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DIRITTO INTERNAZIONALE
(PARTE SPECIALE)
COMUNICATO DI RESPONSABILITÀ
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Diritto Internazionale parte speciale, capitolo 1:
Il diritto internazionale è l’insieme di regole giuridiche che disciplinano la
coesistenza tra Stati: esso può essere considerato come il diritto della Comunità
degli Stati quale insieme degli enti sovrani (superiorem non recognoscentes). La
sovranità e l’uguaglianza sono i principali attributi dei soggetti dell’ordinamento
internazionale, nonché l’oggetto della gran parte delle norme internazionali.
Tuttavia, la disciplina della sovranità ha subito un grande cambiamento nella
Comunità internazionale: essa è stata ed è sottoposta a una progressiva limitazione
mediante l’emersione di nuovi valori.
La sovranità è la potestà di governo di uno Stato e può manifestarsi secondo diverse
modalità: vi possono essere manifestazioni interne della sovranità rispetto alla
collettività umana sottoposta al suo governo (ius vitae ac necis) e manifestazioni
esterne all’attività di governo consistenti nella possibilità di apporre un divieto agli
altri Stati di esercitare attività coercitive all’interno della propria sfera di azione (ius
excludendi alios) – pertanto, la sovranità implica da un lato la discrezionalità dello
Stato nell’esercizio della potestà di governo e dall’altro il divieto di interferenza nei
confronti degli altri.
Dalla condizione di sovranità e di uguaglianza degli Stati discendono diversi principi:
in primo luogo quello dell’esclusività della sovranità in un determinato ambito
territoriale e su una determinata popolazione; in secondo luogo, il dovere di non
ingerenza nell’area di dominio riservato dello Stato e infine quello della
sottoposizione alle regole del diritto internazionale.
Quanto all’esclusività della sovranità, gli Stati godono di libertà di azione nella
propria sfera territoriale: il potere di governo è esclusivo nei confronti degli altri
Stati e ciascuno di essi esercita mediante gli organi le proprie funzioni sovrane, o
jurisdiction secondo l’espressione inglese. Il potere di governo è libero nelle forme e
nei modi quanto al suo esercizio e al suo contenuto: ogni Stato segue i criteri che
ritiene più opportuni nell’organizzazione interna – solitamente si utilizza
l’espressione di autonomia costituzionale per indicare la libertà nell’organizzazione
del potere di governo. Inoltre, il potere di governo è potenzialmente illimitato in
quanto ha a oggetto tutte le possibili attività umane che possono essere condotte
nell’ambito del territorio statale o in ambiti a questo funzionalmente collegati,
comprendendo inoltre tutte le funzioni e competenze necessarie per la gestione di
tali attività (come le competenze legislative, regolamentari, giurisdizionali, civili,
penali e amministrative).
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Dal momento che il territorio è l’ambito spaziale nel quale lo Stato manifesta
naturalmente la sua sovranità, esso è indispensabile per l’affermazione e la
sussistenza della sovranità stessa – infatti, nel diritto internazionale contemporaneo
il principio dell’integrità territoriale è fondamentale. A tal riguardo la Carta delle
Nazioni Unite ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 4 impone agli Stati membri di
astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza armata contro l’integrità territoriale di
qualsiasi Stato, cosicché le uniche modifiche territoriali ammesse sono quelle
effettuate pacificamente o mediante accordo.
Inoltre, non è possibile che in un determinato ambito spaziale di sovranità possa
essere esercitato il potere di governo da parte di un altro Stato senza il consenso
dello Stato territoriale. Ciò può avvenire solamente mediante strumenti giuridici o di
cooperazione internazionale che lo Stato può garantire in taluni casi – si pensi per
esempio alla funzione svolta dagli accordi di estradizione al fine di assicurare alla
giustizia penale l’imputato o il condannato che si trova all’estero. È dunque illecito
qualsiasi esercizio non autorizzato di potere di governo sul territorio altrui.
È necessario sottolineare che l’acquisizione della sovranità è il risultato di una
situazione di fatto in virtù della quale vi è un effettivo e consolidato esercizio di
imperio sul territorio. Infatti, il principio di effettività stabilisce che solamente
situazioni effettive e solidamente costituite possono acquistare rilevanza giuridica.
In passato, il principio di effettività permeava l’intero diritto internazionale e non si
disconosceva l’espansione territoriale realizzata mediante l’uso della forza o in
violazione di norme giuridiche fondamentali.
La forza era la principale fonte di legittimazione della Comunità internazionale.
Tuttavia, a partire dalla Prima guerra mondiale, gli Stati hanno esperito diversi
tentativi al fine di far prevalere la legalità sulla forza e sull’autorità di fatto, negando
una legittimazione alle situazioni che, seppure effettive, violavano valori considerati
fondamentali dalla Comunità. Infatti, la prassi delle Nazioni Unite sembrerebbe
confermare la formazione di una norma consuetudinaria che vincola gli Stati a
negare effetti extra-territoriali agli atti di governo emanati in un territorio
illegittimamente conquistato, o detenuto in dispregio del principio di
autodeterminazione dei popoli o del divieto dell’uso della forza nel caso in cui tale
annessione sia contestata dalla maggioranza dei membri della Comunità.
La sovranità internazionale comporta anche la subordinazione degli Stati alle regole
del diritto internazionale. Ciò significa che gli Stati sono titolari diretti dei diritti e
degli obblighi sanciti dalle norme consuetudinarie e da quelle convenzionali del
diritto internazionale. Bisogna sottolineare che l’accettazione di obblighi attraverso
la conclusione di accordi internazionali non significa la rinuncia alla sovranità, bensì
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ne rappresenta l’esercizio. Ciò vale anche nel caso di adesione a un trattato istitutivo
di un’organizzazione internazionale, pure nell’ipotesi in cui quest’ultima sia dotata di
competenze in grado di incidere sulla sfera del dominio riservato degli Stati come
nel caso dell’Unione europea – infatti, l’adesione è la manifestazione del consenso
degli Stati ad accettare o meno i vincoli giuridici.
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Il divieto di ingerenza negli affari interni è la garanzia dell’esclusività delle
competenze sovrane dello Stato e la sua manifestazione più evidente è il non-
intervento nella sfera delle competenze esclusive dello Stato per difendere un
diritto o taluni soggetti. Quanto alla Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il
divieto di ingerenza è stabilito ai sensi dell’articolo 2 paragrafo 7: nessuna
disposizione autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i membri a
sottoporre tali questioni a una procedura di regolamento, anche se questo principio
non pregiudica le misure coercitive di cui al capitolo VII (azione rispetto alle minacce
alla pace, alle violazioni della pace e agli atti di aggressione).
Questa disposizione si presenta come sufficientemente elastica da dar luogo a
interpretazioni diverse, sia a favore che invece contrarie, rispetto alla sussistenza del
dominio riservato dello Stato, soprattutto per l’utilizzo dell’avverbio
“essenzialmente”; inoltre, sebbene sia espressamente sancito il binomio dominio
riservato-divieto di ingerenza nelle questioni interne, è al contempo sancito una
sorta di subordinazione della giurisdizione riservata dello Stato al mantenimento
della pace e della sicurezza interna.
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In Italia, in base alla legge 91/1992 e successive modifiche, la cittadinanza si
acquisisce automaticamente al momento della nascita se almeno uno dei genitori è
cittadino italiano. La naturalizzazione può essere concessa per residenza dopo dieci
anni di residenza in Italia, per matrimonio se il cittadino straniero risiede in Italia per
almeno due anni dopo il matrimonio e per nascita se il cittadino straniero è nato in
Italia e vi abbia risieduto ininterrottamente fino al compimento del diciottesimo
anno di età. In seno al consiglio di Europa gli Stati membri hanno anche cercato di
adottare norme uniformi in materia di attribuzione della cittadinanza e di
naturalizzazione, anche al fine di evitare casi di apolidia – il tentativo si è
concretizzato con la Convenzione di Strasburgo del 1997 sulla cittadinanza entrata in
vigore nel 2000, anche se è stata tuttavia ratificata da un numero esiguo di Stati.
Proprio poiché ogni Stato fissa discrezionalmente i criteri in basi ai quali concede la
cittadinanza, non sono infrequenti i casi di cittadinanza plurima o i casi di apolidia in
cui vi è l’assenza di qualunque cittadinanza. La prima ipotesi può determinare talune
difficoltà all’individuo, soprattutto quando gli impone doppi obblighi perché
riconducibili a entrambe le cittadinanze (per esempio l’imposizione fiscale) o
determinare un contrasto tra i due Stati di cittadinanza nell’esercizio di talune loro
facoltà in rapporto al cittadino come la protezione diplomatica. Si è cercato di
risolvere le situazioni di cittadinanza plurima attraverso accordi internazionali
bilaterali e multilaterali, come la Convenzione di Strasburgo del 1963 sulla riduzione
dei casi di pluralità nazionale e sugli obblighi militari in caso di nazionalità plurima,
entrata in vigore nel 1968 e di cui è parte anche l’Italia.
Il diritto internazionale richiede che la cittadinanza sia sempre espressione di un
legame reale ed effettivo, il cosiddetto genuine link, tra un individuo e uno Stato
determinato: non è sufficiente un legame meramente giuridico, bensì è necessario
che vi sia una coincidenza tra vincolo formale e collegamento effettivo del cittadino
con lo Stato che esprima una solidarietà di vita, interessi e sentimenti. Si parla in
dottrina di una cittadinanza effettiva.
Costituisce una cittadinanza sui generis quella dell’Unione europea: si tratta di una
cittadinanza formale esclusivamente connessa al possesso della cittadinanza di uno
degli Stati membri dell’Unione. Essa non si sostituisce a quella nazionale, bensì si
aggiunse a essa. Dalla cittadinanza europea discendono solamente diritti e nessun
obbligo: si consideri per esempio la libertà di circolazione e di soggiorno sul
territorio degli Stati membri, il diritto di voto e a essere eletti alle elezioni locali e al
Parlamento europeo nello Stato di residenza, la protezione diplomatica e consolare
da parte di ogni Stato dell’Unione quando nel Paese terzo lo Stato di nazionalità non
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ha alcuna rappresentanza diplomatica o consolare, il diritto di petizione al
Parlamento europeo e di rivolgersi a un mediatore europeo.
Quanto alla nazionalità delle persone giuridiche, lo Stato gode di una competenza
esclusiva e discrezionale anche in tale materia: infatti, a seconda delle scelte di
natura sociopolitica ed economica, il criterio scelto può variare da quello della sede
legale, al luogo dell’incorporazione o al criterio del controllo (talora fondato sulla
cittadinanza della maggioranza degli azionisti e altre volte sulla cittadinanza di
coloro che dirigono l’ente). Tuttavia, per le persone giuridiche non vi è la necessità
che ci sia un legame effettivo tra la persona giuridica e lo Stato di nazionalità.
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religione o credo politico, di cui è vittima nel proprio Stato. Il fenomeno della fuga
del proprio Stato per sfuggire a persecuzioni è antico ma ha assunto dimensioni
macroscopiche nel Novecento – a fronte di ciò venne creato il primo alto
Commissariato per i rifugiati in seno alla Società delle Nazioni. A seguito della
Seconda guerra mondiale, l’assistenza ai profughi venne svolta da un’istituzione
specializzata delle Nazioni Unite, ossia l’Organizzazione internazionale dei rifugiati.
Essa venne sostituita nel 1950 dall’Alto Commissariato per i rifugiati, tuttora
operativo e affiancato dal Comitato internazionale per la Croce Rossa e
l’Organizzazione mondiale per le migrazioni nata nel 1951.
Allo status di rifugiato è dedicata la Convenzione di New York del 1951,
accompagnata da un Protocollo del 1967, ratificata da un grande numero di Stati,
circa 144 e tra cui l’Italia. Invece, circa quaranta Stati africani vincolati dalla
Convenzione di Addis Abeba del 1969 con la quale si cerca di fronteggiare la
situazione dei profughi del continente africano causata da continui conflitti
interetnici.
Dalla condizione di rifugiato discende il diritto di asilo, ossia il diritto di cercare
rifugio in un altro Stato, riconosciuto dal diritto internazionale consuetudinario a
quegli individui perseguitati per ragioni religiose, razziali o per credo politico. In una
Comunità quale quella internazionale è innanzitutto un diritto nei confronti degli
altri Stati, motivo per il quale il potere dello Stato quanto all’accesso dello straniero
è fortemente limitato: infatti, non è possibile il respingimento alla frontiera del
richiedente di asilo in quello Stato ove la sua vita o la sua libertà sarebbero
minacciate. Egualmente limitata è l’espulsione, ammessa solamente per motivi di
sicurezza nazionale o di ordine pubblico.
Quanto allo status di rifugiato, è necessario che gli venga garantito un trattamento
non meno favorevole di quello che lo Stato accorda ai propri cittadini e d’altra parte
riservargli un trattamento comparabile a quello generalmente accordato agli
stranieri: il rifugiato gode di un trattamento analogo a quello del cittadino in materia
religiosa, di accesso ai tribunali, di insegnamento privato e di un trattamento non
meno favorevole a quello accordato agli stranieri relativamente ad esempio al
diritto di associazione e di attività professionale.
Lo status di rifugiato ha una valenza limitata, discendendo quest’ultimo dal diritto di
asilo concesso dallo Stato territoriale. Solo nell’ambito dell’Unione europea il
riconoscimento di asilo assume rilievo giuridico per tutti gli Stati membri, vi è un
sistema europeo comune di asilo. Lo status di rifugiato viene meno nel momento in
cui egli accetta la protezione del suo Stato di origine, o quando cessano le
circostanze alla base del quale si era verificata la concessione del diritto di asilo.
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Tuttavia, la realtà odierna conosce sempre meno casi di rifugiati classici: oggigiorno i
fenomeni più comuni sono quelli degli esodi di massa per sfuggire a conflitti
interetnici, alla povertà o a catastrofi naturali. Bisogna considerare inoltre le
internally displace people, ossia quelle persone che sono forzate a muoversi per le
stesse cause da un territorio all’altro, senza però superare i confini nazionali.
Entrambe le categorie non rientrano perfettamente nel campo di applicazione degli
strumenti internazionali vigenti in tema di asilo e rifugiati, motivo per il quale la
tutela approntata loro risulta non omogenea e rimessa alla discrezionalità statale.
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di quest’ultimo i mezzi giurisdizionali tali da garantire la repressione dei
comportamenti e il risarcimento del danno.
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7. La violazione delle norme sul trattamento dello straniero: la protezione
diplomatica
Quando lo Stato di soggiorno viola le norme sul trattamento dello straniero, esso
commette un illecito internazionale nei confronti dello Stato del quale la vittima ha
cittadinanza. In tali ipotesi, una norma consuetudinaria prevede la facoltà allo Stato
di agire in protezione diplomatica, assumendo la difesa del proprio cittadino sul
piano internazionale ed esigendo la cessazione della violazione, la restitutio in
integrum, la riparazione del danno o la punizione dei colpevoli.
L’istituto della protezione diplomatica rappresenta una delle applicazioni più
evidenti del legame costituito dalla cittadinanza: infatti, lo Stato agisce a tutela dei
suoi cittadini che abbiano subito una lesione dei propri interessi a opera dello Stato
straniero nel quale si trovano invocando proprio tale stretto legame. Questa difesa
può essere esercitata per vie diplomatiche o per vie giudiziarie internazionali.
Tuttavia, la protezione diplomatica deve essere distinta dalle attività esercitate dagli
agenti diplomatici e consolari in assistenza del proprio cittadino presente nello Stato
in cui sono accreditati, o nel caso in cui reputino che il cittadino non abbia goduto
delle garanzie che poteva pretendere dagli organi dello Stato ospite (protezione
consolare).
La protezione diplomatica ha ancora oggi una sua funzione rilevante nelle relazioni
internazionali, nonostante si sia sviluppato un sistema di tutela di diritti umani che
permette all’individuo di proteggere i propri diritti senza la necessaria
intermediazione statale. Esso è stato anche oggetto di studio da parte della
Commissione di diritto internazionale, la quale ha presentato nel 2006 all’Assemblea
generale delle Nazioni Unite un progetto di diciannove articoli, attualmente
sottoposto all’esame degli Stati per eventuali commenti scritti.
Lo Stato che agisce in protezione diplomatica esercita un diritto di cui è titolare,
ossia il diritto al rispetto delle regole giuridiche internazionale nei confronti dei suoi
cittadini. Invece, gli individui ne restano semplici beneficiari. Se i loro diritti e
interessi sono lesi da uno Stato estero e il loro Stato nazionale decide di non
intervenire, essi non possono nulla contro l’inerzia delle loro autorità. L’esercizio del
diritto alla protezione diplomatica è rimesso alla valutazione discrezionale dello
Stato, il quale non può essere obbligato a procedere. Inoltre, lo Stato può rinunciare
alla protezione diplomatica anche dopo averla accordata.
Ciò spiega l’atteggiamento negativo assunto dalla giurisprudenza internazionale e
dalla maggioranza degli Stati relativamente alla validità giuridica della clausola
Calvo, estremamente diffusa nei contratti di concessione stipulati dagli Stati latino-
americani nell’Ottocento e nei primi del Novecento: con questa clausola il privato
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concessionario accettava di non domandare la protezione diplomatica al suo Stato di
origine in caso di controversia con lo Stato concedente. Inizialmente la
giurisprudenza internazionale, pur mantenendo la validità giuridica della clausola, la
ritenne inopponibile allo Stato di cittadinanza, il quale rimaneva libero di accordare
protezione diplomatica. Successivamente, è stata dichiarata la nullità della clausola.
L’esercizio della protezione diplomatica è subordinato a due condizioni: la prima è
l’esistenza del collegamento tra Stato e individuo o persona giuridica, rappresentato
dalla cittadinanza o dalla nazionalità. Tale collegamento deve essere opponibile allo
Stato contro il quale si agisce in protezione diplomatica e deve sussistere nel
momento del fatto illecito dello Stato e in quello della presentazione del reclamo.
Invece, più incerto è se il legame di cittadinanza o nazionalità debba permanere fino
alla decisione che risolve la controversia – a tal proposito, non sono mancate alcune
sentenze arbitrali che richiedono la regola della continuità della cittadinanza fino
alla decisione arbitrale.
Invece, la seconda condizione per l’esercizio della protezione diplomatica è che lo
straniero abbia esperito tutte le procedure per ottenere giustizia offerte
dall’ordinamento dello Stato territoriale – ricorsi amministrativi, giurisdizionali,
ordinari o speciale, purché siano strumenti per ottenere giustizia. È necessario che i
ricorsi interni abbiano avuto a oggetto il contrasto che contrappone lo straniero allo
Stato e che abbiano avuto esito negativo. La regola consuetudinaria del previo
esaurimento dei ricorsi interni ha natura sostanziale: finché lo Stato territoriale ha la
possibilità di eliminare l’azione illecita o fornire allo straniero un’adeguata
riparazione, le norme sul trattamento dello straniero non possono dirsi neppure
violate. Tale regola ha la finalità di rispettare la sovranità dello Stato territoriale e
l’esercizio delle sue funzioni; inoltre, occorre considerare anche le difficoltà che
incontrerebbe la giustizia internazionale ad affrontare i numerosi casi di violazione
delle regole sul trattamento degli stranieri in assenza della regola di previo
esaurimento dei ricorsi interni.
La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni trova applicazione soltanto
quando lo Stato ha subito una lesione indiretta tramite il suo cittadino e non nel
caso di lesione diretta. Nel caso in cui vi siano sia lesioni dirette che indirette, è
necessario che vi sia la preponderanza di quelle indirette. Infine, essa non trova
applicazione nel caso in cui i ricorsi non siano effettivi e quando è per colpa della
persona fisica o giuridica straniera che non si è potuto riparare alla violazione
commessa, o anche quando lo Stato considerato responsabile della violazione vi
abbia espressamente rinunciato.
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Quanto alla doppia cittadinanza, è necessario che venga eseguito il cosiddetto test
dell’effettività della cittadinanza affinché venga risolto il problema di quale sia lo
Stato che, presentando il legame di cittadinanza più stretto, ha la facoltà di
esercitare la protezione diplomatica. Tuttavia, la Commissione di diritto
internazionale non ha ritenuto opportuno fare alcuna menzione nel suo progetto di
articoli alla necessità di legame effettivo nei casi di doppia cittadinanza –
sembrerebbe essere una scelta piuttosto politica, finalizzata a ridurre o rendere
problematica la protezione diplomatica nei numerosi casi di incerta cittadinanza
prevalente.
La protezione diplomatica può essere esercitata dallo Stato anche rispetto alle
persone giuridiche – in specie a società commerciali che abbiano la sua nazionalità,
istituite nel territorio di detto Stato e in cui sono localizzate la sede legale. Invece,
nessun locus standi ha lo Stato di cittadinanza degli azionisti nell’esercizio della
protezione diplomatica. Si ammette la protezione diplomatica dello Stato degli
azionisti solamente quando la società ha cessato di esistere o se è proprio lo Stato di
incorporazione ad aver violato le norme sul trattamento delle società straniere.
Molto simile alla protezione diplomatica è quella funzionale, la quale può essere
esercitata dalle organizzazioni internazionali nei confronti dei propri agenti.
Tuttavia, alla base della protezione funzionale non vi è il legame di cittadinanza,
bensì quello fornito dalla funzione che l’agente svolge per conto dell’organizzazione.
Non esiste alcuna regola che dia priorità alla protezione diplomatica su quella
viceversa e funzionale, né una regola che imponga a un’organizzazione di astenersi
dall’esercizio della protezione funzionale in favore di quella diplomatica.
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CAPITOLO 2
La sovranità e i suoi limiti in rapporto agli altri Stati e alle organizzazioni
internazionali.
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quale discriminante tra l’invocabilità o meno dell’immunità – di conseguenza
l’immunità è applicata solamente ai beni destinati a funzioni pubbliche, quanto
invece ai beni utilizzati per scopi privati non sussiste alcun obbligo imposto dal
diritto consuetudinario di estendere loro la regola dell’immunità dalla giurisdizione.
L’immunità ristretta in materia di giurisdizione di esecuzione è prevista anche dalla
Convenzione del 2004, a differenza di quella del 1972 che non ammette restrizioni
all’immunità assoluta, fatto salvo il consenso dello Stato.
Anche nel caso dell’immunità dall’esecuzione e dalle misure cautelari vi è il
problema della distinzione tra beni destinati a fini sovrani e beni utilizzati per scopi
privati e commerciali. Uno sforzo chiarificatorio mediante l’applicazione del metodo
dell’elencazione è stato compiuto dalla Convenzione del 2004, la quale individua
alcune categorie di beni tipicamente destinati a scopi pubblici come i conti correnti
bancari adoperati per lo svolgimento delle funzioni della missione diplomatica o
consolare dello Stato, i beni militari, i beni della banca centrale o di altre autorità
monetarie dello Stato, nonché i beni che costituiscono parte del patrimonio
culturale dello Stato o dei suoi archivi o che compongono una mostra di oggetti di
portata scientifica, culturale o storica purché non siano destinati alla vendita.
Inoltre, poiché l’immunità è concessa a protezione della sovranità statale, lo Stato
può anche rinunciarvi, manifestando il consenso in modo certo e non equivoco – si
considera rinuncia implicita quando lo Stato interviene nel procedimento giudiziario,
difendendosi in merito. La rinuncia alla giurisdizione di cognizione non comporta
automatica rinuncia a quella di esecuzione.
3. Gli organi dello Stato tra immunità ratione materiae e immunità ratione
personae
Accanto all’immunità dalla giurisdizione dello Stato, il diritto internazionale
consuetudinario riconosce l’immunità a talune categorie di persone fisiche, ossia gli
agenti diplomatici e consolari da un canto e d’altro canto i capi di Stato, i capi di
governo e i ministri degli esteri in quanto rappresentano ruoli cruciali
nell’applicazione delle relazioni internazionali. Tutti gli organi appena citati godono
di immunità diplomatiche: per taluni vi sono immunità per gli atti compiuti
nell’esercizio delle loro funzioni (ratione materiae) e legate all’attività pubblica
dell’organo, invece per altri vi sono immunità per atti conclusi a titolo personale o
extra-funzionali (ratione personae) e sono direttamente connesse al ruolo ricoperto.
Le immunità per gli atti funzionali non cessano con lo scadere dalle funzioni, invece
le immunità personali dipendono dalla durata in carica e allo scadere di essa
vengono meno.
La ratio delle immunità era in passato ricostruita alla luce della teoria dell’extra-
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territorialità; invece, oggi in dottrina si fa alternativamente riferimento alla teoria
della rappresentatività per cui si identificano i rappresentanti dello Stato con lo Stato
stesso e alla teoria della necessità funzionale, ai sensi della quale è essenziale per il
diritto internazionale proteggere e facilitare le relazioni tra gli Stati.
Le immunità diplomatiche trovano la propria base giuridica nel diritto internazionale
consuetudinario, il quale è stato parzialmente codificato. L’opera di codificazione ha
avuto a oggetto le norme consuetudinarie sulle immunità degli agenti diplomatici e
di quelli consolari, dando rispettivamente luogo alla Convenzione di Vienna del 1961
sulle relazioni diplomatiche e alla Convenzione di Vienna del 1963sulle relazioni
consolari, entrambe ratificate dalla maggioranza degli Stati.
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amministrativa, consistendo nella protezione nello Stato di residenza degli interessi
dello Stato di invio. Inoltre, i consolari favoriscono lo sviluppo delle relazioni
economiche, commerciali, culturali e scientifiche tra lo Stato di invio e quello di
residenza, I consoli non rappresentano il loro Stato per la totalità dei rapporti a
livello politico con lo Stato accreditatario, bensì dal punto di vista prevalentemente
amministrativo, infatti sono nominati per fini determinati e per una circoscrizione
territoriale specifica.
Per l’esercizio delle funzioni consolari è necessario che il console sia munito della
lettera patente o di un atto analogo trasmesso dallo Sato di invio allo Stato di
residenza nel quale sono contenute tutte le informazioni necessarie. La cessazione
delle funzioni consolari dipende dalla volontà dello Stato di invio, anche se quello di
residenza può dichiarare un funzionario consolare quale persona non grata. I consoli
possono avere la cittadinanza dello Stato di residenza, tuttavia in quel caso sono
definiti consoli onorari e vi è un regime differente rispetto a quelli onorari.
Proprio per la diversità delle funzioni esercitate dai consoli rispetto a quelle degli
agenti diplomatici, i primi godono di immunità e privilegi ridotti rispetto agli agenti
diplomatici. Quanto all’inviolabilità personale, non è escluso che il funzionario
consolare possa essere arrestato o detenuto per un reato grave su richiesta delle
autorità giudiziarie. Rispetto all’immunità dalla giurisdizione penale, civile e
amministrativa, essa copre soltanto le attività compiute nell’esercizio delle funzioni
consolari (ratione materiae). Inoltre, i consoli possono essere chiamati a
testimoniare in procedimenti giudiziari e amministrativi, anche se nessuna misura
coercitiva può essere applicata nel caso si rifiutassero. L’inviolabilità dei locali
consolari riguarda soltanto gli edifici adibiti all’espletamento delle funzioni consolari,
invece la libertà di comunicazione è sancita analogamente a quanto previsto per la
missione diplomatica. Lo Stato di invio può sempre rifiutare alle immunità di cui
godono i consoli, quest’ultima deve essere espressa e non si estende
necessariamente a quella di esecuzione.
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5. il conflitto tra immunità degli organi dello Stato e responsabilità per la
commissione di gravi violazioni dei diritti umani:
Gli agenti diplomatici e i consolari costituiscono gli organi dello Stato
istituzionalmente destinati a intrattenere le relazioni internazionale dello Stato di
appartenenza. Tuttavia, queste funzioni sono esercitate anche da altri organi come i
capi di Stati, i capi di governo e i ministri degli affari esteri.
Quanto ai capi di Stato, essi godono dell’inviolabilità personale e dell’immunità
assoluta dalla giurisdizione penale ratione personae, ossia in virtù dell’incarico
ricoperto, e dall’immunità dalla giurisdizione civili con i limiti che discendono
dall’articolo 31 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
Una volta cessato l’incarico, i capi di Stati continuano a godere dell’immunità per gli
atti compiuti durante l’espletamento delle loro funzioni; invece, quanto all’immunità
ratione personae, essa è temporaneamente limitata alla durata dell’incarico,
esattamente come per gli agenti diplomatici. Ai capi di Stati è riconosciuta dal diritto
internazionale consuetudinario anche l’immunità personale in termini analoghi a
quelli del personale diplomatico. Invece, quanto ai capi di governo e ai ministri degli
esteri, anch’essi godono dell’immunità dalla giurisdizione e dell’inviolabilità
personale negli stessi termini dei capi di Stato dal momento che adempiono funzioni
analoghe nel contesto delle relazioni internazionali.
Inoltre, a Corte ha riconosciuto la piena immunità dalla giurisdizione innanzi alle
giurisdizioni nazionali anche per crimini internazionali iuris gentium (nel caso di
specie, crimini di guerra e contro l’umanità). Tuttavia, queste immunità dalla
giurisdizione penale di cui godono le alte cariche statali sono oggetto da qualche
anno di un forte dibattito. L’impegno profusa dalla Comunità internazionale
attraverso l’adozione di diversi strumenti convenzionali internazionali e la creazione
di tribunali internazionali al fine di assicurare alla giustizia gli autori di crimini
internazionali ha posto in primo piano la necessità di ridimensionare la regola
dell’immunità dalla giurisdizione per i capi di Stato, di governo e ministri degli esteri
rispetto a detti crimini.
L’incertezza circa la portata di tale regola ha coinvolto l’intero ambito applicativo
della regola: ci si domanda se l’immunità sia ancora sancita, soprattutto
considerando che la perseguibilità è stata più volta affermata attraverso diverse
ricostruzioni giuridiche avanzate a livello giurisdizionale e dottrinario. Si ritiene che
vi sia una prevalenza del diritto cogente sui crimini internazionali rispetto alla
consuetudine sull’immunità degli alti organi dello Stato.
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6. Le immunità delle organizzazioni internazionali e dei loro funzionari:
Nonostante le organizzazioni internazionali non siano dotate di sovranità, a esse
sono riconosciuti determinati privilegi e immunità necessari per espletare le loro
attività istituzionali. Inoltre, considerando che le organizzazioni internazionali sono
prive di un proprio territorio e che si trovano necessariamente a operare nell’ambito
della sovranità statale, sia essa quella dello Stato in cui hanno sede o dove svolgono
una determinata funzione, le immunità e i privilegi appaiono fondamentali per
evitare che vi siano interferenze e ingerenze dagli Stati sul loro operato.
Quanto alla fonte giuridica da cui discendono tali privilegi e immunità, vi è ancora
incertezza rispetto all’esistenza della norma consuetudinaria sull’immunità delle
organizzazioni internazionali, seppure la giurisprudenza interna e la dottrina si
mostrino favorevoli a una sua cristallizzazione. Questa norma fissa obblighi minimi
sugli Stati, finalizzati a garantire le immunità funzionali delle organizzazioni
internazionali, imprescindibili per la loro indipendenza ed effettività.
Spesso è lo stesso patto istitutivo dell’organizzazione a imporre agli Stati membri la
concessione di privilegi e immunità – per esempio ciò è il caso dell’articolo 105 della
Carta delle Nazioni Unite, la quale stabilisce che l’ONU gode nel territorio di ciascuno
dei suoi membri privilegi e immunità necessarie per il perseguimento delle sue
funzioni. Il regime dell’organizzazione può essere anche fissato nell’accordo di sede
rispetto allo Stato ospite, o in appositi trattati – a tal proposito, possiamo
considerare la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite
del 1946 e la Convenzione generale sui privilegi e le immunità delle agenzie
specializzate del 1947.
L’ambito dei privilegi e delle immunità può variare a seconda dello status che gli
Stati riconoscono all’organizzazione internazionale: per esempio, la Convenzione
generale del 1946 attribuisce all’ONU e ai suoi beni un’immunità assoluta dalla
giurisdizione civile degli Stati, anche se è possibile da parte di quest’ultima
rinunciarvi. Invece in altri casi, come per esempio per la Banca mondiale, le norme
convenzionali conferiscono un’immunità più limitata. Le norme convenzionali
riconoscono alle organizzazioni internazionali l’inviolabilità delle loro sedi, dei loro
beni e degli archivi. Le autorità nazionali possono entrare nella sede
dell’organizzazione solamente e autorizzate dagli organi competenti di quest’ultima.
Infine, spesso godono di determinati privilegi fiscali e di libertà di comunicazione.
Gli statuti delle organizzazioni internazionali, così come gli accordi sui privilegi e le
immunità, spesso conferiscono privilegi e immunità anche ai funzionari e agli agenti
della stessa organizzazione internazionale. La ratio alla base di tale concessione è che
si possa garantire loro la possibilità di espletare pienamente le funzioni assegnate.
Quanto alle Nazioni Unite, l’articolo 105 paragrafo 2 riconosce ai funzionari le
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immunità e i privilegi fondamentali per l’espletamento delle loro funzioni, nonché
l’immunità dalla giurisdizione per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni.
Invece, al Segretario generale è riconosciuta anche l’immunità ratione personae.
Fine.
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