un paese che occupa uno dei primi
dieci posti della classifica FIFA per nazioni: si tratta dei
brasiliani Maracaná e Mineirão. Tra i 32 stadi con più di 80.000
posti, solo dieci si trovano in paesi calcisticamente
all'avanguardia.
Lo stadio più grande del mondo è il May Day Stadium di
Pyongyang (Corea del Nord), inaugurato nel 1989, con una
capienza di 150.000 spettatori; l'impianto, che era stato
inizialmente progettato per ospitare i Giochi Olimpici, speranza
poi risultata vana, viene utilizzato per le partite della nazionale,
ma anche per numerose manifestazioni e raduni extrasportivi.
Seguono, in questa classifica, dopo il Salt Lake Stadium di
Calcutta (120.000), due stadi di grandissime tradizioni
calcistiche, come il Maracaná di Rio de Janeiro (ufficialmente
in grado di ospitare 122.000 spettatori, ma che in alcuni casi è
arrivato a contenerne oltre 200.000) e lo stadio Azteca di Città
del Messico (106.000).
I paesi nei quali vi è almeno uno stadio da 70.000 posti sono:
Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Armenia, Australia, Brasile,
Cile, Cina, Colombia, Congo, Corea del Nord, Corea del Sud,
Ecuador, Egitto, Francia, Galles, Georgia, Germania, Giappone,
Grecia, India, Indonesia, Inghilterra, Iran, Italia, Libia,
Malaysia, Marocco, Messico, Pakistan, Portogallo, Russia,
Spagna, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia, Ucraina e Uruguay.
Una simile graduatoria, tuttavia, non coincide se non in minima
parte con quella degli impianti che hanno lasciato una traccia
significativa nella storia del calcio. In molti casi, infatti, si tratta
solo di monumenti che rispondono più alla volontà
autocelebrativa o propagandistica di un regime politico che non
alle tradizioni calcistiche e ai risultati sportivi delle squadre
nazionali. In altre circostanze l'imponenza degli stadi è
direttamente proporzionale al numero di abitanti della città o
della regione nella quale sono ubicati, indipendentemente dalla
storia calcistica locale. È significativo notare come quasi
nessuno degli stadi più grandi sia stato costruito negli ultimi
dieci anni. Anzi, per lo più gli impianti progettati e realizzati di
recente hanno una capienza inferiore ai 70.000 posti e spesso
non raggiungono i 60.000. La capienza media degli impianti
costruiti o rinnovati per i Campionati del Mondo di Giap-pone e
Corea 2002 è di 49.700 spettatori (il più grande ne ha 70.500, il
più piccolo 41.800); quella degli stadi degli Europei 2004 è di
41.300 spettatori (75.000 il più grande, 31.500 il più piccolo).
Infine, la capienza media degli impianti che saranno realizzati
per i Mondiali di Germania 2006 è di 50.000 spettatori (76.000
il più grande, 22.500 il più piccolo).
In generale, i lavori di adeguamento degli stadi alle nuove
norme di sicurezza o ai criteri di maggiore comfort che si sono
affermati in tutto il mondo a partire dagli anni Ottanta,
parallelamente alla definitiva affermazione del calcio televisivo,
hanno comportato significative riduzioni delle capienze
massime degli impianti che avevano ospitato i più importanti
incontri di calcio negli anni Cinquanta e Sessanta. Nell'anno
della sua inaugurazione, oltre 200.000 spettatori assistettero
dalle gradinate del Maracaná alla finalissima dei Mondiali del
1950 tra Brasile e Uruguay. Le cronache riferiscono di 130.000
persone stipate nello stadio Azadi di Teheran, o dell'Estádio da
Luz di Lisbona stracolmo di 120.000 appassionati. Oltre
124.000 spettatori celebrarono la vittoria del Real Madrid nella
finale di Coppa dei Campioni del 1957 disputatasi al
Chamartín/Santiago Bernabéu. I successivi trionfi della squadra
di Di Stefano, Puskas e Gento allo stadio Heysel di Bruxelles
(1958) e all'Hampden Park di Glasgow (1960) furono salutati
rispettivamente da 67.000 e 128.000 spettatori. All'epoca della
finale di Coppa dei Campioni vinta dall'Inter sul Real Madrid
(1964), il Prater di Vienna poteva contenere 71.000 persone. In
occasione delle Olimpiadi del 1936, l'Olympiastadion di
Berlino arrivò a ospitare 120.000 spettatori.
Nella stagione 1999-2000 la capienza media degli stadi di prima
divisione in Europa è stata di 49.900 spettatori in Italia, 33.700
in Inghilterra, 39.800 in Spagna, 29.800 in Francia e 42.400 in
Germania. Negli Stati Uniti, la Lega professionistica (Major
league soccer) richiede stadi con un minimo di 25.000 e un
massimo di 40.000 posti a sedere.
Molto più suggestivo è classificare gli stadi in base al
significato da essi assunto per avere ospitato partite memorabili
della storia del calcio. In qualche caso, lo stadio viene ricordato
proprio per la partita che vi si è giocata: lo Stadio Azteca di
Città del Messico sarà sempre, non solo per gli italiani, lo stadio
di Italia-Germania Ovest 4-3. Così il Maracaná di Rio de
Janeiro non si separerà mai dal ricordo della finale dei Mondiali
del 1950, persa dal Brasile contro l'Uruguay, e il Centenario di
Montevideo vivrà della memoria del trionfo della nazionale di
casa contro l'Argentina nella prima Coppa del Mondo del 1930.

Tabella 1

In molti altri casi, l'intensità del ricordo è direttamente


proporzionale al grado di coinvolgimento emotivo di un paese
(o di una tifoseria) in un successo sportivo: Wembley
rappresenta per gli inglesi lo stadio della vittoria mondiale del
1966 sui tedeschi. Al Santiago Bernabéu tutti gli italiani hanno
idealmente alzato con gli azzurri la terza Coppa del Mondo
della loro storia, ma lo stadio spagnolo entrato nella leggenda è
il Sarriá di Barcellona, teatro della sensazionale vittoria
dell'Italia sul Brasile. Il Camp Nou di Barcellona è, per i tifosi
del Manchester United, il luogo dove i Red Devils hanno vinto
la loro seconda Coppa dei Campioni dopo trent'anni di
astinenza, sconfiggendo il Bayern Monaco nella più
rocambolesca finale che si ricordi. Allo Stadio Wankdorf di
Berna e al Monumental di Buenos Aires sono legate le prime
Coppe del Mondo di Germania e Argentina. Il punto più alto
della storia calcistica della Danimarca coincide con l'inaspettata
conquista del Campionato d'Europa del 1992, celebratasi allo
Stadio Nye Ullevi di Göteborg a spese della favoritissima
Germania. Uno stadio privo di qualsiasi tradizione calcistica
come il Sanford di Athens, nello Stato americano della Georgia,
è diventato un punto di riferimento per l'intero continente
africano, dopo che la nazionale nigeriana vi ha conquistato il
titolo olimpico nel 1996, superando il Brasile e l'Argentina in
due emozionantissime partite.
La fama di alcuni stadi deriva dal significato simbolico che essi
hanno storicamente assunto nel loro paese, generalmente per
essere la sede degli incontri ufficiali della rappresentativa
nazionale: Wembley per gli inglesi, lo stadio FNB di
Johannesburg per i sudafricani, El Monumental per gli
argentini, El Centenario per gli uruguayani, lo stadio Azadi per
gli iraniani, lo Stadio Olimpico di Atene per i greci, il
Népstadion per gli ungheresi, lo stadio Lia Manoilu per i
rumeni, lo stadio Re Baldovino per i belgi, l'Hampden Park per
gli scozzesi, il Lansdowne Road per gli irlandesi, lo Stadio
Olimpico per i finlandesi, lo Stadium Australia per gli
australiani; in prospettiva, lo Stade de France per i francesi e il
Millennium Stadium per i gallesi.
Fino al 2001, anno in cui gli è succeduto il Millennium Stadium
di Cardiff, Wembley ha anche rappresentato la sede naturale di
quella che gli inglesi definiscono da sempre "la partita più
importante del mondo", ovvero la finale della Coppa
d'Inghilterra. Nell'elenco delle partite indimenticabili della
storia del calcio non possono mancare alcune finali di questo
torneo: il 4-3 con il quale il Blackpool, trascinato da Stanley
Matthews, sconfisse il Bolton nel 1953 ribaltando negli ultimi
tre minuti un risultato che aveva visto il Bolton in vantaggio per
3-1 sino a 20 minuti dal termine; la prima vittoria di un club di
seconda divisione (il Sunderland nel 1973); il trionfo del
Tottenham nel 1981, propiziato dall'argentino Ricardo Villa con
una doppietta; il successo ai supplementari del Coventry City
nella finale del 1987, dopo la rimonta di un doppio svantaggio.
In altri casi, l'importanza di uno stadio deriva
dall'identificazione che se ne fa con la squadra che vi disputa le
partite casalinghe. Ciò accade tipicamente in Inghilterra, dove il
legame tra il club e lo stadio, proprio perché esclusivo, è molto
più stretto di quanto non sia, per esempio, in Italia: così l'Old
Trafford è, inequivocabilmente, lo stadio del Manchester
United, Anfield Road quello del Liverpool e Highbury la casa
dell'Arsenal.
Per molti innamorati del calcio, l'unica classifica che renda
giustizia al valore reale degli stadi è quella basata sulla
'atmosfera' che vi si respira: Estádio da Luz (teatro delle
imprese del Benfica), San Siro (Milan e Inter), La Bombonera
(Boca Juniors), Camp Nou (Barcellona), Old Trafford
(Manchester United), Anfield Road (Liverpool), Maracaná
(Botafogo, Flamengo, Fluminense e Vasco da Gama),
Monumental (River Plate), Centenario (Peñarol), Ibrox Park
(Rangers), Celtic Park (Celtic), San Mamés (Athletic Bilbao)
rientrano, di diritto, in questa categoria.
In almeno una decina di casi, poi, gli stadi devono la loro fama
al verificarsi di un evento tragico in occasione di una partita di
calcio: Ibrox Park di Glasgow (94 morti e 700 feriti in tre
distinti incidenti nel 1902, 1961 e 1971); Hillsborough di
Sheffield (96 morti e 500 feriti nel 1989, provocati dalla calca
dei tifosi senza biglietto: da questa sciagura ha preso il via il
processo di ammodernamento degli stadi inglesi); Estádio
Nacional di Lima (318 morti e 1000 feriti nel 1964); Stadio
Lenin di Mosca (340 morti e 1000 feriti nel 1982); Bradford (56
morti nell'incendio del 1985); Heysel (39 morti e oltre 240 feriti
in occasione della finale di Coppa dei Campioni del 1985);
Furiani di Bastia (15 morti e più di 2000 feriti per il crollo di
una tribuna nel 1992); Mateo Flores di Città del Guatemala (84
morti nel 1996); Ellis Park di Johannesburg (47 morti nel
2001); stadio di Accra (126 morti nel 2001).
La lista degli stadi da ricordare non può chiudersi senza
menzionare quelli che hanno lasciato o promettono di lasciare
una traccia sul piano architettonico o delle soluzioni
tecnologiche innovative introdotte: Stadio Olimpico di Monaco,
Amsterdam ArenA, Gelredome di Arnheim, Philips Stadion di
Eindhoven, Millennium Stadium di Cardiff, Stadium Australia
di Sydney, Ashburton Grove di Londra (nuovo stadio
dell'Arsenal), May Day Stadium di Pyongyang, Stade de France
di Saint-Denis, Sapporo Dome, nuovo Wembley, Atatürk
Olympic Stadium di Istanbul, Arena auf Shalke di
Gelsenkirchen, Stadium of Light di Sunderland, Parken di
Copenaghen, nuovo stadio di Seul, Invesco Field at Mile High
di Denver (ma l'elenco è certamente soggettivo e non esaurisce
gli esempi possibili).

Le organizzazioni internazionali
di Salvatore Lo Presti

FIFA (Fédération internationale de football association)

Data di fondazione: 21 maggio 1904


Presidenti: 1904-06: Robert Guérin (Francia); 1906-18: Daniel
Burley Woolfall (Inghilterra); 1921-54: Jules Rimet (Francia);
1954-55: William Seeldrayers (Belgio); 1955-61: Arthur
Drewry (Inghilterra); 1961-74: Stanley Rous (Inghilterra);
1974-98: João Havelange (Brasile); 1998-: Joseph Sepp Blatter
(Svizzera)
Federazioni affiliate: 204
Giocatori tesserati: 12.978.000
Arbitri tesserati: 720.000
Club affiliati: 305.000
Il progetto di dar vita a un ente che sovrintendesse all'attività
calcistica mondiale prese corpo, attraverso una serie di incontri
e colloqui, nei primissimi anni del 20° secolo, quando si
cominciarono a di-sputare le prime partite internazionali nel
continente. L'intenzione iniziale era quella di riconoscere il
ruolo predominante della Federazione inglese, la Football
Association, costituitasi fin dal 1863 e che aveva avuto il merito
di regolamentare il gioco del calcio tramite l'International
football association board, coin-volgendo nell'attività e
nell'organizzazione le Federazioni di Scozia, Galles e Irlanda.
Tuttavia quando, dal loro atteggiamento passivo, apparve chiaro
che gli inglesi erano riluttanti a contribuire alla fondazione di un
organismo internazionale, i segretari delle Federazioni di
Francia e Belgio, Robert Guérin e Louis Muhlinghaus, decisero
di muoversi autonomamente e, incontratisi il 1° maggio 1904 a
Bruxelles in occasione della partita Belgio-Francia, diramarono
gli inviti per una riunione da svolgersi tre settimane dopo a
Parigi, destinata a diventare l'assemblea costitutiva della FIFA.
La Federazione internazionale delle associazioni calcistiche fu
dunque costituita a Parigi, nella sede dell'Unione francese degli
sport atletici, al 229 di rue Saint-Honoré, il 21 maggio 1904, al
termine di una riunione cui presero parte i francesi Robert
Guérin e André Espir, i belgi Louis Muhlinghaus e Max Khan,
il danese Ludvig Sylow, l'olandese Carl A. Wilhelm
Hirschmann, lo svizzero Victor E. Schneider. Presenti, per
delega, i rappresentanti della Svezia e del Madrid FBC. Due
giorni dopo, il primo congresso della FIFA procedeva
all'elezione di Guérin alla presidenza, affidando a Muhlinghaus
la carica di segretario. L'anno successivo, grazie alla sottile
diplomazia del barone Edouard de Laveleye, la Federazione
inglese aderì alla FIFA, riconoscendo le Federazioni che ne
avevano promosso la nascita.
Oggi, a quasi cento anni dalla sua fondazione, la -FIFA ha la
sua sede a Zurigo, raggruppa 204 Federazioni affiliate a sei
Confederazioni continentali (l'America ne ha due) e amministra
un movimento di 305.000 club e 1.548.000 squadre,
242.378.000 giocatori tesserati (il 4,1% della popolazione
mondiale) e 720.000 arbitri.

UEFA (Union des associations européennes de football)

Data di fondazione: 2 marzo 1955


Presidenti: 1955-62: Ebbe Schwarz (Danimarca); 1962-73:
Gustav Wiederkehr (Svizzera); 1973-83: Artemio Franchi
(Italia); 1984-90: Jacques George (Francia); 1990-: Lennarth
Johansson (Svezia)
Federazioni affiliate: 51
Giocatori tesserati: 8.839.000
Arbitri tesserati: 417.000
Club affiliati: 224.000

L'idea di costituire un'Associazione che riunisse le Federazioni


calcistiche europee fu avanzata fin dall'inizio degli anni
Cinquanta ‒ parallelamente all'intento di creare, anche in
Europa, una competizione fra squadre nazionali come quella
che, col nome di Coppa America, veniva organizzata dal 1916
in Sud America ‒ da alcuni dirigenti d'avanguardia, come il
presidente della Federazione italiana Ottorino Barassi, il
segretario generale della Federazione francese Henry Delaunay,
il suo collega belga José Crahay. L'idea fu accolta con favore e
sostenuta dallo svizzero Ernst Stommen e da Stanley Rous,
all'epoca segretario della Federazione inglese. Dopo che nel
1953 la FIFA aveva provveduto alle necessarie modifiche al
proprio statuto, il 15 giugno 1954, a Basilea, durante i
Mondiali, fu deciso di costituire una Confederazione europea,
con un comitato esecutivo provvisorio formato, oltre che da
Crahay e da Delaunay, dall'austriaco Josef Gero, dallo scozzese
George Graham, dal danese Ebbe Schwarz e dall'ungherese
Gustav Sebes. La settimana successiva, a Berna, il comitato
elesse presidente Schwarz. Il 2 marzo 1955 ‒ data di nascita
ufficiale ‒ le 29 Federazioni europee aderenti all'UEFA ne
approvarono lo statuto, confermarono il danese Schwarz alla
presidenza e completarono l'esecutivo con l'ingresso del tedesco
Peco Bauwens, del greco Constantin Constantaras e
dell'austriaco Alfred Frey (che sostituì il compatriota Gero, nel
frattempo scomparso). La prima sede dell'UEFA fu in rue de
Londres, a Parigi, ma già nel 1959 venne trasferita a Berna,
dapprima in un ufficio in affitto, successivamente alla Maison
des Sport, infine, nel 1974, nel periodo di presidenza di Artemio
Franchi, in un edificio acquistato al 33 di Jupiterstrasse. Ultimo
trasferimento (nel 1999), a Nyon, presso Ginevra, in una
modernissima sede sul lago.

CSF (Confederación sudamericana de fútbol)

Data di fondazione: 9 luglio 1916


Presidenti: 1916-20: Hector Rivadavia Gomez (Uruguay);
1920-21: Leon Peyrou (Uruguay); 1921-36: Alfredo V. Viera
(Uruguay); 1936-39: Luis O. Salessi (Argentina); 1939-55: Luis
A. Valenzuela (Cile); 1955-57: Carlos Dittborn Pinto (Cile);
1957-59: José Ramos de Freitas (Brasile); 1959-61: Fermin
Sorhueta (Uruguay); 1961-66: Raúl H. Colombo (Argentina);
1966-86: Teófilo Salinas Fuller (Perù); 1986-: Nicolas Leoz
(Paraguay)
Federazioni affiliate: 10
Giocatori tesserati: 1.632.000
Arbitri tesserati: 17.000
Club affiliati: 23.000

La Confederazione sudamericana di calcio ‒ nota anche come


Conmebol ‒ fu fondata a Buenos Aires il 9 luglio 1916, giorno
della festa nazionale argentina, grazie all'impulso di un
dirigente uruguayano, Hector Rivadavia Gomez, che da tempo
era un acceso sostenitore dell'idea. Quel giorno l'assemblea
straordinaria della Federazione argentina, allargata ai delegati di
Brasile, Cile e Uruguay, decise all'unanimità di dar vita alla
Confederazione, costituendo una Commissione per la
realizzazione pratica del progetto. Il 15 luglio venne approvato
lo statuto. Fu aperta una sede a Montevideo, e Rivadavia
Gomez, che aveva formalizzato la proposta in assemblea, fu
nominato director honorario, mentre la segreteria fu affidata a
Celestino Mibelli. Nel 1921 si affiliò il Paraguay, seguito dal
Perù (1925), dalla Bolivia (1926), dall'Ecuador (1927), dalla
Colombia (1936) e dal Venezuela (1952). Nel 1987 la sede
della Conmebol, che era stata a lungo itinerante in dipendenza
dalla nazionalità del presidente, è stata trasferita ad Asunción,
in Paraguay (la scelta è stata confermata in via definitiva nel
1990).

CONCACAF (Confederación norte, centroamericana y del


Caribe de fútbol)

Anno di fondazione: 1961


Presidente: 1961-68: Ramon Coll Jaumet (Costa Rica); 1968-
90: Joaquin Soria Terrazaz (Messico); 1990-: Jack Austin
Warner (Trinidad e Tobago)
Federazioni affiliate: 40
Giocatori tesserati: 773.000
Arbitri tesserati: 126.000
Club affiliati: 13.000

La CONCACAF nacque nel 1961 dalla fusione della CCCF


(Confederación centroamericana y del Caribe de fútbol) e della
NAFC (North American football confederation). Soci fondatori
erano il Messico, la sola nazione calcisticamente importante
dell'area, insieme con Cuba, Guatemala, Honduras e Antille
Olandesi. Attualmente alla CONCACAF risultano affiliate 40
Federazioni, dal Canada al Suriname.

CAF (Confédération africaine de football)

Data di fondazione: 8 febbraio 1957


Presidenti: 1957-58: Abdelaziz Abdallah Salem (Egitto); 1958-
68: Abdelaziz Mostafa (Egitto); 1968-72: Abdelhalim
Mohamed (Sudan); 1972-87: Ydnekatchev Tessema (Etiopia);
1988-: Issa Hayatou (Camerun)
Federazioni affiliate: 52
Giocatori tesserati: 625.000
Arbitri tesserati: 27.000
Club affiliati: 13.124

La CAF fu fondata l'8 febbraio 1957 in un salone del Grand


Hotel di Karthoum, in Sudan, dai delegati di Egitto, Etiopia,
Sudan e Repubblica Sudafricana, dopo che l'esigenza, ormai
indifferibile, di un organismo che disciplinasse l'attività
calcistica africana e ne portasse avanti le istanze era stata
evidenziata nel corso del 30° Congresso della FIFA, svoltosi nel
giugno del 1956 a Lisbona. Primo presidente fu l'ingegnere
egiziano Abdelaziz Abdallah Salem e, secondo lo statuto, la
prima sede fu fissata al Cairo, al 3 della via El Hadiqa, nel
quartiere di Città Giardino. Dopo aver cambiato sede in base
alla nazionalità dei suoi presidenti, la CAF ha poi fissato
definitivamente il proprio quartier generale nella capitale
egiziana.
AFC (Asian football confederation)

Data di fondazione: 8 maggio 1954


Presidenti: 1954-55: Sri Man-Kam Lo (Hong Kong); 1955-56:
Kwok Chan (Hong Kong); 1957: T. Louvey (Hong Kong);
1958: Kwok Chan (Hong Kong); 1958-77: Tunku Abdul
Rahman Putra Al-Haj (Malaysia); 1977-78: Khamiz Atali
(Iran); 1978-94: Tan Sri Datuk Seri Raja Haji Hamzan
(Malaysia); 1994-: Sultan Haji Ahmad Shah (Malaysia)
Federazioni affiliate: 40
Giocatori tesserati: 989.000
Arbitri tesserati: 128.000
Club affiliati: 29.000

La Confederazione asiatica di calcio fu fondata a Manila


(Filippine) l'8 maggio 1954 da 12 Federazioni nazionali
(Afghanistan, Birmania, Cina, Hong Kong, India, Indonesia,
Giappone, Corea del Sud, Pakistan, Filippine, Singapore e
Vietnam). La sede, fissata per molti anni a Hong Kong, si è poi
spostata in Malaysia, prima a Penang e infine a Kuala Lumpur.
Le nazioni affiliate sono attualmente 40.

OFC (Oceania football confederation)

Anno di fondazione: 1966


Presidenti: 1968-70: William Walkley (Australia); 1970-78:
Jack Cowie (Nuova Zelanda); 1978-82: Arthur George
(Australia); 1982-2000: Charles Dempsey (Nuova Zelanda);
2000-: Basil Scarsella (Australia)
Federazioni affiliate: 11 (+ 1 provvisoria, + 2 aggregate)
Giocatori tesserati: 120.000
Arbitri tesserati: 5000
Club affiliati: 3000
La Confederazione calcistica dell'Oceania, destinata a riunire i
movimenti calcistici delle nazioni affacciate sull'Oceano
Pacifico, nacque per iniziativa del presidente della FIFA
Stanley Rous e dei presidenti delle Federazioni australiana Jim
Bayutti e neozelandese Sid Guppy, dopo che la Confederazione
asiatica si era rifiutata di affiliare Australia e Nuova Zelanda.
La nascita fu approvata dal congresso della FIFA del 1966. Fra
i fondatori, oltre ad Australia e Nuova Zelanda, figuravano
anche Figi e Papua Nuova Guinea (la Nuova Caledonia fu
accettata come membro provvisorio essendo le sue strutture
sportive inquadrate in quelle francesi). Nel 1972 l'Australia uscì
dall'OFC per legarsi all'AFC; rientrò nel 1978, dopo
l'affiliazione di Taipei alla Confederazione asiatica. Nel 1990
l'OFC ha ottenuto lo status pieno di Confederazione e un posto
nel Comitato Esecutivo della FIFA.
Nel 1998 è stata aperta una nuova sede ad Auckland. Due anni
dopo, il presidente dell'OFC, Charles J. Dempsey, è stato
travolto dallo scandalo seguito alla sua votazione a favore della
Germania (dopo che l'assemblea gli aveva dato mandato di
sostenere il Sudafrica) per l'assegnazione del Campionato del
Mondo del 2006, e ha rassegnato le proprie dimissioni.

Aspetti legislativi
di Marco Brunelli

Tutti i passaggi fondamentali in oltre cento anni di storia del


calcio mondiale sono stati accompagnati da importanti
innovazioni regolamentari introdotte dalle istituzioni sportive. È
questo il caso, per limitarsi al calcio italiano del secondo
dopoguerra, delle decisioni riguardanti: la struttura dei
Campionati (che hanno assunto la forma attuale nel 1988); la
creazione delle diverse Leghe (la Lega di serie A e B nel 1946,
quella di serie C e la Lega dilettanti nel 1959); la possibilità di
tesserare calciatori stranieri (introdotta con varie limitazioni dal
1946 al 1966 e reintrodotta a partire dal 1980); l'adozione di
misure volte a risanare i conti dei club (tetto massimo per la
rosa calciatori; blocco degli ingaggi e obbligo di regolare la
campagna trasferimenti attraverso la FIGC nel 1953; norme di
controllo dei costi e dell'indebitamento nel 1967; limitazione
degli acquisti dei calciatori secondo le reali possibilità
economiche dei club nel 1976; istituzione, all'interno della
FIGC, della CoViSoC ‒ Commissione di vigilanza sulle società
di calcio professionistiche ‒ nel 1987; obbligo di certificazione
dei bilanci nel 1988); l'istituzione dello status ufficiale di
calciatore professionista nel 1957; la trasformazione delle
associazioni calcistiche di serie A e B in società per azioni nel
1967; l'introduzione dell'obbligo della 'firma contestuale' del
calciatore in caso di trasferimento nel 1978.
In Inghilterra, la Federazione impose il primo tetto salariale
(salary cap) nel 1900 (mantenuto con aggiustamenti fino al
1961) e il primo limite agli importi dei trasferimenti nel 1908.
L'introduzione del professionismo risale al 1885. La regola che
fissava un limite massimo al pagamento di dividendi è stata
imposta nel 1896 e successivamente, nel 1920, 1974 e 1983, il
limite è stato alzato. L'abolizione del vincolo, anticipata da una
decisione dell'Alta Corte di Giustizia, è del 1978.
Solo in epoca più recente, tuttavia, a riprova della crescente
complessità dei problemi e della rilevanza degli interessi in
gioco, il funzionamento dei mercati calcistici è divenuto oggetto
sistematico di attenzione da parte del legislatore e ha ispirato
innovative sentenze giurisprudenziali. Nessuna legge nazionale
ha avuto sull'organizzazione calcistica, il mercato del lavoro
sportivo e i bilanci dei club l'impatto della 'sentenza Bosman'
(sentenza della Corte di Giustizia europea del 15 dicembre
1995, caso C-415/93), preceduta da una sentenza della Corte di
giustizia europea del 1976 (sentenza della Corte di Giustizia
europea del 14 luglio 1976, caso 13/76), che ha, di fatto, avviato
il processo di liberalizzazione del mercato dei calciatori. Nella
stessa direzione è indirizzato il nuovo Regolamen-to dei
trasferimenti, imposto nel 2001 dalla Commissione Europea
alla FIFA.
Con la 'sentenza Bosman' è comparso sulla scena dello sport un
nuovo regolatore sopranazionale, l'Unione Europea, che è
ripetutamente intervenuto a dettare le regole di funzionamento
dei mercati calcistici o a verificare quelle che i suoi membri si
erano dati autonomamente. La Direzione Generale responsabile
per la concorrenza si è occupata di oltre 60 casi che interessano
lo sport, dalla libertà di circolazione dei calciatori sotto
contratto, alla titolarità dei diritti televisivi, alla durata dei
contratti di esclusiva, all'acquisto di club sportivi da parte di
gruppi dell'entertainment, alla natura monopolistica delle
Federazioni, alla negoziazione centralizzata dei contratti di
sponsorizzazione, alla libertà di movimento delle società
sportive nello spazio europeo, all'ammissibilità degli aiuti di
Stato allo sport, alla multiproprietà dei club, alla vendita dei
biglietti degli eventi, ai criteri di selezione degli atleti per le
squadre nazionali.
A livello nazionale, nel 1984 in Francia (l. 16 luglio 1984, nr.
610, e successive modifiche), nel 1990 in Spagna (l. 15 ottobre
1990, nr. 10) e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615)
sono state approvate importanti leggi-quadro sullo sport che
hanno disciplinato i ruoli e le funzioni delle Federazioni e delle
Leghe professionistiche.
I rapporti tra società sportive e atleti professionisti (diritti e
doveri di entrambe le parti; abolizione del vincolo) sono stati
regolati nel 1981 in Italia (l. 23 marzo 1981, nr. 91), nel 1978 in
Belgio (l. 24 febbraio 1978), nel 1985 in Spagna (r.d. 26 giugno
1985, nr. 1006), nel 1991 in Grecia (l. 5 agosto 1991, nr. 1958)
e nel 1998 in Brasile (l. 24 marzo 1998, nr. 9615). Nell'estate
del 1963 una decisione dell'Alta Corte britannica aveva già
dichiarato illegittimo il vincolo, presente nel regolamento della
Football League sin dal 1888, stabilendo che un calciatore è
libero a scadenza di contratto se il club non esercita l'opzione di
rinnovo. Un documento di emanazione governativa, il 'rapporto
Taylor' del 1990, ha cambiato la storia del calcio inglese. Le
misure suggerite dal giudice Taylor per garantire la sicurezza
negli stadi dopo la tragedia di Hillsborough, infatti, hanno
portato alla trasformazione degli stadi inglesi in moderne
strutture polifunzionali, alla nascita della Premier League e
all'impennata dei fatturati dei club inglesi.
Oltre che in Inghilterra (Public order act 1986, Football
spectators act 1989, Football offences and disorder
act 1999, Football disorder act 2000), anche in Francia (l. 16
luglio 1984, nr. 610, e successive modifiche) e in Spagna (l. 15
ottobre 1990, nr. 10, e R.D. 21 maggio 1993, nr. 769) lo
sviluppo recente del calcio sarebbe stato impensabile senza
precise leggi a tutela dell'incolumità degli spettatori e del
miglioramento delle condizioni degli stadi. La stessa logica ha
ispirato, in Italia, la recente approvazione di nuove misure anti-
violenza (l. 19 ottobre 2001, nr. 377).
Dal 1996 in Italia (l. 18 novembre 1996, nr. 586) e dal 1998 in
Spagna (l. 30 dicembre 1998, nr. 50), le società di calcio
possono quotarsi in Borsa, così come avveniva già da tempo in
Inghilterra. In Francia, il legi-slatore ha ugualmente inteso
aprire il capitale delle società professionistiche agli investitori
esterni, ma ha ritenuto la specificità dell'attività sportiva
incompatibile con l'ammissione dei club al listino (l. 28
dicembre 1999, nr. 1124).
L'intensificarsi dei rapporti tra sport e televisione ha prodotto
leggi e sentenze che hanno fortemente inciso sull'operato delle
organizzazioni calcistiche. In Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610,
e successive modifiche), Inghilterra (sentenza della Restrictive
practice court del 28 luglio 1999), Germania (art. 31 della legge
antitrust nr. 1081 del 1957, così come emendato nel maggio
1998), Danimarca (sentenza antitrust del novembre 1997) e
Spagna (disposizione transitoria della l. 15 ottobre 1990, nr. 10,
contestata e disattesa dai club a partire dal 1996) è stata
autorizzata la vendita collettiva dei diritti da parte delle Leghe o
delle Federazioni. La stessa prerogativa è stata riconosciuta alle
Leghe professionistiche americane sin dal 1961 (Sports
broadcasting act 1961). Viceversa, in Italia (l. 29 marzo 1999,
nr. 78, e provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza
e del mercato del 1° luglio 1999, nr. 7340), Grecia (l. 17 giugno
1999, nr. 2527), Olanda (sentenza del Tribunale di Rotterdam
del 9 settembre 1999) e Germania (per le Coppe europee:
sentenza della Suprema Corte Federale dell'11 dicembre 1997)
si è stabilito che i diritti appartengono ai club. Altri casi sono
tuttora pendenti: i più importanti riguardano la vendita collettiva
dei diritti televisivi della Champions League e del Campionato
tedesco e i diritti per la telefonia mobile del Campionato
francese.
Molti paesi, come Francia (l. 16 luglio 1984, nr. 610, e
successive modifiche), Belgio (Decreto Ministeriale della
Comunità fiamminga 17 marzo 1998), Spagna (l. 3 luglio 1997,
nr. 21), Germania (Rundfunkstaatsvertrag 31 agosto 1991, art.
5), Grecia (l. 5 agosto 1991, nr. 1958), Portogallo (l. 14 luglio
1998, nr. 31/A) hanno regolamentato per legge il cosiddetto
'diritto di cronaca', definendo con precisione le condizioni alle
quali è consentito l'accesso agli stadi delle emittenti che non
hanno acquistato i diritti, ma svolgono ugualmente una funzione
informativa.
Un'innovativa direttiva dell'Unione Europea (direttiva
552/89, Televisione senza frontiere) ha imposto ai paesi membri
di predisporre l'elenco dei programmi che, per il loro rilevante
interesse sociale, non possono essere trasmessi a pagamento. In
Italia (decisione dell'Autorità per le comunicazioni del 28 luglio
1999, nr. 172) gli eventi sportivi da diffondere in chiaro sono,
oltre al Giro d'Italia di ciclismo, al Gran Premio d'Italia di
Formula 1 e alle Olimpiadi, le partite ufficiali della nazionale, le
finali dei Mondiali e degli Europei, la finale e le semifinali della
Champions League e della Coppa UEFA se coinvolgono una
squadra italiana.
Caso pressoché unico al mondo, il governo francese ha fatto
inserire nella legge finanziaria del 1999 una tassa del 5% sui
ricavi televisivi di tutte le organizzazioni sportive, da destinare
alla promozione dello sport di base. Più spesso, però, la valenza
sociale del calcio ha giustificato interventi di sostegno da parte
del legislatore, come nel caso delle risorse destinate al piano di
risanamento economico dei club dalla 'legge dello sport'
spagnola del 1990, o le agevolazioni fiscali concesse alle
società di calcio in molti paesi.

Doping
di  Leonardo Vecchiet, Luca Gatteschi, Maria Grazia Rubenni

L'atleta ha spesso cercato di aumentare le proprie prestazioni in


maniera artificiale. Nei tempi antichi, secondo le notizie che
abbiamo a disposizione, in Cina si utilizzavano estratti di
efedra, pianta che contiene l'alcaloide efedrina. In Europa i
racconti della mitologia nordica narrano che i guerrieri -
accrescevano le loro forze bevendo pozioni di amanita
muscaria, che contiene l'alcaloide bufoteina. In Grecia venivano
somministrate miscele di piante e di funghi per aumentare la
capacità nelle corse di fondo. In America del Sud si
utilizzavano foglie di coca per sostenere delle corse che
potevano durare tre giorni e tre notti con scarsissimi periodi di
riposo. Allo stesso modo in America del Nord veniva assunto il
peyotl, contenente l'alcaloide mescalina, che permetteva di
correre fino a 72 ore consecutive.
Negli ultimi decenni si è progressivamente ricorso a mezzi
proposti dalla moderna farmacologia. Questa ha messo a punto
sostanze che sono estremamente attive per curare malattie
importanti, ma che, per quanto riguarda alcuni composti, hanno
anche un effetto positivo sulle prestazioni fisiche dei soggetti
sani. L'elevato grado di specializzazione e di allenamento
richiesto oggi in tutte le attività sportive ha portato molti a
credere che l'uso di sostanze farmacologiche o di altre
procedure dopanti sia indispensabile per potere avere successo
nelle competizioni. Tuttavia, l'assunzione di farmaci per
aumentare la prestazione è un atto grave contro la morale
sportiva, in quanto contravviene al principio che ciascuno deve
gareggiare secondo le proprie capacità, acquisite attraverso i
sacrifici imposti da un corretto allenamento e da un adatto stile
di vita. L'inosservanza di tali norme è punita con sanzioni molto
severe ma, soprattutto, l'uso indiscriminato di farmaci può
determinare un grave danno alla salute in tempi più o meno
brevi.
Il primo caso mortale legato a uso di sostanze dopanti risale al
1886 in Francia, durante una competizione di ciclismo. In quei
tempi si utilizzavano nitroglicerina, cocaina, eroina, trimetilene,
ossigeno, stricnina, come pure zollette di zucchero imbevute di
etere o di bevande alcoliche.
Intorno al 1950, la diffusione e la popolarità raggiunte dallo
sport agonistico, in particolare calcio e ciclismo, spingono la
medicina dello sport a occuparsi con sempre maggiore interesse
dei principali aspetti di tipo fisiologico e fisiopatologico legati a
tali attività, e dell'uso e abuso di farmaci in generale e di
sostanze ad azione ergogenica in particolare.
Nel 1954, in occasione dei Campionati del Mondo disputati in
Svizzera, si registra il primo caso di sospetto intervento
farmacologico nel calcio: nei giorni successivi alla finale vinta
contro l'Ungheria, infatti, i giocatori della Germania
Occidentale vengono colpiti da un ittero attribuito a
un'intossicazione di natura non determinata. L'ipotesi di doping
rimane tuttavia a livello di semplice congettura.
Nel 1955 la Federazione medico sportiva italiana (FMSI), di
fronte al dilagare dell'uso di farmaci ad attività ergogenica,
cerca di intervenire con informative alle varie Federazioni e
istituisce specifici accordi con l'Unione velocipedistica italiana
per indagini ed eventuali esami clinici e di laboratorio sui
corridori. Sempre nel 1955 iniziano in Francia i primi controlli
antidoping nel ciclismo, che portano al riscontro di circa il 20%
di casi di positività. Nello stesso periodo anche la Federazione
internazionale di atletica leggera manifesta analoghe
preoccupazioni e la medesima volontà di opporsi al doping
emanando un regolamento che "condanna il drogaggio quando
venga attuato con sostanze che non sono di uso comune e che
hanno il potere di aumentare il rendimento fisiologico
dell'atleta".
La Federazione italiana giuoco calcio (FIGC), pur non
apparendo il calcio in Italia particolarmente colpito dal
problema doping, mostra un costante interessamento e inizia a
operare in merito fin dal 1960. Inizialmente viene svolta
un'indagine conoscitiva tesa a raccogliere informazioni sui
prodotti farmaceutici usati dagli atleti al fine di accelerare il
recupero della fatica o di potenziare la prestazione e
sull'eventuale somministrazione di farmaci nei periodi
antecedenti la partita o durante l'intervallo della stessa. Tali
rilievi vengono eseguiti inviando due medici sui campi di gioco
della serie A e della serie B. Nella stagione 1960-61 vengono
eseguite 102 ispezioni all'interno delle squadre di serie A (con
un minimo di tre e un massimo di otto per squadra), mentre 88
riguardano quelle di serie B (con un minimo di due e un
massimo di sette per squadra). L'indagine rileva che i
medicamenti che ricorrono con maggior frequenza possono
essere riuniti nei seguenti gruppi: amine psicotoniche, glucosio
e simili (per via orale o endovena), analettici, ormoni ed estratti
d'organo, farmaci cosiddetti dinamogeni, sedativi-tranquillanti,
vitaminici e, episodicamente, a seconda delle necessità, anche
antireumatici, antipiretici, miorilassanti, antibiotici e
chemioterapici. Nella stessa stagione, a scopo sperimentale,
vengono effettuati 36 esami delle urine su giocatori della serie
A e 20 su giocatori della serie B. Gli esami condotti
evidenziano una percentuale di circa il 20% di positività alle
amfetamine e lo stesso per quanto riguarda gli alcaloidi. Tra
coloro trovati positivi vi sono giocatori delle più importanti
società del Campionato di serie A.
Nelle stagioni successive i controlli diventano progressivamente
più approfonditi. Alcuni atleti di ogni squadra, estratti a sorte,
vengono sottoposti a prelievo delle urine nelle quali è ricercata
una serie di sostanze che comprendono in particolare gli
stimolanti psicomotori e altri farmaci agenti sul sistema nervoso
centrale. Nella stagione 1962-63 vengono controllati 875
giocatori, con una positività pari all'1,14%; nella stagione
successiva sono effettuati 964 controlli, con nessuna positività.
Il crollo delle positività nei riguardi degli stimolanti
psicomotori (prevalentemente amfetamine) viene giudicato
come un successo della campagna intrapresa. Va precisato però
che, all'epoca, l'elenco delle sostanze proibite dalla normativa
antidoping della FIGC non risultava adeguato all'enorme
sviluppo della farmacopea, che aveva messo a disposizione
successivamente numerosi composti in grado di incrementare la
prestazione.
In Italia il primo caso di sanzioni conseguenti a doping riguarda
il Napoli, con quattro giocatori squalificati per un mese in
seguito ai risultati dei prelievi effettuati dopo la partita Napoli-
Milan del 27 gennaio 1963. L'episodio più clamoroso avviene
però nella stagione 1963-64, quando cinque calciatori del
Bologna vengono accusati di avere fatto uso di amfetamine
nella partita Bologna-Torino. I giocatori vengono inizialmente
sospesi, ma la Commissione giudicante con la sentenza del 20
marzo decreta la loro assoluzione, in quanto li ritiene implicati a
loro insaputa; viene invece sanzionata la società, con perdita
della partita e penalizzazione di un punto, e sono squalificati per
diciotto mesi l'allenatore e il medico sociale. In seguito a
un'iniziativa personale di tre avvocati bolognesi viene però
interessata la magistratura ordinaria, che con un'operazione a
sorpresa procede al sequestro delle provette per le controanalisi.
In tali provette non viene trovata traccia di amfetamine, e
ulteriori accertamenti effettuati sui campioni di liquido organico
precedentemente analizzati mostrano che le amfetamine
riscontrate non risultano metabolizzate, quindi mai passate per
l'organismo umano. In conseguenza di tali riscontri, nel maggio,
la Commissione di appello federale assolve società, allenatore e
medico sociale ritenendo i campioni esaminati manomessi da
personaggi esterni, non identificati.
Nel 1964 il Consiglio federale della FIGC decide una serie di
innovazioni, tra cui il sorteggio al termine della gara, in
presenza dell'arbitro, per stabilire l'effettuazione o meno del
controllo antidoping, e il deferimento alle Commissioni
disciplinari solo dopo il risultato delle seconde analisi.
Nel 1966 vengono effettuati i primi controlli antidoping in
occasione dei Mondiali di calcio. Nel 1967 il Comitato
olimpico internazionale (CIO) pubblica la prima lista di
sostanze vietate.
Nel 1971 viene promulgata in Italia la legge nr. 1099 sulla
'Tutela sanitaria delle attività sportive', comprensiva anche di
interventi diretti alla repressione del doping. In realtà il disegno
di legge inizialmente presentato dal governo appariva
finalizzato esclusivamente alla repressione del doping, ma alla
Camera viene approvato con emendamenti che lo modificano
profondamente, facendolo divenire una legge organica
riguardante l'intero settore della tutela sanitaria delle attività
sportive.
Nel 1975 viene promulgata una Carta europea dello sport per
tutti nella quale si prende in considerazione e si condanna
l'abuso di farmaci. Nel 1978, durante la Seconda conferenza
europea, il Consiglio dei ministri adotta una risoluzione su
'Doping e salute' che enfatizza sia i danni impliciti nell'uso di
farmaci sia l'importanza di trovare efficienti strade per
evidenziare l'uso illegale delle sostanze dopanti. Nel 1981, in
Italia viene fondata la Libera associazione dei medici italiani
del calcio (LAMICA) tra i cui compiti rientra anche quello della
lotta al doping.
Nel 1984 il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa redige
una Carta europea contro il doping nello sport che invia come
raccomandazione a tutti i governi degli Stati membri. Nel luglio
1988 il Consiglio nazionale del Comitato olimpico nazionale
italiano (CONI) emana la direttiva alle Federazioni sportive
nazionali di adottare lo stesso elenco di sostanze e metodi
doping previsto dal CIO, e le stesse sanzioni stabilite dalla
Commissione medica del CIO per i casi di positività. Da allora
tale elenco viene annualmente aggiornato dal CIO e
conseguentemente recepito dal CONI e dalla FIGC. Nel 1989 lo
Stato italiano emana la legge nr. 401 sulla frode sportiva, legge
che riguarda solo marginalmente il doping intendendolo come
mezzo che altera il risultato.
Negli anni successivi il dibattito sul doping prosegue, senza
provvedimenti significativi, se non il progressivo ampliamento,
da parte del CIO, della lista di sostanze vietate, alla luce dei
sempre nuovi composti messi a disposizione dalla farmacopea.
In tutto questo periodo, malgrado i numerosi controlli effettuati,
i casi di positività nel calcio sono del tutto sporadici; gli eventi
più eclatanti riguardano l'uso di sostanze amfetaminiche oppure,
più che veri casi di doping sportivo, l'uso di sostanze voluttuarie
quali i cannabinoidi e la cocaina.
Nel novembre 1997, nel continuo sforzo di adottare misure tese
alla protezione della salute dell'atleta e alla luce del diffondersi
dell'uso di eritropoietina, non riscontrabile agli esami
antidoping, il CONI attiva la campagna 'Io non rischio la salute'.
Tale progetto prevede di sottoporre a controlli ematici e urinari
atleti praticanti specialità sportive a rischio di assunzione di
eritropoietina e sostanze simili. Il riscontro di valori di
ematocrito superiori a 50, nell'uomo, e 48, nella donna,
comporta la sospensione dall'attività per un periodo di quindici
giorni, al termine dei quali viene effettuata una nuova
valutazione ai fini della riammissione alle gare. A tale progetto
aderisce anche la FIGC, a partire dalla stagione 1998-99.
Nel luglio del 1998, l'allenatore della Roma, che allora era
Zdenek Zeman, rilascia un'intervista in cui dichiara che
nell'ambiente del calcio circolano troppi farmaci. La
dichiarazione suscita grande scalpore e determina l'apertura sia
di una inchiesta conoscitiva da parte del CONI sia di vari
procedimenti giudiziari. Un'indagine in relazione a presunte
irregolarità nei test antidoping condotti nel calcio porta fra
l'altro alle dimissioni del presidente del CONI, al
commissariamento della FMSI e alla sospensione per tre mesi
dell'attività del laboratorio antidoping dell'Acqua Acetosa a
Roma. Le inchieste svolte dalla magistratura successivamente
scagionano da ogni accusa i responsabili della FMSI al riguardo
di irregolarità nel laboratorio antidoping, che viene riaccreditato
dal CIO e riprende la sua attività a pieno ritmo. Parallelamente
al procedere delle inchieste della magistratura, le istituzioni
sportive mettono in atto iniziative tese a divulgare la
conoscenza del pericolo doping e a combatterne la diffusione.
Tra quelle promosse dalla FIGC figurano l'istituzione di
apposite commissioni e inoltre, a opera della Sezione medica
del Settore tecnico di Coverciano, l'organizzazione di convegni
e seminari e la pubblicazione di materiale scientifico e
divulgativo in merito ai pericoli del doping.
In ambito internazionale, in occasione della Conferenza
mondiale sul doping nello sport, tenuta a Losanna nel febbraio
1999, si definisce l'istituzione di un'Agenzia internazionale
antidoping (WADA, World anti-doping agency), con lo scopo
di promuovere e coordinare la lotta contro il doping nello sport
internazionale. Istituita nel novembre dello stesso anno e
costituita da rappresentanti del Movimento olimpico e
dell'Autorità pubblica in parti uguali, l'Agenzia diviene
pienamente operativa in occasione delle Olimpiadi di Sydney
del 2000. La WADA, cui spetta il compito di emanare e
aggiornare l'elenco delle sostanze vietate, rilascia la prima lista,
in collaborazione con il CIO, il 1° giugno 2001, con validità dal
1° settembre 2001 al 31 dicembre 2002 (v. tab.).
Lo Stato italiano, oltre alle già citate leggi nr. 1099 del 1971 e
nr. 401 del 1989, nel dicembre 2000 promulga la legge nr. 376
in merito alla 'Disciplina della tutela sanitaria delle attività
sportive e della lotta contro il doping', che stabilisce principi
innovativi nel settore, infatti con questa legge "la
somministrazione o l'assunzione di farmaci o di sostanze
biologicamente o farmacologicamente attive e l'adozione o la
sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni
patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o
biologiche dell'organismo al fine di alterare le prestazioni
agonistiche degli atleti" diventa reato penale. Le sanzioni
prevedono multe fino a 100 milioni di lire e reclusione da tre
mesi a tre anni per chi fornisca sostanze dopanti ad atleti sia
professionisti sia dilettanti; le pene aumentano se il reato è
compiuto da un medico, un farmacista o un dipendente di
società sportive e se la somministrazione riguarda atleti
minorenni. Altro punto cardine della riforma è la decisione di
sottrarre i controlli antidoping al CONI e affidarli a un'apposita
commissione di vigilanza istituita presso il Ministero della
Salute, commissione a cui viene affidato anche il compito di
stilare l'elenco dei farmaci dopanti e determinare i criteri per i
controlli. Il doping diventa così reato punibile anche
penalmente come chiesto da numerose componenti dello sport e
della società civile, considerata l'importanza sociale del
problema.
Nella stagione 2000-01 il calcio viene interessato da un nuovo
caso: l'improvviso aumento delle positività a un agente
anabolizzante, il nandrolone. Risultano coinvolti nove giocatori
di serie A e B che sono prima sospesi e successivamente
squalificati. Sul fenomeno vengono aperte numerose indagini, a
opera della Commissione antidoping del CONI, per valutare la
possibilità di un'eventuale contaminazione di integratori assunti
dagli atleti.
Alla luce degli ultimi eventi e allo scopo di indicare le linee di
comportamento e controllare l'assunzione di ogni sostanza,
integratori compresi, agli inizi della stagione sportiva 2001-02
viene redatto un 'Codice di comportamento in materia di lotta al
doping', sottoscritto da tutte le componenti del mondo del calcio
rappresentate dalla Federazione italiana giuoco calcio, dalla
Lega nazionale professionisti, dalla Lega professionisti di serie
C, dalla Lega nazionale dilettanti, dalla Associazione italiana
calciatori, dalla Associazione italiana allenatori di calcio, dalla
Libera associazione medici del calcio e dalla Associazione
preparatori atletici del calcio. Tale codice individua nel medico
sociale il soggetto responsabile dei trattamenti prescritti ai
calciatori, trattamenti che devono essere documentati
utilizzando uno specifico diario clinico ed effettuati solo con il
consenso informato esplicito da parte del giocatore; il medico è
tenuto inoltre a indicare tutti gli integratori che intende
utilizzare nell'arco della stagione. Le società appaiono
responsabili delle eventuali violazioni delle norme di tale codice
imputabili ai medici sociali. Allo stesso tempo il calciatore è
tenuto a comunicare al medico sociale ogni prescrizione
avvenuta da parte di altro medico, producendo un'idonea
liberatoria. Infine, il calciatore è tenuto a sottoporsi a qualsiasi
analisi che il medico sociale ritenga utile ai fini preventivi nella
lotta al doping.

Tabella 1
Aspetti economici
di Marco Brunelli

Il calcio, oltre a rappresentare senza dubbio uno straordinario


fenomeno sociale, culturale e di costume nella maggior parte
dei paesi del mondo, si è affermato anche come una realtà
economica di enormi proporzioni in almeno tre continenti
(Europa, Sud America e Asia), al punto che attualmente
costituisce senza dubbio una delle poche 'industrie globali' del
pianeta. All'inizio del 3° millennio, è giocato da 240 milioni di
persone in 204 paesi. Non è certamente un caso che proprio una
partita di calcio sia stato il programma televisivo più visto nel
2000 in 19 paesi europei su 23, oltre che in Argentina, Brasile,
Cile e Perù.
Il Campionato del Mondo giocato in Francia nel 1998 è stato
trasmesso in 196 paesi del mondo (per 29.700 ore), totalizzando
nel complesso 33,4 miliardi di spettatori. La sola finale tra
Francia e Brasile è stata vista da 1 miliardo di persone. In 153
nazioni si seguono in TV gli incontri del Campionato inglese.
D'altra parte, nei principali 20 Campionati europei giocano
calciatori di 102 paesi diversi.
Dei quasi 16 miliardi di dollari che sono stati spesi nel 2000 per
sponsorizzare lo sport nel mondo, più della metà sono andati al
calcio, ai suoi club, eventi e campioni. Il diritto di trasmettere il
Campionato nazionale costa ogni anno 2830 milioni di euro alle
televisioni di Inghilterra, Italia, Spagna, Francia, Germania,
Brasile, Grecia, Giappone, Olanda, Scozia, Portogallo, Belgio,
Danimarca, Austria, Svizzera e Svezia. Questo dato è evidente
prova del fatto che l'attuale dimensione economica del calcio è
strettamente legata alla scoperta del suo valore mediatico e
promozionale, scoperta di fatto piuttosto recente.
In realtà, il calcio si è caratterizzato come un fenomeno
economico sin dalle sue primissime origini, se è vero che già
nel 1876, nove anni prima che la Football Association
riconoscesse ufficialmente il professionismo, i club inglesi e
scozzesi recintavano il terreno di gioco per far pagare un
biglietto agli spettatori e corrispondevano salari, sotto forma di
rimborsi, ai propri giocatori. Quasi altrettanto antica è
l'abitudine di scambiarsi calciatori a cifre elevatissime: 30.000
lire per Renzo De Vecchi nel 1913; 45.000 per Virginio Rosetta
nel 1925; 100.000 lire più una FIAT 509 per Mumo Orsi nel
1929; 625.000 per Valentino Mazzola nel 1942; 2 milioni per
Silvio Piola nel 1945. Tuttavia, fino ai primi anni Ottanta, il
giro d'affari del calcio mondiale è stato alimentato soprattutto
dai consumi diretti dei suoi numerosissimi appassionati
(biglietti e, in minor misura, scommesse) e dall'apporto diretto
dei soci finanziatori, chiamati spesso a ripianare con mezzi
propri bilanci in perdita. In ogni caso, niente a che vedere con le
dimensioni attuali del business.
Il gradimento del pubblico è stato evidente sin dall'inizio: tra il
1905 e il 1914 la finale di Coppa d'Inghilterra ebbe una media
di 79.300 spettatori paganti (con la cifra record di 120.000 nel
1913). Centomila persone assistettero sia alla finale della prima
Coppa Rimet a Montevideo sia a quella delle Olimpiadi di
Berlino nel 1936. In Inghilterra, nella stagione 1948-49, le
quattro divisioni professionistiche totalizzarono 41,3 milioni di
presenze negli stadi.
In paesi come l'Inghilterra, l'Italia e la Spagna il calcio ha
storicamente alimentato la crescita dell'industria delle
scommesse e dei concorsi pronostici. In Svezia i concorsi
pronostici sul calcio esistono dal 1926, in Inghilterra le
scommesse dal 1927, il Totocalcio svizzero nasce nel 1938,
quelli spagnolo e italiano nel 1946. Vi sono concorsi pronostici
sul calcio in una trentina di paesi del mondo, quasi tutti in
Europa e Sud America. In Italia, la crescita dei giochi è stata
pressoché ininterrotta tra il 1970 e il 1997, quando le giocate
lorde hanno raggiunto i 3831 miliardi di lire, per poi precipitare
in una crisi che prosegue tuttora (1550 miliardi di lire raccolti
complessivamente da Totocalcio, Totogol e Totosei nel 2000,
oltre a circa 1200 miliardi di scommesse sportive). In oltre
cinquant'anni di vita, i concorsi pronostici hanno assicurato al
calcio italiano quasi 2500 miliardi di lire di entrate.
Ciononostante, l'assenza di legami significativi tra lo sviluppo
del calcio e quello di un settore produttivo specifico spiega
perché, fino agli anni Sessanta, l'impatto di questo gioco
sull'economia non sia stato neanche lontanamente paragonabile
a quello di sport come il ciclismo o l'automobilismo, le cui
grandi manifestazioni svolgevano una precisa funzione
promozionale per le rispettive industrie. Anche le
sponsorizzazioni sono arrivate, nel calcio, molto più tardi
rispetto ad altri sport come il ciclismo, l'automobilismo, il
basket o il tennis. La consacrazione moderna del calcio in
quanto industria è, quindi, strettamente legata alla sua
affermazione come straordinario veicolo di comunicazione per
le aziende e come contenuto insostituibile per i media di
concezione vecchia (radio, televisione) e nuova (Internet,
UMTS). In entrambi i casi, decisivi sono stati gli eccezionali
livelli di ascolto raggiunti. Non solo: nel calcio, tale audience è
trasversale e fedele come in nessun'altra forma di spettacolo,
cosa che costituisce un'opportunità irrinunciabile per
inserzionisti pubblicitari e acquirenti di diritti televisivi. In
Italia, nella stagione 1996-97 le entrate da diritti televisivi
hanno superato per la prima volta quelle da vendita di biglietti,
che attualmente rappresentano meno del 20% del totale.

Tabella 1

Nella stagione 2000-01, emittenti e sponsor hanno garantito il


66% delle entrate complessive dei club inglesi di Premier
League, e tale percentuale è aumentata ulteriormente, in
maniera significativa, con l'entrata in vigore del nuovo contratto
televisivo a partire dal Campionato 2001-02. In Francia, l'84%
del fatturato delle società di prima divisione proviene da
televisioni e partner commerciali, che rappresentano l'83% dei
ricavi in Germania, l'81% in Giappone, il 69% in Portogallo, il
68% in Spagna e il 63% in Olanda.

Tabella 2

I soli diritti televisivi generano oltre il 60% del giro d'affari del
Campionato nazionale brasiliano. Per un club come l'Arsenal, il
peso del botteghino è passato dal 93% del fatturato nel 1974 al
42% nel 1994. Nel caso della Roma, l'incidenza dei ricavi da
gare è scesa dal 63% del valore della produzione nel 1988 al
21% nel 2001.

Tabella 3

In meno di vent'anni, il calcio è risultato decisivo per


l'affermazione di alcune delle industrie più dinamiche della
comunicazione e del tempo libero: sponsorizzazioni, pubblicità,
merchandising, televisione commerciale e a pagamento,
Internet. Questo, come è ovvio, si è tradotto in un notevole
ritorno economico: se tra il 1946 e il 1988 il fatturato dei club
inglesi era cresciuto del 3% all'anno, nel decennio successivo
l'incremento medio è stato del 18%. Negli ultimi cinque anni
del decennio scorso, il giro d'affari dei club è aumentato del
22% a stagione in Inghilterra, del 24% in Italia, del 28% in
Spagna, del 15% in Germania e del 22% in Francia.
Attualmente nei paesi dell'Unione Europea, in Brasile e in
Giappone il calcio di prima divisione fattura oltre 6400 milioni
di euro, provenienti per il 40% dalla televisione, per il 24%
dalla biglietteria e per il 36% da sponsorizzazioni e altre attività
commerciali. Considerando anche l'indotto, il giro d'affari totale
del calcio è di 5200 milioni di euro in Italia e di 3200 in
Spagna.
L'aumento delle entrate si è accompagnato, com'era inevitabile,
a quello della remunerazione del principale fattore produttivo: i
calciatori. Già nel 1913 un calciatore inglese (i professionisti
erano 7000) guadagnava più del doppio di un impiegato. Nel
1929, tre anni dopo che la Carta di Viareggio, lo statuto
emanato dal CONI contenente i punti fondamentali dell'Ente
calcio, aveva sancito la distinzione tra dilettanti e non, Orsi
guadagnava 8000 lire al mese (8 volte di più rispetto a un
magistrato). Ma anche in questo caso, è solo dopo il 1960 che il
fenomeno si espande e diventa generalizzato. Gli ingaggi dei
calciatori inglesi di prima divisione sono aumentati del 61% tra
il 1960 e il 1964 e triplicati tra il 1977 e il 1983, in coincidenza
con l'abolizione del tetto salariale e del vincolo. Tra il 1992 e il
2000, gli anni del boom televisivo, la crescita è stata di oltre sei
volte. Nel 1998 il calciatore medio della Premier League aveva
uno stipendio superiore a quello del Governatore della Banca di
Inghilterra e del Primo Ministro. In Italia, nel 1983, lo stipendio
medio lordo annuo di un calciatore di serie A era di 130 milioni
di lire, di 782 nel 1994 e di 2150 nel 2001.
Le entrate dei club sono sempre più inadeguate a pagare gli
ingaggi dei calciatori: nel 1984, in Italia, gli stipendi
assorbivano il 34% dei ricavi, oggi, il 75%. In Inghilterra il
60% (il 38% negli anni Sessanta), in Scozia il 72%, in
Germania il 46%, in Spagna il 55%, in Francia il 64%. Anche la
campagna trasferimenti dei giocatori è andata crescendo di
importanza con l'avvento dell'era televisiva. Da un lato, perché
le maggiori risorse a disposizione dei club sono state investite
nell'acquisto di nuovi calciatori: 105 milioni di lire per Jeppson
nel 1950; più di un miliardo per Savoldi nel 1975; 13 miliardi
nel 1984 per Maradona; 51 miliardi per Ronaldo nel 1997; 90
miliardi per Vieri nel 1999; 110 miliardi per Crespo nel 2000;
150 miliardi per Zidane nel 2001. Dall'altro, perché le società
hanno fatto sempre più ricorso alle plusvalenze del calcio-
mercato per attenuare i pesanti deficit operativi causati
dall'aumento degli ingaggi dei calciatori e dei procuratori. Nella
sola Europa, i trasferimenti alimentano un mercato da 6700
milioni di euro l'anno.
Questo vorticoso giro di passaggi di calciatori da una società
all'altra produce, come inevitabile conseguenza, l'aumento degli
ammortamenti dei diritti pluriennali alle prestazioni dei
calciatori iscritti all'attivo del bilancio dei club, che gravano in
maniera sempre più pesante sui conti degli stessi. Addirittura,
nel caso della serie A italiana, il costo totale dei giocatori,
determinato dalla somma degli stipendi e delle quote di
ammortamento, ha toccato nella stagione 2000-01 il 124% del
valore della produzione, generando una perdita operativa totale
(ovvero prima delle plusvalenze) di oltre 740 milioni di euro.
Altrove, la difficoltà di produrre bilanci in utile si è tradotta
nella crescita esponenziale dell'indebitamento delle società di
calcio professionistiche: 931 milioni di euro per i 20 club della
Liga spagnola al termine della stagione 1999-2000; 290 milioni
per le società di prima divisione francese nel 2000-01; 230
milioni per quelle del Campionato argentino. Attualmente, nei
paesi dell'Unione Europea, oltre un club su due registra una
perdita prima dei trasferimenti dei giocatori: l'83% delle società
in Scozia, il 77% in Portogallo, il 72% in Italia, il 71% in
Svezia, il 61% in Francia. Per far fronte a una situazione tanto
preoccupante, quasi tutte le Federazioni e le Leghe europee
hanno varato negli ultimi anni, o si apprestano a farlo nel
prossimo futuro, rigorose misure di controllo dei costi dei club:
fissazione del numero massimo di giocatori che possono essere
utilizzati da parte di una società; ammissione al Campionato
condizionata al rispetto di determinati parametri di liquidità o
solvibilità economico-finanziaria; imposizione di un salary
cap ("tetto salariale"). In alternativa, i club stanno cercando di
aumentare le proprie entrate, specie attraverso lo sviluppo in
chiave 'globale' di alcuni aspetti del business calcistico che
appaiono ancora marginali, o quantomeno riservati a un numero
esiguo di club: lo sfruttamento commerciale degli stadi, la
valorizzazione dei marchi dei club, la quotazione in Borsa,
l'integrazione con aziende dell'entertainment. Tra il 1990 e il
2000 i club inglesi hanno investito 1070 milioni di sterline nel
miglioramento degli stadi, che sono diventati per molte società
fonti di reddito assai importanti. Il Manchester United, per
esempio, ricava 30 milioni di euro dall'affitto alle aziende di
palchi e altri posti di rappresentanza all'interno dell'Old
Trafford, oltre a 13 milioni di euro dalle attività di ristorazione e
dall'affitto delle sale convegni presenti nello stadio, su un
fatturato complessivo di 210 milioni (2000-01). Ancora più
ampia è la diversificazione delle entrate del Chelsea, che si
estende ben al di là della sola gestione polifunzionale dello
stadio: la squadra di calcio produce 81 dei quasi 151 milioni di
euro che costituiscono il giro d'affari complessivo del club; il
resto proviene dall'attività di un'agenzia viaggi (42 milioni di
euro), da servizi alberghieri e di ristorazione (19), dalla vendita
di prodotti col marchio della società (7,6), dalla gestione di
parcheggi e attività editoriali (0,6), dall'amministrazione di
proprietà immobiliari (0,2).
Secondo una recente indagine della società FutureBrand, 15
club calcistici (4 inglesi, 3 italiani e brasiliani, 2 spagnoli, uno
tedesco, scozzese e olandese) figurano tra i 40 marchi sportivi
più importanti del mondo, in termini di notorietà, palmarès,
seguito internazionale di tifosi e sfruttamento commerciale del
proprio nome. Solo tre di questi, tuttavia, Manchester United,
Real Madrid e Bayern Monaco, occupano uno dei primi 15
posti, a riprova di come, soprattutto per i club italiani, le
potenzialità di valorizzazione del marchio a livello mondiale
siano ancora largamente inesplorate, specie se paragonate a
quelle di molti team professionistici americani.
Per 23 club inglesi (il primo è stato il Tottenham nel 1983,
seguito dal Manchester United nel 1992), 6 danesi, 4 scozzesi, 3
italiani, 2 portoghesi, uno olandese e uno tedesco la quotazione
in Borsa ha rappresentato negli ultimi anni una valida
alternativa all'autofinanziamento o all'indebitamento bancario,
tradizionali fonti di approvvigionamento finanziario delle
società di calcio. Nel 2001, la capitalizzazione complessiva dei
club europei in Borsa è di 4360 miliardi di lire. Nel 2001,
importanti aziende della comunicazione e
dell'entertainment figuravano tra gli azionisti di club calcistici
di Inghilterra, Italia, Francia, Germania, Grecia, Svizzera,
Scozia, Brasile, Austria, Svezia e Repubblica Ceca. In qualche
caso, tali imprese hanno visto nel calcio il veicolo decisivo per
incrementare le proprie entrate tradizionali (abbonamenti
televisivi e pubblicità), come BSkyB in Inghilterra, o per
sviluppare congiuntamente con i club nuovi prodotti e servizi
(canali tematici, portali Internet, servizi new media), come
Granada e NTL sempre in Inghilterra. Altre aziende hanno
puntato su squadre minori nella speranza di ottenere un ritorno
futuro in caso di promozione nelle serie superiori, come
Kinowelt in Germania. Altre ancora sono state spinte dal
desiderio di diversificare le proprie attività, originariamente
confinate nell'ambito dello sport marketing, come IMG e
Octagon. In tutti i casi, le società calcistiche ne hanno tratto
significativi vantaggi, in termini di apporto di capitali,
competenze e possibili sinergie operative. La quotazione in
Borsa, insieme all'integrazione dei club con aziende televisive o
dell'entertainment, costituisce secondo molti osservatori una
prova evidente del processo di trasformazione in atto delle
società calcistiche in vere e proprie imprese.

Il calcio-mercato
di Franco Ordine

"Il passaggio di un calciatore da una società all'altra è


consentito per imprescindibili motivi di famiglia o di lavoro":
datata 1911 e redatta in un italiano asciutto che non indulge a
doppiezze né a equivoci, questa è la prima norma che introduce
negli scarni regolamenti dell'epoca il complesso e spettacolare
fenomeno poi passato sotto la definizione di calcio-mercato. È
quindi possibile affermare che il mercato esiste sin dalle origini
del calcio italiano. Le trattative, su cui si è sempre appuntato
l'interesse delle cronache, un tempo si svolgevano in pochi
giorni o settimane, avvenivano in un albergo e più avanti in
complessi residenziali, mentre adesso risultano estese all'intero
anno e si moltiplicano attraverso circuiti di moderna
comunicazione, come Internet e telefoni cellulari.
Varata la norma, fu subito trovato il modo di aggirarla, con
opportune variazioni dei posti di lavoro. Tra i primi a far ricorso
a simili escamotage, vi fu un esperto dirigente del Genoa,
deciso a reclutare rinforzi per la propria squadra in modo di
metterla al passo della Pro Vercelli, a quel tempo al vertice
delle classifiche. Aristodemo Santamaria e Renzo De Vecchi
erano i due calciatori oggetto delle mire genoane. Per il primo,
mezzala dell'Andrea Doria, bisognò sfidare l'ira dei tifosi
doriani e i veleni di un'inchiesta nata dal sospetto di un
compenso (300 lire) illecito; per il secondo, terzino del Milan
ed esponente della nazionale, chiamato 'figlio di Dio' per la sua
classe, si trovò un'occupazione a Genova quale fattorino presso
un istituto bancario. Il risultato premiò gli sforzi dell'anonimo
dirigente ligure: il Genoa vinse lo scudetto, De Vecchi incassò
una promozione a fattorino di direzione dal suo datore di lavoro
e, quel che più conta, un premio speciale, 3 marenghi d'oro del
valore di 100 lire ciascuno, dal club. Nel 1925 ad aggirare la
norma fu la Juventus, decisa ad arruolare Virginio Rosetta,
terzino anche della nazionale, impiegato a Vercelli come
contabile presso le manifatture Lane, con uno stipendio di 1050
lire al mese. Il passaggio di Rosetta fu effettuato seguendo un
percorso analogo a quello di De Vecchi: un trasferimento alla
conceria Aimone-Marsan di Torino con l'identico stipendio e la
promessa di un sostanzioso contributo spese, integrato da ricchi
premi. L'affare si trasformò in un caso e finì con l'occupare le
scarne cronache dei giornali, quando il reclamo di una squadra
concorrente, il Genoa stavolta, segnalò il passaggio durante lo
svolgimento della stagione in cui Rosetta stesso risultava
tesserato della Pro Vercelli. Appena fu possibile ‒ con lo
scudetto al Genoa e la Juventus penalizzata ‒ ristabilire l'ordine
nel Campionato, Rosetta raggiunse Torino senza più proteste: in
cambio la Pro Vercelli incassò ufficialmente il pagamento,
tutt'altro che modesto, di 45.000 lire. La cifra fu superata, sul
finire degli anni Venti, dalle 200.000 lire pretese dalla Lazio per
cedere all'Inter il suo centromediano Fulvio Bernardini, già
ragioniere presso la Banca nazionale di Credito.
Dopo l'istituzione del girone unico di serie A (1929), grazie alla
quale il calcio, divenuto oggetto dell'interesse propagandistico
del regime fascista, varcò i confini regionali, furono prese due
decisioni di segno opposto, ambedue a opera del presidente
della Federazione Leandro Arpinati. Da un lato si procedette
alla chiusura delle frontiere, dall'altro si decise d'incrementare
l'arrivo degli oriundi, giocatori provenienti da altre nazioni ma
dalle scontate origini italiane. I controlli furono severi: Orsi,
destinato alla Juventus, restò fermo per un anno, nonostante la
spesa sopportata (100.000 lire il contratto, 5000 lire mensili lo
stipendio a lui riconosciuto). A inaugurare la serie degli oriundi
fu l'argentino Julio Libonatti, idolo dei tifosi del Rosario, che fu
scelto dal presidente del Torino, il conte Marone Cinzano, nel
corso di uno dei suoi viaggi d'affari in Sud America. Nella sua
scia giunsero successivamente Monti, Orsi e Guaita, che fecero
addirittura parte della nazionale azzurra campione del Mondo
nel 1934.
Fu a quei tempi che cominciò ad affacciarsi alla ribalta
internazionale una figura tipica del calcio-mercato: il
faccendiere, chiamato a seconda dei periodi e delle occasioni
sensale o mediatore, e poi consulente e infine procuratore, ma
comunque caratterizzato dal fatto di riscuotere ricche
percentuali sugli affari conclusi. I primi esponenti della
categoria furono attivi lungo le rotte calcistiche che collegavano
l'Europa al Sud America, in particolare all'Argentina e al
Brasile: si trattava di avventurieri capaci di ricorrere a qualsiasi
trucco, pur di dirottare un calciatore da una società all'altra.
Avvenne, per esempio, che un argentino acquistato dalla
Juventus, Sernagiotto, sbarcasse a Genova con in tasca il
contratto per il Napoli, propostogli durante il viaggio da tale
Schettini, in seguito smascherato. Una beffa ancora peggiore fu
operata dall'Ambrosiana ai danni della Juventus nel marzo del
1940, alla vigilia della Seconda guerra mondiale: il presidente
dell'Ambrosiana, Pozzani, dopo aver ricevuto da Roma una
'soffiata' sull'imminente entrata in guerra dell'Italia, offrì al
collega bianconero De Divonne tre forti giocatori, Locatelli,
Olmi e Perucchetti, in cambio della considerevole cifra di
600.000 lire; l'affare fu concluso rapidamente, ma fu reso
inefficace dalla successiva sospensione del Campionato.
Anche la politica ha esercitato la sua influenza sul calcio-
mercato. Un caso tipico fu il colpo di mano che riguardò Silvio
Piola: centravanti della Pro Vercelli, 51 gol in quattro
Campionati, venne d'ufficio convocato in una caserma romana,
sicché il suo trasferimento alla Lazio, preparato da un
presidente in ottime relazioni con Mussolini, poté avvenire "per
obblighi militari". A guerra finita, un episodio analogo accadde
in Spagna, quando due società storicamente rivali, il Real
Madrid e il Barcellona, si ritrovarono a disputarsi i servigi del
fuoriclasse argentino Alfredo Di Stefano, allora venticinquenne,
che era stato appena ceduto da un club considerato fuori legge
dalla FIFA, i Millonarios di Bogotá al River Plate di Buenos
Aires. I dirigenti di Madrid trattarono con i colombiani, i
rappresentanti di Barcellona con gli argentini. Il braccio di ferro
si risolse con una proposta ambigua della Federazione spagnola:
Di Stefano avrebbe potuto giocare un anno a Madrid e uno a
Barcellona. I catalani respinsero la mediazione e fu la fortuna
del Real.

Tabella 1

Due episodi ancora più clamorosi nella storia del calcio-mercato


risalgono a tempi più recenti. Nel 1981, un attaccante slavo di
discreta fama, Safet Susic, riuscì a firmare, nella stessa sezione
di calcio-mercato, ben tre contratti: uno con l'Inter di Fraizzoli,
uno con il Torino di Sergio Rossi, uno con la Roma di Viola. Il
presidente della Lega professionisti dell'epoca, Antonio
Matarrese, ne decretò immediatamente l'espulsione. Nel 1995
Luis Figo, 23 anni, promettente portoghese dello Sporting di
Lisbona, finì nelle mani di un procuratore senza scrupoli e vide
svanire le intese sottoscritte prima con la Juventus e poi con il
Parma. Non poté venire in Italia e si fermò a Barcellona, il che
peraltro non gli ha danneggiato la carriera.
Quando il calcio-mercato, da affare episodico riservato a pochi
addetti, si trasformò in un fenomeno di costume, in un
appuntamento atteso e seguito da giornali e tifosi, la rassegna
ebbe la necessità di eleggere una città a sua sede stabile e di
modificare abitudini e regolamenti per adeguarli alla statura dei
personaggi nel frattempo saliti alla presidenza di molte società
di calcio. Fra i nomi più illustri, oltre agli Agnelli, la cui
supremazia nella Torino bianconera rimaneva indiscussa, basti
ricordare i Rizzoli per il Milan, il petroliere Angelo Moratti per
l'Inter, il comandante Achille Lauro, sindaco di Napoli e patron
della squadra, il conte Marini Dettina, presidente della Roma,
Renato Dall'Ara, padrone del Bologna, Paolo Mazza, presidente
della Spal salita in serie A. Nella loro scia, lungo i saloni
dell'albergo Gallia, nei pressi della stazione Centrale di Milano
(il calcio-mercato avrà qui la sua sede fino al 1976, quando sarà
trasferito all'hotel Hilton, a 50 metri di distanza), nel mese di
giugno una folla di curiosi poteva seguire da vicino le
schermaglie e le trattative imbastite da dirigenti competenti,
come Gipo Viani e Bruno Passalacqua del Milan, Italo Allodi
dell'Inter, e Andrea Arrica del Cagliari, oltre che da personaggi
minori. Nasceva così la leggenda del calcio-mercato. Su invito
di uno stravagante principe siciliano, Raimondo Lanza di
Trabìa, i presidenti si incontravano per cena in un paio di
ristoranti milanesi dalle parti di piazza Missori, e passavano poi
la notte in albergo a discutere di gol e di rigori parati, di terzini
e mediani da distribuire nelle varie squadre d'Italia. Accanto ai
resoconti veritieri, fiorivano gli aneddoti, i pettegolezzi e le
cronache fantasiose, incentrate soprattutto sulle imprese di
Lanza di Trabìa, proprietario terriero in Sicilia, presidente del
Palermo ma residente a Roma, sposato con l'attrice Olga Villi.
Quando morì suicida, a soli 39 anni, il principe lasciò in eredità
alla moglie la proprietà del cartellino di Enrique Martegani,
giocatore argentino passato dal Padova al Palermo e poi alla
Lazio, abile nel palleggiare ma di scarso valore. L'episodio
diede a Garinei e Giovannini lo spunto per un musical dal
titolo La padrona di Raggio di luna.
L'Italia intanto si avviava alla completa ricostruzione e
sembrava anzi galvanizzata dal boom economico: mentre
venivano riaperte le frontiere per i giocatori stranieri e i club si
andavano trasformando in società per azioni senza scopo di
lucro (riforma del presidente della Federazione, Giuseppe
Pasquale), gli ingaggi diventarono milionari. A sfatare il tabù
del milione, aveva provveduto, già nel 1942, Ferruccio Novo,
presidente del Grande Torino, grazie all'assegno versato al
Venezia per ottenere Loik e Valentino Mazzola, decisivi per
completare la fortissima formazione granata. Nel 1950,
nell'intento di strappare alla concorrenza della Roma lo svedese
Hasse Jeppson, centravanti messosi in luce nell'Atalanta, Lauro
arrivò a versare la cifra record di 105 milioni. La firma
dell'accordo tra l'armatore napoletano e il senatore Turani,
presidente dell'Atalanta, avvenne al termine di una cena in un
ristorante napoletano.
Il vincolo, cioè l'obbligo di rispettare la volontà della società, e
spesso qualche suo capriccio, rendeva vulnerabile la figura del
calciatore, mentre risultava decisivo il ruolo del dirigente. Agli
inizi degli anni Cinquanta vennero introdotte, a questo
proposito, due importanti innovazioni regolamentari: l'opzione,
cioè la possibilità di prenotare in anticipo l'acquisto di un
calciatore, e la comproprietà, cioè l'acquisto del 50% del
cartellino, per la quale il tesserato veniva a trovarsi al servizio
di due padroni.
Negli anni Settanta i debiti delle società e le cifre spese per gli
ingaggi crebbero a dismisura. Dopo la sconfitta della nazionale
di Fabbri ai Mondiali inglesi del 1966, le frontiere erano state
nuovamente chiuse e tali sarebbero rimaste fino al 1980:
restavano tesserabili solo gli oriundi, mentre le valutazioni dei
pochi campioni italiani salivano alle stelle. A rendere meno
complicate le trattative, ma più oneroso il loro costo,
provvedevano i mediatori, chiamati 'mister 5%' per indicare
l'ammontare richiesto per ciascun affare concluso. Tra i più
famosi furono Walter Crociani e Romeo Anconetani, poi
diventato presidente del Pisa.
Il muro del miliardo fu sfiorato per la prima volta dalla
Juventus, passata sotto la guida di Giampiero Boniperti, che nel
1974 acquistò dal Como per 950 milioni il terzino Marco
Tardelli, per altro già promesso all'Inter di Fraizzoli. Presto
anche gli altri presidenti si adeguarono. Nel 1975 il costruttore
napoletano Corrado Ferlaino, erede di Lauro, annunciò
l'acquisto dal Bologna del centravanti Savoldi, per una cifra
superiore al miliardo, che fece gridare allo scandalo. Nel 1984,
riaperte le frontiere, lo stesso Ferlaino, grazie a un prestito del
Banco di Napoli, avrebbe versato 13 miliardi al Barcellona per
assicurarsi Maradona.
Il calcio era ormai diventato una vera industria dello spettacolo,
alla quale una serie di nuovi regolamenti tentava di dare una
disciplina. Al vincolo fu sostituita la firma contestuale, voluta
dall'avvocato Sergio Campana, battagliero presidente
dell'Associazione italiana calciatori (il sindacato di categoria
fondato nel 1968), in virtù della quale senza il consenso del
tesserato non si poteva procedere al suo trasferimento. Il primo
a imporre la propria volontà fu Gigi Riva, mai uscito dalla
Sardegna, nonostante gli affari conclusi una volta con la
Juventus e un'altra con il Milan. In seguito, però, i giocatori si
mostreranno meno determinati nei loro rifiuti, e pronti a
cambiare idea e destinazione di fronte a offerte più
remunerative. Per combattere in modo efficace la figura del
mediatore, Campana nell'estate del 1978 presentò un esposto al
pretore di Milano Costagliola, il quale dispose la perquisizione
della sede del calcio-mercato. Negli stessi giorni Juventus e
Vicenza si contendevano un promettente centravanti, Paolo
Rossi. L'ebbe vinta il presidente del Vicenza, Giuseppe Farina,
che pagò 2,6 miliardi per la comproprietà. Franco Carraro,
allora presidente della Lega professionisti, si dimise per
protesta.
La possibilità di ingaggiare prima uno, poi due, quindi tre
stranieri per squadra ha interamente modificato il calcio-
mercato, dando vita a una sua nuova formulazione sulla quale
hanno poi influito altri importanti fattori, primi fra tutti la
quotazione in Borsa delle società (inaugurata dalla Lazio,
seguita dalla Roma e dalla Juventus) e la cosiddetta 'sentenza
Bosman'. Quest'ultima è stata emessa nel dicembre 1995
dall'Alta Corte di Giustizia europea, dopo il ricorso di Jean-
Marc Bosman, calciatore belga di modesta fama, e ha decretato
la libertà di circolazione dei calciatori nell'ambito dell'Unione
Europea. Nel frattempo le società sono andate riconoscendo ai
loro tesserati stipendi sempre più alti e contratti di durata
sempre più lunga, e per gli ingaggi si sono susseguite sempre
più vertiginose cifre-record: Zidane pagato 150 miliardi, Figo
valutato 143 miliardi, Crespo acquistato per 110 miliardi.
Infine, nel settembre 2001, l'ultima riforma, ottenuta dopo una
mediazione tra Unione Europea e Federazione mondiale. Si
tratta di una svolta epocale, in quanto consente al calciatore di
rescindere un contratto in atto. Il giocatore è quindi libero di
guadagnare sempre più, insieme con i suoi procuratori, diventati
a tutti gli effetti i nuovi padroni del mercato. In Italia spiccano i
nomi di figli d'arte, come Alessandro Moggi, figlio di Luciano,
il potente direttore generale della Juventus, di qualche calciatore
dal passato importante, come Oscar Damiani, o di manager di
solida fama, come Giovanni Branchini, proveniente dalla boxe.
Del Gallia non c'è più traccia nelle cronache, ma il calcio-
mercato continua a occupare i titoli dei giornali e dei
telegiornali.

Il calcio e la televisione
di Marco Brunelli

L'affermazione della televisione ha avuto sullo sviluppo del


calcio moderno un impatto stupefacente, arrivando a
rivoluzionare le basi economiche dell'attività dei club. Fino ai
ricchissimi contratti televisivi degli anni Novanta, infatti,
l'industria del calcio era ben diversa da oggi, tanto in Italia
quanto all'estero. Addirittura, in alcuni periodi, è sembrato che
il calcio non fosse in grado di reggere la sfida competitiva con
altre attività del tempo libero, che attiravano pubblico e
consumi in misura maggiore. Negli anni 1993-2002, i ricavi
dalla cessione dei diritti televisivi del Campionato, nel
frattempo estesisi anche ai diritti Internet, UMTS e altri nuovi
media, sono passati da 190 miliardi di lire a 1880 in Inghilterra,
da 108 a 995 in Italia, da 75 a 460 in Spagna, da 180 a 750 in
Germania e da 63 a 770 in Francia, e sono diventati di gran
lunga la prima voce di entrata dei club. In complesso, nel
periodo 1991-2001, le cinque principali Leghe calcistiche
europee hanno visto aumentare il valore dei loro diritti
televisivi, Internet e UMTS in media del 993%. Il 'valore'
televisivo della UEFA Champions League è aumentato in
misura enorme, facendo passare le entrate complessive dei club
partecipanti da 38 milioni di franchi svizzeri (1993) a 730
(2001). Ancora più impressionante è l'impennata dei diritti
televisivi della Coppa del Mondo: la FIFA ha ceduto quelli
relativi alle edizioni 2002 e 2006 per 2,8 miliardi di franchi
svizzeri, contro i 95 milioni del 1990, i 110 del 1994 e i 135 del
1998.

Tabella 1

Alla base di questi aumenti vi sono la crescita della concorrenza


tra emittenti televisive, la comparsa di nuovi mercati e di nuove
tecnologie (televisione a pagamento, televisione digitale, banda
larga, integrazione tra televisione, Internet e telefoni cellulari),
ma soprattutto l'affermazione dello sport, e del calcio in
particolare, come un contenuto irrinunciabile per qualsiasi
programmazione televisiva. Tutti i dati confermano la natura
di killer content del calcio: 28 dei 30 programmi più seguiti di
tutti i tempi della TV italiana sono state partite della nazionale o
finali di Champions League con squadre italiane; 19 delle 20
trasmissioni sportive complessivamente più viste in Europa nel
2000 sono stati incontri di calcio.
La convergenza fra TV, Internet e nuovi media intensificherà
ulteriormente il fenomeno: l'UEFA ha recentemente stimato in
un miliardo di franchi svizzeri le entrate aggiuntive che i club
europei potrebbero ricavare nei prossimi dieci anni dalla vendita
dei diritti Internet. La disponibilità delle immagini delle partite
di calcio viene ritenuta un elemento decisivo per il decollo dei
servizi UMTS, come dimostrano i ricchi contratti sottoscritti da
Hutchison 3G con una decina di società italiane e con la
Premier League inglese, e da Orange con i club francesi. Lo
stesso contratto di sponsorizzazione siglato dal Manchester
United con Vodafone, il più caro della storia, risponde a questa
logica.
Paradossalmente, però, l'aumento delle entrate TV, avendo
portato con sé quello degli stipendi dei calciatori, ha finito per
penalizzare la redditività dei club. I calciatori inglesi sono
addirittura arrivati a codificare questo principio, minacciando di
non giocare se i loro guadagni non fossero stati legati ai nuovi
contratti televisivi della Lega. La TV ha comunque mutato le
prospettive delle grandi organizzazioni calcistiche mondiali. Da
quando è lievitato il valore dei diritti televisivi, FIFA e UEFA
hanno smesso di essere semplici istituzioni che amministrano le
competizioni internazionali, per trasformarsi in agenzie di
commercializzazione delle stesse, sul modello delle Leghe
professionistiche americane o della Premier League inglese.
Inoltre, è stato proprio il mezzo televisivo a ideare nuove
manifestazioni. È infatti naturale, dal momento che il calcio
costituisce un fenomeno così importante per le emittenti, che
queste pensino a costruirsi avvenimenti su misura: dal
Mundialito clubs proposto dalle reti Fininvest nel 1981 alla
Superlega Europea progettata da altri grandi gruppi televisivi e
agenzie mediatiche.
La TV ha poi ridefinito le gerarchie e, in qualche misura, la
geografia del calcio: il bacino di utenza televisivo è diventato la
vera misura del valore di mercato di un club, persino al di là dei
suoi risultati sportivi. Inevitabilmente, la ripartizione sempre
più squilibrata delle maggiori risorse televisive ha accresciuto il
divario tra grandi e piccole società.
Sul modo stesso di giocare a calcio il mezzo televisivo ha
esercitato una notevole influenza: per sfruttare o accontentare la
TV si sono cambiati i formati (la Champions League), i
calendari (gli anticipi e i posticipi), gli orari (le partite giocate a
mezzogiorno durante il Mondiale americano), le regole delle
competizioni (i tre punti a vittoria, il golden gol). D'altra parte,
la presenza di tante telecamere ha certamente assicurato incontri
più regolari e in alcuni paesi, come la Germania e l'Inghilterra,
la prova televisiva ha addirittura consentito, in alcuni casi, di
ripetere gare viziate da errori tecnici.
La TV ha modificato anche le abitudini degli spettatori. Le
partite trasmesse in televisione sono ormai in maggioranza a
pagamento: nella stagione 2000-01 il Campionato è stato
trasmesso in chiaro solo in Spagna, Portogallo, Austria e
Svizzera, e anche gli incontri della Champions League sono per
la maggior parte criptati. Lo spettatore si è abituato, dunque, a
tecnologie di ripresa sofisticate, pluralità di punti di
osservazione, grafica virtuale, statistiche, replay, moviola,
interviste pre- e post-partita, regia personalizzata (TV
interattiva), e non è più disposto a rinunciarvi. Il calcio
televisivo è diventato un succedaneo di quello allo stadio, al
punto che è prevedibile che non sono pochi i tifosi che hanno
smesso di seguire le loro squadre in trasferta, come accadeva
frequentemente un tempo, potendo vedere meglio la partita in
televisione. Secondo alcuni, anzi, il calcio diventerà quasi
gratuito allo stadio perché lo si farà pagare soprattutto in
televisione.
La dimensione del fenomeno è tale che per regolamentare il
rapporto fra calcio e televisione sono state necessarie nuove
leggi. In molti paesi, è stato tutelato il diritto del pubblico a
vedere in TV brevi estratti degli incontri indipendentemente da
chi ha acquistato in esclusiva i diritti (diritto di cronaca). Per
contrastare la formazione di posizioni anticompetitive sul
mercato, sono state disciplinate sia la titolarità dei diritti sia le
modalità di negoziazione degli stessi (collettiva o individuale).
Una direttiva dell'Unione Europea ha imposto ai paesi membri
di definire gli eventi di rilevanza generale, la cui visione deve
essere accessibile a tutti: partite della nazionale; fasi finali delle
maggiori competizioni mondiali; eventi simbolo a livello
nazionale come, per es., la finale della Coppa di Inghilterra.
Infine, la TV ha cambiato l'organizzazione e la struttura dei
club: la figura dell'addetto stampa ha lasciato il posto a quella
del responsabile dell'area comunicazione. Nuove figure
professionali, specializzate nella vendita dei diritti, sono entrate
negli organigrammi. Grandi gruppi televisivi o agenzie
specializzate nella commercializzazione dei diritti sono
diventati azionisti di riferimento di club in Italia, Inghilterra,
Scozia, Francia, Germania, Svezia, Grecia, Svizzera, Brasile.
Inevitabilmente, però, anche il calcio ha trasformato la
televisione. Dal primo incontro trasmesso in TV (Everton-
Arsenal dalla BBC), nel 1936, vi sono stati molti cambiamenti.
In particolare in Italia sono legate al calcio alcune tappe
fondamentali della storia della televisione: il palinsesto del
primo giorno di trasmissioni (3 gennaio 1954), che aveva il suo
pezzo forte nella Domenica Sportiva; la diffusione al Sud
(30.000 apparecchi venduti in pochi giorni prima di un Napoli-
Fiorentina del 1955); l'avvento del colore (in occasione dei
Mondiali del 1978); il boom delle emittenti locali; la rottura del
monopolio RAI all'inizio degli anni Ottanta; la comparsa della
pay-tv e della pay-per-view; la sperimentazione di nuovi
linguaggi, tecnologie e modalità di ripresa.
Il futuro del calcio in televisione è legato alle opportunità
offerte dalle nuove tecnologie e, in particolare, al grado di
complementarità, piuttosto che di sostituibilità, che queste
presenteranno rispetto al mezzo televisivo tradizionale. Non c'è
alcun dubbio che il calcio continuerà a rappresentare, per tutti
gli operatori della comunicazione, un contenuto insostituibile, e
dunque preziosissimo, per l'affermazione di qualsiasi nuovo
media. L'acquisto, nel giugno 2001, da parte di Hutchison 3G
UK dei diritti per la telefonia mobile di terza generazione del
Campionato inglese di Premier League, valutati circa 60 milioni
di euro per tre stagioni (l'accordo più caro negoziato fino a oggi
in Europa), è stato motivato dall'azienda con la possibilità di
differenziare nettamente i contenuti del proprio servizio di
telefonia cellulare da quelli dei principali concorrenti, offrendo
in esclusiva risultati, notizie, resoconti di partite, immagini
statiche e in movimento e materiale di archivio di uno dei tornei
più importanti del mondo, praticamente in tempo reale.
La novità più rilevante, rispetto alla televisione attuale,
consisterà nella personalizzazione sempre più marcata dei
contenuti, per rispondere alle esigenze di un'audience molto più
frammentata di un tempo, e nella ricerca continua
dell'interazione con il pubblico. Forme di comunicazione che
oggi appaiono residuali o di nicchia acquisteranno una rilevanza
precisa, anche in termini di redditività, proprio perché
consentiranno di raggiungere gruppi di utenti che, per quanto
poco numerosi, si caratterizzano tuttavia per un'omogeneità di
gusti, una fedeltà di ascolto e una predisposizione all'interazione
del tutto sconosciute al pubblico televisivo attuale. Molti nuovi
media consentono, inoltre, una gestione diretta della
comunicazione, a costi moderati e con ritorni potenzialmente
molto interessanti dal punto di vista sia economico sia della
possibilità di interagire senza intermediari con la propria base di
utenti/tifosi. Si spiega così, per esempio, il moltiplicarsi dei
canali televisivi tematici offerti direttamente dai club calcistici
in partnership con primari gruppi media, su piattaforme digitali
(Olympique Marsiglia, Lione, Roma, Milan, Inter, Barcellona,
Real Madrid, Chelsea, Manchester United), via cavo
(Middlesbrough, partito per primo nel febbraio 1998) o
attraverso Internet (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Leeds United).
Alle prospettive dell'autoproduzione televisiva guardano con
interesse anche alcune Leghe professionistiche europee:
Inghilterra, Germania, Scozia, Belgio, Danimarca. Il palinsesto
standard dei canali autoprodotti è costituito dalle telecronache
integrali delle partite (attualmente in differita per tutelare
l'esclusiva delle emittenti che hanno acquistato i primi diritti del
Campionato), da brevi estratti riassuntivi (highlights), notiziari,
interviste, immagini di archivio, cronache degli allenamenti,
partite delle squadre giovanili, che consentono agevolmente di
coprire 6-12 ore di programmazione giornaliera. In prospettiva,
con la definitiva affermazione delle modalità di trasmissione a
banda larga, l'utilizzo di Internet da parte di Leghe e club
calcistici come canale di diffusione delle immagini diventerà
preponderante. Secondo un'inchiesta realizzata nel 1999
da GlobeCast, il 68% degli operatori della televisione e dei
dirigenti delle grandi organizzazioni sportive ritiene che, entro
il 2009, Internet diventerà la principale piattaforma di
distribuzione dei contenuti sportivi, prendendo
progressivamente il posto della televisione a pagamento. I
grandi vantaggi di Internet sono rappresentati dalla sua utenza
mondiale, dal carattere non mediato e fortemente interattivo
della comunicazione e dai costi di avviamento, sviluppo e
gestione notevolmente inferiori a quelli di una piattaforma
televisiva, che lo rendono un canale di comunicazione
facilmente accessibile a club, Federazioni e Leghe sportive.

Calcio e Sponsor
di Marco Brunelli

Se il calcio è, in Europa e nel mondo, lo sport più diffuso, più


praticato, più seguito in televisione e più letto sui giornali,
appare naturale che a esso si rivolgano con sempre maggiore
insistenza le aziende che hanno bisogno di promuovere la
propria immagine o i propri prodotti. Tutte le ricerche di
mercato più recenti sono, tuttavia, d'accordo nell'affermare che
la straordinaria forza del calcio come veicolo di comunicazione
non dipende solo dall'ampiezza della sua audience, ma
soprattutto dalla qualità del pubblico che esso riesce ad attirare.
Gli appassionati di calcio sono fedeli come nessun altro
consumatore, assidui, attenti, partecipi fino in fondo di ciò che
vedono e sentono, passionali, inclini a lasciarsi coinvolgere
emotivamente.
Il pubblico del calcio è, per definizione, il più trasversale che
esista: ne fanno parte uomini e donne, giovani e anziani,
persone di tutte le professioni, fasce di reddito e categorie
sociali, abitanti di ogni regione del paese. Tuttavia, come sanno
da sempre gli appassionati, i tifosi non sono tutti uguali. Il
supporter del Manchester United è quanto mai diverso da quello
del Manchester City. La torcida del Palmeiras non ha nulla a
che vedere con quelle delle altre squadre di San Paolo:
Corinthians, San Paolo, Portuguesa. I fans dell'Arsenal non
possono che essere originari di quel quartiere a nord di Londra.
I tifosi dell'Athletic di Bilbao non possono essere confusi con
quelli di nessuna altra squadra spagnola. Il calcio è, per questo,
uno dei canali di collegamento con il territorio più efficaci che
le aziende hanno a loro disposizione.
Negli ultimi anni le tecniche di segmentazione del mercato
applicate al calcio hanno fatto passi da gigante, consentendo
alle aziende di differenziare enormemente il loro approccio a
questo canale di marketing, utilizzandolo in maniera
personalizzata, flessibile e mirata. Non solo: gli sponsor si sono
resi conto che, pur nella trasversalità di fondo che caratterizza la
loro composizione, gli appassionati di calcio si concentrano
nelle categorie sociodemografiche più ricercate dalle aziende, a
cominciare da quelle a più elevato potere di acquisto. Ciò ha
indubbiamente accresciuto l'efficacia del calcio come strumento
di comunicazione commerciale. Secondo uno studio condotto
nel 2001 da Oliver & Ohlbaum Associates, il 43% del mercato
europeo delle sponsorizzazioni sportive, pari a 5,5 miliardi di
euro nel 2000, è stato destinato al calcio. Tale dato è
confermato da una ricerca realizzata in Italia nel 1999 da
Forces, secondo la quale il 53% delle aziende che scelgono di
utilizzare lo sport come veicolo promozionale optano per il
calcio.
Il termine 'sponsorizzazione' viene comunemente usato in senso
assai ampio. In realtà, la partnership tra una o più aziende e un
club, un'organizzazione calcistica, un testimonial o un evento
può assumere forme molto diverse tra loro. Una prima
distinzione fondamentale riguarda sponsorizzazione e
pubblicità. Secondo la definizione contenuta nel Codice delle
sponsorizzazioni della Camera di commercio internazionale
(1992) la sponsorizzazione è "ogni forma di comunicazione per
mezzo della quale uno sponsor fornisce contrattualmente un
finanziamento o un supporto di altro genere, al fine di associare
positivamente la sua immagine, la sua identità, i suoi marchi, i
suoi prodotti o servizi a un evento, un'attività,
un'organizzazione o una persona da lui sponsorizzata". Se si
considera una definizione piuttosto comune di pubblicità ("la
promozione diretta di un'azienda attraverso l'acquisto di spazio
su un mezzo di stampa o di tempo televisivo o radiofonico,
avente quello specifico scopo"), non è difficile notare le
differenze. La pubblicità consiste nel veicolare un messaggio
costruito ad hoc, con una collocazione molto precisa in termini
di tempo e di spazio di esposizione (quell'orario televisivo,
quella pagina di giornale); inoltre, la natura del messaggio
pubblicitario permette di soffermarsi sulle qualità intrinseche
del prodotto o servizio reclamizzato, arricchendo la
comunicazione di contenuti informativi specifici, ma il
messaggio resta chiaramente distinto dal contenitore che lo
ospita, al punto che si può leggere il giornale o guardare la
trasmissione televisiva ignorando la pubblicità. Al contrario, la
sponsorizzazione crea un'associazione molto forte tra azienda e
sponsorizzato, che finiscono per identificarsi nella mente
dell'appassionato/consumatore.
L'atteggiamento favorevole del tifoso si confonde così con la
predisposizione all'acquisto del cliente. Perché ciò accada,
l'abbinamento deve essere credibile, ovvero sponsor e
sponsorizzato devono esprimere gli stessi valori. L'entrata
massiccia della Opel nel calcio europeo a metà degli anni 1980
traeva origine, per esempio, dalla decisione della casa tedesca di
lanciare una gamma di auto più moderne e giovanili di quelle
prodotte sino a quel momento, puntando sul calcio e sulla sua
immagine giovane, dinamica, moderna, eccitante per rinnovare
la propria identità, mentre i principali concorrenti di gamma alta
sceglievano il golf, la vela o il tennis.
Con la sponsorizzazione, inoltre, le aziende parlano
simultaneamente a tutte le categorie di interlocutori
istituzionali, mentre la pubblicità si rivolge a un target definito
(gli spettatori televisivi, i lettori del giornale). Attraverso un
mix molto ampio di soluzioni (esposizione del marchio, utilizzo
degli atleti per iniziative sul territorio, uso a fini commerciali o
di relazioni pubbliche del sito Internet dello sponsorizzato, aree
riservate allo stadio per i propri ospiti o dipendenti), una
sponsorizzazione può essere di grande aiuto per migliorare le
relazioni dell'azienda con i clienti, i dipendenti, la forza vendita,
i media.
Perché dieci grandi aziende accettano di pagare 65 milioni di
dollari a testa per diventare per quattro anni Top Partner del
Comitato olimpico internazionale, sapendo che il loro nome e il
loro logo non verranno visti a bordo campo in nessuna delle
gare delle Olimpiadi? La risposta sta nella possibilità di
stampare i cinque cerchi olimpici su ogni prodotto e
comunicazione dell'azienda, usufruire di spazi pubblicitari
dedicati sulla stampa e la televisione olimpica, partecipare con
un ruolo di rilievo a promozioni ed eventi speciali, invitare
ospiti di riguardo alle gare olimpiche, ma anche utilizzare la
partecipazione agli eventi olimpici per motivare e incentivare il
personale dell'azienda: in altre parole, associare in esclusiva il
proprio nome al simbolo più prestigioso e famoso che ci sia,
tutte le volte che un cliente, in qualsiasi parte del mondo, entra
in contatto con l'azienda.
Tutto ciò non significa che la pubblicità applicata al calcio sia
una forma meno diffusa ed efficace di comunicazione: il costo
di uno spot televisivo durante un grande evento calcistico o di
una pagina di pubblicità su un quotidiano sportivo del lunedì
sono tra i più elevati delle rispettive categorie. Forme di
pubblicità tradizionali come quella sui biglietti di ingresso agli
stadi, i cartelloni a bordo campo o i programmi e le riviste
ufficiali dei club fanno ormai parte di qualsiasi pacchetto di
comunicazione proposto agli sponsor. Infine, l'industria
specializzata guarda con grande interesse alle nuove opportunità
offerte dalla pubblicità su Internet oppure da quella cosiddetta
'virtuale' in televisione.
Una classificazione standard delle sponsorizzazioni, sulla quale
sono modellati gran parte dei pacchetti offerti dalle
organizzazioni sportive alle aziende, distingue tra sponsor
principale, sponsor tecnico (nel caso delle squadre e degli
atleti), altre categorie di sponsor di livello inferiore (sponsor
istituzionali, partner ufficiali ecc.), fornitori ufficiali e
licenziatari.
Per sponsor principale si intende lo sponsor che, in cambio del
corrispettivo più elevato, ottiene, in via esclusiva, i maggiori
benefici in termini di visibilità, riconoscibilità, sviluppo di
iniziative di comunicazione in partnership con il soggetto
sponsorizzato: per esempio, il diritto di apporre il proprio nome
sulle divise da gioco.
In Europa, la prima Federazione ad autorizzare la comparsa dei
marchi pubblicitari sulle maglie da calcio fu quella francese, nel
1968. Di lì a poco seguirono il Belgio e la Germania, mentre
l'Inghilterra, l'Italia, la Spagna e l'Olanda si uniformarono solo
all'inizio del decennio successivo. In Italia la decisione fu presa
nel 1981, sotto la presidenza della Lega nazionale professionisti
di Renzo Righetti, in un momento di particolari difficoltà
finanziarie per i club. Da allora, in venti stagioni sportive, 313
diversi marchi si sono alternati sulle divise dei club di serie A e
B.
L'introduzione ufficiale degli sponsor sulle maglie era stata
preceduta dalla comparsa delle inserzioni sui programmi delle
partite (segnalata in Inghilterra già nel 1890), dalla
sponsorizzazione dei nuovi stadi (White Hart Lane, stadio del
Tottenham, nel 1914), dalla pubblicità sui biglietti e sui
cartelloni dentro e fuori lo stadio (presenti in Francia nel primo
dopoguerra) e dall'utilizzo dei calciatori come testimonial
pubblicitari (Meazza e Monzeglio negli anni Trenta in Italia;
Compton, Finney e Wright alla fine degli anni Quaranta in
Inghilterra). A dire il vero, nel calcio italiano, gli sponsor sulle
maglie erano già arrivati nel 1953, con l'abbinamento tra il
Vicenza e la ditta Lanerossi. Ma si trattò di una parentesi breve,
frutto del vuoto normativo dell'epoca, mentre già da tempo le
sponsorizzazioni erano presenti in altre discipline sportive
(Reyer Società Scherma e Ginnastica Venezia, dal 1914;
Olimpia Borletti Milano, dal 1936) e proprio in quegli anni si
affacciavano nel ciclismo.
Negli sport di squadra diversi dal calcio allo sponsor principale
viene spesso concesso anche il diritto di abbinare il proprio
nome a quello del club, che assume così la denominazione (e
sovente anche i colori) dell'azienda. Il fenomeno è molto meno
frequente nel calcio, anche se non mancano esempi storici in tal
senso: oltre al già citato Lanerossi Vicenza, il Simmenthal
Monza, l'Ozo Petroli Mantova, lo Zenith Modena, la Sarom
Ravenna, il Talmone Torino tra la seconda metà degli anni
Cinquanta e i primi anni Sessanta in Italia; l'Inter Cable Tel di
Cardiff, in Galles, qualificatasi per la Coppa UEFA nel 1997-
98.
Negli ultimi anni, diversi club calcistici europei hanno invece
ceduto agli sponsor la titolazione dei loro stadi, secondo una
prassi invalsa da quarant'anni nello sport professionistico
statunitense ‒ dove il mercato dei naming rights vale ormai 3
miliardi di dollari, con oltre 200 esempi ‒ e che si è affermata
anche in Australia (Victoria, Sydney), Nuova Zelanda
(Auckland) e Sudafrica (Johannesburg). Attualmente, vi sono
impianti che portano il nome di aziende in Inghilterra (Bolton,
Middlesbrough, Stoke City, Southampton), Germania
(Amburgo, Leverkusen), Olanda (Eindhoven, Breda,
Rotterdam), Austria (Salisburgo) e Finlandia (Helsinki).
Analogamente, molte Leghe e Federazioni hanno tratto
significative entrate dalla sponsorizzazione della principale
manifestazione calcistica organizzata. Il Campionato assume il
nome dello sponsor in Austria, Belgio, Bulgaria, Finlandia,
Inghilterra (dal 1983), Irlanda, Islanda, Italia, Norvegia, Olanda,
Repubblica Ceca, Scozia, Slovacchia e Slovenia. L'investimento
più oneroso è certamente quello sostenuto dal 2001-02 da
BarclayCard per dare il proprio nome alla Premier League
inglese: 48 milioni di sterline per tre anni.
Lo sponsor tecnico è chi, in cambio di riconoscibilità e
visibilità, fornisce a un club, atleta o organizzazione sportiva i
materiali strettamente necessari per lo svolgimento della propria
attività: nel caso del calcio, abbigliamento da gioco e da
allenamento, scarpe, palloni. Naturalmente, tra i privilegi
garantiti allo sponsor c'è quello dell'esclusiva merceologica. Da
alcuni anni, i contratti di sponsorizzazione tecnica per i top
teams europei hanno superato in durata e importo quelli con gli
sponsor ufficiali: pochi mesi dopo avere concluso il contratto di
sponsorizzazione più ricco della storia del calcio con Vodafone
(30 milioni di sterline per quattro anni), il Manchester United ha
stretto con Nike un accordo per 13 stagioni, del valore
complessivo di 303 milioni di sterline. Nella stagione 1999-
2000 le sponsorizzazioni tecniche e gli accordi di licenza e
fornitura hanno per la prima volta superato il 50% del totale
delle entrate da sponsorizzazioni delle società di serie A (solo
due anni prima erano meno del 40%). Alla base di tale sviluppo
c'è il ricco giro d'affari del merchandising delle divise ufficiali:
nel caso del Manchester United, la Nike potrà ora gestire
direttamente un mercato che, nel 2001, ha assicurato al club
oltre 35 milioni di euro all'anno, grazie a 50 milioni di tifosi
sparsi in tutto il mondo, una presenza commerciale radicata in
Asia, un accordo di partnership con i New York Yankees e
clienti in oltre 40 paesi.
Gli sponsor istituzionali e i partner ufficiali, a differenza dello
sponsor principale, non hanno un'esclusiva assoluta ma solo per
settore merceologico e dispongono di una gamma più ristretta di
opportunità associate al club o all'evento sponsorizzato.
I fornitori ufficiali sono coloro che forniscono
all'organizzazione sportiva determinati beni o servizi, in cambio
del riconoscimento ufficiale di tale ruolo, che esercitano in
maniera esclusiva all'interno del proprio settore merceologico, e
di una gamma di opportunità di comunicazione più limitata
rispetto a quelle delle categorie precedenti di sponsor. I
licenziatari sono aziende che hanno acquisito il diritto di
realizzare e commercializzare prodotti, generalmente di largo
consumo, utilizzando il marchio, i colori e il nome del club,
dell'evento o dell'organizzazione sportiva, in cambio del
pagamento di una royalty.
Da alcuni anni, a quelle appena elencate si è aggiunta la
categoria dei media sponsors. Si tratta di emittenti radio e
televisive, giornali e aziende Internet che, in cambio di
investimenti in denaro o, più spesso, della messa a disposizione
di tempo e spazio pubblicitario, ottengono gli stessi
riconoscimenti di una delle categorie di sponsor secondari.
Secondo la Lega nazionale professionisti, nel 2000 le società di
serie A e B hanno concluso 759 accordi di partnership non
classificabili come sponsorizzazioni principali o tecniche,
denominandoli in 26 maniere diverse, da 'Gold Partner' a
'Sponsor Sala Vip', per un valore complessivo di 89 miliardi di
lire.
Tra le forme più innovative di collaborazione tra aziende e
organizzazioni sportive rientrano le attività di hospitality. La
possibilità di invitare e intrattenere clienti importanti, ospiti di
riguardo, agenti di vendita o personale dell'azienda in occasione
di eventi sportivi di richiamo, avendo a disposizione aree
riservate allo stadio, servizi di parcheggio, ristorazione e altre
attività pre-partita dedicate, viene sempre più spesso utilizzata
dalle aziende a fini di pubbliche relazioni. Questa opportunità,
che è da molto tempo fonte di ingenti risorse finanziarie per i
club professionistici americani, è ampiamente diffusa tra i club
inglesi e olandesi, mentre stenta ancora a decollare altrove,
soprattutto per le carenze infrastrutturali degli stadi. Nel 2000 in
Inghilterra il giro d'affari dell'ospitalità aziendale (non solo
legata allo sport) è stato di 1,2 miliardi di euro, quasi sette volte
il valore di due anni prima. Il Manchester United ricava il 40%
delle sue entrate da stadio dall'affitto alle aziende dell'11% dei
67.000 posti dell'Old Trafford.
Secondo stime effettuate da SRI (Sponsorship research
international), nel 1999 in Europa il 59% delle sponsorizzazioni
calcistiche ha avuto per destinatari dei club, il 32% eventi, il 7%
accordi di partnership o fornitura ufficiale e il 2% singoli atleti.
Nel 1999-2000, secondo le stime della Lega nazionale
professionisti, le entrate da sponsorizzazioni, pubblicità e altre
attività commerciali (pari a 1350 milioni di euro) hanno
rappresentato in Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e
Spagna il 32% del fatturato dei club calcistici di prima
divisione, dietro i diritti televisivi (42%), ma prima dei biglietti
(26%). Il dato aggregato nasconde situazioni molto diverse da
paese a paese. La Germania è la nazione nella quale i contratti
di sponsorizzazione raggiungono i valori più elevati:
complessivamente, le partnership commerciali rappresentano il
44% delle entrate dei club. In Inghilterra questo dato non supera
il 35%, ma la diversificazione delle entrate commerciali non ha
uguali in Europa, grazie allo sviluppo del merchandising e
all'utilizzo polifunzionale degli stadi. Un club non di
primissimo piano come l'Aston Villa ha ricavato, nel 2000, 9,2
milioni di euro da sponsorizzazioni e ospitalità, 8,1 milioni
da merchandising e 5 da attività di ristorazione e conferenze,
contro i 16,6 da diritti televisivi, su un fatturato totale di 57,8.
Al contrario la Spagna (anche per la tradizione di alcuni club
importanti, come Barcellona e Athletic Bilbao, di non ospitare
alcun marchio commerciale sulla divisa da gioco), l'Italia e la
Francia sono i paesi dove lo sviluppo delle entrate commerciali
è stato, fino a oggi, sopravanzato da quello dei diritti televisivi.
Tanti segnali indicano che questa tendenza potrebbe invertirsi
nel prossimo futuro: molti mercati televisivi appaiono ormai
saturi, mentre le ultime stagioni sono state caratterizzate da una
sensibile crescita del valore complessivo dei contratti
pubblicitari, che sicuramente riequilibrerà il peso attualmente
detenuto dai diritti televisivi nei bilanci di molte società.
Secondo un rapporto dell'istituto tedesco Sport+Markt AG,
nella stagione 2001-02 le sole entrate da sponsor ufficiali delle
112 società partecipanti ai Campionati di prima divisione di
Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda e Spagna hanno
superato i 301 milioni di euro, con un incremento del 22%
rispetto al 2000-01. A trascinare il mercato sono stati
soprattutto i club francesi e inglesi, le cui entrate da sponsor
principali sono cresciute rispettivamente del 98% (grazie al
boom della multisponsorizzazione) e del 67%, mentre la
Germania si conferma il mercato più ricco con 4,4 milioni di
euro spesi in media per ogni contratto. In Premier League vi
sono oggi tre dei cinque contratti di sponsorizzazione più ricchi
d'Europa (Manchester United-Vodafone, primo in assoluto;
Chelsea-Emirates Airline; Liverpool-Carlsberg).
Alcuni dei recenti rinnovi contrattuali riflettono chiaramente
l'accentuazione della natura 'globale' degli investimenti nel
calcio: Nike al posto di Umbro (Manchester United); Emirates
Airline di Autoglass (Chelsea); Siemens di Cirio (Lazio).
Tuttavia, la strategia di penetrazione su più mercati attraverso
l'abbinamento del proprio nome con club calcistici di diversi
paesi sembra ancora limitata a un numero ristretto di casi: nel
2001, gli unici marchi che comparivano sulle maglie di club di
almeno due dei cinque Campionati più importanti d'Europa
erano Opel (3 club), Sega/Dreamcast (3) e Siemens (2). Più
spesso le sponsorizzazioni rispondono a una logica prettamente
nazionale. In qualche caso, addirittura, lo sponsor principale del
Campionato è diverso da quello delle Coppe Europee. Molti
marchi 'globali' preferiscono non legare il proprio nome a una
sola società per paese, ma decidono di sponsorizzare eventi di
risonanza nazionale o internazionale o, al limite, diventare
partner ufficiali di raggruppamenti molto ampi di club. Aziende
come Coca Cola o McDonald's, per esempio, tendono da
sempre ad apparire come la bevanda o il ristorante 'del calcio',
nell'accezione più ampia del termine, piuttosto che lo sponsor di
una singola squadra. Sempre di più queste aziende utilizzano
anche grandi campioni, scelti per la loro immagine positiva e la
popolarità che si estende oltre il naturale bacino di tifosi della
squadra di appartenenza, come propri testimonial. Se il trend di
questi ultimi anni verrà confermato (secondo un autorevole
quotidiano inglese, i diritti di immagine delle quattro stelle della
Premier League, Owen, Beckham, Keane e Giggs, valgono
attualmente quasi 40 milioni di euro totali), anche il calcio potrà
rapidamente raggiungere le vette già toccate dal mercato
dell'endorsement in sport come il tennis, il golf,
l'automobilismo o il basket NBA.

Tabella 1

L'approccio multinazionale è più evidente tra gli sponsor tecnici


di squadre o atleti: nel 2001, Adidas, Nike e Puma hanno
firmato l'abbigliamento di 36 club di prima divisione in Francia,
Germania, Inghilterra, Italia e Spagna. Ma si tratta di una scelta
quasi obbligata in presenza di un ristretto numero di grandi
aziende produttrici che si contendono quote di mercato su scala
mondiale. Anche in questo campo, tuttavia, sono numerosi gli
esempi di strategie autarchiche, soprattutto in Spagna,
Germania e Inghilterra, dove tre società (Coventry, Ipswich e
Southampton) producono, e vendono, addirittura in proprio le
maglie da gioco.
Allo stesso modo, sembrano connotarsi in maniera 'nazionale'
anche i settori di attività economica che si legano più facilmente
al calcio: l'industria alimentare in Italia, le banche locali in
Spagna, i fabbricanti di birra e le aziende di telecomunicazioni
in Inghilterra, le aziende di telefonia e giochi elettronici in
Francia.
Giova notare, in conclusione, come la crescita del mercato delle
sponsorizzazioni calcistiche non sia stata accompagnata, se non
in casi sporadici, da due fenomeni piuttosto frequenti nelle altre
discipline di squadra: da un lato, l'identificazione dei club con i
nomi e i colori delle aziende che li sostengono; dall'altro,
l''effetto marmellata' dato dalla presenza, spesso indistinguibile,
di una molteplicità di marchi sulle maglie dei ciclisti o le tute
dei piloti di Formula 1.
Pur senza arrivare alla regola degli sport professionistici
americani, dove gli sponsor non hanno a disposizione le divise
da gioco, le principali Leghe e Federazioni calcistiche europee
regolamentano in maniera molto severa gli spazi a disposizione
delle aziende. Fanno eccezione le maglie dei club francesi e di
alcuni altri paesi, come Austria e Norvegia, dove si è cercato di
sopperire alla povertà dei diritti televisivi moltiplicando le
opportunità offerte agli sponsor.

Il Tifo
di Ruggiero Palombo

L'antropologo Desmond Morris nel volume La tribù del


calcio (1981) sostiene che per i tifosi la partita rappresenta un
rito antichissimo, il ricordo delle sfide nella piazza del villaggio
preistorico, e per questo coinvolge e affascina in modo così
profondo. Si può essere o no d'accordo con questa tesi, ma è
difficile non riconoscere al calcio la capacità di stabilire un
rapporto emotivo particolarissimo con larga parte della
popolazione in tutti i paesi del mondo: una febbre così alta ed
epidemica da venire paragonata al 'tifo'. Nel legame
straordinario fra i fan e la squadra sono implicate motivazioni di
ogni tipo: nazionalismo (specie quando è coinvolta la
rappresentativa del paese), rapporto con il territorio, orgoglio
cittadino, tradizione familiare, stato sociale, identificazione con
un modello o un giocatore, amicizia ecc. Nelle città in cui esiste
una sola squadra il tifo è quasi monoculturale; dove ce ne sono
due di solito la spaccatura vede da una parte il popolo, dall'altra
borghesia e immigrati. Nelle metropoli con molte squadre
(Londra, Vienna, Buenos Aires, Rio de Janeiro ecc.) in genere
la divisione è per quartieri.
Chi vive in città dove il club locale gioca in campionati
secondari o addirittura non esiste, tifa per squadre di altre
regioni o addirittura di altre nazioni. In questo caso assumono
molta importanza l'immagine del club, la sua storia, i campioni
che possono accendere la fantasia dei giovani in cerca di un
ideale sportivo in cui riconoscersi. In Italia, per esempio, la
Juventus ha molti più tifosi fuori del Piemonte che a Torino e lo
stesso accade per Milan e Inter. Il seguito delle altre squadre è
più strettamente legato al territorio o alle origini (per es. i tifosi
di Napoli, Palermo, Cagliari sono sparsi in buona parte
dell'Italia e del mondo).
Il tifo è assolutamente trasversale. Capi di Stato, leader politici,
artisti, scienziati, intellettuali, imprenditori, professionisti ne
soffrono con la stessa intensità della gente comune e dei
ragazzi. Tutti indistintamente fanno riferimento allo stesso
linguaggio tecnico e quindi a un codice in base al quale anche
persone di cultura enormemente diversa possono fraternizzare e
intendersi. Non solo convivono allo stadio in piena sintonia, ma
traggono la massima gratificazione dal senso di appartenenza
alla stessa fede. Cantano, applaudono, fischiano, gioiscono, si
infuriano insieme, lieti di annullarsi nel gruppo. Per ribadire
questa fratellanza portano come segno di riconoscimento i
colori del club: bandiere, sciarpe, cappelli, maglie e gadget di
ogni genere su cui prospera un fiorente merchandising. È
interessante notare come il calcio, dopo essere stato visto a
lungo con disprezzo dagli intellettuali, sia diventato tema di
grande interesse: libri, film, saggi e soprattutto una
partecipazione sin troppo esibita ai suoi riti testimoniano un
vigoroso cambio di tendenza.
Il tifo organizzato lavora durante la settimana per allestire
coreografie da stadio talvolta di grande creatività e bellezza:
una sorta di murales umani. L'altra faccia della medaglia è
costituita dalle caratteristiche sempre più aggressive e violente
che la partecipazione dei tifosi è andata assumendo soprattutto a
partire dagli anni Settanta, specialmente a livello di giovani, di
gruppi in cerca di visibilità, organizzati come bande pronte a
usare le mani o manipoli paramilitari, spesso politicamente
ideologizzati. Questi ultras hanno come luogo eletto la curva, di
cui sono i padroni.
Il fenomeno tifo è mondiale. Basti pensare ai festeggiamenti che
in Cina hanno accolto la qualificazione ai Mondiali del 2002,
con piazza Tienanmen invasa per ore e centinaia di milioni di
persone davanti alla televisione. Naturalmente, però, il tifo
cambia da paese a paese. Quello sicuramente più festoso e
colorato si trova in Brasile, dove il calcio è abitualmente vissuto
con gioia, alla stessa stregua della musica e del carnevale.
La torcida (parola che si connette al significato di 'contorcersi')
brasiliana è traboccante di colori, balli, canzoni, sostenuta
dall'incessante suono di tamburi, trombe e percussioni. Il calcio
in Brasile ha un'importanza così abnorme da trasformare una
sconfitta in un lutto nazionale, come accadde quando la vittoria
dell'Uruguay sul Brasile a Rio de Janeiro nel Mondiale del 1950
spinse diverse persone al suicidio.
Assai più violento il tifo argentino, dove il folclore è
coloratissimo e chiassoso ma le rivalità fra club sono esasperate
e talvolta sfociano in fatti di sangue. Nel febbraio 2002, per
esempio, gli scontri da guerriglia urbana fra gli ultras del
Racing e quelli dell'Independiente, i due storici club di
Avellaneda, hanno provocato un morto e molti feriti. L'acme
dello spettacolo e del tifo spetta alla sfida fra Boca Juniors e
River Plate, le due squadre argentine più amate. In tutto il
Sudamerica, ogni tanto, la morte sottolinea gli eccessi del
calcio. Ci sono state vittime alla fine del 2001 in Ecuador nel
corso dei festeggiamenti per la qualificazione al Mondiale. In
Colombia è a rischio talvolta anche la vita di calciatori e arbitri.
Il tifo assume connotazioni assai pittoresche anche in Africa. In
Europa il comportamento più acceso è registrato fra italiani,
turchi, greci, iberici. In Spagna e in Portogallo il calcio viene
vissuto con passione ma al tempo stesso con molta civiltà. Lo
stesso vale per la Francia dove esistono però alcune situazioni
spinose (specie a Parigi e Marsiglia). Più tranquilli i tedeschi, se
si escludono gli eccessi legati al consumo di birra. Il tempio del
tifo è senza dubbio l'Inghilterra. Uscita dal tunnel della
violenza, messi a freno gli hooligans grazie alle leggi del
governo Thatcher, frenato l'alcolismo, la cultura sportiva
inglese rende la partita uno spettacolo indimenticabile: cori
maestosi, un sostegno strenuo alla propria squadra, nessun
insulto agli avversari, grande fair-play, la capacità di applaudire
i propri campioni anche se sconfitti. Lo stadio, per i fan inglesi,
è un luogo dell'anima, in cui far spargere, addirittura, le proprie
ceneri. Il romanzo di Nick Hornby Febbre a 90° (1992) e il
film che ne è stato tratto offrono un'immagine eloquente di
questo rapporto.
Dovunque, sia in Sudamerica sia in Europa cresce il numero
delle tifose donne. Nella Premier League in glese rappresentano
il 33% dei nuovi spettatori.
Anche in Italia il calcio ha una valenza particolare. Ci sono
coppie che in viaggio di nozze vanno a visitare la sede e lo
stadio della squadra per cui tifano; migliaia di persone si
sottopongono a spostamenti faticosissimi e costosi per seguire
la squadra in trasferta, incuranti anche del rischio di essere
picchiati. Il calcio provoca infatti enormi fenomeni migratori:
quando, nel 1989, il Milan vinse la Coppa dei Campioni, 80.000
tifosi lo seguirono a Barcellona. Inglesi, tedeschi, olandesi sono
fra i più fedeli nel seguire i propri club, insieme a italiani e
spagnoli. Forte anche il coinvolgimento degli immigrati,
quando arriva una squadra del loro paese: in Germania, durante
le partite in cui giocano la Turchia o il Galatasaray, lo stadio è
diviso a metà.
Non è un caso che una vittoria internazionale nel calcio mobiliti
i capi di Stato (sulla falsariga di quanto fece il presidente Pertini
nel 1982 in Spagna) e rappresenti per un popolo un eccezionale
motivo d'orgoglio. Nel 1998, quando la Francia ha vinto i
Mondiali, la festa a Place de la Concorde a Parigi è stata
colossale. Studi condotti in merito rivelano che queste vittorie
hanno benefici effetti sul commercio e sullo sviluppo
economico, perché determinano un aumento del coraggio
imprenditoriale. Nessun altro avvenimento influisce come i
Mondiali di calcio sull'attività lavorativa planetaria: orari
cambiati, assenteismo, ferie, televisioni sui luoghi di lavoro per
consentire alle maestranze di seguire le gare della nazionale.
Non esistono studi approfonditi sulla popolazione dei tifosi, ma
vale la pena riportare i dati raccolti da UFA nel giugno 2000 sul
numero degli appassionati nei cinque principali paesi europei
(tab. 1) e sulla loro distribuzione percentuale per club (tab. 2).
Sempre secondo questo studio nei cinque paesi vi sarebbe un
numero rilevante di tifosi (dai 4,7 milioni della Spagna ai 5,5
della Germania) che simpatizzerebbero anche per una squadra
straniera: Juventus, Manchester United, Barcellona, Milan, Real
Madrid.
Tabella 1

Tabella 2

Secondo una graduatoria di Footballranking.com, da prendere


tuttavia con beneficio d'inventario, le squadre più popolari del
mondo sarebbero nell'ordine: Manchester United, Real Madrid,
Ajax, Barcellona, Milan, Juventus, Galatasaray, Feyenoord,
PSV Eindhoven, Roma, Arsenal, Bayern, Anderlecht, Benfica,
Fenerbahce, Lazio, Inter.
Più affidabile un'indagine dell'AC Nielsen del 2001
sull'atteggiamento degli italiani verso il calcio (tab. 3). Secondo
la Nielsen la Juventus sarebbe la squadra con il maggior
numero di tifosi in Piemonte, Veneto, Trentino, Marche,
Abruzzo-Molise, Puglia, Basilicata e Sicilia, e dividerebbe il
primato con il Genoa in Liguria e con il Bologna in Emilia-
Romagna. L'Inter è al primo posto in Lombardia, l'Udinese in
Friuli, la Fiorentina in Toscana, la Roma nel Lazio, il Napoli in
Campania, il Cagliari in Sardegna, la Reggina in Calabria, il
Milan e il Perugia in Umbria. Tuttavia i sondaggi svolti da tre
differenti agenzie sulla distribuzione dei tifosi fra le varie
società italiane danno conclusioni molto diverse (tab. 4).

Tabella 3

Tabella 4

Il tifo organizzato prende forma tra la fine degli anni Sessanta e


gli anni Settanta. Il gruppo ultrà più antico è la Fossa dei Leoni
del Milan, fondato nel 1968, che adotta il nome del vecchio
campo d'allenamento dei rossoneri. Nel 1969 nascono anche gli
Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria (primi a usare la
denominazione 'Ultras') e, subito dopo, gli storici Moschettieri
che tifavano per l'Inter di Helenio Herrera, i Boys dell'Inter,
seguiti qualche anno dopo dagli Ultras neroazzurri. Nascono poi
la Fossa Ultrà Cagliari (1970), le Brigate Gialloblu del Verona
e, dal nome della piazza in cui si raduna, il Viola Club
Vieusseux della Fiorentina (1971); e ancora gli Ultras del
Napoli (1972), le Brigate Rossonere del Milan, la Fossa dei
Grifoni del Genoa e gli Ultras Granata del Torino (1973), i
Forever Ultras del Bologna (1974). Nel 1976 compaiono i duri
delle Brigate neroazzurre dell'Atalanta, che avranno sempre
rapporti conflittuali con le forze dell'ordine, e gli Ultras del
Bari, il cui emblema è un teschio alato in campo biancorosso. I
tifosi della Roma occupano la Curva Sud, quelli del Brescia
prendono il nome di Commando Ultrà Curva Nord. La Juventus
ha due sigle di tradizione anglofona: i Drughi (dal film Arancia
Meccanica di Stanley Kubrick) e i Viking, che daranno poi vita
ai Fighters. Diversi altri gruppi, hanno una forte colorazione
politica: di destra quella degli Irriducibili della Lazio, mentre
altri hanno matrice comunista e anarchica.

La violenza e le tragedie del calcio


di Gigi Garanzini

La storia del calcio è costellata da numerose tragedie, alcune


dovute alla violenza dei tifosi, altre al cedimento di stadi
fatiscenti o sovraccarichi rispetto alle capacità strutturali. La
serie si apre all'inizio del 20° secolo con due incidenti di
quest'ultimo tipo. All'Ibrox Park di Glasgow il 5 aprile 1902,
durante la partita Scozia-Inghilterra, il crollo di una tribuna
causa 25 morti e ben 517 feriti. Non ci sono, invece, vittime nel
1914 nello stadio di Sheffield, quando la caduta di un muro
travolge 75 persone. In molti casi all'origine di tragedie di
questo genere sono la vendita di un numero di biglietti
eccessivo rispetto alla capienza dell'impianto, oppure gli scontri
fra polizia e tifosi, o ancora il tentativo della folla di forzare gli
ingressi.
In assoluto il maggior numero di vittime si registra il 20 ottobre
1982 allo Stadio Lenin di Mosca, in occasione della partita di
coppa UEFA fra lo Spartak e gli olandesi dello Haarlem: alla
fine dell'incontro una parte degli spettatori, già uscita, cerca di
rientrare nello stadio, dopo un gol in extremis, e nella situazione
di caos e di panico che viene a crearsi muoiono schiacciate o
soffocate 340 persone, i feriti sono più di un migliaio. Di poco
inferiore il tragico bilancio di Perù-Argentina a Lima, il 25
maggio 1964: l'arbitro annulla un gol al Perù, mentre la partita
si avvia alla fine; scoppiano tumulti fra i tifosi; molti cercano di
entrare in campo, contrastati da polizia ed esercito; i morti sono
318, oltre mille i feriti. Nel 1971 luogo della disgrazia è
nuovamente l'Ibrox Park di Glasgow, dove migliaia di tifosi
premono sui cancelli d'ingresso e 66 vengono calpestati a
morte. Nel 1985 a Bradford l'incendio di una tribuna in legno
provoca 56 vittime. Nel 1988 a Katmandu nel corso della partita
Nepal-Bangla Desh muoiono 93 persone. Nel 1989 a Sheffield,
durante Liverpool-Nottingham, una fiumana di tifosi senza
biglietto tenta di forzare gli ingressi e nella calca 96 persone
restano schiacciate contro le recinzioni. La tragedia di
Guatemala City nel 1996 (84 morti) è causata dal panico. Due
gravi episodi si verificano nel 2001 in Africa: in aprile, tifosi
senza biglietto trasformano in una bolgia l'Ellis Park di
Johannesburg, causando 47 vittime; ancora più grave è quanto
accade nel maggio ad Accra, la capitale del Ghana, dove i
lacrimogeni sparati dalla polizia per sedare tafferugli nati sugli
spalti portano gli spettatori a fuggire in massa (126 i morti,
calpestati dalla folla). In alcune occasioni la colpa degli
incidenti è di chi dovrebbe mantenere l'ordine. Così per
esempio nel 1990 a Mogadiscio le guardie del presidente Siad
Barre reagiscono in modo spropositato alle intemperanze del
pubblico e negli scontri muoiono 62 persone.
Una delle tragedie più agghiaccianti, emblematica delle terribili
conseguenze a cui può portare il tifo quando degenera in
violenza, è la morte per schiacciamento di 39 tifosi, in gran
parte italiani, all'Heysel di Bruxelles prima di Juventus-
Liverpool, finale della Coppa dei Campioni del 1985. Una
massa di hooligans (il termine proviene dal nome di una
famiglia irlandese dell'Ottocento, che aveva fama di
attaccabrighe) ubriachi invade la tribuna dove siedono gli
italiani e provoca il crollo di una transenna. Si gioca lo stesso
per evitare ulteriori scontri. I club inglesi vengono per alcuni
anni estromessi dalle competizioni internazionali, fino a quando
non avranno messo a freno i loro tifosi. Il governo Thatcher
affronta il problema con estrema serietà, promulgando leggi
molto severe e promuovendo un attento lavoro d'intelligence di
Scotland Yard per infiltrare agenti nelle bande di teppisti e
identificarne i capi. Con questi provvedimenti l'Inghilterra
arriva a ripulire i suoi stadi, anche se quando vanno in trasferta
fuori dal paese gli hooligans continuano a creare guai, come
accade in Francia nel 1998, in occasione dei Mondiali, o in
Turchia nel 2000, quando in una gigantesca rissa muoiono
accoltellati due ragazzi inglesi. Dopo gli inglesi i tifosi più
violenti, quando superano i confini, sono gli olandesi e i
tedeschi.
In Italia la violenza del tifo calcistico ha causato alcune tragedie
che fanno testo. La prima si verifica il 28 ottobre 1979
all'Olimpico di Roma: un'ora prima dell'inizio del derby il tifoso
laziale Vincenzo Paparelli viene colpito da un razzo nautico
lanciato ad altezza d'uomo dalla curva romanista verso quella
laziale. Per l'uccisione di Paparelli viene condannato, per
omicidio 'preterintenzionale', un gruppetto di teppisti. Durante il
processo emergono particolari inquietanti: l'imputato Giovanni
Fiorillo, ultrà romanista, autore del tragico lancio, rivela di aver
comprato il razzo da segnalazione nautica senza che gli venisse
chiesto alcun documento di riconoscimento e di aver introdotto
all'Olimpico il tubo di lancio dell'ordigno, lungo più di un
metro, e la carica del razzo, smontati, senza aver avuto problemi
con la Polizia. Questa infatti non perquisiva gli ultras e
permetteva loro, con la scusa degli striscioni da fissare e della
coreografia da allestire, di entrare nello stadio molto prima
dell'inizio della partita e di gestire depositi all'interno
dell'impianto. Il caso Paparelli desta grande scalpore ma,
passato lo sdegno del primo momento, non vi è un seguito
istituzionalmente adeguato. Eppure, all'epoca, quando le frange
eversive non si erano ancora impadronite delle curve degli stadi
e non era ancora nato il razzismo calcistico, per sradicare la
malapianta sarebbe bastato molto meno di oggi.
Altri episodi mortali si verificarono nel 1984, nel 1988 e nel
1989. Particolare scalpore suscitò la tragedia avvenuta a
Genova il 29 gennaio 1995: vicino allo stadio di Marassi un
giovane tifoso genoano, Vincenzo Claudio Spagnolo, viene
ucciso a coltellate da un ultrà del Milan, Simone Barbaglia,
fiancheggiato da un gruppo di suoi compagni altrettanto
violenti. La domenica successiva, il 5 febbraio, il mondo del
pallone decreta una giornata di sciopero contro la violenza.
Sarebbe l'occasione perfetta per emanare una normativa contro
il teppismo ma al Parlamento i capigruppo dei partiti non si
accordano su un disegno di legge unitario da approvare con
procedura di urgenza. Il 24 gennaio 1996 Barbaglia è
condannato a 11 anni e 4 mesi, ma poi la Corte d'Appello
annulla la sentenza perché era stata dimenticata l'aggravante dei
futili motivi (una partita di calcio) alla base dell'omicidio e
l'ultrà milanista esce dal carcere per decorrenza dei termini della
carcerazione preventiva. La sentenza definitiva, convalidata
dalla prima sezione penale della Cassazione il 26 ottobre 2001,
condanna Barbaglia a 16 anni e sei mesi; secondo il verdetto
Barbaglia ha agito "per estrema sudditanza verso il suo gruppo
di ultras".
Sull'onda dello sdegno suscitato dagli incidenti di Genova il
governo Prodi si fa promotore di diverse iniziative antiviolenza.
Nel 1998 viene presentato il disegno di legge Veltroni-
Napolitano-Flick ‒ a firma del vicepresidente del Consiglio, del
ministro dell'Interno e del guardasigilli dell'epoca ‒ che prevede
l'arresto in flagranza di reato, lo specifico reato di lancio di
oggetti in campo e una serie di aggravanti per chi crei tensione e
violenza allo stadio. Il disegno non viene convertito in legge ma
confluisce in un "Testo unificato recante norme in materia di
fenomeni di violenza in occasione di manifestazioni sportive",
passato all'esame della Commissione Giustizia della Camera dei
Deputati nel 1999. Ancora una volta a riproporre al Parlamento
l'urgenza di specifiche misure è un incidente mortale: il 24
maggio, presso la stazione di Nocera Inferiore, lo scoppio di un
fumogeno fa divampare un incendio sul treno speciale che
riconduce a casa i tifosi della Salernitana, dopo una partita con
il Piacenza, e quattro giovani muoiono carbonizzati. Tuttavia
anche questo disegno non viene convertito in legge e decade
con la fine della legislatura nella primavera del 2001.
Il 2 luglio 2001 muore, dopo un'agonia di 15 giorni, il giovane
Antonino Currò di 24 anni, colpito al volto da un razzo lanciato
dal settore dei tifosi avversari del Catania durante la partita di
ritorno dei playoff di serie C1 fra Messina e Catania. Viene
arrestato un ultrà diciassettenne del Messina, poi rilasciato per
mancanza di prove. La tragedia convince il governo Berlusconi
e il Parlamento della necessità di varare una legge specifica
contro la violenza nel calcio prima della ripresa del
Campionato. Un decreto legge contro il teppismo negli stadi
viene emanato il 20 agosto e rimane in vigore, dando buoni
frutti, fino alla metà di ottobre. Il 17 ottobre viene convertito in
legge, ma durante il dibattito in Parlamento una serie di
emendamenti ne hanno attenuato la severità. In particolare è
prevista la possibilità di commutare in sanzioni pecuniarie le
pene detentive ed è sostituita con il "fermo nelle 48 ore, previa
autorizzazione del magistrato", la "flagranza di reato allargata",
che consentiva di procedere all'arresto nei due giorni successivi
gli episodi di violenza, sulla base di prove televisive.

Tabella 1
Tabella 1

I grandi incidenti delle squadre


di  Gigi Garanzini

Oltre alle tragedie legate alla degenerazione in violenza della


tifoseria o al cedimento delle strutture degli stadi, la storia del
calcio ha conosciuto altri drammatici episodi che hanno
comportato la perdita simultanea di numerosi suoi esponenti.
Alle 26 persone, tra tecnici e giocatori della squadra sudanese
dell'Al Nasr, scomparse in un naufragio sul Nilo Azzurro nel
giugno del 1995, si aggiungono le vittime di diverse sciagure
aeree. Da ricordare, in particolare, quella del 27 aprile 1993,
avvenuta in Gabon, nella quale insieme ad altre nove persone
vennero a mancare 17 giocatori della nazionale dello Zambia, e
l'incidente all'aeroporto di Monaco di Baviera del 6 febbraio
1958, nel quale morirono otto giocatori del Manchester United,
reduci da una partita di Coppa dei Campioni a Belgrado. Ma
certamente la tragedia che rimane più viva nel ricordo degli
italiani è quella avvenuta la sera del 4 maggio 1949 presso la
basilica di Superga, nella quale fu annientato il Grande Torino.
La sera precedente i granata avevano giocato sul campo del
Benfica, per onorare l'addio al calcio di Ferreira, amico di
Valentino Mazzola. Il presidente Novo era contrario a quella
trasferta e non vi aveva preso parte: mancavano quattro giornate
alla fine del Campionato e i cinque punti di margine sull'Inter
erano rassicuranti ma non davano la certezza matematica della
vittoria. Il piano di volo prevedeva l'arrivo alla Malpensa, ma
all'improvviso, per ragioni mai chiarite, il trimotore I Elce, un
G-212, fece rotta direttamente su Torino, nonostante sulla città
le condizioni meteorologiche fossero pessime, con nuvolosità
intensa, raffiche di pioggia e visibilità scarsa. Lo schianto
contro il basamento della basilica avvenne alle 17.05, quasi
certamente dovuto a un guasto all'altimetro. Morirono 31
persone: i giocatori Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Dino
Ballarin, Emile Bongiorni, Eusebio Castigliano, Rubens Fadini,
Guglielmo Gabetto, Roger Grava, Giuseppe Grezar, Ezio Loik,
Virgilio Maroso, Danilo Martelli, Valentino Mazzola, Romeo
Menti, Pierino Operto, Franco Ossola, Mario Rigamonti, Julius
Schubert; i tecnici Egri Erbstein e Leslie Lievesley; il
massaggiatore Ottavio Cortina; i dirigenti Rinaldo Agnisetta,
Andrea Bonaiuti e Ippolito Civalleri; i giornalisti Renato
Casalbore, Luigi Cavallero, Renato Tosatti; e i quattro membri
dell'equipaggio.
Anche se l'eco della notizia si diffuse rapidamente in Italia e nel
mondo, non tutti in città ne furono subito al corrente. Sauro
Tomà, l'unico giocatore granata rimasto a Torino per infortunio,
seppe della tragedia dal lattaio sotto casa, mentre rientrava da
una seduta di fisioterapia. A Giorgio Tosatti, figlio undicenne di
Renato, la notizia fu brutalmente comunicata da un usciere della
sede della Gazzetta del Popolo dove si era recato ad aspettare il
padre.
Dopo il riconoscimento, del quale furono incaricati il segretario
granata Igino Giusti e il commissario tecnico della nazionale
Vittorio Pozzo, e la pietosa ricomposizione, le salme furono
portate a Palazzo Madama. Due giorni più tardi una folla
immensa, probabilmente superiore al mezzo milione di persone,
prese parte al funerale. Tutta Torino era schierata al passaggio
del corteo, le case erano deserte, in città dalla sera prima non si
trovava più un fiore. La radiocronaca della cerimonia fu
trasmessa in diretta, con il commento fra gli altri di Nicolò
Carosio e di Sergio Zavoli. I giovani del Filadelfia, che per due
giorni e due notti avevano vegliato i campioni scomparsi, nove
giorni più tardi andarono in campo al loro posto contro il
Genoa, che schierò la sua formazione giovanile, imitato poi
dalle rimanenti avversarie. Vinsero, in uno stadio gremito di
folla commossa, e la domenica successiva divennero, a loro
volta, campioni d'Italia, in nome e per conto della grande
squadra che non c'era più.

Gli scandali del mondo del calcio


di Franco Ordine

"Il Direttorio federale conferma le precedenti decisioni e


squalifica a vita Luigi Allemandi, della cui colpevolezza è stata
pienamente raggiunta la prova; richiama il giocatore Munerati a
una più esatta comprensione dei suoi doveri in quanto un
calciatore tesserato non può accettare doni di qualsiasi entità o
natura da iscritti ad altre società; deplora e proibisce il
malcostume delle scommesse anche di lieve cifra, specie quelle
tenute contro le sorti dei propri colori e ammonisce il calciatore
Pastore, lieto di constatare come l'episodio che ha dato luogo
alle accennate sanzioni sia circoscritto a un solo giocatore e non
possa quindi gettare ombra né onta sulla grande massa dei
calciatori italiani". Conservato da un solerte funzionario
dell'epoca, questo documento, datato 21 novembre 1927 e
pubblicato a Bologna, sede della rudimentale organizzazione
allora al governo del Campionato, rappresenta in Italia la prima
sentenza disciplinare di qualche rilievo riguardante il calcio. La
vicenda dello scudetto del 1927, revocato al Torino e non
assegnato, costituisce il primo della lunga serie degli scandali
legati al mondo del pallone: un dirigente granata, Nani, per il
tramite di uno studente d'ingegneria, Giovanni Gaudioso,
promise allo juventino Allemandi un premio di 50.000 lire in
cambio di un comportamento che favorisse il successo del
Torino. A sconfitta juventina avvenuta, il difensore bianconero
reclamò il pagamento della seconda rata nel corso di un
concitato colloquio in una pensione torinese di piazza Madonna
degli Angeli. Tra i clienti dell'albergo c'era un giornalista
romano, Ferminelli, che ascoltò la conversazione e denunciò il
fatto su un paio di quotidiani. La conseguenza fu inevitabile:
indagine della Federcalcio affidata al segretario dell'epoca,
Giuseppe Zanetti, piena confessione degli interessati, Nani e
Gaudioso, e condanna. Dei clamorosi provvedimenti previsti,
però, restò in vigore solo la revoca al Torino del titolo di
campione d'Italia (nonostante i successivi tentativi di ottenerne
l'assegnazione 'postuma'), mentre Allemandi venne 'graziato'
dopo meno di un anno e nel 1934 vinse addirittura i Mondiali.
Gli scandali, nel mondo del calcio, sono spesso legati
all'intervento di 'faccendieri' particolarmente accorti
nell'individuare giocatori o dirigenti cui proporre eventuali
accordi per 'aggiustare' l'una o l'altra partita. Nel dopoguerra,
divenne famoso uno di questi personaggi, Eugenio Gaggiotti,
detto 'Gegio', che, intervistato da Indro Montanelli, raccontò i
propri commerci in modo del tutto generico, fornendo un unico
dato concreto: il numero presunto delle partite da lui 'truccate',
ben 64. Nel corso del Campionato 1947-48, suscitò scalpore un
episodio scoperto grazie a una lettera anonima, che parlava di
un incontro fra Luigi Ganelli, mezzala del Napoli, e Bruno
Arcari, interno del Bologna, prossimi a imparentarsi (il secondo
stava per sposare la sorella della moglie del primo), incontro
avvenuto ai primi di giugno del 1948, nell'imminenza della
partita Bologna-Napoli. La sfida era decisiva per la squadra
campana, che rischiava la retrocessione, e il fatto che al tavolo
dei due giocatori sedessero anche il presidente del Napoli
Muscariello, l'ex calciatore Paolo Innocenti e il direttore tecnico
del Bologna Hermann Felsner, convinse gli inquirenti che non
si trattava di un 'convegno familiare': il Napoli fu retrocesso
all'ultimo posto della serie A, Ganelli, Muscariello e Innocenti
vennero squalificati a vita, Arcari per tre mesi, Sauro Taiti per
due e Gino Cappello per uno.
Proprio per far fronte al fenomeno della corruzione, negli anni
Cinquanta la FIGC affidò il compito di allestire una
Commissione di controllo, poi ribattezzata Ufficio inchieste, ad
Alberto Rognoni, un conte di Cesena. Fondatore della locale
società di calcio, grande appassionato e profondo conoscitore
del mondo del pallone, Rognoni assolse al suo impegno
nell'Ufficio inchieste con determinazione leggendaria,
ricorrendo perfino a travestimenti (da frate o da carabiniere, per
esempio) per farsi rilasciare confessioni o per pedinare qualche
tesserato senza essere riconosciuto. Basterà qui ricordare solo
alcuni episodi della sua carriera di inquisitore. Nel 1955
l'Udinese, protagonista del suo miglior Campionato in serie A
(era al secondo posto dietro al Milan), scontò duramente un
illecito commesso due anni prima: il 31 maggio 1953, a Busto
Arsizio, durante l'intervallo della partita Pro Patria-Udinese, sul
risultato di 2-0, un emissario dei friulani convinse la squadra di
casa a non infierire sugli ospiti in cambio di una somma di circa
due milioni. Procuratesi le prove dell'accordo, Rognoni punì
l'Udinese con la retrocessione in serie B, mentre Guernieri,
Mannucci, Uboldi, Fossati e Martini, calciatori della Pro Patria,
conclusero la loro carriera. Sempre nel 1955, un altro scandalo
venne portato alla luce e sanzionato dall'Ufficio diretto da
Rognoni: un assegno di 200.000 lire firmato da Giulio Sterlini,
segretario del Catania, e intestato a Salvatore Berardelli,
cognato di Ugo Scaramella, arbitro della sezione romana, fece
scattare le meticolose indagini di Rognoni. Fu accertato il
pagamento a Scaramella di altre somme, tre assegni da 500.000
lire ciascuno, prima di due partite nelle quali era in gioco la
salvezza del Catania. L'arbitro romano fu radiato, il club
siciliano venne retrocesso in serie B.
Nonostante la frenetica attività di Rognoni, gli episodi di
corruzione divennero sempre più frequenti. Nel 1958, l'indagine
su una presunta combine in occasione della partita Padova-
Atalanta, pur concludendosi con l'assoluzione da parte della
CAF, ebbe vasta eco in quanto coinvolgeva un personaggio
noto alle cronache, Eugenio Gaggiotti, e Silveira Marchesini,
fidanzata del calciatore del Padova Giovanni Azzin. Nel 1960 il
centravanti Gino Cappello, già punito con due mesi di
squalifica 12 anni prima, venne radiato. L'Ufficio inchieste
dimostrò infatti che, prima della partita Genoa-Atalanta del 17
aprile, finita 2-1 per i bergamaschi, Cappello si era recato a
Bergamo per incontrare Cattozzo, suo ex compagno nel
Bologna, e offrirgli un milione di lire in cambio del successo
sicuro. Il Genoa, retrocesso per responsabilità oggettiva, dovette
scontare la punizione anche l'anno successivo, con 10 punti di
penalizzazione in serie B. Nel 1961, furono intercettati alcuni
colloqui telefonici fra Tagnin, mediano del Bari, e Prini, ala
della Lazio. Prini in un primo momento accettò di favorire, in
cambio di due milioni, il successo all'Olimpico della squadra
pugliese, che in questo modo avrebbe evitato la retrocessione,
ma poi disdisse l'impegno. Secondo gli inquirenti, la partita fu
regolare, ma il comportamento dei tesserati era censurabile.
Tagnin fu squalificato per un anno. La sua carriera peraltro non
ne risulterà danneggiata: al termine della squalifica sarà
reclutato dall'Inter di Moratti e Allodi e parteciperà alla finale di
Coppa dei Campioni a Vienna contro il Real Madrid.
Quando Rognoni lasciò l'Ufficio inchieste per diventare
opinionista del Guerin Sportivo, l'incarico di sorvegliare sul
regolare svolgimento dei campionati fu affidato a un magistrato
fiorentino, Corrado De Biase, amico personale di Artemio
Franchi, grande dirigente del calcio italiano. Tra le vicende di
corruzione di quel periodo si possono ricordare quella legata
alla partita Atalanta-Sampdoria, durante la stagione 1972-73,
che vide protagonisti l'ex allenatore bergamasco Paolo
Tabanelli e il dirigente Franco Previtali e quella, nella fase
finale del torneo di serie A del 1973-74, in cui furono coinvolti
Foggia e Verona. I pugliesi scontarono con la retrocessione la
leggerezza di un funzionario, che aveva consegnato all'arbitro
fiorentino Menicucci un orologio d'oro prima dell'incontro
Foggia-Milan (finito 0-0). La squadra veneta fu punita nello
stesso modo dopo che Romolo Acampora, inviato de Il Mattino,
fornì agli inquirenti la prova di un colloquio telefonico
intercorso, subito prima della partita Verona-Napoli, tra il
presidente del Verona Garonzi e il suo ex centravanti Clerici,
passato al Napoli. Ne trasse vantaggio la Sampdoria che,
retrocessa sul campo, fu riqualificata dalla CAF.
Nel marzo 1980 scoppiò lo scandalo del calcio-scommesse,
legato all'organizzazione di un giro di scommesse clandestine
da parte di un commerciante di frutta romano, Massimo
Cruciani, e di Alvaro Trinca, proprietario di un ristorante della
capitale, 'La Lampara', frequentato da alcuni calciatori laziali.
Cruciani e Trinca offrivano compensi a tesserati in cambio di
notizie su risultati sicuri su cui scommettere cifre ragguardevoli,
ma l'inganno non sempre riusciva e i due finirono per
accumulare debiti per quasi 200 milioni. La pubblicazione in
esclusiva sul Corriere dello Sport di un memoriale firmato da
Cruciani e Trinca sollevò il velo sull'organizzazione. Le accuse
sarebbero poi state confermate dal centrocampista della Lazio
Montesi, in un'intervista a la Repubblica. Seguì l'intervento
delle forze dell'ordine: il 23 marzo a Pescara, all'Olimpico, a
San Siro e in altri stadi di serie B, le forze dell'ordine fecero
irruzione negli spogliatoi, arrestarono e accompagnarono nel
carcere romano di Regina Coeli i calciatori Giordano, Wilson,
Manfredonia e Cacciatori della Lazio, Albertosi e Giorgio
Morini del Milan, Della Martira, Zecchini e Casarsa del
Perugia, Stefano Pellegrini dell'Avellino, Magherini del
Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa. Altri giocatori
molto noti furono convocati dagli inquirenti per accertamenti:
tra loro Paolo Rossi, Giuseppe Dossena, Giuseppe Savoldi e
Oscar Damiani. Anche un dirigente, Felice Colombo, presidente
del Milan, risultò coinvolto, mentre Trinca, dopo un'ennesima
ritrattazione, fu arrestato con l'accusa di truffa. L'inchiesta della
magistratura ordinaria si concluse nel dicembre 1980 con un
verdetto di proscioglimento: tutti i giocatori furono assolti per
non sussistenza del fatto (per trasformare la scommessa
clandestina in reato occorreva una legge apposita) e il solo
Cruciani fu condannato a una pena pecuniaria. In parallelo a
quella giudiziaria fu condotta l'inchiesta delle autorità sportive,
che alla fine sanzionarono la retrocessione in serie B del Milan
per responsabilità diretta e della Lazio per responsabilità
oggettiva, la radiazione per Felice Colombo, la squalifica per un
anno del presidente del Bologna, Tommaso Fabbretti, e diversi
periodi di squalifica per 21 calciatori (6 anni per Pellegrini; 5
anni per Cacciatori e Della Martira; 4 anni per Albertosi; 3 anni
e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano, Manfredonia e
Magherini; 3 anni per Wilson, Zecchini e Massimelli; 2 anni per
Rossi; 1 anno e 2 mesi per Cordova; 1 anno per Morini e Merlo;
6 mesi per Chiodi; 5 mesi per Negrisolo; 4 mesi per Montesi; 3
mesi per Colomba e Damiani). La vicenda, comunque, provocò
un grande sconvolgimento nel mondo del calcio italiano. Gli
stadi si svuotarono, i particolari raccontati da giornali e
televisione tolsero credibilità a risultati e vicende agonistiche,
una grande società come il Milan subì una profonda crisi di
immagine. Sembrava l'inizio di un inevitabile declino dello
sport più popolare in Italia, che invece vivrà di lì a poco una
memorabile stagione con la conquista del titolo mondiale in
Spagna, nel 1982, da parte della nazionale guidata da Enzo
Bearzot.
Un nuovo caso di scommesse clandestine su partite di calcio
venne scoperto nel 1986 da un magistrato torinese, Marabotto,
che avviò le sue indagini in seguito a un'intercettazione
telefonica. L'inchiesta coinvolse un faccendiere napoletano,
Armando Carbone, e un gruppetto di calciatori dai modesti
guadagni e di manager privi di scrupoli. Il Perugia, già
retrocesso in C1 per i risultati conseguiti in campo, fu mandato
in serie C2. Subirono sanzioni anche Lazio, Udinese, Lanerossi
Vicenza, Cagliari, Palermo, Triestina, Foggia e Cavese.
Ulivieri, Agroppi, Rozzi, Vinazzani, Cerilli, Vavassori,
Chinellato, Cagni e Claudio Pellegrini furono squalificati.
Gli illeciti non sono però esclusivi del calcio italiano. In
Francia, suscitò enorme scalpore, nell'autunno del 1990, la
scoperta di un traffico che aveva per protagonista Jean-Claude
Darmon, accusato di finanziare in nero alcuni club francesi
attraverso una serie di società-schermo. Nell'inchiesta, condotta
da un magistrato appassionato di calcio, Jean-Pierre Zanoto,
risultarono coinvolti Bordeaux, Nantes, Nizza, Paris St.-
Germain e, marginalmente, anche l'Olympique Marsiglia di
Bernard Tapie. Nel 1993 lo stesso Tapie fu riconosciuto
responsabile di un caso di corruzione relativo alla partita
Valenciennes-Marsiglia: il calciatore sotto accusa, Robert, dopo
l'arresto, confessò e il Marsiglia, vincitore della Coppa dei
Campioni sul Milan a Monaco di Baviera, fu punito anche
dall'UEFA e non potè disputare Supercoppa Europea e Coppa
Intercontinentale.
Un giro di scommesse clandestine emerse anche in Inghilterra,
nel 1995: la centrale era a Bangkok e Singapore, ma furono
dimostrati legami con i risultati di partite disputate da
Manchester United e Liverpool. Il portiere del Liverpool
vincitore della Coppa dei Campioni contro la Roma nel 1984,
Bruce Grobbelaar, originario dello Zimbabwe, fu arrestato. In
precedenza, altri esponenti del mondo del calcio inglese
avevano avuto problemi con la giustizia: George Graham nel
1992 per aver intascato una tangente di un miliardo per
l'acquisto di due giocatori, Mickey Thomas per spaccio di
banconote false, Peter Storey dell'Arsenal per importazione di
pornovideo.
L'ultimo scandalo che ha coinvolto il calcio italiano riguarda i
passaporti dei giocatori stranieri. Nell'aprile 2000, i quotidiani
italiani pubblicano, con molto rilievo, la notizia di un'inchiesta,
avviata dalla Procura della Repubblica di Roma, sulla
documentazione in base alla quale il calciatore argentino Juan
Sebastian Verón ha ottenuto nel settembre 1999 la cittadinanza
italiana. La magistratura mette in dubbio che il certificato di
nascita di un antenato di Verón (Giuseppe Antonio Porcella,
nato nel 1870 nel comune di Fagnano Castello, in provincia di
Cosenza, e poi emigrato in Argentina) sia autentico. Dal punto
di vista dei regolamenti la notizia ha importanza in quanto la
cittadinanza è presupposto indispensabile per poter considerare
il centrocampista nel gruppo degli stranieri comunitari, poiché,
per gli extracomunitari, è previsto un tetto massimo di cinque in
rosa e tre in campo.
Il caso 'passaporti puliti' esplode però in occasione di una
trasferta dell'Udinese in Polonia per un incontro di Coppa
UEFA: alla frontiera un doganiere solerte scopre che i
passaporti di due brasiliani del club friulano, Silva dos Santos
Warley e Alberto Do Carmo, sono falsi. Interviene anche la
magistratura di Udine e lo scandalo si allarga a macchia d'olio.
Il vice-presidente vicario del Milan, Adriano Galliani, allarmato
dalla pubblicazione sulla Gazzetta dello Sport della notizia
relativa alla firma falsa sui passaporti portoghesi dei due
brasiliani dell'Udinese, consegna il documento del portiere Dida
al Questore di Milano, dubitando della sua validità. Alvaro
Recoba, uruguayano dell'Inter, viene convocato a Udine in
Procura e si presenta con un documento dal quale risulta
residente a Roma ma che si rivela falso, come la patente: il
calciatore è costretto a tornare in patria per munirsi di regolare
passaporto. Tra il settembre 2000 e il gennaio 2001 sono resi
noti altri episodi, più o meno sconcertanti e pittoreschi. La
giustizia sportiva, assediata da ricorsi alla Corte federale e
minacce di chiamare in causa la giustizia ordinaria, procede
faticosamente ai due gradi di giudizio e, nel luglio, giunge a una
soluzione di compromesso: un periodo di squalifica per i
calciatori scoperti in flagranza, ammende alle società. Le più
coinvolte, Inter, Udinese e Vicenza, riescono comunque a
evitare la penalizzazione reclamata da Napoli e Reggina; in
sospeso resta l'accertamento sui numerosi extracomunitari della
Roma. Nel processo sportivo del caso che ha dato inizio
all'inchiesta, Verón e la Lazio vengono assolti.

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