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DISPENSA DI

DIRITTO INTERNAZIONALE
(PARTE SPECIALE)
COMUNICATO DI RESPONSABILITÀ

“L’ASSOCIAZIONE VIVIUNINA SCIENZE POLITICHE È DA SEMPRE VICINA ALLE


ESIGENZE DELLA PLATEA STUDENTESCA.
PER TALE MOTIVO L’ASSOCIAZIONE METTE A DISPOSIZIONE IL PROPRIO
MATERIALE DIDATTICO, AFFINCHÉ POSSA FORNIRE UN SUPPORTO COMPLETO
ED ADEGUATO AGLI STUDENTI CHE DECIDANO DI USUFRUIRNE.
VIVIUNINA SPECIFICA CHE TALE MATERIALE NON PUÒ SOSTITUIRE I MANUALI ED
I LIBRI DI TESTO ADOTTATI PER GLI SPECIFICI ESAMI CHE RISULTANO ESSERE,
IN QUALSIASI CASO, LO STRUMENTO PIÙ VALIDO PER POTERSI PREPARARE.
VIVIUNINA RIMANDA ALLO STUDENTE LA SCELTA DELLA FONTE, DA CUI
STUDIARE, PIÙ APPROPRIATA ALLE PROPRIE ESIGENZE.

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Diritto Internazionale parte speciale, capitolo 1:
Il diritto internazionale è l’insieme di regole giuridiche che disciplinano la
coesistenza tra Stati: esso può essere considerato come il diritto della Comunità
degli Stati quale insieme degli enti sovrani (superiorem non recognoscentes). La
sovranità e l’uguaglianza sono i principali attributi dei soggetti dell’ordinamento
internazionale, nonché l’oggetto della gran parte delle norme internazionali.
Tuttavia, la disciplina della sovranità ha subito un grande cambiamento nella
Comunità internazionale: essa è stata ed è sottoposta a una progressiva limitazione
mediante l’emersione di nuovi valori.
La sovranità è la potestà di governo di uno Stato e può manifestarsi secondo diverse
modalità: vi possono essere manifestazioni interne della sovranità rispetto alla
collettività umana sottoposta al suo governo (ius vitae ac necis) e manifestazioni
esterne all’attività di governo consistenti nella possibilità di apporre un divieto agli
altri Stati di esercitare attività coercitive all’interno della propria sfera di azione (ius
excludendi alios) – pertanto, la sovranità implica da un lato la discrezionalità dello
Stato nell’esercizio della potestà di governo e dall’altro il divieto di interferenza nei
confronti degli altri.
Dalla condizione di sovranità e di uguaglianza degli Stati discendono diversi principi:
in primo luogo quello dell’esclusività della sovranità in un determinato ambito
territoriale e su una determinata popolazione; in secondo luogo, il dovere di non
ingerenza nell’area di dominio riservato dello Stato e infine quello della
sottoposizione alle regole del diritto internazionale.
Quanto all’esclusività della sovranità, gli Stati godono di libertà di azione nella
propria sfera territoriale: il potere di governo è esclusivo nei confronti degli altri
Stati e ciascuno di essi esercita mediante gli organi le proprie funzioni sovrane, o
jurisdiction secondo l’espressione inglese. Il potere di governo è libero nelle forme e
nei modi quanto al suo esercizio e al suo contenuto: ogni Stato segue i criteri che
ritiene più opportuni nell’organizzazione interna – solitamente si utilizza
l’espressione di autonomia costituzionale per indicare la libertà nell’organizzazione
del potere di governo. Inoltre, il potere di governo è potenzialmente illimitato in
quanto ha a oggetto tutte le possibili attività umane che possono essere condotte
nell’ambito del territorio statale o in ambiti a questo funzionalmente collegati,
comprendendo inoltre tutte le funzioni e competenze necessarie per la gestione di
tali attività (come le competenze legislative, regolamentari, giurisdizionali, civili,
penali e amministrative).

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Dal momento che il territorio è l’ambito spaziale nel quale lo Stato manifesta
naturalmente la sua sovranità, esso è indispensabile per l’affermazione e la
sussistenza della sovranità stessa – infatti, nel diritto internazionale contemporaneo
il principio dell’integrità territoriale è fondamentale. A tal riguardo la Carta delle
Nazioni Unite ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 4 impone agli Stati membri di
astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza armata contro l’integrità territoriale di
qualsiasi Stato, cosicché le uniche modifiche territoriali ammesse sono quelle
effettuate pacificamente o mediante accordo.
Inoltre, non è possibile che in un determinato ambito spaziale di sovranità possa
essere esercitato il potere di governo da parte di un altro Stato senza il consenso
dello Stato territoriale. Ciò può avvenire solamente mediante strumenti giuridici o di
cooperazione internazionale che lo Stato può garantire in taluni casi – si pensi per
esempio alla funzione svolta dagli accordi di estradizione al fine di assicurare alla
giustizia penale l’imputato o il condannato che si trova all’estero. È dunque illecito
qualsiasi esercizio non autorizzato di potere di governo sul territorio altrui.
È necessario sottolineare che l’acquisizione della sovranità è il risultato di una
situazione di fatto in virtù della quale vi è un effettivo e consolidato esercizio di
imperio sul territorio. Infatti, il principio di effettività stabilisce che solamente
situazioni effettive e solidamente costituite possono acquistare rilevanza giuridica.
In passato, il principio di effettività permeava l’intero diritto internazionale e non si
disconosceva l’espansione territoriale realizzata mediante l’uso della forza o in
violazione di norme giuridiche fondamentali.
La forza era la principale fonte di legittimazione della Comunità internazionale.
Tuttavia, a partire dalla Prima guerra mondiale, gli Stati hanno esperito diversi
tentativi al fine di far prevalere la legalità sulla forza e sull’autorità di fatto, negando
una legittimazione alle situazioni che, seppure effettive, violavano valori considerati
fondamentali dalla Comunità. Infatti, la prassi delle Nazioni Unite sembrerebbe
confermare la formazione di una norma consuetudinaria che vincola gli Stati a
negare effetti extra-territoriali agli atti di governo emanati in un territorio
illegittimamente conquistato, o detenuto in dispregio del principio di
autodeterminazione dei popoli o del divieto dell’uso della forza nel caso in cui tale
annessione sia contestata dalla maggioranza dei membri della Comunità.
La sovranità internazionale comporta anche la subordinazione degli Stati alle regole
del diritto internazionale. Ciò significa che gli Stati sono titolari diretti dei diritti e
degli obblighi sanciti dalle norme consuetudinarie e da quelle convenzionali del
diritto internazionale. Bisogna sottolineare che l’accettazione di obblighi attraverso
la conclusione di accordi internazionali non significa la rinuncia alla sovranità, bensì
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ne rappresenta l’esercizio. Ciò vale anche nel caso di adesione a un trattato istitutivo
di un’organizzazione internazionale, pure nell’ipotesi in cui quest’ultima sia dotata di
competenze in grado di incidere sulla sfera del dominio riservato degli Stati come
nel caso dell’Unione europea – infatti, l’adesione è la manifestazione del consenso
degli Stati ad accettare o meno i vincoli giuridici.

2. Il divieto di ingerenza negli affari interni e il dominio riservato:


Lo Stato, sovrano nel suo ambito territoriale, non deve intervenire negli affari interni
di un altro Stato. Il concetto di dominio riservato, o anche di domestic jurisdiction,
ha rilievo non solo politico ma anche giuridico e indica quell’ambito del dominio
statale in cui le funzioni e le competenze dello Stato non sono vincolate dal diritto
internazionale. Tuttavia, è un ambito la cui portata è relativa: la sua relatività è stata
affermata dalla giurisprudenza internazionale, la quale ha ancorato la sua ampiezza
all’evoluzione dei rapporti internazionali. Pertanto, la determinazione della sfera del
dominio riservato non spetta al diritto interno, bensì al diritto internazionale e varia
a seconda degli impegni internazionali assunti dagli Stati e dalla loro portata, così
come dipende dall’azione delle organizzazioni internazionali.
Il concetto di dominio riservato è evolutivo e storico: per il diritto internazionale
classico lo Stato era libero nel suo territorio di fare ciò che voleva, di disporre come
credeva le proprie risorse naturali, di seguire i criteri che riteneva più opportuni. Vi
era una disciplina in negativo che lasciava a ciascuno Stato un’indiscutibile libertà
purché non violasse gli interessi e la sfera di libertà di altri soggetti internazionali.
Questa situazione oggi è profondamente mutata in quanto il diritto internazionale
incide, soprattutto attraverso la conclusione di accordi internazionali, nei più
disparati settori della vita interna dello Stato. Lo sviluppo di un sistema
internazionale di tutela dei diritti umani e la stipulazione di numerosi accordi in
materia di cooperazione e interazione economica sembrano avere profondamente
inciso sulla sfera del dominio riservato degli Stati.
Con particolare riferimento alla tutela dei diritti umani, occorre osservare che, a
eccezione delle norme giuridiche sul trattamento degli stranieri, il diritto
internazionale classico non imponeva agli Stati nessun obbligo di tutela nei confronti
degli individui. La sovranità era concepita come una sorta di diritto di proprietà dello
Stato avente a oggetto il territorio, di conseguenza gli individui erano considerati
come mere pertinenze del territorio. Invece, oggi sono state concluse numerose
convenzioni internazionali a livello universale e regionale, così come si sono
sviluppate norme consuetudinarie, che limitano il dominio riservato degli Stati a
tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali.

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Il divieto di ingerenza negli affari interni è la garanzia dell’esclusività delle
competenze sovrane dello Stato e la sua manifestazione più evidente è il non-
intervento nella sfera delle competenze esclusive dello Stato per difendere un
diritto o taluni soggetti. Quanto alla Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il
divieto di ingerenza è stabilito ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 7: nessuna
disposizione autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i membri a
sottoporre tali questioni a una procedura di regolamento, anche se questo principio
non pregiudica le misure coercitive di cui al capitolo VII (azione rispetto alle minacce
alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione).
Questa disposizione si presenta come sufficientemente elastica da dar luogo a
interpretazioni diverse, sia a favore che invece contrarie, rispetto alla sussistenza del
dominio riservato dello Stato, soprattutto per l’utilizzo dell’avverbio
“essenzialmente”; inoltre, sebbene sia espressamente sancito il binomio dominio
riservato-divieto di ingerenza nelle questioni interne, è al contempo sancito una
sorta di subordinazione della giurisdizione riservata dello Stato al mantenimento
della pace e della sicurezza interna.

3. Sovranità e legame di cittadinanza:


Lo Stato esercita una potestà di governo esclusiva sulla comunità umana stanziata
nell’ambito spaziale sottoposto alla sua sovranità. La potestà dello Stato su una
determinata comunità è vantata a titolo personale mediante quel vincolo stabile
dato dal legame di cittadinanza, il quale permette allo Stato di disporre in modo
completo dei propri cittadini. Lo Stato è dotato di una competenza esclusiva e
discrezionale rispetto all’attribuzione della cittadinanza: esso può fissare i criteri in
base ai quali concederla sulla base di valutazioni sociopolitiche e demografiche. I
criteri più frequentemente adoperati sono quelli dello ius sanguinis e dello ius soli,
spesso anche combinati insieme. Il primo collega la concessione della cittadinanza
alla nazionalità dei genitori, invece il secondo al luogo di nascita indipendentemente
dalla cittadinanza dei genitori.
Molti ordinamenti giuridici contemplano anche l’istituto della naturalizzazione
mediante cui è riconosciuta la cittadinanza in caso di matrimonio o dopo un certo
periodo di residenza nello Stato. la naturalizzazione costituisce una facoltà offerta al
cittadino straniero che deve manifestare la propria volontà ad assumere un’altra
nazionalità.

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In Italia, in base alla legge 91/1992 e successive modifiche, la cittadinanza si
acquisisce automaticamente al momento della nascita se almeno uno dei genitori è
cittadino italiano. La naturalizzazione può essere concessa per residenza dopo dieci
anni di residenza in Italia, per matrimonio se il cittadino straniero risiede in Italia per
almeno due anni dopo il matrimonio e per nascita se il cittadino straniero è nato in
Italia e vi abbia risieduto ininterrottamente fino al compimento del diciottesimo
anno di età. In seno al consiglio di Europa gli Stati membri hanno anche cercato di
adottare norme uniformi in materia di attribuzione della cittadinanza e di
naturalizzazione, anche al fine di evitare casi di apolidia – il tentativo si è
concretizzato con la Convenzione di Strasburgo del 1997 sulla cittadinanza entrata in
vigore nel 2000, anche se è stata tuttavia ratificata da un numero esiguo di Stati.
Proprio poiché ogni Stato fissa discrezionalmente i criteri in basi ai quali concede la
cittadinanza, non sono infrequenti i casi di cittadinanza plurima o i casi di apolidia in
cui vi è l’assenza di qualunque cittadinanza. La prima ipotesi può determinare talune
difficoltà all’individuo, soprattutto quando gli impone doppi obblighi perché
riconducibili a entrambe le cittadinanze (per esempio l’imposizione fiscale) o
determinare un contrasto tra i due Stati di cittadinanza nell’esercizio di talune loro
facoltà in rapporto al cittadino come la protezione diplomatica. Si è cercato di
risolvere le situazioni di cittadinanza plurima attraverso accordi internazionali
bilaterali e multilaterali, come la Convenzione di Strasburgo del 1963 sulla riduzione
dei casi di pluralità nazionale e sugli obblighi militari in caso di nazionalità plurima,
entrata in vigore nel 1968 e di cui è parte anche l’Italia.
Il diritto internazionale richiede che la cittadinanza sia sempre espressione di un
legame reale ed effettivo, il cosiddetto genuine link, tra un individuo e uno Stato
determinato: non è sufficiente un legame meramente giuridico, bensì è necessario
che vi sia una coincidenza tra vincolo formale e collegamento effettivo del cittadino
con lo Stato che esprima una solidarietà di vita, interessi e sentimenti. Si parla in
dottrina di una cittadinanza effettiva.
Costituisce una cittadinanza sui generis quella dell’Unione europea: si tratta di una
cittadinanza formale esclusivamente connessa al possesso della cittadinanza di uno
degli Stati membri dell’Unione. Essa non si sostituisce a quella nazionale, bensì si
aggiunse a essa. Dalla cittadinanza europea discendono solamente diritti e nessun
obbligo: si consideri per esempio la libertà di circolazione e di soggiorno sul
territorio degli Stati membri, il diritto di voto e a essere eletti alle elezioni locali e al
Parlamento europeo nello Stato di residenza, la protezione diplomatica e consolare
da parte di ogni Stato dell’Unione quando nel Paese terzo lo Stato di nazionalità non

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ha alcuna rappresentanza diplomatica o consolare, il diritto di petizione al
Parlamento europeo e di rivolgersi a un mediatore europeo.
Quanto alla nazionalità delle persone giuridiche, lo Stato gode di una competenza
esclusiva e discrezionale anche in tale materia: infatti, a seconda delle scelte di
natura sociopolitica ed economica, il criterio scelto può variare da quello della sede
legale, al luogo dell’incorporazione o al criterio del controllo (talora fondato sulla
cittadinanza della maggioranza degli azionisti e altre volte sulla cittadinanza di
coloro che dirigono l’ente). Tuttavia, per le persone giuridiche non vi è la necessità
che ci sia un legame effettivo tra la persona giuridica e lo Stato di nazionalità.

4. L’assenza o l’impossibilità di utilizzare il legame di cittadinanza: l’apolide e il


rifugiato.
I conflitti armati e i mutamenti di sovranità territoriale possono influire sul legame di
cittadinanza, recidendolo e determinando situazioni di apolidia. Dal punto di vista
giuridico queste situazioni discendono o da vuoti causati dal passaggio da una
legislazione statale all’altra, o dall’assenza di norme in materia di cittadinanza
quando nasce un nuovo Stato. L’apolide non gode della protezione di alcuno Stato e
non sono mancati i tentativi a livello internazionale per prevenire o eliminare le
situazioni di apolidia.
Sono stati adottati a tal proposito diversi accordi aventi per oggetto la mancanza di
cittadinanza, tra cui la Convenzione di New York del 1954 sullo status degli apolidi e
Convenzione di New York del 1961 sulla riduzione delle situazioni di apolidia. La
prima è stata ratificata da circa sessanta Stati, principalmente latino-americani ed
europei (tra cui l’Italia), e impone agli stati contraenti di garantire all’apolide il
trattamento riservato allo straniero; invece, la Convenzione del 1961 è stata
ratificata da un numero esiguo di Stati, circa trenta e tra i quali non figura l’Italia.
Quest’ultima fissa alcune regole al fine di evitare situazioni di apolidia ma, nel caso
in cui si dovessero verificare, fa discendere la cittadinanza dal luogo di nascita.
Recentemente la Commissione di diritto internazionale ha trattato nei suoi lavori la
questione degli effetti della successione tra Stati sulla cittadinanza delle persone
fisiche: nel 1999 essa ha adottato un progetto di articoli in materia nel quale vi è il
riconoscimento del diritto alla cittadinanza dello Stato successore per i cittadini
dello Stato estinto e l’obbligo per gli Stati coinvolti di evitare situazioni di apolidia.
Il legame di cittadinanza è invece inutilizzabile nel caso del rifugiato. Tuttavia,
quest’ultimo deve essere nettamente diviso dall’apolide dal punto di vista giuridico:
il rifugiato è uno straniero che gode di un regime particolare di protezione nello
Stato di accoglienza in considerazione delle persecuzioni per ragioni di razza,

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religione o credo politico, di cui è vittima nel proprio Stato. Il fenomeno della fuga
del proprio Stato per sfuggire a persecuzioni è antico ma ha assunto dimensioni
macroscopiche nel Novecento – a fronte di ciò venne creato il primo alto
Commissariato per i rifugiati in seno alla Società delle Nazioni. A seguito della
Seconda guerra mondiale, l’assistenza ai profughi venne svolta da un’istituzione
specializzata delle Nazioni Unite, ossia l’Organizzazione internazionale dei rifugiati.
Essa venne sostituita nel 1950 dall’Alto Commissariato per i rifugiati, tuttora
operativo e affiancato dal Comitato internazionale per la Croce Rossa e
l’Organizzazione mondiale per le migrazioni nata nel 1951.
Allo status di rifugiato è dedicata la Convenzione di New York del 1951,
accompagnata da un Protocollo del 1967, ratificata da un grande numero di Stati,
circa 144 e tra cui l’Italia. Invece, circa quaranta Stati africani vincolati dalla
Convenzione di Addis Abeba del 1969 con la quale si cerca di fronteggiare la
situazione dei profughi del continente africano causata da continui conflitti
interetnici.
Dalla condizione di rifugiato discende il diritto di asilo, ossia il diritto di cercare
rifugio in un altro Stato, riconosciuto dal diritto internazionale consuetudinario a
quegli individui perseguitati per ragioni religiose, razziali o per credo politico. In una
Comunità quale quella internazionale è innanzitutto un diritto nei confronti degli
altri Stati, motivo per il quale il potere dello Stato quanto all’accesso dello straniero
è fortemente limitato: infatti, non è possibile il respingimento alla frontiera del
richiedente di asilo in quello Stato ove la sua vita o la sua libertà sarebbero
minacciate. Egualmente limitata è l’espulsione, ammessa solamente per motivi di
sicurezza nazionale o di ordine pubblico.
Quanto allo status di rifugiato, è necessario che gli venga garantito un trattamento
non meno favorevole di quello che lo Stato accorda ai propri cittadini e d’altra parte
riservargli un trattamento comparabile a quello generalmente accordato agli
stranieri: il rifugiato gode di un trattamento analogo a quello del cittadino in materia
religiosa, di accesso ai tribunali, di insegnamento privato e di un trattamento non
meno favorevole a quello accordato agli stranieri relativamente ad esempio al
diritto di associazione e di attività professionale.
Lo status di rifugiato ha una valenza limitata, discendendo quest’ultimo dal diritto di
asilo concesso dallo Stato territoriale. Solo nell’ambito dell’Unione europea il
riconoscimento di asilo assume rilievo giuridico per tutti gli Stati membri, vi è un
sistema europeo comune di asilo. Lo status di rifugiato viene meno nel momento in
cui egli accetta la protezione del suo Stato di origine, o quando cessano le
circostanze alla base del quale si era verificata la concessione del diritto di asilo.

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Tuttavia, la realtà odierna conosce sempre meno casi di rifugiati classici: oggigiorno i
fenomeni più comuni sono quelli degli esodi di massa per sfuggire a conflitti
interetnici, alla povertà o a catastrofi naturali. Bisogna considerare inoltre le
internally displace people, ossia quelle persone che sono forzate a muoversi per le
stesse cause da un territorio all’altro, senza però superare i confini nazionali.
Entrambe le categorie non rientrano perfettamente nel campo di applicazione degli
strumenti internazionali vigenti in tema di asilo e rifugiati, motivo per il quale la
tutela approntata loro risulta non omogenea e rimessa alla discrezionalità statale.

5. Sovranità statale e i suoi limiti classici: il trattamento dello straniero.


Lo Stato è competente a disciplinare le attività umane nel proprio ambito territoriale
e a fissare il regime giuridico applicabile agli individui e alle persone fisiche, aventi o
meno la sua nazionalità, sottoposti alla sua sfera di sovranità. Tuttavia, queta
sovranità tendenzialmente assoluta dello Stato è attualmente sottoposta a
numerosi limiti, alcuni dei quali discendenti da consuetudini internazionali e altri da
accordi internazionali stipulati e volti a proteggere i diritti umani. In passato le
uniche eccezioni al carattere assoluto della sovranità degli Stati erano previste dalle
norme consuetudinarie sul trattamento dei cittadini stranieri e dei loro beni, degli
organi di altri Stati e degli stessi Stati stranieri.
Per lungo tempo il diritto internazionale ha tutelato gli individui solamente in
quanto stranieri, oggi questo corpus normativo storico è affiancato da nuove regole
convenzionali e consuetudinari che si focalizzano sull’individuo, riconoscendogli
diritti e libertà fondamentali indipendentemente dal suo status di cittadinanza.
Tuttavia, bisogna chiarire che i limiti alla sovranità statale derivanti dalle norme
consuetudinarie sul trattamento dello straniero non riguardano la discrezionalità
dello Stato sull’ammissione dello straniero nel proprio territorio o sulla politica in
campo di immigrazione: infatti, lo Stato può liberamente decidere di non ammettere
taluni stranieri o di ammetterli subordinatamente a determinate condizioni, così
come di ammetterli per brevi periodi e temporanei o per periodi più lunghi.
Spesso gli Stati concludono accordi internazionali su base bilaterale o multilaterale
con cui stabiliscono standard comuni quanto alle condizioni di ingresso e di
residenza dei rispettivi cittadini – si pensi per esempio al Trattato sul funzionamento
dell’UE, il quale attribuisce competenze in materia di libera circolazione dei cittadini
comunitari ed extracomunitari, nonché di asilo, visti e immigrazioni alle Istituzioni
comunitarie.
Anche l’espulsione dello straniero rientra nelle discrezionalità dello Stato. Tuttavia,
la discrezionalità statale trova in questo settore limiti incisivi sia relativamente al
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merito sia alle modalità dell’espulsione negli accordi bilaterali di amicizia e
stabilimento, nonché nelle norme consuetudinarie e convenzionali in materia di
diritti umani. Altri limiti possono discendere infine dalle regole consuetudinarie sul
trattamento dello straniero. Dal 2004 la Commissione di diritto internazionale sta
esaminando il tema dell’espulsione dello straniero con l’obbiettivo di codificare le
norme consuetudinarie in materia – i progetti di articoli fino a oggi elaborati
sanciscono il diritto dello Stato a espellere il cittadino straniero nel rispetto però
della buona fede e negli obblighi internazionali e il divieto, fatte salve talune
eccezioni, di espellere il proprio cittadino, rifugiati e apolidi. In caso di espulsione, vi
è l’obbligo di rispettare i diritti umani: il progetto presenta una lista meramente
esemplificativa di specifici diritti da tutelare, come per esempio il diritto alla vita, la
dignità umana e il divieto di tortura.
Una volta che lo Stato ha permesso allo straniero di soggiornare nel proprio
territorio, è sottoposto al rispetto di due principi di natura consuetudinaria: quello di
non imporre allo straniero degli obblighi connessi allo status di cittadinanza e quello
di proteggere il cittadino straniero. Entrambi i principi fissano limiti alla
discrezionalità della sovranità statale. Quanto al divieto di imporre allo straniero
obblighi connessi alla cittadinanza, esso ha una portata indeterminata potendosi
riferire solamente all’assenza di quel legame costituito dalla cittadinanza: tuttavia, è
possibile escludere prestazioni come il servizio militare, le imposizioni fiscali che non
discendono da attività o beni nel territorio dello Stato ospite, così come
l’applicazione delle misure monetarie (antitrust o commerciali) che non sono
connesse ad attività poste in essere nel territorio dello Stato.
Quanto all’obbligo di protezione del cittadino straniero e dei suoi beni, esso si è
sviluppato a partire dal diciannovesimo secolo in stretta connessione con l’istituto
della protezione diplomatica nel momento che aumentava la presenza straniera in
molti Stati a seguito dell’espansione transnazionale delle relazioni economiche e
commerciali. Lo Stato ospite è obbligato a trattare i cittadini stranieri
conformemente alla media della prassi degli Stati civili – in altri termini, secondo gli
standard ordinari di civilizzazione. Sullo Stato gravano soprattutto obblighi di non
fare, ossia di non sottoporre lo straniero a trattamenti anormali consistenti per
esempio in detenzioni illecite, requisizioni arbitrarie, etc.
Lo Stato deve anche permettere allo straniero di mettersi in contatto con le proprie
autorità nazionali, in specie diplomatiche e consolari. Lo Stato deve proteggere lo
straniero e i suoi beni dalle offese che possono essergli causate dai suoi organi e da
altri individui. Infine, vi sono i cosiddetti obblighi di diligenza: lo Stato deve
reprimere le violazioni commesse a danno dello straniero, mettendo a disposizione

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di quest’ultimo i mezzi giurisdizionali tali da garantire la repressione dei
comportamenti e il risarcimento del danno.

6. Il trattamento dei beni stranieri:


L’obbligo di protezione riguarda anche i beni di proprietà degli stranieri, cittadini o
persone giuridiche, siano essi mobili o immobili, e gli investimenti stranieri nel
territorio dello Stato ospite. Bisogna sottolineare che rientra nella discrezionalità
statale se permettere agli stranieri di acquistare beni sul suo territorio, investire in
attività economiche o parteciparvi. Tuttavia, una volta che la legislazione nazionale
ammette l’acquisto di beni e l’investimento nel territorio da parte di stranieri, lo
Stato territoriale deve fornire uno standard minimo di protezione.
Una questione fondamentale da affrontare riguarda il trattamento e l’eventuale
protezione che deve essere garantito ai beni stranieri nel caso di nazionalizzazione o
espropriazione. Ogni Stato è libero di organizzare come meglio ritiene l’economia
nazionale, ricorrendo anche a espropriazioni e nazionalizzazioni. Per il diritto
internazionale l’espropriazione di beni stranieri è pienamente legittima, tuttavia
essa deve soddisfare determinate condizioni a protezione dello straniero: essa deve
essere effettuata per motivi di pubblica utilità e non su base discriminatoria. Inoltre,
sancito da una norma consuetudinaria vi è l’obbligo per lo Stato espropriante di
versare all’espropriato un indennizzo immediato, sufficiente ed effettivo. Questo
indennizzo non è una sorta di riparazione per il danno subito, bensì una forma di
compensazione.
Infine, la giurisprudenza arbitrale ha operato la distinzione tra espropriazioni
legittime e illegittime: rispetto a quest’ultime, l’indennizzo deve comportare una
vera e propria restitutio in integrum (o corrispondere alla valutazione monetaria di
tale restitutio) in modo da ristabilire quella situazione che si sarebbe verificata in
mancanza dell’espropriazione. La perdita sul profilo è indennizzata solamente nel
caso di espropriazioni illegittime.
Per garantire meglio l’investitore straniero e ridurre le controversie tra lo Stato
dell’investitore e quello di investimento, spesso sono stati conclusi accordi di
compensazione forfettaria con cui lo Stato territoriale accetta di indennizzare lo
Stato di nazionalità dello straniero e ripartire la somma tra i suoi nazionali, i quali
devono necessariamente rinunciare a ogni ricorso (lump sum agreements). Oppure,
in un’ottica di migliore garanzia, vi sono anche gli accordi bilaterali di protezione
degli investimenti.

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7. La violazione delle norme sul trattamento dello straniero: la protezione
diplomatica
Quando lo Stato di soggiorno viola le norme sul trattamento dello straniero, esso
commette un illecito internazionale nei confronti dello Stato del quale la vittima ha
cittadinanza. In tali ipotesi, una norma consuetudinaria prevede la facoltà allo Stato
di agire in protezione diplomatica, assumendo la difesa del proprio cittadino sul
piano internazionale ed esigendo la cessazione della violazione, la restitutio in
integrum, la riparazione del danno o la punizione dei colpevoli.
L’istituto della protezione diplomatica rappresenta una delle applicazioni più
evidenti del legame costituito dalla cittadinanza: infatti, lo Stato agisce a tutela dei
suoi cittadini che abbiano subito una lesione dei propri interessi a opera dello Stato
straniero nel quale si trovano invocando proprio tale stretto legame. Questa difesa
può essere esercitata per vie diplomatiche o per vie giudiziarie internazionali.
Tuttavia, la protezione diplomatica deve essere distinta dalle attività esercitate dagli
agenti diplomatici e consolari in assistenza del proprio cittadino presente nello Stato
in cui sono accreditati, o nel caso in cui reputino che il cittadino non abbia goduto
delle garanzie che poteva pretendere dagli organi dello Stato ospite (protezione
consolare).
La protezione diplomatica ha ancora oggi una sua funzione rilevante nelle relazioni
internazionali, nonostante si sia sviluppato un sistema di tutela di diritti umani che
permette all’individuo di proteggere i propri diritti senza la necessaria
intermediazione statale. Esso è stato anche oggetto di studio da parte della
Commissione di diritto internazionale, la quale ha presentato nel 2006 all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite un progetto di diciannove articoli, attualmente
sottoposto all’esame degli Stati per eventuali commenti scritti.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui è titolare,
ossia il diritto al rispetto delle regole giuridiche internazionale nei confronti dei suoi
cittadini. Invece, gli individui ne restano semplici beneficiari. Se i loro diritti e
interessi sono lesi da uno Stato estero e il loro Stato nazionale decide di non
intervenire, essi non possono nulla contro l’inerzia delle loro autorità. L’esercizio del
diritto alla protezione diplomatica è rimesso alla valutazione discrezionale dello
Stato, il quale non può essere obbligato a procedere. Inoltre, lo Stato può rinunciare
alla protezione diplomatica anche dopo averla accordata.
Ciò spiega l’atteggiamento negativo assunto dalla giurisprudenza internazionale e
dalla maggioranza degli Stati relativamente alla validità giuridica della clausola
Calvo, estremamente diffusa nei contratti di concessione stipulati dagli Stati latino-
americani nell’Ottocento e nei primi del Novecento: con questa clausola il privato
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concessionario accettava di non domandare la protezione diplomatica al suo Stato di
origine in caso di controversia con lo Stato concedente. Inizialmente la
giurisprudenza internazionale, pur mantenendo la validità giuridica della clausola, la
ritenne inopponibile allo Stato di cittadinanza, il quale rimaneva libero di accordare
protezione diplomatica. Successivamente, è stata dichiarata la nullità della clausola.
L’esercizio della protezione diplomatica è subordinato a due condizioni: la prima è
l’esistenza del collegamento tra Stato e individuo o persona giuridica, rappresentato
dalla cittadinanza o dalla nazionalità. Tale collegamento deve essere opponibile allo
Stato contro il quale si agisce in protezione diplomatica e deve sussistere nel
momento del fatto illecito dello Stato e in quello della presentazione del reclamo.
Invece, più incerto è se il legame di cittadinanza o nazionalità debba permanere fino
alla decisione che risolve la controversia – a tal proposito, non sono mancate alcune
sentenze arbitrali che richiedono la regola della continuità della cittadinanza fino
alla decisione arbitrale.
Invece, la seconda condizione per l’esercizio della protezione diplomatica è che lo
straniero abbia esperito tutte le procedure per ottenere giustizia offerte
dall’ordinamento dello Stato territoriale – ricorsi amministrativi, giurisdizionali,
ordinari o speciale, purché siano strumenti per ottenere giustizia. È necessario che i
ricorsi interni abbiano avuto a oggetto il contrasto che contrappone lo straniero allo
Stato e che abbiano avuto esito negativo. La regola consuetudinaria del previo
esaurimento dei ricorsi interni ha natura sostanziale: finché lo Stato territoriale ha la
possibilità di eliminare l’azione illecita o fornire allo straniero un’adeguata
riparazione, le norme sul trattamento dello straniero non possono dirsi neppure
violate. Tale regola ha la finalità di rispettare la sovranità dello Stato territoriale e
l’esercizio delle sue funzioni; inoltre, occorre considerare anche le difficoltà che
incontrerebbe la giustizia internazionale ad affrontare i numerosi casi di violazione
delle regole sul trattamento degli stranieri in assenza della regola di previo
esaurimento dei ricorsi interni.
La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni trova applicazione soltanto
quando lo Stato ha subito una lesione indiretta tramite il suo cittadino e non nel
caso di lesione diretta. Nel caso in cui vi siano sia lesioni dirette che indirette, è
necessario che vi sia la preponderanza di quelle indirette. Infine, essa non trova
applicazione nel caso in cui i ricorsi non siano effettivi e quando è per colpa della
persona fisica o giuridica straniera che non si è potuto riparare alla violazione
commessa, o anche quando lo Stato considerato responsabile della violazione vi
abbia espressamente rinunciato.

14
Quanto alla doppia cittadinanza, è necessario che venga eseguito il cosiddetto test
dell’effettività della cittadinanza affinché venga risolto il problema di quale sia lo
Stato che, presentando il legame di cittadinanza più stretto, ha la facoltà di
esercitare la protezione diplomatica. Tuttavia, la Commissione di diritto
internazionale non ha ritenuto opportuno fare alcuna menzione nel suo progetto di
articoli alla necessità di legame effettivo nei casi di doppia cittadinanza –
sembrerebbe essere una scelta piuttosto politica, finalizzata a ridurre o rendere
problematica la protezione diplomatica nei numerosi casi di incerta cittadinanza
prevalente.
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato anche rispetto alle
persone giuridiche – in specie a società commerciali che abbiano la sua nazionalità,
istituite nel territorio di detto Stato e in cui sono localizzate la sede legale. Invece,
nessun locus standi ha lo Stato di cittadinanza degli azionisti nell’esercizio della
protezione diplomatica. Si ammette la protezione diplomatica dello Stato degli
azionisti solamente quando la società ha cessato di esistere o se è proprio lo Stato di
incorporazione ad aver violato le norme sul trattamento delle società straniere.
Molto simile alla protezione diplomatica è quella funzionale, la quale può essere
esercitata dalle organizzazioni internazionali nei confronti dei propri agenti.
Tuttavia, alla base della protezione funzionale non vi è il legame di cittadinanza,
bensì quello fornito dalla funzione che l’agente svolge per conto dell’organizzazione.
Non esiste alcuna regola che dia priorità alla protezione diplomatica su quella
viceversa e funzionale, né una regola che imponga a un’organizzazione di astenersi
dall’esercizio della protezione funzionale in favore di quella diplomatica.

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CAPITOLO 2
La sovranità e i suoi limiti in rapporto agli altri Stati e alle organizzazioni
internazionali.

1. Eguaglianza sovrana degli Stati ed immunità dalla giurisdizione: dall’immunità


assoluta a quella relativa
Dal principio fondamentale dell’eguaglianza sovrana tra gli Stati discende un altro
principio basilare per il diritto internazionale: il principio dell’immunità dello Stato e
dei suoi organi dalla giurisdizione di uno Stato straniero. Infatti, se tutti gli Stati sono
egualmente sovrani, allora è impossibile dal punto di vita giuridico e politico che gli
organi giurisdizionali di uno Stato possano giudicare gli atti e i comportamenti di un
altro Stato. Ciò sarebbe una contraddizione e una negazione della sovranità stessa.
Ciò è espresso in termini chiari ne noto brocardo par in parem non habet iudicium:
ciò non significa che uno Stato non sia vincolato al rispetto delle norme interne di un
altro Stato quando si trova a operare nell’ordinamento di quest’ultimo, ma che le sue
azioni non sono giustiziabili.
Il principio vigente dell’immunità dello stato dalla giurisdizione è il risultato di una
lunga evoluzione del diritto consuetudinario – è con la sentenza della Corte suprema
degli Stati Uniti del 24 febbraio 1812 per il caso Schooner Exchange c. McFaddon che
per la prima volta venne ricostruita l’immunità statale dalla giurisdizione, nel caso di
specie l’immunità di una nave di guerra. La sentenza ancora l’immunità
all’indipendenza e alla sovranità degli Stati. Fu teorizzata un’immunità statale
assoluta per la quale venne esclusa qualsiasi eccezione: non era possibile in alcun
caso che il comportamento statale potesse essere sottoposto al controllo
giurisdizionale di un giudice interno.
Tuttavia, con il progressivo incremento dell’impegno statale in ambito
imprenditoriale e commerciale, l’immunità assoluta dalla giurisdizione civile iniziò a
essere percepita come insoddisfacente dal momento che escludeva ogni rimedio
giuridico nei confronti degli Stati relativamente alle loro attività commerciali. La
reazione di alcuni giudici ha inciso sull’ambito dell’immunità, la quale ha iniziato a
essere circoscritta solamente a quegli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni
sovrane (acta iure imperii) ed esclusa per tutte le attività commerciali e per quegli
atti degli Stati che anche un soggetto privato potrebbe porre in essere (acta iure
gestionis). In altri termini, l’immunità della giurisdizione riguarda gli atti di
manifestazione del potere sovrano dello Stato e non quelli per i quali lo Stato si
pone come privato cittadino.
Pertanto, la regola dell’immunità assoluta ha lasciato il posto alla regola
dell’immunità relativa o ristretta, la quale si caratterizza per un approccio più
16
realistico e pragmatico. Quanto alla prassi degli Stati, appare maggioritaria la scelta
in favore al principio dell’immunità relativa, anche se attraverso meccanismi diversi:
in taluni ordinamenti sono state adottate leggi che accolgono il principio
dell’immunità ristretta come il caso degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, in altri è
l’autorità giudiziaria ad applicare il concetto relativo di immunità statale, come per
l’Italia. Il sostegno all’immunità assoluta è invece rinvenibile nella prassi interna
degli Stati in via di sviluppo, così come in Russia e in Cina – tuttavia, la Russia ha
stipulato numerosi accordi bilaterali che permettono l’esercizio della giurisdizione in
materia di contratti commerciali stipulati nel territorio dell’altro Stato contraente.
Quanto al diritto internazionale convenzionale, la Convenzione del 1972 ha come
suo obbiettivo quello di definire l’abito dell’immunità dalla giurisdizione; invece, la
Convenzione del 2004 è il frutto di un lungo impegno prima della Commissione di
diritto internazionale, incaricata nel 1977 dall’Assemblea generale di predisporre un
progetto di convenzione sulle immunità degli Stati, e di un gruppo di lavoro ad hoc
istituito nel 2001. I lunghi tempi di elaborazione del testo testimoniano i contrasti di
opinione tra gli Stati – fino a oggi essa è stata ratificata da ventisette Stati, non è da
escludere che possa entrare in vigore in tempi brevi considerando che è previsto
che tale entrata avvenga trenta giorni dopo il deposito del trentesimo strumento di
ratifica. L’Italia non ha ratificato né l’uno né l’altro accordo: essa rimane legata alla
regola dell’immunità relativa quale elaborazione giurisprudenziale ed è contraria
alla sua formalizzazione perché ciò andrebbe a precludere qualsiasi evoluzione della
prassi giudiziaria interna.
Occorre sottolineare come il principio dell’immunità rispetto alla giurisdizione civile
opera soltanto quando lo Stato è convenuto innanzi a un giudice straniero e
costituisce l’unico principio limitativo di detta giurisdizione, trovando fondamento
nel diritto internazionale. Invece, la dottrina dell’Act of State costituisce una regola
di diritto interno: gli organi giurisdizionali interni non possono valutare la validità di
una legge o di un altro atto di uno Stato straniero in rapporto ai principi
dell’ordinamento interno di quello Stato, o in rapporto ai principi del diritto
internazionale o in violazione delle libertà fondamentali e dei diritti umani.

2. La difficile individuazione dell’ambito applicativo dell’immunità relativa:


La distinzione tra atti iure imperii e atti iure gestionis è fondamentale per
l’applicazione del principio dell’immunità relativa rispetto alla giurisdizione civile.
Tuttavia, tale distinzione non sempre è facilmente applicabile a tutte le fattispecie
concrete e ciò può provocare incertezze e soluzioni non omogenee. Ciò spiega la
scelta di taluni legislatori interni di affiancare al riconoscimento generale
dell’immunità statale un’elencazione tassativa delle eccezioni alla regola
17
dell’immunità. Tale approccio è stato adottato anche dalla Convenzione europea del
1972 e della Convenzione delle Nazioni Unite del 2004 e dalla lettura dei due
strumenti convenzionali emerge come la prassi statale propenda a ritenere
inopportuno invocare l’immunità dalla giurisdizione per i contratti commerciali che
non siano tra Stati, per i contratti di lavoro, per la partecipazione a società, per la
proprietà, il possesso e altri diritti reali su beni immobili, per i danni causati a
persone o cose e per la proprietà intellettuale.
Tra le eccezioni dell’immunità alla giurisdizione civile generalmente contemplate
dalle legislazioni interni e dai citati strumenti convenzionali vi sono quelle relative ai
contratti di lavoro. La Convenzione del 1972 ammette l’immunità nei casi in cui la
persona abbia la cittadinanza dello Stato che l’ha assunta al momento del ricorso
all’autorità giudiziaria; o quando, al momento della conclusione del contratto, non
aveva la cittadinanza dello Stato del foro né la sua residenza abituale in detto Stato;
o quando le parti hanno diversamente convenuto per iscritto.
Anche la Convenzione del 2004 contempla un’analoga eccezione: è sancita l’assenza
di immunità per i contratti di lavoro, anche se vi sono diverse deroghe. L’immunità
copre tutte le controversie relative a contratti di lavoro per lo svolgimento di attività
specifiche nell’esercizio di funzioni pubbliche o tutte le controversie attinenti
all’assunzione, il rinnovo del contratto di lavoro o la riassunzione, o ancora le
controversie in materie di cessazione del contratto del lavoro laddove il capo dello
Stato, o il capo del governo o il ministro per gli affari esteri dichiarino che esse
possano interferire con la sicurezza nazionale.
Particolarmente delicata risulta anche l’eccezione alla regola dell’immunità per le
controversie aventi a oggetto i danni causati a persone o cose. È opinione condivisa
che tale eccezione non sia ancora consolidata in diritto internazionale e che sia
contemplata dalle convenzioni citate al fine dello sviluppo progressivo del diritto.
Tuttavia, sia la prassi statale che le previsioni convenzionali definiscono l’eccezione
in modo restrittivo, ossia applicabile solamente per i danni materiali a persone o
cose, o solo per danni assicurabili. Quanto invece alla regola dell’immunità nel caso
di risarcimento dei danni da violazioni gravi dei diritti umani commessi da uno Stato
straniero o dai suoi organi, si è rilevata la tendenza ad abbandonarla – i confini sono
ancora incerti, anche se per taluni studiosi possono essere considerati violazioni di
norme cogenti di diritto internazionale.
Bisogna sottolineare che l’immunità è la regola generale e le norme che la
escludono sono eccezioni, motivo per il quale nei casi di subbio l’interprete deve
concludere nel senso dell’immunità dalla giurisdizione piuttosto che per la sua non
invocabilità. Il riconoscimento dell’immunità è anche condizionato dalla
qualificazione del soggetto che la invoca: la Convenzione del 1972 esclude per
18
principio l’immunità dalla giurisdizione gli enti pubblici autonomi rispetto
all’amministrazione statale e dotati della capacità di stare in giudizio, anche e
incaricati di esercitare funzioni pubbliche. Analogamente non beneficiano
dell’immunità gli Stati membri di Stati federali, salvo che detto Stato non lo notifichi
al Segretario generale del Consiglio d’Europa. Invece, il disposto della Convenzione
del 2004 è del tutto diverso: esso adotta una definizione ampia di Stato,
comprendendo qualsiasi unità di uno Stato federale o qualsiasi suddivisione politica,
agenzia e struttura strumentale.
Oltre all’immunità dalla giurisdizione di cognizione, gli Stati godono anche
dell’immunità dalla giurisdizione di esecuzione, la quale fu sottoposta al medesimo
ridimensionamento che ha riguardato la prima. L’immunità dalla giurisdizione di
esecuzione impedisce l’esecuzione forzata dei beni e degli averi. La giurisprudenza
dei giudici interni fa principalmente leva sull’utilizzo dei beni per funzioni pubbliche

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quale discriminante tra l’invocabilità o meno dell’immunità – di conseguenza
l’immunità è applicata solamente ai beni destinati a funzioni pubbliche, quanto
invece ai beni utilizzati per scopi privati non sussiste alcun obbligo imposto dal
diritto consuetudinario di estendere loro la regola dell’immunità dalla giurisdizione.
L’immunità ristretta in materia di giurisdizione di esecuzione è prevista anche dalla
Convenzione del 2004, a differenza di quella del 1972 che non ammette restrizioni
all’immunità assoluta, fatto salvo il consenso dello Stato.
Anche nel caso dell’immunità dall’esecuzione e dalle misure cautelari vi è il
problema della distinzione tra beni destinati a fini sovrani e beni utilizzati per scopi
privati e commerciali. Uno sforzo chiarificatorio mediante l’applicazione del metodo
dell’elencazione è stato compiuto dalla Convenzione del 2004, la quale individua
alcune categorie di beni tipicamente destinati a scopi pubblici come i conti correnti
bancari adoperati per lo svolgimento delle funzioni della missione diplomatica o
consolare dello Stato, i beni militari, i beni della banca centrale o di altre autorità
monetarie dello Stato, nonché i beni che costituiscono parte del patrimonio
culturale dello Stato o dei suoi archivi o che compongono una mostra di oggetti di
portata scientifica, culturale o storica purché non siano destinati alla vendita.
Inoltre, poiché l’immunità è concessa a protezione della sovranità statale, lo Stato
può anche rinunciarvi, manifestando il consenso in modo certo e non equivoco – si
considera rinuncia implicita quando lo Stato interviene nel procedimento giudiziario,
difendendosi in merito. La rinuncia alla giurisdizione di cognizione non comporta
automatica rinuncia a quella di esecuzione.

3. Gli organi dello Stato tra immunità ratione materiae e immunità ratione
personae
Accanto all’immunità dalla giurisdizione dello Stato, il diritto internazionale
consuetudinario riconosce l’immunità a talune categorie di persone fisiche, ossia gli
agenti diplomatici e consolari da un canto e d’altro canto i capi di Stato, i capi di
governo e i ministri degli esteri in quanto rappresentano ruoli cruciali
nell’applicazione delle relazioni internazionali. Tutti gli organi appena citati godono
di immunità diplomatiche: per taluni vi sono immunità per gli atti compiuti
nell’esercizio delle loro funzioni (ratione materiae) e legate all’attività pubblica
dell’organo, invece per altri vi sono immunità per atti conclusi a titolo personale o
extra-funzionali (ratione personae) e sono direttamente connesse al ruolo ricoperto.
Le immunità per gli atti funzionali non cessano con lo scadere dalle funzioni, invece
le immunità personali dipendono dalla durata in carica e allo scadere di essa
vengono meno.
La ratio delle immunità era in passato ricostruita alla luce della teoria dell’extra-
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territorialità; invece, oggi in dottrina si fa alternativamente riferimento alla teoria
della rappresentatività per cui si identificano i rappresentanti dello Stato con lo Stato
stesso e alla teoria della necessità funzionale, ai sensi della quale è essenziale per il
diritto internazionale proteggere e facilitare le relazioni tra gli Stati.
Le immunità diplomatiche trovano la propria base giuridica nel diritto internazionale
consuetudinario, il quale è stato parzialmente codificato. L’opera di codificazione ha
avuto a oggetto le norme consuetudinarie sulle immunità degli agenti diplomatici e
di quelli consolari, dando rispettivamente luogo alla Convenzione di Vienna del 1961
sulle relazioni diplomatiche e alla Convenzione di Vienna del 1963sulle relazioni
consolari, entrambe ratificate dalla maggioranza degli Stati.

4. Le immunità e i privilegi degli agenti diplomatici e della missione diplomatica:


La disciplina delle relazioni diplomatiche è fissata dal diritto internazionale
consuetudinario. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche tra due Stati dipende dal
reciproco consenso, così com’è stabilito dall’articolo 2 della Convenzione di Vienna
del 1961. Non vi è alcun obbligo per il diritto internazionale di mantenere relazioni
diplomatiche: la scelta di avere o meno questo tipo di relazioni è pienamente
discrezionale, esattamente come la scelta di interrompere le stesse relazioni.
Le relazioni diplomatiche si esercitano mediante lo stabilimento da parte di uno
Stato (Stato accreditante) di missioni diplomatiche permanenti o di missioni speciali
presso un altro Stato (Stato accreditatario) sulla base del consenso manifestato da
entrambi. La missione diplomatica permanente, o anche denominata ambasciata, è
installata a titolo permanente presso lo Stato accreditatario per lo svolgimento delle
seguenti funzioni: rappresentare lo Stato accreditante e proteggere i suoi interessi,
negoziare con lo Stato accreditatario, accertare e riferire gli sviluppi dello Stato
accreditatario, promuovere relazioni amichevoli tra i due Stati in campo economico,
culturale e scientifico. Invece, le missioni speciali costituiscono una sorta di
diplomazia ad hoc in quanto tramite esse lo Stato esplica in via temporanea
specifiche funzioni – a queste missioni è dedicata la Convenzione di New York del
1969 sulle missioni speciali, ratificata da pochi Stati, tra cui non figura l’Italia.
Quanto alla procedura per la nomina degli agenti diplomatici in missione
permanente, quest’ultimi non possono esercitare le loro funzioni senza il previo
consenso del governo straniero. A seguito del gradimento vi è l’accreditamento del
capo della missione, il quale riceve dalle autorità competenti le lettere credenziali e
le rimette all’organo competente dello Stato accreditatario, solitamente in entrambi
i casi il capo dello Stato. L’intera procedura di accreditamento serva alla
formalizzazione del consenso dello Stato territoriale alla presenza dell’agente
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diplomatico: le funzioni di quest’ultimo cessano solitamente per volontà dello Stato
Accreditante che deve notificare la sua decisione allo Stato accreditatario, oppure
può richiamare il proprio agente diplomatico in circostanze eccezionali (come forti
tensioni politiche tra i due Stati). La cessazione delle funzioni diplomatiche può
dipendere anche dalla volontà dello Stato territoriale, il quale può dichiarare
l’agente diplomatico persona non grata.
Il diritto consuetudinario, così come codificato nella Convenzione di Vienna sulle
relazioni diplomatiche del 1961, riconosce all’agente diplomatico una serie di
privilegi e immunità tali da permettergli di esercitare pienamente la missione
diplomatica. Essi consistono specificatamente nell’inviolabilità della persona
dell’agente diplomatico e dei locali della missione diplomatica, nella libertà di
comunicazione e nelle immunità dalla giurisdizione civile e penale, nonché
l’esenzione dalle imposte dirette personali.
La Convenzione di Vienna del 1961 individua varie categorie di personale della
missione diplomatica, ciascuna delle quali gode in misura diversa di privilegi e
immunità. Più specificamente gli agenti diplomatici, che comprendono il capo della
missione e il restante personale diplomatico, nonché le loro famiglie conviventi prive
della cittadinanza dello Stato accreditatario, godono dell’inviolabilità personale e
della propria dimora privata, così come dei propri beni, documenti e
corrispondenza, nonché di una piena immunità rispetto alla giurisdizione penale –
quanto invece alla giurisdizione civile e amministrativa, l’immunità non si estende
alle azioni reali circa immobili privati situati nel territorio dello Stato accreditatario,
purché l’agente non li possegga per conto dello Stato accreditante ai fini della
missione, alle azioni circa una successione cui l’agente diplomatico partecipi
privatamente, alle azioni circa un’attività professionale o commerciale qualsiasi
esercitate in vesti private fuori dalle sue funzioni ufficiali. L’immunità comprende
anche il divieto di misure esecutive e la facoltà per l’agente diplomatico di non
rendere testimonianza.
L’inviolabilità personale dell’agente diplomatico è assoluta: egli non può essere
sottoposto ad alcuna misura detentiva o di arresto. Al fine di una maggiore tutela
del personale diplomatico o di alti rappresentanti degli Stati, è stata adottata dalle
Nazioni Unite la Convenzione sulla prevenzione e la repressione dei crimini contro le
persone protette dal diritto internazionale nel 1973, categoria comprendente anche
i capi di Stato e i ministri degli esteri. Essa è stata ratificata dalla maggioranza degli
Stati, tra cui si figura anche l’Italia.
Tra i privilegi dell’agente diplomatico rientra anche l’esenzione da ogni imposta e
tassa, con eccezioni relative alle imposte e tasse sui beni immobili privati situati sul
territorio dello Stato accreditatario (salvo che l’agente non li possegga per conto
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dello Stato) e alle imposte riscosse in rimunerazione di particolari servizi resi. Gli
agenti diplomatici devono essere esenti anche da ogni prestazione personale e
servizio pubblico come gli oneri militari.
Il personale amministrativo e tecnico, così come i loro familiari conviventi che non
siano cittadini o residenti permanenti nello Stato accreditatario, godono degli stessi
privilegi degli agenti diplomatici, nonché dell’inviolabilità personale e dell’immunità
dalla giurisdizione penale ma, diversamente da quest’ultimi, l’immunità dalla
giurisdizione civile è riconosciuta solo per gli atti funzionali. Infine, il personale di
servizio gode solamente dell’immunità funzionale e dell’esenzione dalle imposte.
Il godimento di privilegi e immunità ha inizio nel momento in cui l’agente
diplomatico e il restante personale della missione diplomatica entrano nel territorio
dello Stato accreditatario, o qualora si trovino già nello Stato dal momento in cui la
nomina è notificata al ministero degli affari esteri, o qualsiasi altro ministero del loro
stesso Stato. I privilegi e le immunità vengono meno quando cessano le funzioni e
l’agente diplomatico lascia lo Stato accreditatario (tuttavia bisogna ricordare che le
immunità connesse agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni non vengono mai
meno). Lo Stato accreditante può comunque rinunciare alle immunità dalla
giurisdizione dei propri agenti diplomatici e del personale amministrativo o tecnico.
La rinuncia deve essere espressa e la rinuncia all’immunità dalla giurisdizione di
cognizione non implica quella dalla giurisdizione di esecuzione e viceversa.
Ai privilegi e alle immunità di cui godono gli agenti diplomatici e il personale della
missione si aggiungono quei privilegi e quelle immunità sanciti dal diritto
internazionale consuetudinario e codificato nella Convenzione di Vienna del 1961 in
favore della missione diplomatica. Ai sensi dell’articolo 22 della Convenzione di
Vienna del 1961 i locali della missione diplomatica sono inviolabili e non vi possono
essere né perquisizioni né controlli. Anche i beni mobili, gli archivi e i documenti
della missione, così come i mezzi di trasporto, non possono essere requisiti o colpiti
da altre misure esecutive. Inoltre, lo Stato accreditatario ha l’obbligo di garantire la
libertà di comunicazione della missione, la libertà di circolare e viaggiare nel proprio
territorio, affinché sia possibile per il capo della missione diplomatica e al suo
personale di espletare le proprie funzioni.
La Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 1963 contiene il regime
giuridico dei funzionari consolari – anche questo ampiamente riproduttivo del diritto
consuetudinario. Numerosi Stati l’hanno ratificato, tra cui anche l’Italia.
Le funzioni consolari, esattamente come quelle diplomatiche, possono essere
esercitate solamente con reciproco consenso. Esse hanno natura prevalentemente

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amministrativa, consistendo nella protezione nello Stato di residenza degli interessi
dello Stato di invio. Inoltre, i consolari favoriscono lo sviluppo delle relazioni
economiche, commerciali, culturali e scientifiche tra lo Stato di invio e quello di
residenza, I consoli non rappresentano il loro Stato per la totalità dei rapporti a
livello politico con lo Stato accreditatario, bensì dal punto di vista prevalentemente
amministrativo, infatti sono nominati per fini determinati e per una circoscrizione
territoriale specifica.
Per l’esercizio delle funzioni consolari è necessario che il console sia munito della
lettera patente o di un atto analogo trasmesso dallo Sato di invio allo Stato di
residenza nel quale sono contenute tutte le informazioni necessarie. La cessazione
delle funzioni consolari dipende dalla volontà dello Stato di invio, anche se quello di
residenza può dichiarare un funzionario consolare quale persona non grata. I consoli
possono avere la cittadinanza dello Stato di residenza, tuttavia in quel caso sono
definiti consoli onorari e vi è un regime differente rispetto a quelli onorari.
Proprio per la diversità delle funzioni esercitate dai consoli rispetto a quelle degli
agenti diplomatici, i primi godono di immunità e privilegi ridotti rispetto agli agenti
diplomatici. Quanto all’inviolabilità personale, non è escluso che il funzionario
consolare possa essere arrestato o detenuto per un reato grave su richiesta delle
autorità giudiziarie. Rispetto all’immunità dalla giurisdizione penale, civile e
amministrativa, essa copre soltanto le attività compiute nell’esercizio delle funzioni
consolari (ratione materiae). Inoltre, i consoli possono essere chiamati a
testimoniare in procedimenti giudiziari e amministrativi, anche se nessuna misura
coercitiva può essere applicata nel caso si rifiutassero. L’inviolabilità dei locali
consolari riguarda soltanto gli edifici adibiti all’espletamento delle funzioni consolari,
invece la libertà di comunicazione è sancita analogamente a quanto previsto per la
missione diplomatica. Lo Stato di invio può sempre rifiutare alle immunità di cui
godono i consoli, quest’ultima deve essere espressa e non si estende
necessariamente a quella di esecuzione.

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5. il conflitto tra immunità degli organi dello Stato e responsabilità per la
commissione di gravi violazioni dei diritti umani:
Gli agenti diplomatici e i consolari costituiscono gli organi dello Stato
istituzionalmente destinati a intrattenere le relazioni internazionale dello Stato di
appartenenza. Tuttavia, queste funzioni sono esercitate anche da altri organi come i
capi di Stati, i capi di governo e i ministri degli affari esteri.
Quanto ai capi di Stato, essi godono dell’inviolabilità personale e dell’immunità
assoluta dalla giurisdizione penale ratione personae, ossia in virtù dell’incarico
ricoperto, e dall’immunità dalla giurisdizione civili con i limiti che discendono
dall’articolo 31 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
Una volta cessato l’incarico, i capi di Stati continuano a godere dell’immunità per gli
atti compiuti durante l’espletamento delle loro funzioni; invece, quanto all’immunità
ratione personae, essa è temporaneamente limitata alla durata dell’incarico,
esattamente come per gli agenti diplomatici. Ai capi di Stati è riconosciuta dal diritto
internazionale consuetudinario anche l’immunità personale in termini analoghi a
quelli del personale diplomatico. Invece, quanto ai capi di governo e ai ministri degli
esteri, anch’essi godono dell’immunità dalla giurisdizione e dell’inviolabilità
personale negli stessi termini dei capi di Stato dal momento che adempiono funzioni
analoghe nel contesto delle relazioni internazionali.
Inoltre, a Corte ha riconosciuto la piena immunità dalla giurisdizione innanzi alle
giurisdizioni nazionali anche per crimini internazionali iuris gentium (nel caso di
specie, crimini di guerra e contro l’umanità). Tuttavia, queste immunità dalla
giurisdizione penale di cui godono le alte cariche statali sono oggetto da qualche
anno di un forte dibattito. L’impegno profusa dalla Comunità internazionale
attraverso l’adozione di diversi strumenti convenzionali internazionali e la creazione
di tribunali internazionali al fine di assicurare alla giustizia gli autori di crimini
internazionali ha posto in primo piano la necessità di ridimensionare la regola
dell’immunità dalla giurisdizione per i capi di Stato, di governo e ministri degli esteri
rispetto a detti crimini.
L’incertezza circa la portata di tale regola ha coinvolto l’intero ambito applicativo
della regola: ci si domanda se l’immunità sia ancora sancita, soprattutto
considerando che la perseguibilità è stata più volta affermata attraverso diverse
ricostruzioni giuridiche avanzate a livello giurisdizionale e dottrinario. Si ritiene che
vi sia una prevalenza del diritto cogente sui crimini internazionali rispetto alla
consuetudine sull’immunità degli alti organi dello Stato.

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6. Le immunità delle organizzazioni internazionali e dei loro funzionari:
Nonostante le organizzazioni internazionali non siano dotate di sovranità, a esse
sono riconosciuti determinati privilegi e immunità necessari per espletare le loro
attività istituzionali. Inoltre, considerando che le organizzazioni internazionali sono
prive di un proprio territorio e che si trovano necessariamente a operare nell’ambito
della sovranità statale, sia essa quella dello Stato in cui hanno sede o dove svolgono
una determinata funzione, le immunità e i privilegi appaiono fondamentali per
evitare che vi siano interferenze e ingerenze dagli Stati sul loro operato.
Quanto alla fonte giuridica da cui discendono tali privilegi e immunità, vi è ancora
incertezza rispetto all’esistenza della norma consuetudinaria sull’immunità delle
organizzazioni internazionali, seppure la giurisprudenza interna e la dottrina si
mostrino favorevoli a una sua cristallizzazione. Questa norma fissa obblighi minimi
sugli Stati, finalizzati a garantire le immunità funzionali delle organizzazioni
internazionali, imprescindibili per la loro indipendenza ed effettività.
Spesso è lo stesso patto istitutivo dell’organizzazione a imporre agli Stati membri la
concessione di privilegi e immunità – per esempio ciò è il caso dell’articolo 105 della
Carta delle Nazioni Unite, la quale stabilisce che l’ONU gode nel territorio di ciascuno
dei suoi membri privilegi e immunità necessarie per il perseguimento delle sue
funzioni. Il regime dell’organizzazione può essere anche fissato nell’accordo di sede
rispetto allo Stato ospite, o in appositi trattati – a tal proposito, possiamo
considerare la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite
del 1946 e la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle agenzie
specializzate del 1947.
L’ambito dei privilegi e delle immunità può variare a seconda dello status che gli
Stati riconoscono all’organizzazione internazionale: per esempio, la Convenzione
generale del 1946 attribuisce all’ONU e ai suoi beni un’immunità assoluta dalla
giurisdizione civile degli Stati, anche se è possibile da parte di quest’ultima
rinunciarvi. Invece in altri casi, come per esempio per la Banca mondiale, le norme
convenzionali conferiscono un’immunità più limitata. Le norme convenzionali
riconoscono alle organizzazioni internazionali l’inviolabilità delle loro sedi, dei loro
beni e degli archivi. Le autorità nazionali possono entrare nella sede
dell’organizzazione solamente e autorizzate dagli organi competenti di quest’ultima.
Infine, spesso godono di determinati privilegi fiscali e di libertà di comunicazione.
Gli statuti delle organizzazioni internazionali, così come gli accordi sui privilegi e le
immunità, spesso conferiscono privilegi e immunità anche ai funzionari e agli agenti
della stessa organizzazione internazionale. La ratio alla base di tale concessione è che
si possa garantire loro la possibilità di espletare pienamente le funzioni assegnate.
Quanto alle Nazioni Unite, l’articolo 105 paragrafo 2 riconosce ai funzionari le
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immunità e i privilegi fondamentali per l’espletamento delle loro funzioni, nonché
l’immunità dalla giurisdizione per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.
Invece, al Segretario generale è riconosciuta anche l’immunità ratione personae.
Fine.

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